di e h c a n cro
91001
Le cose che non speri accadono più spesso di quelle che speri
9 771827 881004
Plauto di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 1 OTTOBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
A Piazza Tiananmen sfila l’esercito di liberazione reclamizzando nuovi armamenti comprati con i soldi destinati alle scuole
Repubblica Impopolare Cinese Oggi Pechino festeggia i sessant’anni della rivoluzione di Mao. Il più noto dei dissidenti scrive a liberal: «È stata una storia di corruzione e violenza cieca. E la potenza attuale è effimera» di Wei Jingsheng ono passati sessant’anni dalla presa di potere, in Cina, da parte del Partito comunista. I festeggiamenti per questo memorabile evento non sembrano però un raduno di persone felici: hanno più un tono di ansia e preoccupazione, come se stessero calando dei nemici sul Paese. Si dice che nella sola Pechino ci siano 1,2 milioni di poliziotti in tenuta anti-sommossa che si uniscono agli agenti in borghese. Più che una celebrazione sembra un ritorno ai tempi del ponte Lugou, l’evento che diede inizio agli otto anni di guerra sino-giapponese. Molto semplicemente, la scena che si presenta non è giusta. Questo deriva dal fatto che gli incaricati di gestire l’evento hanno perso la testa? Non proprio: sono stati costretti a organizzare le cose in quel modo. segue a pagina 12 servizi alle pagine 12, 13, 14 e 15
S
SONO OLTRE CENTO I MORTI
Il governo incassa alla Camera la sua venticinquesima fiducia
Storia e leggende di Samoa devastata dallo Tsunami
Passa lo scudo per gli evasori Via libera alla norma che estende il condono fiscale al falso in bilancio
di Maurizio Stefanini a pagina 18
Si è logorato il rapporto con Berlusconi
di Marco Palombi
Laboratorio Milano: aspettiamoci novità da Donna Letizia
ROMA. E venticinque. Il governo,
Le ragioni del “no” ai bond del governo
Le delusioni strategiche dell’esecutivo
Perché le banche Dal governo Prodi battono Tremonti al governo Bertolaso di Gianfranco Polillo
di Giancristiano Desiderio
a poltrona di Donna Letizia scotta, è non è detto che alle prossime elezioni… », ecco la battuta che ormai da settimane, e con crescente insistenza corre nella “Milano che conta”: politica ma soprattutto imprenditoriale, finanziaria e perché no, affaristica. Certo, la carica di sindaco di Letizia Moratti scadrà solo nella primavera del 2011, ed è da escludere che prima di allora qualcuno cerchi di sgambettarla; però su una riconferma le scommesse sono aperte. Letizia Moratti, nata a Brichetto Arnaboldi il 26 novembre 1949, è milanese purosangue, posseduta sin dalla giovinezza dalla tipica “grinta” ambrosiana, ovvero dall’incontenibile voglia “del fare”.
con quella votata ieri, ottiene la sua diciassettesima fiducia alla Camera che aggiunta alle otto del Senato fa appunto 25. Non solo. Oltre a incassare lo scontato appoggio del Parlamento, Silvio Berlusconi riesce pure in un colpo solo a mettere nell’angolo tanto il capo dello Stato, quanto il presidente della Camera. Partiamo dalla cronaca prima di spiegare bene come il premier è riuscito nel doppio intento. Cominciamo col dire che lo scudo fiscale nella versione Fleres – lo sconosciuto senatore autore dell’emendamento che estende il condono per gli evasori anche a reati gravi come il falso in bilancio – contenuto nel decreto legge che correggeva il precedente decreto anticrisi sarà approvato definitivamente a Montecitorio entro oggi e poi passerà all’esame del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale deve firmarlo prima che scada, cioè il 3 ottobre.
iulio Tremonti il temerario, ma anche il solitario. Lasciato solo a combattere la sua battaglia contro i poteri forti – quelli veri che sono rimasti – mentre sinistra e sindacato fingono di non vedere. Sono ciechi di fronte ad un meccanismo che, mai come ora, ha socializzato le perdite e privatizzato i profitti. Non solo le perdite proprie, ma quelle che saranno in capo a decine di aziende asfissiate dalla mancanza di credito. Questo è il retroscena del gran rifiuto da parte dei grandi gruppi bancari italiani (Unicredit e Banca Intesa) nei confronti dei bond che il Tesoro aveva messo loro a disposizione. Una misura necessaria che avrebbe rafforzato la posizione patrimoniale delle banche, consentendo loro di partecipare al rischio sistemico che grava sull’economia nazionale.
e cose buone fatte dal governo Berlusconi sono state fatte da Guido Bertolaso: poteri speciali per il commissario Bertolaso che ha lavorato bene a Napoli con la spazzatura di Bassolino e ha lavorato altrettanto bene all’Aquila con la prima fase della ricostruzione. Dunque, non è sbagliato dire, come ha sottolineato Casini ieri nell’intervista al Corriere della Sera, che il governo Berlusconi si è trasformato in governo Bertolaso. E allora, prendendo sul serio la boutade del premier di qualche giorno («Questo è il miglior governo degli ultimi centocinquanta anni») bisogna chiedersi: davvero Bertolaso è superiore al Camillo Benso conte di Cavour?
segue a pagina 6
a pagina 3
segue a pagina 2
segue a pagina 2
di Giancarlo Galli
«L
se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
194 •
G
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
L
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 1 ottobre 2009
prima pagina
Poteri deboli. Prodi era troppo fragile, la destra si crede troppo forte: anatomia di un vizio politico sempre più grave
Il Parlamento che non c’è
Lo «scudo penale», con l’ennesima fiducia, gli ha dato un altro colpo. Barbera, Ignazi e Sabbatucci ci dicono se esiste una via d’uscita di Gabriella Mecucci
ROMA. Mentre a parole ci si riempiva la bocca con la centralità del Parlamento, l’assemblea perdeva progressivamente potere. Eppure ci fu un tempo nel nostro paese in cui l’opposizione votava più della metà delle leggi. E la mediazione avveniva all’interno delle aule di Palazzo Madama e Montecitorio. Allora, ad essere criticato era proprio questo atteggiamento: troppa vicinanza fra maggioranza e opposizione, tanto da confodere i ruoli. Oggi siamo arrivati all’esatto opposto: il Parlamento funziona solo a colpo di voti di fiducia, maxiementamenti e simili. Quanto all’opposizione, conta assai poco. Che cosa è accaduto? Perché si è passati da un eccesso all’altro, senza trovare la misura giusta? Piero Ignazi, politologo, direttore della rivista il Mulino, ritiene che «il voto di fiducia sia una pratica fisiologica, il centrosinistra lo applicava perché era debole, il centrodestra perché si sente molto forte e quindi inattaccabile; altro discorso invece sono le continue deleghe che il Parlamenmto fa al governo». Questo non è
Secondo gli esperti, il populismo che ormai impregna il comportamento dei leader non può che dare un duro colpo al senso della rappresentanza normale ed è particolarmente «sbagliata la scelta dei maxi emendamenti attraverso i quali si stravolge una legge presentata dallo stesso governo». Assistiamo ad “uno sbilanciamento”del potere a vantaggio dell’esecutivo e del leader della maggioranza, mentre in passato c’era lo sbilanciamento opposto. Secondo Ignazi «anche allora la situazione meritava una correzione, ma ora si è esagerato. Occorre – osserva – mettere in moto dei processi che ci avvicinano ad una giusta mediazione». Un assestamento pragmatico che richiede «uno stile politico diverso del governo, un atteggiamento caratterizzato da maggior rispetto verso il Parlamento». C’è poi un problema più generale: «Il populismo, che ormai impregna il comportamento del leader e non solo, non può che dare un duro colpo, sino a demonizzarla, alla rappresentanza». Attenzione però a non «imputare tutto ciò al meccanismo elettorale; si tratta piuttosto di un problema politico». E, in fin dei conti, «non è questo il vero vulnus alla democrazia italiana, il problema sta altrove ed è rappresentato dall’accumulo di potere politico, economico e mediatico nelle mani del premier».
Giovanni Sabbatucci, storico, docente all’Università di Roma, parte da più lon-
La ragione del no ai “bond”
L’unico modello che convince
Tremonti battuto dalle banche
È solo il governo Bertolaso
di Gianfranco Polillo
di Giancristiano Desiderio
segue dalla prima
segue dalla prima
Non è quella, del resto, la missione dei banchieri? Non era quella la strada tracciata da uomini come Raffaele Mattioli o Enrico Cuccia: il primo ispiratore di tanti progetti industriali; il secondo, custode geloso del capitalismo familiare italiano, ma anche infaticabile difensore di uno spazio da sottrarre al predominio delle aziende di Stato? Oggi prevale la difesa a oltranza di uno status – bonus miliardari, gelosia nella distribuzione degli utili a favore di Fondazioni dall’incerta natura economica, ancor prima che giuridica – e di uno spazio di libertà che si confonde con l’anarchia. In questa zona d’ombra molte banche si comportano come se il fallimento della Lehman Brothers sia stato solo un incidente di percorso, mentre i grandi della Terra, riuniti a Pittsburgh, cercano regole generali per imbrigliare il moral hazard. Quel meccanismo che legava le retribuzioni del top management alla pura e semplice speculazione finanziaria. Più profitti sul mercato dei futures o dei derivati; maggiori retribuzioni per gli artefici di quel disastro.
La meraviglia è giustificata fino a un certo punto. Silvio Berlusconi, infatti, che non perde occasione per marcare la sua estraneità alla politica come professione - come se da quindici e passa anni non facesse politica a tempo pieno - è essenzialmente un tecnocrate. Il suo spirito più autentico è quello della organizzazione del lavoro: una sorta di superburocrate che dà il meglio di sé se risce a mettere tra parentesi la burocrazia e gli avversari politici, esterni e interni. Ma la politica è altra cosa e anche se il capo del governo ha una considerazione di sé che è per sua stessa ammissione superiore a quella che Alcide De Gasperi aveva di se stesso, non c’è dubbio che ciò che fa difetto al Cavaliere è lo spirito istituzionale. Lui deve essere popolare e se essere popolare significa dividere gli italiani, ebbene, vanno divisi. Quanto è accaduto domenica scorsa con la palese manipolazione dei fatti compiuta dal premier che non ha esitato a dire il falso sull’Afghanistan è emblematico: il compito di capo di governo è quello di unire il Parlamento e il Paese intorno alla politica estera, mentre Berlusconi fa il contrario. Del resto poi, a governare ”sul serio” ci pensa Bertolaso. Come dire: dal governo Prodi siamo passati al governo Bertolaso. Senza passare dal via.
Nulla di misterioso, quindi, nel “gran rifiuto”. I bond non saranno utilizzati e i ratios, che comunque si renderà necessario rispettare, saranno ottenuti comprimendo la leva finanziaria.Vale a dire dando minor credito alle imprese, operando cioè non sul denominatore – il patrimonio – ma sul numeratore: gli impieghi. Mai come oggi il tradizionale connubio tra impresa e sistema bancario rischia di incrinarsi e far emergere una sorta di potenza estranea ad una più stringente logica di sviluppo. Eppure, come spesso capita, le colpe non sono sempre e solo da una parte. Finora gli imprenditori hanno cercato il credito per evitare di investire nelle proprie aziende i necessari capitali personali. Molte volte, poi, si ricorreva a una sorta di triangolazione. Deposito soldi su un libretto al portatore. La banca mi concede un fido di importo corrispondente. Deduco gli interessi passivi dal reddito. Usufruisco di quelli che maturano sul libretto. Semplice come bere un bicchier d’acqua, anche se questa manovra era portata in frode ai creditori. Una gran giostra che finora ha funzionato, grazie ad una migliore congiuntura, anch’essa ricordo del passato.
Il governo Bertolaso però ha dei limiti che gli sono imposti dalle circostanze: un conto è controllare un’azienda in crisi, altro è proporre fatti, azioni, opinioni per fare quotidianamente l’Italia. Qui il governo Bertolaso, efficiente nelle emergenze, è esso stesso una continua emergenza. È l’idea stessa del governo come commissariamento del Paese e della politica che ci sta portando progressivamente verso il declino. «Un uomo solo al comando» andava bene quando c’era Fausto Coppi e sulle strade per correre in bicicletta. Ma al comando di un grande paese non ci può essere un solo uomo: il presidente del Consiglio è il riassunto di una complessità nazionale che, purtroppo, Silvio Berlusconi confonde, volontariamente o involontariamente non importa, con le sue semplificazioni comunicative e tecnocratiche. Il governo politico di un grande Paese è altra cosa.
tano e spiega che venti o trenta anni fa «non c’era la centralità del Parlamento, bensì la centralità dei partiti». Allora poi «la maggioranza parlamentare eleggeva l’esecutivo, non esisteva un’investitura diretta del premier». Oggi invece il voto popolare indica il primo ministro e quindi «l’esecutivo è molto più forte di allora». Quanto ai partiti «la loro natura è profondamente cambiata». Non si tratta però di rimpiangere una sorta di età dell’oro, 1per quello che mi riguarda – osserva Sabbatucci – ho criticato a lungo quel sistema dove i partiti avevano uno strapotere e dove c’era una legge elettorale proporzionale: non credo che attraverso la reintroduzione di questa si possa restituire un ruolo al Parlamento». I correttivi possibili di una situazione che comunque preoccupa lo storico sono diversi: «Innazitutto sarebbe sano dimezzare il numero dei parlamentari, cosa che darebbe a ciascuno di loro e all’intera assemblea una maggiore autorevolezza». Sabbatucci giudica poi “sbagliato” il sistema delle liste bloccate e pensa che «occorra restituire agli elettori il diritto di scegliere il proprio rappresentante o attraverso il collegio uninominale o attraverso il voto di preferenza. L’eletto – osserva – deve essere legato a doppio filo a chi gli dà il consenso e non deve dipendere, come accade oggi, dal partito, o peggio ancora, dal leader: così il parlamentare non avrà mai alcuna autonomia di giudizio».
Il bipolarismo viene giudicato una conquista da difendere anche se da correggere. Ma – secondo Sabbatucci – 1il vero modo per dare peso all’assemblea elettiva è il presidenzialismo con l’elezione del capo dell’esecutivo e del Parlamento in tempi diversi». L’esempio da seguire è quello americano. Quello francese infatti, pur
politica
1 ottobre 2009 • pagina 3
L’Aula si adegua: sì al condono. La parola a Napolitano
«E meno male che Tremonti voleva l’etica!» di Marco Palombi segue dalla prima
Il voto di fiducia sullo scudo fiscale imposto ieri da Berlusconi al Parlamento è l’ennesimo segno dell’impoverimento dell’Aula. A destra, il ministro Giulio Tremonti. A sinistra, Guido Bertolaso avendo alcuni vantaggi, relega l’assemblea parlamentare in un ruolo marginale rispetto al potere del presidente. Anche per Sabbatucci c’è poi un problema di “stile politico”, dell’atteggiamento più o meno rispettoso che l’esecutivo ha verso il legislativo. Insomma, Giovanni Sabbatucci ha in testa una serie di interventi per ridisegnare un nuovo ruolo dell’assemblea parlamentare: diminuzione del numero degli eletti, fine delle liste bloccate e istaurazione di uno “stile politico” diverso da quello che ha avuto il sopravvento sin qui. «Se tutto questo non darà risultati soddisfacenti – osserva – allora occorrerà ricorrere ad una riforma radicale: l’introduzione del presidenzialismo». Ed è questa la soluzione che sembra convincere il nostro interlocutore più delle altre.
Per Augusto Barbera, costituzionalista impegnato nelle fila del partito democratico, «non c’è affatto da stupirsi che l’esecutivo metta i voti di fiducia o faccia i maxi emendamenti». «Il problema – osserva senza mezzi termini – è quello di cambiare lo statuto del governo davanti qall’assemblea elettiva, altrimenti questi comportamenti saranno inevitabili». Non c’è nessuna grande democrazia per Barbera in cui il governo non possa esercitare un ruolo di orientamento dei lavori del Parlamento. «In Inghilterra è il capo dell’esecutivo a fissare l’ordine del giorno di Westmister, in Francia i parlamentari non possono presentare emendamenti che
aggravino le spese o limitino le entrate senza che ci sia l’autorizzazione del governo stesso. Solo in Italia, per anni e anni, si è battuta una strada opposta». E infatti il problema dei voti di fiducia e dei decreti legge non è di oggi, anche se oggi è diventato più stringente. Della debolezza dell’esecutivo rispetto al legislativo si sono lamentati in tanti: da Craxi a De Mita, da D’Alema a Berlusconi. Quindi – secondo Barbera – «il problema non nasce perché è cambiata la natura dei partiti, ma perché deveno cambiare le regole». Eppure, ci siamo riempiti la bocca di formule quali la centralità del Parlamento? «Già – risponde Barbera – questa però è pura retorica. E al massimo della retorica corrisponde una realtà di fatto miserevole: decreti legge, voti di fiducia, maxiemendamenti. Per la soluzione guardiamo all’Inghilterra: è lì che è nato il parlamentarismo e smettiamola di riempirci la bocca di frasi altisonanti». Ma poi conclude quasi sconsolato: «Occorrerebbe cambiare le regole con un accordi bipartizan, ma mi rendo conto che non è il momento...».
Se la malattia viene riconosciuta da tutti, le terapie sono fra loro amolto diverse. Non c’è dubbio però che così come è il meccanismo non funzioni e che lo stile politico dell’attuale maggioranza (ma anche quello di Prodi) non ha aiutato a migliorare la situazione. Le proposte per cambiare non mancano, andrebbero discusse però in sede politica perché non restino puro esercizio accademico.
Intanto ieri alla Camera s’è potuto assistere a quello che si potrebbe definire l’obbligato divorzio tra l’opposizione e Gianfranco Fini, una sorta di promemoria per chi vagheggia un centrodestra contro il Cavaliere: è accaduto infatti che il presidente della Camera, di fronte al probabile ostruzionismo dell’opposizione, ha chiarito durante la conferenza dei capigruppo che avrebbe fatto in modo che il decreto arrivasse al Quirinale entro domani, anche usando la “ghigliottina”. Non si tratta ovviamente del manufatto famoso francese, ma di una possibilità che il regolamento assegna a chi presiede le Camere: indire cioè il voto finale su una norma subito dopo la questione di fiducia troncando il dibattito. Motivo della minaccia? Assicurare al capo dello Stato il margine di tempo necessario all’esercizio delle sue prerogative, ovvero poter esaminare il testo con calma.
L’opposizione non
Le “anomalie” di cui parla l’ufficio stampa di Montecitorio altro non sono che il motivo per cui al Quirinale non sono affatto contenti della situazione in cui sono stati messi dal governo. I rumors sostengono da giorni che il capo dello Stato firmerà la legge quando gli sarà portata dalla Camera, e questo nonostante il pasticcio procedurale che andiamo a illustrare. Il presente testo, giova ricordarlo, non è altro infatti che il decreto correttivo con cui lo stesso Giorgio Napolitano impose a un recalcitrante Giulio Tremonti di sanare alcuni punti critici del vero dl anticrisi, quello convertito dalle Camere a luglio: ostacoli alle indagini della Corte dei Conti, esclusione del ministero dell’Ambiente dalle procedure di approvazione delle centrali nucleari, ritocchi sulla regolarizzazione di colf e badanti, rimodulazione della tassa sull’oro di Bankitalia e, infine, nuova formulazione dello scudo fiscale per impedire lo stop ai procedimenti già in corso. Il presidente della Repubblica, come si ricorderà, costrinse il governo a varare il decreto contecorrettivo stualmente alla legge, come già accaduto a Romano Prodi col cosiddetto comma Fuda (che applicava la prescrizione breve anche al risarcimento danno per reati amministrativi).
«Non è un premio ai disonesti – ha commentato Pier Ferdinando Casini – ma ai più disonesti tra i disonesti»
ha potuto che protestare: «Sarebbe imperdonabile - ha detto il capogruppo del Pd, Antonello Soro che si sperimentasse questa procedura mai applicata alla Camera nella storia della Repubblica proprio su un provvedimento vergognoso, di cui anche i cittadini che votano questa maggioranza devono vergognarsi». D’accordo Michele Vietti per l’Udc: «Abbiamo chiesto a Fini di non aggiungere un’altra forzatura a un percorso parlamentare già zeppo di forzature». L’unico contentino che l’ex leader di An ha invece concesso all’opposizione è una frase contenuta in una nota diffusa alle agenzie di stampa ieri mattina: «Il presidente della Camera, prescindendo da qualunque valutazione sul merito del provvedimento, ha convenuto sull’esistenza di oggettive anomalie procedurali nella complessiva vicenda dell’iter del decreto, trasmesso dal Senato a dieci giorni dalla sua scadenza». Meglio di niente, ma un po’ pochino, nella sostanza.
Ora invece Napolitano - a cui Idv continua a chiedere di non firmare il testo - si trova a dover mettere la faccia, oltre che sulle norme concordate, anche su una sanatoria, peraltro inserita alla chetichella, per una serie di gravi reati tributari. Situazione parecchio imbarazzante. Non quanto il merito del provvedimento: «Una vergognosa sanatoria di reati odiosi perpetrati ai danni dei risparmiatori. Non è un premio ai disonesti – ha esemplificato Pier Ferdinando Casini in Aula – ma ai più disonesti tra i disonesti. Dov’è l’etica invocata nei dibattiti sulla crisi dal ministro Tremonti?».
politica
pagina 4 • 1 ottobre 2009
Primarie. Cresce il nervosismo tra i democratici: molti temono che le norme per l’elezione del segretario possano paralizzare tutto. Ceccanti, che le ha scritte, spiega che non è così
Pd nel caos. Per statuto Congresso, primarie, assemblea: le nuove regole si rivelano un autogol per un partito sempre più a corto di idee di Errico Novi
ROMA. Basterebbe in fondo il pro memoria di Stefano Ceccanti: «Lo statuto del Partito democratico è stato approvato all’unanimità». Quindi anche dalla mozione Bersani. Quindi anche da Massimo D’Alema. «Tutti erano convinti che nella scelta del leader dovesse essere coinvolto l’elettorato potenziale, e non solo chi è iscritto, in modo da avere la più ampia partecipazione possibile», dice a liberal il senatore democratico e professore di Diritto pubblico della Sapienza. Ceccanti ha scritto la “carta fondamentale” del Pd insieme con Salvatore Vassallo, politologo a sua volta eletto deputato nel 2008. È in quel documento fondativo «approvato da tutti» che è sancito il principio della doppia incoronazione: quella degli iscritti, che oggi sono in maggioranza per Pierluigi Bersani (55 per cento contro il 37 di Dario Franceschini e l’8 di Ignazio Marino, secondo il comitato dell’ex ministro) e l’altra, definitiva, delle primarie. È lo statuto del Pd dunque a tenere in piedi un’ipotesi pazzesca: l’attuale segretario potrebbe perdere il congresso tradizionale (anzi, dati alla mano lo ha già perso) e vincere la corsa per la guida del partito. Acclamato
ROMA. «Non farò il valletto di corte che racconta i segreti del suo re, ma cercherò di dare un senso alla lunga partita che ho giocato qualche passo dietro a Romano Prodi». Un Prodi «simile alla dea Kalì in quanto a numero di bracci destri», quello che esce dalle pagine del libro di Giulio Santagata, ex ministro per l’Attuazione del programma, che pubblica un diario dell’avventura dell’Ulivo dal punto di vista di chi ha «sempre fatto il numero 2, 3 ... enne». «Il braccio destro» presentato ieri pomeriggio dall’autore con l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi (anche lui un prodiano di ferro), narra della nascita dell’Ulivo - negli uffici di Nomisma in Strada Maggiore a Bologna - ripercorre la presidenza di Prodi alla Commissione Europea di Bruxelles, con una confessione alla fine: «Ci è accaduto spesso, a noi prodiani, di sottovalutare la capacità di reazione dei nostri». La po-
dal “popolo delle primarie” ma delegittimato dalla sconfitta interna.
Oltre all’evidente problema politico generale ce ne sarebbero anche di carattere operativo: con un’eventuale conquista della segreteria, Franceschini si troverebbe a guidare un partito in cui un’ampia maggioranza di coordinatori provinciali e cittadini risulterebbe espressione dell’ala bersaniana. Una sorta di governo di minoranza. «Se è il popolo, cioè i non iscritti, ad eleggere un segretario, perché ci si dovrebbe iscrivere a un partito?», si chiede per esempio il dalemiano di lungo corso Gavino Angius. Perplessità legittima, se non fosse stata la stessa componente che oggi si riconosce in Bersani ad approvare due anni fa lo statuto rompicapo. Difficile allontanare il sospetto che anche in questa maniera si sia palesata l’irriducibile ambivalenza degli ex Ds. Sempre sospesi tra lo slancio verso il riformismo e lo scrupolo di rinnegare il passato. Nel 2007, nella commissione statuto presieduta da Vassallo, si è realizzato un «compromesso molto al ri-
basso», come lo definisce con sfrontato disincanto la deputata Federica Mogherini, schierata con il segretario uscente: «Invece di decidere che tipo di partito fare si è scelto di non sciogliere i nodi e accostare semplicemente le due strade: quella del congresso più tradizionale anche se annacquata e quella delle primarie anche se ristretta da una fase precedente, con il rischio di lasciare insoddisfatti tutti e due i campi». Autodiagnosi perfetta.
Si può citare anche il discorso fatto due giorni fa da Francesco Rutelli alla presentazione del suo libro: «Abbiamo fatto nascere il Pd per passare dalla fase botanica dell’Ulivo, della Quercia, della Margherita, in cui i problemi erano nascosti, ad una fase in cui i problemi si risolvono». E invece, come lamenta il presidente del Copasir, il gioco a nascondino è andato avanti. Dalla scrittura delle regole interne al caos di oggi. È vano e tardivo il richiamo al pragmatismo di Filippo Penati, che ieri ha continuato a incalzare Franceschini incurante delle polemiche scatenate il giorno prima: «Due iscritti su tre non hanno votato per l’attuale segretario, che dovrebbe commentare questo dato, e non limitarsi a dire ‘io aspetto le primarie’, come se l’espressione del partito non contasse niente». Si possono cambiare le regole in corsa? No, almeno secondo chi le ha scritte: «La funzione del voto nei circoli è selezionare chi ha consenso sufficiente per correre alle primarie», dice Ceccanti. Un mero turno semifinale. E come si fa con i coordinato-
ri locali che sarebbero prevalentemente all’opposizione del segretario, in caso di vittoria di Franceschini? Il problema, per Ceccanti, non è così grave: «Intanto i segretari regionali vengono eletti alle primarie. Quello è un voto più politico, non a caso aggregato alla scelta del leader nazionale. Dopodiché non è detto che la struttura del partito debba ridursi a una filiera secca: qui non si tratta di ottenere un’omogeneità forzata di tipo terzo-internazionalista. D’altronde», dice il professore, «ci saranno comunque un po’ di coordinatori regionali di provenienza diversa da quella del segretario nazionale, chiunque vinca».
Il costituzionalista e parlamentare democratico lo chiama «splitting». Forse sarebbe una questione di poco conto, lieve come l’anglicismo di Ceccanti, se ci si trovasse in un partito solido, sicuro del proprio destino e della propria identità. Ma nel Pd è diverso. C’è una componen-
Un libro dell’ex ministro Santagata, tra passato e futuro accanto all’inventore dell’Ulivo
L’amarezza di Prodi: «È l’ultima spiaggia» di Francesco Capozza litica è un ritmo scandito da riunioni, cene, colpi di scena, sconfitte, vittorie, tra elezioni politiche, amministrative, europee. «Un bel gioco dura poco», ma l’esperienza politica di Prodi e dei prodiani, secondo Santagata, «è durata quindici anni. Tanto, troppo, e non sempre è stato bello. Alla fine l’agonismo dei dilettanti ha dovuto soccombere alla forza dei professionisti». Però, non senza divertirsi, nella passione della politica, della campagna elettorale, in giro a reclutare i volontari e a cercare il pullman. Onorevole Santagata, cosa l’ha spinta a scrivere un libro come
questo, che per alcuni potrebbe essere letto quasi come una biografia postuma di Prodi e dei prodiani? Questa lettura non mi stupisce e in effetti non è neppure troppo maliziosa visto che in parte corrisponde a verità. Con l’avvento del Pd si è definitivamente chiuso un ciclo, un’era che personalmente credevo utile, ma che forse aveva fatto il suo tempo. Purtroppo il Pd, o almeno questo Pd, non rappresenta ancora un punto d’arrivo. Quando nacque l’Ulivo lei credette subito nel progetto? Ovviamente. A tal punto che iniziai
politica
1 ottobre 2009 • pagina 5
Il gruppo degli ex-Ds fa quadrato solo intorno a D’Alema
L’incubo di Bersani: perdere in extremis
Pochi votanti ai congressi e il pieno solo al Sud: ecco che c’è dietro gli attacchi a Franceschini di Antonio Funiciello l guazzabuglio in cui si è cacciato il Pd si spiega, in termini tennistici, come impasse della terra di mezzo. Il vecchio centro-sinistra col trattino, costruito sull’asse Ds-Margherita, giocava la partita col centrodestra da fondocampo. Provava a rispondere colpo su colpo alle stilettate di Berlusconi, salvo soccombere quando le sue discese a rete lo spingevano fuori campo. I set vinti erano conquistati soltanto per i guai fisici del centrodestra (vedi nel ’96 il divorzio con la Lega). Con l’invenzione del Pd, per la prima volta il centrosinistra ha provato ad adottare una tattica più offensiva che, dopo il tracollo del governo Prodi ha pure riscosso i primi successi. La Merkel che i giornali di mezzo mondo glorificano, ha vinto le elezioni con la stessa percentuale di voti conquistati nel 2008 dal Pd. Poi Veltroni si è dimesso ed è stato come se il Pd, in una delle sue discese a rete, fosse rimasto bloccato a metà campo. In una zona, la terra di mezzo, in cui i maestri di tennis avvertono di non fermarsi mai, perché si diventa vulnerabili in mille modi da parte dell’avversario.
I
te, quella franceschiniana o postveltroniana, che coltiva l’idea di una grande forza «a vocazione maggioritaria», che va oltre le due formazioni politiche originarie e che in questo modo si libera anche delle vecchie strutture, delle pregresse oligarchie. L’altra parte, che oggi sembra prevalere ma che nel campo aperto delle primarie potrebbe diluirsi, vuole consolidare proprio quelle strutture. «Lo fa perché segue una teoria sconfittista», dice Ceccanti, «perché anziché pensare di allargarsi e andare a prendere elettori al centro, immagina un partito più piccolo, che lasci ad altri il compito di presidiare il centro, di sostituire in pratica la Margherita e di portare la coalizione al governo». Può darsi, ed è forse per questo che un sostenitore di Franceschini come Enrico Morando chiede in modo non retorico a D’Alema se davvero voglia arrivare a una scissione. E di fronte al caos, lo spauracchio tanto temuto rischia di apparire liberatorio.
a fare politica, un “mestiere” del tutto nuovo per me. Come prendeste la prima caduta di Prodi? Male, ovviamente. C’era chi, anche all’interno della maggioranza, evidentemente credeva nella transitorietà di Prodi. Qualcuno, forse, ha persino creduto che quell’esperienza sarebbe dovuta servire solo a traghettare il paese nell’Euro. Il progetto dell’Asinello e, successivamente, della Margherita, ha chiarito come stavano sul serio le cose. Ha mai pensato che l’Ulivo, poi divenuto Unione, potesse non farcela nel 2006? Sì, l’ho pensato quando venne cambiata la legge elettorale e fu introdotto il cosiddetto porcellum. Con questo sistema è stato snaturato il profilo maggioritario dell’Unione, trasformatosi ben presto in un cartello elettorale che ha perduto, per di più, in qualità.
Tra Dario Franceschini, Ignazio Marino e Pierluigi Bersani ormai è guerra aperta in vista delle primarie dei democratici che si terranno il 25 ottobre: l’ex-ministro era convinto di fare il pieno nei congressi locali, invece ha avuto poco più della metà dei voti. Nella pagina a fianco, Giulio Santagata
Cosa ha rappresentato per voi prodiani quel 23 gennaio 2008, giorno della seconda caduta del professore? È stato un giorno di grande amarezza, in cui abbiamo dovuto constatare che avevamo più nemici che amici attorno a noi. Esterni, certo, ma molti anche interni alla coalizione. In vista delle prossime primarie sembra che molti esponenti del Pd, Rutelli,Veltroni ed altri, siamo pronti a lasciare il partito. Possiamo dire che“Prodi l’aveva detto”? Non credo proprio che Prodi abbia mai scommesso nel fallimento del Pd, anzi, ci ha molto creduto. Ritengo, piuttosto, che sia convinto - e come dargli torto - che siamo all’estremo tentativo per costruirlo sul serio questo partito. Perdere personalità come Rutelli o Veltroni sarebbe senz’altro un passo indietro.
maggiore. I dati in percentuale - Bersani 56%, Franceschini 36%, Marino 8% - danno, come è giusto, solo una lettura superficiale dell’esito della conta interna. I numeri reali, ancora ufficiosi, segnalano che gli oltre duecentomila voti fatti propri da Bersani rappresentano poco più di un quarto del totale degli iscritti democratici (820mila e rotti). Decisamente poco per la mozione che puntava tutto sul rilancio del ruolo degli iscritti dopo la deriva populistica del primarista Veltroni. Un’analisi dei voti effettivi ripartita per regioni e aree geografiche non fa che aumentare la preoccupazione dei bersaniani. Più della metà del suo 55% Bersani lo raccoglie nelle regioni del Sud, dove supera spesso il 70% dei consensi. Nulla di eccezionale a prima vista, preso atto che nel PD si è comunemente deciso di non discutere dei fallimenti politico-amministrativi di molte giunte di centrosinistra nel Mezzogiorno. E però quei tesserati meridionali, che hanno fatto la differenza nella conta interna del Pd, fanno tutti riferimento a Massimo D’Alema che, alla fine della fiera, risulta il vero vincitore della prima fase del congresso democratico.
Le variabile vera dell’appuntamento delle primarie oggi è Ignazio Marino: non molti scommettevano sul fatto che potesse davvero scavalcare lo sbarramento del 5%
Il congresso democratico doveva servire a risolvere l’impasse e riacquistare una posizione in campo più sensata: tornare a fondocampo o continuare a scendere sottorete. Viceversa, è come se il Pd, bloccato in mezzo, abbia deciso di legarsi mani e piedi con un conflitto interno fine a se stesso e non centrato sulla scelta tra una strategia di gioco o l’altra. Non sorprende che oggi il congresso si incattivisca nei toni al punto che il coordinatore della mozione Bersani, Filippo Penati, arriva a chiedere al segretario in carica di dimettersi visto l’esito della prima conta interna. L’assalto dei bersaniani suona stonato, soprattutto considerata la posizione di vantaggio raggiunta coi congressi di circolo. A meno di non voler leggerci un nervosismo tutto intestino alla mozione. Non sono tanto le sortite di Rutelli a scuotere Bersani o Letta o la Bindi, né D’Alema che già pensa a un Pd che faccia il pieno a sinistra ed è disposto a mettere nel conto una scissione al centro del partito. Così come vengono ignorate le uscite occasionali di Veltroni, che rivela il suo disagio per la piega che prendono le cose nel partito.
Con questo stato
dell’arte dentro il partito, davvero le primarie rischiano di essere tutta un’altra storia. Il 42% che Franceschini ha raggiunto in Toscana (in una regione, cioè, in cui Bersani puntava a fare il pieno) rivela, insieme ad altri dati, quanto il mercato potenziale delle primarie del 25 ottobre sia troppo ampio per essere governato dai 200mila iscritti della mozione Bersani. Al di là delle effettive capacità di reazione di Franceschini, la variabile vera dell’appuntamento delle primarie è oggi Ignazio Marino. Non molti scommettevano sul fatto che potesse scavalcare lo sbarramento del 5%. L’8% guadagnato è un risultato che nel campo vasto delle primarie Marino può facilmente raddoppiare. E con un Marino che sfiora il 20% o addirittura lo supera sarà difficilissimo per Bersani o Franceschini conquistare quel 50% + 1 dei consensi che eleggerebbe subito il segretario democratico. Si finirebbe tutti nelle tenebre degli accordi interni della convenzione nazionale, nel buio pesto di una notte La verità è che dalle parti di Bersani in cui davvero tutte le vacche demopensavano di vincere con un distacco cratiche appariranno nere.
diario
pagina 6 • 1 ottobre 2009
Il personaggio. Nella città crescono le voci che vorrebbero il primo cittadino in fredda con il premier Berlusconi
Le sorprese di Donna Letizia
Dall’Expo ai progetti di Ligresti: la Moratti cambia strategia? di Giancarlo Galli segue dalla prima
tato a Milano-città, dove il candidato del centrosinistra supera Podestà. Proprio nel regno della Moratti! Durante il tempo delle vacanze, prende corpo la voce che Donna Letizia intenda salpare verso altri lidi. Incarichi internazionali, si sussurra; propiziati dalle relazioni intessute durante la “campagna per l’Expo”. Al rientro, la smentita; la Moratti punta alla riconferma, nel 2011. Convoca i fedelissimi, riporta a Palazzo Marino nel suo staff personale Piero Borghini, politico inquieto che igrò dal Pci al craxismo, poi al riformismo e infine capeggiando la “lista civica” della Moratti che lo gratificò della carica di City Manager. In contemporanea, la Moratti viene notata in varie occasioni in via Bellerio, quartier generale del Carroccio. Dicono che Umberto Bossi la tovi «intelligente, simpatica, lombarda di sangue. Però, la pungola: i leghisti non vedono di buon occhio l’Expo, sebbene abbiano finito con l’infilare alcuni loro uomini in consigli e comitati; per la città, vorrebbero cancellare l’Ecopass, il provvedimento che in teoria doveva ridurre traffico e inquinamento; e in realtà s’è trasformato in un inutile balzello.
Laurea in scienze politiche alla Statale, apprendistato nell’azienda di brokeraggio assicurativo di papà Paolo, e a 24 anni matrimonio con il petroliere Gianmarco Moratti che ha ottenuto dalla Sacra Rota l’annullamento del patto contratto con Lina Sotis. Due figli, Gilda e Gabriele, non spengono i suoi slanci imprenditoriali che, non estranee le “buone relazioni”la portano nel 1992 ad assere la prima donna ad entrare nel consiglio d’amministrazione della Banca Commerciale italiana. Milano è piccola, ci si conosce un po’ tutti… Letizia incontra Silvio Berlusconi: reciproca sintonia, almeno su due lunghezze d’onda. Tv ed educazione. Nel luglio del ’94, dopo il trionfo elettorale di Forza Italia, il Cavaliere la porta al vertice della Rai. Mutati gli scenari politici, torna nella sfera privata: assicurazioni e presidenza di Strema, emanazione del gruppo del telefinanziere Rupert Murdoch. Non ama il centrosinistra, e non lo manda a dire. Berlusconi registra ed apprezza: nel 2001, rientrato a Palazzo Chigi le offre il ministero della Pubblica Istruzione.
Gestione da “tecnico”, spesso discussa e duramente contestata, che comunque le consentono di mettere in luce una personalità più che forte, granitica. Conclusa la fase ministeriale, col centrodestra all’opposizione (1996) Letizia si candida a sindaco di Milano, battendo col 52 per cento l’ex prefetto Bruno Ferrante, alfiere del centrosinistra. È il primo sindaco-donna, all’ombra della Madonnina; anche se la vittoria è stata risicata, le simpatie che genera sono molte. Milano infatti è una città che fatica a diventare metropoli, rinverdendo la tradizione di “Capitale del Nord”, da Cavour in poi. I suoi predecessori (il leghista Marco Formentini, poi il pur bravo Gabriele Albertini), hanno dovuto caricarsi sulle spalle anni e anni d’incuria amministrativa. La Moratti parte dunque in vantaggio, e da subito punta in alto: rivolta come un guanto mezzo comune, sostituendo i burocrati con manager di fiducia. Ha un convincimento: per svegliare Milano dal letar-
go, serve un colpo di reni. Lo individua nell’Expo 2015, e fa centro, vincendo alla grande la sfida con la turca Smirne.
Al successo internazionale della Moratti, nella sua stessa maggioranza, non erano in molti a credere. Lo strappò quasi “in solitario”, girando mezzo mondo come una trottola. Convincendo paesi arabi e musulmani. L’affianca Paolo
Paolo Glisenti, del quale si contesta lo stipendio, getta la spugna; il potentissimo ministro dell’Economia Giulio Tremonti stringe la borsa sui finanziamenti all’Expo. Arrivata la crisi, alcuni immobiliaristi privati si defilano. Stagioni dure per Donna Letizia. Da Roma-capitale viene catapultato a Milano Lucio Stanca, pugliese, senatore di Forza Italia (farà fuoco e fiamme per
Prima i dissidi con il superministro Tremonti poi lo stop alle nuove periferie: il sindaco è sempre più ”vicina” al Carroccio Glisenti, cinquantenne manager dalle eccezionali doti organizzative e comunicative. Il fatto che Berlusconi, riconquistato Palazzo Chigi per la terza volta (2008), la porti in palmo di mano moltiplica le gelosie. Si sussurra che il premier abbia individuato in Lei il potenziale successore… La marcia verso l’Expo diviene all’improvviso in salita. Cominciano gli attacchi ai fianchi.
mantenere la carica), ex presidente Ibm Italia. Berlusconiano a 24 carati: sarà lui a guidare la macchina organizzativa. Nei vari bracci di ferro, si perdono mesi e mesi, i progetti vengono continuamente rivisti: al ribasso. Quell’Expo che doveva essere l’asso nella manica della Moratti, il trampolino per il grande salto, rischia di trasformarsi in boomerang. Anche perché la cittadinanza,
l’elettorato immenso, on è molto contento del come è amministrata la città nel quotidiano.
Persino gli umori di Berlusconi paiono mutati. Alla riunione degli Stati Generali promossa dal governatore lombardo Roberto Formigoni, il padre-padrone di Forza Italia si rivolge al sindaco unicamente per sollecitarla a «tenere la città più pulita». Non a torto: a furia di “volare alto” (verso l’Expo), ci si è un po’ troppo dimenticati della realtà urbana: gli scavi per i parcheggi in pauroso ritardo, i mezzi pubblici che lasciano a desiderare, i vigili urbani (i mitici “ghisa” ambrosiani) che hanno peso smalto ed efficienza. Una generale lamentela che certamente ha il suo peso nelle elezioni provinciali di giugno. Il favoritissimo onorevole Guido Podestà, scuderia Berlusconi, è costretto al ballottaggio nel confronto con Filippo Penati. La spunterà per un pugno di voti, ma quel che politicamente rileva è il risul-
Sino all’ultimissima bomba. Alla periferia della Grande Milano, vi sono ancora (poche) aree verdi, agricole. Il più potente dei costruttori (Salvatore Ligresti) vorrebbe renderle edificabili. Le delibere paiono esistere, ma la Moratti prende tempo. Vuole prima fare approvare dal consiglio il “Piano di governo del territorio”. Ligresti, spazientito, chiede nientemeno al neo-presidente della Provincia, Podestà, di «commissariare» il comune. Dopo giorni di tensione estrema, una fragile e ambigua tregua. Di certo, comunque: Donna Letizia, che nello stile di famiglia, non intende “mollare”, si prepara al bis. Consapevole tuttavia che, essendo sempre meno amata ai piani alti dei Palazzi del centrodestra, dovrà reperire nuovi sponsor. Fra i milanesi, per cominciare; e infatti ha consegnato ai collaboratori il compito di stendere un programma per Milano «all’insegna della trasparenza, dell’armonia e dello sviluppo». Finalmente!, viene voglia di chiosare.
diario
1 ottobre 2009 • pagina 7
Meno di 300mila le domande presentate al ministero
Inflazione: -0,2% rispetto ad agosto; +0,2% dal 2008
Badanti in regola: sono poche le richieste
Istat: calano i carburanti, più cara la scuola
ROMA. Alle 13 di ieri erano poco più di 275mila le domande inviate al Viminale per la regolarizzazione di badanti e colf. Un numero basso rispetto alle attese del ministero, che un mese fa parlava di 500-750mila domande previste. Negli ultimi giorni, tuttavia, c’è stata un’impennata: 23mila lunedì, 27mila martedì e oltre 10mila alle 13 di mercoledì. Le maggiori richieste sono arrivate per le colf (167mila), seguite dalle badanti (75mila, più 31mila richieste di badanti per altra persona). Il maggior numero di moduli (oltre 51mila, pari al 15% del totale) sono andati nella provincia di Milano; seguono le province di Roma (38mila), Napoli (27mila) e Brescia (12mila). I lavoratori più richiesti sono ucraini (43mila, il 13% del totale) marocchini (quasi 40mila) e moldavi (30mila).
ROMA. Segno meno per l’infla-
Il ministro dell’Interno Maroni ha detto che non ci sarà alcuna proroga del termine per la regolarizzazione e nega che sia un insuccesso per il governo. «Si sono fatte stime a casaccio, chi ha parlato di 500mila, 700mila, o un milione di domande, ma la norma è stata fatta per fare emergere il lavoro nero di colf e badanti e basarsi sulle stime fatte per dire che è stato un flop è sbagliato - ha detto il ministro -. Noi registriamo i dati e questo è quanto è emerso. Chi non ha usufruito della norma per la regolarizzazione, ha deciso di continuare nel lavoro irregolare e sarà soggetto a sanzioni previste dalla legge». A parlare di fallimento è stato il segretario del Prc Paolo Ferrero: «La regolarizzazione si sta rivelando non solo un assoluto flop, ma un bluff, un vero raggiro ai danni dei cittadini extracomunitari così come dei datori di lavoro italiani e delle famiglie, anziani e disabili in prima fila, che di quelle colf e badanti hanno un estremo bisogno. Si è consolidata l’idea che il lavoro degli immigrati va bene solo se è ridotto allo sfruttamento più brutale».
Rottamazioni, Marchionne vuole soldi anche nel 2011 Berlusconi pronto a confermare gli incentivi per un anno
zione a settembre. Secondo la stima provvisoria diffusa dall’Istat, nell’ultimo mese l’indice dei prezzi al consumo ha registrato una variazione negativa rispetto ad agosto - dello 0,2 per cento. Su base annua l’inflazione si è invece attestata a +0,2 per cento. Nel mese di agosto le variazioni erano state +0,3 per cento su mese e +0,1 su anno. L’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Ipca) ha registrato nel mese di settembre una variazione di più 0,6 per cento rispetto al mese precedente e una variazione di più 0,3 per cento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Gli aumenti congiunturali più significativi dell’indice per l’in-
di Francesco Pacifico
ROMA. «Quando sarà necessario, prorogheremo gli incentivi». Se pensava di ottenere ringraziamenti dai vertici del Lingotto, Silvio Berlusconi ha dovuto presto ricredersi. Perché l’insaziabile Sergio Marchionne, incassato il bis alle rottamazione anche per il 2010, ha subito rilanciato «per trovare una soluzione sugli incentivi per il 2011». Sembra aver avuto effetto l’avvertimento che da mesi il Lingotto lancia al governo e al sindacato: se la crisi continuerà, la produzione di auto in Italia (sempre minore in verità) calerà del 20 per cento. Centomila mezzi in meno che potrebbero tradursi in 8mila esuberi tra operai e amministrativi.
Non a caso il presidente Luca Cordero di Montezemolo ha ricordato che gli incentivi hanno consentito «un freno alla problematica dell’occupazione, un ricambio fortissimo di vetture più moderne e più ecologiche e favorito tutta la filiera della componentistica». Oggi Marchionne entrerà nel merito del provvedimento quando vedrà a Detroit il dello ministro Sviluppo, Claudio Scajola. Il quale ha già dato il suo via libera a una proroga agli aiuti. I due toccheranno altri due temi che stanno a cuore al manager di origine abruzzese: estendere la Tremonti ter anche ai veicoli commerciali, ottenere da Roma un più forte appoggio nella battaglia contro i nuovi vincoli della Ue sulle emissioni di Co2. Intanto il governo, più che un bis (o tris) all’auto, teme di dover estendere le incentivazioni ad altri settori in crisi. Quelli dell’auto sono facilmente autofinanziabili, visto che a nuove immatricolazioni seguono il pagamento di Iva e imposte regionali di registro. Diverso discorso per altri settori, come dimostra il flop dei fondi destinati agli elettrodomestici bianchi. Nota l’economista, e ordinario di economia e gestione d’impresa della Ca’ Foscari di Venezia, Giuseppe Volpato: «Soldi a tutti non è possibile darli,ma ci sono settori più importanti di altri in termini di attivazioni di posti di lavoro.
Aiutando la Fiat si dà un sostegno alla componentistica, che vuol dire gomma, plastica o vernici. Senza contare il diverso impatto sociale tra perdere 10mila posti in un sistema dinamico come quello del Nordest e uno stabilimento altamente sindacalizzato». Con circa 170 tavoli per altrettanti crisi industriali aperti al ministero dello Sviluppo e una caduta della produzione (-16,78 per cento l’ultimo dato tendenziale) che sarà riassorbita non prima di 4 anni, l’Italia rischia di dover mettere in campo ingentissime risorse per mantenere i lavoratori ai luoghi di produzione. E il debito pubblico che corre verso il 120 per cento del Pil non aiuta. Non che l’Italia sia la sola ad avere questo problema. Ma all’estero – dove i fondi all’industria sono dieci volte quelli italiani – hanno saputo risolvere legando le incentivazioni alla ricerca. In questo modo si evitano le ire della Ue contraria agli aiuti di Stato, e si impone alle aziende di innovare costantemente la propria produzione. E così di essere più competitiva. Ma nel Belpaese del capitalismo molecolare, soltanto la Fiat può contare su un centro di ricerca degno di questo nome. E non a caso grazie al sito di Orbassano riesce ad accaparrarsi circa la metà dei fondi comunitari destinati all’Italia per le attività di R&S.
Il governo teme di dover distribuire aiuti a fondo perduto anche a tutti gli altri settori industriali in crisi
Ma le richieste di Marchionne e Montezemolo pongono un problema non da poco: riuscirà un’industria dai costi così alta come quella dell’auto a liberarsi dal giogo degli aiuti di Stato? Marchionne ha parlato di exit strategy morbida, di «calo graduale tra il 2010 e il 2011». Ma ha aggiunto che senza risorse pubbliche venderà meno di 2 milioni di vetture. Secondo l’economista Volpato la questione sarà superata «quando la ripresa riattiverà la domanda interna, portando quella per l’auto verso i 2,5 milioni di veicoli». Non a caso Susanna Camusso, leader confederale Cgil, chiede che il Lingotto «faccia al più presto chiarezza sul futuro degli stabilimenti in Italia».
tera collettività si sono verificati per i capitoli Istruzione (+1,3 per cento), Comunicazioni (+0,9 per cento), Abbigliamento e calzature e Altri beni e servizi (+0,3 per cento per entrambi); una variazione nulla si è registrata nel capitolo Servizi ricettivi e di ristorazione.
Variazioni negative si sono verificate nei capitoli Trasporti (1,5 per cento), Ricreazione, spettacoli e cultura (-1,3 per cento) e Abitazione, acqua, elettricità e combustibili (-0,1 per cento). Gli incrementi tendenziali più elevati si sono registrati nei capitoli Bevande alcoliche e tabacchi e Altri beni e servizi (+2,7 per cento per entrambi), Istruzione (+2,3 per cento) e in quello delle Comunicazioni (+1,9 per cento).Variazioni tendenziali negative si sono verificate nei capitoli Trasporti (-2,9 per cento) e Abitazione, acqua, elettricità e combustibili (-per cento). Sempre secondo l’Istat, nel mese di agosto l’indice totale dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali è aumentato dello 0,6 per cento rispetto al mese precedente ed è diminuito del 6,7 per cento rispetto al mese di agosto 2008. Nel confronto tra la media degli ultimi tre mesi (periodo giugno-agosto) e quella dei tre mesi precedenti l’indice è aumentato dello 0,3 per cento.
politica
pagina 8 • 1 ottobre 2009
Auditel. Nessuno ha impedito alla maggioranza di esprimere in questi anni di governo un suo Santoro, una sua Gabbanelli, un suo Floris
Tv, che mal di destra Criticano i programmi di sinistra (che hanno buoni ascolti) ma le loro trasmissioni ”alternative” sono state un flop di Riccardo Paradisi ra gli editti bulgari per l’uso criminoso della televisione pubblica (Sofia 18 aprile 2002) al «lasciate lavorare Santoro, che tanto ci porta voti» del Berlusconi di oggi c’è evidentemente una sostanziosa differenza. Che questa differenza derivi da un mutamento di strategia sulle politiche televisive però c’è da dubitarne. Anche perché più che di una strategia rispetto alla politica mediatica nel centrodestra ci sarebbe piuttosto da registrare una ciclotimia, un atteggiamento ondivago e oscillatorio che va dall’intemerata alla minimizzazione, dal richiamo ai valori del servizio pubblico alla rivendicazione liberale dell’anarchia etica e ideologica.
T
E del resto scusate ma come spiegare che mentre il presidente del Consiglio invita al laissez faire sul conduttore di Anno zero e il suo portavoce Paolo Bonaiuti ribadisce che «qualcuno ha esagerato nelle critiche facendo diventare Santoro un martire» contemporaneamente il viceministro alle attività pro-
Il bilancio della politica tv berlusconiana non ha ottenuto risultati entusiasmanti.I protagonisti hanno pagato la poca confidenza con format molto complessi duttive, con delega alle Comunicazioni, Paolo Romani insista nel voler aprire un’istruttoria contro Anno zero per conto del governo. Insomma perché il centrodestra, senza soluzione di continuità, passa da aperture che celano la voglia di mettere da parte attacchi frontali a favore di un ben piú efficace ”parlo coi fatti”a offensive dure contro la sinistra Tv accusata di essere tanto faziosa da tradire il mandato di imparzialità del servizio pubblico? Tra chi organizza la manifestazione di sabato prossimo sulla libertà di stampa che in Italia sarebbe minacciata o addirittura già abolita, si parla di una messa in scena tattica, di un gioco delle parti dove Berlusconi reciterebbe la parte del poliziotto buono che fa concessioni mentre i suoi, mettendo sotto torchio i resistenti radiotelevisivi, assolverebbero il ruolo del poliziotto cattivo. Una lettura che accrediterebbe alla destra una strategia che invece la destra sembra proprio non avere. E basta guardare la gamma delle posizioni anche sostenuta dalle medesime persone per convincersene. Si va appunto dal disinteresse per la comunicazione giornalistica di approfondimento e più in generale culturale a generiche perorazioni sul pluralismo e l’imparzialità che dovrebbe garantire il servizio pubblico, si oscilla dalle geremiadi sulla faziosità della sinistra e della sua egemonia culturale sui giornali, le università, il cinema, eccetera, eccetera, al dispiacere – come ha ammesso il deputato del
Bisognerebbe manifestare contro il governo che intimidisce l’informazione
Niente libertà di stampa? Torniamo al buon senso di Giancristiano Desiderio i vuole tutta la fantasia e la confusione in cui versa la sinistra italiana per organizzare una manifestazione per la libertà di stampa che non c’è. Come si fa a dire: “Manifestiamo perché in questo Paese non c’è libertà di stampa”. I logici la chiamano contraddizione in termini. Del tipo: “Qui lo dico e qui lo nego”. Del resto, la manifestazione di sabato che denuncia la negazione della libertà di stampa è organizzata dal secondo quotidiano italiano e da uno dei principali gruppi editoriali del paese: Repubblica-L’espresso. La manifestazione è organizzata, manco a dirlo, a mezzo stampa, attraverso una grande campagna stampa fatta con ogni mezzo di diffusione: quotidiani, settimanali, web, video, sms. Se in Italia non ci fosse libertà di stampa dovrebbe essere quanto meno difficoltoso organizzare una manifestazione per la libertà di stampa e farlo sapere al resto del mondo. Invece, tutti sanno - perché leggono i giornali o i siti internet che sabato si manifesterà per la libertà di stampa che non c’è.
C
È vero: ci vuole buon senso (e forse quando Cartesio scriveva nel Discorso sul metodo che il buon senso ci è stato dato dal buon Dio in abbondanza peccava di ottimismo leibniziano ante-litteram). Thomas Jefferson diceva «ad un governo senza stampa preferisco una stampa senza governo». Ma c’è anche un terzo caso e, manco a dirlo, è quello italiano: c’è un governo che intimidisce la stampa. Può darsi che la stampa sia insolente, può darsi che la stampa sia eccessiva, può darsi che la stampa sia a senso unico, può darsi che la stampa non si fermi davanti alla porta di casa (del premier), può darsi che la stampa ficchi il naso sotto le lenzuola (del premier) e può darsi un sacco di altre cose. Ma una stampa ficcanaso e faziosa è pur sempre
parte del gioco democratico. È questo che accade in Italia ed ecco perché dire che non c’è libertà di stampa è una manipolazione degli stessi fatti che la stampa stampa e divulga.
Ma ciò che non fa parte delle regole del gioco democratico è il governo che entra in conflitto con la stampa e che, reagendo in modo scomposto alla diffusione di notizie che riguardano le feste del presidente del Consiglio e la frequentazione di Palazzo Grazioli da parte di ragazze ed escort, di fatto intimidisce o tenta di intimidire la stampa caricando a pallettoni i propri organi di informazione. Ecco: piuttosto che scendere in piazza perché non c’è libertà di stampa, la sinistra intellettuale e pubblicistica, ma anche giustizialista e moralista, avrebbe fatto bene a organizzare una manifestazione contro il governo che intimidisce la stampa. Perché - per ripetere l’aforisma di Jefferson - ad un governo senza stampa preferiamo una stampa senza governo. Il moralismo, da cui deriva il giacobinismo, è il vero grande problema della sinistra: Silvio Berlusconi non lo ha creato, ma sicuramente lo ha acuito. Così è nato l’antiberlusconismo sempre e comunque. Lo scandalo sexy ha indebolito il premier e il governo, ma la sinistra invece di condurre la lotta sul piano politico e degli affari di Stato ha puntato tutto sul moralismo (che è sempre ipocrita e quindi impopolare) e, a seguito della reazione scomposta del capo del governo che denuncia e aggredisce la stampa, sul “manifestazionismo”. Ma gridare in piazza che non c’è libertà di espressione scrivere sui giornali che non c’è libertà di stampa serve solo ad allargare ancor più il solco che separa la sinistra intellettualistica dalla gente comune. Ci vuole un governo del buon senso, ma anche un’opposizione del buon senso.
Sopra in successione Antonio Socci, Arturo Diaconale, Andrea Pezzi, Giovanni Masotti, Pia Luisa Bianco e Anna La Rosa. In basso il direttore di Rai 1 Mauro Mazza Pdl ex An Italo Bocchino – di non avere un Santoro di destra, o almeno un Floris, che parli delle cose buone fatte dal governo o che sappia fare opposizione quando a palazzo Chigi siede un primo ministro di centrosinistra. C’è un po’ di confusione e di improvvisazione insomma sotto il cielo del centrodestra italiano riguardo le politiche che genericamente si possono chiamare culturali e di comunicazione. Centrodestra che si muove con moto pendolare tra lo schema scelbianbrunettiano secondo cui non si governa col culturame parassitario ma con il potere dei fatti e la recriminazione per il destino cinico e baro che fa nascere i Santoro sotto i cavoli della sinistra invece che sullo sfortunato terreno della destra. Una sintesi plastica di questo sentire contraddittorio l’ha offerta il ministro per le politiche regionali Raffaele Fitto martedì sera a Ballarò.
Spazientito dalle allusioni sullo strapotere mediatico berlusconiano Fitto ha tirato fuori una lista delle trasmissioni di sinistra. Nell’elenco, tra le altre, c’erano ovviamente Anno zero e Ballarò, Presa diretta di Riccardo Iacona, e Report di Milena Gabbanelli, Parla con me di Serena Dandini ma anche i Mediaset Zelig e Striscia la notizia. Un cahier de doléance quello del ministro esibito per dimostrare due cose. La prima che la libertà di espressione in televisione non è conculcata da nessuno. La seconda che se anche nelle reti Mediaset oltre che in quelle pubbliche si fanno programmi di sinistra – come Zelig – il pluralismo esiste e che il presidente del Consiglio è un autentico liberale. Ma ci sarebbe anche una terza deduzione da trarre dal puntuale elenco fittiano: e cioè che il centrodestra non ha un solo contenitore di approfondimento giornalistico o satirico in televisione. E questo non è né un merito della destra, che non dimostra pluralismo ma disinteresse in un ambito dove non ha mai incoraggiato e investito risorse, né una colpa dell’egemonia della sinistra.
politica
1 ottobre 2009 • pagina 9
L’audizione del viceministro in Commissione di vigilanza
Censura, Romani fa marcia indietro
«Nessun bavaglio all’informazione, per il nuovo contratto aspettiamo l’Agcom» ROMA. Sul nuovo contratto di ser-
Insomma chi ha impedito alla destra, alle sue culture, di esprimere in questi anni – in questi lunghi anni in cui la destra è stata a lungo al governo– un suo Santoro, una sua Gabbanelli, un suo Floris? A voler fare un bilancio infatti delle politica tv della destra italiana i risultati ottenuti non sono proprio entusiasmanti. Anzi, con tutto il rispetto per i protagonisti, che hanno pagato l’inesperienza e la poca confidenza con la conduzione di un format complesso come quello di un programma di dibattito e approfondimento, si potrebbe parlare proprio di esperimenti fallimentari. A parte Otto e mezzo di Giuliano Ferrara le trasmissioni condotte da Giovan-
Secondo il portavoce del Cavaliere Paolo Bonaiuti «Qualcuno ha esagerato nelle critiche facendo diventare Michele Santoro un martire» ni Masotti (Punto e a capo), da Anna La Rosa (Alice), da Andrea Pezzi (il Tornasole) da Antonio Socci, (Excalibur, che pure una sua dignità e una sua filosofia l’aveva) non si può dire che siano stati dal punto di vista degli ascolti e della riuscita un successo. Anzi dopo un auditel disastroso di Punto e a capo, Ignazio la Russa, incalzato dalla sinistra Rai, ammetteva la professionalità e la bravura di Santoro e ammetteva pure che il centrodestra non ha ancora trovato gli uomini giusti per l’approfondimento televisivo. A dimostrazione che la faziosità che fa ascolti si combatte con la qualità e non con la censura o con frettolosi sostitutivi. A meno che, naturalmente, la destra non voglia rassegnarsi alla curiosa condizione di essere maggioranza elettorale nel Paese in una posizione però di minorità culturale perenne, destinando al suo elettorato la retorica del popolo delle partite Iva e la polemica
contro la faziosità della sinistra e del suo culturame inconcludente e parassitario. «Che si diceva ieri a Parigi?» – domanda il colonnello Mathieu ai giornalisti che gli si assiepano attorno, in una delle scene più pregnanti della Battaglia di Algeri, il capolavoro di Gillo Pontecorvo che racconta la guerra coloniale francese in Algeria e lo scontro ideologico in corso in Francia.«Niente. Gli risponde un giornalista. È uscito un altro articolo di Sartre. - Mi spiegate perché i Sartre nascono sempre dall’altra parte? - Allora le piace Sartre, colonnello… - No, ma mi piace ancora meno come avversario». Ecco, fatte le debite proporzioni – non c’è nessuna guerra in italia, non c’è nessun Sartre a sinistra né nessun de Gaulle a destra – alla fine il problema della destra è sempre lo stesso.
vizio con la Rai il governo attende le linee guida dell’Agcom (l’Authority per le telecomunicazioni) e punta al via libera entro Natale, dopo il parere della Vigilanza. Quanto ai contenuti, si dovrà puntare sulla qualità dell’informazione, la completezza, ed evitare «esasperati protagonismi individuali». Lo ha detto Paolo Romani, vice ministro allo Sviluppo con delega alle Comunicazioni, durante l’audizione di ieri alla Commissione di Vigilanza sulla Rai. Romani ha ricordato che «in attesa delle linee guida dell’Agcom» è in corso una «informale attività istruttoria tra le parti». Nessuna anticipazione sui contenuti, ma alcune linee sono chiare. Sul canone, ad esempio, per il quale bisognerà dare «garanzia di un’informazione attenta». Sulla necessità di prestare «attenzione alla qualità dell’informazione» e definire che «la completezza e l’obiettività dell’informazione devono risultare evidenti anche nelle modalità di comunicazione radiotelevisiva». E poi evitare che ci siano «atteggiamenti faziosi ed un esasperato protagonismo individuale» e prevedere che i conduttori seguano «uno spirito di equilibrio» attraverso il «contraddittorio».
A Sergio Zavoli che chiedeva «garanzie» sul fatto di ricevere il contratto «in tempo utile per poter svolgere un lavoro congruo di analisi, giudizio e proposte emendative», Romani ha risposto ricordando che il governo può muoversi «solo dopo aver ricevuto le linee guida dell’Authority. E sto sollecitando la stessa perché le faccia il più velocemente possibile». Se queste arriveranno «entro metà ottobre, subito il ministero si attiverà per consegnare il testo alla Commissione di Vigilanza». E se si riuscisse a definire «entro la pausa per le vacanze natalizie» si potrebbe avere il nuovo contratto in vigore nei tempi giusti ad inizio anno. Romani, durante l’audizione, ha sottolineato di «voler sgombrare il campo da possibili equivoci» e ribadito «l’assoluta estraneità alla volontà di censurare». Il governo, ha proseguito, «non ha mai messo in dubbio» il ruolo della Vigilanza, e
con l’audizione intende dare «un segnale tangibile di disponibilità» per un chiarimento sul caso Annozero e l’istruttoria avviata doopo le frasi del ministro Scajola.
Romani ha ribadito che il Governo si è mosso in linea con l’articolo 39 del contratto di servizio sulla possibilità per il Governo di verificare la sua corretta attuazione e in quest’ottica di chiedere informazioni all’azienda, ma questo «senza alcuna pretesa di verificare la linea editoriale» dell’azienda. E la deci-
«Il governo non ha mai messo il dubbio il ruolo del Parlamento. La mia presenza qui vuole essere un segnale tangibile di disponibilità» sione di agire nasce da quanto previsto dall’articolo 2 dello stesso contratto riguardo al codice etico e ai criteri di completezza che l’informazione deve seguire. È di fronte a «eventuali inadempienze» di queste disposizioni che si parla di possibile «impulso» verso l’Agcom. E in quest’ottica, ha precisato Romani, «non possiamo preoccuparci solo del presente ma anche del futuro, dopo aver visto Annozero o altri programmi» e ricordando quanto previsto dalla diffida dell’Agcom su Travaglio e Grillo circa il «disvalore delle istituzioni».
panorama
pagina 10 • 1 ottobre 2009
Strategie. Alla chetichella, dopo l’insuccesso alle Europee, rientra il progetto espansionista della Lega
Contrordine lumbard: addio Sud! di Valentina Sisti profondo Sud. Ovvero: facciano come gli pare, a noi interessa il Nord. Così parlò Roberto Calderoli. Un bel giorno d’inizio estate, a metà luglio, il ministro della Semplificazione normativa decise di semplificare anche il suo lavoro di coordinatore delle segreterie nazionali della Lega Nord e comunicò al senatore di Treviso Piergiorgio Stiffoni che non si sarebbe più dovuto occupare di coordinare il Lazio. Contrordine, lumbard. Poco dopo, ad inizio agosto, un’altra comunicazione interna azzerava anche le cariche nelle altre regioni del Centro-Sud, dove nel frattempo in molte regioni erano state aperte sedi e nominati commissari. La Lega Nord avrebbe quindi lasciato Lazio, Abruzzo e Molise, in cui il Carroccio si era presentato alle ultime elezioni Europee. E la conferma dovrebbe aversi con la mancata indicazione di uomini e liste alle prossime Regionali e Amministrative.
S
«Il nostro partito si chiama Lega Nord, proprio perché ha una struttura organizzata nel Settentrione, dov’è nata e cresciuta spiega il presidente federale Angelo Alessandri -. In questi mesi siamo concentrati sulle regioni del Nord che vanno al voto e che per noi sono di fondamentale importanza - Liguria, Emilia Romagna, Piemonte,Veneto e Lombardia». Nella veste di presidente federale del Carroccio Alessandri è stato il coordinatore dei nuovi espansionismi della Lega, ma - dopo il Piemonte e la Liguria l’operazione ha avuto un effetto visibile,
sti». «Nessuno oggi ha i titoli per definirsi rappresentante ufficiale della Lega Nord frena Sergio Arcidiacono, stretto collaboratore di Stiffoni nel Lazio -. È una decisione che è stata presa per ripartire meglio risorse ed energie, senza tradire chi ha scelto di seguire e rimanere fedele al partito». E assicura che la Lega Lazio si sta già riorganizzando («c’era anche chi si era nominato referente da solo»).
Ma sul federalismo fiscale, dopo gli slogan, il Carroccio si è trovato presto a fare i conti con la dura realtà. Si fa presto a dire ”costi standard”, ma che fare in regioni che traboccano di forestali come la Calabria, o in altre come la Campania che assumono legioni di dipendenti per fare una raccolta differenziata che (quasi) nessuno fa? Un timido tentativo, allora, è scattato con la proposta di gabbie salariali: se sono troppi, i dipendenti pubblici al Sud, proviamo almeno a pagarli meno. È stato quello il segnale che la Lega stava mollando il Mezzogiorno. Era venuto buono Raffaele Lombardo con l’Mpa per superare la soglia del 4 per cento alle Politiche del 2006, quando il Carroccio, ancora sbandato dopo la malattia del senatùr, rischiava di non superare la soglia di sopravvivenza. E anche alle recenti Europee lo zero virgola del Sud era servito ad aumentare il bottino. Ma è inutile incartarsi ancora con le parole, i lumbard c’entrano poco con Lombardo. E Bossi volta pagina.
Il ministro Calderoli ha comuicato ufficialmente gli ordini del ”capo”. Niente filiali in Puglia né in Sicilia: nessuno si presenti per il Carroccio
Il Carroccio si sta quindi riavvicinando al vecchio progetto secessionista?
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
strutturale e duraturo solo nella regione di Alessandri (emiliano di Reggio Emilia) e nella confinante Toscana. Per il resto meglio smobilitare, a parte qualche colorita eccezione, come la presenza Angela Maravendano a Lampedusa, giusto per accogliere i clandestini che sbarcano con la bandiera per Carroccio, piantandola anche in quel luogo simbolo. Meglio allora tirare i remi in barca, il rischio altrimenti (ad abbracciare le ragioni del Sud) è di prendere meno voti al Sud di quanti se ne perderebbero al Nord. «Anche se i nostri uomini delegati a tenere i contatti con queste regioni - assicura Alessandri - continuano a farlo e ricevono continuamente telefonate da cittadini entusia-
L’elenco delle incertezze nel caso di Alberto Stasi e dell’orrore di Garlasco
Storia un delitto (troppo) perfetto l delitto di Garlasco. Chiara Poggi, la vittima. Alberto Stasi, il fidanzato diventato indagato. Le prove dell’accusa: nessuna. Solo indizi, anche molto fragili, deboli, contraddittori. Perizie su perizie, anche superperizie. La scena del delitto: vista, rivista, stravista. Sangue dappertutto, si sente ripetere. E ci si immagina il volto bello e sorridente di Chiara massacrato e insanguinato. Scorrono le immagini e si vede e rivede Alberto che cammina, Alberto sotto braccio con la mamma di Chiara, Alberto protetto dal padre, Alberto in auto con a fianco una copia del Corriere della Sera. Del delitto di Garlasco sappiamo tutto, ormai. Tranne il nome vero dell’assassino. C’è, tra noi, chi è colpevolista e dice: «Massì, è stato Alberto. Come poteva entrare e avvicinarsi al cadavere della povera Chiara senza sporcarsi le scarpe?». L’altro partito, quello degli innocentisti dice: «Ma non ci sono prove reali a carico di Alberto Stasi e, dunque, non lo si può condannare». Il delitto di Garlasco è insolubile. Senza assassino. Il delitto perfetto?
I
Il 13 agosto del 2007 il delitto di Chiara Poggi entra per la prima volta nelle case degli italiani. Siamo all’antivigilia
di Ferragosto. Fa un gran caldo e ognuno pensa a dove andare a passare qualche giorno di riposo e di frescura. La notizia giunge nelle redazioni dei telegiornali un po’ alla buona. Arrivano notizie imprecise. Si parla di un omicidio ma non si sa bene chi è stato ucciso e se realmente c’è un cadavere. I giornalisti non sono prontissimi, è Ferragosto anche per loro. Ma non sono pronti neanche gli inquirenti. Le prime ore dopo il delitto sono quelle più delicate e importanti. Le statistiche, che pure conteranno qualcosa, dicono che se l’assassino non viene scovato nelle prime settantadue ore ha buona probabilità di farla franca. Più passano le ore, infatti, è più è difficile ricostruire la scena del delitto. Guarda caso, ciò che non è stato ricostruito bene nel delitto di Garlasco è proprio la scena
del delitto. Abbiamo la testa piena di indagini scientifiche dei telefilm americani e non solo americani. È una cosa che, forse, avete già letto altrove, lo so; anzi, lo avete letto anche su queste colonne in occasione di un altro delitto che ha “appassionato” gli italiani in questi ultimi due anni: il delitto di Perugia. Eppure le cose stanno proprio così: a volte un buon maresciallo dei carabinieri - soprattutto un tempestivo maresciallo dei carabinieri - può dare maggiori garanzie di tante e sofisticate perizie che arrivano troppo tardi. La prova del Dna, la prova schiacciante o prova regina, pur possibile, ha tutta l’aria di appartenere al mondo incantato della fiction in cui la realtà dipende da una sceneggiatura. Ma fuori dalla fiction la sceneggiatura è a soggetto, non è già scritta. La difficoltà delle
indagini deriva da qui. Se l’assassino avesse colpito a settembre ora, forse, sarebbe già in galera. Ma a Ferragosto evidentemente gli assassini hanno maggiori possibilità di farla franca. Il delitto perfetto, si dice, non esiste, ma quello compiuto a Ferragosto è quasi perfetto. Lo dimostrano i fatti.
Nel delitto di Garlasco tutto è fortemente incerto. Anche l’ora della morte di Chiara non è stata stabilità con certezza. Anche la morte della vittima, che dovrebbe essere un punto fermo per dare consistenza alle indagini e alle accuse, anche la morte della vittima è ballerina. L’impronta sul portasapone era considerata fondamentale, ma per la perizia speciale è praticamente inutile perché dice poco o nulla. La bicicletta? Idem. Il computer? Stessa cosa. Le accuse del delitto di Garlasco sono state smontate una dopo l’altra. L’unica persona presente sulla scena del delitto o arrivata sulla scena del delitto senza gli inquirenti non ha rilevanti accuse a suo carico. C’è chi lo considera colpevole per la faccia, per il sorriso, per la bocca affilata, ma la prova della colpevolezza è ben altra cosa. Non si va a sensazione. È il delitto di Garlasco.
panorama
1 ottobre 2009 • pagina 11
Costumi. La volgarità trionfa dalla tv alla vita quotidiana: anche la moda diventa “inesportabile” nell’èra Berlusconi
Mandiamo le veline nell’Inferno di Dante di Pier Mario Fasanotti el decimo canto dell’Inferno, Dante incontra Farinata degli Uberti. È nel girone degli epicurei, quelli «che l’anima col corpo morta fanno».Virgilio avverte il poeta: «Dalla cintola in su tutto il vedrai». Il peccatore è torreggiante, fiero, «come avesse l’inferno in gran dispitto». Se esistesse oggi un altro rancoroso geniaccio fiorentino potrebbe, a proposito dell’Italia, usare la stessa frase, ma al femminile e con l’esibizionismo al posto della “prava”grandezza interiore. Potrebbe descrivere la nuova Miss Maglietta bagnata, tale Erika, che ad Alassio ha vinto il trofeo per voyeur di tarda estate. Madrina dello spruzza e vinci è stata Selen, ex attrice porno. La compagnia bella è questa.
confessato d’aver fatto sesso in tutte le maniere, pure sul cemento dello spogliatoio. Maschilinizzato anche il gergo del desiderio: «Com’è attraente quel Thomas, ma una bottarella la darei a Safin».
N
È l’Italia che nelle piazze di paese, in tv, al cinema, sui giornali e sul web ha in mente sempre la stessa cosa, come si diceva una volta degli uomini. Pardon: ora si dice “maschietti”. Solo che di quella “cosa”, fissazione freudiana, si sono appropriate anche le donne. Irrobustita dalla loro millenaria astuzia commerciale. Mostrano
Tra telecamere che indugiano su seni e sederi e un’intera produzione industriale che prospera sul sesso: ma in Italia siamo proprio tutti così? quel che hanno o quel che hanno ritoccato:, che siano le tette, che siano i culetti, e qui il lezioso lessicale riporta ai neonati e ai pannolini: ma non ingentilisce, anzi. Settimanali una volta di buon graffio giornalistico confezionano calendari con quella che in tv s’è distinta per avere la sesta misura di reggi-
seno: e noi saremmo costretti a ridiventare quel ragazzetto turbato dinanzi alla carne provocatoria e straripante della tadi baccaia del Fellini Amarcord. Poi, a valanga, gli outing femminili: esternazioni sulla propria agitatissima sessualità. L’ultima è della tennista Pennetta che in tv (Le jene) ha
Sui vari motori di ricerca (Yahoo, Libero ecc.) trionfano, come notizie, i tanga, le zoomate su seni e sederi, s’indaga meticolosamente sulle trasformazioni in chiave sexy.Tutti in ansimante attesa di qualche metamorfosi. L’ultima additata è di tale Laura Torrisi (provenienza Grande Fratello, la Nuova Accademia del banal-triviale) che da “bellina”è diventata “bonazza”. Laura ha fatto da testimonial nelle sfilate di moda a Milano, con un bikini così striminzito da umiliare il voltaggio dell’immaginazione. E a questo proposito una bella staffilata è venuta da una molto ascoltata penna dell’Herald Tribune, Suzy Menkes, e dalla sua collega Vanessa Friedmann del Financial Times: «Sarà colpa di Berlusconi, ma la moda milanese è roba da veline». Scollacciata, dicono, anche quella di Armani che butta in passerella «un gruppo di sgargianti
Il caso. Una sfida tra spagnoli e italiani tra voci, smentite e controsmentite sul destinto di Telecom
Pronto, c’è Berlusconi al telefono! di Alessandro D’Amato ultimo spiffero lo pubblica sul suo sito internet El economista, il quotidiano spagnolo una cui quota è controllata dall’italiano Sole 24 Ore: «Telefonica: Berlusconi vuole entrare in Telecom Italia», titolava ieri nella homepage. Il premier avrebbe intenzione di fare «una carambola a tre sponde» con Telecom Italia, cui parteciperebbero Mediaset,Telefonica e i soci italiani di Telco (azionista di controllo di Telecom Italia). El Economista scrive che, secondo fonti vicine alla società italiana, Berlusconi vorrebbe entrare «con il beneplacito» della società spagnola. il «politico e imprenditore» realizzerebbe «il doppio obiettivo di italianizzare la nave ammiraglia delle telecomunicazioni» italiane e di farlo senza inimicarsi la multinazionale spagnola.
L’
che sia, questo è il terzo rumor in ordine di tempo che vede protagonista Telecom e la holding Telco che la controlla. Il primo, smentito durante un’audizione l’altroieri dal sottosegretario alle telecomunicazioni Paolo Romani, voleva l’entrata nel capitale dell’azienda dei fondi cinesi, pronti a investire per rinnovare la rete telefonica italiana. Il secondo, che è circolato per qualche tempo, vede-
Secondo “El economista”, il quotidiano spagnolo partecipato dal “Sole 24 Ore”, il premier vorrebbe entrare nel gestore telefonico nazionale
Le stesse fonti, continua il quotidiano spagnolo, precisano che Berlusconi vuole essere in buoni rapporti con Telefonica «non solo per il rispetto che nutre verso il terzo gruppo di telecomunicazioni mondiale, ma anche per tenersi la porta aperta ad altre trattative». Vero o (più probabilmente) falso
va invece l’ingresso dello Stato attraverso le Poste al posto proprio di Telefonica, che così potrebbe fare le valigie e smobilizzare un investimento che finora le ha portato più guai e perdite che altro. Anche qui, siamo nel campo della fantascienza o quasi, visto che Bruxelles molto difficilmente accetterebbe che il governo entrasse, tramite una controllata da parte del ministero dell’Economia, in una società quotata in Borsa.Voci e sussurri che, anche se relativamente inattendibili, segnalano che la situazione di Telecom Italia si fa via via più bollente man mano che si avvicinano gli appuntamenti istituzionali più
importanti. Di certo ci sono solo le parole di Bernabé: «Lo scorporo della rete non è in agenda – ha detto l’a.d. a margine della presentazione a Firenze del progetto ’Working capital’ – e non lo sono nemmeno eventuali alleanze con altri big. Gli azionisti di Telco hanno garantito non solo l’italianità quando è stata acquistata la partecipazione, ma l’hanno gestita nell’interesse dell’italianità della partecipazione». Tutto questo dopo l’uscita di Romani, che aveva definito “un problema”la partecipazione spagnola in Telco. Non una bella notizia per Alierta, che ha puntato 2,3 miliardi in Telecom.
È vero che, avvicinandosi alla scadenza del patto di sindacato tra gli azionisti italiani e spagnoli, in Telco – e di conseguenza in Telecom – ci si aspetta che sia il governo a togliere le castagne dal fuoco. Trovando magari l’ennesimo cavaliere bianco che consenta l’uscita agli iberici e il mantenimento del controllo in mani italiane. Il problema, però, è che forse, a parte il taglio dei fondi per la banda larga (con i denari destinati all’acquisto dei vaccini contro l’influenza A), forse nemmeno l’Esecutivo sa bene che fare. E intanto il titolo in Borsa continua a soffrire…
vestiti con reggiseno in vista, calzoncini corti e un look da giovane donna rampante pronta per il trampolino». È quest’ultima frase che riassume il clima volgare della generazione allevata prima da Mediaset, e poi dalla Rai.
L’immagine italiana sarebbe sempre meno quella dell’innovazione stilistica e sempre più sintesi corporea di chi ha come unico ossessionante credo il farsi vedere, dalla cintola in su o in giù. “Mostrare la merce”, dicevano gli antichi mercanti. Domanda retorica: sta aumentando il numero degli italiani sesso-dipendenti? Proposta: organizziamo migliaia di charter diretti in America, là dove pare funzionino egregiamente le cliniche che “disintossicano” i drogati del sesso. Michael Douglas, già sexual addict, ne ha detto un gran bene. E questo non per trasformare lo Stivale in un chiostro medievale, ma per non far sentire anormali i normali (che sono i più). Proporrei come pilota Fabrizio Corona e come hostess di volo Belem Rodriguez, così capiremmo finalmente che mestiere fanno.
pagina 12 • 1 ottobre 2009
segue dalla prima Il risentimento e la resistenza da parte della società cinese è cresciuto - negli ultimi anni - per numero e intensità, ed è divenuto ancora più intenso dopo le violenze ordinate per reprimere le proteste delle minoranze etniche. Persino all’interno del Partito comunista i membri hanno iniziato ad allontanarsi l’un l’altro, facendo nello stesso letto sogni diversi (come recita un antico proverbio cinese). In breve, le stesse fondamenta del regime tremano: e per questo arrivano tensioni e ansie. Sono stato poco tempo fa a una conferenza dal tema “Il Partito comunista cinese: sessant’anni di Cina ladrona”. Il termine “ladrona”incarna molto bene la situazione , anche se io dividerei questo ladrocinio in tre ere diverse, ognuna distinta dalle altre ma con in comune lo stesso tema: la manipolazione della politica, tesa a stabilizzare e legittimare il potere del regime. Eppure, inevitabilmente, ogni era è caduta rapidamente. Il primo ladrocinio è iniziato nei primi anni Quaranta del secolo scorso, o forse anche qualche anno prima. Mao Zedong conosceva allora il volere del popolo, e quindi ritagliava le sue politiche in base ai desideri del popolo: lanciava slogan che inneggiavano alla vittoria della nazione contro il Kuomintang. Inoltre, i capitalisti urbani e la media impresa rurale cercavano allora qualcuno che ripulisse il sistema dalla corruzione e proteggesse i loro affari. Mao fece finta di essere democratico, parlando in termini anti-imperialisti tesi alla protezione del commercio interno. In questo modo, convinse i partiti democratici a sostenerlo.
La questione agricola, nella Cina dell’epoca, era incentrata sulla disuguaglianza del possesso della terra. Ogni dinastia nella storia cinese, senza eccezioni, è iniziata con una riforma di questo fattore. Infatti, il livellamento del possesso dei terreni era un buon modo per ottenere dalla popolazione una legittimazione della presa di potere. Inoltre, serviva per costruire la nuova “classe media”: aver defenestrato (o ucciso) i dignitari di una dinastia, servivano nuove classi dirigenti che - naturalmente avrebbero sostenuto la nuova potenza. Mao e il Partito comunista non hanno seguito il sistema sovietico per ottenere il potere. Al contrario: hanno preferito il modello tradizionale cinese, che si applica in maniera perfetta alle caratteristiche del Paese. Che non per nulla è sempre stato dominato dalla classe rurale. Se avessero mantenuto la loro promessa di stabilire un sistema in grado di proteggere le industrie e gli affari interni con un’economia di mercato cucita sugli interessi dei possidenti terrieri, sarebbe stato difficile definire la loro una rivoluzione sociale. E inoltre non sarebbero stati comunisti. Per loro stessa ammissione, Mao e i suoi compagni erano idealisti con lo scopo di stabilire una nuova società in stile comunista. Eppure, dopo che il Partito si stabilizza al potere anche eliminando i nemici precedenti, rompe la sua promessa e lancia due famigerate campagne: la collettivizzazione agraria e la statalizzazione degli affari urbani. Il processo del Partito si conclude, nella seconda metà degli anni Cinquanta, con la requisizione di tutto: un processo di rottura politica, un ladrocinio. Facendolo, hanno perso la legittimazione popolare e si sono attirati molti strali: mentre le vecchie promes-
prima pagina
Il più noto dissidente cinese riscrive per “liberal ”la storia della Repubblica
Quattro ere di tra
Tibet e Xinjiang sono diventati la valvola di sfogo di u che cavalca la corruzione e la maschera da capitalism
di Wei Jin se ancora aleggiano in giro, le nuove promesse di costruire un felice Stato comunista crollano con la carestia dei primi anni Sessanta. Ma Mao e i suoi dirigenti non sconfessano le proprie idee: al contrario, accusano del fallimento il «retropensiero ancora esistente della cultura tradizionale cinese». Tramite la Rivoluzione culturale, sostenuta da tutto il Partito, cercano di vincere anche questa sfida. Lo scopo della Rivoluzione culturale era in primo luogo quello di scaricare i fallimenti della rivoluzione comunista alla cultura tradizionale, e in secondo luogo di ripartire con una riforma in grado di legittimare il Partito e mostrare il suo impegno per la costruzione di uno Stato migliore. Eppure, il tradimento di Lin Biao - amico personale di Mao e comunista della prima ora dimostra il fallimento di questo idealismo. Dopo anni di lotte politiche comuni, nel 1950 Lin fu uno dei molti generali che si opposero ai piani di Mao per una partecipazione cinese alla Guerra di Corea. Il risultato di compromesso fu che le truppe cinesi che vi parteciparono lo fecero senza appoggi logistici e con lo status di “volontari”. Nel 1955 fu nominato maresciallo e nel 1958 fu eletto al Politburo o Comitato Politico Permanente del Partito Comunista Cinese. Lavorò strettamente con Mao, che nel
Deng Xiaoping era peggiore del suo primo maestro, il Grande Timoniere: usando le idee democratiche è arrivato al potere, e poi ha usato una morsa di ferro per distruggere tutti coloro che avrebbero potuto fermarne il dominio assoluto frattempo aveva perso il controllo del partito a causa delle politiche economiche sbagliate, pubblicando come manuale di istruzione politica per l’esercito il Libretto rosso, un volumetto che raccoglieva alcune citazioni di Mao.
Iniziava così il culto della personalità che sarebbe stato determinante per scatenare la rivoluzione culturale contro le strutture del partito comunista stesso. Dopo la caduta di Liu Shaoqi il 1 aprile del 1969, Lin Biao fu in grado di controllare l’intero Esercito di Liberazione del Popolo e fu secondo solo a Mao Zedong nel partito. La costituzione stessa del partito fu
modificata per indicare espressamente in Lin Piao il successore di Mao. Dato il susseguirsi di scontri tra il partito comunista e le Guardie Rosse fu deciso che ogni or-
gano dirigenziale a qualsiasi livello fosse posto sotto il controllo di un organo collegiale che avesse rappresentanti sia del partito comunista, che delle guardie rosse
prima pagina
a popolare cinese: sessant’anni dominati da tiranni senza nessuno scrupolo
adimenti e paura
una popolazione sempre più amareggiata dal governo mo, mentre il Paese scivola sempre più nella povertà
ngsheng
Oltre un milione e mezzo di poliziotti controlleranno il normale andamento delle parate
Una capitale blindata e in silenzio per la “festa” della Repubblica di Vincenzo Faccioli Pintozzi
PECHINO. La forze di sicurezza cinesi hanno bloccato tutto il centro di Pechino in vista della parata di oggi, momento focale delle celebrazioni del 60esimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare di Cina. Una vasta zona intorno a piazza Tiananmen è diventata una sorta di città fantasma. I grandi alberghi, come lo storico Beijing Hotel, sono stati chiusi. La Città Proibita degli imperatori, che rimane la principale attrazione turistica della capitale, è inaccessibile.Una vasta zona intorno a piazza Tiananamen, in genere il centro pulsante di una metropoli di 17 milioni di abitanti, appariva ieri semideserta. Il traffico è ridotto al minimo e l’enorme piazza ha assunto un aspetto spettrale. Al centro, intorno al palco delle autorità che oggi assisteranno alla parata, campeggiano delle colonne in rosso e giallo - i colori nazionali - sulle quali sono state disegnate scene che ricordano l’esistenza nel Paese di 56 minoranze etniche non-cinesi. Lungo il Viale della Pace Eterna sono in bella vista le squadre speciali Swat della polizia, nelle loro futuristiche divise nere che fanno apparire gli agenti come personaggi di un film. Non è chiaro se entreranno in azione i caccia pronti a bombardare le nuvole con razzi pieni di ioduro di argento, per disperderle e far splendere il sole durante le celebrazioni. che dell’esercito. In questo modo il potere dell’esercito nella società cinese divenne determinante, e Lin Biao ne era a capo. Ma Lin scomparve nel 1971 in circostanze che rimangono misteriose. Alcuni storici ritengono che Mao abbia pianificato di eliminare Lin Biao e per questo Lin e quanti erano legati a lui abbiano pianificato un colpo di stato preventivo. La spiegazione ufficiale fu che Lin Biao, con l’aiuto di suo figlio Lin Liguo abbia pianificato di assassinare Mao tra l’8 settembre e il 10 settembre 1971 ma che la figlia di Lin abbia rivelato il complotto. Una volta scoperto, Lin e la sua famiglia e molti altri suoi aiutanti personali tentarono una fuga in Unione Sovietica ma l’aereo su cui si erano imbarcati si schiantò, per cause mai precisate, in Mongolia il 13 settembre 1971. Rimane però un mistero se l’intera storia sia vera o meno.
Alla fine degli anni Settanta, non soltanto il sistema politico ma l’intera nazione viene coinvolta in una crisi totale: economica, politica, sociale e culturale. A quel tempo, la società nel suo complesso cerca di uscire dallo stallo. Il pubblico si concentra su quei temi che erano stati banditi durante la Rivoluzione culturale: i protocolli morali, la prosperità, la democrazia e lo stato di diritto (che presto diventano le maggiori
Per mantenere l’ordine sociale, Pechino ha bisogno di creare un potente nemico interno. Come per gli ebrei al tempo di Hitler, ora a fare le spese dell’odio popolare sono le minoranze etniche. Una situazione che potrebbe far scivolare il Paese nel caos preoccupazioni della popolazione). È ovvio che sono in cerca di nuovi scopi e nuovi modelli. In questo contesto si verifica un piccolo colpo di Stato, sostenuto dalla maggior parte della popolazione: vengono arrestati i membri della Banda dei Quattro, fra cui la moglie di Mao. Il popolo festeggia, convinto di essere davanti al segnale tanto atteso di cambiamento. Invece, l’allora leader del Partito Hua Guofeng delude la popolazione: continua sulla rotta tracciata dal Grande Timoniere e si attira critiche e proteste. Da questo nasce il primo movimento democratico cinese dalla presa di potere del Partito: il movimento del Mu-
ro della Democrazia. Sul momento, Deng Xiaoping si rende conto dell’opportunità politica che gli si presenta davanti: prende gli slogan che appaiono nel Muro per andare incontro ai voleri della popolazione e cacciare Hua e la sua banda, in modo da prendere il potere. A pochi minuti dal conseguimento del suo risultato, promette di stabilire un sistema democratico e dare il via a riforme economiche. Mao lo aveva definito «un cacciatore di potere, un capitalista» e questo aveva convinto la popolazione che Deng li avrebbe guidati lontano dal comunismo. La verità era un’altra: Deng era conosciuto nel Partito per la sua crudeltà politica senza limiti.Tanto che non si è neanche disturbato a seguire il modello maoista di cambiamenti graduali. La prima cosa che ha fatto, una volta preso il potere, è stato distruggere le forze democratiche che lo avevano aiutato a salire al potere. Dopo aver abbattuto il Muro della Democrazia, ha passato tutti gli anni Ottanta a perseguitare i democratici, nel Partito e fuori dallo stesso. Ha iniziato la campagna “Contro l’inquinamento spirituale”, che è servito a reprimere le richieste di libertà da parte della popolazione. Questo modo di fare, totalmente contrario al sentire comune, si è evoluto fino alla terribile repressione militare degli studenti di piazza Tia-
1 ottobre 2009 • pagina 13
nanmen. Dopo aver infranto le promesse politiche che avevano recitato per arrivare ai vertici, Deng e Jiang Zemin pronunciano un altro voto: verrà migliorata la situazione economica del Paese in cambio dell’autocrazia politica. Molti cinesi, oramai disillusi, si piegano a sperare nel benessere senza libertà. Ed è vero che l’economia cinese inizia uno sprint importante negli anni Novanta, ma è anche vero che sullo stesso binario corre la corruzione. Che sfocia però nel monopolio di mercato, dato che soltanto una piccola porzione della popolazione beneficia di questo sviluppo. Questo modello di sbilanciata crescita economica, che sottosviluppo il mercato interno e lega tutto il processo ai mercati stranieri, è ovviamente prossimo alla fine.
La promessa espressa da Deng Xiaoping a favore del capitalismo si è dimostrata, com’è ovvio, un’altra bugia. Ma soprattutto nascondeva una mossa per derubare il benessere pubblico su larga scala, una mossa più diretta e avida di tutte quelle fatte da Mao. Questo doppio fallimento ha scatenato violenze sociali sempre più aspre, e la strategia di ladrocinio di Jiang Zemin ha soltanto peggiorato le cose. Dopo tutto, la natura del capitalismo di Stato prevede che siano i capitalisti a governare direttamente. La linea di limite è però quella che garantisce un limite di espropri e fissa la non distribuzione della ricchezza con la società. Superata questa, come nel caso di Deng, si assiste al crollo. Hu Jintao e la sua cricca stanno attualmente varando un nuovo modo di derubare la nazione, per la terza volta di fila. Hanno capito, dopo anni di esperimenti disastrosi, che l’esempio nordcoreano o cubano non portano da nessuna parte: quindi, devono lavorare tramite il capitalismo. E quindi, sarebbe giusto seguire l’estremo nazionalismo propugnato da Hitler? Anni di pratica e di esperimenti hanno mostrato che una cosa del genere potrebbe andare bene, ma soltanto ad alcuni strati della popolazione. In realtà, per far funzionare il nazionalismo serve un forte nemico interno – proprio come fece Hitler – per instillare paura e orrore nella maggioranza e convincerla a sostenere un governo di teppisti. Ed è proprio per questo che le popolazioni di Tibet e Xinjiang sono state così descritte dai media cinesi. L’odio raggiunto dal nostro popolo nei confronti di queste etnie raggiunge quello dei tempi del nazismo nei confronti degli ebrei. Un numero preoccupante di cinesi sono stati mossi dal loro patriottismo a credere senza sapere, e molti di loro sono diventati avvocati e guerrieri di un neo-nazismo. Quando un popolo viene indetto a dimenticare le proprie miserie per diventare prima fila del nazismo, non si avvicina soltanto all’auto-immolazione ma può fare molti danni agli altri. Questa era di ladrocinio nei confronti della Cina rischia di diventare molto più pericolosa di quelle avvenute durante Mao, Deng e Jiang. I cinesi che hanno sensibilità e intelligenza devono smettere di credere a queste induzioni e alzarsi in piedi contro Hu Jintao. In ballo c’è un enorme disastro.
prima pagina
pagina 14 • 1 ottobre 2009
La Cina moderna si fonda su un accordo tacito: “laissez faire” economico contro disinteresse per la politica
L’officina del Pianeta Terra Un politico, una studentessa e un imprenditore raccontano quello che oggi è l’epicentro dello sviluppo (e dell’inquinamento) industriale nel mondo di Sergio Cantone
I soldati mostreranno al mondo i modernissimi armamenti in loro possesso iamo tutti appestati. È la sensazione che si prova negli aeroporti cinesi. Infatti le autorità locali, in occasione del sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare, non badano a spese in materia di igiene. Per chi arriva, ad esempio, ci sono moduli da riempire in cui si indaga su eventuali irritazioni faringee, nasi che colano e colpetti di tosse, anche dei familiari rimasti in occidente (con minaccia di azioni legali nel caso di frottole); la hostess misura la febbre ai passeggeri con un termometro super veloce a forma di pistola laser e affabili doganieri con mascherina da chirurgo controllano i passapporti con efficienza e sensibilità verso il cittadino. L’asettico aeroporto di Pechino è un bunker anti-virale, la prima linea di difesa contro l’influenza A. Un po’di oggettiva profilassi e un po’ di vendetta, i cinesi non hanno voglia di ripetere la disfatta dell’influenza aviaria e vogliono rendere pan per focaccia a chi va sostenendo di forum scientifico internazionale in sede diplomatica (come fa guarda caso Taiwan) che l’Impero di Mezzo è il brodo di coltura delle pestilenze del terzo millennio.
S
La minaccia biologica insomma questa volta viene da ovest. È un atteggiamento simbolico, riassume in sè quello cui aspira la Repubblica Popolare sessant’anni dopo la vittoria di Mao Zedong sulle «forze della reazione»: grande potenza in divenire senza guai con la comunità internazionale, sistema nominalmente socialista ben intenzionato verso i propri cittadini. E quello che per il momento è, regime autoritario alla ricerca di consenso fuori e dentro la “grande muraglia” (soprattutto dopo i fatti tibetani e i recenti eventi nella regione audello tonoma turcofona Xinkiang). Ma al di là della retorica global-anglosassone e il kitsch provinciale delle immagini di grattacieli tesi a toccare il sol dell’avvenire, oltre alla Cina nella sua dimensione mitica cui ci hanno abituato i media da più di una decina d’anni, ci sono an-
che un miliardo e trecento milioni di cinesi (al netto dello diaspora). E qual’è il grado di adesione di questi ultimi al Paese immaginato e cantato nei “pastiches” dell’Economist a base di slogan «investing in China» e l’iconografia da pseudo guerra fredda del tipo dragoni con occhi spietati e lingua biforcuta? All’aeroporto di Pechino sotto a un enorme cartello luminoso che indica i voli per Hong Kong, Macao e Taiwan, una minuta ragazza cinese, Anqi, sorseggia una Hoegaarden, birra bianca fiamminga. Ha l’aria da sgobbona e l’apparenza timida, una vera“nerd”per gli amanti del genere cinematografico demenzialuniversitario Usa. Aspetta il volo per Bruxelles perchè frequenta un Mba all’università cattolica di Lovanio, dopo aver studiato economia all’università della sua città, nella provincia di Shanghai. Chi già si immagina lo stereotipato personaggio asiatico impenetrabile, determinato e pronto a impadronirsi delle preziose nozioni occidentali andrà deluso. A Anqi piacciono i bar e la birra belgi, ha fatto economia «perché si trova lavoro, ma avrei studiato più volentieri storia» e la matematica è una scienza ostica e opinabile « cco perchè ci sto mettendo due anni e non uno a fare il Master in business administration». Ma il suo obbiettivo è chiaro, vuole lavorare in una banca d’affari a Shanghai, non lontano da casa. Anqi ha un po’ di nostalgia di mamma e papà. Non ha fratelli e sorelle per la «politica del figlio unico». Cinonostante i suoi genitori l’hanno incoraggiata a partire «quasi tutti i miei amici sono andati a studiare all’estero, chi negli Usa, chi in Australia e qualcuno in Europa». La ventiquattrenne è iscritta al partito comunista cinese da quando aveva quindici anni (il potentissimo Pcc ha solo settantre milioni di membri) non si capisce se vi abbia aderito per convinzione o per carrierismo. Molti cinesi dicono che per far carriera nella pubblica amministrazione ci voglia la tessera del partito, ottenerla non è facile, a quanto pare si rischia di morire soffocati travolti da uno smottamento di moduli e prestampati, o di tirare le cuoia per inedia nelle interminabili riunioni delle cellule.
A Tiananmen torna l’esercito. Armato con i soldi delle scuole di Massimo Fazzi
PECHINO. L’Esercito di Liberazione Popolare (Pla) sarà oggi il protagonista della parata per la celebrazione del 60esimo anniversario della Repubblica Popolare di Cina. Pechino vuole mostrare al mondo che il suo esercito si sta progressivamente trasformando in una moderna forza di combattimento. Nata dall’Armata Rossa, un esercito guerrigliero ed in prevalenza contadino di cinque milioni di uomini che sconfisse nella guerra civile (1945-49) i nazionalisti del Kuomintang, la Pla conta oggi 2,3 milioni di uomini. Secondo indiscrezioni i vertici dello Stato hanno in programma nei prossimi anni un’ulteriore riduzione degli organici di 700mila unità. Parallelamente, secondo un progetto lanciato dal presidente Hu Jintao (che è anche il comandante in capo dell’ esercito), verranno rafforzate l’aviazione e soprattutto la marina militare, che ha in programma la costruzione di una portaerei. È proprio sul mare, secondo gli esperti di cose militari, che la Cina intende proiettare il suo nuovo status di potenza regionale. Il Mar della Cina è ricco di risorse naturali che lo fanno teatro di una serie di dispute che vedono Pechino contrapposta a Taiwan, Vietnam, Giappone, Filippine e Brunei in dispute sui confini marittimi tra i vari Paesi. Inoltre, la Cina rivendica Taiwan, che è protetta militarmente dagli Usa, e intende sviluppare la propria marina in modo che sia in grado di sostenere, in un eventuale guerra, il confronto con la flotta statunitense. Oggi la marina militare cinese ha 290mila uomini e 72 navi da guerra. In prospettiva le spetterà anche il compito di proteggere i rifornimenti energetici del Paese e l’anno scorso per la prima volta, navi cinesi si sono spinte fino al largo della Somalia per unirsi alle iniziative internazionali contro la pirateria. L’aviazione ha 400mila uomini e circa duemila aerei da combattimento. L’arsenale nucleare di Pechino conta tra i cento ed i quattrocento ordigni atomici e si ritiene che domani sfilerà anche un nuovo missile balistico capace di portare testate atomiche. Tutto comprato con i soldi destinati alle scuole.
Come disse pragmaticamente Deng per giustificare la progressiva liquidazione dell’economia pianificata: «Il colore del gatto è indifferente, l’importante è che prenda i topi» La giovane non si prende sul serio e parla del padre (giornalista di cronaca locale per la radio nazionale cinese) con un tocco di tenerezza e un po’di compatimento: «Papà ammira la Corea del Nord, perché vede i film prodotti da Pyongyan che mostrano una vita felice in un sistema perfetto. Credo che sbagli, non penso che la Corea del Nord sia quella dei film». In Cina i giornali non scrivono molto dell’imbarazzante vicino e, seppur senza criticare, le poche volte in cui lo fanno riportano freddamente
alcuni fatti del regime della famiglia Kim. La Corea stalinista non fa il caso delle nuove generazioni. I giovani cinesi sono piuttosti ridanciani. Scrutando con attenzione ci si accorge che persino le guardie d’onore che circolano in piazza Tienanmen non ce la fanno proprio a restare serie e marziali, qualche risatina gli scappa mentre si scambiano chiacchiere sussurate marciando in quadriglia con il Kalashnikov da parata. È la Cina delle grandi città in costruzione continua, dove la gio-
prima pagina
Per fare carriera nella pubblica amministrazione ci vuole la tessera del partito. E ottenerla non è facile, perché si rischia di rimanere travolti dalle complicazioni burocratiche
ventù ha voglia di divertirsi. Quella Cina a cui il Partito comunista e il consiglio di stato della repubblica popolare pensano quando progettano di far crescere i consumi interni, aumentando il reddito del popolo, anche dandogli una parvenza di stato sociale. Qualche diplomatico cinese azzarda addiritura che «potremmo adottare il modello sanitario danese, è il più efficiente» Domanda: «Siete quindi pronti ad aumentare le tasse?». Risposta: «Beh no, forse sul tipo di stato sociale sarebbe meglio pensarci un po’». I cinesi delle città sono l’élite del Paese, sono il volano della sua crescita economica. Insomma la grande sfida sessant’anni dopo la rivoluzione è
quella di creare una classe media. Ma c’è anche la Cina delle campagne ancora ferme ai primi esperimenti di mercato del 1978. Anche questa è la Cina del Partito Comunista che a ogni congresso generale rinvia il passo definitivo e senza ritorno della privatizzazione della terra. Qui i problemi sono la povertà e il sottosviluppo. Regione dello Yunnan, prefettura autonoma dello Xishuanbanna, Jinghong è una città in riva al Fiume Lancang (il corso cinese del Mekong) in un’area tropicale.
A pochi chilometri da Myanmar e Vietnam il potere locale, con l’appoggio dello stato centrale, tenta di trasformare la zo-
na in attrazione turistica. Jinghon è un bel posto a portata di tasche per migliaia di villeggianti nazionali pronti ad approfittare delle prime vacanze e di un accenno di cultura del tempo libero, tratti inequivocabili di una classe media in divenire. Non solo industria alberghiera, nella giungla infatti si coltiva la gomma. Le frastagliate e lussureggianti coste della valle del Lancang sono lottizzate da parcelle di terreno concesse in leasing dallo stato ad alcune famiglie di coltivatori locali. Si tratta di piccoli padroncini che possono arrivare ad avere sei o sette dipendenti.Vivono in villaggi di case di bambù lungo il fiume e quando piove sprofondano nel fango. Una di queste capanne ha una terrazzina con vista sul corso d’acqua limaccioso. È un piccolo bar spartano e a un tavolo siede un gruppo di giovanotti con i capelli lunghi. A torso nudo giocano a carte, sembrano rachitici. Sono tutti di etnia tai, in questa zona è il novanta per cento della popolazione. Coltivano la gomma, e posseggono piccoli appezzamenti che in loco si misurano in “mu”. Riescono a produrre abbastanza per vivere, ma adesso sono infuriati contro gli Usa. No, non si tratta di retorica anti-imperialista, come nella Cina di qualche decennio fa. Temono per il loro business perché l’amministrazione del sorridente presidente Barak Obama ha deciso di pagare pegno al suo elettorato aumentando le tariffe sull’import dei copertoni proprio per colpire l’industria cinese, salvando il salvabile negli Usa. E questi piccoli coltivatori con terreni abbarbicati lungo il corso del fiume dorato, prevedendo un crollo della domanda interna di caucciù sperano che il governo centrale faccia sentire le loro ra-
1 ottobre 2009 • pagina 15
gioni. Insomma, dalla giungla alla corte del Wto. Il governo centrale ha deciso di rilanciare questa regione periferica favorendo gli investimenti. Ma è ancora una volta l’industria a trarree i principali vantaggi rispetto alle campagne, oggi con il “socialismo di mercato”, cosí come ai tempi di Mao con l’economia rigorosamente pianificata. Kunming, capitale dello Yunnan, è la tipica città cinese del terzo millennio. Una volta c’erano un caretteristico centro storico e un antico quartiere islamico. Ebbene, nel giro di due anni sono stati rasi al suolo e sostituiti da palazzine nuove e sicuramente più confortevoli per chi a Kunming ci deve vivere. Lungo le vie non c’è uno spazio che non sia occupato da negozi. Si vende di tutto, dal cellulare ultima generazione, alle statuette di “giada”. Qualcuno offre “Rolex” sottobanco. Quello che rimane di “antico”è l’università, un edificio in mattoni rossi, costruito nei primi anni ’20, ai tempi della presenza anglofrancese. È qui, nell’area urbana dove si notano gli effetti degli investimenti del governo centrale. C’è infatti un’importante joint-venture farmaceutica sino-americana, la Dihon. Qui, accanto alla normale produzione di medicinali vengono trattati anche rimedi tradizionali cinesi su scala industriale. È tutto altamente tecnologico, lavoratori incapucciati in tuta asettica blu, sono indaffarati attorno a macchinari importati dalla Germania. Il presidente della società si chiama Jiu Jiareng e si è lanciato nel business farmaceutico nel 1993. Settantenne frizzante, il signor Jiu è felice dei propri investimenti e delle possibilità offerte dal socialismo di mercato. «Ho un giro di affari di circa sei miliardi di Yuan (circa seicento milioni di Euro) con un quattor-
dici per cento di imposizione fiscale, facciamo circa seicento milioni diYuan di profitti». L’iperattivo settuagenario parla di cifre e di come iniziò tutto. Ma su Mao Zedong e Deng Xiaoping non si espone: «Ognuno a suo modo ha fatto il bene della Cina» e poi: «Piazza Tienanmen? Il 1989 è roba vecchia, bisogna guardare al futuro » e indica la sua fabbrica con la mano destra. A Pechino puntano sui Signor Jiu. Interessati solo agli affari nessuno gli chiede un’iscrizione al partito o una dichiarazione di fede socialista. È un accordo tacito: laissez faire economico contro disinteresse per la politica. Come ebbe a dire pragmaticamente Deng per giustificare la progressiva liquidazione dell’economia pianificata a favore della crescita alla fine degli anni settanta: “Il colore del gatto è indifferente, l’importante è che prenda i topi». Libertà economica garantita a doppio filo dalla centralità blindata del Pcc nella società cinese. Cosí vollero Deng e il suo successore Jian Zeming. Cosí vuole l’attuale leader Hu Jintao. E cosí la Cina si è guadagnata il titolo di “officina del mondo”. Si produce di tutto. E chi dice industria dice inquinamento anzi, emissioni di CO2. È una nuova sfida per i Paesi emergenti, come contribuire alla lotta contro il cambio climatico senza minare la crescita economica? «La Cina è un Paese in via di sviluppo, abbiamo appena iniziato a inquinare. L’occidente ha invece oltre un secolo di responsabilità alle spalle. E i Paesi sviluppati in virtù del loro ruolo storico dovrebbero svolgere un ruolo guida e aiutarci con trasferimenti facilitati di tecnologie verdi» dice il portavoce del ministero degli esteri cinese Qin Gang. È un uomo estremamente pacato, ma inflessibile nel suo ottimo inglese. Anche in questo senso rappresenta in pieno la diplomazia cinese. Soprattutto quando deve rispondere alla domanda sulla minaccia europea (francese) di aumentare le tariffe sull’importazione di beni provenienti dall’industria ad alto consumo energetico.
«Bisogna distinguere tra protezionismo e lotta contro il cambio climatico, credo che la tassa sul CO2 alla frontiera sia protezionismo mascherato e come tale lo sapremo trattare». Oltretutto alcuni Paesi europei sono già nella lista nera: «Chi ha ricevuto il Dalai Lama si è intromesso negli affari interni cinesi. Voi credete che sia un leader religioso, ma è un uomo politico. Il Tibet, quando lui era al potere, era un Paese medievale». E la conclusione è sul sessantesimo anniversario della Repubblica popolare, ma guardando al futuro la parola d’ordine è armonia: «Noi vogliamo la politica dell’armonia per la nostra società e per il mondo».
quadrante
pagina 16 • 1 ottobre 2009
Nucleare. Sempre più accesi i toni dello scontro sull’uso dell’energia atomica l clima - in attesa dell’incontro di oggi a Ginevra fra i delegati iraniani da un lato e i rappresentanti dell’Aiea dall’altro, insieme al “Gruppo 5+1” - è quello della vigilia di uno scontro tra due fazioni che non sono riuscite ad accordarsi. All’intransigenza dell’Iran hanno reagito in modo speculare Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia e con loro la Germania. Ne è conseguito che Cina e Russia, da sempre le più filo-iraniane all’interno del “5+1”, si sono trovate con le mani legate. La stessa Agenzia internazionale per l’energia atomica non ha risparmiato un atteggiamento di esplicita fermezza. La realpolitik suggerisce ormai tre strade possibili. Fidarsi di Teheran e sulle sue intenzioni in fatto di nucleare per scopi civili. Oppure fermare con la forza l’Iran, opzione tenuta ancora in considerazione presso alcuni settori della sicurezza in Israele. Infine, la terza via delle sanzioni, alcune già in vigore, altre eventualmente da introdurre. Nello specifico, le Risoluzioni 1737 del 2006 e la 1747 del 2007 vietano il commercio con l’Iran di materiali e tecnologie - in particolar modo armi - che potrebbero contribuire al programma nucleare. Inoltre impongono il congelamento dei beni e attività finanziarie di una specifica lista di persone fisiche e giuridiche iraniane. Nel marzo 2008, la Risoluzione 1803 ha reso ancora più rigido l’embargo. Il nuovo pacchetto di divieti che si vorrebbe introdurre punterebbe a bloccare i trasporti per nave dei prodotti iraniani (agendo sulle compagnie di assicurazione marittima), colpire il sistema energetico e i settori dell’economia nazionale iraniana che potrebbero sostenere l’impegno militare. Un altro bersaglio potenziale è quello delle importazioni iraniane di carburante, data la carenza di
I
Il “5+1” a Ginevra sfida il regime d’Iran Il direttore dell’Aiea: «Teheran è dalla parte sbagliata della storia. Si fermi» di Antonio Picasso diametralmente opposti. Da una parte il governo di Teheran intende chiedere a Ginevra l’acquisto a uno dei membri del “Gruppo 5+1” di un quantitativo di uranio arricchito a circa il 20 per cento utile per la realizzazione di un reattore per la ricerca medica. Dall’altra, vi sono le esternazioni di alcuni parlamentari iraniani. Il deputato ultraconservatore Hassan Ghaffurifard ha ammonito che: «nel caso in cui i 5+1 si rivolgessero a noi con una logica di forza e magari con nuove sanzioni, non avremmo altra scelta che ritirarci dai colloqui».
Gli ayatollah pronti a «dimostrare al mondo» di cosa sono capaci. Mentre il governo indiano si propone come “new entry” nella mediazione raffinerie nel Paese. Misura, questa, che non trova il consenso di molti Paesi europei, perché si ritiene che potrebbe colpire soprattutto la popolazione anziché il regime. L’approvazione è invece unanime per quanto riguarda il taglio
dei legami finanziari tra l’Iran e il resto del mondo, agendo sulle banche e le società di settore. Al di là di questo schema sintetico, tuttavia, si apre un complicato panorama di chiaroscuri. Teheran, infatti, è attraversata da sentimenti
Nel primo caso i rumors parlano di una disponibilità iraniana a presentare una domanda di acquisto persino agli Stati Uniti. C’è da dire che, se i centri di comando Usa fossero ancora nelle mani di Dick Cheney e Donald Rumsfeld, una simile richiesta sarebbe stata giudicata per lo meno impudente. L’amministrazione Obama, al contrario, ha preferito non commentare le intenzioni di Teheran. Anche perché il Presidente Usa aveva espresso la sua posizione in modo inequivocabile già venerdì scorso all’apertura del G20 di Pittsburg. È altrettanto indubbio che le potenze occi-
dentali sospettino che la Repubblica islamica possa adoperare la stessa tecnologia per aumentare l’arricchimento dell’uranio a oltre il 90%, necessario per costruire ordigni atomici. In realtà, la domanda di Teheran potrebbe apparire come un tardivo approccio a smorzare i toni, affinché il summit di Ginevra sia alleggerito di alcune delle tensioni di questi ultimi giorni. Al di là dei singoli governi di cui si è detto, è la secca dichiarazione pre-vertice dell’Aiea che rende l’idea della gravità della situazione. «L’Iran è dalla parte sbagliata della legge», ha indicato il direttore dell’agenzia, el-Baradei. Mohammad «Teheran ha sbagliato a non dichiarare la realizzazione di un secondo sito per l’arricchimento dell’uranio al momento dell’avvio dei lavori».
El-Baradei si è espresso così a New Delhi, in occasione della consegna a lui del premio “Indira Gandhi” per la pace. È interessante notare che le sue parole siano state seguite da una dichiarazione di apertura da parte del premier indiano, Manmohan Singh. «I benefici del nucleare non devono essere un privilegio di pochi, ma andare incontro alle necessità di energia dei Paesi in via di sviluppo». L’India è una potenza nucleare e l’Iran aspirerebbe a diventarlo proprio per compensare questa forza centroasiatica. E se un’idea di moderazione giungesse oggi a Ginevra provenendo dall’India? Risolvendo la crisi iraniana, New Delhi riceverebbe solo benefici. Guadagnerebbe punti in ambito internazionale al fine di entrare come nuovo membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e si garantirebbe un buon rapporto con Teheran in chiave anti-pakistana. Possiamo cominciare a sognare un “5+2”? Con l’India che farebbe da new entry?
quadrante
1 ottobre 2009 • pagina 17
In corso una lotta diplomatica nel post-elezioni afghane
Colpita la città di Padang, crollano anche gli alberghi
Dimissioni per il numero due della missione Onu a Kabul?
Terremoto a Sumatra: centinaia di morti
KABUL. Si infittisce il “giallo” sul “numero due”della missione Onu in Afghanistan, lo statunitense Peter Galbraith. Arrivato quasi quattro mesi fa (il 2 giugno) nella capitale afghana con l’incarico di vice rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per gli Affari politici, Galbraith è entrato pesantemente in rotta di collisione con il suo capo, il norvegese Kai Eide, sul modo di trattare e risolvere lo scandalo dei brogli riguardante le presidenziali del 20 agosto, provvisoriamente vinte dall’uscente Hamid Karzai.In particolare i rilievi del “numero due” dell’Unama hanno riguardato il tipo di controlli, che a suo avviso doveva essere il più ampio possibile, e la rapidità dei tempi di esecuzione degli stessi, per assicurare che un eventuale ballottaggio potesse svolgersi prima dell’inverno. Questo ha provocato tensioni e polemiche, e così i media internazionali a metà settembre hanno riferito che, date queste divergenze ed il conflitto che esse avevano provocato, Eide aveva chiesto al suo vice di lasciare Kabul, cosa che lo stesso ha fatto il 13 settembre dirigendosi a Boston. Giorni dopo, la Commissione per i reclami elettorali (Ecc), d’accordo con la Commissione elettorale indipendente (Iec),
JAKARTA. Sono centinaia i mor-
Prigionieri in cambio di un videotape Gerusalemme tratta con Hamas sotto i riflettori dei media di Pierre Chiartano l sole conforta i deboli e i media aiutano i protagonisti della guerra di nervi tra Hamas e Israele, nel caso Shalit, a sembrare attori meno fragili di quanto non siano. Per motivi diversi. Le trattative fatte alla luce del sole o dei media indicano una fase di debolezza dei protagonisti della vicenda.
I
Secondo la tv satellitare araba al Jazzera, il governo israeliano avrebbe deciso la liberazione di 20 detenute nelle carceri israeliane in cambio di «informazioni su Gilad Shalit», il caporale israeliano rapito da miliziani di Hamas nel giugno del 2006 a Gaza. Per l’emittente del Qatar, la decisione di Israele rientra nell’ambito degli «sforzi di mediazioni in corso» condotte da Germania e Egitto – con il contributo del generale Omar Suleiman, capo dell’intelligence del Cairo – per la liberazione del soldato rapito. Una dimostrazione di quanto sia sempre più difficile per gli israeliani trattare con il radicalismo islamico. Non è neanche uno scambio alla pari. Storicamente Gerusalemme ha sempre rilasciato decine, se non centinaia di prigionieri, per aver indietro pochi dei suoi militari o civili, finanche solo dei corpi da poter seppellire. Questa volta si parla di un ragazzo molto giovane, Gilad Shalit, che il 28 agosto ha compiuto 23 anni. È una prima intesa su uno scambio di prigionieri che consentirebbe la liberazione del caporale israeliano tenuto in ostaggio a Gaza dal giugno 2006. In cambio di un filmato di 60 secondi che mostra il giovane militare, Israele libererà, venerdì, 20 detenute palestinesi militanti di svariate organizzazioni fra cui Hamas, al-Fatah, Jihad islamica e Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Secondo radio Gerusalemme, il filmato sarebbe già nelle mani del mediatore tedesco. «Si tratta di una svolta importante, ma la strada da percorrere resta ancora molto lunga», ha commentato il capo dello stato israeliano Shimon Peres. L’annuncio è giunto simultaneamente, ieri in mattinata, a Gerusalemme e a Gaza. A Gerusalemme l’ufficio del primo ministro Benyamin Netanyahu
ha divulgato un comunicato. A Gaza City la notizia è stata diffusa dal portavoce delle Brigate Ezzedin al-Qassam (braccio armato di Hamas) Abu Obeida, che ha improvvisato una conferenza stampa. In città l’eccitazione è palpabile, mentre la radio al-Aqsa di Hamas trasmette in onda aperta per sottolineare l’importanza del «successo» appena conseguito. E forse spiega anche uno dei motivi per cui questa trattativa non è stata tenuta segreta, come spesso succede. Hamas dopo il disastro militare e politico dell’operazione Piombo fuso, è in cerca di riscatto. Anche questa semplice operazione di scambio potrebbe servire a ridare un minimo di consenso a una classe dirigente in difficoltà. Sul versante israeliano il fatto che si dia pubblicità alla vicenda potrebbe rispondere alla stessa esigenza. Dimostrare che si sta agendo per chiudere una vicenda che, oltre a lenire l’angoscia dei genitori di Gilad, porti a verificare l’attendibilità degli interlocutori. Mediatori a parte. Abu Obeida ha precisato che quasi tutte le «prigioniere» che riacquisteranno la libertà sono originarie della Cisgiordania, in prevalenza di Nablus. Ma una di esse – ancora non si conosce l’identità – ha residenza a Gaza ed è reclusa in carcere assieme con il suo figlio. Ancora non è noto se essa sarà autorizzata a rientrare nella Striscia.
Israele pronta a liberare 20 detenute per avere informazioni su Gilad Shalit, il caporale rapito dai militanti nel 2006
ha annunciato che per garantire la correttezza del voto presidenziale sarebbe stato realizzato un nuovo conteggio a campione, secondo metodi di standard internazionale, sul 10 per cento dei 3.000 seggi su cui esistevano sospetti di irregolarità. A questo punto è filtrata la notizia che Galbraith era stato rimosso dall’incarico, che l’interessato ha smentito. Ma negli ambienti diplomatici si ritiene che la “lotta di potere”abbia favorito Eide. Secondo i dati finali provvisori dello spoglio di circa sei milioni di voti forniti dalla Iec e che attendono la certificazione, il presidente uscente Karzai ha ottenuto il 54,6 per cento dei voti, e lo sfidante Abdullah ne ha ottenuti il 27,8.
ti a Sumatra, l’isola dell’Indonesia colpita ieri da un terremoto di 7,6 gradi della scala Richter. I media locali citano quanto affermato dal sindaco della località maggiormente colpita, in una telefonata al vicepresidente indonesiano Jusuf Kalla. Fauzi Bahar, il sindaco della città di Padang, capoluogo della Provincia Occidentale di Sumatra, ha spiegato al vicepresidente che sono decine gli edifici crollati per il forte sisma. La scossa principale di magnitudo 7,6 sulla scala Richter è stata registrata alle ore 17.16 locali (poco dopo mezzogiorno, in Italia) e 22 minuti dopo è arrivata una seconda scossa di magnitudo 6,2. «Abbiamo avuto notizia che molti edifici, anche
In giornata ieri, le autorità carcerarie israeliane avrebbero pubblicato la lista delle detenute palestinesi che stanno per essere liberate: ciò per consentire eventuali ricorsi alla Corte Suprema da parte di congiunti di vittime di attentati a cui potrebbero aver preso parte. Da parte sua Abu Obeida ha ribadito che restano inalterate le condizioni iniziali di Hamas per la liberazione di Shalit. A quanto risulta esse includono la liberazione di centinaia di detenuti coinvolti nella progettazione e nella realizzazione di una serie di stragi che hanno insanguinato Israele nei primi anni della intifada. Dai diplomatici coinvolti nello scambio verrebbe però un invito alla prudenza, visti i fallimenti precedenti.
alberghi, di Padang sono crollati», ha detto in tv Rachmat Priyono, funzionario del servizio nazionale meteo. L’emittente Tv One ha riferito che l’aeroporto Minangkabau di Padang è stato chiuso per qualche giorno a causa dei danni provocati dal sisma al tetto della struttura. Insieme a Padang, situata sulla costa occidentale dell’isola, la località più colpita dal terremoto è Pariaman, 78 chilometri a sudovest. Fonti di stampa locali e internazionali di un numero elevato, ma imprecisato, di persone sotto le macerie. Al momento le comunicazioni sono interrotte con tutta la zona e, riferiscono i media locali, un blackout ha lasciato al buio anche Padang, dove il sisma avrebbe provocato molti incendi.
Una terribile conferma alla gravità della situazione arriva dall’agenzia sismologica indonesiana, che ha riferito che «edifici di grandi dimensioni sono andati distrutti» e che «le comunicazioni sono interrotte». «Molti hotel sono stati distrutti» ha detto il capo dell’agenzia di geofisica del Paese, Rahmat Triyono, «non siamo ancora stati in gradi di raggiungee Padang, le comunicazioni sono interrotte». Il bilancia delle vittime, insomma, sembra purtroppo destinato a salire con il passare delle ore.
cultura
pagina 18 • 1 ottobre 2009
Nuovi mondi. Dai «Mari del Sud» di Stevenson all’antropologia di Margaret Mead: passa anche per le Hawaii l’idea del “buon selvaggio”
Samoa, il mito infranto Tra cinema e letteratura, le isole tormentate dal nuovo terremoto sono un classico dell’immaginario occidentale di Maurizio Stefanini outh Sea Tales. Der Papalagi. Coming of Age in Samoa… Quando si parla del mito dei Mari del Sud, uno dei primi nomi geografici che viene a mente è quello delle Hawaii, appena devastate da un terribile terremoto che è costato oltre cento vittime. Le Hawaii: pompate dal turismo di quegli Stati Uniti di cui nel 1959 divennero il cinquantesimo Stato, due anni prima che ci nascesse il futuro primo presidente afroamericano Barack Obama. O di Pasqua, col mistero delle sue grandi statue. O di Tahiti, con i quadri di Gaugain e l’epopea degli ammutinati del Bounty. Magari, più di recente, anche della Nuova Zelanda, con le danze maori dei suoi strepitosi giocatori di rugby. Eppure, è invece nelle Samoa che gran parte di questo mito è stato materialmente forgiato: appunto, con i tre titoli che abbiamo citato. Anche se è un mito, come vedremo, in gran parte taroccato.
S
to vallone del monte Vaea, a seicento piedi sul mare, un nido sempre in procinto di essere soffocato dalla foresta che combattiamo a suon d’ascia e di dollari. Sono diventato matto a furia di lavorare fuori ca-
Il «Papalagi» di Erich Scheurmann dedicato alle isole è stato un classico terzomondista nella stagione del Sessantotto
Cominciamo appunto da Robert Louis Stevenson: il grande scrittore scozzese che, già famoso e ricco per il successo dell’Isola del Tesoro, del Fanciullo rapito e dello Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, fu costretto però nel 1888, ad appena 38 anni, a mettersi a girare per il mondo con tutta la famiglia, in cerca di un clima più adatto per i suoi polmoni a pezzi. Dopo un anno a New York, parte per una lunga crociera nel Pacifico meridionale che lo porta via via alle Marchesi, a Tahiti, a Honolulu, alle Gilbert (attuali Kiribati) e infine alle Samoa: una tappa che invece diventerà per Stevenson la residenza definitiva. Follemente innamorato di quella terra e dei suoi abitanti, nell’isola di Upolu, la maggiore dell’arcipelago, si fa costruire una casa sulle pendici del monte Vaea. «La vita che conduciamo è dura, bella, interessante», scrive nel 1890 a un amico. «La casa è in uno stret-
sa e alla fine ho deciso di smettere e mi sono chiuso dentro per non mandare all’aria il lavoro letterario». E ancora: «Ma guarda questi luoghi e sii clemente nel giudicarmi. Mi sono più divertito nei pochi mesi che sono stato qui che non in tutta la vita. E ho avuto più salute in questo periodo, che non nei dieci anni trascorsi».
È nella casa di Upolu che nascono in particolare i Racconti dei Mari del Sud: o i Trattenimenti delle Notti sull’Isola come sono anche conosciuti, per il fatto che prima di metterli per iscritto li raccontava la sera a un circolo di isolani. Tusitala lo chiamavano in samoano: «il raccontatore di storie». Il primo e anche il più famoso dei tre racconti, Il diavolo nella
bottiglia, è una leggenda germanica con tocchi da favolistica araba che viene raccontata da uno scozzese a un pubblico samoano ambientandola tra le Hawaii e Tahiti. E anche L’isola delle voci è ambientata tra Hawaii e Marchesi. In compenso, è d’ambiente tipicamente samoano La spiaggia di Falesà, il più lungo: l’ossessione del tabù; gli inghippi di quei mercanti europei contro i quali Stevenson tante volte dovette difendere gli indigeni; e anche quel titolo, con un doppio senso in samoano per “piazza della chiesa”, nel senso di “posto delle chiacchiere”. A Upolu lo scrittore scozzese conclude anche il volume di viaggi Nei Mari del Sud e inizia il suo ultimo romanzo. Ma il 3 dicembre 1894 arriva improvvisa la morte, per emorragia Tusitala cerebrale. verrà sepolto sul monte Vaea, che domina il Pacifico. Sulla lapide alcuni suoi versi: «Qui giace nel luogo desiderato/ Tornato è il marinaio, tornato dal mare,/ E tornato dal colle il cacciatore».
Ancora cinque anni, e avviene la svolta epocale nella storia di questo arcipelago in cui stando ai ritrovamenti archeologici i polinesiani sarebbero arrivati già nel 1500 avanti Cristo, anche se la storia orale risale solo al 1000 dopo Cristo. Antichi rapporti di vassallaggio e la leggenda delle due vergini che sarebbero venute a insegnare l’arte del tatuaggio ci suggeriscono una provenienza degli abitanti dalle Tonga. Ulteriori leggende e il folklore indicano che dalle Samoa altri coloni si spinsero fino alle Marchesi, alle Cook, alle Tokelau e a Tuvalu, secondo quello schema che vedeva il surplus di popolazione delle isole polinesiane migrare verso nuove isole. Ma nel 1722 l’olandese Jacob Roggeveen è stato il primo europeo a avvistare l’arcipelago, e dal 1830 l’arrivo di missionari protestanti inglesi ed americani ha
Samoa ormai non è solo lo scenario di molti film hollywoodiani di grande successo, è anche il luogo della fantasia di Robert Louis Stevenson (qui sotto) e delle sue avventure di mercanti e corsari. Negli anni recenti, poi, è diventato un luogo simbolo del turismo alla ricerca di antiche tradizioni folkloristiche
portato alla rapida diffusione del cristianesimo. Proprio l’esempio europeo ha favorito l’emergere di una monarchia centralizzata e il sovrano, l’O le Ao O le Malo, ha mostrato un’abilità diplomatica consumata nel mantenere l’indipendenza giocando gli stranieri l’uno contro l’altro. Anche se nel 1872 ha poi iniziato a pen-
colare verso gli americani, concedendo alla US Navy la base di Pago Pago.
Nel 1899, appunto, i nodi vengono però al pettine, e dopo un duro confronto diplomatico che va a un passo dallo
scontro militare si arriva a un compromesso che porta alla spartizione tuttora in corso. Mentre la marina americana estende il suo controllo da Pago Pago a tutto l’Est, infatti, nella porzione di isole dove era sepolto Stevenson e dove risiede l’O le Ao O le Malo si stabilisce un protettorato tedesco. E proprio in questa Samoa tedesche allo scoppio della Grande Guerra si rifugia
cultura
1 ottobre 2009 • pagina 19
della lava. Le pietre sono tutt’intorno a lui, accanto e sopra di lui. La sua capanna somiglia a un cassone di pietra messo in piedi». In realtà sembra che fosse stato il tedesco a inventare quasi tutto ciò che aveva attribuito al capo villaggio: tra l’altro, scopiazzando a destra e a manca. Ciò non ha però impedito al Papalagi di diventare un mito della letteratura sessantottina e terzomondista. Anche perché c’era stato appunto prima Stevenson, e aveva seguito poco dopo Margaret Mead.
Ma ciò riguarda l’altra porzione delle Samoa: 65.000 abitanti, contro i 179.000 delle Samoa indipendenti. Tuttora dipendenza Usa, anche se nel 1951 quando la base di Pago Pago fu smantellata le isole passarono al Dipartimento degli Interni, che le classificò “territorio non in-corporato” con un governatore nominato dall’alto. Solo nel 1976 questo diventò elettivo, e dopo tre successivi rifiuti degli isolani. Il particolare la dice lunga sui condizionamenti dell’american way of life , che assicura un tenore di vita tra i più alti del Pacifico. Ma è l’amministrazione il primo settore di impiego del Paese, mentre il prodotto della pesca, seconda fonte di reddito, è esportato al 96% negli Stati Uniti. Una forte internazionalizzazione è
l’amburghese Erich Scheurmann, grande amico di Herman Hesse. Il conflitto in realtà lo raggiungerà anche lì, perché quasi subito le Samoa Tedesche saranno occupate da truppe neo-zelandesi. Affidate dal Trattato di Versailles a Wellington nel 1919 in un Mandato poi trasformato nel 1945 in amministrazione fiduciaria Onu, nel 1962 saranno il primo Stato dell’Oceania a diventare indipendente dopo Australia e Nuova Zelanda, grazie anche alla continua agitazione di un movimento nazionalista nato già nel 1904, e che tra 1957 e 1961 aveva condotto una dura campagna di resistenza passiva. Definite correntemente Samoa Occidentali, hanno utilizzato il nome ufficiale di Stato Indipendente delle Samoa per distinguersi dalle Samoa Americane finché il 2 luglio 1997 il governo non ha deciso di assumere il nome semplice di Samoa, creando qualche tensione con le Samoa Americane, che non erano state consultate.
Curiosa figura di repubblica monarchica, dopo la morte nel 2007 dell’ultimo O le Ao o le Malo ereditario Malietoa Tanumafili II l’ex-primo ministro Tufuga Efi è stato eletto primo O le Ao o le Malo temporaneo, con un mandato di cinque anni. Pure peculiare è il sistema
politico, con un’assemblea che fa da governo e parlamento assieme e 45 dei cui 47 membri sono eletti sì a suffragio universale, ma tra i matai, capifamiglia tradizionali. Gli altri due sono riservati alla parte di popolazione che non vive secondo i costumi tradizionali nella struttura tribale dell’aiga. Era appunto un capo villaggio tradizionale quel Tviaii di Tavea cui Erich Scheurmann di ritorno in Europa attribuisce nel 1920 i discorsi contenuti nel saggio antropologico Il Papalagi: parola sa-
moana per indicare l’uomo bianco. «Il corpo del Papalagi è ricoperto dalla testa ai piedi di panni, stuoie e pelli, in maniera così fitta e spessa che non un occhio umano vi può giungere, non un raggio di sole, così che il suo corpo diventa smorto, bianco e appassito come i fiori che crescono nel profondo della foresta vergine», spiegava appunto Tviaii dopo un viaggio tra i papalagi. «Il Papalagi vive in un guscio solido come una conchiglia marina.Vive fra le pietre come la scolopendra fra le fessure
stata provocata anche dal boom del turismo, dalla costruzione negli anni ‘60 del grande aeroporto e dal fatto che moltissimi giovani compiono gli studi all’estero. Il samoano, comunque, resta lingua ufficiale assieme all’inglese. E accanto ad una Camera dei Rappresentanti di 20 membri eletti da tutti i samoani oltre i 18 anni, c’è anche un Senato di 18 membri designati dai consigli di villaggio. Le isole eleggono poi un delegato per la Camera dei Rappresentanti di Washing-
ton, con diritto di parola ma non di voto.
Nelle Samoa Americane, appunto, si recò 23enne a vivere per nove mesi in un villaggio di 600 abitanti Margaret Mead: nata nel 1901 da una famiglia quacchera della miglior società di Filadelfia, e pupilla del padre dell’antropologia americana Franz Boas. Lì frequentò a un gruppo di 68 donne e ragazze tra i 9 e i 20 anni: cercando di imparare la loro lingua; sedendo scalza e a gambe incrociate sui loro tappeti di frammenti di corallo; mangiando con loro pesce, porco “mezzo arrostito”e frutti di albero del pane. Le foto ce la mostrano pure vestita come loro, nei suoi riccioli biondi e pelle lattiginosa. Di ritorno ci scrisse su di getto un libro, introdotto da alcune pagine descrittive di grande fascino. Appunto, quello che in italiano è noto come L’adolescenza in Samoa. Ma l’editore le consigliò di «aggiungere qualcosa di più sul significato che tutto ciò ha per gli americani». E furono quei due nuovi capitoli in cui spiegò che il modello educativo samoano evitava le regressioni e i traumi di passaggio all’età adulta tipici della gioventù americana, specie per la maggior libertà di sperimentazione sessuale, a darle un successo di scandalo. Dopo la sua morte l’antropologo australiano Derek Freeman ebbe buon gioco a demolirla, spiegando che in pratica si era fatta prendere in giro dalle sue informatrici. Per il grande pubblico la Mead resta pure una profetessa della grande rivoluzione dei costumi che c’è stata in Occidente a partire degli anni ’60. Da ultimo, a questo ambiguo mito dei buoni selvaggi ha contribuito anche la nazionale di calcio delle Samoa Americane, famosa come la peggiore della Fifa: ultima nei 200 posti del ranking, nessuna partita vinta da quando fa parte della federazione mondiale, e il record negativo di un 31-0 subito dall’Australia. Come a dire: ecco i veri decoubertiniani, che giocano solo per divertirsi … La verità e che i samoani tengono anche loro a vincere: solo che la loro vocazione non è il calcio. La squadra di rugby delle Samoa indipendenti, ad esempio, èal numero 12 nel ranking mondiale. Mentre le Samoa Americane sono una fucina di campioni di football americano e wrestling: tra questi ultimi il famoso Dwayne Johnson “The Rock”, divenuto anche un divo del cinema nel ruolo del Re Scorpione.
cultura
pagina 20 • 1 ottobre 2009
Mediterraneo. Taha Mattar, il nuovo responsabile del centro culturale egiziano nella Capitale, apre una «Casa dell’oud»
Se l’Egitto sbarca a Roma di Rossella Fabiani
ROMA. Una Beit al Oud (Casa del liuto) a Roma. È l’ambizioso e prezioso progetto di Taha Mattar, neo-direttore del centro culturale egiziano della capitale. Che annuncia già un primo successo: «Ho appena convinto il grande liutista iracheno Naseer Shamma a partecipare a questo progetto». Considerato un vero maestro, nessuno come Shamma sa esprimere in musica il dolore per la tragedia irachena. Amatissimo dal pubblico internazionale, Naseer Shamma è anche l’unico musicista al mondo ad avere costruito un liuto secondo le modalità descritte in un antico manoscritto di al Farusi. Nato a Kut, un villaggio sul fiume Tigri, il quarantaseienne Shamma ha iniziato a studiare l’oud all’età di 12 anni a Baghdad dal mestro Munir Bashir. Suo padre era un commerciante molto religioso che tuttavia non si oppose alle ambizioni artistiche del figlio. A 22 anni la prima esibizione in concerto con le sue composizioni. Gli artisti iracheni subito riconoscono in lui un talento straordinario. Ma a colpire è anche la sua profonda percezione e visione della musica orientale antica. E se il suo maestro, Munir Bashir, è considerato l’inventore della tecnica di contemplazione con l’oud, Shamma ha voluto che la sua musica avesse un’idea e un’immagine scioccante. Una leggenda araba attribuisce all’oud una storia che risale alla notte dei tempi e individua in Lamak, nipote di Adamo ed Eva, il suo inventore. Secondo gli storici musicali, invece, gli
che con Markus Stockhausen, oppure il Trio Joubran.
Per la prima volta, a ricoprire il ruolo di addetto culturale a Roma, il governo egiziano ha voluto un ingegnere. Non un pittore o un professore di lettere, come in passato, ma un uomo abituato, per formazione mentale, a programmare, calcolare e pianificare. «È quello di cui ha bisogno questo posto: un’azione efficace e metodica», spiega Mattar, 43 anni, che oltre ad avere insegnato in diversi atenei egiziani, prima di arrivare al Colle Oppio, sovrin-
ca», che, sottolinea il responsabile dell’Ufficio culturale e scientifico dell’ambasciata egiziana, «al mio arrivo ho trovato chiusa». Per questo è stata già avviata una collaborazione con l’Istituto del Restauro, grazie alla quale i circa duemila volumi di poesia, storia, letteratura e romanzi in lingua araba, italiana e inglese verranno restituiti ai frequentatori del Centro. E ancora. «Tra i nostri progetti, c’è anche quello di realizzare un laboratorio linguistico dove si potrà imparare l’arabo ma dove si studierà anche l’italiano, grazie a docenti di livello, perché non è sufficiente affermare di sapere parlare l’arabo e l’italiano per potere insegnare, ma occorre conoscere a fondo la grammatica della lingua che si intende insegnare». Nei piani del nuovo direttore del Centro culturale c’è poi l’esposizione permanente delle opere di artisti italiani e egiziani, attivi sin dagli anni ’50, che adesso sono sparse nelle diverse stanze del palazzo e un appuntamento con cadenza settimanale per la proiezione di film egiziani. Per la ristrutturazione dell’edificio, il governo egiziano ha già messo sul tavolo fino a due milioni di euro.
Convegni, una mostra permanente, un forum scientifico: sono molti i progetti del nuovo responsabile: «Ma soprattutto vorremmo aprire un laboratorio dedicato alla lingua araba» antenati dell’oud risalgono all’antico Egitto. Quello che sembra certo è che l’oud è un’evoluzione del barbat, un antico strumento persiano pre-islamico. Considerato dagli arabi il sultano degli strumenti musicali, l’oud è diffuso in tutto il mondo arabo-islamico: dal Marocco, all’Egitto fino all’Iraq. Dopo Naseer Shamma, il nuovo direttore del Centro culturale egiziano di Roma ha intenzione d’invitare anche altri suonatori di oud. E chissà che non arrivino a Roma il tunisino Anouar Brahem, che unisce la musica classica araba a motivi folk e jazz, o Dhafer Youssef la cui musica affonda nella tradizione sufi e che ha suonato an-
tendeva al settore ingegneria del Consiglio superiore delle Scienze egiziano. E dunque il palazzo di via delle Terme di Traiano si avvia ad un lento, ma inesorabile restyling, sia sul piano strutturale che su quello programmatico. «Già da alcuni mesi - racconta l’ingegnere Mattar - con i circa 200mila euro messi a disposizione dal ministero dell’Istruzione superiore e della Ricerca scientifica da cui dipende il Centro, abbiamo organizzato decine di eventi su Roma e nel resto d’Italia». E riguardo alle cose ancora da fare, l’agenda del professor Mattar è piena di progetti. «Innanzitutto, intendo riaprire al pubblico la bibliote-
Quest’anno, che è anche l’Anno italo-egiziano della Scienza e della Tecnologia, dal 23 ottobre al primo novembre l’Egitto sarà ospite d’onore al
In alto, Anouar Brahem, uno dei più importanti (e popolari) suonatori di oud, lo strumento al quale Taha Mattar (nella foto sopra), direttore del Centro culturale egiziano di Roma, vuole dedicare una ”casa”
Festival della Scienza di Genova, dove interverranno scienziati e cardiologi di fama internazionale, mentre in occasione dei cinquant’anni della firma dell’Accordo culturale tra Roma e il Cairo, a partire dal 15 ottobre e fino al 22 novembre, l’Ufficio culturale organizzerà numerose iniziative. Tra le più significative, una conferenza sul ruolo della traduzione e dell’informazione nel dialogo culturale tra Italia e Egitto che si svolgerà tra Napoli e Roma dal 10 al 14 novembre, e la mostra della Biblioteca Alessandrina ospitata a Torino a partire dal 13 novembre. Il professor Taha Mattar (che negli ultimi mesi ha redatto il programma di tutti i Centri di cultura egiziani nel mondo), oltre agli accordi con numerosi atenei italiani, tra cui il Politecnico di Torino e La Sapienza di Roma, ha appena stretto con l’Università di Perugia un’intesa per ospitare all’interno del palazzo del Colle Oppio una sede distaccata dell’ateneo per gli studenti di Letteratura e Lingua italiana e l’apertura di centri culturali italiani in tutte le università egiziane. E proprio con Perugia, il centro ha organizzato per il 29 settembre una conferenza su «Economia, cultura e sviluppo sostenibile» e Mattar vorrebbe ripetere l’esperienza a Roma: «Sto pensando a una tavola rotonda su questo tema da organizzare anche qui coinvolgendo il ministero di via XX settembre e gli assessori capitolini».
cultura arajevo ha il suo simbolo urbanistico e morale ancora lì, ai piedi delle sue infauste colline, nella zona prospiciente il quartiere musulmano della Bascarsija: la Biblioteca Nazionale e Universitaria, la Vijecnica, costruita nel 1891. Un palazzo in stile pseudo moresco, realizzato dagli austro-ungarici in contrasto con le piccole case e le strette viuzze della parte ottomana della città e alzato quasi con l’intento di affermare che da quel momento in avanti si sarebbe costruita una città moderna e una nuova epoca sarebbe cominciata. Nonostante questa volontà di distinguersi, nella Biblioteca si sono depositati nel tempo saperi multietnici e multiculturali che solo Sarajevo, autentica porta tra Occidente e Oriente, poteva conservare. Oltre 2 milioni di testi - tra incunaboli, libri e periodici - in arabo, ebraico, cirillico, serbocroato, latino, greco e ogni altra lingua del mondo vi hanno trovato ricovero. E tutto ciò in barba allo spirito con il quale il palazzo era stato eretto.
1 ottobre 2009 • pagina 21
S
Ci penseranno i serbi nell’agosto del 1992 a devastare questo simbolo, nel corso del famigerato assedio, durato fin troppo a lungo nella cecità della comunità internazionale e di quella europea in particolare (cecità che si sta perpetrando nel diversificare la politica sui visti tra Serbia e Croazia, da un lato, e Bosnia dall’altro). I serbi, con un bombardamento scientifico compiuto con ordigni incendiari, mandarono in fumo un bene intellettuale comune ma anche di fratellanza e di pace nella diversità. I fogli di quel patrimonio volarono inceneriti per giorni e giorni in una Sarajevo novella Pompei della cultura. Ora le macerie di quel disastro sono scomparse, la volontà di ricostruzione sta prevalendo, come nell’intera città, certo marcando, purtroppo, una forte differenza con il resto della Bosnia. Lo racconta Ognjen Levi, ebreo di una comunità un tempo florida e che il nazismo e l’odio etnico degli anni Novanta hanno ridotto a poche centinaia di unità, che ha vinto l’appalto per la ricostruzione delle multicolori vetrate della Biblioteca; lo racconta la passione di Zoran, ragazzo di Sarajevo che, diplomatosi a Brera, è tornato nella sua città per lavorare come eccellente e ricercato interprete della lingua e della cultura sarajevese; lo racconta il direttore dei lavori nella Biblioteca, che con entusiasmo si dice certo che il monumento sarà restituito al suo splendore nel giro di quattro o cin-
Nella sua Biblioteca si sono depositati nel tempo saperi multietnici e multiculturali che solo Sarajevo, autentica porta tra Occidente e Oriente, poteva conservare
Poesia. Ottava edizione degli Incontri Internazionali nella capitale bosniaca
Il “melting-poet” di Sarajevo di Francesco Napoli que anni. E osservando i colonnati e il complesso restauro all’interno, dove eccezionalmente son riuscito a entrare grazie ai colleghi della trasmissione Est-Ovest di Rai3 con Enzo Ragone, si intuisce che lì c’è il la-
snia ha grande bisogno per salvaguardare equilibri ancora fragili tra aree moderate pronte a ridonare a Sarajevo e al paese il volto più autenticamente suo, quello della multicultura-
lità, e possibili proselitismi al terrorismo.
Multiculturalità che oggi spinge la città a ospitare gli Incontri Internazionali della poesia, giunti quest’anno all’ottava
Nel corso delle tre giornate appena concluse si sono ascoltate tredici lingue nazionali per diciassette autori: dalla Svizzera al Portogallo, dalla Croazia all’Egitto, dall’Olanda agli Stati Uniti, dal Cile alla Spagna boratorio permanente della città per sconfiggere in modo duraturo ogni assedio e aprirsi così all’Europa della quale la Bo-
edizione, lodevolmente organizzati dall’Ambasciata d’Italia e da Casa della Poesia di Baronissi e dedicati al nume poetico
di Sarajevo: Izet Saraijlic. La manifestazione in fondo incarna lo stesso spirito che ha nel tempo consentito di far depositare scritti di ogni cultura nella Biblioteca. Il festival, infatti, raccoglie poeti dai quattro angoli del mondo e li fa parlare quella indivisibile koinè che è la poesia.
Nel corso delle tre giornate appena concluse si sono ascoltate 13 lingue nazionali per 17 poeti: Beat Brechbühl (Svizzera), Ferruccio Brugnaro (Italia), Casimiro De Brito (Portogallo), Almedina Dedovic (Bosnia), Alexandra Domínguez (Cile/Spagna), Tarek Eltayeb (Egitto/Sudan/Austria), Haydar Ergölen (Turchia), Angel Guinda (Spagna), Iztok Osojnik (Slovenia), Gianluca Paciucci (Italia), Paul Polansky (Stati Uniti), Janine Pommy Vega (Stati Uniti), Saban Sarenkapic (Serbia/Bosnia), Giacomo Scotti (Italia/Croazia), Abdullah Sidran (Bosnia), Vojo Sindolic (Croazia) e Willem van Toorn (Olanda). Hanno così felicemente convissuto i sarcastici ed epigrammatici versi sloveni con quelli serbo-bosniaci o croati in un’impensabile comunione tra i diversi ceppi balcanici; sono andati a braccetto le ironie ispaniche di Guinda con quelle più velate e architettate di Brechbühl; non hanno affatto cozzato i ritmi orientali rispecchiati nell’occidente classico di Ergölen con quelli spinti al limite del blues da Pommy Vega; la denuncia delle persecuzioni subite dalla minoranza rom del Kosovo di Polansky si è naturalmente legata a quella del poeta-lavoratore Brugnaro di Porto Marghera e di Paciucci. Ma è risaputo: la poesia sa sempre sorprendere anche chi la conosce bene, o lo pensa, e probabilmente anche chi la pratica, rendendo in questo modo veritiero e profetico il motto di questi Incontri dettati proprio dalla felice intuizione di Saraijlic: «anche i versi sono contenti/ quando la gente si incontra».
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”The NewYorker” dello 06/10/2009
La finanza è come un ponte di John Cassidy l 10 giugno del Duemila, la regina Elisabetta II aveva inaugurato il supertecnologico Millennium Bridge, che attraversa il Tamigi dalla Tate Modern alla cattedrale di St. Paul. C’erano migliaia di persone in fila, per attraversare la nuova struttura, che consisteva in una stretta passerella in alluminio circondato da balaustre in acciaio sporgenti ad angolo ottuso. Pochi minuti dopo l’apertura ufficiale, la passerella ha cominciato a oscillare in modo allarmante, costringendo alcuni dei pedoni ad aggrapparsi alla ringhiera laterale. Le autorità hanno subito chiuso il ponte, sostenendo che c’era troppa gente. Il giorno dopo, ha riaperto, con severi limiti sul numero attraversamenti, ma ha cominciato a tremare ugualmente. Due giorni dopo la nuova riapertura – senza che fosse scoperto il motivo dell’ondeggiamento – il ponte è stato chiuso a tempo indeterminato.
I
Alcuni esperti sospettavano delle fragili fondamenta della struttura, altri di un imprevedibile effetto del vento. Il vero problema è che i progettisti del ponte, tra i quali l’architetto sir Norman Foster e la società di ingegneria Ove Arup, non avevano tenuto conto di come avrebbe reagito la passerella al movimento dei pedoni. Quando una persona cammina, solleva e lascia cadere i piedi, ciò produce una lieve forza laterale. Se centinaia di persone sono a piedi, in uno spazio confinato, e ad alcuni capita di camminare al passo, si può generare una spinta laterale sufficiente per spostare la struttura. Una volta che questa inizia a ondeggiare, piano, i pedoni cercano di regolare l’andatura per rispondere al disagio del movimento, mettendo i passi in sincronia. Un ciclo di feedback positivo si sviluppa tra il movimento del
ponte e il passo dei pedoni. Le spinte laterali possono aumentare notevolmente e il ponte può reagire anche violentemente. Gli ingegneri che hanno studiato il caso hanno definito questo processo «eccitazioni laterali sincrone».
Tutto questo cosa ha a che fare con i mercati finanziari? Un bel po’, come l’economista di Princeton, Hyun Song Shin ha sottolineato in un documento del 2005. La maggior parte del tempo, i mercati finanziari sono abbastanza tranquilli, la negoziazione è ordinata, ed i partecipanti possono comprare e vendere in grandi quantità. Ogni volta che una crisi colpisce, tuttavia, i giocatori più grandi come le banche, le banche d’investimento, gli hedge fund corrono ai ripari per ridurre la loro esposizione, gli acquirenti scompaiono, e sparisce la liquidità. Dove prima vi erano punti di vista diversi, c’è l’unanimità: ognuno si muove a passo serrato. «I pedoni sul ponte sono come le banche che adeguano la loro posizione, e i movimenti del ponte stesso sono come le variazioni di prezzo», ha scritto Shin. Una volta che la liquidità scende al di sotto di una certa soglia, «tutti gli elementi che formano il circolo virtuoso per promuovere la stabilità, agiranno per minarla». Così i mercati finanziari possono diventare altamente instabili. Ognuno mette in atto una piccola correzione alla situazione contingente, con un andamento progressivo. Alla fine si creano reazioni colletive che nessuno vorrebbe, ma che accadono. Questo è in sostanza quello che è successo all’inizio, fino al-
la Grande crisi. L’innesco è stato, naturalmente, il mercato delle obbligazioni sui mutui subprime. Nel mese di agosto 2007, con i prezzi delle case in calo e le insolvenze mutui ipotecari in crescita, il mercato dei titoli subprime si era congelato. Ora tutti pensano che il peggio sia passato e forse dimenticano come si sia evitato il disastro totale con l’immissione di capitali pubblici nel sistema. I ricordi del settembre 2008, stanno scomparendo.
Molti diranno che la Grande crisi non è stata poi così disastrosa. E si perderà la spinta per attuare i cambiamenti che servono al sistema. «La finestra di opportunità per la riforma non sarà aperto a lungo», Hyun Song Shin ha scritto di recente. Prima che la volontà politica scompaia, è indispensabile fare i conti con difetti fondamentali del sistema finanziario. La prossima volta che la struttura dovesse cominciare a oscillare, quel tipo di economia potrebbe cadere definitivamente.
L’IMMAGINE
Subito emendamento per il 50 per cento delle donne candidate nella lista Nel momento in cui il Consiglio regionale del Lazio si appresta a discutere la riforma della sua legge elettorale, prendo atto che la maggioranza di centrosinistra, proponendo l’eliminazione del listino maggioritario, che prevedeva la presenza di entrambi i sessi in pari misura, di fatto impedisce che tra gli eletti sia garantita la rappresentanza femminile. Di fronte a questa ennesima beffa ho chiesto all’on.Vincenzo Piso, coordinatore regionale del Pdl, di farsi promotore con i nostri eletti in Regione e con gli organi territoriali del partito di un emendamento correttivo con il quale, nel caso in cui fosse confermata la proposta di eliminare il listino maggioritario, si preveda che le liste proporzionali siano formulate secondo il principio dell’alternanza dei sessi, garantendo la presenza del 50% di donne candidate. Con questa proposta otterremo almeno un risultato. Infatti, il premio di maggioranza assegnato alla coalizione vincente garantirà la presenza certa di uomini e donne.
Barbara Saltamartini
SAMOA
IL GIUSTO GIUDIZIO IN TV
Un maremoto ha travolto le isole Samoa, nonché il ricordo di ciò che la comunità internazionale organizzò precedentemente. Tanta solidarietà, tante iniziative, raccolte di denaro. Poi il blocco degli aiuti alla frontiera di questi Paesi, perché le autorità si rifiutavano di immettere il denaro nel Paese, senza prima ripartirlo secondo le varie etnie, culture e religioni. Il risultato è che una notizia, seguita con accorata incredulità da tanti contribuenti, è finita miseramente nel nulla. Adesso auguriamoci che si eviti il solito copione, perché da noi le differenze devono essere ignorate e altrove, quando si tratta di denaro, si devono ripartire e differenziare come atomi al microscopio.
La televisione è diseducativa. Non è una valutazione politica, anche se in quasi tutte le reti si parla solo, e male, del nostro premier, ma è una condanna del coefficiente di amplificazione dei fatti che nei media colpisce, ma nella realtà devia. Si mette in onda la disperazione, l’orrore, il risentimento, come è avvenuto nella trasmissione sul delitto del Circeo; senza però evidenziare che in tali fatti concorrono complicità diffuse e sotterranee che spesso, coinvolgono Paesi esteri, che accogliendo condannati italiani, commettono un vero e proprio abuso di potere. Si ingigantiscono i fatti e diminuisce l’evidenza delle responsabilità che spesso sono condivise, e per questo difficil-
Bruno Russo
Tre splendidi soli Se il buongiorno si vede dal mattino, quella del 10 luglio per gli abitanti di Gdansk in Polonia, dev’essere stata una giornata davvero speciale. Non capita spesso infatti, di vedere tre soli (l’ultimo appena visibile sulla sinistra) sorgere contemporaneamente! Chiaramente il sole, quello vero, è uno: il più brillante
mente localizzabili in una sola persona o ente, per poi esprimere in studio il dibattito su come costituire il giusto giudizio.
Gennaro Napoli
AIUTI ALLE IMPRESE Lo scudo di Tremonti è una difesa fiscale oculata e opportuna, che deve costituire un aiuto alle imprese che oggi sono in diffi-
coltà. Molto dipende dai vincoli bancari che non sono ancora adeguati ai sostentamenti richiesti dalle medie e piccole aziende e dagli stessi privati. I capitali oltre confine potranno rimpinzare le casse quando il credito aumenterà e si ricomporrà una certa fiducia bilaterale alla circolazione dinamica della valuta. Una cosa infatti è uscire dalla crisi e un’al-
tra è definire il polso economico regolare ed esente da depressioni. Il problema esiste più al sud, dove tutti hanno bisogno di prestiti. Serve moderazione e collegialità, ma anche un soccorso deciso per le tante industrie che, pur raggiungendo risultati di altissimo livello, non riescono a sostenerli per i costi onerosi .
Lettera firmata
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog
dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Drenthe: baracche tra cielo e brughiera Mi trovo in un bell’impiccio: che cosa dovrei raccontare sulla vita a Westerbook? Era estate quando vi giunsi. Fino a quel momento, del Drenthe io sapevo solo che c’erano molti dolmen e nient’altro: ora ci trovavo un villaggio di baracche di legno incorniciato da cielo e brughiera, con un campo di lupini gialli nel mezzo e tutt’intorno filo spinato. Laggiù si poteva trovare una grande abbondanza di vite umane. A dire la verità, io non avevo mai saputo che un certo numero di tedeschi fossero confinati già da quattro anni su quella brughiera del Drenthe, allora ero troppo occupata a raccogliere fondi per bambini spagnoli e cinesi. In quei primi giorni giravo per il campo come se stessi sfogliando le pagine di un libro di storia. Incontrai persone che erano già state a Buchenwald e Dachau quando questi nomi erano ancora suoni lontani e minacciosi per noi. Incontrai persone che avevano girato il mondo su quella nave che non aveva avuto il permesso di approdare in nessun porto: ve ne ricorderete di certo, a quel tempo i nostri giornali erano pieni di quella storia. Ho visto molte fotografie di bambini piccoli, che saranno cresciuti in qualche luogo ignoto di questa terra: chissà se sapranno ancora riconoscere i propri genitori. Etty Hillesum a due sorelle dell’Aia
ACCADDE OGGI
SUICIDI E OMICIDI IN AUMENTO: L’ARMA DEL DELITTO È UNA PILLOLA? Ogni dieci giorni in Italia si compie un suicidio o un omicidio, con un considerevole aumento rispetto al 2000. È quanto rileva l’Eures, che da anni si occupa di ricerche economiche e sociali. Che cosa c’è all’origine della rapida impennata? Secondo il rapporto il 15,8 per cento degli autori avevano turbe psichiche. Ma basta dare un’occhiata agli articoli di cronaca nera per rendersi conto che una percentuale ben più alta ha fatto uso di psicofarmaci. La depressione viene spesso considerata la causa scatenante, ma in questo modo si perdono di vista alcuni importanti fattori che di solito accompagnano queste stragi: molti depressi non arrivano mai nemmeno a pensare di suicidarsi fino a che non si sottopongono a terapia con psicofarmaci Qui di seguito alcuni dei casi recentemente successi in Italia.Tutti facevano uso di psicofarmaci o erano sotto trattamento psichiatrico. A Milano, R. A., 56 anni, colto da un raptus getta la zia dalla finestra e viene subito arrestato. Faceva uso di psicofarmaci. Davanti all’ospedale di Prato, A. H., una rom di 22 anni,accoltella un uomo di 72 anni. Secondo l’avvocato difensore era in cura con psicofarmaci. A Reggio Emilia un uomo uccide moglie, due figli e tenta il suicidio. Era in trattamento presso una struttura psichiatrica locale. Uccide la madre con oltre 60 coltellate, poi si siede su una sedia e la guarda morire. L’uomo era in cura in un centro di igiene mentale a Bergamo. Marcella strangola il figlio di 4 anni, era in cura
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
1 ottobre 1958 La Nasa viene creata per sostituire la Naca 1960 La Nigeria ottiene l’indipendenza dal Regno Unito 1961 Il Camerun orientale e quello occidentale si uniscono e formano la Repubblica federale del Camerun 1964 Lo Shinkansen, primo treno ad alta velocità giapponese, inizia il servizio tra Tokyo e Osaka 1965 - Suharto reprime un tentativo di colpo di Stato in Indonesia 1969 Il Concorde infrange la barriera del suono per la prima volta 1971 Il Walt Disney World Resort apre ad Orlando, in Florida 1975 Le Isole Ellice si separano dalle Isole Gilbert, e prendono il nome di Tuvalu 1977 La stella del calcio brasiliano Pelé si ritira 1982 Helmut Kohl sostituisce Helmut Schmidt come cancelliere tedesco 1985 Le forze aeree israeliane bombardano il quartier generale dell’Olp a Tunisi 1994 Palau ottiene l’indipendenza dall’Onu
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
presso il Cps di Parabiago. Sin dall’inizio degli anni Novanta la nostra associazione ha diffuso vari comunicati stampa, che avvertivano dei pericoli legati alla assunzione dei nuovi antidepressivi. Nel febbraio del 1990, l’articolo “Insorgenza di intensi pensieri suicidi durante il trattamento con fluoxetina”, nell’American Journal of Psychiatry evidenziava che l’assunzione di Ssri può indurre pensieri e tentativi suicidari anche in coloro che prima non avevano tali idee. Questi pensieri spariscono a distanza di due o tre mesi dalla sospensione della terapia. Alcuni pazienti hanno affermato: «Gli Ssri mi avevano reso capace di commettere il suicidio con successo». Da notare che le persone coinvolte nello studio scientifico non solo svilupparono idee di suicidio, ma in diversi casi tentarono di commetterlo con modalità tali da cercare di evitare ogni tentativo di salvarli. Alcuni acquistarono o si procurarono armi da fuoco. Altri si sono dichiarati perseguitati da idee suicidiarie e di strage così intense e violente che togliere e togliersi la vita sembrava essere l’unico modo di farle cessare. La correlazione tra assunzione di Ssri e comparsa di idee suicide violente in persone che mai prima avevano avuto tali pensieri; la scomparsa di tali ideazioni dopo la sospensione e le affermazioni fatte dagli stessi pazienti in terapia, non lasciano adito a dubbi: l’aumento di suicidi-omicidi e l’aumento di uso di antidepressivi sono correlati.
TURISMO IN BASILICATA Gli itinerari turistici della Basilicata che abbiamo studiato sono diversi: 1. l’itinerario delle nevi (Rifreddo Volturino - Sirino - Pollino); 2. l’itinerario delle città d’arte (Melfi - Venosa - Acerenza - Potenza); 3. l’itinerario dell’Aglianico (Rionero - Barile -Rapolla - Ginestra - Maschito- Acerenza - Venosa); 4. i luoghi delle Dolomiti Lucane (la Grancia - il Volo dell’Angelo) 5. la via Francigena (i cammini religiosi d’Europa: Viggiano - Avigliano Lauria - Calvello - Lagonegro); 6. le strade del grano e del pane; 7. le strade dell’olivo; 8. l’itinerario della Magna Grecia; 9. l’itinerario dei castelli e dimore fortificate (Federico II); 10. l’itinerario dei laghi (Monticchio - Camastra - Pertusillo - Sirino - San Giuliano); 11. i sentieri dei boschi e dei parchi (Pollino -Val D’Agri - Gallipoli Cognato); 12. l’itinerario dei Sassi di Matera e delle chiese rupestri; 13. i luoghi della poesia e della pittura (Valsinni - Tursi - Montemurro - Aliano); 14. il progetto del Golfo di Policastro; 15. l’itinerario delle isole linguistiche (comunità albanesi); 16. i luoghi termali e i ristori della salute (la dieta mediterranea). Ritornando alle politiche generali del turismo fin qui poste in essere, in questi anni dei buoni risultati si sono perseguiti e, proprio alla luce di questi, aggiornare la legislazione regionale vigente, in materia di turismo, è opportuno anche avvalendosi dello scenario costituzionale attuale che, con l’introduzione del Titolo V, apre nuove collaborazioni tra gli Enti locali, definendo per questi compiti e responsabilità più vicini agli interessi della gente e dei rispettivi territori. La legge regionale n. 7 del 2008, infatti, sul turismo, come è stata da noi a suo tempo emendata, ha l’obiettivo di disegnare una nuova prospettiva legislativa precisando, in modo più marcato, i compiti della Regione che sono di “indirizzo e di coordinamento”e quelli dell’Agenzia di promozione turistica regionale che, rappresentando il braccio operativo del dipartimento Attività Produttive,“promuove”sul territorio, con l’aiuto diretto delle province, comuni, pro loco, parchi letterari e parchi naturali, le azioni definite nel piano triennale e attuate, con stralci, anno per anno. Con la definizione dei nuovi compiti, siamo passati, così, da una visione “centralistica” delle politiche del turismo ad una impostazione più decentrata delle stesse, con le quali ogni Ente ha il proprio lavoro e i propri doveri da assolvere sul territorio di competenza, guidati da una regia regionale garante di tutti i processi in atto. Gaetano Fierro C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
APPUNTAMENTI OTTOBRE 2009 VENERDÌ 9, ORE 16, MUSEO CITTÀ DI BETTONA Omaggio a Renzo Foa. VENERDÌ 16, ORE 15, TORINO PALAZZO DI CITTÀ - SALA DELLE COLONNE “Verso la Costituente di Centro per l’Italia di domani”. Intervengono: Ferdinando Adornato, coordinamento nazionale Udc, e Gianni Maria Ferraris, consigliere comunale e coordinatore regionale Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani Onlus
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,
Emilio Spedicato, Davide Urso,
Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna)
Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,
Marco Vallora, Sergio Valzania
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,
Abbonamenti
06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
PAGINAVENTIQUATTRO Anniversari. Dal 2 al 4 ottobre il Convegno internazionale Sturziano
E il Papa disse: dovete fare come di Franco Insardà a Praga, Benedetto XVI, aveva segnalato la necessità di leader «credenti e credibili». Ieri, al termine dell’udienza del mercoledì, per tornare sul tema ha suggerito a tutti i cristiani che operano in politica e nel sociale di seguire l’esempio di don Luigi Sturzo. Di più, attraverso la figura del sacerdote di Caltagirone ha tracciato l’identikit ideale del politico. E così che dalla sala Nervi, il Pontefice ha voluto salutare i partecipanti al Convegno internazionale sturziano, che si terrà tra Catania e Caltagirone da domani a domenica. Il Papa per ricordare il “servo di Dio”, a cinquanta anni dalla sua morte, ha parlato di«esempio lumininoso di questo presbitero e la sua testimonianza di amore, di libertà e di servizio al popolo sia stimolo e incoraggiamento per tutti i cristiani, e specialmente per quanti operano in campo sociale e politico perché diffondano, con la loro coerente testimonianza, il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa». Appuntamento per il fine settimana di tutto il mondo cattolico si ritroverà dal 2 al 4 ottobre in Sicilia, tra Catania e Caltagirone «per ripercorrere - come ha detto Salvatore Martinez, presidente di Rinnovamento dello Spirito Santo - l’attualità e l’attuabilità della visione sturziana della storia e rilanciare nuove prassi di intervento sociale e di dialogo tra fede, politica e società».
D
Benedetto XVI sarà comunque presente all’inizio dei lavori, il 2 ottobre a Catania, con un videomessaggio di saluto. Ai lavori, moderati dal sottosegretario del pontificio Consiglio per i laici Guzman Carriquiry, interverranno, tra gli altri, il Vicario Generale del Papa, il cardinale Angelo Comastri, il Segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, il presidente del Senato, Rena-
to Schifani, il vicepresidente della Commissione europea Antonio Tajiani, il presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo e il Premio Nobel per la Pace, Lech Walesa.
Sabato 3 si svolgeranno 6 sessioni monotematiche sulla concezione sturziana di società, economia, politica, giustizia, globalizzazione e cultura . Autorevoli le presenze previste, dal neo Presidente del Parlamento europeo, Jerzy Buzek, per la prima volta in Italia, al Presidente del Ppe, Wilfried Martens, dal Revisore degli Affari Economici della Santa Sede, Thomas Hong Soon Han al Procuratore Nazionale Antimafia, Piero Grasso. In una sessione dedicata all’eredità politica di Sturzo e moderata dal direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, si confronteranno i segretari nazionali della Dc e del Ppi, Gerardo Bianco, Rocco Buttiglione, Ciriaco De Mita, Arnaldo Forlan e Mino Martinazzoli. Al convegno parteciperanno i massimi esponenti dell’associazionismo e volontariato cattolico (Compagnie delle Opere, Opus Dei, Movimento dei Legionari di Cristo, Focolarini, Comunità di Sant’Egidio, Acli).
STURZO Altrettanto nutrita la presenza del mondo accademico e scientifico con esponenti delle maggiori università italiane e Centri Studi dedicati alla figura di Don Sturzo. La giornata conclusiva di domenica 4 ottobre sarà caratterizzata dalla presentazione di Convenzioni e i Protocolli d’intesa per dare il via a
Il ministro della Giustizia Alfano ha firmato un protocollo d’intesa per la costituzione dell’Agenzia nazionale reinserimento e lavoro per ex detenuti e per la creazione di nuovi insediamenti nel polo Mario e Luigi Sturzo di Caltagirone una serie di progetti sociali alla presenza del ministro della Giustizia, Angelino Alfano, di quello dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi, del Presidente del Comitato Nazionale per il microcredito, Mario Baccini. «Rendere umana la redenzione e mettere al centro il lavoro come cura alla recidiva», così il ministro Alfano sintetizza il senso dell’intesa e della collaborazione con la Fondazione “Istituto di promozione umana Monsignor Francesco Di Vincenzo”, firmando la Convenzione per la costituzione della Agenzia nazionale reinserimento e lavoro per ex detenuti e per la creazione di nuovi inse-
diamenti nel polo Mario e Luigi Sturzo di Caltagirone. «È’importante offrire nuove chance ai detenuti per la vita e nella vita» ha aggiunto il ministro, sottolineando la scelta di un luogo così simbolico che richiama alla «operosità e concretezza e a quella politica del servizio» nello stile di don Luigi Sturzo.
Come ha spiegato Salvatore Martinez, «il progetto sociale, già operativo in Sicilia attraverso cooperative sociali e agricole capaci, vede protagonisti non solo gli ex detenuti ma i loro nuclei familiari. La firma della Convenzione ha come scopo quello di esportare il progetto, che si estenderà così a Campania, Lazio, Lombardia e Veneto. Il convegno intende rilanciare il cosiddetto “metodo cristiano”che don Sturzo indicava nelle parole fattive amicizia, sincerità e collaborazione. In una fase di forte dibattito intorno a un nuovo rapporto tra società e politica il convegno si pone quindi anche come incubatore di idee per nuove prassi di intervento nella società e di dialogo tra fede e politica, tra fede ed economia, tra fede e giustizia al di là di precostituite appartenenze ideologiche». Il rapporto tra i pontefici e il sacerdote di Caltagirone è stato ricordato ieri dal vescovo di piazza Armerina, Giuseppe Pennisi, che presiede la Commissione storica per la causa di beatificazione di don Sturzo. Per Giovanni Paolo II, per esempio, era «la fantasia della carità». Monsignor Pennisi ha poi letto una lettera di Loris Capovilla, segretario di Papa Giovanni XXII, nella quale si ricordava la stima che papa Roncalli aveva per don Sturzo, e che avrebbe voluto incontrare da Papa, ma la cosa non fu possibile per la prematura scomparsa del fondatore del Partito popolare.