ISSN 1827-8817 90925
Solo la violenza può servire
he di cronac
dove regna la violenza, e solo uomini, dove ci sono uomini, possono davvero dare aiuto
9 771827 881004
Bertolt Brecht di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 25 SETTEMBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Anche il “New York Times” attacca la Casa Bianca
Afghanistan, l’America critica Obama
Nuove regole, limiti ai supermanager e tempi per la ripresa: il mondo vuole uscire dalla crisi
Enigma Pittsburgh Riuscirà il G20 a trovare un’intesa o vincerà ancora l’impotenza?
Ancora due soldati italiani feriti in Afghanistan. Dopo il discorso del presidente Usa all’Onu, qual è la strategia Usa per uscire dal pantano di Kabul?
di Vincenzo Faccioli Pintozzi eri si è aperto a Pittsburgh, in un’atmosfera abbastanza informale, il summit internazionale noto come G20. Sul tavolo dei venti capi di Stato e di governo che guidano le nazioni più importanti dal punto di vista economico vi sono, ovviamente, tutte le questioni relative alla crisi finanziaria ancora in corso e l’emergenza clima. Il padrone di casa si è già espresso. Gli altri no.
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di Antonio Picasso Gli Stati Uniti criticano il “silenzio” di Obama sull’Afghanistan durante il suo discorso di martedì all’assemblea generale dell’Onu. Intanto vicino a Herat c’è stato un altro attacco alle truppe italiane: due soldati sono stati feriti. a pagina 12
Occorre ridiscutere gli equilibri monetari
La ricetta per lo sviluppo globale
Neanche il dollaro può fare da solo
La via giusta c’è già: l’enciclica del Papa
di Enrico Cisnetto
di Paolo Savona
Il G20 come l’Onu? Il rischio c’è: per cambiare davvero qualcosa il vertice di Pittsburg dovrebbe comninciare a discutere del potere del dollaro. Obama ha detto che l’America non può fare tutto da sola. Nemmeno il dollaro può.
L’Enciclica Papale Caritas in veritate è scomparsa con troppa rapidità dalle pagine della “grande” stampa, pur essendo l’unico documento in circolazione che esamina elo sviluppo secondo un’ottica globale.
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Confronto tra analisti durante la prima giornata del convegno di ”liberal”
Il Consiglio di sicurezza dell’Onu vota a favore della proposta
La “sporca guerra” si può ancora vincere Ecco come
Speranza nucleare Approvata all’unanimità la risoluzione Usa sul disarmo di Pierre Chiartano
di Franco Insardà
SIENA. Un minuto di silenzio. Sono iniziate così le giornate senesi della fondazione liberal. Il minuto di silenzio per i sei eroi di Kabul, proposto da Ferdinando Adornato, ha subito riportato la mente degli intervenuti alla tragedia che ha causato la morte dei sei militari. E il loro sacrificio è stato ricordato dal sindaco di Siena, Maurizio Cenni, dal presidente della provincia Simone Bezzini, da Vittorio Galgano, vicepresidente della Fondazione Monte Paschi di Siena e da Giuseppe Mussari, presidente del Monte Paschi di Siena. Era presente il generale Federico D’Apuzzo, prossimo comandante del contingente della Folgore in Afghanistan, che oggi riceverà il premio Liberal 2009.
er ora è una speranza; pesano le ombre che oscurano le intenzioni dell’Iran e della Corea del Nord, ma di sicuro il futuro potrebbe essere migliore, dopo la firma del documento di cinque pagine, proposto dagli Stati Uniti e negoziato al Palazzo di Vetro nelle ultime settimane. Lo snodo più importante è quello che «chiede a tutti gli Stati che non fanno parte del Trattato di non proliferazione nucleare di entrare nel trattato come Stati non nucleari, in modo da raggiungere l’universalità in una data prossima». Uno sguardo al futuro, appunto. Che punta sulle buone intenzioni: il documento «invita», ma non obbliga, i Paesi a dare luce verde agli ispettori internazionale per il controllo di materiale esportato che potrebbe servire a costruire una bomba. Poi c’è un’occhio all’Iran, quando si dice che i Quindici «incoraggiano gli sforzi per lo sviluppo degli usi pacifici dell’energia nucleare da parte di quei Paesi che vogliono mantenere queste capacita». Insomma: nulla di risolutivo, ma un buon investimento sul futuro.
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I QUADERNI)
Parla il direttore dell’American Enterprise Institute
«Se Washington diventa capitale d’Europa» di Massimo Fazzi eorge W. Bush «verrà ricordato come il presidente che ha vinto la guerra in Iraq. Barack Obama come quello che ha perso la guerra in Afghanistan». È la secca opinione di Arthur C. Brooks, presidente dell’American Enterprise Institute che in un’intervista a liberal analizza il discorso pronunciato dal presidente americano all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Un discorso con luci e ombre, che «riflette un nuovo approccio al vero problema: l’Afghanistan». L’amministrazione, secondo Brooks, «non ha il coraggio di fare ciò che i militari dicono».
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• ANNO XIV •
NUMERO
190 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Globalizzazione/1. Oggi il presidente Usa parlerà di finanza, tra regole e rilancio: ma il mondo resta diviso sulle ricette
Il dollaro solitario
L’America non può fare tutto da sola, nemmeno in economia: Obama dovrebbe cominciare a discutere il potere della sua moneta di Enrico Cisnetto
l G20 come l’Onu? Il rischio c’è, e sarebbe bene evitarlo. È passato un anno da quando i grandi della Terra hanno prima capito e ammesso che la mancanza di un sistema globale di regole per il mondo finanziario era stato uno dei motivi fondamentali dell’esplosione della crisi, poi promesso che ci avrebbero messo rimedio varando una governance capace di evitare il ripetersi degli errori.
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Un anno in cui si sono susseguiti molti annunci ma quasi nessun fatto. Esattamente come accade puntualmente ormai da tempo immemorabile nelle ridondanti assemblee delle Nazioni Unite, dove ci si divide persino sugli auspici di un “mondo migliore” proprio come è accaduto nelle scorse ore nel “palazzo di vetro”. E siccome, finita la 64ma assemblea Onu, inizia l’atteso G20 di Pittsburgh, ecco che lo spettro dell’impotenza del primo summit rischia di
proiettarsi minaccioso sul secondo (ben più importante). In effetti, l’agenda delle “grandi riforme”è rimasta la stessa, anche se nel frattempo gli Stati Uniti hanno varato per i fatti loro un ponderoso documento rifondativo del sistema finanziario e bancario e la Commissione europea – ripreso coraggio dopo l’appannamento seguito al prepotente quanto sterile riemergere del ruolo dei singoli stati europei, nel pieno della crisi – ha presen-
per la vigilanza macro-prudenziale e uno per quella microprudenziale. Poca cosa, se si considera che un po’tutti si erano detti d’accordo a intervenire sui requisiti patrimoniali delle banche, e dunque sul principale fattore di crisi (quella già verificatasi) e di rischio futuro (un eventuale secondo tempo della crisi finanziaria) rappresentato dall’eccesso della “leva” (il rapporto tra il capitale delle banche e i denari prestati, sceso solo di 3-4 punti rispetto alle punte pre-crisi, e quindi ancora mediamente tra le 20 e le 30 volte). Così come ci si era detti convin-
Il biglietto verde non è più in grado di essere l’unica valuta di riferimento internazionale: da un lato Cina e Brasile premono per eliminarlo, dall’altro il Golfo ha creato una sua nuova divisa tato un pacchetto di proposte relative alla vigilanza sul funzionamento dei mercati, ipotizzando la nascita su base continentale di due nuovi organismi di controllo, uno
ti di stabilire regole uniche per stipendi e bonus, al di qua e al di là dell’Atlantico. Non parliamo poi di nuovi organismi internazionali d’intervento e di controllo, o quantomeno della riforma e unificazione degli esistenti: è inutile anche ragionarne, se prima non si sono sta-
bilite le regole che questi soggetti dovrebbero applicare.
Insomma, Pittsburgh anno zero? Sì, ma con una premessa positiva di cui altri vertici non avevano potuto godere: la dichiarazione, politicamente molto impegnativa, di Obama circa il fatto che «gli Usa da soli non ce la possono fare». Certo, la frase è stata pronunciata proprio nel suo intervento all’Onu, sede appunto dei buoni principi accompagnati da pochi fatti, e probabilmente è stata pensata più per le questioni politico-militari e ambientali che non per quelle economico-finanziarie (terreno su cui Obama e gli Usa hanno mostrato più propensione al protezionismo, come dimostrano i dazi su alcuni prodotti importati, piuttosto che alla collaborazione internazionale). Tuttavia è stata detta, e volendola prendere per buona può davvero chiudere la lunga stagione dell’unilateralismo e aprirne una nuova, più votata al multilateralismo. E se così fosse, c’è una tematica, quella della riforma del sistema monetario internazionale – che io considero la “questione delle questioni” per uscire definitivamente e virtuosamente dalla crisi – che potrebbe e dovrebbe essere messa sul tavolo a Pittsburgh, con il doppio vantaggio
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di “prendere le misure” a Obama e di porre all’attenzione del G20 il vero snodo della “nuova governance” globale.
Se ci fosse l’Europa, dovrebbe essere essa a porre la questione. In subordine, qualche leader continentale più attrezzato e forte di altri. E l’occasione è proprio il discorso di Obama all’Onu: «Caro Presidente, visto che tu stesso hai dichiarato la fine dell’unilateralismo – bisognerebbe dire – ora non puoi più prescindere da una discussione approfondita sul ruolo del dollaro». Del resto, che il biglietto verde non sia più in grado di essere l’unica valuta di riferimento internazionale, lo provano diversi sintomi: l’accordo tra Cina e Brasile per eliminarlo come moneta di pagamento del loro commercio bilaterale; la creazione di una divisa del Golfo che entrerà in vigore l’anno prossimo tra Arabia Saudita, Emirati, Kuwait, Qatar, Oman e Bahrein; l’omologa creazione monetaria comune, seppur più complessa e lenta, tra Cina, Giappone e Corea del Sud. E, cosa ancor più dirompente, lo dimostra il “warning” lanciato dalla Banca Popolare cinese, che mira ad abbandonare il “dollar standard”per passare ad una grande divisa mondiale, o a un paniere di poche divise continentali tra loro collegate, da far nascere sotto l’egida di un nuovo Fondo Monetario. È chiaro che di fronte a tutti questi sintomi, pensare di continuare nella “fiction”di un mondo sorretto dal dollaro, sarebbe un errore madornale. Insomma, serve una Bretton Woods III. Sì, non è un refuso: la seconda fase del grande accordo monetario mondiale esiste già di fatto, anche se non sancita formalmente, da quando i paesi asiatici emergenti hanno copiato Europa e Giappone nell’agganciarsi al dollaro come è stato nel dopoguerra (in particolare la Cina, che tiene la sua divisa volutamente sottovalutata per lasciar correre le esportazioni, e nel frattempo si è riempita di titoli del debito americano). Ma anche questo è un sistema che non regge più: la fiducia nel biglietto verde risente, e sempre più risentirà, dell’attuale crisi finanziaria, e la Cina non potrà tenere sottovalutata all’infinito la sua divisa. Per questo serve una grande riforma dei cambi, che non si limiti a fotografare l’esistente, ma che abbia il coraggio di uno scatto in avanti affiancando alla moneta Usa altre divise forti, traloro collegate come lo erano le divise europee all’epoca dello Sme. Un’utopia? No, una necessità. Che può essere perseguita solo se il resto del mondo smetterà di celebrare Obama come una star mediatica, e passerà a fare politica interloquendo alla pari. Che poi è l’unico modo, vero, di prenderlo sul serio. (www.enricocisnetto.it)
Il Segretario del Tesoro americano Timothy Geithner con, alle spalle, il logo del G20. Nella pagina a fianco, il presidente del Fondo Monetario internazionale Dominque Strauss-Khan, che ha avvertito: «La ripresa stenterà ad arrivare». Sopra, una riunione di lavoro del G20 di Londra
I Paesi dalle economie emergenti hanno poca dimestichezza con le visioni evocate dagli States
L’attacco a Pittsburgh viene dall’Oriente di Vincenzo Faccioli Pintozzi eri si è aperto a Pittsburgh, in un’atmosfera abbastanza informale, il summit internazionale noto come G20. Sul tavolo dei venti capi di Stato e di governo che guidano le nazioni più importanti dal punto di vista economico vi sono, ovviamente, tutte le questioni relative alla crisi finanziaria ancora in corso e l’emergenza clima. Il padrone di casa, Barack Obama, ha già esposto in senso abbastanza vago quali siano i suoi desiderata relativi all’incontro: una nuova governance finanziaria mondiale, un tetto (a discrezione dei singoli Stati membri) sui bonus da concedere a manager e dirigenti d’azienda, maggior intervento governativo nei casi “sensibili” di industrie in difficoltà. L’Europa, divisa una volta di più, ha espresso convincimenti diversi che verranno nella giornata di oggi sottoposti alla conta. Mentre i Paesi emergenti, attori fondamentali della tanto desiderata ripresa, sono rimasti leggermente nell’ombra.
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Ma è nei discorsi pronunciati davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite che si sono viste le maggiori discrepanze. Andando oltre le prevedibili dichiarazioni di assoluta prammatica per intenderci, quelle che «invitano i leader mondiali alla cooperazione sulla base di principi condivisi - l’atteggiamento dei diversi leader al Palazzo di vetro ha dimostrato che esistono quanto meno due grandi scuole di pensiero. Da una parte gli utopisti, che in assoluta buona fede propugnano invidiabili idee che parlano di pace mondiale, di commercio etico e di disarmo. Sono i leader dell’opulento Occidente, che pagano il fio delle loro colpe passate e cercano di creare una «nuova era di prosperità» per il globo. Dall’altra parte ci sono invece quelli che si presentano all’Onu per parlare dei loro problemi, cercano incontri bilaterali con quei governi che potrebbero aiu-
tarli a risolvere situazioni spinose e chiedono - oltre i proclami - delle tabelle di marcia per uscire dall’impasse finanziario. A fronte del tono messianico di Obama e del «fare fronte, tutti insieme» di Silvio Berlusconi sono risuonate nell’aria voci all’apparenza discordanti.
Lula, presidente brasiliano, ha parlato della situazione dell’Honduras per chiedere «dei passi rapidi e decisi da parte di questo consesso». I russi hanno chiesto di non rispolverare i toni della Guerra Fredda, e il nuovo leader giapponese ha parlato di rinascita finanziaria possibile soltanto se tutti sono d’accordo. Toni diversi per pezzi di mondo diversi, per prospettive e aspettative estremamente diverse fra loro. Uno dei capilista di questa frangia è senza alcun dubbio Hu Jintao, il presidente cinese, che aspira a guidare il neonato gruppo del Bric (Brasile, Russia, India e Cina). Nel corso del suo intervento, il presidente della Repubblica popolare cinese non ha citato ere, pilastri o cambiamenti: ha chiesto a Washington (magari con il tono dell’avvertimento, più che della richiesta) di smetterla di imporre dazi economici sui beni manifatturieri del suo Paese. D’altra parte, ha chiarito, «tutti speriamo che il G20 produca dei risultati concreti, e soltanto l’economia reale è concreta». Il riferimento è alla disputa cosiddetta «degli pneumatici»: il presidente americano ha deciso alcuni giorni fa di imporre un’ulteriore tassazione del 35 per cento sui copertoni importati dalla Cina, motivandola con l’intenzione di «salvaguardare» la produzione interna. Pechino ha reagito con forza, accusando gli
Stati Uniti di «protezionismo» e chiedendo la revisione della nuova gabella. I risultati della disputa non sono stati resi pubblici: Hu e Obama si sono incontrati in forma privata per circa novanta minuti, e i loro sherpa hanno chiarito che «sono pochi gli argomenti in cui non sono in contrasto». Ed ecco che, all’Onu, Obama parla di valori e Hu di gomme per le macchine. La diversità di approccio non è soltanto stilistica: è sostanziale, è di visione, dimostra come il mondo non veda le cose allo stesso modo.
La Cina, ha aggiunto il presidente cinese, «vuole veramente collaborare con gli Stati Uniti per espandere la cooperazione economica e commerciale, ma su una base di uguaglianza». E questo è un punto su cui Pechino non cederà mai: ora che è sulla scena del mondo, la Cina è protagonista. Prendere o lasciare. Obama ha risposto parlando, sembra, di «bilanciamento sostenibile, crescita concordata e ambizioni comuni». Idee, appunto, che per il pragmatico e gelido capo del governo cinese rimangono belle parole. A lui interessano i fatti, le gomme per le automobili o la crisi dell’Honduras, e di cambiamenti e speranze non sa bene cosa farne. E come lui ci sono i capi di Stato di quello che una volta era il terzo mondo e che oggi tengono in cassa il debito estero dell’Occidente industrializzato e in crisi di identità. Se questo atteggiamento, questa profonda divergenza di approccio non dovesse arrivare ai tavoli di Pittsburgh, potrebbe essere un problema serio. Questa volta per il lato “nobile” del mondo.
Il messianico discorso del leader di Washington non ha convinto il presidente cinese, che ha chiesto di bloccare i dazi sulle esportazioni
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Globalizzazione/2. Gli effetti della crisi sono contraddittori: non bastano nuove regole per uscirne, serve nuova energia
L’influenza asiatica
Il G20 deve puntare sulla crescita di India, Cina e Brasile: solo così la ripresa potrà tenere. Parlano La Malfa, Forte, Fassina e Vaciago di Gabriella Mecucci he cosa deve fare il G20 che arriva dopo che il crol- tempo all’immobilismo, si è rovesciata una crisi senza sempre in agguato quando si guarda la realtà come se lo finanziario è rientrato? Per rispondere a questa precedenti. Ha piovuto insomma sul bagnato. L’attuale fosse fissa e immutabile e non in continuo cambiamento domanda occorre rispondere ad altre domande. esecutivo però – questa l’opinione di La Malfa – sta fa- e quando vince nei calcoli la «burocrazia dell’anno base». La crisi economica è finita e la ripresa è vicina, an- cendo veramente poco: «Nessuna politica di investi- Francesco Forte è prodigo di esempi: «Se voglio calcolazi è già in corso? O siamo in presenza di una ripresina e menti né nell’industria né nella ricerca, solo un po’ di re i consumi e l’inflazione di una città come Torino, non poi la situazione potrebbe di nuovo precipitare? Oppure la soldi per gli ammortizzatori sociali. La filosofia è quella posso escludere dalle mie rilevazione un gigantesco sudi fare il minimo. Ma questo vuol dire non permercato come Le Gru di Grugliasco. E l’Istat non tiecrisi non è mai stata così FRANCESCO FORTE aiutare la ripresa, non crederci e lasciarla ne conto di queste mega realtà commerciali che si sono drammatica come la si è dilanguire nei suoi ritmi a scartamento ridot- sviluppate lontano dalle mura cittadine». Se si misura il pinta? Tre almeno le dia«Devono essere to. L’Italia insomma rischia di restare ulte- Pil con metodi vecchi e burocratici, sfuggono molte cose: gnosi che circolano, molte regolarizzate riormente indietro rispetto ad altri paesi. E «In questo modo non si è calcolata bene la portata della di più le terapie. Ne abbiaun milione di questa invece sarebbe una responsabilità recessione né si colgono le dimensioni del recupero». Per mo parlato con alcuni econuove badanti. tutta da addossare all’attuale governo». nomisti che hanno punti di Francesco Forte la crisi è stata più “temperata”di quanto Agricoltura, vista fra loro diversi, talora quel -5% del Pil 2008 lasci intendere. edilizia Se l’ex leader repubblicano è seriamente anche molto distanti. Su un e turismo punto tutti sono d’accordo: pessimista, un altro ex-uomo di governo, Badanti, agricoltura, Grugliasco: tutto vero. Ma non assorbono due nonché importante economista, Francesco cancellano certo le difficoltà della nostra industria. E Forle economie emergenti soo tre milioni di Forte, la pensa in modo totalmente diverso. te non se le nasconde: «Il problema serio è che c’è troppo no quelle che hanno già rinuovi lavoratori Ritiene addirittura che il colpo capitale proveniente dall’epreso a tirare e su queste, stranieri: questo STEFANO FASSINA sterno (credito bancario) e poalla nostra economia come a sui loro consumi occorre vorrà dire pure co dall’interno dell’impresa. quella europea sia stato largaprima di tutto puntare. qualcosa» «Se vogliamo Purtroppo in Italia non vogliomente inferiore a quello regiun Paese Dopo la caduta del no fare le società per azioni. strato dagli istituti di statistica. ordinato Ma per il resto non siamo «Hanno da tempo perso i lega2007/2008, oggi – osserva e legale, messi così male: le nostre inGiorgio La Malfa – siamo di fronte a una inversione di mi con la realtà – osserva Forte –. Occorre non possiamo dustrie esportano su mercati tendenza, ma «segnati dagli errori del passato, alcuni stabilire che la nostra ricchezza non può accettare diversificati, quelli dei paesi economisti temono che si stia verificando una ripresina essere misurata solo guardando l’andauna illegalità emergenti, ad esempio, hanno e che nel 2010 ripiomberemo nella crisi più nera. Fanno mento dell’industria automobilistica o dei estesa come ripreso a tirare. E sfornano una similitudine con il 1929 quando si verificò un feno- frigoriferi. Se scopro che devono essere requella prodotti di qualità media, non meno di questo genere e il colpo più duro all’occupazio- golarizzate circa un milione di nuove bache continua particolarmente sofisticati: un ne non si ebbe subito dopo il crollo di Wall Street, ma nel danti e che agricoltura, edilizia e turismo ad esserci vantaggio dal punto di vista 1932. Non credo a questa ipotesi, ritengo che non ci sarà assorbono due o tre milioni di lavoratori qui da noi competitivo». Quanto al goun secondo crollo. Il trend di risalita sarà però lento e in- stranieri arrivati di recente, questo vorrà in Italia» verno «fa quello che deve fare: certo». Ci vorrà parecchio tempo dunque per tornare ai dire pure qualcosa. Probabilmente signifipredispone ammortizzatori livelli di reddito e occupazione che esistevano prima ca che le famiglie hanno molti più soldi di sociali per evitare che la crisi della caduta, e questo «preoccupa molto» Giorgio La quanto si immagini e che ci sono settori Malfa, «anche perché siamo di fronte ad una ripresina produttivi che non solo non espellono mano d’opera, ma faccia troppi danni ai lavoratori e che produca una forte in una economia come quella italiana che da 15 anni la richiedono». Forte si lamenta e denuncia: «Questo ve- flessione dei consumi». Insomma, non va tutto male, non non cresce». Non è responsabilità solo del governo at- der nero fa comodo alle lobby che vogliono danaro, così è tutto da rifare. Anzi, abbiamo parecchie chance in quetuale, ma indubitabilmente sul nostro paese, ridotto da come agli evasori fiscali». E del resto, l’errore statistico è sta ripresa. L’analisi di Forte è tutta fondata sul fatto che
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prima pagina c’è molta ricchezza in più rispetto a quella che registrano l’Istat e Eurostat. In Italia però una parte almeno di questa ricchezza in più è tutta in nero.
Occorre lasciare le cose così come sono? Stefano Fassina, allievo di Vincenzo Visco,non ha dubbi: «Dipende da che paese vogliaGIORGIO LA MALFA mo. Se lo vogliamo ordinato e le«Non siamo gale, non possiacome nel 1929, mo accettare una quando il crollo illegalità estesa del mercato come quella che del lavoro durò continua ad esfino al 1932: serci in Italia». ritengo che Anche lui ritiene non ci sarà che la ripresa c’è, un secondo ma che sarà a ritcrollo. Il trend mi lenti. In Italia di risalita, però, il segno più nel sarà lento Pil non è ancora e molto incerto» apparso, «probabilmente ci sarà quando avremo i dati del terzo trimestre, ma restano non risolti i problemi strutturali, mentre avremo un 2010 all’insegna dell’aumento della disoccupazione». Il deficit strutturale del sistema si può risolvere con misure di due tipi. «Le prime – sostiene Fassina – sono quelle a livello multilaterale. Le deve prendere cioè il G20 e in sostanza dovrebbero mirare a far crescere la capacità di consumo dei paesi emergenti visto che quella degli Usa è in calo». E poi naturalmente ciascuno si dia da fare in casa propria: «Occorre sostenere i redditi di chi perde il lavoro attraverso gli ammortizzatori sociali e fornire credito all’industria per ristrutturare il debito delle piccole e medie imprese. Ma il governo – si lamenta Fassina – fa molto poco e anche per questo la nostra ripresa sarà lenta e impiegheremo parecchio tempo per tornare ai livelli precedenti la crisi». Lunghi i tempi del recupero, ma quanto lunghi? «Almeno tre anni», dice Giacomo Vaciago. «Abbiamo perso sei punti di Pil, spero che riusciremo a recuperarne almeno 2 all’anno. Potrei essere accusato di eccesso di ottimismo visto che prima della recente caduta crescevamo al ritmo dell’un per cento. Durante la crisi abbiamo seguito le medie. L’Italia non c’è più da anni: le aziende italiane migliori stanno fuori dal paese. Un processo simile a quello del Giappone. E infatti le persone più capaci e intelligenti ormai si incontrano negli areoporti».Vaciago è sicuro che la ripresa già c’è dappertutto: dove “tira”davvero è però nei paesi emergenti: Cina, Brasile, India. Sono questi i mercati su cui puntare GIACOMO VACIAGO e «alcune fra le nostre migliori «Da anni aziende del le migliori Nord, come aziende italiane quelle meccanistanno fuori che, si muovono dal Paese. Un molto bene in processo simile quelle direzioni. a quello La Russia invedel Giappone. ce non va e anE infatti ormai che gli altri paele persone si dell’Est non ce più capaci la fanno a uscire si incontrano dalla crisi». negli aeroporti» Quanto all’Italia, la «vera salvezza del paese sono le famiglie». «Tutti quei precari che hanno perso il lavoro – osserva Vaciago – vengono ora mantenuti da papà e mamma. Non erano negli organici, non risultano espulsi e, al tempo stesso, riescono a tenere un livello decente di consumi grazie al danaro che prendono in famiglia. Il paese non si è accorto di quello che è successo».“Dio, patria e famiglia”, ha detto Tremonti, ma la salvezza vera viene da quest’ultima. Quanto al governo, «fa quello che deve fare». La ripresa c’è, ma «solo poi ci accorgeremo di come e chi si riprende: voglio dire che dentro questo processo caotico non è affatto detto che tutte le aziende si salvino, parecchie potrebbero sparire o essere dimezzate. Che ne sarà, ad esempio, della siderurgia?». E l’inflazione? Vaciago è perentorio: «La vedranno i miei nipoti. Esagero, ma è per dire che questo è davvero l’ultimo dei nostri problemi: vivremo un periodo piuttosto lungo di prezzi e tassi d’interesse bassi. Non è questo il tema all’ordine del giorno del G20».
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Un modello alternativo per interpretare (e ridisegnare) l’economia del mondo
La via giusta c’è già: l’Enciclica del Papa La “Caritas in veritate” è l’unico documento in circolazione che esamina lo sviluppo secondo un’ottica globale di Paolo Savona Enciclica Papale Caritas in veritate è scomparsa con troppa rapidità dalle pagine della “grande” stampa, pur essendo l’unico documento in circolazione che esamina lo sviluppo secondo un’ottica globale. Nonostante questa importante caratteristica, manca tuttavia in essa un’analisi dei contenuti condotta alla luce dei paradigmi economici che di norma vengono usati per esaminare i programmi di sviluppo. Si afferma che ciò è dovuto al fatto che il Papa si prefigge scopi diversi, di natura etica volti a indirizzare l’attività economica verso il “bene comune”. Tuttavia, la dottrina sociale della Chiesa, dati i suoi scopi, non può prescindere, come non prescinde, dall’esprimere posizioni sui temi del benessere materiale.
L’
una forte presenza pubblica di natura regolamentare e materiale, ma in forma “sussidiaria”, ossia che interviene allorché l’individuo e la “società civile” non sono in condizioni di garantire una vita “dignitosa” alle persone. Su questo punto la convergenza con il liberalismo è totale. Non vi sarebbero difficoltà a integrare il modello esplicativo del funzionamento di un’economia con, come dice il Papa, «opere che rechino impresso lo spirito del dono», solo se gli economisti esaminassero le implicazioni di un sistema in cui la razionalità non agisce nel modo tradizionale, ossia minimizzando i costi o massimizzando egoisticamente i rendimenti. Il problema è quale dei due modelli sia più “valido”, ossia garantisca il migliore sviluppo per tutti. Invece di procedere in questa direzione, la dottrina sociale della Chiesa predetermina il valore di alcune variabili rispetto alla dimensione che assumerebbero sotto la spinta della concorrenza globale o della contrattazioni sindacali. Prendiamo il caso del salario: nella Rerum Novarum esso doveva garantire una vita “dignitosa” al lavoratore e alla sua famiglia; nella Centesimus Annus si è aggiunto un quid per la pensione e nella Caritas in veritate un altro quid per l’istruzione. Quelle considerate sono tutte istanze altamente rispettabili che prescindono però dalla considerazione della scarsità delle risorse e delle forme di mercato, la cui esistenza rende necessaria una disciplina economica.
Il modello di Benedetto XVI presuppone che l’uomo non agisca solo per edonismo, ma per solidarietà altruistica; e individua nel dono il motore principale che deve muovere la macchina economica
Per il teologo Ratzinger la connessione tra l’essere e il dover essere è presente in tutti gli aspetti dell’Enciclica, ma lo stesso non accade per i principi elaborati dalla disciplina economica. Anche su questo punto la dottrina sociale della Chiesa non può non confrontarsi con la disciplina di riferimento, l’economia politica, se intende veramente avere successo nel far accettare innovazioni nei modi in cui si realizza lo sviluppo in generale e quello globale in particolare. Altrimenti rischia di diventare un mero conforto per le persone che già si comportano in modo caritatevole in nome della verità. Se non si allarga l’area della comprensione dell’Enciclica come viatico del consenso, essa rischia di restare lettera morta; se ciò avvenisse sarebbe un grave danno per lo sviluppo e la pace nel mondo perché è l’unico documento che ha una visione della nuova architettura istituzionale globale necessaria per lo sviluppo delle genti. Ogni altro documento è dominato dagli interessi nazionali, se non proprio nazionalistici e, quando trattano i problemi globali, lo fanno ricercando linee di compromesso tra le diverse istanze. In breve, l’Enciclica propone un modello alternativo a quello comunemente usato per interpretare i fatti economici dove dominano le forze economiche e, non di rado, quelle militari e ideologiche. A mio avviso non si può aggirare lo scoglio del confronto diretto tra i fondamenti della dottrina economica e quelli della dottrina sociale della Chiesa. Il modello di Papa Ratzinger presuppone che l’uomo non agisca solo per edonismo, ma per solidarietà altruistica; e individua nel dono (da attuarsi in nome della verità) il motore principale che deve muovere la macchina economica. Lo sviluppo logico di questo assunto ricalca il modello keynesiano del mercato (che viene ritenuto dal Papa utile e non responsabile, come tale, delle crisi periodiche in cui incappa) in cui vi è
Almeno per i cattolici la scarsità nasce dalla cacciata dal Paradiso terrestre per propria colpa ed essa non potrà avere mai fine, nonostante le illusioni contrarie di chi crede che il pieno impiego possa essere raggiunto con l’intervento dello Stato. Infatti se un salario determinato come “variabile indipendente” crea disoccupazione, lo Stato può lenire il costo sociale che ne deriva, ma non eliminarlo. L’economia del dono, che è anche economia della redistribuzione del reddito prodotto, si deve confrontare con la scarsità e con l’istinto dell’uomo di scegliere per convenienza, che può essere calmierato ma non ignorato. Ciò che non sappiamo è quindi se il modello propostoci dal Papa basato sulla Caritas in veritate garantisce il migliore utilizzo delle risorse, oltre quello più giusto, perché esso non ha affrontato il problema delle sue relazioni con i modelli alternativi ispirati dalle diverse dottrine economiche e perché gli economisti non l’hanno studiato a sufficienza. I modelli di mercato senza dono prevalgono nella quotidianità degli affari, purtroppo sempre più senza distinzione o vincoli di religione, e l’azione sociale della Chiesa Cattolica deve trovare il modo di inseminarli dei suoi principi sociali per accrescerne quantitativamente gli effetti ed elevarli civilmente.
diario
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Riforme fantasma. Brunetta chiede almeno un declassamento, di cui però non c’è traccia nel codice delle autonomie di Calderoli
Il bluff del governo sulle province
Bloccate le proposte di abolizione, ancora una volta vince la Lega di Lucio Rossi
ROMA. Che il terreno fosse accidentato lo si era capito da subito. L’abolizione delle province promessa in campagna elettorale da Silvio Berlusconi non si farà: dopo un anno e mezzo di dibattito che ha registrato qualche ambiguità e più di un passo falso, il Parlamento si appresta a esaminare il codice delle autonomie che dovrebbe rappresentare la sintesi delle diverse posizioni all’interno del centrodestra sul riordino del settore. Un documento che esclude un intervento specifico sull’architettura costituzionale e in cui non si accenna al loro declassamento a enti di secondo livello, come prefigurato dal ministro Brunetta: «Così come sono organizzate oggi, si tratta di enti ridondanti e inutili», secondo il responsabile della Funzione pubblica, «la mia proposta è di ridurre la composizione di consigli e giunte e farne eleggere i membri dai consiglieri di tutti i comuni che fanno parte del territorio». Nulla di tutto questo. E nessuno spazio a proposte di legge costituzionali d’iniziativa parlamentare: se il testo di riforma varato dal governo non tocca gli articoli della Carta, non ci sono possibilità nemmeno nella commissione Affari costituzionali di Montecitorio. La scorsa settimana Udc e Italia dei valori si sono trovate da sole a chiedere di calendarizzare le proposte
messo a punto dal governo «la maggioranza si batterà per l’abolizione degli enti intermedi: comunità montane e isolane, consorzi tra enti locali e Bim, Ambiti territoriali ottimali e enti parco regionali attraverso l’eliminazione della legislazione nazionale». Poi però «saranno le Regioni a regolamentare la gestione di tali enti». Inevitabile che sia così, e che dunque non si tratti di una vera e propria cancellazione, dal momento che una sentenza depositata il 24 luglio dalla Corte costituzionale ribadisce che la competenza sulla materia è appunto dei governatori.
«È uno schiaffo agli elettori che avevano creduto alle promesse», dice Tassone dell’Udc, l’unico con l’Idv a votare in commissione per il taglio degli enti sulla soppressione delle province che giacciono da mesi. Pdl, Lega e lo stesso Pd hanno votato per la sospensione dei lavori «in attesa del codice delle autonomie», come spiega il presidente Donato Bruno. Difficile non vedere nel comportamento della maggioranza una sostanziale retromarcia rispetto agli impegni presi in campagna elettorale.
Anche in questo caso la Lega sembra dettare l’agenda. Basta ricordare l’intervento del ministro dell’Interno Roberto Maroni all’assemblea dell’Anci dell’ottobre 2008: «Le province non possono essere abolite perché garantiscono una rete di servizi», era
stato l’avvertimento preliminare, «ma laddove ci sono le città metropolitane, queste le sostituiranno. Per quanto mi riguarda le province costituiscono una rete importantissima per i piccolissimi e piccoli comuni». Non è che ci sia particolare interesse all’impresa da parte del Pd: alla giornata di partecipazione promossa dall’Unione delle province Italiane, il responsabile Enti locali dei democratici, Paolo Fontanelli, ha sottolineato le funzioni riconosciute dalla Costituzione e la necessità di attuare il Titolo V, salutando con entusiasmo il varo del Codice delle autonomie come processo di profondo riordino del sistema istituzionale loca-
le. Con una specifica: «Con l’istituzione delle città metropolitane (già previste dal 1990, ndr) si può superare il dibattito sterile e demagogico sull’abolizione delle province».
Il voto in commissione Affari costituzionali conferma la convergenza tra Pd e maggioranza sulla questione. «Come volevasi dimostrare l’abolizione delle province è un cavallo di battaglia buono solo per le campagne elettorali», dice Mario Tassone, capogruppo dell’Udc nella commissione presieduta da Bruno, «la sospensione dei lavori del comitato ristretto è stata decisa senza che fosse mai stata espressa la chiara volontà di giungere alla riforma, e conferma tutte le nostre perplessità. L’affossamento del progetto resta comunque uno schiaffo agli elettori». D’altronde su que-
sto come su altri temi la maggioranza «è disorientata», dice il deputato centrista, «eppure razionalizzare l’organizzazione dei territori sarebbe fondamentale per ridurre i costi della politica e garantire più efficienza». Sono discorsi del tutto simili a quelli che Silvio Berlusconi faceva alla vigila delle Politiche. L’attuale disorientamento, come lo definisce Tassone, sembra d’altronde una delle tante manifestazioni di sudditanza del Pdl nei confronti della Lega. Nel Codice delle autonomie peraltro sono pure previste cancellazioni di altri enti territoriali minori. Ma a questo punto prevale l’impressione che la riforma serva a coprire il mantenimento delle province imposto dalla Lega. Il responsabile vicario degli enti locali del Pdl, Mario Valducci, spiega che nel dibattito sul testo
La bozza di riforma prevede la delega al governo a disporre entro ventiquattro mesi la soppressione di singole province in base all’entità della popolazione di riferimento e all’estensione del territorio. «Non è la soluzione migliore», dice Brunetta. Ma il ministro si trova appunto isolato. Si rischia di non approdare a nulla, in ogni caso, considerata la resistenza annunciata dai governatori, a cominciare dal presidente della Toscana Claudio Martini che si è detto preoccupato dall’ipotesi di mettere in liquidazione le comunità montane: «Si comprometterebbero politiche e risorse destinate al sostegno della montagna, verrebbero calpestate diverse leggi regionali che delegano proprio a questi enti materie come agricoltura, forestazione e protezione civile». La mannaia secondo le stime del ministro Calderoli dovrebbe riguardare oltre 30mila enti intermedi che sicuramente non staranno a guardare. Soddisfatte comunque le province, che male che andrà si trasformeranno in città metropolitane e forse riusciranno ad avvantaggiarsi dell’abolizione di qualche ente intermedio assorbendone le funzioni. Con buona pace degli annunci elettorali sul taglio dei costi della politica. Secondo uno studio dell’Eurispes dall’abolizione delle province deriverebbe un risparmio di 10,6 miliardi di euro. Dello stesso segno lo studio dell’Istituto Bruno Leoni che annota come tra il 2000 e il 2005 sono più che triplicate le spese per ripagare i prestiti contratti dalle Province.
diario
25 settembre 2009 • pagina 7
Il Tar della Puglia impone la ridefinizione della giunta
Il responsabile dello Sviluppo contro Fiumicino: «Uno scandalo italiano»
Niente donne: sciolta la Provinvia di Taranto
Sud, la Ue si accinge a dare il via libera alle zone franche
TARANTO. Troppi uomini nella giunta provinciale di centrosinistra di Taranto: il Tar regionale ha quindi ordinato al Presidente della Provincia Gianni Florido «di procedere alla modificazione della composizione della Giunta Provinciale, in modo tale da assicurare la presenza di entrambi i sessi, entro trenta giorni dalla notificazione o comunicazione della presente ordinanza». Lo hanno stabilito con un’ordinanza i giudici della sezione amministrativa (Presidente Aldo Ravalli) che ha accolto il ricorso presentato dal comitato ”Taranto futura”. Il ricorso - presentato dall’avvocato Nicola Russo denunciava come «la previsione dell’art. 48 dello Statuto della Provincia di Taranto (“il presidente della Provincia nomina i componenti della Giunta, tra cui un Vice Presidente, secondo le modalità previste per legge e nel rispetto del principio delle pari opportunità, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 81 del 25.3.1993, sì da assicurare la presenza nella Giunta di entrambi i sessi”) appare essere evidentemente caratterizzata dalla natura precettiva e non programmatica». E soprattutto che «deve pertanto essere assicurata la presenza in Giunta di Assessori di entrambi i sessi, non essendo assolutamente
ROMA. È questione di settima-
Regioni, Scajola media Tremonti alza il tiro I governatori respingono i tagli alla Sanità decisi dal Tesoro di Francesco Pacifico
ROMA. Da un lato ci sono sette miliardi di euro in meno per la sanità. Dall’altro, oltre 25 miliardi di fondi Fas destinati alle Regioni. E che aspettano da mesi di essere sbloccati. Silvio Berlusconi ha due settimane per trovare una mediazione su queste partite, che sono pericolosamente correlate. Altrimenti il fronte dei governatori – come hanno dimostrato gli stop al piano casa prima, e il ricorso alla Consulta sul nucleare dopo – rischia di far pesare tutto il suo potere di veto sull’azione di governo.
Ieri il presidente dell’Emilia-Romagna, e leader della conferenza delle Regioni, Vasco Errani ha annunciato che il vertice decisivo con il governo sarà agli inizi di ottobre. E per quella data si attende una risposta sul patto della salute, le risorse dei Fas ancora disponibili dopo l’uso improprio fatto negli ultimi mesi dal Tesoro, le competenze su scuola e Turismo. Ma al centro di una querelle che – seppur intervallata da importanti accordi come quello sugli ammortizzatori sociali – dura da quasi un anno, c’è soprattutto la sanità. Lo ha chiarito indirettamente il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, impegnato a trattare con le Regioni sulla riprogrammazione dei fondi Fas. «Dopo l’incontro di chiarimento tra il premier e le Regioni», ha spiegato, «possiamo convocare subito un Cipe per sbloccare i finanziamenti». Durante la seduta della conferenza delle Regioni di ieri, Errani ha fatto sapere di aver ricevuto una nuova bozza dal governo sul patto della salute. Nella quale però sono riportate le vecchie cifre stanziate da Tremonti per il biennio 2010-2011. Infatti mancano 7 miliardi di euro che «non garantiscono i livelli essenziali di assistenza sanitaria». Soldi in meno che potrebbero costringere gli enti ad aumentare le addizionali pur di evitare i commissariamenti. Al riguardo Errani ha sconsigliato il governo dal fare pressioni sui ticket: «Ha assicurato che non intende chiedere una lira in più ai cittadini e che non ci saranno nuove tasse. Se consentisse di agire sui
ticket, sarebbe in contraddizione». A quanto pare il governo tira la corda per ottenere uno sconto, ben sapendo che dovrà comunque cedere una parte della cifra sottostimata sul fondo sanitario. E spera che il fronte dei governatori si sgretoli pur di mettere le mani sul tesoretto dei Fas. Ma al momento il fronte regionale non sembra voler indietreggiare. «La cosa più corretta da fare», aggiunge Errani, «è quella di mettersi tutti intorno a un tavolo e di fare il quadro di come stanno esattamente le cose». Chi il quadro della situazione l’ha molto chiaro è invece il ministro Scajola. Non a caso ieri, parlando con la stampa, ha comunicato che sono in fase avanzato anche le trattative con quelle Regioni che faticano a vedersi approvato il proprio Par dal Tesoro: Puglia e Campania su tutte. «Ho parlato martedì con il governatore Nichi Vendola», ha spiegato, «per rivedere le proposte dei fondi Fas regionali che ammontano a 25 miliardi di euro, e che erano datate al 2007. Abbiamo deciso di cambiare la programmazione finalizzando i fondi a settori che più ne hanno bisogno come le infrastrutture».
Il titolare di via Veneto spinge gli enti verso un programma comune di spesa dei Fas. Verso lo sblocco del Par pugliese
sufficiente un semplice “sforzo” teso a raggiungere un simile risultato; si tratta, pertanto, di una tipica obbligazione “di risultato” e non “di diligenza” che viene ad integrare un vincolo alla scelta degli assessori e che non può essere derogata dagli accordi politici».
La ministro per le Pari Opportunità Mara Carfagna ha subito diramato un comunicato nel quale dice che «un buon amministratore dovrebbe mostrare sensibilità nei confronti delle donne e garantire una adeguata rappresentanza della componente femminile in ciascun organismo, a prescindere dalle quote rosa alle quali sono sempre stata contraria».
ne per l’attivazione delle zone franche al Sud. La buona novella, il ministro Claudio Scajola, l’ha data durante la firma di un accordo di programma per il Sud all’assessore napoletano alle Attività produttive, Mario Raffa: «Le posso dare una notizia: entro la terza settimana di ottobre dovrebbe arrivare dalla Ue l’approvazione definitiva di 18 zone franche nel Sud». Al dicastero di via Veneto aspettano soltanto l’ok da Bruxelles per pubblicare il regolamento per destinare alle imprese interessate i benefici fiscali. «In Francia», ha aggiunto il ministro, «grazie a questo sistema, c’è stata una notevole crescita di produttività».
Se il responsabile dello Sviluppo riuscisse in questo intento, finirebbe per accrescere il suo peso all’interno del governo e dare un duro colpo al potere di veto di Tremonti. Il quale, finora, ha accentrato su di sé tutte le risorse messe in campo contro la crisi. Anche perché, tra cabine di regia e piani ventennali, non si è ancora riuscito a far convogliare la massa dei Fas su programmi che avessero ricadute su tutto il Mezzogiorno. Nello scontro tra livelli dello Stato si registra l’irritazione dell’Anci per il mancato pagamento di importanti pregressi. Lorenzo Guerini, che segue le questioni per l’associazione dei sindaci, ha fatto sapere che «il sottosegretario all’Economia, Daniele Molgora, ha affermato che al momento non sarà erogata la totale copertura del mancato gettito Ici, pari a 1,3 miliardi di euro».
Il ministro ha firmato ieri due accordi di programma destinati al turismo in Campania e all’impresa vivaistica in Puglia. Il primo, forte di un investimento da 65 milioni, prevede la realizzazione di due alberghi a Napoli e due a Pozzuoli.
Spiega Costanzo Jannotti Pecci, presidente di Palazzo Caracciolo S.p.a una delle aziende coinvolte: «Finalmente ridiamo vitalità alle nostre bellezze». E sempre parlando di turismo a Scajola è scappata una battuta che fatto molto discutere: «Fiumicino è uno scandalo italiano. Tu passi per Roma e perdi il bagaglio, e parti già inquieto». L’altro contratto di programma, dal valore di 52,5 milioni di euro, prevede un accordo tra il ministero e il gruppo Ciccolella per realizzare nel comune di Candela (Foggia) il piu’ grande impianto d’Europa di coltivazioni floricole e delle piante ornamentali in serra. Scajola ha sottolineato che le richieste di questi due piani sono state presentate circa sette anni fa. Al ministero giacciono infatti 150 richieste analoghe, bloccate per i tempi della burocrazia. «Tempi che speriamo di aver sbloccato con le modifiche fatte con l’ultima legge per lo sviluppo, dove è stato cancellato il passaggio al Cipe».
politica
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Segnali. «Persone e Reti», l’associazione di Francesco Rutelli presenta uno studio su valori, impegno e politica
Il laboratorio cattolico Secondo una ricerca Ipsos i credenti sono sfiduciati da Pd e Pdl. E puntano al Centro di Riccardo Paradisi li elettori cattolici si stanno allontanando dalla politica. In particolare sono in fuga dal Pd, hanno perso fiducia in Silvio Berlusconi, – anche se continuano a sostenere questo governo – guardano con maggiore interesse all’Udc. Il quadro generale sul voto cattolico che emerge dal sondaggio Ipsos presentato da Nando Pagnoncelli ieri alla Camera preoccupa più di tutti il Pd, sempre più colpevole, secondo il campione considerato dall’inchiesta dell’Ipsos, di inseguire la bandiera cattolica della laicità.
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I dati parlano chiaro: tra le elezioni politiche 2008 e le europee 2009 i
democratici registrano un 3,9% di voti tra i credenti ma sono anche diminuiti gli elettori che pensano il partito capace di rappresentare (del tutto o in parte) i valori cattolici: prima erano 64 su 100, oggi sono 58. Non solo: il 30% di elettori democratici (contro il 21% di un anno fa) vedono un Pd ”egemonizzato dalla sinistra laica”. Per questo i teodem chiedono al partito di invertire la rotta e puntare i riflettori sul voto cattolico ”in uscita”. Quello che, nell’ultimo anno, ha fatto aumentare del 14,6% i praticanti di tutti gli schieramenti che hanno disertato le urne. «In parte dice Bobba questo voto è stato intercettato dall’Udc, in parte resta disoccupato. È un’occasione da non buttare per il Pd».
Nella foto a sinistra, Paola Binetti e, qui sotto, un’immagine del senatore teodem del Pd Luigi Bobba. A fianco, il leader della ex-Margherita Francesco Rutelli
L’inchiesta dell’Ipsos è stata presentata durante il seminario ”La rabbia e il coraggio”(per il quale la ricerca e’ stata commissionata) introdotta dal senatore teodem del Pd Luigi Bobba. ”La rabbia e il coraggio” ha spiegato Bobba «è la frase di Sant’Agostino ed è stata scelta perché c’é rabbia dei laici cattolici impegnati nello spazio pubblico e non possono assistere indifferenti alla evidente corrosione di un’etica pubblica. Alla crescente delegittimazione delle istituzioni democratiche, all’impoverimento dei processi di partecipazione popolare. Restare alla alla finestra ha aggiunto Bobba è farsi corresponsabili di questo stato di cose; è accettare silenziosamente che i cattolici siano o confinati in spazi marginali o catalogati come longa manus della chiesa». Basta dunque dicono i teodem inseguire la bandiera ideologica della laicità o «il rischio è che la distanza tra Pd e elettorato cattolico cresca ancora di più».Che questo flusso di voto cattolico in uscita dal Pd stia
Aumentano i tratti valoriali d’area attribuiti prevalentemente all’Udc. Una tendenza che comincia nel momento in cui sembra essersi interrotto il ciclo che vedeva un avanzamento del centrodestra guardando verso il centro risulta del resto dai dati presentati da Pagnoncelli, che parla di un disorientamento dell’elettorato dei credenti: «gli astenuti alle Europee sono cresciuti molto il 39,1% degli elettori cattolici è rimasto a casa, mentre aumentano i tratti valoriali d’area attribuiti prevalentemente all’Udc, nel momento in cui sembra essersi interrotto il ciclo che vedeva un avanzamento del centrodestra».
Alla domanda infatti su quale forza politica rappresenta più delle altre i valori cattolici, le risposte hanno indicato Udc (44%), Pdl (22%), Pd (10%), Di Pietro (2%), Lega Nord (1%), non sa (21%). Le indicazioni della Chiesa su temi come valori, famiglia, sessualità, problematiche sociali per il 56% dei cattolici «vanno ascoltate ma prevale la propria
coscienza», «devono essere sempre seguite» invece per il 19%, mentre «sono interventi impropri» per il 15%, sono «indifferenti» per il 4% e «sono negative, non vanno seguite» per un altro 4%.
Per quanto riguarda l’attività dei cattolici in politica, il 77% ha dichiarato che «una forza organizzata non serve, non si deve confondere religione e politica mentre il 20% pensa che serve una forza organizzata e presente alle elezioni». Le vicende degli scandali di questa estate ha inciso molto nel calo vistoso nell’area dei votanti del Pdl e ancor più vistosi nell’elettorato cattolico. Richiesto di quantificare questo calo, Pagnoncelli dice che dal 60% di fiducia personale si è scesi a poco meno del 50% con un calo di 10 punti. Nell’elettorato cattolico, in particolare in quello più
impegnato il gradimento è oggi al punto più basso. Il giudizio sul governo però continua a riscuotere tra i cattolici un 52-53% di consensi e l’orientamento del voto è sostanzialmente mantenuto, poco variato. Come si spiega questa apparente contraddizione? Col fatto che nelle decisioni politiche, nella scelta del voto «il tratto prevalente in Italia è il pragmatismo, cattolici o non cattolici». In sostanza al di là dei valori di riferimento dichiarati e nonostante l’appartenenza religiosa, il cattolico è uguale agli altri cittadini italiani che scelgono in base ai propri personali interessi e convenienze. È lo stesso pragmatismo però che porta però i cattolici a bocciare il governo sulle insufficienti politiche di sostegno alle famiglie sponsorizzate con il Family day del 2007. Per il 73% dei praticanti intervistati le situazione delle famiglie è migliorata ”poco” o ”per nulla” nonostante un sensibile consenso sul miglioramento degli aiuti alla famiglia. I cattolici intervistati su quali provvedimenti auspicherebbero hanno elencato assegni familiari, sistema fiscale più equo, assegno ai giovani genitori per i bambini, più asili nido, detrazione spese badanti dalle tasse.
politica
25 settembre 2009 • pagina 9
Parla Dorina Bianchi, dopo la rottura con il gruppo sulla Ru486
«Sì, il Pd che volevamo era diverso da questo» di Marco Palombi
ROMA. «Si usano questi casi come grimaldello contro i cattolici. E allora voglio dire che avevamo un’idea diversa di questo partito quando abbiamo unito Ds e Margherita: ritornare ad essere solo Quercia è un progetto miope». Dorina Bianchi è di Crotone, anche se è nata a Pisa; di mestiere farebbe la neuroradiologa all’ospedale di Cosenza, ma è parlamentare del centrosinistra dal 2001, e alle cronache è nota soprattutto – oltre che per essere «la donna più bella della politica» (Rutelli) – per le polemiche che l’hanno investita da quando ha preso il posto di Ignazio Marino come capogruppo del Pd in commissione Sanità. La senatrice Bianchi infatti, nella complicata geografia democrats, si colloca tra i teodem, che a loro volta come gruppetto stanno con Rutelli, che a sua volta starebbe con la mozione Franceschini ma secondo molti si prepara a mollare il partito. La Bianchi, che giusto questa settimana è stata protagonista dell’ennesimo scontro interno al Pd sulla pillola abortiva Ru486, non conferma e non smentisce la volontà di fuga, si limita a sfuggire la domanda: «Io spero di starci in questo partito. Un fallimento completo sarebbe una sconfitta per tutti, anche per i cattolici». Il problema, spiega, è «quale partito vogliamo costruire. Insisto: l’obiettivo del Pd era costruire un contenitore che ospitasse sensibilità diverse, specchio di una società non ideologica. Se invece torniamo a fare i Ds…». Se ne va? Diciamo che ci sarebbero serie difficoltà. Intanto dico che finora abbiamo fallito nella modernizzazione della politica. I tre candidati segretario fanno a gara a chi è più laico. Siamo tutti laici, ma ci sono valori, scritti anche nella Costituzione, che vanno difesi. Come fa questo partito ad andare in fibrillazione per un’indagine conoscitiva? Quindi i teodem… Quindi la presenza dei cattolici è forte e importante nella politica come lo è nella società italiana, si tratta di una ricchezza da non strumentalizzare. Meglio quando i cattolici stavano in un partito solo? No, tornare indietro è uno sbaglio, ma certo neanche si può accettare che in alcuni partiti i cattolici si ritrovino in una specie di riserva indiana. Se c’è libertà bene… Altrimenti ve ne andate? Altrimenti andrà ripensato qualcosa…
“
Va bene, veniamo alla vicenda della Ru486: cosa è successo? Al rientro dalle ferie c’era un direttivo del gruppo per discutere il via libera all’indagine conoscitiva. Conoscendo le differenze di opinione, ho chiesto un colloquio ad Anna Finocchiaro e ai nostri senatori in commissione Sanità per decidere la linea. Poi la capogruppo avrebbe incontrato il presidente della commissione Tomassini (Pdl) per chiarire che un nostro eventuale via libera non poteva significare che il Senato voleva ostacolare l’Aifa, ma solo sapere se la commercializzazione di questa pillola fosse in sintonia con la legge 194. Finocchiaro ha dato il via libera dopo un accordo con Tomassini e Gasparri e io ho votato in questo senso nell’ufficio di presidenza della commissione, come hanno fatto tutti i gruppi compresa Idv. Nel frattempo però il Pdl aveva accorciato i tempi e l’aveva pure nominata corelatrice? Solo per questi due scatti in avanti - la scelta dei relatori in autonomia e la velocizzazione dell’indagine - alla fine ho rimesso il mandato. Sentire Sacconi già giovedì, quando c’è in corso il problema dell’influenza A su cui avevamo già chiesto di sentire il ministro, è un modo per strumentalizzare la vicenda. D’altronde il presidente Tommassini è un politico esperto… Cioè? Ha saputo giocare bene sulle tensioni congressuali, esponendomi a questa strumentalizzazione. Non mi sembra una cosa utile a migliorare le nostre politiche su aborto e salute delle donne. E ora il gruppo la “smentisce” sulla Ru486… Ci vorrebbe meno ideologia e più attenzione ai fatti. La pillola abortiva, ad esempio, non può essere prescritta a tutte e non in tutti i periodi e questo le donne lo devono sapere. E poi quelle che useranno la Ru486 non potranno essere lasciate sole, né si può preferire questo farmaco solo perché è meno costoso di un’operazione. Lei quindi è contraria alla pillola? Il problema è che un sistema abortivo “semplice”può banalizzare l’aborto, soprattutto tra le adolescenti. Io preferirei uno Stato che investe risorse in consultori, nell’educazione all’affettività, poi se la Ru486 dà risposte positive non ho niente in contrario alla sua commercializzazione. Certo però che fare una battaglia per l’aborto facile senza farne una per arrivare a non avere più aborti mi sembra ideologico e inaccettabile.
Siamo tutti laici, ma ci sono valori, scritti anche nella Costituzione, che vanno difesi: come fa questo partito ad andare in fibrillazione solo per un’indagine conoscitiva?
Insomma quella che sale dall’elettorato e da quello cattolico in particolare sono maggiori politiche di sostegno alle famiglie, anche se di fronte alla crisi economica il 50% degli intervistati dichiara di non avere timori, il 12% teme che lo stipendio resti a lungo immutato, il 17% teme
il quadro di un mondo cattolico elettoralmente disorientato che sui temi sociali di fondo non presenta grandi differenze dal resto degli italiani tutti accomunati come dice Pagnoncelli da un notevole senso pratico che molto spesso sfiora il cinismo. Al di là dei valori e degli inse-
Gli elettori cattolici si stanno allontanando dalla politica. In particolare sono in fuga dal Pd e hanno perso fiducia in Silvio Berlusconi, anche se ancora continuano a sostenere questo governo di vedere ridotto lo stipendio e il 22% teme di perdere il lavoro.
La ricerca, su un campione di 1.000 intervistati rappresentativo del mondo cattolico, ha preso in considerazione sei segmenti: praticanti impegnati, praticanti assidui scarsamente impegnati, saltuari, non praticanti, non credenti. Oggetti dell’indagine oltre al voto, la condivisione degli insegnamenti della chiesa, le preferenze politiche, il gradimento del premier Berlusconi in riferimento agli scandali a sfondo sessuale, le politiche a sostegno della famiglia, il nucleare, la crisi economica, gli immigrati, il federalismo. L’insieme delle risposte dato da questo campione rivela
gnamenti della Chiesa infatti la scelta è di soggettivo, Pagnoncelli parla di ottimizzazione personale delle scelte elettorali. Un esempio paradigmatico è la tipologia dell’elettore cattolico che è iscritto alla Cgil, vota Lega e va a messa la domenica. Del resto alla domanda fatta dai sondaggisti dell’Ipsos se il numero degli immigrati che arrivano in Italia dovrebbe essere ridotto il 54% degli intervistati risponde di si e il 30% sostiene che vada bene la legge vigente. Solo un esiguo 12% sostiene che si dovrebbero accogliere più immigrati nel nostro Paese. E questo malgrado le indicazioni date dalle gerarchie ecclesiastiche vadano nella direzione di una maggiore accoglienza.
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panorama
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Prediche. Nel discorso rivolto agli economisti c’è il vero profilo dell’impegno sociale della Chiesa
Bagnasco e la politica della persona di Luca Volontè on perdiamo la testa, se ci facessimo trascinare dalle illusorie e offensive polemiche di Repubblica - si vedano gli sproloqui di Maltese e Augias degli ultimi giorni - perderemmo il gusto della bellezza e della verità del messaggio cristiano d’oggi. Le sollecite parole del Papa in questi giorni l’Angelus di domenica scorsa ne è un esempio - le opportune riflessioni del Cardinal Bagnasco, svanirebbero tutte, tutte diverrebbero nel linguaggio malato dei laicisti, «richieste di un baratto» col Governo. Non è così, né potrebbero essere.
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«Evitare la menzogna» e seguire invece la verità e la responsabilità, diceva Benedetto XVI domenica e nelle stesse ore Bagnasco rilanciava una accorata lettura della Enciclica Caritas in Veritate, in una relazione davanti agli opera-
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
tori economici di Genova. Questi messaggi vanno necessariamente oltre le polemicucce o gli ignobili fraintendimenti. Il Presidente della Cei ha portato le sue riflessioni opportune ed efficaci all’attenzione dei presuli italiani e, necessariamente, alla riflessione dell’intera opinione pubblica. L’Italia è sempre più ricca di quei tesori che altri Paesi stanno tentanto di scovare nelle loro società: capitale
cieche, nulla è più strumentale che leggere e rileggere le parole di Bagnasco con la lente delle presunte «divisioni interne alla Chiesa italiana». Bagnasco non è solo, come non lo è stato Ruini prima di lui. La forte sottolineatura sulle difficoltà economiche di famiglie e lavoratori (operai e imprenditori), le riflessioni sul decadimento morale, sulla crisi che investe i bisogni delle famiglie, delle giovani generazioni, della società dimostra la volontà, ancora una volta, di affrontare le questioni vere con piglio e determinazione.
Chiarezza e realismo, piedi per terra e sguardo all’orizzonte: è così che i Vescovi vogliono dire la loro su una crisi che è di modelli sociali umano (persona e intrapresa) e capitale sociale (famiglie e reti di solidarietà). Il Cardinal Bagnasco conosce bene gli sforzi dei cittadini e fedeli italiani, nel febbraio scorso non aveva dimenticato di sottolineare che la Chiesa parla alle persone “reali”. Tutti lo attendevano al varco: maligni osservatori e qualche malpancista interno, aspettava solo il netto passaggio della relazione sul «caso Boffo». Ebbene c’è stato anche quello, non poteva non esserci una riflessione forte sulle vicende agostane e sui tentativi di initimidazione che abbiamo visto, ciascuno con i propri occhi. Pensare di ridurre tutta l’ampia e intelligente riflessione di Bagnasco alle parole su Boffo è, francamente, ridicolo e offensivo. Non ci possono essere interpretazioni più interessate e
La Chiesa, come aveva già dimostrato con la Giornata della Carità, c’è e vuole fare la propria parte. Chiede a tutti di fare ciò che compete loro, alla politica innanzitutto e alla società. Le vere riforme, questo Paese le ha fatte solo quando c’era una forte condivisione di valori, quando da destra,dal centro come da sinistra si era certi della centralità della persona, della famiglia e della società. Bagnasco riparte e richiama quell’origine, sgombra il campo dalle polemiche, esprime giudizi ma non rancori, taglia fuori dibattiti inutili e va al sodo:Italia ci sei? Affrontare le emergenze, cogliere le opportunità della crisi per riforme vere, affrontare le sfide a partire da quella educativa. Insomma, chiarezza e realismo: piedi per terra e sguardo all’orizzonte.
È nato un nuovo fenomeno: la «unconventional social advertising»
Quando la pubblicità non fa solo pubblicità i chiama unconventional ed è una nuova forma di pubblicità. Anzi, l’espressione completa è unconventional social advertising, vale a dire una forma sociale di comunicazione o pubblicità che tende a sovvertire i canoni classici della rèclame a partire dal fine: non la vendita, bensì la conoscenza. Se la pubblicità classica passa attraverso gli spot e i manifesti, la tv e la radio, i giornali e le riviste, l’unconventional ricerca e pratica dei mezzi diversi e alternativi che vanno dagli adesivi al teatro al web. Il mezzo diverso che viene usato tende a sfuggire all’omologazione ed egli stesso - il mezzo - cerca di essere un fine, appunto perché è diverso, alternativo, non omologato. In parole povere e rifuggendo dalla gergo sociologico, si tratta di una pubblicità contro la pubblicità, di un marketing contro il marketing, di una rèclame contro la rèclame, di una merce contro la merce. A suo modo, una ribellione che usa più o meno le strategie dell’avversario: la comunicazione. Funziona?
S
Per ora il fenomeno ha attirato l’attenzione degli studiosi e degli accademici. Paolo Peverini e Marica Spalletta hanno pubblicato con Meltemi il libro
Unconventional (a proposito, anche questa è pubblicità) e analizzano un fenomeno sociale che, nato spontaneamente come canale alternativo alla grande circuito pubblicitario, ha ora adottato delle pratiche di diffusione che ricalcano la pubblicità classica ma - si dice con scopi diversi. Sarà, ma sempre pubblicità. Proprio questo è il punto: non si dà forse un po’ troppa importanza alla pubblicità e alla comunicazione come se fossero qualcosa di diverso dalla pubblicità e dalla comunicazione? Il grande circo e circolo pubblicitario che è il nostro mondo quotidiano è un frullatore che mescola tutto: saperi e informazioni, conoscenze e stupidaggini, sentimenti e azioni. Tutto in una grande pentola per fare un minestrone e tocca a noi poi distinguere, analizzare, prendere e scartare. In-
somma, il problema non è ciò che si comunica, ma la comunicazione stessa.
Qualche anno fa Mario Perniola scrisse un libretto - dico libretto perché è piccolo di dimensioni, ma è un ottimo testo quanto a qualità - intitolato Contro la comunicazione, edito da Einaudi. La tesi di Perniola - tesi che non chiamerei neanche tesi ma semplicemente la verità - è che la comunicazione è l’opposto della conoscenza: è nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti. La comunicazione che comunica tutto e il contrario di tutto è persino totalitaria, ma in un modo più raffinato e occulto - paradosso pubblicitario - perché il totalitarismo comunicativo ingloba in sé anche l’antitotalitarismo. Ingloba tutto, anche il contrario. Il fine del mondo della comunicazione è
esclusivamente la comunicazione: il contenuto è indifferente. Ciò che conta è la retorica e nella retorica - si sa dai tempi di Aristotele e di Socrate - conta l’emozione, la sensazione, la pancia, l’istinto, l’animale. Il risultato è un gigantesco blob post-moderno in cui tutto ha senso e niente lo ha. Che fare? L’unconventional ha tutta l’aria di essere il rovescio della medaglia della pubblicità classica (che in realtà una volta era una bella cosa e, anche oggi, una buona pubblicità ha ancora una alta qualità artistica e retorica, ma con la differenza che oggi la buona pubblicità è una rarità). Ciò che conta, invece, sembra essere un uso della moderazione, della distinzione - nel duplice senso del distinguersi e del saper distinguere, discernere - dell’eleganza, un senso estetico ma anche pratico della vita che sembra più unico che raro perché tutto, anche la pubblicità alternativa, è immerso nella comunicazione e, dunque, nella finzione. Oltre che nella volgarità. Un esempio: un noto marchio di abbigliamento giovanile ha diffuso manifesti in cui si vede la modella nel gesto del dito medio alzato. Una forma di pubblicità, cioè retorica, che aizza la finta volgare ribellione giovanilistica.
panorama
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Primarie. I primi dati dei congressi locali del Pd sono quelli previsti: per ora, la vera sorpresa è Marino, al 7,9%
Il Meridione democratico spinge Bersani di Antonio Funiciello a conta interna nella prima fase del congresso del Pd sta andando come ci si aspettava: Bersani in testa con percentuali non plebiscitarie (55,5%) e Franceschini a seguire (36,4%). Il distacco di diciannove punti si spiega sopratutto con l’affermazione della mozione Marino (7,9%), fino a ieri la vera incognita. Per il resto Franceschini si difende bene, anche considerando le defezioni in casa popolare. Bersani vincerà la conta interna grazie al plebiscito ottenuto nel Mezzogiorno, eccezion fatta per la Sicilia. Al Sud i quasi venti punti percentuale di distacco della media nazionale raddoppiano. Al netto di un’affluenza che invece, rapportata con quella del Centro-Nord, si dimezza. Com’era previsto, insomma, il peso dell’apparato del partito meridionale risulterà decisivo per l’esito finale.
L
Al Sud il dato di affluenza ai congressi di base segnala che nel passaggio da Ds e Margherita al Pd non è cambiato nulla: il confronto è bloccato in logiche localistiche che perdono di vista le tesi generali su cui ci si
Al Sud i quasi venti punti percentuali di distacco della media nazionale raddoppiano: l’apparato del Mezzogiorno sarà decisivo per il risultato dovrebbe dividere. Un blocco in questa circostanza rafforzato dalle complesse alleanze locali che le varie correnti hanno stretto. La variabile delle primarie potrebbe forse ancora far saltare i giochi, ma col passare delle settimane questa possibilità perde di consistenza. A meno di non sviluppare il dibattito congressuale sui temi
realmente differenziali tra Bersani e Franceschini, difficilmente le primarie non replicheranno il risultato della conta interna. Iniziative come la manifestazione sulla libertà di stampa vedranno marciare insieme i due pretendenti al Nazareno e, quindi, non sono da annoverare tra gli elementi di possibile differenziazione dell’offerta
politica presentata agli elettori. Nel Mezzogiorno tutta la polemica tra partito degli iscritti e partito degli elettori è, alla prova dei fatti, destituita di fondamento. Da un lato gli iscritti non ci sono: c’è un apparato che ha prevalentemente a cuore la conservazione della propria posizione. Dall’altro le primarie, senza un movimento di opinione che le accompagni favorendo un’alta partecipazione, risultano svuotate di significato. Ammesso e non concesso poi che lo scontro dovesse accendersi, nel Mezzogiorno difficilmente si produrrà l’effetto participazione che si registrò due anni fa. Il malcontento della popolazione nei riguardi delle amministrazioni locali di centrosinistra è enorme ed è così probabile che neppure se Bersani e Franceschini dovessero dare il meglio i cittadini risponderebbero all’appello. Così è evidente che se le primarie nelle regioni del Sud resteranno prigioniere della mera competizione tra gli aspiranti delegati candidati nelle liste in appoggio a Bersani e a Franceschini, per quest’ultimo non ci sarà davvero nessuna possibilità di ripresa, visto come l’ap-
Recessione. I dati del commercio con l’estero tornano positivi. Ma non per tutti i settori
Ecco chi è (quasi) uscito dalla crisi di Alessandro D’Amato n incremento positivo rispetto al mese precedente, anche se l’export continua a soffrire. A luglio, secondo l’Istat, il saldo della bilancia commerciale con i paesi della Ue è risultato positivo per 2.397 milioni di euro, anche se in riduzione rispetto al surplus da 3.695 milioni rilevato nello stesso mese del 2008. Rispetto a giugno, le esportazioni nel mercato comunitario sono cresciute dell’1,7%, mentre le importazioni sono calate del 2,8. Su base annua, invece, l’export verso l’area Ue è diminuito del 23,1% mentre l’import del 20,6%.
U
te del 20,6%, mentre le importazioni del 27,6 per cento. Nel mese di luglio, per le esportazioni ci sono stati andamenti tendenziali negativi per la maggior parte dei settori di attività economica, ad eccezione di articoli farmaceutici, chimico-medicali e botanici (+4,6%) e prodotti alimentari, bevande e tabacco (+0,3). Considerando i principali settori, le flessioni maggiori si sono
L’Italia regge, anche perché è attaccata al traino degli altri Paesi che piano piano si riprendono. Il mercato interno, invece, continua a languire
Nei primi sette mesi del 2009, le esportazioni hanno segnato una flessione del 26,3% rispetto allo stesso periodo del 2008 e le importazioni del 22%. Nello stesso periodo, il saldo è stato positivo per 2.142 milioni di euro, ma “in forte diminuzione” rispetto all’attivo di 9.240 milioni di euro registrato nel medesimo periodo dello scorso anno. Rispetto a giugno scorso, l’export è aumentato del 3,1% mentre l’import si è ridotto del 2,8. Su base annua, al contrario, le esportazioni verso il resto del mondo sono diminui-
registrate per coke e prodotti petroliferi raffinati (-36,8%), metalli di base e prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti (-33,3 %), mezzi di trasporto (-29,6, al cui interno gli autoveicoli fanno segnare un calo pari a -35,4 %), mobili (-22,2 %), prodotti tessili e macchinari e apparecchi n.c.a. (-21,3 %, per entrambi) e apparecchi elettrici (-20,9 %). Guardando solo al commercio estero con i paesi dell’Ue, sottolinea l’Istat, nel mese di luglio la dinamica tendenziale delle esportazioni è stata negativa verso tutti i maggiori partner commerciali, con contrazioni particolarmente significative verso Spagna (-
30,9%), Germania (-22,2 %), Austria (-22,1 %), Regno Unito (-22 %), Polonia (-18,8%), Grecia (-17,3%), Paesi Bassi (-17,1%) e Francia (-16,5%); tra i principali comparti, si è registrata una flessione contenuta di alimentari, bevande e tabacchi (-0,5%) e flessioni consistenti di metalli di base e prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti (36,4%), mezzi di trasporto (-33,7%), all’interno dei quali gli autoveicoli (-37,9%), macchinari, apparecchi elettrici (-26,3%), articoli in gomma e materie plastiche, altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (-18,2%), prodotti delle altre attività manifatturiere (-18,2%) e prodotti tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-16,1%).
Insomma, nonostante la crisi l’export sembra quasi tenere: le flessioni nei quantitativi indicano un maggiore prezzo unitario per i prodotti venduti. L’Italia regge, anche perché è attaccata al traino degli altri paesi che piano piano escono dalla crisi. Il mercato interno invece continua a languire. Ma questa è tutta un’altra storia.
parato ha risposto militarmente alla conta interna.
In generale in tutta Italia il dibattito nei congressi locali non si è arricchito di grandi contenuti. Pochi giorni fa a Perugia, scherzando con gli iscritti e riscuotendo un certo successo, Bersani ha detto: «Dicono che voglio rifare il Pci e la Dc. Magari!». Che ci creda o meno e in che termini Bersani ci creda o meno, conta fino a un certo punto. Quel che conta è che la captatio benevolentiae dell’ex ministro alla Sviluppo dice tutto sui quadri intermedi del Pd che partecipano ai congressi e sull’attuale constituency del partito. L’episodio rileva la sostanziale continuità della “pancia” del Pd con quella del vecchio Pci, salvo una piccola aggiunta di democristiani di sinistra. I congressi locali hanno registrato l’indisponibilità di questa “pancia” ad arricchirsi di nuove esperienze politiche, sociali, civiche e - perché no - esistenziali. Il progetto democratico che puntava ad un deciso allargamento della rappresentanza sociale del partito conosce, al momento, una preoccupante fase di stallo.
speciale Onu
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on si ferma l’insorgenza talebana contro i nostri soldati. Ieri pomeriggio, altri due paracadutisti della Folgore sono caduti feriti in un agguato nella provincia di Shindand, già teatro di scontri tra gli italiani e le forze nemiche nei giorni scorsi. Non sono in condizioni gravi, sono stati ricoverati entrambi in un ospedale da campo nei pressi della base. Ma rappresentano la nostra bandiera sul campo. Al di là del bollettino di guerra, negli Stati Uniti l’Afghanistan è divenuto una nuova fonte di polemiche tra Casa Bianca, Pentagono e le più influenti testate giornalistiche del Paese.
N
Non è passato inosservato, infatti, come Obama abbia evitato di parlare del conflitto in centro Asia durante il suo intervento all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. L’omissione si è sommata alle dichiarazioni del generale McChrystal – comandante dell’Isaf e delle truppe Usa in Afghanistan – riportate dal Washington Post. Il “four stars general”si è lasciato sfuggire una critica nei confronti della classe politica di Washington che Bob Woodward, segugio tra i più sopraffini per gli scoop giornalistici, ha subito raccolto. McChrystal ha sottolineato la necessità di un maggiore e più immediato appoggio politico ai soldati impegnati in un fronte difficilissimo. Al contrario, il silenzio di Obama alle Nazioni Unite è stato visto come uno strappo fra l’Amministrazione lontana dal teatro di guerra e chi invece vi è personalmente coinvolto. In questo senso, non poteva essere più esplicativo l’editoriale del New York Times di ieri. Nell’intervento si leggevano le critiche rivolte a un Presidente Usa che si è comportato egregiamente al Palazzo di Vetro. Ciononostante, perché Obama non ha parlato di Afghanistan? Regge poco la giustificazione di voler demandare maggiori responsabilità agli alleati della Nato. Il New York Times non cade nei tranelli degli uffici stampa che cercano di deviare la malizia dei giornalisti. A detta del giornale, il presidente Usa avrebbe dovuto spiegare come Isaf si stia impegnando per un adeguato addestramento delle truppe afgane e come intenda affrontare il problema Pakistan. A questo proposito, va detto che c’è una fronda del Partito democratico che desidererebbe vedere una totale inversione di rotta da parte di Obama rispetto alle iniziative, a loro giudizio, “scellerate” decide da George Bush. D’altro canto, all’interno del Congresso la maggioranza è favorevole a proseguire la guerra in senso
Il “New York Times” attacca: «All’Onu si è dimenticato di parlare dell’Afghanistan, la qu
L’America critica Ob
Il presidente sotto accusa per l’ambiguità della sua strategia E anche ieri, nella provincia di Shindand, feriti due paraca di Antonio Picasso responsabile e rifugge qualsiasi opzione di uscita senza prospettiva. In particolare, il deputato democratico Ike Shelton, presidente della Commissione difesa della Camera dei Rappresentanti, ha scritto una lettera al Presidente in sostegno di McChrystal.
ri. La richiesta che Obama ha rivolto di «negoziazioni senza precondizioni» è anch’essa un punto positivo. Tuttavia il Presidente degli Stati Uniti non ha risposto alle domande del suo generale. Ed ecco appunto che McChrystal è stato intervistato dallo
«Non c’è nessuna strategia che possa funzionare senza una campagna di contro insorgenza adeguatamente sostenuta dal giusto numero di soldati». Certo, riprendendo l’editoriale del New York Times, non si può negare che qualcosa è cambiato. La faccenda di Guatanamo - come pure le operazioni segrete della Cia sta emergendo in tutte le sue sfaccettature, soprattutto quelle più imbarazzanti per la Casa Bianca di oggi e quella di ie-
Secondo il quotidiano newyorkese, Barack avrebbe dovuto spiegare come Isaf si stia impegnando per l’addestramento delle truppe afgane e come intende affrontare il Pakistan
re dalle discussioni politiche dei palazzi di Washington. Da buon comandante, che condivide i disagi di guerra delle sue truppe, sta chiedendo a Obama di andare in Afghanistan e vedere con i propri occhi cosa stiano facendo i loro ragazzi insieme ai contingenti stranieri - e rendersene conto di persona. McChrystal sta chiedendo a Obama di comportarsi “alla Obama”, in maniche di camicia rimboccate, come già accaduto in altre circostante e come promesso durante la campagna elettorale.
stesso New York Times. Il problema, agli occhi del comandante, non risiede solo nell’eventuale aumento degli uomini o delle risorse. Così come non è quello di inviare un maggior numero di forze speciali, o
È pur vero che, agli occhi dell’elettorato ci sono altre priorità. La riforma della sanità pubblica vale cento conflitti in Afghanistan, oltre che un posto d’onore nella storia del Welfare State americano.
aerei senza pilota Predator. McChrystal sta inviando alla Casa Bianca un messaggio estremamente semplice. Basta con i tentennamenti! Basta con i dubbi sul tipo di surge da definire o di exit strategy da impostare. All’alto ufficiale non interessa che in Afghani-
stan si raggiunga un successo pedissequamente uguale a quello dell’Iraq, che per inciso adesso si sta rivelando nuovamente fallace. Mc Chrystal non vuole ascoltare teorie e tanto meno si lascia coinvolge-
speciale Onu
uestione più importante»
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Tavola rotonda con Mario Arpino, Monica Maggioni, Paolo Mastrolilli e Andrea Margelletti
La “sporca guerra” di Kabul si può ancora vincere. Ecco come «Le incertezze della politica danneggiano i nostri soldati in Afghanistan»: strategia e prospettive per gli analisti al convegno di ”liberal” a Siena di Franco Insardà
SIENA. Un minuto di silenzio. Sono iniziate così le giornate senesi della fondazione liberal. Il minuto di silenzio per i sei eroi di Kabul, proposto da Ferdinando Adornato, ha subito riportato la mente degli intervenuti alla tragedia che ha causato la morte dei sei militari. E il loro sacrificio è stato ricordato dal sindaco di Siena, Maurizio Cenni, dal presidente della provincia Simone Bezzini, da Vittorio Galgano, vicepresidente della Fondazione Monte Paschi di Siena e da Giuseppe Mussari, presidente del Monte Paschi di Siena. Era presente il generale Federico D’Apuzzo, prossimo comandante del contingente della Folgore in Afghanistan, che oggi riceverà il premio Liberal 2009. «La nostra città ha ricordato il sindaco Cenni – è stata particolarmente colpita da questa tragedia perché i ragazzi del 186 reggimento della Folgore fanno parte a pieno titolo della città e lo dimostra la partecipazione dei senesi» Giuseppe Mussari ha sollecitato «una profonda riflessione sui problemi complessi della nostra politica estera».
bama
Moderati dalla collega Luisa Arezzo la tavola rotonda con il generale Mario Arpino, il geopolitico Andrea Margellletti e i giornalisti Monica Maggioni, inviata del Tg1 e Fabio Mastrolilli, capo della redazione romana della Stampa ha affrontato argomenti che hanno interessato il pubblico. «Prima di parlare di strategia – ha detto il generale Arpino - va ricordato che tutto è è iniziato con grandi entusiasmi. Se non ci fosse stato l’attentato alle Torri gemelle e l’Afghanistan non avesse ospitato al Qaeda
la realtà afghana e di come sia cambiato lo scenario rispetto all’inizio della missione. «Quali erano le terminologie e gli slogan – ha detto la giornalista del Tg1 - dell’inizio e qual è la realtà di oggi. Il rapporto del generale Mc Cristal contiene una serie di considerazioni di buon senso, perché nessun può pensare di costruire un Afghanistan secondo i nostri modelli». Secondo la Maggioni «c’è oggi una diversità d’approccio tra Usa e Italia. Ci sarebbe da dire che bisogna fare più gli italiani, nel senso che i nostri militari svolgono un ruolo fondamentale di aiuto forte alla popolazione civile. Alcune delle cose che facciamo lì non si sanno». Il problema vero, secondo la giornalista, è il rapporto difficile che la nostra politica ha rispetto agli impegni presi: «Chi è in Afghanistan a fare il proprio dovere non dice di tornare a casa, ma rimane perplesso per lo spettacolo della politica». Il generale Arpino si è detto d’accordo con Maggioni sul fatto che le polemiche politiche interne con il rischio che «i recenti attentati possano in qualche modo esserne una conseguenza. I talebani non sono degli straccioni e l’informazione circola». E la Maggioni polemicamente ha concluso: «sarebbe opportuno che chi invoca il ritiro poi non scenda in piazza contro le donne in burqa».
Andrea Margelletti molto praticamente ha detto: «la exit strategy vera produce risultati, altrimenti è una ritirata. Gli afghani coltivano papavero da oppio per vivere, bisogna proporre alternative valide. Siamo lì per una missione per la pace, non in
a in Asia centrale adutisti italiani La crisi economico-finanziaria, inoltre, per molti osservatori sta rientrando. Tuttavia, il Presidente Usa deve trovare le parole più adeguate per convincere il 9,7% di suoi concittadini senza lavoro dall’inizio dell’anno (i dati sono dell’Us State Departement of Labour) che la fine del tunnel è vicina. In questo caso, Yes, we can! potrebbe passare per uno slogan già sentito.
Infine c’è un punto che va ricordato. Prima delle elezioni, era luogo comune far passare Obama come un inesperto di politica internazionale. Oggi lo strappo fra lui e McChrystal potrebbe esserne la dimostrazione. In realtà, più che di tensione fra i due, si potrebbe parlare dell’apertura di quel dialogo inteso come brain-
nessuno si sarebbe sognato di andare a disturbare i talebani». Il generale Arpino è stato molto chiaro: «Questa è una guerra. Siamo stati coinvolti e siamo in guerra Gli Usa sono intervenuti, poi c’è stato l’impegno in Iraq e a quel punto sarebbe dovuto intervenire l’Occidente in modo più convinto. Ma sono finiti gli entusiasmi. Non c’è stato un presidio sul territorio e non si è riusciti a ottenere risultati degni di nota». Secondo il generale Arpino vanno ridotte le eccessive ambizioni per lo sforzo «che abbiamo in mente di fare, importando in Afghanistan tutto il bene possibile: democrazia, diritti civili e un governo centrale e abbiamo voluto estirpare tutto il male possibile. E non si fa una riflessione su quale strategia proporre». Una dei problemi sui quali si è soffermata Monica Maggioni è la poca conoscenza che si ha del-
storming, scambio di opinioni, richieste esplicite e un nuovo approccio politico per risolvere il problema Afghanistan. Non è un caso che sempre citando la stampa d’oltre oceano - il più fiero avversario del New York Times,
il Washington Post, proprio ieri proponesse alla Casa Bianca di ricordarsi dell’esperienza britannica nella regione. Un secolo e mezzo fa, l’esercito della Regina Vittoria non riuscì a sottomettere gli antenati dei capi tribali con-
missione di pace. Si può parlare di vittoria quandi si portano le popolazioni dalla tua parte, non quando si uccidono0 tanti nemici». Per Paolo Mastrolilli, figlio di militari che è stato militare anche lui, «bisogna coinvolgere i Paesi vicini per evitare che diventi un nuovo Vietnam». Riflessione politica reazioni dimostrano come l’Italia non sia pronta Bossi e Fassino si spara per secondi Monica Maggioni ci ha tenuto a precisare l’identikit del talebani per «capire che cosa c’e dietro chi sono i livelli operativi. Lo jadista figura è lo stesso che agisce in Somalia e in altri posti, non esiste la centralizzazione del fenomeno». E oggi la risposta ai politici: Pier Ferdinando Casini, Massimo D’Alema, Beppe Pisanu e Ferdinando Adornato.
tro i quali combattiamo oggi, agguerriti allo stesso modo. Decisero quindi di contrattare, o meglio di pagare i più disponibili, spaccando il fronte nemico. È un’opzione che Obama non può permettersi di snobbare. Per dimostrare
che la Casa Bianca non vive nell’incertezza, ma al contrario è impegnata a definire un piano efficace, Obama deve saper accogliere le richieste di McChrystal e valutare i precedenti storici, anche quelli più cinici.
speciale Onu
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Vertice Onu. Il consiglio di Sicurezza approva una risoluzione presentata dagli Usa contro la proliferazione delle armi atomiche
Una speranza nucleare
Tutti d’accordo, per la pace e per salvare i bilanci: le armi strategiche costano troppo per un pianeta in crisi. Ma restano le incognite Iran e Corea del Nord di Pierre Chiartano l Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, presieduto per la prima volta da un presidente americano, ha approvato all’unanimità una risoluzione contro la proliferazione nucleare. «Ci saranno giorni difficili su questo cammino – ha affermato Barack Obama, subito dopo il voto per alzata di mano – ma ci saranno anche giorni di speranza, come questo».
I
È stata una riunione storica dei leader dei 15 Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu, dedicata alla non proliferazione nucleare. È la prima volta che sullo scranno più alto siede un americano e solo la quinta nella storia della Nazioni Unite che il consiglio si riunisce a livello di leader, da quando l’organismo è stato creato nel 1946. La prima riunione del Consiglio di sicurezza sul tema, avvenne il 31 gennaio del 1992 e fu presieduta da premier britannico John Major. Tra i partecipanti c’erano anche il presidente americano George H.W. Bush e Boris Yeltsin, presidente della Federazione russa. Tutti e cinque i membri permanenti del Consiglio di sicurezza – Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia – sono dotati di armamenti nucleari. Tra i quindici è mancato il libico, Muammar Gheddafi, sostituito dal suo ambasciatore al Palazzo di vetro. La Libia è tra i membri dell’attuale consiglio di sicurezza. Il vertice dedicato alla non proliferazione nucleare è stato voluto da Obama. Gli Stati Uniti hanno presentato una risoluzione che chiede la fine della diffusione delle armi atomiche e domanda ai Paesi firmatari del Trattato (Tnp) di mantenere il loro impegno a non sviluppare armi atomiche. La riunione è in sintonia con l’appello lanciato da Obama, in un discorso alcuni mesi fa a Praga, per intraprendere azioni concrete per liberare il pianeta della minaccia di un olocausto atomico. È anche in linea con i negoziato avviati tra Washington e Mosca per giungere a un nuovo trattato Start. Sia Obama che il presidente russo, Dmitri Medvedev, hanno dichiarato, nelle ultime ore, di es-
«Ci saranno giorni difficili su questo cammino – ha detto il presidente Barack Obama, subito dopo il voto per alzata di mano – ma ci saranno anche giorni di fiducia, come questo» sere fiduciosi di poter arrivare all’accordo «entro dicembre» (quando scadrà l’attuale trattato che regola i livelli degli arsenali nucleari dei due Paesi). La risoluzione esorta anche gli «altri Stati» che non hanno firmato il Tnp a partecipare allo sforzo per giungere al disarmo. Il documento non menziona Paesi specifici, ma è un riferimento a India e Pakistan – mentre Israele non ha mai am-
messo ufficialmente di avere ordigni atomici. La risoluzione, senza nominare direttamente Iran e Corea del Nord, cita anche le «grandi sfide esistenti al regime di non proliferazione nucleare». E proprio dal fronte russo arriverebbero buone notizie riguardo al contenimento del regime teocratico di Teheran. Forse perché ormai al Cremlino è cominciato il disgelo, dopo l’annuncio di Obama
di voler rinunciare al dispiegamento dello scudo antimissile nell’Europa dell’est. Infatti Mosca e Washington entro il mese di dicembre, come previsto, potrebbero raggiungere un accordo su un nuovo trattato di riduzione delle armi strategiche. Lo ha affermato il presidente della Russia Dmitri Medvedev proprio in occasione del Consiglio di sicurezza di ieri.
«L’incontro di oggi è un prologo su larga scala di un lavoro serio, che credo dovrebbe migliorare drasticamente la situazione nel mondo» ha affermato. «Faremo tutto il necessario per garantire che entro dicembre si raggiunga la firma del
documento», ha aggiunto. I presidenti di Russia e gli Stati Uniti al vertice di luglio a Mosca, avevano firmato un documento di intenti per tagliare di quasi il doppio il numero di testate nucleari; fino a 1500-1675 unità, così come i loro vettori, a 500-1100 unità. Le cifre esatte saranno concordate durante i negoziati su un nuovo trattato per sostituire trattato Start-1, che scade a fine 2009. E il nuovo vento tra Usa e Cremlino ha spirato anche sulla vicenda iraniana che ha dominato l’incontro di mercoledì a New York tra i due capi di Stato. Con la Russia che apparsa più vicina alla posizione americana per nuove sanzioni
speciale Onu eorge W. Bush «verrà ricordato come il presidente che ha vinto la guerra in Iraq. Barack Obama come quello che ha perso la guerra in Afghanistan». È la secca opinione di Arthur C. Brooks, presidente dell’American Enterprise Institute e scienziato sociale, che in un’intervista a liberal analizza il discorso pronunciato dal presidente americano all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Un discorso con luci e ombre, che «riflette un nuovo, e non migliore, approccio al vero problema: l’Afghanistan». Il discorso di Obama aveva un sapore “post-americano”. Cosa ne pensa? È un segno di debolezza da parte dell’amministrazione o soltanto di onestà intellettuale? Quello pronunciato due giorni fa dall’inquilino della Casa Bianca non è stato il peggiore dei suoi discorsi. Di solito, parlando in generale, fa cose peggiori: il suo ritornello preferito è quello delle scuse, quando chiede perdono per le cose che ha fatto l’America. Quello dell’Onu è invece un testo diverso, che prende semplicemente in considerazione i fatti. Nei fatti, gli Stati Uniti non possono fare tutto da soli: ma questo è un concetto migliore rispetto a quelli cui ci ha abituato. Di solito Obama dice che gli Stati Uniti sono la causa di tutti i problemi del mondo. Alle Nazioni Unite ha chiesto più cooperazione, e questo perché il nostro presidente apprezza di più i sistemi politici europei. Lui vorrebbe importare la vostra democrazia sociale anche da noi, e per farlo deve importare più trattati internazionali e più cooperazione a scapito della sovranità nazionale. Crede che gli Stati Uniti siano troppo individualistici, troppo a sé stanti: questo a Obama non piace per niente. E questo atteggiamento deriva dalla nascita di una nuova era americana? Il presidente parla per il Paese, per il suo partito o per sé stesso? Nessuna delle tre. Obama parla per il venti per cento dei suoi concittadini, che sono ostili al sistema “vecchio stile”. Questa percentuale include molti dirigenti governativi, che lo spalleggiano, ma va ricordato che il nostro presidente è stato eletto sull’onda di un moto avverso al partito Repubblicano. A vedere le cose come stanno realmente, il voto presidenziale è stato un voto “contro”. Contro la corruzione e la gestione precedente, che derivava da
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verso Teheran. Se non vi sarà una risposta soddisfacente all’incontro con l’Iran, in programma all’inizio di ottobre, potrebbero appoggiare le iniziative Usa. Anche i britannici hanno creato pressione su Ahmadinejad. David Miliband, lanciava l’ennesimo avvertimento al regime degli ayatollah: e lo faceva a nome del cosiddetto 5+1, in vista della ripresa dei colloqui sul controverso programma nucleare di Teheran, prevista per il 1 ottobre prossimo a Ginevra. In quell’occasione «ci aspettiamo una risposta seria dall’Iran», ha ammonito Miliband a proposito della richiesta di rinunciare all’arricchimento in
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Il direttore dell’American Enterprise, Arthur C. Brooks
«Obama ha fatto un ottimo discorso. Sembrava europeo» «Bush sarà ricordato per la vittoria in Iraq. Mentre Barack non sa decidersi su Kabul» di Massimo Fazzi molti fattori: questi sono esplosi dopo il congresso del partito Repubblicano. Mentre i democratici hanno usato una strategia diversa e, come si è visto, migliore: hanno ottenuto moltissimi seggi al Congresso grazie al loro approccio. Il risultato, però, è che molti dei nostri dirigenti sono oggi di estrema sinistra. Nel suo intervento, il presidente Obama non ha quasi nominato l’Afghanistan. Oggi [ieri per chi legge] il New York Times lo ha accusato di aver ignorato la «questione primaria» per il Paese. Lei cosa ne pensa?
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conflitto contro i talebani è più complicato, ma non si possono voltare le spalle e coprirsi dietro questo fatto. La cosa ironica, se vogliamo, è che George W. Bush verrà ricordato come il presidente che ha vinto la guerra in Iraq. Barack Obama come quello che ha perso la guerra in Afghanistan. L’uomo che lo stesso Obama ha nominato per quella guerra, il generale McChrystal, è l’uomo giusto per quel lavoro: lui dà dei consigli, chiede delle truppe e il presidente non decide. Servono decine Stati Uniti devono essere più chiari su di migliaia di altri soldati, per vincere cosa vogliono e perché. quel conflitto. Obama sembra invece L’ultima domanda riguarda la politica americana: il Segretario di Stato sembra essere sparito dalla scena, e molti si chiedono perché. Lei cosa ne pensa? C’è una rottura in vista con Obama? Questa è una domanda che si pongono tutti, qui in America. È evidente che si sia raffreddata la situazione fra i due, ma non saprei dire quale sia il motivo alla base. Ci convinto che l’intelligence possa fare sono due scuole di pensiero sull’argomentutto il lavoro, ma non è così. to: una dice che la Clinton se ne voglia anCosa pensa del coinvolgimento dare, che sia pronta a fare il Governatore di un qualche Stato. E questo perché gli della Nato? Vorreste più aiuto? Ovviamente sarebbe bello avere un attriti con il presidente sono troppi e di nacontributo maggiore da parte delle po- tura totalmente diversa l’uno dall’altro. tenze occidentali ed europee coinvolte L’altra scuola sostiene che quello attuale è nella guerra afgana. Quello che Wa- un momento talmente critico che il presishington sembra non capire è che devi dente abbia intenzione di guidare in priparlare con i tuoi interlocutori, devi es- ma persona la diplomazia americana. sere onesto con loro, devi far capire co- Personalmente non saprei cosa dire, se sa sta succedendo se vuoi maggiore non che quello di Hillary Clinton è il lavopartecipazione. Chi è andato laggiù sa ro più difficile del mondo: fare il Segretacome vanno le cose: la Nato potrebbe rio di Stato distrugge. Sono simpatetico implementare la sua presenza, ma gli nei suoi riguardi.
Il presidente è stato eletto solo perché gli americani hanno voluto punire i Repubblicani. E ora ogni volta dimostra di preferire i sistemi sociali tipici del Vecchio Continente
È stata una cosa terribile. Sicuramente, la guerra in Afghanistan è il problema peggiore che deve affrontare l’amministrazione Obama, ma lui non riesce ad affrontarlo con il giusto spirito. Il presidente è molto interessato alla strategia e molto poco alla tattica. Durante la campagna elettorale, è andato avanti dicendo che quella in Iraq era la guerra sbagliata e quella in Afghanistan, invece, giusta. Molti elettori democratici la pensano come lui, ma adesso deve fare qualcosa. Bush ha cambiato tutto, nel conflitto iracheno, mentre a Kabul le cose non cambiano: va detto che il
proprio dell’uranio, rivolta alla Repubblica Islamica dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania.
Altrimenti, ha lasciato capire il capo della diplomazia di Londra, non mancheranno conseguenze adeguate. Ricordiamo, per dovere di cronaca, che il presidente iraniano aveva, nei giorni scorsi, dichiarato che Teheran non aveva alcun inte-
resse a sviluppare un’arma atomica. E che il programma atomico era diretto solo a scopi civili. Sul fronte mediorientale sono invece arrivate le critiche di Hamas verso la Casa Bianca, per aver chiesto, sempre mercoledì, alle Nazioni Unite la ripresa del negoziato di pace in Medio Oriente senza precondizioni. In una dichiarazione inviata all’Associated Press, il gruppo palestinese, la cui leadership politica si trova in esi-
In alto, Arthur C. Brooks, direttore dell’American Enterprise. Nella pagina a fianco, dall’alto in senso orario: il presidente iraniano Ahmadinejad, il dittatore nordcoreano Kim Jong-il, il presidente americano Barack Obama e infine il leader russo Vladimir Putin
”
lio a Damasco, afferma che con questa proposta gli Usa – che in precedenza avevano richiesto a Israele un congelamento completo delle colonie – avrebbero fatto un passo indietro. Secondo Hamas, che non manca mai di usare i toni della propaganda, il vertice a tre sarebbe servito all’amministrazione Usa per ribadire la sua posizione a favore dell’«occupazione sionista, a spese dei diritti nazionali dei palestinesi».
Tornando agli scenari aperti dalla nuova risoluzione Onu, da segnalare la posizione espressa da Londra. Il Premier Gordon Brown aveva già ventilato l’intenzione di ridurre i
progetti di costruzione dei sottomarini nucleari britannici. Lo aveva reso noto nei giorni scorsi Downing Street. Brown vorrebbe ridurre da quattro a tre il numero di sottomarini nucleari previsti dal governo britannico.
Una soluzione che facilita il compito del premier inglese. Gli permette di dimostrare di essere tra i primi Paesi ad allinerasi al nuovo vento post-nucleare e fa un grosso favore alle disastrate casse britanniche e alle forze armate, rimaste a corto di fondi. Rinunciare a un solo sottomarino della classe Trident, significa far risparmiare all’erario di Sua maestà diversi miliardi di euro.
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Islam. Militanti di Boko Hamar ammettono: «Addestrati in Afghanistan» prima vista potrebbe passare come una delle tante guerre o guerriglie dimenticate dell’Africa. Se non fosse per gli ultimi sviluppi. Abdulrasheed Abubakar, giovane militante del gruppo fondamentalista nigeriano Boko Hamar, ha confessato di essere stato addestrato in Afghanistan al fine di esportare nel cuore dell’Africa le cognizioni di combattimento acquisite dai talebani. L’episodio fa riferimento agli scontri violentissimi che si sono verificati lo scorso luglio nel Borno, una regione nordoccidentale della Nigeria. In quei giorni la guerriglia aveva lasciato sul terreno circa 800 morti fra le forze governative e quelle del Boko Hamar. Oggi questa rivelazione potrebbe andare a incastrarsi come ultimo tassello di un puzzle che gli osservatori della sicurezza nell’area stanno cercando di costruire da tempo. Ovviamente pensare a una presenza fisica dei talebani in Africa sub sahariana è inverosimile, non solo per motivazioni geografiche ma anche ideologiche.Tre sono le ragioni strutturali che hanno condotto a questo fattore. Prima cosa, il 95 per cento dei suoi oltre 150 milioni di abitanti è musulmano.
A
Il Corano quindi costituisce un elemento nettamente aggregativo che contrasta (secondo fattore) con la frammentazione etnica della società. Il terzo elemento riguarda la ricchezza di risorse in idrocarburi racchiuse nel sottosuolo nigeriano. In questa ottica, i gruppi armati promotori del jihad in loco, in primis al-Qaeda, hanno trovato un contesto ottimale dove intervenire. Quella nigeriana è una società divisa e connotata da focolai di guerriglia nel suo interno. È inoltre povera, ma mossa da un forte desiderio di emancipazione. Tuttavia vede le sue ricchezze depredate dai
Parte dalla Nigeria una nuova al Qaeda Il petrolio e la cacciata degli occidentali fanno gola ai seguaci di Osama bin Laden di Giovanni Radini
Nell’Africa sub-sahariana è impensabile vedere una presenza fisica dei militanti talebani. Ecco perché il jihad “importa” futuri kamikaze nuovi colonizzatori stranieri. Facile, di conseguenza, far passare la Guerra santa come un elemento sia aggregante che sia volto a contrastare gli occidentali. Ben più difficile però è cercare di capire come un gruppo quale Boko Hamar abbia ottenuto il privilegio di
poter combattere a fianco dei talebani in Afghanistan e poi da lì tornare in patria per proseguire la propria lotta armata. Boko Hamar, per onestà d’analisi, risulta essere un soggetto dall’identità poco definita nella galassia del terrorismo islamico sub-sahariano.
Alcuni osservatori lo valutano come la “migliore versione locale di al-Qaeda”, altri invece ne fanno un attore di seconda categoria. Ci sono tre considerazioni da fare che, se viste da una certa prospettiva, potrebbero confermare le rivelazioni del giovane Abubakar. La posizione geografica della Nigeria per il terrorismo islamico in Africa è strategica. Fuori dalle rotte dell’immigrazione clandestina e dalle piste del Sahara, è co-
munque un avamposto sul Golfo di Guinea. Il Jihad qaedista potrebbe raggiungere il Borno da nord, attraverso l’Algeria e il Niger, ma anche da est, passando dal Ciad. Le ultime indicazioni fanno sapere che le armi prelevate ai combattenti del Boko Hamar giungevano proprio dal Paese centro-sahariano. In entrambi i casi si tratta di piste lunghissime, proiettate addirittura verso l’attuale epicentro del jihad, in Afghanistan. Tuttavia quest’ultimo - e questo è il secondo punto - rappresenta uno scenario dove la leadership di al Qaeda si è logorata da tempo.
La frammentazione della guerra e la molteplicità dei gruppi in armi non permette più a bin Laden di emergere come guida di un’alleanza antioccidentale. Questo è possibile invece nel contesto africano, dove eventuali rivali al concetto del jihad non sono abbastanza influenti per poterne scalfire l’efficacia propagandistica. Infine, il petrolio. Il progetto del gasdotto transahariano, per collegare la Nigeria con l’Algeria (e quindi l’Europa) fa gola a tanti, non solo ai governi locali, oppure a grandi investitori stranieri. Si tratterebbe infatti di un’infrastruttura dall’identità schiettamente occidentale, nel cuore del Sahara, in contrasto con gli interessi localistici delle tribù e dei gruppi etnici di tutta la regione. Insomma, un baluardo da abbattere per il terrorismo islamico. Da questo all’appoggio del gruppo combattente il passo è breve. Come già accaduto in passato - nel caso dei Balcani, della Cecenia e della stessa Algeria - l’Afghanistan sta assumendo il ruolo di “scuola applicata di guerra” per tutti i mujaheddin - di qualunque colore - che intendano portare il jihad nella propria terra una volta tornati a casa.
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La Ue: «È un piano adottato nel 2007, non si torna indietro»
La dura accusa del Premio Nobel in un’intervista a “The Times”
«I tetti nazionali alle emissioni non sono negoziabili»
Shirin Ebadi: «L’Occidente ha abbandonato il mio Iran»
BRUXELLES. Continua a far
TEHERAN. L’Occidente è troppo morbido con il regime iraniano, preoccupato molto più della propria sicurezza che dai diritti umani. È una dura accusa quella lanciata dal premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, in un’intervista pubblicata dal quotidiano britannico The Times. Parlando con un giornale inglese, Ebadi punta il dito anzitutto contro Londra. Ebadi spiega al giornale di aver visto «confermati» i suoi «peggiori timori» quando ha visto l’ambasciatore britannico all’insediamento del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. «È stato in quel momento - afferma Ebadi che ho sentito che i diritti umani sono stati trascurati. Mi
discutere la presunta lettera che sarebbe stata spedita la scorsa settimana dal premier Silvio Berlusconi al presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso, per annunciare l’apertura di un negoziato destinato a modificale il tetto alle quote di emissione di Co2 imposto dall’Europa all’Italia. Secondo Barbara Helfferich, portavoce del commissario europeo all’Ambiente, Stavros Dimas, i tetti nazionali «non sono più negoziabili». Le quote, dice la Helfferich, «sono stati già stabiliti, e i piani di assegnazione sono stati adottati con una procedura fissata dalle norme europee».
La portavoce del commissario ha detto di «non aver visto la lettera» del premier italiano ma di esserne a conoscenza attraverso la stampa (probabilmente su Il Sole 24 Ore che ieri mattina ha pubblicato la notizia). La Helfferich ha anche ricordato che il piano italiano per limitare le emissioni di Co2 (per il periodo 2008-2012) è stato adottato nel 2007. Quanto alla sentenza del Tribunale di primo grado dell’Ue, che ieri ha annulato la decisione con cui Bruxelles aveva imposto una riduzione delle quote di Polonia e Estonia, Helfferich ha detto
L’annuncio di Bangkok: «Sconfiggeremo l’Aids» L’Oms conferma (in parte): abbiamo nuove speranze di Massimo Ciullo a sperimentazione di un nuovo vaccino contro l’Hiv, condotta in Thailandia, rinnova le speranze nella comunità scientifica per debellare l’Aids, ritenuta la “peste del XXI secolo”. I recenti fallimenti di altri test avevano indotto molti scienziati a pensare che sarebbe stato impossibile trovare un rimedio per la Sindrome da immunodeficienza acquisita. L’Organizzazione mondiale della Sanità e l’Unaids, l’agenzia delle Nazioni unite che si occupa della lotta contro la diffusione del virus, hanno invece affermato che i risultati della ricerca tailandese «infondono nuove speranze» per la scoperta di un vaccino in grado di fermare l’Hiv. Il nuovo antidoto messo a punto in Thailandia è in realtà, la combinazione di due precedenti vaccini (rivelatisi singolarmente inefficaci), e sarebbe in grado di abbassare sensibilmente (31 per cento in meno) la possibilità di rimanere contagiati dal virus. Si tratta dell’Avac, scoperto in Francia dalla Sanofi-Pasteur, e brevettato dalla multinazionale Aventis e dell’Aidsvax, originariamente svidalla luppato Vaxgen Inc. e ora di proprietà della Global Solutions for Infectious Diseases, un’associazione no-profit per la lotta all’Aids, animata da ex-impiegati della stessa azienda farmaceutica. Quello effettuato in Thailandia è stato un esperimento su vasta scala, il più grande finora effettuato a livello mondiale, che ha coinvolto 16.000 volontari. Nonostante i modesti risultati, «si tratta della prima prova certa della possibilità di sviluppare un efficace vaccino preventivo» contro l’Hiv, ha detto il colonello Jerome Kim, responsabile per gli studi in questo campo per l’esercito statunitense, che insieme al National Institute of Allergy and Infectious Diseases ha sponsorizzato le ricerche thailandesi. Kim ha sottolineato che «la combinazione dei due vaccini è molto più forte di ogni suo singolo componente». Il dottor Anthony Fauci, direttore dell’Istituto Americano, ha smorzato gli entusiasmo, affermando che questa “non è la fine della strada”, ma non ha potuto nascondere la sua soddisfa-
L
zione, dicendosi effettivamente sorpreso e compiaciuto dai risultati ottenuti. La sperimentazione è stata condotta sotto la supervisione del ministero della Sanità tailandese, e i ricercatori hanno utilizzato un ceppo del virus molto diffuso nel Paese asiatico.
Secondo gli scienziati non è ancora possibile stabilire se il nuovo cocktail di antidoti possa rivelarsi efficace contro i ceppi africani o statunitensi del virus. Ogni giorno nel mondo, secondo le stime dell’Unaids, 7500 persone rimangono infettate dall’Hiv e l’Aids ha provocato, nel 2007 la morte due milioni di ammalati. Viste le cifre dell’epidemia e le proiezioni per i prossimi anni, soprattutto in Africa e in Asia, anche un piccolo argine contro la diffusione del virus avrebbe un impatto estremamente significativo. La nuova combinazione dei due vecchi vaccini ha un approccio più aggressivo nei confronti dell’infezione operando sinergicamente su due livelli: il primo stimola una risposta più efficace del sistema immunitario all’attacco del virus; il secondo mira ad un rafforzamento delle stesse difese immunitarie dell’organismo. Nessuno dei due vaccini nei test precedenti aveva evitato il contagio da Hiv e molti scienziati, quando nel 2003 è iniziata la sperimentazione tailandese, avevano sollevato parecchie perplessità e dubbi sulla sua efficacia. Lo studio è stato condotto su due gruppi di giovani uomini e donne tailandesi, in età compresa tra i 18 e i 30 anni. Al primo gruppo sono state somministrate quattro dosi di Alvac e due di Aidswax per oltre sei mesi, mentre al secondo solo un placebo. Nessuno dei volontari era al corrente di ciò che aveva assunto. Tutti sono stati avvertiti dei rischi potenziali che potevano correre sottoponendosi alla sperimentazione. Ogni 6 mesi, i partecipanti dovevano sottoporsi al test dell’Hiv e il protocollo è proseguito anche per i 3 anni successivi alla vaccinazione. Alla fine, degli 8.197 volontari “vaccinati”, 51 sono rimasti infettati contro i 74 a cui era stato somministrato il placebo.
Il nuovo antidoto è in realtà un’inedita combinazione di due precedenti vaccini (che si erano già rivelati inefficaci)
che l’esecutivo Ue «sta studiando il caso in vista di un eventuale appello». Una conferma, anche se indiretta, dell’esistenza della lettera, è arrivata da Lucio Malan (Pdl), segretario di presidenza del Senato, che in una nota afferma: «Berlusconi ha fatto benissimo a chiedere di rinegoziare le quote di emissione di anidride carbonica e male fa la Ue a considerare le proprie decisioni come dogmi non soggetti ad alcuna possibilità di modificazione di fronte a nulla. Le politiche europee su questo tema sono velleitarie e irragionevoli, e, con il grimaldello dell’ambiente, entrano in decisioni di politica energetica che sono di competenza degli stati membri».
dispiace davvero dover dire che l’Occidente si interessa più della propria sicurezza che dei diritti umani. Penso che sbagli. Paesi non democratici sono più pericolosi di una bomba atomica. Sono i Paesi non democratici che minano la pace internazionale». Secondo il premio Nobel, l’Occidente avrebbe dovuto imporre sanzioni sul regime iraniano per i brogli elettori e l’uccisione, i maltrattamenti e l’arresto di oppositori.
Il Foreign Office ha già replicato alle accuse di Shirin Ebadi. «Abbiamo dichiarato categoricamente - ha dichiarato un portavoce - che l’Iran deve esser ritenuto responsabile per le terribili violazioni dei diritti umani di cui tutti siamo stati testimoni dalle elezioni. Non crediamo che sia d’aiuto ai nostri importanti interessi in queste aree boicottare le occasioni formali di Stato». Ebadi, che non è ancora rientrata in Iran, ha spiegato di esser stata «minacciata di morte». Lei però insiste a voler tornare a Teheran entro due mesi. E sfida il regime: «Ormai l’opposizione ha conquistato uno slancio che non si può arrestare. La gente ha raggiunto il punto di non ritorno. Sono sicuro che vincera».
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Ritratti. Esce per le Edizioni Mediterranee un’appassionante biografia della Montessori a cura di Paola Giovetti. Una storia che comincia nel 1907
Tutti figli di Maria Dalla prima Casa dei bambini alla fama mondiale: chi era la donna che rivoluzionò i metodi educativi di Marino Parodi roviamo a immaginare un pianeta senza scuole e senza insegnanti, un pianeta in cui lo studio è sconosciuto e ciò nonostante i suoi abitanti – semplicemente vivendo e sostenendosi a vicenda – pervengono alla conoscenza di tutta la realtà e a conservare nella loro mente tutto ciò che hanno appreso... Insomma, vi sembra che stiamo fantasticando? Ebbene, tutto ciò, per quanto possa apparire pure fantasia, è una realtà. Si tratta dell’approccio alla conoscenza proprio del bambino. Tale è infatti il percorso che egli segue. Infatti egli apprende tutto senza rendersi conto che sta imparando e così facendo passa dalla dimensione inconscia a quella conscia, inoltrandosi nel regno della gioia e dell’amore». Queste parole di Maria Montessori, figura centrale della pedagogia a livello mondiale, possono già dare un’idea del metodo formativo ed educativo assolutamente rivoluzionario, da lei ideato.
«P
A riproporre l’interessantissimo personaggio e la sua opera è un nuovo, riuscito libro di Paola Giovetti: Maria Montessori. Una biografia, appena pubblicato dalle Edizioni Mediterranee. L’autrice riesce a mettere bene in luce ciò che costituisce, in definitiva, l’asse portante della personalità, nonché il motivo ispiratore centrale di questa donna straordinaria: la sua profonda spiritualità. Tale aspetto fondamentale viene spesso messo in ombra dai pur sempre numerosi promotori della riscoperta di Maria Montessori e del suo metodo. La grande svolta da lei realizzata diventa ancora più evidente se si tiene presente che, all’epoca in cui Maria elaborò il proprio sistema, imperversava una mentalità assai autoritaria, specialmente a livello di formazione ed educazione, la quale tendeva a vedere nel bambino e nell’adolescente per lo più pu-
pazzi da ammaestrare secondo i comandi della scuola e della famiglia. Non che fossero mancati nel corso dei secoli, in particolare degli ultimi due che precedono le scoperte della Montessori, filosofi ed educatori di chiara fama, i quali si erano chiaramente espressi in favore di principi liberali sul piano della formazione del bambino e dell’adolescente (pensiamo soltanto a Jean Jacques Rousseau e a Johann Heinrich Pestalozzi, per non citare che due esempi particolarmente significativi).Tuttavia la dottoressa Montessori seppe andare assai più in là dei suoi precursori, approfondendone alla grande
le intuizioni ed elaborando un sistema assai più completo dei loro, agevolata peraltro da un clima storico, quello dei primi decenni del secolo scorso, particolarmente sensibile alle innovazioni culturali e scientifiche. Ciò le permise tra l’altro di esportare il suo metodo in tutto il mondo, mentre le precedenti pedagogie orientate in senso liberale, per così dire, erano fondamentalmente restate monopolio di ristrette cerchie di iniziati. A chi le chiedeva in che cosa consistesse il suo metodo, questa donna straordinaria, molto più conosciuta e valorizzata all’estero che non in patria, la quale tra i suoi grandi ammiratori vantava tanti grandi del secolo, da Tagore a
Gandhi, da Freud ad Adenaeur, da Marconi a Pio XI, rispondeva, enigmatica: «Nell vita». In effetti, il metodo di Maria Montessori deriva dall’osservazione diretta dell’esperienza, alieno da dogmi e da pensieri astratti di qualunque genere, ed è tutto orientato verso l’esperienza. Una fiducia incrollabile in Dio e nell’uomo, o per meglio dire nel bambino, da lei considerato maestro dell’adulto e di conseguenza dell’uomo, può considerarsi il motivo ispiratore di questa donna che pare essere riuscita a conciliare tanti aspetti chiave, la cui difficile sintesi può in fondo considerarsi il segretp del successo di qualunque impegnativa missione e, se vogliamo, della vita stessa. La Montessori seppe infatti essere profondamente religiosa e spirituale pur mantenendosi sempre lontana anni luce da qualunque bigottismo e dogmatismo, animata da profondissimi ideali e al tempo stesso estremamente concreta, autorevolissima senza mai scadere nel dispotismo, rigorosa eppure brillante e ricca di senso dell’umorismo. È il caso di aggiungere che le intuizioni montessoriane circa lo straordinario potenziale della coscienza umana sono state pienamente confermate da tante ricerche scientifiche portate avanti negli ultimi decenni.
Agli inizi del secolo scorso, San Lorenzo era un quartiere popolare di Roma dove imperversava la miseria: lì, il 6 maggio 1907, grazie al generoso contributo di un banchiere filantropo, veniva inaugurata la prima Casa dei Bambini e vedeva al tempo stesso la luce il metodo montessoriano. Mara Montessori era all’epoca una giovane dottoressa in medicina, una delle prime donne ad aver conseguito tale laurea nel nostro Paese, nata a Chiaravalle (Ancona) trentasei anni prima, da una coppia assai singolare: padre alto funzionario
Nella foto grande, Maria Montessori attorniata dai piccoli ospiti della sua Casa dei bambini. La prima venne fondata a Roma, nel 1907. Più in basso, a sinistra, una foto dell’educatrice che seppe rivoluzionare l’approccio educativo grazie al Metodo. A destra, la sua effigie nelle vecchie ”mille lire” delle Finanze, madre coltissima, cattolica e liberale. I principi di fondo della pedagogia e della psicologia montessoriana possono riassumersi nel modo che segue. Innanzitutto, il bambino va considerato come un essere dotato di una personalità organica, completa e autonoma. Si tratta quindi di aiutarlo a sviluppare la propria volontà, lasciandogli lo spazio opportuno affinché possa prendere decisioni autonome, nonché elaborare un pensiero e un’azione altrettanto autonomi. Di conseguenza occorre offrire al bimbo opportunità adeguate affinché egli possa diventare consapevole delle proprie esigenze di apprendimento ed agire di conseguenza. Infatti al bambino non basta “imparare”, egli mira infatti a orientare il proprio apprendimento verso scopi precisi. Infine, è necessario aiutare il bimbo a superare le difficoltà, vincendo la tentazione a scansarle. Allo scopo di realizzare tali obiettivi, la Montessori erige il “lavoro libero” a cardine del proprio sistema. La scelta delle attività da svolgere è infatti affidata al bambino stesso, al quale spetta pure la decisione circa i ritmi e la durata del proprio lavoro, nonché a proposito di un altro punto importante: se
cioè preferisca giocare o lavorare da solo oppure in compagnia. Libertà di scelta e valorizzazione di risorse e responsabilità individuali sono insomma parole d’ordine del programma montessoriano. Tale ampia facoltà di scelta porta il bambino a elaborare un sistema disciplinare interiore, il quale trae la sua origine dall’interiorità del bimbo stesso, invece di venire elaborato dall’educatore. L’organizzazione del lavoro, capace di stimolare l’autonomia del bambino, gioca altresì un ruolo determinante nel metodo. Ogni viresta sitatore puntualmente colpito dall’atmosfera gioiosa e creativa che si respira nei vari centri, asili e scuole che si ispirano a Maria Montessori. Le numerose Case che nel giro di pochi anni sorsero dapprima in Italia e poi all’estero divennero subito meta del pellegrinaggio di gran dame, giornalisti, scienziati, filantropi, sacerdoti e curiosi.
Nella sua concezione, il bimbo apprende senza rendersi conto di imparare: libertà di scelta e amore
Oggi come allora, a colpire gli osservatori è il silenzio che regna nelle aule, peraltro arredate in base a quei principi di libertà così cari alla fondatrice. Un silenzio non imposto, ma interiorizzato, assai importante se si tiene presente che in tale risorsa richiede la chiave di ac-
cultura
cesso alla riflessione e di conseguenza, alle mille risorse nascoste, utilissime, ad esempio, a individuare la soluzione a tanti problemi quotidiani. Uno psicologo si rammaricava recentemente, in un articolo pubblicato su un autorevole quotidiano, dell’aperta diffidenza sostanzialmente sempre dimostrata dalla dottoressa marchigiana nei confronti della psicanalisi freudiana, confessando di non riuscire a comprendere come la Montessori potesse aderire alla Teosofia. Proprio qui sta il punto, che evidentemente molti, addirittura tra gli autorevoli studiosi, a cent’anni dalla nascita del metodo, non hanno ancora compreso. Tenendo presente che la Teosofia è una complessa scuola religiosa e di pensiero, fondata da Madame Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891), la quale vuole fondere le religioni in una sola, assorbendo principi scientifici, è evidente che, senza impostazione e finalità profondamente religiose e spirituali, tutto il sistema montessoriano si scioglierebbe come neve al sole (della Società Teosofica, la quale raccoglieva tra l’altro eminenti personalità della cultura e della scienza, la Montessori fece sempre parte, a partire dal 1899).
È evidente infatti che Maria, profonda conoscitrice delle Scritture, si lasciò ispirare dal-
la grande considerazione che Gesù dimostra per i bambini e seppe prenderla molto sul serio. A questa profonda conoscitrice dell’anima, abituata a stupire un po’ tutti, tra l’altro, per la sua capacità di leggere nel cuore di chiunque le stesse davanti, non potevano sfuggire certe ingenuità di fondo della costruzione freudiana, benché tra i suoi più illustri ammiratori la grande educatrice van-
tasse, come accennato, lo stesso professor Freud. Prima tra tutte, l’esasperazione del ruolo della sessualità, per quanto obiettivamente rilevante, nella coscienza e nella vita umana, a scapito della dimensione religiosa e spirituale, il cui carattere insostituibile ai fini della piena realizzazione della personalità è invece stato assolutamente recuperato da tanta importante psicologia successiva a Freud (in particolare da Carl
Gustav Jung). Anche in tal senso Maria Montessori si è dunque rivelato un grande precursore. D’altra parte la profonda spiritualità di cui è intessuta tanto la vita quanto l’opera di questa grande figura non poté che finire rafforzata dalle dure e numerose prove che la nostra si trovò ad affrontare nel corso della sua lunga esistenza. Fu il caso della maternità che la giovane Maria si vide costretta a celare per ben quindici an-
ni: non erano certo tempi favorevoli alle ragazze madri. Dalla relazione col collega Giuseppe Montesano, grande amore della sua vita, nel 1898 era infatti nato un bimbo, Mario. Poco dopo il giovane lasciò Maria per sposare un’altra donna e per la ragazza madre fu un trauma terribile, che per tre giorni di seguito la vide coricata per terra, immobile e muta. Poi però si scosse e con grande dolore si
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vide costretta, d’accordo con Montesano, ad affidare il figlio a una coppia che peraltro non gli fece mancare attenzioni e affetto. Maria faceva comunque visita regolarmente a Mario, senza però rivelargli di essere sua madre. Fu però il bimbo a intuire la verità e ad affrontare direttamente lo scabroso tema con la madre, per la quale tuttavia la rivelazione costituì un grande sollievo. Quando Mario aveva ormai quindici anni, Maria poté comunque prendere il figlio con sé. Tra i due si sviluppò un’intesa strettissima, tanto che Mario Montessori, il quale assunse appunto il cognome della madre, doveva diventare il principale collaboratore della madre e tale restare sino al trapasso di lei, che avverrà in Olanda, in un paesino del Mare del Nord, nel 1952. Tra le prove del suo percorso Maria dovette infatti affrontare anche l’esilio. Infatti il successo della prima Casa dei Bambini e la successiva apertura di tante altre, nonché la pubblicazione del suo Metodo, nel 1909, assurto subito al rango di bestseller internazionale, fecero di Maria una celebrità: addirittura il New York Times del 1913 le dedicò la copertina, definendola «la donna più interessante del mondo». Il fascismo, particolarmente ghiotto di personaggi capaci di dar lustro alla nazione, non poteva lasciarsi sfuggire un boccone così gustoso, tanto più che tra Maria e Mussolini scorreva una certa simpatia, probabilmente riconducibile agli ideali di socialismo umanitario e democratico cari alla pedagogista. Prova ne sia che per circa un decennio il regime appoggiò la diffusione del metodo montessoriano e promosse la creazione di nuove Case dei Bambini.
Tuttavia l’idillio a un certo punto si ruppe: Mussolini, sempre più determinato a consegnare tutta la formazione e l’educazione dei giovani al regime, cominciò a non poterne più di quella «rompiscatole» – sono parole sue – la quale dovette allora per forza di cose riparare all’estero, negli Stati Uniti prima, in India poi – ove rimase per tutta la durata della Seconda Guerra Mondiale – infine in Olanda, tutti Paesi nei quali, coadiuvata da una fidata cerchia di collaboratori portò instancabilmente avanti la sua opera, a suon di ricerche, nuove Case, conferenze e libri. Già nel 1924 aveva fondato l’Opera Montessori, col compito di diffondere nel mondo il metodo scientifico fondato dalla pedagogista, nonché di formare gli
insegnanti accertandosi tra l’altro che in tutte le scuole, che si rifanno alla grande marchigiana, il programma si svolga nel pieno rispetto delle regole e dei materiali da lei ideati. Seguirà nel 1929 la fondazione dell’A.M.I., l’Associazione Internazionale Montessori, sorta per una esigenza di unità e identità del movimento montessoriano. L’ultima fase dell’esistenza di Maria fu costellata da riconoscimenti pubblici ad altissimo livello a non finire, da parte di vari Stati, non ultima l’Italia: nel 1947 la Repubblica la richiamò ufficialmente in patria e l’Assemblea Costituente organizzò allo scopo una grande cerimonia in suo onore. Lo Stato italiano le offrì inoltre l’opportunità di potenziare l’Opera e di istituire vari corsi presso le scuole pubbliche. Tuttavia le Case dei Bambini non erano state pensate come scuole, bensì come progetti sociali capaci di esprimere gli ideali del cosiddetto “movimento umanitario”, il cui fine consisteva in una profonda rigenerazione spirituale dell’umanità. Il metodo montessoriano, che ha formato milioni di donne e di uomini nel globo nel corso del suo secolo di vita, gode tuttora nel mondo di ottima salute. Le Case dei Bambini, presenti un po’ in tutti i Paesi, sono 5000 soltanto negli Stati Uniti, duecento in Italia, addirittura 1140 in Germania, 200 in Olanda e 800 in Gran Bretagna. È il caso di rilevare che l’Italia non sembra fare particolarmente onore alla sua figlia illustre, non solo sul piano numerico, ma anche perché, mentre da noi le scuole montessoriane sono quasi tutti istituti privati e tutte elementari (a eccezione di una scuola media recentemente aperta a Bolzano), negli altri Paesi la galassia montessoriana comprende tante scuole medie, parecchi licei e tantissime scuole pubbliche di ogni ordine e grado.
Secondo uno studio pubblicato recentemente dall’autorevole rivista americana Science, i bambini montessoriani risultano più creativi e rivelano maggiori capacità di socializzazione rispetto ai coetanei.Tra gli innumerevoli “figli” di Maria Montessori moltissimi hanno raggiunto posizioni di spicco nella società: basterà citare Larry Page e Sergey Brin, diventati supermiliardari grazie all’invenzione dell’ormai diffusissimo motore di ricerca Google, i quali hanno recentemente dichiarato: «Dobbiamo la nostra fortuna anche al fatto di aver studiato in una Casa dei Bambini di Maria Montessori». I genitori particolarmente ambiziosi sono avvisati.
cultura
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Piattaforme. Il dibattito su arte e industria, a Verona, “ospitato” dal tavolo del Mediterraneo di Michelangelo Pistoletto
Come abitare il Mare Nostrum di Angelo Capasso l centro dello Spazio Aletti, ad ArteVerona, si trova il tavolo del Mediterraneo di Michelangelo Pistoletto: una grande piattaforma in specchio sagomato da onde sinuose che ritagliano il profilo del mare dei miti, della storia di una civiltà intera, il centro del mondo. Tutt’attorno un numero di sedie diverse, con forge che spaziano dalle più recenti sedie di design fino a sedute tradizionali di culture ed epoche remote. Un Mediterraneo rappresentativo della sua complessità: questo è il set dove si è tenuto l’incontro “Cultura e Industria culturale”, promosso da Ram radioartemobile e Love Difference, e con la partecipazione diretta di protagonisti dell’industria: Mauro Corinaldi (Presidente Associazione Contemporanea Verona, Ad Media Arts), Filippo Fabbrica (Love Difference Project Manager), Mario Pieroni (Ram radioartemobile), Alberto Minotti (Ad Alberto Minotti Group), Michelangelo Pistoletto (artista), Pier Luigi Sacco (docente di Economia della Cultura Università Iuav Venezia, membro direzione scientifica del Festival dell’Arte Contemporanea), Renato Stauffa-
produttivi. È una lezione che Pistoletto ha messo in atto da tempo con Cittadellarte, la fucina di idee della Fondazione Pistoletto che ha spazio a Biella, dove gli artisti e gli operatori dell’arte vivono nella ricerca di soluzioni per un nuovo modo di intendere l’impegno dell’arte nella società. Love Difference, è uno dei progetti di Cittadellarte, nasce con lo scopo di raccogliere attorno alle regioni che si affacciano sul Mar Mediterraneo persone e istituzioni interessate a creare nuove prospettive che portino oltre e al di là del tragico conflitto tra le di-
A
L’obiettivo è interpretare lo spazio, attraverso le opere, come una agorà aperta al confronto, per riflettere sul mondo e, soprattutto, sull’arte che cambia
cher (Ad Alias) e il sottoscritto. Il dibattito è trasmesso in differita dalla web radio Ram Live (http://live.radioartemobile.it/).
L’occasione eccezionale dell’accostamento di una fiera di Design (Abitare il Tempo) e di Arte (ArteVerona) ha quindi ispirato un confronto tra operatori di contesti diversi ma con un obiettivo comune: rilanciare il dialogo tra arte e industria. In che modo? Una via unilaterale è possibile: ovvero a partire dall’arte, perché questa non è la produttrice di utopie, ma il cannocchiale aristotelico sul
le sedute i Mediterranei, e la condivisione del progetto nel più piccolo dettaglio da parte dei suoi tecnici. A contatto con l’energia spirituale dell’arte, la produzione trasforma i processi aziendali in una comunione di intenti compartecipe, consapevole, interessata, appassionata. L’arte può contribuire a cambiare l’industria proponendosi come modello adatto a trasformare la qualità del coinvolgimento umano nei processi
mondo in grado di scendere fino al dettaglio più infinitesimale della sua natura. L’arte ha in alcuni casi assorbito in sé molte istanze dei processi industriali, ma lo ha fatto sottoponendoli ad un’inevitabile trasforA destra, l’artista mazione. È quanMichelangelo to sottolinea l’inPistoletto. gegnere StauffaSopra, quattro cher nel suo inimmagini dello tervento: racconSpazio Aletti ta la sua espedi “ArteVerona”, rienza del lavoro dove si trova con Pistoletto in il suo “tavolo occasione della del Mediterraneo” realizzazione del-
versità culturali. «Love Difference è un nome, uno slogan, un annuncio programmatico». Il Mediterraneo è un contenitore di differenze e il primo nucleo delle diversità culturali tra i popoli. La lunga attività svolta da Love Difference è spostare la tendenza a mantenere questo specchio d’acqua antica che riflette ogni fervore della storia sociale, politica, economica, artistica del presente verso la periferia geografica e culturale nel
protagonismo dei numeri del mondo angloamericano, asiatico, cinese. È qui che vivono le grandi questioni mondiali. Posto al centro della conversazione relativa ad “arte e industria”, quel tavolo si propone come un’alternativa percorribile.
L’arte quindi indica una via, si offre come prospettiva complessa per comprendere il mondo nel suo mistero fatto di dettagli. Soltanto comprendendo questa complessità, recuperando il valore della “differenza”, è possibile costruire un mondo che opera secondo un progetto a lungo termine, con ampio respiro, al di fuori del terrore. È un messaggio laico quello di Cittadellarte perfettamente in linea con la lettura orizzontale della storia, necessaria oggi per ricollocare gli equilibri attorno ad un centro possibile. Quel centro è certamente il Mediterraneo, la culla della filosofia, della religione, dell’economia, della politica. Il luogo della riflessione. A Verona quindi si riflette attorno a un tavolo che riflette, perché fatto di specchi (koiné specifica del Michelangelo dell’Arte Povera) dove il pensiero non s’assorbe, o sprofonda nell’enigma, ma rimbalza attraverso la parola nel dialogo e propone soluzioni certe. Lo sottolinea Mauro Corinaldi: «Questo è un tavolo fatto per dialogare». Ovviamente la forza del progetto è incarnata nell’innovazione. Non nel nuovo a tutti i costi, ma nella ricerca, che in questo caso si tinge di profondamente umano in quanto coinvolge i rapporti sociali. Gli oggetti presentati da Radioartemobile per l’occasione hanno proprio questo carattere conviviale. Lavori straordinari, soluzioni per l’abitare create da artisti: le lampade di Franz West, il divano e la carta da parati di Donatella Spaziani, le lampade e l’imbottito trasformabile di Getulio Alviani. Sono opere e pensieri che interpretano lo spazio come una agorà aperta al confronto, per riflettere sul mondo e, soprattutto, sull’arte che cambia.
cultura
25 settembre 2009 • pagina 21
telli, poco più che decenni, che sono i primi segni tangibili della prosperità dei Chironi, vengono ritrovati uccisi, depezzati e gettati in un cespuglio: a fare da cibo ai cinghiali, nella migliore delle ipotesi. È il tempo della Seconda Cantica, che non può essere che quella dell’Inferno, con un dolore da sopportare così grande che non si può dire a parole. Ma ci sono Gavino e poi Luigi Ippolito e poi ancora Marianna a tenere viva la fiamma della stirpe. Anche se è una stirpe bacata, la cui origine - l’essere al mondo -, si conferma sempre più causa e fondamento della sofferenza: Gavino scappa da Nuoro nella speranza di poter vivere altrove, pacificamente, la propria omosessualità, ma non farà mai ritorno a casa; Luigi Ippolito, pensiero brillante e spirito d’azione, parte per la Prima Guerra Mondiale ma, capo del plotone che deve giustiziare i suoi stessi uomini che hanno tradito, perde il senno - in quelle che sono le pagine più belle del romanzo - e non farà mai ritorno a casa; solo Marianna ritroverà il padre Michele Angelo a Nuoro, dopo essersi trasferita a Cagliari, aver vissuto da signora prima e aver viso morire in un tentato sequestro marito e figlioletta poi.
eppo o prima origine di una famiglia, con riguardo agli ascendenti e ai discendenti», dice il Dizionario Sandron della lingua italiana alla voce «stirpe», precisando che l’etimo è il latino stirps, ovvero radice; tra i vari significati e accezioni che il termine può assumere, il Grande Dizionario della lingua italiana della Utet pone anche «origine, causa, fondamento». E allora che Marcello Fois, per raccontare nel suo nuovo romanzo le vicende di Michele Angelo Chironi e Mercede Lai e dei loro tanti figli e pochi nipoti, abbia scelto come titolo appunto Stirpe (Einaudi, 250 pagine, 19 euro), è dato di prima importanza, quasi un’immediata dichiarazione d’intenti sul contenuto.
«C
Quella dei Chironi infatti non è la storia di una semplice famiglia, né di una dinastia (vocabolo, quest’ultimo, che da tempo siamo soliti associare alla trasmissione dai genitori alla prole di fortune economiche e successi: e non è davvero questo il caso), ma il racconto del propagarsi di uno stato di peccato originale ed endemico dal capostipite ai figli, e da questi, a loro volta, ai propri figli. La stirpe che inizia (forse) con Michele Angelo è «nata sofferente»: non, si badi, nella sofferenza, e quindi possibile frutto di una situazione esterna che l’ha informata, ma germogliata col dolore connaturato, come a dover espiare una colpa prenatale, o forse il solo fatto, nudo e crudo, di stare al mondo. Del resto, il romanzo è soprattutto la lunga ricerca da parte del personaggio principale di un senso e di un ordine finali che spieghino il suo lungo patire, iniziato fin dai primi attimi di vita e proseguito quando, a nove anni, Giuseppe Mundula, vedovo e senza figli, lo sceglie in un orfanotrofio per trasmettergli tutto ciò che ha - la sua competenza di fabbro -, nella speranza di sapere un giorno di non esser passato invano su questa terra. Ed è proprio lavorando in chiesa per conto del padre adottivo, quando è ancora «dischente», apprendista, che Michele Angelo, giovane adulto inconsapevole del mondo, incrocia lo sguardo della sedicenne Mercede: «la differenza fra loro è chiara: lei sa tutto, lui non sa niente», e non potrebbe esserci allora unione più salda, forgiata non già dal Destino, che è una cosa troppo seria, ma dalla testardaggine «del più sordo desiderio». Le cose, in questi anni incorniciati nella Prima Cantica, quella del Paradiso, procedono bene per i Chironi: nascono due gemelli, Pietro e Paolo; all’officina che Giuseppe ha ceduto a Michele Angelo non manca mai il lavoro, tanto che bisogna ampliarla, e la disponibi-
Tra gli scaffali. Da Einaudi arriva il nuovo romanzo di Marcello Fois
Una stirpe di sangue, ferro e speranza di Alessandro Marongiu lità è tanta che la famiglia può acquisire una vigna e fare una donazione ingente per l’erezione della statua del Redentore sul Monte Orthobène. Ma poiché il contesto è quello che è, e si vive nel paese di Nur che si appresta, almeno nelle in-
tenzioni, a divenire città di Nuoro, successo e fortuna sono sinonimi perfetti di invidia, ché quello che uno ha in più dell’altro, anche se se l’è sudato e lo merita, è un affronto a una pretesa parità che non può restare impunito. E difatti i fra-
Storia di una famiglia «nata sofferente» (in bilico tra Paradiso, Inferno e Purgatorio) alla ricerca di un senso e di un ordine finali
L’autore di “Stirpe”, Marcello Fois, e la copertina del libro. Sopra: un disegno di Michelangelo Pace
Siamo alla Terza Cantica, quella del Purgatorio, in cui l’accettazione del dolore ha soppiantato sentimenti ed emozioni, e preso il posto della vita vissuta: fino almeno all’epifania finale, a quell’agnizione che, forse, è il punto d’arrivo della ricerca di senso e ordine che il progenitore ha avviato nel momento stesso in cui è venuto al mondo. O forse no, chissà. Stirpe è davvero un bel libro, spesso in dialogo col Salvatore Satta di Il giorno del giudizio e, in misura minore, col Verga di I Malavoglia, e forse non immemore del lavoro di Saramago nel mischiare Storia e storie. Dai suoi contemporanei si distingue e per la scrittura di Fois, e per un affascinante senso profondo di cristianità che lo attraversa e lo plasma. Una cristianità, è bene precisare, che non conosce trascendenza, che è paradossale e paradossalmente tutta terrena: ci sono sì le fiamme come all’inferno, ma sono quelle dell’officina di un fabbro; ci sono sì Pietro e Paolo, ma sono martiri per quello che di materiale rappresentano, e non per quello in cui credono; c’è sì una ricompensa finale a ripagare di tutta la sofferenza patita, ma la si raggiunge in un umanissimo Purgatorio, anziché in un ultraterreno Paradiso.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Straits Times” del 24/09/2009
Stop ai cinesi allenta l’avanzata cinese nelle miniere australiane. Giovedì il popolo del Chung Kuò annaspava nel tentativo di aumentare la sua quota per lo sfruttamento delle risorse minerarie in Australia. Un società di Pechino ha rinunciato a portare a casa una mazzetta di azioni per 400 milioni di dollari dell’Australian rare-earths miner, che gli avrebbe permesso il controllo dell’impresa. In aprile, il ministro del Tesoro, Wayne Swan, adducendo motivi legati alla sicurezza nazionale, aveva rifiutato una richiesta pubblica d’acquisto per 26 milioni di dollari dell’impresa statale cinese Minmetals. la transazione prevedeva che gli imprenditori di Pechino che si sarebbero fatti carico anche dei debiti che oberavano la Oz metals.
R
Gli impianti della società, che è una delle principali a livello locale, sarebbero troppo vicini a Woomera (un sito militare di interesse strategico, ndr). Alla fine il governo australiano ha approvato un contratto che prevede che Minmetals possa acquisire altri impianti minerari della Oz, ma in siti differenti. Ma c’è di più nell’elenco degli affari non andati in porto. Il China nonferrous mining group ha rinunciato alla sua offerta per la Lynas corporation, che è la proprietaria della più grande miniera la mondo – non ancora sfruttata – delle cosiddette terre rare (come lo scandium, l’yttrium, la magnetite e i 15 lantanoidi, ndr), portando come motivo le rigide condizioni imposte dall’Australia’s Foreign investment review board. L’autorità di controllo sugli investimenti stranieri aveva chiesto alla Cnmc di rivedere la sua offerta, in modo da restare sotto il 50 per cento della proprietà e in netta minoranza in seno al consiglio d’amministrazione di Lynas. «A causa degli impegni supplementari richiesti dalll’Afirb, la Cnmc ha rinunciato all’operazione sulla Lynas» si legge in un comunicato ufficiale. Inoltre sta
montando una netta opposizione, sia del governo che dell’opinione pubblica australiana, verso qualsiasi operazione cinesi che tenti di acquistare attività nel settore delle risorse naturali. Nei giorni scorsi, era intervenuto anche il ministero della Difesa di Camberra, che aveva posto il veto sull’investimento cinese per le miniere di magnetite nei pressi di Woomera. Il sito è utilizzato come poligono per il lancio di missili e i test per nuovi armamenti, usato dai militari australiani e dai loro più stretti alleati (tra i quali anche gli Usa, ndr). Il veto dei militari non darà che poche chance all’operazione proposta da Pechino, che era condotta da una joint venture tra un’azienda collegata all’impresa statale cinese, Wuhan iron&steel, la Wugang Australia Resources, insieme con l’Australia’s Western plains resources.
Queste decisioni giungono in momento molto delicato per le relazioni tra Camberra e Pechino, dopo che un responsabile della società australiana Rio Tinto (proprietaria di miniere d’alluminio, di cui la Cina ha una grande necessità, ndr) è stato arrestato a Shangai, con l’accusa di spionaggio commerciale. «Per un periodo molto lungo la Cina ha assunto una posizione molto aperta riguardo alle aziende che venivano ad investire qui da noi. Ci auguriamo che anche altri Paesi possano fare altrettanto, quando si
tratta di imprese cinesi», ha affermato giovedì, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Jiang Yu.
Il governo di Pechino è ansioso di poter accedere alle risorse australiane, per riuscire ad alimentare la sua industria meccanica in ripresa – soprattutto quella automobilistica. La Cina è rimasta “turbata” per il fallimento, quest’anno, di una grossa operazione commerciale, che prevedeva un investimento per 19,5 miliardi di dollari. Si trattava dell’acquisizione di azioni per il pachetto di controllo della società Rio Tinto, da parte della società di proprietà dello Stato, Chinalco. Rio dopo una lunga trattativa aveva poi deciso di abbandonare il tavolo delle trattative e era comincita la guerra di nervi tra le cancellerie dei due Paesi.
L’IMMAGINE
Ru486. Indagine conoscitiva del Senato… Ma per conoscere cosa? La commissione Igiene e Sanità del Senato ha deciso di avviare una commissione d’indagine conoscitiva sulla pillola abortiva Ru486, di recente entrata a tutti gli effetti nella farmacopea ufficiale dopo l’approvazione dell’Aifa. Così la commissione, per dare sfogo istituzionale a quanto richiesto a viva voce questa estate dal presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, ha deciso di usare inutilmente i soldi dei contribuenti. Infatti non si capisce su cosa dovrebbe indagare e cosa dovrebbe conoscere, visto che l’introduzione della pillola Ru486 è fresca fresca e non c’è materia prima su cui indagare per eventuali utilizzi difformi dalla legge 194 sull’aborto. Inoltre, si tratta di materia che col Senato ha quasi niente a che fare, perché si tratta di una decisione dell’Aifa che non poteva non essere presa, perché dovere dell’Italia dopo i vari riconoscimenti a livello comunitario. È evidente che si tratta di questioni che non hanno nulla a che fare con la pillola abortiva in sé, ma con l’aborto.
Chiara
SOLIDARIETÀ A ANNO ZERO Pur non avendo mai avuto il piacere di essere ospiti della trasmissione di Santoro, almeno nell’ultimo quindicennio se non per essere messi alla gogna, i socialisti gli esprimono la loro più convinta solidarietà. Tantomeno ci piace la tv di Travaglio, infarcita di demagogia, senza contradditorio, com’è l’uso spregiudicato e politico che ne fa. Ciò non di meno riteniamo che nel servizio pubblico, proprio perché tale, debba esserci posto non solo per i Vespa e i Floris, ma anche per i Santoro e i Travaglio. C’è infatti una parte degli italiani che ne apprezza, a torto o ragione, stile e contenuti. D’altra parte non ci pare che al partito di maggioranza e al presidente del Consiglio
manchino tg, trasmissioni e intere tv per esprimere il proprio punto di vista. Per queste ragioni, anche se a malincuore, siamo solidali con Santoro. E perfino con Travaglio.
Lettera firmata
I DATI CONFERMANO COESISTENZA TREND POSITIVI I dati resi noti dall’Istat vanno considerati con attenzione e preoccupazione. Ma la situazione reale dell’occupazione e della disoccupazione smentisce le analisi e i numeri in libertà presenti nel dibattito politico, e mette in evidenza un contesto del mercato del lavoro molto articolato, nel quale coesistono trend di nuovo positivi e dati ancora critici. Ma è contrario alla verità un declino
In piena luce È un raggio di sole quello che illumina la caverna di Majlis al Jinn, in Oman. Grazie a tre grandi accessi superficiali l’antro - uno dei più grandi del mondo con i suoi 58mila metri quadri di superficie - gode di luce naturale quasi tutto il giorno. Per visitarlo è necessario scendere imbragati per quasi 160 metri. Dallo scorso anno però per ragioni di sicurezza, ne è stato proibito l’accesso
diffuso e generalizzato.
Francesco Comellini
INDAGINE SULLA RU486. POLPETTA AVVELENATA È una polpetta avvelenata contro le donne. Decidendo l’indagine conoscitiva sulla Ru486, l’ufficio di Presidenza ha fatto un primo
passo per cercare di colpire la legge 194. Designando come relatori, i senatori Raffaele Calabrò, Pdl, e Dorina Bianchi, Pd, ben noti per le loro posizioni convergenti con certa gerarchia cattolica, ha ipotecato la conclusione dei lavori.Tutto questo per obbedire alla richiesta di agosto del capogruppo del
Pdl, Maurizio Gasparri. Sarà un’indagine sobria? Ne dubitiamo. Per ora registriamo che invece di occuparsi dei problemi urgenti degli italiani, l’influenza suina ad esempio, il presidente Antonio Tomassini ha preferito fare propaganda ideologica.
D.P.
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Scusa le mie tante follie e puerilità… Non ci avete creduto per un solo istante che abbia potuto dimenticare, non è vero? Vi ho tenuto da parte una copia di prima scelta della pubblicazione e, se fosse rivestita di un abito indegno di voi, non sarebbe colpa mia, ma del rilegatore al quale avevo ordinato qualcosa di molto raffinato. Credereste che i miserabili (parlo del giudice istruttore, del procuratore) hanno osato incriminare due delle poesie composte per il mio caro Idolo (Lei, intera e A colei che è troppo gaia)? Quest’ultima è quella che il venerabile Sainte-Beuve dice essere la migliore del volume. È la prima volta che vi scrivo con la mia vera calligrafia. Se non fossi così oberato da incombenze e da lettere (l’udienza è dopodomani), approfitterei di quest’occasione per chiedervi scusa di tante follie e puerilità. Ma, d’altronde, non vi siete sufficientemente vendicata, soprattutto con la vostra sorellina? Ah! Piccolo mostro! Mi ha gelato un giorno che ci siamo incontrati e mi è scoppiata a ridere in faccia, dicendomi: «siete sempre innamorato di mia sorella e le scrivete ancora quelle lettere suberbe?». Ho capito subito che quando mi volevo nascondere, mi nascondevo malissimo e poi che, sotto il vostro bel viso, nascondete uno spirito poco caritatevole. Charles Baudelaire alla signora Sabatier
ACCADDE OGGI
MORE FUN NO MORE WAR A luglio scorso abbiamo lanciato un appello ad intellettuali, governanti e uomini d’azione chiedendo loro di indicarci la strada più opportuna per operare nel segno della pace, abbiamo chiesto di aiutarci a capire quali potessero essere le migliori azioni e le iniziative più efficaci affinché i giovani potessero dare il proprio contributo a favore della pace. Non è giunta alcuna indicazione di rilievo. Pertanto facciamo da soli. Durante la Giornata internazionale della Pace è stata annunciata la nuova campagna di GPac (www.gpace.net). Si chiama More Fun No More War, un motto che sta a significare più divertimento e più istruzione per i bambini e per gli adolescenti nei Paesi in conflitto, basta con l’uso di baby soldati. Questa nuova iniziativa parte da due considerazioni: 1) non sopportiamo l’idea che ragazzi e ragazze minorenni vivano la loro adolescenza costretti a “giocare” con fucili, mitra e bombe a mano, ancor meno che vengano utilizzati come kamikaze o spie di guerra. Come noi trascorriamo la nostra gioventù suonando e ascoltando musica, giocando a pallone o qualunque altro sport e imparando a crescere sotto la guida della famiglia e della scuola, così vogliamo anche questi ragazzi, che per innocenza loro (...e non per colpa loro) sono nati in una terra in conflitto senza alcun rispetto per l’infanzia, possano vivere la loro adolescenza con gioia e spensieratezza; 2) siamo fermamente convinti che se facessimo giungere loro (e ai loro genito-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
25 settembre 1956 Viene inaugurato il primo cavo sottomarino transatlantico, tra Scozia e Terranova 1981 Sandra Day O’Connor diventa la prima donna a essere nominata giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti 1983 38 detenuti dell’Ira evadono dal carcere di Long Kesh, vicino Belfast 1996 In Irlanda viene chiuso l’ultimo dei Magdalen Asylum 2003 Terremoto di magnitudo 8,0 della scala Richter al largo della costa di Hokkaido, in Giappone 2005Fernando Alonso diventa il pilota più giovane (24 anni) che vince un campionato di Formula 1 2007 In Italia per la prima volta viene trasmesso in televisione, da una tv generalista (La7), il film Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, del 1971 2008 La Cina invia nello spazio Shenzhou VII. È la terza missione cinese, dopo quelle del 2003 e 2005.Pprima missione a prevedere una passeggiata nello spazio
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
ri) il messaggio che i loro coetanei nel resto del mondo non si sparano addosso ma al massimo si sfidano a calcetto, questo farebbe sicuramente cambiare qualcosa, almeno nella loro coscienza. Molto probabilmente, non avendo contatti con il resto del mondo, questi ragazzi crescono convinti che sia normale così. Ecco perché ci impegneremo con ogni mezzo a nostra disposizione nel cercare di far giungere in quelle terre immagini, testi e quant’altro sia utile affinché si rendano conto che esiste una vita migliore. È nostra intenzione individuare e utilizzare ogni mezzo per smuovere le coscienze degli adulti nei Paesi in conflitto sulla totale ingiustizia e crudeltà dello sfruttamento degli adolescenti negli eserciti; sensibilizzare la gente comune e, soprattutto, i governanti di tutto il mondo civile affinché applichino tutte le pressioni possibili per mettere fine a queste barbarie; raggiungere e far prendere coscienza ai baby soldato nei Paesi in conflitto che una vita migliore è possibile e che principalmente qualcuno si sta preoccupando della loro situazione; supportare, diffondere e amplificare la voce ed il lavoro già svolto in questa direzione da parte di altre organizzazioni. Per raggiungere questi obiettivi abbiamo intenzione di tenere aggiornato il nostro sito con immagini, video, testi e quant’altro possa rendersi utile allo scopo; invieremo comunicati stampa ai media, alle istituzioni e alle organizzazioni preposte, sia in Italia che in lingua inglese all’estero.
L’ITALIA NON SARÀ UNA SOCIETÀ MULTIETNICA (II PARTE) Il relativismo culturale e della correttezza politica ci impedisce di essere chiari, critici e orgogliosi sui nostri valori e la nostra civiltà; il nostro relativismo religioso sempre più serpeggiante potrebbe portare una esplosione del nostro cristianesimo nei confronti dell’Islam. I nostri nuovi italiani, allora, devono integrarsi nella nostra società con i loro diritti e i loro doveri, rispettare le leggi dello Stato che li accoglie, con assoluta necessità di regolamentare i rapporti nel rispetto reciproco e nella libertà di culto garantita dalla nostra Costituzione. Dobbiamo rafforzare il loro senso di appartenenza per una integrazione dove tutti si identificano nello Stato e rispettano, ripeto, le sue leggi; dove tutti si riconoscono nella storia e nella cultura italiana. E per ultimo, non vi sarà mai un-integrazione se non c’è legalità: il criminale è colui che commette un reato al di là della sua cittadinanza, appartenenza o credo religioso, quindi le autorità competenti hanno strumenti giudiziari per affrontarlo; con fermezza deve essere allontanato dalla società civile. C’era un comico americano che diceva «Ho visto il nemico e siamo noi». E allora? Da una parte dobbiamo essere più tolleranti verso chi chiede aiuto alle nostre frontiere, rivedere con attenzione il bisogno interno della manodopera. Quanti clandestini hanno un lavoro, ma non sono regolari perché in esubero rispetto le quote ufficiali? Pensiamo soprattutto a settori come l’edilizia o l’agricoltura. Dall’altra parte dobbiamo essere rigidi nel far rispettare le nostre leggi, la nostra cultura, le nostre radici; non ci possono essere deroghe o tentennamenti; lo spettro che dobbiamo avere sempre davanti è la trasformazione del nostro continente in Eurasia, negando quell’identità occidentale fondata dall’umanesimo cristiano. Giancarlo Gonfalone C O O R D I N A T O R E P R O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L SI R A C U S A
APPUNTAMENTI SETTEMBRE 2009 OGGI SIENA - SANTA MARIA DELLA SCALA Alla luce dei tragici avvenimenti in Afghanistan, la fondazione liberal ha deciso di dedicare il convegno di Siena agli eroi di Kabul e alla continuità della politica estera italiana. Interverranno Pier Ferdinando Casini, Giuseppe Pisanu e Massimo D’Alema. SEGRETARIO
Giovani per la Pace
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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PAGINAVENTIQUATTRO
Scoperte. Tre diverse navicelle spaziali confermano la presenza di acqua ai poli del satellite terrestre
Il lato ghiacciato della di Giusy Cinardi stata alle 2 del pomeriggio di ieri, ora di Washingotn DC – le 20 ore italiane – la conferenza stampa indetta dalla Nasa al James E. Webb Memorial Auditorium che nei giorni scorsi aveva alimentato un bel po’ di voci tra quelli che di spazio e scienza se ne intendono. Alla Nasa, infatti, hanno tentato di tenere il segreto fino all’ultimo: «Verranno resi pubblici i risultati di varie rilevazioni compiute da differenti sonde mandate negli anni in orbita attorno alla Luna», è stata la risposta a tutti quelli, giornalisti e non, che hanno chiesto chiarimenti sul tema dell’incontro; il tutto seguito da un perentorio no comment. Ma nei corridoi dei più importanti isituti di ricerca in giro per il mondo si era oramai già diffusa la notizia che la Nasa avrebbe fatto un annuncio epocale: «C’è acqua sulla Luna». E alla fine se ne è avuta la conferma, prima ancora che la stampa si riunisse nel quartier generale della Nasa. Sono stati infatti pubblicati sul numero di Science Magazine nelle edicole americane già nelle prime ore della mattinata tre articoli, differenti nella firma e nei dettagli, ma legati da un unico fil rouge che anticipa e spiega quello che la Nasa ha voluto annunciare al mondo: lo stato delle ricerche sulla composizione del suolo lunare e l’incotrovertibile evidenza che davvero sulla Luna l’acqua c’è.
È
I dati di cui si parla sono quelli raccolti da tre diverse navicelle spaziali mandate in orbita attorno alla Luna: l’americana Deep Impact, la italo-americana Cassini e l’indiana Chandrayaan-1. Tre sonde diverse, con diversi tipi di strumentazioni a bordo, ma tutte concordi sulla presenza di molecole di acqua e di ossidrili - costituite cioè da un atomo di ossigeno e uno di idrogeno - sparse un po’ dovunque sul suolo lunare, con una maggiore concentrazione vicino ai poli. Già qualche giorno fa, sul Times of India,
LUNA l’agenzia spaziale indiana aveva dato l’annuncio che la sonda Chandrayaan-1, mandata in orbita nell’ottobre del 2008 aveva raccolto dati a sufficienza per poter confermare la presenza di acqua sul suolo lunare. A bordo infatti, assieme ad altri 11 strumenti, c’era anche il Moon Mineralogy Mapper (M3), uno spettrometro all’avanguardia, costruito dalla Nasa: l’apparecchio, semplificando, analizza la luce riflessa dalla superficie della Luna e ne studia lo spettro, riuscendo in questo modo a determinare quanti e soprattutto quali elementi formino il suolo. Car-
perto oggi apre nuove ed enormi prospettive, ma dobbiamo ancora capire i processi fisici che sono alla base di tutti questi meccanismi per essere davvero in grado di comprendere appieno quello che succede». I dati raccolti dall’M3 danno infatti qualche risposta, ma pongono allo stesso tempo interessanti interrogativi: da dove provengono le molecole di ossigeno e idrogeno? E in che modo l’acqua si sposta sulla superficie?
L’ipotesi a cui si crede ora è che le molecole di acqua, la cui origine è ancora da approfondire, migrino comunque verso le regioni polari dove finiscono, sotto forma di ghiaccio, in alcuni crateri, ultra-freddi, che mai vengono colpiti dalla luce solare. Spiega la Pieters: «Se davvero queste molecole si muovono così come noi crediamo, questo movimento sarebbe sufficiente a innescare un meccanismo che rifornisce in maniera continua e permanente questi crateri sempre in ombra». Acqua sulla Luna, dunque, così come era già stato detto per Marte. «Ma attenzione - avverte ancora la Pieters - quando parliamo di“acqua sulla Luna” non stiamo parlando di laghi, oceani e nemmeno di pozzanghere. Acqua sulla Luna significa presenza di molecole di ossigeno e idrogeno che interagiscono con le molecole di roccia e polvere al livello più superficiale - pochi millimetri - del suolo lunare». Un po’ difficile da immaginare per chi di chimica e geologia se ne intende poco, forse, ma una grande notizia comunque, che ha sorpreso anche gli stessi ricercatori: «Proprio non ce l’aspettavamo - ha scritto la Pieters - abbiamo davvero fatto un grande passo avanti ma ancora molti altri e molto importanti ne rimangono da fare».
L’ipotesi è che le molecole, la cui origine è ancora da approfondire, migrino verso le regioni polari dove finiscono, sotto forma di ghiaccio, in alcuni crateri, ultra-freddi e mai colpiti dalla luce solare le Pieters, geologa ricercatrice dell’americana Brown University di Providence, è principal investigator della missione indiana, responsabile dell’M3 e firma di uno dei tre articoli su Science. Ha spiegato che tutti gli elementi raccolti suggeriscono non solo che l’acqua c’è, ma che la formazione e la ritenzione di queste molecole è un processo in continua evoluzione e attività. Resta da capire ora come si formino queste molecole e da dove vengano; se davvero il processo di formazione venga favorito dal vento solare o se la presenza di ghiaccio nelle regioni polari della Luna sia legata o meno a quest’ultima scoperta. Ha tenuto infatti a sottolineare la scienziata: «È chiaro che quanto sco-