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La somma dei dolori possibili per ogni anima è proporzionale al suo grado di perfezione

di e h c a n cro

Henri Frédéric Amiel

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 3 OTTOBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il decreto del governo passa per soli 20 voti (30 gli assenti nell’opposizione) in un clima inquinato da velenosi infantilismi

L’anno zero della politica Risse in aula sullo scudo agli evasori, risse fuori su Santoro e le escort. Gli “opposti estremismi” di Berlusconi e Di Pietro segnano il degrado dello Stato. L’amarezza di Napolitano: «Tra i partiti non c’è più civiltà, né dialogo, né rispetto» di Errico Novi

ROMA. Non stupisce più nulla. Non i cartelli sollevati nell’aula della Camera, né la sfrontatezza di uno scudo fiscale che smacchia i reati, e nemmeno il loop mediatico che trasforma una prostituta di lusso nella nuova icona della sinistra.Tutto si confonde e si sovrappone, in un blob allucinato che forse è il punto più basso toccato dalla politica negli ultimi anni. La sovrapposizione

tra Annozero e il dibattito di Montecitorio fa impressione, si coglie nell’esibizionismo con cui il deputato dell’Italia dei valori Franco Barbato dà del «mafioso» a tutta la maggioranza. Sono convinti, i parlamentari dipietristi, che la Camera vada frequentata alla stregua della tv. a pagina 2

Violante elogia il gesto dell’ex leader di An

La necessità di un “cambio di sistema”

«Il no al lodo Alfano: la lezione di Fini»

È un clima simile a quello del ’94

di Franco Insardà

di Enrico Cisnetto

ROMA. «Il gesto di Gianfranco Fini, è una lezione di etica pubblica». È il giudizio positivo dell’ex presidente della Camera, Luciano Violante, sulla decisione di Gianfranco Fini, alla quale ha risposto l’ex pubblico ministero di Potenza, Henry John Woodcock, che ha deciso di rimettere la querela a suo tempo voluta contro l’ex leader di Alleanza nazionale, «perché ha mostrato fiducia nella magistratura».

ono ovviamente d’accordo con quanto ha scritto su questo giornale Luca Cordero di Montezemolo circa la necessità e l’urgenza di una svolta, quella che ha chiamato «Grande Innovazione», per un Paese che da quasi due decenni non è governato. E se questo è il senso delle iniziative che il presidente della Fiat intende intraprendere con il suo nuovo pensatoio, ben vengano.

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IL DISASTRO DI MESSINA 18 i morti, decine di dispersi. La città siciliana è un inferno di melma e detriti. Dopo Napoli e L’Aquila, ancora una volta, il Belpaese fragile per incurie e furbizie, può affidarsi soltanto a San Bertolaso, ormai il vero premier

Fango d’Italia

alle pagine 8 e 9

L’insolita presa di posizione nell’incontro con il nuovo ambasciatore Usa in Vaticano

Endorsement del Papa per Obama «Apprezzo e sostengo la sua visione multilaterale del mondo» di Vincenzo Faccioli Pintozzi Un appoggio pieno, alla linea multilaterale del nuovo presidente americano e al suo impegno contro la proliferazione delle armi nucleari. Lo ha espresso ieri il Papa nei confronti di Barack Obama: ricevendo il nuovo ambasciatore statunitense presso la Santa Sede, il teologo Diaz, papa Ratzinger ha però ricordato che fanno bene i vescovi americani quando cercano di proporre la loro visione nell’agone culturale degli Stati Uniti. Soprattutto sui temi bioetici.

Per il mondo islamico Barack è come Bush

Ma l’odio per gli Usa Perché invece riparte non è ancora finito il feeling con Israele di Joseph Loconte

di Daniel Pipes

La maggior parte dei Paesi islamici prova un sentimento di sfiducia verso gli Stati Uniti sotto la guida del presidente Obama simile a quello che provavano sotto la guida di George Bush.

Netanyahu ha conseguito una vittoria, quando Obama ha deciso di non ratificare un’iniziativa della sua linea politica. Questo dietrofront indica che i rapporti tra Israele e Usa migliorano.

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a pagina 14 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

Ricucito lo strappo con Netanyahu

196 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Deriva. Scudo fiscale approvato grazie alle assenze dell’opposizione. Dal Colle un’indignata evocazione del passato

L’anno zero della politica Tra risse, insulti e decreti “immorali” una giornata simbolo del degrado dello Stato. Napolitano: «Tra i partiti regna l’inciviltà» di Errico Novi

ROMA. Non stupisce più nulla. Non i cartelli sollevati nell’aula della Camera, né la sfrontatezza di uno scudo fiscale che smacchia i reati, e nemmeno il loop mediatico che trasforma una prostituta di lusso nella nuova icona della sinistra. Tutto si confonde e si sovrappone, in un blob allucinato che forse è il punto più basso toccato dalla politica negli ultimi anni. La sovrapposizione tra Annozero e il dibattito di Montecitorio fa impressione, si coglie nell’esibizionismo con cui il deputato dell’Italia dei valori Franco Barbato dà del «mafioso» a tutta la maggioranza. Sono convinti, i parlamentari dipietristi, che il palcoscenico di Montecitorio vada frequentato come fosse un’arena televisiva. Non sono certo i soli a pensarlo. Ed è significativo che quando i deputati dell’Italia dei valori sollevano cartelli del tipo “Fuori la mafia dallo Stato», Gianfranco Fini carico di rassegnazione dica loro: «Abbiamo fatto le foto necessarie, ora potete toglierli».

le di una due giorni massacrante per la credibilità delle istituzioni insieme con la rinuncia al lodo Alfano da parte di Fini, nella causa che lo oppone al pm Woodcock. Il magistrato, sempre nella giornata di ieri, annuncia a sua volta il ritiro della querela. Sono due immagini – quelle di Napolitano e del presidente della Camera – tanto più notevoli quanto più isolate. Sublimano lo sconcerto

Passa lo scudo fiscale, ma solo per 20 voti

DUE GIORNI DA DIMENTICARE Il teatro itinerante comincia con una mascherata: Antonio Di Pietro munito di coppola e sigaro protesta per il favore che secondo lui governo e maggioranza fanno al crimine attraverso il salvacondotto per i capitali detenuti all’estero. Invita il presidente della Repubblica a non firmare, eppure sa bene che la Costituzione non attribuisce al capo dello Stato la facoltà di entrare nel merito delle leggi. La sua è dunque una messa in scena a uso e consumo di televisioni, prime pagine, dello show insomma. Giorgio Napolitano non potrà far altro che esprimere il suo disgusto, ventiquattr’ore dopo, e ricordare la nostalgia per i tempi in cui «c’era una divisione non solo politica ma ideologica, eppure ci si rispettava». Parole pronunciate davanti ai sassi di Matera, solo atto nobi-

Con 270 voti contro 250 passa la legge che consente il rimpatrio dei patrimoni. Richiamo ai deputati disertori da parte di Franceschini e Casini, che però critica i dipietristi: «Irresponsabili»

e forse la paura per un sistema che rotola verso il baratro.

LA CERIMONIA DI ANNOZERO Nelle stesse ore in cui Di Pietro suscita lo sdegno del Colle si consuma il surreale scontro tra la presidenza del Consiglio, per tramite dell’avvocato Niccolò Ghedini, e Michele Santoro, per la diretta con Patrizia D’Addario. A pochi minuti dall’inizio di Annozero pende ancora un “parere negativo” dell’ufficio legale sull’intervista alla escort. Visto che le raccomandazioni degli avvocati Rai non giustificherebbero un eventuale veto del direttore generale Mauro Masi, la puntata va in onda. Con tanto di editoriale di Marco Travaglio, con le rivelazioni della prostituta di lusso che dice «tutte sapevano chi ero» quando le chiedono se lo sapeva il premier. E l’altra professionista Barbara Montereale che intervistata in differita a sua volta dice: «Ci avevano detto che il presidente avrebbe dato una busta a chi si fosse intrattenuta per la notte: cinquemila». Cinquemila euro,

ovviamente. Finisce con Maurizio Belpietro che esegue con fredda precisione il suo compito, smontare la credibilità della teste. «Come si guadagna da vivere?!! Come?!!». La D’Addario sembra in lacrime. Come in un film di Almodovàr il peccato e il sesso diventano martirio, commozione, forse tragedia. La santificazione prevale sulla politica, la surroga. Colpisce più di tutto la giornalista Norma Rangeri del manifesto aggrappata alla escort di Palazzo Grazioli come ultima speranza della rivoluzione. E Santoro che esclama: «Ecco il mondo in cui siamo». Come se le miserie private di Berlusconi intaccassero la dignità di ogni singolo italiano. Non è così, per fortuna, ma l’illusione ottica contiene in sé tutto il dramma di una sinistra che non ha altra idea se non la demolizione di Berlusconi.

IL CAFFÈ RISTRETTO DI BERNSTEIN La confusione tra politica e scandalo, tra Parlamento e studio televisivo, sconvolge anche un grande del giornalismo come Carl Bernstein, premio Pulizer pre il Watergate. È collegato in diretta con Annozero, nella prima

parte del suo intervento fa una disamina misurata e in fondo ottimistica della situazione italiana. Poi dopo oltre mezz’ora la regia dice a Santoro che da New York chiedono di nuovo la linea. È Bernstein che ha cambiato espressione: «In Italia c’è un regime sovietico, il presidente del Consiglio cerca di far tacere quella parte di informazione che ancora non controlla». Imprevedibile impennata che stupisce anche il conduttore: «Però: Bernstein deve aver preso un caffè ristretto nella italiano, prima parte della trasmissione era stato così tranquillo». Se per un attimo un osservatore esterno rifiuta di calarsi nel teatrino e reagisce alle cose del Belpaese con naturale sconcerto, persino il Savonarola più irriducibile avverte una stonatura.

Giorgio Napolitano le pronuncia, a Montecitorio si compie l’atto più squalificante, con le dichiarazioni di voto dell’Italia dei valori all’insegna dell’insulto e i coretti «scemo, scemo» che si levano dagli scranni della maggioranza. Il capo dello Stato si commuove nel ricordare un altro tempo della Repub-

Gazzarra a Montecitorio: scatenati i dipietristi

NAPOLITANO E LA CIVILTÀ PERDUTA

Sacrosanto è lo sdegno del presidente della Repubblica, espresso la mattina successiva, cioè ieri, a Matera, davanti a Palazzo Lanfranchi: «Anche se non faccio più politica sento una certa nostalgia per gli anni ’50 e ’60, quelli in cui non si facevano tanti complimenti, fra maggioranza e opposizione, c’era una divisione non solo politica ma ideologica, eppure ci si ascoltava e c’era civiltà nei rapporti tra gli schieramenti politici in Parlamento». Parole scandite dagli apMentre plausi.

Show dell’Idv in aula: Franco Barbato definisce «mafiosa» la maggioranza, sarà sospeso ma il suo leader lo appoggia. Al momento della votazione spuntano anche i cartelli: «Fuori la mafia dallo Stato»

blica, così lontano, ma anche il valore che ha, per il Mezzogiorno, un patrimonio come quello dei Sassi di Matera, e la condivisione che di tanta ricchezza deve esserci in tutto il Paese: « Come mi è capitato di dire a cittadini del Nord, questo patrimonio è anche il vostro e dell’Italia unita. Dovete esserne orgogliosi anche voi».

IL GIORNO NERO DI MONTECITORIO Dopo la piazzata del giorno prima, con la drammatizzazione dell’appello a Napolitano, l’Italia dei valori esibisce la batteria finale, come a un gara paesana di fuochi d’artificio. Ci pensa il napoletano Franco Barbato, uno specialista: «Alla fine ieri sera durante Annozero si è acclarato che il premier è ‘escortiere’ e nient’altro, si era fatta tanta confusione». Sollievo studiato per assestare la botta forte: «Avere un premier ‘escortiere’ è una cosa passabile, però non è passabile che il Parlamento, sui temi della legalità, del contrasto alla mafia che oggi non opera con la coppola e la lupara, non sia determinato: oggi fate un bel saldo alle cosche, perché avete previsto un’aliquota del 5 per cento, questa è bla cosa più ridicola per una maggioranza parla-


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E il pm Henry John Woodcock ritira la querela contro il presidente della Camera

«Solo una buona notizia: il no di Fini a usare il lodo Alfano» Luciano Violante: «Oggi si arriva a occupare certe posizioni in modo del tutto casuale o basandosi su rapporti amicali. Per non dire di peggio» di Franco Insardà

A sinistra, Giorgio Napolitano. Sopra, Gianfranco Fini e Luciano Violante

mentare, che diventa mafiosa e criminale. Ancora una volta state aiutando la mafia con atti legislativi, avete portato la mafia in Parlamento!». Parole testuali. Antonio Di Pietro prende la parola poco dopo, per dichiararsi correo del suo deputato, in odore di sospensione. Fuori dall’aula rincara la dose con i cronisti: «È una norma mafiosa, a favore di mafiosi, fatta da conniventi di mafiosi». All’atto della votazione arrivano i cartelli, l’inutile richiamo di Fini, ma anche la sorpresa per una bocciatura evitata di un soffio: il decreto correttivo anticrisi, con le norme sul rimpatrio dei patrimoni, passa con 270 sì e 250 voti, quindi grazie alle 22 assenze tra le file del Pd,

ROMA. «Il gesto di Gianfranco Fini è una lezione di etica pubblica». È positivo il giudizio dell’ex presidente della Camera, Luciano Violante, sulla decisione di Fini di rinunciare al lodo Alfano, alla quale ha risposto il pm Henry John Woodcock rimettendo la querela. Un gesto simile può riqualificare le istituzioni? Non c’è dubbio. Non so se risolve, ma aiuta tutti coloro che lavorano per costruire un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. Ritiene che Fini abbia voluto marcare una distanza dalla sua maggioranza? Credo che abbia fatto quello che riteneva giusto fare. Se ci siano altri scopi bisognerebbe chiederlo a lui. Lo apprezzo come atto di dignità politica. Il presidente Napolitano ha dichiarato di avere nostalgia per il tempo in cui il confronto politico era anche aspro, ma civile e rispettoso. Purtroppo siamo passati dall’era dei grandi nemici “esterni” - il capitalismo e il regime sovietico - alla fase dei nemici “interni”. Prima i grandi nemici erano fuori e all’interno ci si combatteva rispettosamente. Oggi si è amici di Putin, ma in Italia... Ma il comunismo oggi non c’è più e il capitalismo si è modificato. Crollati quei nemici esterni sono subentrati quelli interni. E tra i primi c’è l’avversario politico. Questo determina una minore possibilità di dialogo rispetto a ieri. È un meccanismo diabolico, ma purtroppo è così. Questo imbarbarimento è legato al venir meno delle contrapposizione ideologiche? Direi piuttosto a una scarsa fiducia nei propri valori da parte di tutti che porta

alle 6 dell’Udc e alla diserzione di 5 deputati del gruppo misto.

L’OPPOSIZIONE “DI COMODO” Dal vertice dei democratici arrivano minacce di sanzioni anche pecuniarie. Decisivi sono gli scranni vuoti di Linda Lanzillotta, Beppe Fioroni, Giovanna Melandri. Arriva una lettera severa anche da Pier Ferdinando Casini: tra i banchi del Centro si notano le assenze di Amedeo Ciccanti, Francesco Bosi, Giuseppe Drago, Mauro Libè, Michele Pisacane e Salvatore Ruggeri. Ma il leader dell’Udc è anche uno dei pochi a cogliere il senso di questa giornata di vani strepiti e leggi spregiudicate: «Il fatto che in un momento di massima diffi-

a rifiutare qualsiasi confronto. Fare politica significa anche sforzarsi di capire le ragioni dell’altro. Questa situazione attuale dipende anche da una classe politica poco selezionata? Il problema è che i partiti non fanno più educazione civile né al proprio interno né fuori. Per cui nella vita politica oggi spesso si arriva a occupare certe posizioni in modo del tutto casuale o basandosi su rapporti amicali con le oligarchie dei partiti. Per non dire di peggio...

Sono d’accordo con il presidente Napolitano. Siamo passati dalla fase dei nemici “esterni” a quella dei nemici “interni”

E quindi? Tutto questo priva la rappresentanza politica di una sua forza e di una sua autorevolezza. Uno dei pochi partiti che fa una selezione basata sull’esperienza politica è la Lega, i cui deputati hanno un passato da amministratori capaci. Hanno, cioè, fatto le loro esperienze sul campo. Lei critica l’attuale legge elettorale che consente a una oligarchia di scegliere i parlamentari e riduce notevolmente il ruolo del Parlamento. La prima cosa da fare è una nuova legge elettorale, proprio per evitare la costruzione di oligarchie nei partiti e nelle istituzioni. Spero che, dopo

coltà della maggioranza l’Italia dei valori assuma questo atteggiamento è il segno dell’opposizione di comodo e dei grandi favori a Berlusconi che questo pìartito costantemente fa. Se si continua così Berlusconi rimarrà al governo per altri sessant’anni, questi sono comportamenti irresponsabili e infantili politicamente». L’offesa alle istituzioni è appena mitigata dal bel gesto di Fini: in vista del processo per diffamazione avviato da una querela del pm Henry John Woodcock per delle frasi pronunciate durante un Porta a

il congresso, il Pd ponga il cambio della legge elettorale al primo posto del suo programma per le riforme istituzionali. È appena uscito il suo nuovo libro Magistrati nel quale si criticano degli atteggiamenti di alcuni suoi ex colleghi. Un po’ singolare per uno come lei considerato il capo del “partito delle toghe”. Giusto per sgombrare il campo dagli equivoci nel libro ho pubblicato un articolo del 1993, in piena Tangentopoli, nel quale avevo parole molto dure contro il cosiddetto governo dei giudici e non ho mai cambiato opinione. Si sono costruiti delle favole su di me che sono autentiche stupidaggini. C’è, quindi, bisogno di una riforma della giustizia? Penso che occorrano due tipi di intervento; uno di carattere morale, sia da parte dei politici sia dei magistrati, e l’altro di tipo legislativo. Ma le leggi senza una riforma morale della politica e della magistratura non risolvono questa situazione. Un richiamo alla morale che viene da più parti. La globalizzazione ha sconvolto i principi dell’etica pubblica, ma anche di quella privata. Si avverte la necessità forte di ricostruire un tessuto etico. Ritiene che ci siano le condizioni per questo cambiamento? Oggi, purtroppo, l’unico parametro al quale si fa riferimento è quello riferito alla legge: ciò che non è espressamente vietato si intende sia consentito. Non è così. L’esempio del presidente Fini ne è una conferma. Poteva avvalersi del lodo Alfano e dal punto di visto giuridico la sua posizione era ineccepibile. Invece ha fatto prevalere i principi di etica pubblica.

valere del Lodo Alfano e chiede alla giunta per le Immunità di votare contro l’insindacabilità delle opinioni espresse. Il maRecord di ascolti gistrato raccoglie il seper la trasmissione gnale e a sua volta ancon l’intervista nuncia il ritiro della quealla escort barese. rela. Quello di Fini è un Alla quale altro lampo di civiltà istitocca quasi tuzionale – che suscita un processo persino i complimenti di santificazione del capogruppo dipietrie che si conferma sta Massimo Donadi – icona politica della che in una giornata del sinistra, persino genere, tra i lanci d’adi quella estrema genzia sull’audience da del manifesto record assicurata dalla D’Addario a Annozero, produce per contrasto porta, il presidente della Came- un senso di vuoto ancora più ra annuncia di non volersi av- opprimente.

La libertà di stampa tra governo ed escort in Tv


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Scenari. Riflettendo sull’impotenza del governo e discutendo le tesi di Luca di Montezemolo

Siamo come nel ‘94: ci vuole un cambio di sistema di Enrico Cisnetto ono ovviamente d’accordo con quanto ha scritto su questo giornale Luca Cordero di Montezemolo – e che ripete fin dalla sua nomina a presidente della Confindustria – circa la necessità e l’urgenza di una svolta, quella che ha chiamato «Grande Innovazione», per un Paese che da quasi due decenni non è governato. E se questo è il senso delle iniziative che il presidente della Fiat intende intraprendere con il suo nuovo pensatoio, ben vengano. Anche se, come ho già detto in una diversa circostanza, in altre sedi – penso, modestamente, a Società Aperta, ma non solo – e da molti (troppi) anni non sono mancate le capacità di analisi e di proposta, bensì quelle di iniziativa politica. Insomma, questo è il tempo dell’azione, se è corretta la valutazione – che so essere condivisa dallo stesso Montezemolo – che il Paese attraversa un momento simile a quello che ebbe a vivere nel 1992-1994 e che dunque in tempi relativamente brevi un processo di implosione spazzerà via quel bipolarismo malato che abbiamo chiamato convenzionalmente Seconda Repubblica, e con esso i sui maggiori protagonisti.

S

È urgente un nuovo, grande progetto-paese per salvare l’Italia dall’inesorabile declino cui si è condannata

Tuttavia, nell’attesa che i tanti (troppi) indecisionisti che da tempo affabulano di “discese in campo” ma poi attendono un “red carpet” che nessuno gli stenderà mai, si decidano a trarre le debite conseguenze operative delle loro (corrette) valutazioni e delle loro (legittime) aspirazioni – anche per evitare che i Brunetta di turno abbiano materiale per le polemiche sul ruolo delle élite – è bene chiarirsi le idee su alcune questioni di natura programmatica. Non fosse altro per arrivare preparati al fatidico momento in cui la Politica (sì, quella con la maiuscola) avrà la chance di tornare al posto che le spetta. Esercizio che, Montezemolo o meno, farebbe bene anche a chi, come l’Udc, è già in campo – e nel campo giusto: il centro fuori dai due poli – ma ha più che mai bisogno di attrezzarsi nel predisporre un vero e proprio “programma di governo”, un grande progetto-paese per salvare l’Italia dall’inesorabile declino cui si è condannata. E qui debbo denunciare una diversa valutazione con l’analisi di Montezemolo, quan-

do afferma che in questi anni abbiamo assistito ad una crescente divaricazione tra le virtù del Paese, e in particolare delle imprese, e i vizi della politica. Mi sono ovviamente chiari questi ultimi – che denuncio da quindici anni senza essere mai caduto nella doppia trappola dell’anti-berlusconismo e dell’anti-comunismo – ma non vedo i primi. O meglio, non mi paiono tali da giustificare il ripetersi del vecchio ritornello della società civile buona e della classe politica cattiva. Ma al di là della sociologia, il punto è decisivo proprio ai fini del lavoro programmatico che occorre fare.

Mi spiego. L’impianto di analisi che il governo Berlusconi fa circa la crisi economica, si basa proprio su una premessa da cui io dissento profondamente, ma che Montezemolo rischia di avvalorare. Ed è quella che il grosso del capitalismo italiano negli anni scorsi, seppure con un qualche ritardo rispetto ai paesi nostri competitori, aveva provveduto a compiere il necessario turnaround per mettersi al passo con i nuovi paradigmi della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica che hanno cambiato in modo epocale i termini della competizione economica mondiale. Ne consegue, sempre secondo il governo, che per noi la crisi iniziata nell’estate del 2007 ha avuto solo un effetto congiunturale, terminato il quale, con la ripresa globale, tutto tornerà come e meglio di prima. Di qui l’idea che «durante la crisi non si fanno riforme strutturali», cui si sono aggiunti altri mantra tipo «non lasceremo indietro nessuno, la pace sociale è un bene primario», o ancora «tutti i soldi che abbiamo li spendiamo per la cassa integrazione e gli ammortizzatori sociali esistenti». Fino al punto di massacrare le banche affermando il principio, pericolosissimo, che «il credito non si nega a nessuno». Parole d’ordine sbagliate o, come nel caso della pace sociale, obiettivi giusti ma realizzati con mezzi sbagliati (l’immobilismo). Insomma, la logica è quella del puntellare l’esistente. Logica che, a mio avvio, serve a guadagnare tempo (che in politica è una scelta molto praticata, purtroppo) ma fa male, molto male, al Paese.

nei quattro anni della sua presidenza di Confindustria. Perché se è vero che alcun nodi che strozzano la nostra competitività sono di sistema e quindi chiamano in causa le responsabilità politico-amministrative – dal gap infrastrutturale a quello energetico, dal disastro di scuola e università a quello della giustizia – non meno decisive sono le peculiarità negative del mondo produttivo, dalla dimensione micro delle imprese alla loro sotto-capitalizzazione e sotto-managerializzazione, dall’eccesso di presenza in settori maturi o comunque labour intensive (e quindi ad appannaggio delle econome emergenti) alla scarsa capacità di innovazione e di internazionalizzazione. Mali da cui si sono sì emancipate, e con successo, imprese medie e medio-piccole, ma di numero assai limitato. A star larghi, 100-150 mila imprese e gruppi rispetto ai 5 milioni esistenti. Troppo poche, e troppo di nicchia, per produrre un modello di sviluppo alternativo a quello vecchio e ormai del tutto obsoleto.

In tempi brevi un’implosione spazzerà via quel bipolarismo malato che chiamiamo Seconda Repubblica. Ora, è tempo di agire

Invece, occorre capire che quella premessa è infondata – lo dico con dispiacere, ovviamente vorrei che fosse il contrario – e lo è perché altrimenti non si spiegherebbe il declino competitivo del nostro sistema economico, che lo stesso Montezemolo denuncia con molta efficacia, come ha fatto

E, d’altra parte, se così non fosse, come si spiega che l’Italia ha vissuto una lunga fase di stagnazione, che l’ha portata a perdere in quindici anni 15 punti di Pil rispetto alla media di Eurolandia e


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Le stime di Molesini, presidente dell’associazione italiana dei private banker

«Arrivano solo 100 miliardi, e torneranno alle imprese» Le valutazioni del settore smentiscono le cifre del Tesoro e anche le ipotesi di un “uso sociale” dei capitali rientrati di Francesco Pacifico

ROMA. Se al ministero del Tesoro, alle Agenzie delle entrate o alla Guardia di Finanza si attendono grandi incassi grazie allo scudo fiscale, lo si deve a loro. A una nota dell’Associazione Italiana Private Banking che parla di un bottino di fondi all’estero pari a 278 miliardi di euro. Ma a frenare gli entusiasmi è proprio Paolo Molesini, presidente dell’Aipb e Ad di Intesa Sanpaolo Private Banking: «Non c’è stato nessuno studio, soltanto una stima su quello che potrebbe essere depositato fuori confine. E tra l’altro credo andrebbe anche aggiornata: l’anno scorso l’effetto mercato è stato più negativo all’estero che in Italia. La cifra complessiva quindi è diminuita. Eppoi c’è una parte non potrà mai rientrare. Quale? «Quella che nessun funzionario banchiere sano di mente accetterebbe». L’emendamento Fleres non vi impone di avvertire le autorità. Gli intermediari seri hanno coscienza che il patrimonio più grande è l’immagine. Lavoriamo quindi con la massima accortezza. Vale per tutti? Siamo sempre vincolati a comunicare le operazioni che riteniamo sospette. Al di là degli obblighi, comunque, nessun intermediario serio accetterà un cliente sospetto: prima o dopo sorgono problemi. Quanto rientrerà? Una stima di 100 miliardi potrebbe essere credibile. Forse ambiziosa, ma credibile. Gli ultimi due scudi sono stati un flop. Quelli del 2001 e del 2003 non sono state esperienze negative. Se hanno raccolto “soltanto”73 miliardi… Ma hanno spazzato via molte paure, dimostrato che chi riporta i propri capitali non ha da temere nulla. Da allora è cambiato il contesto. C’è attenzione a livello internazionale verso il sommerso. Molti intermediari esteri con immagine e fama solida sono usciti con le ossa rotte. È forte la volontà politica di colpire il fenomeno. Ne è sicuro che si andrà fino in fondo? In Italia e all’estero l’attivismo della politica ha portato già due risultati: ha costretto i Paesi che non vogliono entrare nella lista grigia a fare accordi con Usa e Europa e la cosa comporta una minor tenuta del segreto bancario e un rafforzamento al sistema fiscale comunitario. La Svizzera mantiene alcune difese ma cede sul fisco. Quale sarà il business per le banche? Il ruolo fondamentale lo svolge il professionista. E con il commercialista che il cliente sceglie se rientrare o meno. Le banche entrano dopo: per smontare un trust o ridefinire il portafogli. All’inizio garantirete basse commissioni? In giro si sente di tutto, anche di istituti che si offro-

no di pagare loro la tassa sul capitale rientrato… la verità è che, vista la concorrenza, la clientela non sceglie un istituto in base a un -0,1 o -0,2 per cento in più o meno. Guarda il servizio, l’affidabilità. Mai, in tanti anni di carriera, qualcuno mi aveva chiesto del capitale dell’istituto! Oggi invece la solidità della banca passa al primo posto. Con costi fissi tra lo 0,60 e l’1 per cento, si ipotizzano per il settore bancario incassi da 300 milioni di euro all’anno. Intanto le commissioni sono più basse. Mi affido a stime: se il 5 per cento va in tasse, nell’arco di sei mesi, e del rimanente di quanto rientrato, il 30 si dirige verso l’immobiliare, un altro 30 torna in azienda, il 40 rimane in banca. E in una fase come questa non è detto che si consolidi di più il primo comparto. Sotto forma di azioni, di prestiti restitui o di capitale depositi, sempre da voi passeranno tutti questi soldi. Se il Paese guadagna, guadagna anche il sistema bancario. Ed è un bene per tutti. E credo che nel medio termine guadagneremo di più con la parte reinvestita nell’economia reale piuttosto che nella finanza. In questa fase non guadagnano certamente i piccoli investitori. Difficile fare considerazioni a breve termine, abbiamo colto in pieno nel primo semestre il vantaggio derivante dalla riduzione degli spread sui titoli obbligazionari. Oggi, sebbene sia possibile in questo scorcio d’anno una correzione, credo che l’azionario abbia ancora spazi da recuperare. Lo scudo imporrà cambiamenti al private banking? Siamo partiti dopo rispetto al resto d’Europa. Ma negli ultimi cinque anni si sono sviluppati operatori specializzati di dimensioni importanti a livello comunitario. Ma proprio questa “lentezza”, unita alla prudenza e a una certa diffidenza tipica della clientela italiana, ha evitato tanti eccessi. E le perdite sono state meno della metà rispetto a quanto subito dai risparmiatori anglosassoni. Anche le Poste faranno da intermediari. Non credo che la loro quota di mercato sia significativa per questo segmento di clientela, inoltre una delle principali esigenze di chi “scuda”è la garanzia dell’anonimato, difficile da mantenere per un’organizzazione ampia e diffusa come Poste Italiane. Ritengo quindi che i clienti privilegieranno le grandi banche, anche perché vantano supporti legali e fiscali più attrezzati. Come cambia il concetto di riservatezza tra la Svizzera che rivede il concetto di anonimato e lo scudo fiscale con aliquota al 5 per cento. La riservatezza c’è nel senso che nessuno può conoscere i nomi e i conti dei nostri clienti. La riservatezza vale per il pubblico, non certo per la magistratura. È una peculiarità delle persone perbene.

Al di là degli obblighi di legge non accetteremo i soldi dei clienti sospetti. Ne va del nostro più grande patrimonio che è l’immagine

Sopra, Silvio Berlusconi e Luca di Montezemolo. A sinistra, Pier Ferdinando Casini. Nella pagina a fianco, Paolo Molesini, presidente dell’Aipb e Ad di Intesa Sanpaolo Private Banking 35 rispetto agli Stati Uniti? Come si spiega che siamo stato l’unico paese Ocse, insieme al Giappone, ad essere già in piena recessione nel 2008 e come mai le previsioni per quest’anno e i prossimi ci inchiodano a differenze di ritmi di crescita persino con gli acciaccati paesi europei? Solo con la cattiva politica? Ma se queste valutazioni sono fondate, ne consegue che il compito della politica oggi non è quello di difendere l’esistente (le pmi, i posti di lavoro, il welfare, il sistema pensionistico e quello sanitario, il federalismo, ecc.) bensì quello di mettere in campo una straordinaria capacità riformista. Che deve riguardare i “fattori” della produzione – cioè i nodi di sistema – ma anche i “settori”, cioè le imprese e il modello di sviluppo. Ed è su questo che, nel prossimo articolo, bisognerà entrare di più nel merito. (www.enricocisnetto.it)

La politica deve mettere in campo una straordinaria capacità riformista, che riguardi anche le imprese e il modello di sviluppo


diario

pagina 6 • 3 ottobre 2009

Crisi. Già 15 milioni di persone fuori dal mercato del lavoro nelle economie avanzate. Un numero destinato a crescere anche nel 2010

Ecofin, allarme disoccupazione

Strauss-Kahn: «Piaga sociale, con conseguenze dolorose per le famiglie» di Alessandro D’Amato

GOTEBORG. È allarme disoc-

do proprio dei meccanismi di finanziamento della lotta ai cambiamenti climatici, in vista della conferenza di Copenaghen di fine anno. «Non accetteremo una soluzione che porti ad una proposta ingiusta», ha aggiunto il ministro polacco, deciso a dare battaglia con altri colleghi dell’est.

cupazione all’Ecofin. «In Europa resterà per alcuni anni sopra il 10%», ha detto il ministro delle finanze svedese Anders Borg nella conferenza stampa finale a Goteborg. Anche perché, ha sottolineato Borg, il problema dell’occupazione e quello della sostenibilità dei conti pubblici sono strettamente legati, e urgono delle riforme strutturali per evitare che una disoccupazione di lungo termine abbia un impatto sulle finanze degli stati europei. Nel comunicato finale la presidenza Ecofin ha indicato che i ministri si sono dichiarati d’accordo a «mantenere politiche di bilancio espansive per fronteggiare l’aumento della disoccupazione, pur sottolineando l’importanza dell’equilibrio macroeconomico considerato un elemento cruciale per il buon funzionamento del mercato del lavoro».

L’Ecofin ha espresso di nuovo la preoccupazione per il drammatico aumento della disoccupazione in Europa per il rischio di un alto livello di disoccupazione strutturale. Per mitigare il rischio di disoccupazione permanente ed evitare gli errori del passato i ministri hanno enfatizzato «l’importanza di mantenere il collegamento al mercato del lavoro di chi è colpito dalla disoccupazione attraverso misure di formazione e training e facilitazioni nella ricerca di posti di lavoro». Il commissario Ue, Joaquin Almunia, ha aggiunto che «La crisi sul mercato del lavoro continuerà ad avere effetti pesanti». L’Unione Europea deve elaborare delle strategie di lungo termine per la lotta alla disoccupazione, strategie che dovranno essere integrate nelle exit strategy dalle misure di stimolo all’economia, secondo Almunia. «Dobbiamo intervenire con una prospettiva macroeconomica - ha detto ancora - ma allo stesso tempo abbiamo bisogno di strategie di medio termine per salvaguardare il mercato del lavoro e aumentare la lotta alla disoccupazione di lungo termine». Il commissario spagnolo riconosce però che «ogni Stato ha una situazione particolare, un mercato del lavoro e delle priorità diverse. Senza un mercato del lavoro efficiente ed una for-

za lavoro meglio qualificata non saremo in grado di crescere e di offrire un futuro migliore ai nostri cittadini».

Una preoccupazione che tocca anche le altre istituzioni internazionali: da Istanbul il direttore generale dell’Fmi, Dominique Strauss-Kahn, ha detto che «la disoccupazione non è soltanto su un problema economico con un impatto sulla domanda, ma un grave problema sociale con conseguenze dolorose per famiglie e comunità». Il tasso galoppante di senza lavoro crea addirittura «una nube nera» sulla ripresa dell’economia mondiale. La crisi, infatti, «ha già spinto 15 milioni di persone fuori dal mercato del lavoro nelle economie avanzate e questo numero crescerà l’anno prossimo e per molti mesi». Per Strauss-Kahn, le politiche di sostegno alla domanda di manodopera, come tagli ai contributi in carico ai datori di lavoro e i sussidi ai lavo-

ratori in cassa integrazione «stanno già funzionando per alcune economie e dovrebbero essere allargate ad altri paesi». Un contributo, secondo l’Fmi, può venire anche da politiche per il lavoro attive come ad esempio aiuti nella ricerca di un posto di lavoro e formazione. Ma in ogni caso, per i paesi «è necessario fare

ziari sono adeguatamente capitalizzati. Lo stress test ha coinvolto 22 tra i maggiori istituti finanziari dell’Unione europea, che nel peggiore dei casi perderanno 400 mld euro nel biennio 2009/10. A margine, si è parlato anche di ambiente. La Polonia, insieme ad altri Paesi dell’Europa dell’est, ribadisce di non esse-

Secondo l’Istat, in Italia il rapporto deficit/pil si è attestato al 3,3% nel secondo trimestre 2009, contro l’1,3% dello stesso periodo 2008 di più per proteggere i segmenti più poveri della manodopera».

Meno allarmati, i grandi dell’Ecofin, sul sistema del credito. Dopo le parole di Draghi di ieri, che chiedeva alle banche italiane di continuare a rafforzare il loro patrimonio, Lo stress test sulle banche europee oggi al vaglio dell’Ecofin dimostra che gli istituti finan-

re disposta a dare un contributo «troppo elevato» per finanziare le politiche di contrasto ai cambiamenti climatici. «È totalmente inaccettabile che i Paesi più poveri dell’Europa debbano aiutare quelli più ricchi a sostenere i Paesi più poveri nel resto del mondo», ha detto il ministro delle finanze polacco, Jan Rostowski, a margine del consiglio di Goteborg dove si sta discuten-

La Commissione europea ha valutato in 100 miliardi di euro gli stanziamenti entro il 2020, prevedendo un contributo pubblico degli Stati Ue tra i 2 e i 15 miliardi d’euro. Quanto alla carbon tax, la presidenza Ecofin indica che un certo numero di ministri si sono espressi a favore. Il commissario Ue agli affari fiscali Laszlo Kovacs ha anche detto che nessuno ministro si è espresso in termini catastrofici (cioè radicalmente contro): «Alcuni governi hanno già annunciato l’introduzione di una carbon tax, altri stanno considerando l’idea: questo è stato il nostro primo dibattito a livello Ecofin, non ci sono state molte reazioni ma quelle che ci sono state erano positive». Intanto anche i numeri del bilancio dello Stato italiano preoccupano. Secondo l’Istat, il rapporto deficit/pil si è attestato al 3,3% nel secondo trimestre (contro l’1,3% dello stesso periodo del 2008), mentre nei primi sei mesi è stato del 6,3% (contro il 3,5% dei primi sei mesi 2008). Nel primo trimestre di quest’anno il rapporto aveva raggiunto il 9,3%. Positivo il saldo primario, ovvero l’indebitamento al netto degli interessi passivi, ma sceso a quasi un terzo di quello del corrispondente periodo del 2008. L’avanzo primario del settore pubblico nel secondo trimestre del 2009 è risultato positivo per 5.417 milioni di euro, con una incidenza sul Pil dell’1,4%, mentre era stato del 3,9% nel 2008). Sempre nel secondo trimestre del 2009 le entrate fiscali sono diminuite rispetto a un anno prima del 2,4%, contro il 0,5% dello stesso periodo dell’anno precedente. L’Istat aggiunge che nel semestre le entrate sono diminuite del 2,7% (+1,5% nel corrispondente semestre del 2008). Nonostante il calo delle entrate la pressione tributaria, nel secondo trimestre, è pari al 45,8% rispetto al 45% dello stesso periodo del 2008.


diario

3 ottobre 2009 • pagina 7

La spauracchio di uno scontro con il Pdl spaventa il Carroccio

Documento bipartisan contro il «doppiopesismo»

Lega Nord: marcia indietro di Bossi sul Veneto?

60 parlamentari firmano l’appello “anti-Polanski”

ROMA. La notizia era passata in

ROMA. «La violenza sessuale è

sordina. Un trafiletto della Padania di ieri sulla pagina degli appuntamenti: «Vicenza, la Lega apre la campagna elettorale». Ospite d’onore, il ministro delle Politiche agricole Luca Zaia, candidato del Carroccio in pectore, ma a questo punto anche nei fatti. L’occasione è la Festa della Lega di Lonigo, dove il ministro terrà un comizio e incontrerà esponenti locali e nazionali del Carroccio. Via alla campagna elettorale, insomma. E fra voci e smentite, sembra essere calato davvero il gelo tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Era stato Roberto Calderoli ad aprire le ostilità: «Vogliono Galan? Bene, allora andremo da soli. Mica ci fa paura». La Lega dice che Berlusconi gliel’ha promesso, altrettanto afferma il governatore veneto, corso a Roma per il genetliaco di Silvio Berlusconi, ricevendone la conferma di un’investitura già mezza promessa nel giorno del matrimonio di Galan, che vide lo stesso Cavaliere nelle vesti di testimone. Ma ora l’ordine di scuderia nella Lega è diventato il silenzio e prudenza. Lo spauracchio di una corsa a due preoccupa anche la Lega, che sa di avere vita dura contro un’alleanza che prospetta di aggregare al Pdl l’Udc e forse anche il Pd, se l’obiettivo è fare fuori la Lega. Scontro che si

una piaga silenziosa, frutto di un problema innanzitutto culturale. Perciò abbiamo il dovere di impegnarci affinché casi come quello di Roman Polanski non si traducano in pericolosi messaggi di impunità o, peggio, di giustizia dai doppi pesi e dalle doppie misure». Lo afferma la deputata Barbara Saltamartini responsabile delle Pari opportunità del Pdl. «È questo il motivo - prosegue la parlamentare - che mi ha spinto a farmi promotrice di un appello per far sì che il regista franco-polacco non si sottragga al giudizio del tribunale di competenza, affrontando l’accusa di stupro di una bambina che da 30 anni pende sul suo capo. L’appello, lanciato in mo-

Andrea Olivero, presidente delle Acli

Libertà di stampa: sì dalle Acli, no dalla Cisl Diretta tv (a sorpresa su Rete 4) per il corteo di Roma di Francesco Capozza

ROMA. Ci saranno anche le Acli questo pomeriggio a Roma alla manifestazione promossa dalla Federazione nazionale della Stampa per la libertà di informazione. Ad annunciarlo ieri, il presidente Andrea Olivero, che sarà in Piazza del Popolo con una delegazione dell’associazione. «Vogliamo testimoniare la nostra preoccupazione - ha spiegato Olivero illustrando i motivi dell’adesione - dinanzi al clima pesante di condizionamento e di intimidazione cui abbiamo assistito in questi mesi e ancora negli ultimi giorni». Secondo il presidente delle Acli, «sono accaduti fatti gravi, inusuali e inaccettabili per un Paese democratico occidentale. Le denunce fatte ai giornali legati all’opposizione dal capo del governo, la campagna diffamatoria contro il direttore di un giornale libero, costretto alle dimissioni per aver osato porre alcune questioni critiche nei confronti del premier in risposta alle domande dei propri lettori. Una campagna organizzata, per giunta, dal giornale di proprietà della famiglia del presidente del Consiglio. Come cittadini e come cattolici - sottolinea - abbiamo sentito questo attacco come una ferita». Un problema, quello dell’informazione, ha sottolineato ancora Olivero, che «viene da lontano. È fallito il tentativo di avere nel nostro Paese un sistema di informazione equilibrato e plurale. Mancano editori puri nella stampa e nella televisione. Ci troviamo invece - ha evidenziato - di fronte a una concentrazione editoriale che non garantisce la possibilità di una libera e corretta informazione per tutti i cittadini. Questo - conclude - sicuramente è dovuto al coinvolgimento della politica, ma anche allo strapotere di alcuni gruppi finanziari che hanno raggiunto livelli quasi monopolistici».

stanza del sindacato dalla manifestazione di oggi indetta dall’Fnsi. «Per i valori e la gente che rappresenta, la Cisl non si chiuderà mai in un gioco di poteri forti che si fanno la guerra in nome della libertà di stampa, anzi così prendendola a pretesto. Una vera libertà di stampa, ci sarà solo quando giornali e tv saranno gestiti da imprenditori “puri”, garantendo la partecipazione dei lavoratori e dei cittadini», ha scritto.

«La manifestazione mi pare che abbia preso una piega troppo di parte. Non credo che sarà una manifestazione che vedrà sfilare giornalisti o attori principali della comunicazione. Mi pare di capire che è una manifestazione non per la libertà di informazione ma contro il presidente del Consiglio. Quindi, speriamo che la Federazione nazionale della stampa, come ha sempre fatto, sappia salvaguardare la categoria che rappresenta», ha invece affermato il segretario dell’Ugl Renata Polverini, a margine della presentazione dell’associazione Io siamo a Todi, in merito alla manifestazione in programma per questo pomeriggio a Roma. La piazza organizzata dall’Fnsi giunge due giorni dopo la puntata di Annozero che tanto ha fatto notizia negli ultimi giorni. «Non è solo ridicolo ma anche patetico che all’indomani della trasmissione faziosa e virulenta di Michele Santoro contro il presidente del Consiglio, una certa sinistra promuova una manifestazione per protestare in favore della libertà di stampa e contro la presunta censura che sarebbe operata dal governo»: è il ministro del Turismo, Michela Vittoria Brambilla, a dichiararlo in merito alla stessa manifestazione per la libertà d’informazione. «Ma non è senza significato che, grazie a Michele Santoro e ai media della sinistra oltranzista, il simbolo e la bandiera di questa manifestazione sia diventata Patrizia D’Addario. È il triste epilogo - ha sottolineato il ministro - di una storia che in passato aveva avuto ben altre icone: Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer… D’Addario!».

Il commento del ministro Brambilla: «Che tristezza, sono passati dalla piazza di Berlinguer a quella della D’Addario»

rifletterebbe inevitabilmente sul piano nazionale, rischiando di minare i rapporti nella maggioranza. E c’è anche chi sostiene che alla fine Bossi l’accordo lo farà, accontentandosi di Piemonte, Liguria ed Emilia. Anche perché consegnare il Veneto in mano alla Liga Veneta significherebbe per Bossi concedere troppo peso a una regione che più di una volta ha cercato di smarcarsi dal verbo lumbard. Berlusconi ci prova, facendo circolare l’idea di creare il ministero della Salute e di concederlo ad hoc a un leghista. Bossi ha già fatto sapere che non se ne parla nemmeno, infatti ha detto a Zaia di scendere in pista. Ma trovare la“quadra”, stavolta sarà difficile (v.s.) anche per il senatur.

Ma sull’informazione e la libertà di stampa, il sindacato si divide. La Cisl, per esempio, ha scelto l’autonomia e annuncia una propria iniziativa. È il leader della confederazione di via Po, Raffaele Bonanni, a spiegare così, dalle pagine di Conquiste del lavoro, la presa di di-

do bipartisan insieme a molte personalità politiche (fra cui il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il segretario dell’Ugl, Renata Polverini, il vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi, il vicepresidente del Parlamento europeo, Roberta Angelilli, i deputati del Pd, Ugo Sposetti, Paola Concia e Guglielmo Vaccaro, il capogruppo Udc alla Camera, Luca Volontè, la deputata e responsabile del gruppo politico femminile della Lega, Carolina Lussana, le deputate del Pdl Anna Maria Bernini, Isabella Bertolini e Paola Frassinetti) ha già ricevuto la sottoscrizione di 60 parlamentari.

«Dalla legge contro lo stalking a quella contro la violenza sessuale, fino alla Conferenza internazionale sulla violenza contro le donne, organizzata nell’ambito della Presidenza italiana del G8, abbiamo compiuto - spiega la Saltamartini importanti passi avanti sulla strada della tutela dell’integrità femminile e della piena affermazione dei diritti umani e civili. Ma il percorso è ancora lungo e il doppiopesismo di certa intellighenzia, internazionale e nostrana, che ha invocato clemenza per Polanski in virtù dei suoi meriti artistici, pesa come un macigno intollerabile e pericoloso».


società

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Disastro. Frane dopo il nubifragio: 18 morti e decine di dispersi

La maledizione di Messina Da una parte le faglie sismiche, dall’altra le correnti marine del Tirreno e dello Ionio di Maurizio Stefanini ola Pesce è una leggenda siciliana risalente almeno al ‘300 su un Nicola figlio di un pescatore messinese che era capace di restare sotto il mare come un pesce, e che partito in esplorazione del fondo su ordine dell’imperatore Federico II scoprì che la Sicilia si reggeva su tre pilastri, uno dei quali ormai corroso dalla furia dell’Etnea: rimase allora a sostenerla e sta ancora là, salvo quando per la stanchezza cambia un attimo di posizione, e si scatenano allora quei disastrosi terremoti che ogni tanto devastano la Sicilia Orientale. Scilla e Cariddi è un mito ancora più antico, visto che sta pure nell’Odissea: e parla di due mostri marini che si appostano sullo Stretto tra Sicilia e Calabria per aggredire i naviganti. Fantasie, appunto. Ma che adombrano dati geologici e pelasgici terribilmente seri.

C

Da una parte le faglie sismiche che premono l’una sull’altra al centro del Mediterraneo; dall’altra le correnti marine del Tirreno e dello Ionio che anch’esse si sovrappongono con furia, facendo schizzare in superficie bizzarri esemplari di fauna abissale da cui appunto l’idea dei “mostri” in agguato in fondo al mare. Le frane e le inondazioni che a scadenza drammaticamente fissa continuano a riempire di melma e fango ampie aree del messinese non appartengono, in senso stretto, allo stesso genere di fenomeni. Ma sì invece in senso più lato, in una zona che è metaforicamente di faglia anche in senso idrogeologico e meteorologico. Sono ben due infatti le catene montuose che attraverso la Provincia di Messina, con la linea di divisione tra Peloritani e Nebrodi che passa proprio sulla linea Tirreno-Jonio. I Peloritani arrivano fino ai 1374 metri della Montagna Grande; i Nebrodi ai 1847 di quel Monte Soro da cui vedono a un tempo le Eolie e l’Etna; sia gli uni che gli altri si spezzano in picchi, cri-

Dopo i drammi di L’Aquila e Napoli, ora arriva in Sicilia

Ormai il vero premier è Bertolaso di Giancristiano Desiderio uido Bertolaso, chi è costui? Il simbolo dell’Italia che lotta quotidianamente con l’emergenza. Ce n’è sempre una perché lo stato delle cose e lo stato dei diritti da noi è lo stato d’emergenza. Il consiglio dei ministri, dopo le notizie dell’ennesimo disastro italiano - a Messina, un secolo e un anno dopo il tremendo terremoto dell’inizio del 900 - ha dichiarato lo stato d’emergenza. E il simbolo di questo perenne stato d’emergenza è lui, Guido Bertolaso, il capo della Protezione civile. L’Italia tutta è unita nella sua persona, nelle sue membra e nei suoi pensieri che sono la Protezione civile diventata carne e sangue. Napoli? C’è Bertolaso. Cagliari? C’è Bertolaso. L’Aquila? C’è Bertolaso. Messina? C’è Bertolaso. L’Italia oggi è Bertolaso e gli italiani, brava gente, gli dicono grazie. Ma poi, dopo l’emergenza, dopo i pianti, dopo aver seppellito i morti che seppellirono altri morti, bisognerà pur chiedersi: ma perché il simbolo del nostro Paese è il capo della Protezione civile che è onnipresente, ma non potrà mai essere onnipotente? Perché lo stato dell’arte è la continua emergenza?

G

Nella Sicilia orientale di acqua ne è venuta giù molta in questi giorni. È piovuto come non pioveva da tempo (in verità, come non pioveva dalla primavera scorsa) e la molta acqua si è portata via intere colline. La Natura non guarda in faccia nessuno da Sumatra a Giampilieri. Tuttavia, perché siamo diventati il Paese in cui non ci possono essere tre giorni ininterrotti di pioggia bat-

tente? Perché il nostro territorio, dal Piemonte alla Sicilia, è così fragile che non sopporta la cosa più naturale e ciclica della “storia naturale”: la stagione delle piogge? Queste domande, che pur hanno risposte che investono amministrazioni, enti locali, Stato, non le vogliamo sentire. Così Guido Bertolaso è trasformato nel superman italiano che in ogni sciagura sorvola in elicottero le “zone colpite” e dopo poche ore fa il primo “punto della situazione”per un bollettino mai definitivo che viene aggiornato ora dopo ora, giorno dopo giorno, settimana, mese, anno.

Quante volte abbiamo sentito dire e ci siamo detti che noi italiani diamo il meglio di noi stessi nel momento del bisogno? Appunto, italiani, brava gente. La nostra specialità è il cuore in mano, la gara di solidarietà,la corsa ai soccorsi.Qui difficilmente siamo battibili. In ogni italiano c’è un Bertolaso pronto al sacrificio post-terremoto, post-nubifragio, post-frana. La nostra è la cultura dell’“aiuto subito”, ma non dell’“aiuto prima”: la prevenzione. Eppure, almeno nove disastri naturali su dieci sono evitabili con la ordinaria ma inesistente buona amministrazione: il terremoto in Molise con i bambini morti nell’asilo di San Giuliano; la casa dello studente a L’Aquila; la frana di fango a Sarno; l’inondazione nel Cagliaritano. Il 28 dicembre 1908 in trenta secondi venne su il mare e andarono giù Messina e Reggio Calabria. Quei trenta secondi cambiarono l’Italia,ma non gli italiani. Un secolo dopo siamo ancora lì, nel fango di sempre. Ma con Bertolaso.

nali e burroni; e dalle strette linee di cresta scendono a valle corsi d’acqua in gole profonde, che l’estrema friabilità di un suolo di tipo arenario riempie alla prima pioggia di detriti. Fiumare, sono chiamate dai locali questi torrenti impetuosi a carattere stagionale. La situazione già di per sé difficile è stata ulteriormente peggiorata dall’abbandono generalizzato dell’agricoltura, che qui come in altre zone d’Italia faceva spesso da argine all’erosione. Infatti, è proprio la Coldiretti ora a ricordare che 91 dei 108 Comuni della provincia di Messina, l’84%, è considerato a rischio per frane e alluvioni.

Per di più, le zone colpite dall’ultimo disastro sono in parte Frazioni staccate del Comune di Messina, in parte immediatamente fuori. Insomma, abba-

Sempre la Coldiretti ricorda che in tutto il Paese ci sono 1700 comuni a rischio frane, 1285 a rischio di alluvione e 2596 a rischio di tutte e due, per un totale di 5581. E anche che sempre a livello nazionale dal 1982 al 2005 sono scomparsi quasi 6 milioni di ettari di suolo agricolo, per cui se per il 2016 il ritmo risulterà inalterato si sarà persa una Superficie Agricola Utilizzata pari al 17,5 per cento del territorio nazionale: un’area superiore a quella delle regioni Sicilia e Sardegna.

La percentuale di Comuni a rischio italiana, pur a un allarmante 70% del totale, è però comunque inferiore all’84% della Provincia di Messina. Appunto, in un’area di faglia si crea quel surplus di complessità per cui poi la situazione

Già all’inizio di settembre, un quotidiano locale online parlava di «rischio idrogeologico e allerta sismica». E l’assessore alla Protezione Civile prometteva: «In arrivo fondi per le aree a rischio» stanza vicine da poter servire come sfogo per un incremento demografico che ha infatti riempito la costa di abitazioni in quantità. Ma pure abbastanza lontane da spiegare la lamentela degli abitanti intervistati in tv dopo gli eventi, che si sono quasi all’unanimità lamentati di aver “telefonato al Comune” senza ricevere risposta tempestiva. Altre rimostranze riguardano la mancata manutenzione di canali, fiumi e tombini, da parte di una municipalità che ha avuto recenti gravi problemi finanziari anche solo per la gestione dei trasporti in centro. Per carità: non è in Italia un tipo di problemi solo siciliano o messinese.

degenera. Già il 25 ottobre del 2007, ad esempio, nella stessa zona il fango si era rovesciato in mezzo alle case, anche se non c’erano state vittime. Un autunno dopo, l’11 dicembre del 2008 aveva dovuto venire un’unità mobile del Genio Guastatori di Palermo: Comune di Oliveri completamente allegato, Montalbano Elicona le strade di accesso furono chiuse al transito per allagamenti, il ponte tra Falcone e Oliveri crollato... Visto che ormai Internet consente di fare a tutti questi giochetti un tempo accessibili solo ai giornalisti, vale forse la pena di digitare su Google “Messina” e “rischio idrogeologico”. «Messina si


società

3 ottobre 2009 • pagina 9

Mentre continuano le operazioni di ricerca, esplodono le polemiche politiche

«Tragedia annunciata» di Alfonso Lo Sardo

MESSINA. Noi siciliani lo sappiamo bene che nel messinese si può rischiare di morire per un violento nubifragio ed è presumibile che questa consapevolezza ce l’avessero anche coloro i quali, a vario titolo, e per motivi istituzionali, sono chiamati alla tutela del territorio e, quindi, alla difesa delle vite umane perché sarà incredibile ma purtroppo è vero: nel 2009 nel nostro Paese si può morire a causa di un nubifragio. Ci sono decine e decine di paesini del messinese abbarbicati sulla roccia o su un cocuzzolo di montagna. Sono caratteristici, folkloristici addirittura, bellissimi e un po’ fuori dal mondo ma ora il mondo si interessa di loro perché la pioggia che si è abbattuta ieri ha ucciso 17 persone, travolte dal fango, dai detriti, dall’acqua e, tra le comunità più colpite quella di Scaletta Zanclea, Giampilieri superiore, Briga. Continuano le operazioni di ricerca dei dispersi ma le stesse forze dell’ordine, la protezione civile ed i vigili del fuoco intervenuti in modo massiccio e tempestivo hanno difficoltà a prestare i soccorsi in quanto le vie di accesso risultano ostruite perché sepolte dal fango, come i numerosi binari delle ferrovie che sono stati divelti.

sina: i comuni della zona tirrenica, ieri, e quelli della zona ionica, oggi, stanno in una situazione drammatica e quello che è successo la dice lunga sull’aspetto idrogeologico del territorio perché il 75% delle criticità esistenti nella regione siciliana si trova a Messina e c’è necessità di un intervento forte e definitivo da parte del Governo e della Protezione civile».

Servono miliardi per opere pubbliche che restituiscano al territorio provinciale di Messina condizioni di sicurezza ma la Regione non li ha e il Governo forse nemmeno e quindi l’emergenza rimane. Si procederà con interventi tampone ma siamo soltanto all’inizio della stagione invernale. Lo stesso sindaco di Messina, Giuseppe Buzzanca, alza le spalle: «due anni fa c’è stato un caso analogo sebbene non così grave ma nel frattempo non siamo potuti intervenire perché mancavano e mancano tuttora le risorse necessarie». E se a parlare è il presidente della Regione Raffaele Lombardo la musica non cambia, a parte il fatto che una visitina di Berlusconi sembra assicurata. «Il presidente del Consiglio mi ha assicurato che verrà nel Messinese – commenta Raffaele Lombardo – e noi siamo pronti a rendere disponibili tutte le risorse possibili, ma la tragedia e le dimensioni dell’impegno finanziario sono tali che abbiamo bisogno del governo nazionale. È vero, si tratta di un dramma annunciato in moltissimi comuni del messinesi della costa jonica e tirrenica e non credo che sia il caso di usare parole forti per colpire la fantasia. Purtroppo il territorio è devastato e interi pezzi di montagna franano». Intanto i sindaci dei comuni della fascia tirrenica si sono riuniti a Palazzo dei Leoni, nella sede della Provincia di Messina, base operativa delle operazioni affiancata a quella della Prefettura di Messina. Il vertice è in corso. L’auspicio del presidente Ricevuto è «che questo tavolo possa diventare permanente per affrontare una volta per tutte le criticità legate al fenomeno del dissesto idrogeologico». Fuori intanto piove.

Il sindaco: «Mancavano le risorse necessarie per intervenire». Lombardo: «Siamo pronti a fare il possibile, ma serve un intervento nazionale. Berlusconi verrà»

In alto, alcune immagini del nubifragio che ha colpito Messina. Sopra, Guido Bertolaso

prepara alla stagione invernale: rischio idrogeologico ed allerta sismica in primo piano», era una delle prime occorrenze, da Tempo Stretto quotidiano on line della Provincia di Messina. La data? Primo settembre 2009. E meno male che la notizia era sull’assessore con delega alla Protezione Civile che prometteva: «Arriveranno fondi dalla Regione per 22 aree a rischio, entro novembre la grande esercitazione di Protezione Civile per far fronte ad un’eventuale sisma». È venuta prima la catastrofe.

In questo caso come in altri è già possibile, con assoluta certezza, sostenere che non vi saranno responsabili: chi è responsabile di una politica edilizia selvaggia che ha portato ad insediamenti abitativi dove nessuna persona ragionevole lo riterrebbe possibile? Chi è il responsabile del disboscamento indiscriminato della zona in questione e degli incendi che ogni estate oltre a deturpare il paesaggio lo privano della sua solidità? Chi sono i responsabili delle mancate opere di manutenzione straordinaria di strade e del consolidamento di costoni franosi e di barriere, di muri di contenimento e altro ancora? Certo che poi diviene facile parlare quasi all’unanimità di disastro annunciato e di tragedia che si poteva evitare. Lo stesso presidente della Provincia di Messina, Nanni Ricevuto parla di «situazione disastrosa nella provincia di Mes-


panorama

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Bancocentrismo. I progetti di trasformazione di piazza San Silvestro si legano con la riforma della Cdp

I messaggi del postino Bonanni di Francesco Pacifico

ROMA. «Le Poste diventino una banca a tutti gli effetti perché essendo in grado di far costare meno i servizi possano prestare direttamente loro i soldi alle imprese». Con le sue movenze e il suo lessico da orso marsicano Raffaele Bonanni riesce a rendere semplice anche un qualcosa – la concessione di una licenza bancaria all’azienda di piazza San Silvestro – che da anni divide la politica e il mondo del credito. L’uscita del leader Cisl non è immune da dietrologie: i tesserati del sindacato di via Po sono talmente tanti che Bonanni e i suoi predecessori hanno sempre avuto un potere di veto sulla scelta dei vertici di Poste. E infatti il presidente Giovanni Ialongo viene proprio dalle file della confederazione bianca. Pr opr io nelle parole di Bonanni si legge quello che Ialongo e

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

il potente Ad Massimo Sarmi, pronti da tempo sia alla trasformazione in istituto di credito sia alla quotazione, ripetono da tempo: la commissione tra Poste, Bankitalia e Tesoro per discutere della licenza bancaria deve accettare l’idea di una separazione soltanto amministrativa e non societaria tra Bancoposte e le attività di comunicazione; una scissione rendere impossibile mantenere l’organico da 150mila dipendenti; la baracca regge, si conferma il quinto operatore mondiale se il suo perimetro, le sue attività, i 14mila sportelli, i quasi 30 miliar-

in atto alla Cdp, alla possibilità di usare tutta questa massa di danaro per attività più interessanti e remunerative sul medio periodo come il sostegno alle infrastrutture.

Tra i vertici di Poste è forte l’impressione che chiusa la riforma della Cassa, anche il loro dossier verrà sbloccata. Ma per farlo anche le Fondazioni dovranno fare delle concessione. Spiega Angelo De Mattia, ex capo della segretaria di Antonio Fazio in Banca d’Italia: «Prima di concentrare l’attenzione sul flusso di risparmio verso la Cdp, che considero ben gestita, bisognerebbe ampliare le potenzialità della Cassa stessa. Che dopo una prima trasformazione della sezione della cassa va inquadrata come una vera propria banca e che deve essere soggetta ai controlli tipici delle altre banche». Il problema quindi è di «parità concorrenziale. Perché un conto è trovare un uso più appropriato per il risparmio, un conto ipotizzare di trasformare le Poste in un istituto di credito senza un piano di sviluppo ben ponderato. Non si può fare come quel prevosto che volendo mangiare carne di venerdì, per allegerirsi la coscienza pronunciò la formula “Ego te baptizo carpam”».

Il leader Cisl avverte le Fondazioni: trasformare le Poste in istituto di credito libererebbero maggiori risorse e ricavi per la Cassa depositi e prestiti di di raccolta non vengono scalfiti. In più Bonanni manda un messaggio all’altro convitato di pietra in questa vicenda: le Fondazioni, azioniste sia delle banche che non vogliono la concorrenza delle Poste sia della Cassa depositi e prestiti, che gestisce (in cambio di un risicato 0,9 per cento) la raccolta di piazza San Silvestro. Bonanni che nella scala del ministro Tremonti è forse soltanto un gradino sotto le Fondazioni lancia un messaggio molto chiaro: hanno «idea degli effetti benefici di una cosa del genere». E la mente corre subito alle trasformazione

Una ricerca dell’Anci sui ragazzi di oggi, tra alcol, bullismo, movida e vandalismo

La minima (e cafonal) a-moralia dei giovani giovani - i giovanissimi - sono diventati un problema. Fanno tardi - tardissimo - la notte. Bevono, fumano, si sballano, si picchiano, si schiantano. La notte non si dorme, i cittadini tempestano di telefonate i carabinieri, i carabinieri presi nella morsa dell’ordinanza dell’amministrazione comunale e le chiamate di pronto intervento vanno in confusione. Che fare? Reprimere? Chiudere? Vietare? I giovani non si sa bene da che parte prenderli, soprattutto quando i genitori non li prendono a schiaffi. Non fate la faccia storta: c’è un tempo per bere con gli amici e un tempo per stare a casa. Le 3 del mattino, ad esempio, si può stare a casa e se i genitori si andassero a riprendere i loro pargoli - hanno spesso meno di sedici anni - i carabinieri non sarebbero costretti a intervenire come in un covo di mafiosi e le amministrazioni non dovrebbero fare ordinanze da “tempo di proibizionismo”. All’origine di tutto c’è l’egemonia della cafonismo (cafonal dice Dago).

I

Le 788 ordinanze firmate in un anno dai sindaci in materia di sicurezza e analizzate dalla fondazione ricerche dell’Anci, dicono che mentre l’anno scorso la maggior parte dei divieti ri-

guardava la prostituzione, ora invece la preoccupazione riguarda soprattutto i giovani: le loro serate ad alto tasso alcolico, la voglia di tirar tardi in piazza più o meno rumorosamente, le scritte “creative”sui muri, la pipì dove capita, la birra il vino e gli alcolici a go-go, il vandalismo, la movida.

Il paradosso è che in una grande città il fenomeno si avverte meno perché è diluito nei grandi spazi, mentre in una piccola cittadina o in paesi, paesini, paesoni e paesotti - l’Italia è fatta così, più di 8.000 comuni - quando la banda dei giovani scambia la notte per il giorno è la fine della quiete notturna. Tutta l’Italia, chi più chi meno, vive questo disagio. Lo stile cafone è universale ed è alimentato dallo stile volgare della televisione. Il cafonismo è la vacanza continua, i soldi

facili, la borsetta di mammà, faccioquello-che-voglio-e-non-mi-devi-rompere-le-scatole-anche-se-ti-do-fastidio-esono-scostumato. Le ordinanze ci danno il senso delle cose: nel 2009 la classifica dei divieti più gettonati vede infatti al primo posto le ordinanze per bevande alcoliche che rappresentano il 17,1 per cento del totale, seguito dal divieto di vendita per alimenti bevande 14,7, al terzo il vandalismo 12,7. Al quarto ordinanze per il decoro o disturbo della città col 11,6, abbandono rifiuti 10,6.

Di prostituzione parla il 9,6 delle ordinanze, di schiamazzi l’8,6. Di accattonaggio molesto il 7,9. I primi ad essere stupiti del risultato sono stati gli studiosi dell’Anci. «Eravamo convinti che trattandosi di sicurezza avremmo con-

tinuato ad avere soprattutto ordinanze legate al commercio abusivo che invece sono dimezzate (dal 4,8 al 2,1) oppure anti prostituzione», dicono all’Anci, «invece il target più gettonato dai sindaci, che ricevono le lamentele e leggono le paure dei cittadini, sono i giovani visti come autori di atti vandalici o protagonisti degli schiamazzi notturni».

La verità più semplice è che i giovani e i giovanissimi sono scappati di mano ai genitori. Mamma e papà non hanno più il controllo fisico e morale dei loro ragazzi. Spesso lo stile di vita cafonal è ereditato da mamma e papà che condividono con i figli la cultura del localismo: cioè il giro dei locali. Le tecnologia non aiuta: la tribù comunica con telefonini, videotelefonini, chat, sms, la virtualità esalta i giovani e fornisce loro un linguaggio emotivo infantile e astratto. La tribù non conosce altra dimensione che la sua comunicazione e tutto ciò che non rientra in quei codici è avvertito come un estraneo. È tipico dei giovani: credono di essere i creatori del mondo, mentre sono i figli del mondo. Bisogna aspettare che crescano, ma pare che l’adolescenza oggi si protragga fino a quarant’anni.


panorama

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Scenari. Ecco come stanno cambiando le strategie dei candidati in vista del congresso del Partito democratico

Tra Bersani e Franceschini spunta Prodi di Antonio Funiciello ell’antropologia culturale della sinistra italiana, due sono i segnali che misurano quando l’aria che tira comincia a essere irresponsabile. Anzitutto lo spauracchio della questione morale, inventata anni fa da Berlinguer e tirata in ballo ogni volta che non si vuole affrontare un problema politico impellente. Quindi il teorema del traditore, costruito quando un sodale di partito assume orientamenti e posizioni troppo autonome rispetto a quelle del gruppo dirigente.

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al grande pubblico e godendo da sempre di una stampa molto generosa, l’ex ministro non doveva fare altro che presidiare il fortino di consenso interno.

Nel congresso del Partito democratico questi due campanelli d’allarme sono già suonati. La questione morale è stata tirata fuori per coprire i protagonisti dei fallimenti politici delle amministrazioni meridionali di centrosinistra, che hanno avuto un ruolo determinante nela conta interna tra gli iscritti democratici. Il teorema del traditore è stato scagliato da Rosy Bindi contro un Francesco Rutelli che si è limitato a dire che lui, cattolico e liberaldemocratico di vecchio corso, non potrebbe stare in un Pd che diventasse un partito di

Una netta vittoria nella conta interna equamente distribuita su tutto il territorio nazionale gli avrebbe così consentito di governare e indirizzare l’evento primarie. La localizzazione geografica del voto degli iscritti (per cui Bersani stravince solo al Sud) e il numero effettivo di consensi raggiunto, che è intorno al 25 per cento degli aventi diritto, ha disdetto le attese di D’Alema. E Bersani si è accorto che, da un lato la conta interna lo ha legato a doppio nodo a D’Alema (i tesserati del Mezzogiorno rispondono, direttamente o indirettamente, tutti a lui), dall’altro ha bisogno di smarcarsi da questa tattica perché risulta chiaramente insufficiente. Franceschini, da par suo, ha improntato la sua campagna per la rielezione sulla suddivisione tra fase I (iscritti) e fase II (elettori). Probabilmente avere tanto nettamente scisso i due momenti, quasi come fossero

L’ex ministro perde consensi e punta al confronto tv. Mentre il segretario del Pd tenta il recupero (non certo facile) dell’ulivismo “prima maniera” sinistra, cioè come lo vorrebbe Bersani. Tra due settimane (venerdì 16 ottobre) i tre candidati dovrebbero trovarsi davanti alle telecamere di youdem.tv. Fino a ieri Pierluigi Bersani guardava in cagnesco al confronto televisivo. Se oggi ha cambiato idea è perché dalle sue parti la sicurezza di esse-

re ancora il favorito delle primarie vacilla e la strategia politica ne risulta fortemente modificata.

Prima dell’estate Massimo D’Alema aveva suggerito a Bersani che il suo migliore attacco era la difesa: risultando più conoscituo dell’avversario

Media&potere. Il caso di Feltri e Belpietro, diventati ormai gli intellettuali organici al premier

I “direttori à penser” del Cavaliere di Gabriella Mecucci l centrodestra nella carta stampata ha due pilastri di dimensioni mediograndi: il Giornale e Libero. La loro storia passata è di un’apprezzabile autonomia dai partiti di cui pure sono stati sostenitori. Per quanto riguarda il Giornale non si può dimenticare che a fondarlo fu Montanelli che mai si piegò ad ordini di scuderia, tantoché quando, con la scesa in campo di Berlusconi, paventò qualche entrata a gamba tesa, se ne andò. Ma se il padre nobile mantenne sempre la schiena diritta, anche i due direttori che lo seguirono (la parentesi Giordano poco conta) riuscirono a far sì che il quotidiano fosse - sebbene schierato - non appiattito, capace di fare inchieste e stimolare dibattiti. Lo stesso vale per Libero, anche se la sua storia è più breve e meno impegnativa. Oggi i due giornali sono invece organici alla destra e i direttori, Feltri e Belpietro, sono diventati i due più importanti intellettuali-politici del Pdl. Sarà perché questo partito non è mai nato e sarà quindi per il vuoto di classe dirigente apertasi nel centrodestra, ma i due giornalisti sono gli unici che “tengono bene” il campo nei talk show televisivi e i loro quotidiani sono fu-

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cine non sempre raffinate, ma certamente efficaci di incursioni politiche e culturali. Quanto a il Giornale poi dà la linea molto più di tanti dirigenti del Pdl. Insomma, il centrodestra si è popolato di “organi” di partito e i suoi direttori sono diventati una sorta di intellettuali organici.Volente o nolente, la tradizione che parte da Gramsci e segna la storia del Pci e anche di altre par-

in resta contro tutti coloro che lo criticano. Una volta gli intellettuali di destra più sofisticati vantavano la loro autonomia dalla politica e criticavano duramente quelli di sinistra proprio perché troppo organici. Era un esercizio che facevano tutti i migliori: da Montanelli, al Borghese di Longanesi. Ora invece, uno come Giuliano Ferrara, di destra ma non organico, perde l’impatto politico che pure in passato ha avuto. E chi emerge prepotentemente? Appunto, questa sorta di chimera, di incrocio fra l’intellettuale e il giornalista, che presidia con aggressività la linea e la figura del premier. A sinistra, il giornalismo ha perso di efficacia politica, eccezion fatta per il duo SantoroTravaglio, che in realtà è però populismo puro. Quanto agli intellettuali - se ci sono - fanno a gara a prendere le distanze dai partiti. Anche la satira - se si esclude la Litizzetto - è in piena decadenza. A destra invece è in corso un’autoriforma di cui Feltri e Belpietro sembrano essere gli anticipatori. Il resto purtroppo seguirà.

Sono i due più importanti pensatori politici del Pdl. Sarà mica perché il partito non è mai nato e quindi per il vuoto di classe dirigente nel centrodestra? ti della sinistra,è stata ripresa dalla destra? Almeno in parte sì.

Questa cultura è stata infatti digerita e risputata sotto altra forma. Nel caso dei comunisti italiani, ad esempio, era il partito il dominus e L’Unità la “cavalleria” - come la definiva Reichlin - che poteva fare incursioni, ma alla fine rientrava e presidiava la “linea politica”, decisa dal “gruppo dirigente”. Nel caso del centrodestra, l’organicità non è al partito. L’organicità è al premier. È lui che si difende a spada tratta. E, siccome la miglior difesa è l’attacco, si parte lancia

due gare distinte e separate, non gli ha permesso di tenere più contenuto il distacco con Bersani nella conta interna. La fase II si annuncia comunque più aggressiva. Il primo campo d’attacco è quello del recupero della figura di Prodi e dell’ulivismo prima maniera alle ragioni della sua candidatura. Non volere farsi fermare - come Franceschini ha detto - da coloro che hanno fermato Romano Prodi e Walter Veltroni, equivale a richiamare la caduta del primo e più fortunato governo Prodi e le dimissioni di Veltroni additando al pubblico ludibrio colui che più ha beneficiato dei due eventi, ovvero Massimo D’Alema.

Quella del recupero di Prodi non è un’operazione facile, visto che quasi tutti i suoi sono da tempo, per naturale vocazione anti-veltroniana, con Pierluigi Bersani. Eppure, se si considerano posizioni più problematiche di un uomo al momento fuori dei giochi come Parisi, forse quello prodiano è un terreno che Franceschini può provare, magari solo in parte, a riconquistare con profitto.


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el corso di tutta la presidenza Bush, i sondaggi di opinione del Pew Research Center divulgarono disastrosi “approval ratings” dell’America in tutto il mondo. Il problema, suggerivano i sondaggisti con statica regolarità, era che un presidente cowboy aveva infiammato il mondo musulmano – e gli alleati europei dell’America – con la sua guerra “unilaterale” al terrorismo. Il rimedio, naturalmente, era una nuova amministrazione dall’approccio più fresco: un presidente impegnato al multilateralismo, alla diplomazia astuta, e al potere morbido americano. A questo proposito, un rapporto del Pew acclamò l’elezione di Barack Obama per aver ispirato “fiducia globale” nella guida degli Stati Uniti e per aver salvato la reputazione americana dalla perdizione eterna.

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La trama agiografica, comunque, sta evaporando come una nebbia mattutina. Un più recente sondaggio del Pew suggerisce che la maggior parte dei Paesi islamici provano un sentimento di sfiducia verso gli Stati Uniti sotto la guida del Presidente Obama, proprio come quello che provavano sotto la guida di George W. Bush. Sì, la maggior parte delle popolazioni musulmane intervistate credono ancora che l’America giochi un ruolo soprattutto distruttivo nel mondo. Molti vedono gli Stati Uniti come “un nemico” e “una minaccia militare” per la loro patria. Molti di loro non approvano i tentativi guidati dall’America per combattere il terrorismo. Ampi numeri, infatti, testimoniano un forte sostegno al terrorismo e a Osama Bin Laden. L’Europa occidentale, benché abbia espresso opinioni personali positive su Obama, dimostra poco entusiasmo per gli obiettivi chiave della politica estera statunitense. In altre parole, l’antiamericanismo è vivo e vegeto nell’era di Obama. La conclusione più allarmante, in vista delle capacità nucleari del Pakistan, sta nel fatto che i pakistani esprimono pareri positivi più per Osama bin Laden che per il presidente Obama. Il sondaggio del Pew, completato proprio dopo il discorso che Obama ha tenuto al mondo arabo a Il Cairo, verteva su 27 mila interviste in 25 paesi, cinque di questi a maggioranza musulmana. Le conclusioni sconnesse da parte degli intervistati musulmani – riportate dai ricercatori del Pew con un insieme di confusione e razionalizzazione – ricevettero limitata attenzione dai principali media. Non c’è da meravigliarsi: se i risultati dei sondaggi rappresentano le attitudini nel Medio Oriente e oltre, allora le premesse liberali più affezionate sull’islam radicale e sulla politica estera degli Stati Uniti sono esposte come falsità disperate. Forse l’esempio più temibile è il Pakistan, dove solo circa il 16 per cento degli intervistati ha espresso un’opinione positiva sugli Stati Uniti – un calo di tre punti rispetto a quando era presidente Bush. A causa in parte degli attacchi terroristici che hanno fatto vittime tra civili pakistani, il rifiuto del terrorismo e dei tale-

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Dall’ultimo rapporto di Pew sul Medioriente emerge un quadro ide

Bush & Obam Si diceva che l’antiamericanismo diffuso nei Paesi islamici fosse causato dalla politica estera unilaterale del presidente repubblicano. Ma i sondaggi dimostrano che il “sentimento” è vivo e vegeto anche con il nuovo inquilino della Casa Bianca

bani è salito prepotentemente negli ultimi mesi. Ciò nonostante la maggior parte dei pakistani (il 64 per cento) considerano gli Stati Uniti un nemico. Circa un intervistato su cinque (il 18 per cento) crede che bin Laden “farà la cosa giusta” negli affari mondiali, contro il 13 per cento a favore di Obama. Dato il record di Al Quaeda a massacrare i musulmani con la stessa facilità con cui massacrano gli infedeli occidentali, la psiche dei pakistani sembra destinata a un crollo morale.

La situazione in altre terre musulmane appare quasi ugualmente cupa. Facendo eco alle conclusioni del Pew, un recente sondaggio del World Public Opinion suggerisce che molte persone nei paesi a maggioranza mu-

si, con un margine superiore a uno a due (51 per cento contro il 23 per cento) hanno più fiducia nel leader di al Quaeda che nel presidente Obama. Obama ottiene percentuali di approvazione superiori in Turchia – circa il 33 per cento – ma la maggior parte degli intervistati è contraria alla sua politica in Afghanistan ed esprime attitudini estremamente sfavorevoli verso gli Stati Uniti. In verità, circa l’86 per cento della popolazione turca sostiene che gli Stati Uniti abusano del loro potere per indurre la Turchia a fare quello che vogliono, e il 76 per cento vede che l’America sta adottando un’agenda “ipocrita”.

Questo nonostante il continuo sostegno statunitense per l’ammissione della Turchia nell’Unione Europea,

binati con dati storici, questi nuovi sondaggi dimostrano che l’antiamericanismo potrebbe diventare una componente interiorizzata della società turca e che gli anti-americani in Turchia non si collegano a specifiche amministrazioni statunitensi». Questo verdetto potrebbe essere applicato quasi ad ogni paese nella Lega Araba. Tuttavia, i sondaggisti, decisi a localizzare le cause dell’antiamericanismo nella politica estera degli Stati Uniti, hanno realizzato sondaggi per esonerare le loro congetture. Le ambizioni imperiali dell’America, le rapaci società petrolifere dell’America, le lobby ebree, gli evangelici apocalittici – tutti sono stati condannati per aver trasformato gli Stati Uniti in un oggetto di paura e odio nel mondo musulmano. Dalia Mogahed,

La maggioranza dei musulmani intervistati vede gli Stati Uniti come “un nemico” e “una minaccia militare” per la propria patria. E molti di loro non approvano i tentativi guidati dall’America per combattere il terrorismo

sulmana credono che gli Stati Uniti stiano svolgendo un ruolo altamente negativo (il 72 per cento in Turchia sostiene che gli Stati Uniti stanno svolgendo un ruolo principalmente negativo, il 69 per cento in Pakistan, il 67 per cento in Egitto, il 53 per cento in Iraq e il 39 per cento in Indonesia). In Egitto, dove colpire l’America è virtualmente l’unica forma di protesta pubblica legittima, persistono alti livelli di antiamericanismo. I palestine-

nonostante l’assistenza contro gli attacchi terroristici del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, e nonostante un viaggio di Obama in cui egli ha rassicurato la popolazione turca che l’America “non è e non sarà mai in guerra con l’islam”.

Un rapporto recente condotto dal Washington Institute sulla politica nel Vicino Oriente ha cominciato a far emergere la realtà essenziale: «Com-

direttore esecutivo del Center for Muslim Studies alla Gallup e consigliere alla Casa Bianca di Obama, insiste sul fatto che l’islam non ha niente a che vedere con la rabbia terrorista contro gli Stati Uniti: «La vera differenza tra coloro che giustificano gli atti terroristici e tutto il resto sta nella politica, non nella devozione». Senza considerare il fatto tangibile che i leader musulmani brandiscono apertamente il Corano per giustificare


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entico a quello che aveva caratterizzato l’amministrazione uscente

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I ricercatori del Pew rimangono alleggeriti da queste complicate realtà.

Altri non lo sono. Non molto tempo fa, un gruppo di moderati arabi europei lanciò una campagna per evitare che la televisione Al-Jazeera venisse trasmessa in Europa. Perché? Perché accusavano il canale di “promuovere l’estremismo” tra la gioventù degli arabi europei e di “sostenere il terrorismo”. Nel 2006, quando l’antiamericanismo globale era al suo culmine, alcuni sondaggi determinarono che una maggioranza di indonesiani, giordani, turchi e egiziani ancora non credevano che gli arabi fossero responsabili per gli attacchi dell’11 settembre. (I ricercatori del Pew chiamarono eufemisticamente questa conclusione come il risultato di “visioni fondamentalmente diverse sugli eventi mondiali”). Il Pew Research Center, consigliato niente di meno che dal precedente Segretario di Stato, la “partigiana” Madeleine Albright, continua a sostenere l’incomprensibile affermazione che «la politica estera unilaterale degli Stati Uniti» di George Bush è stata il motore dell’antiamericanismo per tutto il mondo. In un rapporto di sintesi sul lavoro svolto nel corso degli ultimi otto anni, i ricercatori del Pew hanno concluso che: «agli occhi della maggior parte del mondo, gli Stati Uniti hanno svolto il ruolo dei bulli a scuola, gettando la loro influenza tutt’attorno senza preoccuparsi degli interessi altrui. Dei venticinque sondaggi del Pew condotti dal 2001, il problema di immagine dell’America era definito come «la conclusione centrale e inequivocabile».

La maggior parte dei pakistani (il 64 per cento) considera gli States un pericolo. Tra questi, un intervistato su cinque (il 18 per cento) crede che bin Laden “farà la cosa giusta” nel mondo, contro il 13 per cento di Obama

ogni azione di inumana atrocità. Il Pew Center per la Popolazione e la Stampa, diretto da Andrew Kohut ha condotto il tentativo di ricerca a sostegno di questi miti perniciosi: il

trucco sta nell’adottare metodi di sondaggio dimentichi delle patologie culturali che infuriano le società arabe e musulmane. Che cosa significa “opinione pubblica” sotto i regimi

islamici che bandiscono i partiti politici, controllano i media, sottoscrivono discorsi di odio in sermoni e testi scolastici, perseguono minoranze religiose e torturano dissidenti politici?

La vera conclusione inequivocabile, confermata dalla ripresa dell’antiamericanismo nell’era di Obama, sta nel fatto che i sondaggi di opinione non significano nulla nelle culture rese incoerenti dal despotismo, dalla rinnegazione, dalla rabbia e dalla religione irrazionale. Al contrario, questi sondaggi consentono soltanto ai partigiani di usare narratori esterni per dare voce alle loro rimostranze personali. Questi ricercatori sicuramente si sono resi conto che innumerevoli leader arabi e musulmani sono devoti a diffondere un’immagine perversamente distorta degli Stati Uniti. Ciò nonostante vanno avanti allegramente senza considerare che le anormalità delle società islamiste – dove un attentatore suicida rappresenta un simbolo santificato di martirio – potrebbero rappresentare un attacco alle norme morali dell’occidente democratico. Un approccio più onesto ai sondaggi potrebbe aiutarci a capire meglio l’influenza dell’America nel mondo. Potrebbe suggerire come gli ideali di uguaglianza, libertà, governo tramite consenso, libertà religiosa – le dottrine alla base del credo americano – pongono una minaccia ai despoti e ai demagoghi religiosi. Questo richiederebbe che i ricercatori, comunque, sospendessero i loro programmi e cominciassero a porre domande secche, aperte a qualsiasi interpretazione a un pubblico più ampio. Che il sondaggio abbia inizio.


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Alleanze. Ricevendo il nuovo ambasciatore statunitense presso la Santa Sede, Ratzinger loda il nuovo approccio multilaterale

Obama Benedetto L’endorsement del Papa, che «ammira» la politica del presidente americano di Vincenzo Faccioli Pintozzi n parto lungo e complicato, ma che alla fine ha dato risultati molto superiori alle aspettative. La selezione e l’invio a Roma del nuovo ambasciatore americano presso la Santa Sede si è tinto in più occasioni di giallo: sembrava quasi impossibile coniugare l’anima prochoice di Barack Obama con la convinzione pro-life del pontefice. Ma ieri, quando il teologo di origine cubana Miguel Humerto Diaz ha presentato le sue lettere credenziali al Papa è stato accolto da un discorso che parla di approvazione, di appoggio e di futura collaborazione. Piacciono, all’ex prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, l’apertura degli Stati Uniti del nuovo presidente verso «un maggiore spirito di solidarietà» e «l’impegno multilaterale per affrontare gli urgenti problemi del mondo».

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Tanto che «rende omaggio a questa democrazia vibrante capace di catturare di nuovo

arack Obama e i suoi generali in rotta di collisione? Ieri l’incontro col comandante per l’Afghanistan McChrystal, ma non necessariamente le nubi si sono diradate. Segnali di rapporti difficili ce ne sono molti, anche se forse non occorre arrivare all’ipotesi di un colpo di Stato militare. Quello tirato in ballo da Gore Vidal: una provocazione, senza dubbio. La fosca profezia di Vidal non si serve di un linguaggio enigmatico o ambiguo: al Times dice: «Presto gli Stati Uniti saranno governati da una dittatura militare». Il vecchio liberal ce l’ha con i repubblicani, definiti «fascisti con una mentalità simile a quella della gioventù hitleriana». Ma non è questa la sorpresa. La novità è che per Vidal è tutta colpa di Obama: troppo inesperto, troppo istruito per capire il pubblico, troppo indeciso.E poi, «completamente incapace di capire le questioni militari». Interessante che gli attacchi più

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l’immaginazione del mondo». Ma Benedetto XVI non intende fare sconti, e ricorda al diplomatico che la Santa Sede «appoggia anche il desiderio della Chiesa negli Stati Uniti di contribuire alla discussione dei maggiori problemi etici e sociali». E definisce quello dei vescovi sui temi dell’etica «un contributo positivo e significativo alla vita civile», che si realizza «attraverso un’azione

lavoratori sanitari, e di tutti i cittadini». C’è però un vero e proprio appoggio al nuovo corso di Washington. Il multilateralismo di Obama, che tante critiche solleva in patria (dove viene visto come una rinuncia dell’eccezionalità americana) è invece secondo il pontefice una sorta di panacea universale. Tanto che, sottolinea Ratzinger, «non dovrebbe essere limitato alle questioni pu-

La Santa Sede «appoggia anche il desiderio della Chiesa statunitense di contribuire alla discussione dei maggiori problemi etici e sociali» che prendono piede nello scenario nazionale educativa e di formazione delle coscienze, ma anche una presenza nel pubblico dibattito per proteggere la dignità umana e il diritto alla vita dal concepimento alla morte naturale». In proposito, Benedetto XVI rivendica nel discorso «la protezione del diritto all’obiezione di coscienza da parte dei

ramente economiche e politiche ma dovrebbe essere adoperato per affrontare l’intero spettro delle questioni legate al futuro dell’umanità e della promozione della dignità umana, compresi l’accesso sicuro al cibo e all’acqua, le cure mediche di base, politiche giuste per governare il commercio e

particolarl’immigrazione, mente lì dove sono coinvolte le famiglie, il controllo del clima e la difesa dell’ambiente, e l’eliminazione della piaga delle armi nucleari».

La visione religiosa, ricorda in seconda battuta il Papa, «arricchisce il discorso etico e politico, e le religioni sono chiamate e essere forze profetiche per la liberazione umana e lo

sviluppo in tutto il mondo, particolarmente nelle zone afflitte da ostilità e guerre e a servire la pace». Per questo, ha spiegato, «apprezzo il desiderio del governo americano di promuovere questa collaborazione come parte di un più ampio dialogo tra popoli e culture». La situazione attuale e la crisi delle nostre democrazie moderne, spiega il teologo, «chiama a un rinnovato impegno

Un nutrito gruppo di generali critica le posizioni della Casa Bianca su Iraq e Afghanistan

Ma i problemi vengono dall’esercito L’incontro di ieri con McChrystal sottolinea le tensioni fra i due di Osvaldo Baldacci duri a Obama gli vengano da sinistra, dai suoi sostenitori liberal che riprendono e ingigantiscono le accuse che gli rivolgevano i repubblicani già dai tempi della campagna elettorale. Ieri Obama si è fatto raggiungere sull’Air Force One dal capo militare a Kabul, con cui ha avuto un incontro di una ventina di minuti.

Ma non si è trattato di routine. Infatti i due si erano già sentiti il giorno prima durante il meeting ai massimi livelli sulla questione afghana. Due colloqui in poche ore stridono con il fatto che, nei cento giorni di comando di McChrystal, il presi-

dente aveva parlato con lui solo una volta. Ma da allora alcune cose sono cambiate. Obama è alla ricerca di una strategia sull’Afghanistan, e il comandante gli ha richiesto l’invio di 40 mila rinforzi. Tanto per rinverdire la memoria, si tratta più o meno della stessa richiesta che Obama si era sentito fare dal predecessore di McChrystal, David McKiernan. Risultato: l’avvicendamento al comando. Ora certo la situazione è diversa e forse Obama da un orecchio è più disposto ad ascoltare le richieste del generale che ha scelto. Ma, appunto, solo da un orecchio. Perché dall’altro ascolta l’area liberal, non

solo quella degli estremisti Vidal e Moore, ma anche quella ben presente nel suo gabinetto. Il vicepresidente Biden, il segretario di Stato Clinton, l’inviato per Afghanistan e Pakistan Holbrooke, il capo della Cia Panetta. E così diventa sempre più evidente la spaccatura con l’ala militare dell’Amministrazione: il capo del Pentagono Gates, il capo di Stato Maggiore Mullen, il comandante delle forze Usa in Medio Oriente Petraeus, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Jones. Oltre ai genarali per l’Iraq Odierno e per l’Afghanistan, appunto McCrystal. Non stia-

mo parlando di falchi. Ma il disagio tra i generali è grande, anche verso il loro Commander in chief. Il problema non è solo una diversa visione per l’Afghanistan. Il problema è che da un lato percepiscono una pericolosa assenza di strategia, dall’altra temono un disimpegno che non possono condividere. Infatti un’alternativa per la lotta al terrorismo è quella di privilegiare l’intelligence rinunciando al controllo militare. Questo esporrebbe a maggiori rischi i soldati rimasti sul campo, e allo stesso tempo farebbe perdere di centralità al Pentagono. Meno importanza, meno


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La politica nei confronti di Netanyahu è cambiata negli ultimi giorni

Si ricuce lo strappo aperto da Israele di Daniel Pipes uasi in sordina, la scorsa settimana Binyamin Netanyahu ha conseguito una grossa vittoria quando Barack Obama ha deciso di non ratificare un’iniziativa della sua linea politica. Questo dietrofront sta a indicare che i rapporti tra Israele e gli Usa non stanno più andando incontro al disastro da me paventato. Quattro mesi fa, la nuova amministrazione statunitense ha reso nota una linea politica che tutto a un tratto ha dato grande importanza alla necessità di arrestare la crescita degli “insediamenti israeliani”. (Un termine che non mi piace ma che uso qui per brevità). Sorprendentemente, i funzionari americani si sono prefissi di bloccare l’edilizia abitativa per gli israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme est, un zona che fa giuridicamente parte dello Sato ebraida circa co trent’anni. Il segretario di Stato Usa Clinton ha lanciato l’iniziativa il 27 maggio scorso, dichiarando che il suo presidente «vuole uno stop definitivo agli insediamenti: non vuole nessun insediamento, avamposto, non ammette eccezioni neppure per la crescita di insediamenti spontanei». Aggiungendo inoltre: «E noi intendiamo insistere su questo punto». Il 4 giugno è poi intervenuto Obama: «Gli Stati Uniti non accettano la legittimità di continui insediamenti israeliani […] È tempo di fermare questi insediamenti». Un giorno dopo, egli ha reiterato che «gli insediamenti sono un impedimento alla pace». E avanti di questo passo, in un incessante ritmo. Focalizzare l’attenzione sugli insediamenti ha avuto l’involontario ma prevedibile effetto di impedire ipso facto il corso della diplomazia. Un lieto Mahmoud Abbas dell’Autorità palestinese ha replicato alle richieste statunitensi stando a guardare alla finestra e dichiarando che «gli americani sono i leader mondiali (…) Aspetterò che Israele congeli gli insediamenti». Non importa che Abbas aveva personalmente negoziato con sei premier israeliani a partire dal 1992, ogni volta senza proporre un blocco edilizio degli insediamenti: ma perché mai dovrebbe ora esigere meno di Obama? In Israele, il diktat Usa ha provocato un massiccio allontanamento dell’opinione pubblica da lui e un avvicinamento a Netanyahu. Inoltre, la proposta di quest’ultimo di imporre delle restrizioni seppur temporanee allo sviluppo degli insediamenti in Cisgiordania ha suscitato proteste in seno al Partito Likud, guidato dal promettente Danny

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Benedetto XVI benedice la folla da S. Pietro. A destra, il premier israeliano Netanyahu. Nella pagina a fianco, il generale McChrystal per un dialogo alla ricerca di sagge e giuste politiche rispettose della natura e della dignità umana. E richiede un chiaro discernimento». Tutto questo mentre «la persistente crisi economica internazionale

visibilità, meno potere, meno gestione economica, anche meno onore, se c’è sempre da ritirarsi precipitosamente, come in Iraq. Questo ai militari non piace.

Come forse non piacciono neanche le altre prese di posizione troppo pacifiste di Obama, dallo scudo spaziale alla tolleranza per l’Iran. Tutti approcci che i militari non possono condividere per moltissimi motivi molto diversi fra loro: visione strategica, sincera preoccupazione, interessi di lobby, sfiducia in una guida che non sentono all’altezza, preoccupazione per i pericoli cui sono esposti. Ed ecco che tra Casa Bianca e stellette si addensano nubi.

chiede con chiarezza una revisione delle presenti strutture politiche, economiche e finanziarie alla luce dell’imperativo etico di assicurare lo sviluppo integrale di tutte le persone». Per il Papa è necessario «un modello di globalizzazione ispirato da un umanesimo autentico, in cui i popoli del mondo sono visti non come meri vicini ma come fratelli e sorelle di sangue».

In proposito, gesto abbastanza inconsueto, Benedetto XVI ricorda anche la Costituzione degli Stati Uniti, che «continua ad ispirare la crescita del Paese come società coesa seppur pluralistica, costantemente arricchita dal contributo delle nuove generazioni compresi i nuovi immigrati che continuano a rafforzare e ringiovanire la società americana». Nel discorso il pontefice esprime infine «soddisfazione per il recente incontro del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite presieduto dal presidente Obama, che ha unanimemente approvato la risoluzione del disarmo atomico e ha posto di fronte alla comunità internazionale l’obiettivo di un mondo libero dalle armi nucleari». Insomma, un endorsement in piena regola che, finalmente, chiarisce la linea del Vaticano rispetto al presidente abortista: dialogo a tutti i costi, visto che il mandato dura quattro anni, apprezzando quello che è giusto e condannando ciò che non lo è. Anche perché, si mormora, Obama starebbe pensando di unirsi alla Chiesa di Roma.

Danon. I geni dell’amministrazione Obama hanno da ultimo riconosciuto che questo duplice indurimento di posizioni avrebbe condannato al fallimento nel giro di un paio di anni il loro ingenuo e tracotante piano di risolvere il conflitto arabo-israeliano.

La riconciliazione con la realtà è divenuta pubblica il 22 settembre nel corso di un “vertice” con Abbas e Netanyahu. Qui Obama ha gettato la spugna, vantandosi di aver fatto dei «grossi progressi» verso la risoluzione del conflitto israelo-palestinese e specificando che gli israeliani «hanno discusso importanti misure per tenere sotto controllo la costruzione degli insediamenti». Queste parole di velato elogio per le esigue concessioni di Netanyahu hanno importanti implicazioni: la questione degli insediamenti non dominerà più i rapporti tra Israele e gli Usa, e tornerà a rivestire l’usuale ruolo fastidioso, ma secondario; Abbas a un tratto si è trovato ad essere l’intruso del triangolo; la fazione di centro-sinistra dell’amministrazione Obama (che sostiene la necessità di lavorare con Gerusalemme) ha sconfitto la fazione di estrema sinistra (che vuole esercitare pressioni sullo Stato ebraico). Ironia della sorte, i sostenitori di Obama in genere riconoscono il suo fallimento mentre coloro che gli muovono delle critiche tendono a non farlo. Di contro, i critici di Obama hanno focalizzato l’attenzione su quanto da lui dichiarato il giorno successivo al vertice: «L’America non accetta la legittimità di continui insediamenti israeliani». Alcuni di quelli che ammiro maggiormente hanno mancato la buona notizia: John Bolton, ex-ambasciatore Usa alle Nazioni Unite, ha asserito che Obama «ha messo Israele sul ceppo», mentre i critici presenti in seno al Likud hanno accusato Netanyahu di aver «prematuramente festeggiato» un cambiamento della linea politica Usa. Non è così. I venti della politica possono sempre mutare, ovviamente, ma la resa della scorsa settimana di fronte alla realtà ha tutte le caratteristiche di una rettifica di un corso permanente. Ho ripetutamente espresso grossi timori in merito alla linea politica di Obama verso Israele, pertanto, quando arrivano delle buone notizie (e questa è la seconda volta negli ultimi tempi), ciò merita apprezzamenti e festeggiamenti. Tanto di cappello a Bibi: che possa conseguire ulteriori successi, spingendo la politica Usa sulla strada giusta.

Il riavvicinamento fra Washington e Tel Aviv è avvenuto nel vertice con Abbas: gli insediamenti passano in secondo piano


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pagina 16 • 3 ottobre 2009

Urne. L’isola di smeraldo chiamata (nel dubbio) a creare la nuova Europa circa sedici mesi di distanza dal fatidico 12 giugno 2008, i cittadini irlandesi sembrano pronti a dare il loro via libera al Trattato di Lisbona. Questa è perlomeno l’impressione che emerge scorrendo i principali sondaggi a meno di una settimana dal voto. A differenza del 2008, che aveva visto un decollo dei «no» proprio nel corso degli ultimi giorni di campagna elettorale, questa volta la quota degli elettori intenzionati a rispondere affermativamente al quesito referendario è costantemente aumentata, fino a stabilizzarsi attorno al 50 per cento, con i «no» fermi al 33 e gli indecisi al 19. Una serie di interessanti studi prodotti nell’ultimo anno ha cercato di indagare le ragioni del «no» del 2008, scoprendo che le motivazioni principali si concentravano su due punti. Da un lato oltre la metà di coloro che ha bocciato il quesito lo ha fatto giudicando il testo del Trattato di Lisbona incomprensibile. Il decisivo movimento d’opinione Libertas guidato dal magnate Declan Ganley aveva ad esempio coniato l’efficace slogan «Se non capisci, non votare!». Dall’altro lato il «no» si è imposto sull’onda di una certezza ampiamente diffusa: guardando ai casi francese ed olandese (ma anche proprio al precedente irlandese del Trattato di Nizza) la convinzione maggioritaria era che, anche un voto sanzione, non avrebbe comportato particolari traumi per la permanenza irlandese all’interno dello spazio comune europeo. Paradossalmente il meccanismo di sanzione referendaria sembra comportare ricadute molto più devastanti per l’intero processo di integrazione (e dunque per l’insieme dei Paesi membri) piuttosto che sul singolo Paese che lo ha determinato.

A

Preso atto di questa situazione il governo irlandese, peraltro sempre più indebolito a livello di gradimento, si è impegnato su un doppio binario: negoziare in sede europea una serie di garanzie, cercando di scardinare così i luoghi comuni che la propaganda anti Trattato di Lisbona aveva

E Dublino prende la via per Lisbona Ora la partita si sposta verso le ultime controfirme: Praga e Londra di Michele Marchi

Il mondo dell’industria, con Intel e Ryanair in prima linea, si è schierato compatto per il “sì”, così come l’influente Conferenza dei vescovi costruito ad arte, e contemporaneamente mettere in piedi un capillare sforzo di mobilitazione tutto teso a mostrare i vantaggi della storica partecipazione irlandese al processo di integrazione europeo. Il testo sul quale gli elettori si pronunceranno il 2 ottobre è stato integrato con una serie di garanzie che il governo ha ottenuto dai ventisei partner europei in conclusione al semestre di presidenza francese, nel dicembre 2008. Queste riguardano la politica di difesa (con il mantenimento della neutralità di Dublino), gli affari sociali (con la promessa di non ingerenza europea nelle questioni riguardanti l’interruzione di gravidanza, l’educazione, la famiglia e le unioni omosessuali) e la fiscalità (nessun cambiamento in dire-

zione di un’armonizzazione delle aliquote, oggi particolarmente favorevoli rispetto a quelle continentali). Infine il primo ministro Brian Cowen ha ottenuto la rassicurazione simbolica per eccellenza: il mantenimento del commissario irlandese, scardinando uno dei punti chiave del Trattato di Lisbona e cioè la diminuzione proporzionale della dimensione della Commissione. Una volta portati a casa questi successi, il governo in carica e tutti i principali partiti politici, escluso il Sinn Fein, hanno avviato una lunga campagna per il «sì» referendario. Probabilmente nessun Paese membro più di Dublino necessita di una salda appartenenza all’Ue. Uno slogan utilizzato all’indomani dello scoppio della crisi economico-finan-

ziaria che ha messo in ginocchio il Paese afferma: «Tra Islanda e Irlanda c’è solo una lettera di differenza, oltre all’euro». L’opinione diffusa è che la bancarotta sia stata scongiurata proprio in virtù della salda collocazione europea di Dublino e del suo ancoraggio alla moneta comune. L’impressione che il voto possa non ripetere la debacle di un anno e mezzo fa è anche confermata dall’impegno profuso dalla società civile a sostegno di un «sì» convinto ed inequivocabile.

Il mondo dell’industria, con Intel e Ryanair in prima linea, si è schierato compatto per il «sì» e così ha fatto anche l’influente Conferenza dei vescovi cattolici. Al momento è possibile fare qualche riflessione sullo sviluppo europeo, ancora una volta appeso al filo della ratifica di una minoranza di cittadini, in questo caso circa 3 milioni su quasi 500. Innanzitutto il meccanismo dell’Eu-

ropa à la carte ha avuto una chiara applicazione nel caso irlandese. È impossibile non notare una forte dose di opportunismo nell’attitudine della classe politica irlandese che ha utilizzato il «no» referendario per svuotare dall’interno una parte consistente del significato del Trattato di Lisbona, come peraltro era già avvenuto dopo il doppio «no» franco-olandese del 2005.

In secondo luogo il caso Irlanda dovrebbe far riflettere sull’opportunità o meno di chiamare al voto referendario i cittadini su questioni che riguardano il funzionamento dell’edificio comunitario dal momento che gli stessi continuano a mostrare una profonda ignoranza sulle questioni istituzionali e di funzionamento dell’Ue.Indagando le ragioni del «no» del 2008 si nota che, di fronte a quattro elementari quesiti ai quali rispondere vero o falso (l’Ue è formata da 15 membri; la Svizzera si trova nell’Ue; uno Stato membro presiede il Consiglio per sei mesi; i membri del Parlamento di Strasburgo sono eletti direttamente dai cittadini), solo il 37 per cento di coloro che ha votato «sì» ha risposto correttamente Insomma si vota per ciò che non si conosce affatto. Se tutto procederà come sembra anche l’Irlanda chiuderà positivamente la partita del Trattato di Lisbona: all’appello mancano quindi solo le controfirme dei Presidenti polacco e della Repubblica Ceca. L’Ue riuscirà ad avviare il 2010 con le nuove istituzioni di Lisbona o sarà necessario un prolungamento del Trattato di Nizza, mantenendo così l’Ue in un limbo giuridico-amministrativo? L’attenzione è tutta rivolta al ceco Klaus che ha annunciato di voler attendere per la sua firma le elezioni inglesi del giugno 2010. In caso di probabile vittoria conservatrice Cameron ha promesso un referendum in Gran Bretagna, potenzialmente devastante per l’entrata in vigore del Trattato. Dunque il viaggio partito da Lisbona difficilmente terminerà a Dublino. Nuove e pericolose trappole potrebbero scattare tra Praga e Londra.


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3 ottobre 2009 • pagina 17

Un tribunale d’appello di Rangoon respinge il ricorso

Battute Chicago, Tokyo, Madrid La delusione del presidente Obama

Birmania, confermati gli arresti per San Suu Kyi

Il Comitato ha deciso: Olimpiadi 2016 a Rio de Janeiro

RANGOON. È stata respinta ieri in Birmania la richiesta di appello presentata del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi dopo la condanna a 18 mesi inflittale in agosto. Una mossa che le preclude la possibilità di partecipare alle prossime elezioni e che ha provocato l’immediata reazione del Consiglio per i diritti dell’uomo di Ginevra, il quale ha chiesto la «liberazione immediata e senza condizioni» della leader dissidente e di «tutti i prigionieri politici». Ieri mattina un tribunale d’appello di Rangoon ha rigettato il ricorso dei legali di Suu Kyi, confermando la pena a 18 mesi di arresti domiciliari per violazione alle regole della sua detenzione.

COPENHAGEN. Le Olimpiadi del

In una risoluzione adottata per consenso da tutti i 47 membri, il Consiglio per i diritti dell’uomo si è dichiarato «vivamente preoccupato» per il trattamento riservato a Suu Kyi e ne ha chiesto la liberazione. Il Consiglio ha chiesto anche di «liberare senza condizioni tutti i prigionieri politici per permettere loro di partecipare alle elezioni del 2010». La leader dell’opposizione, 64 anni di cui tredici trascorsi in carcere o agli arresti domiciliari, era stata condannata a tre

Il «confessionale» di David Letterman In diretta al Late show: «Ricattato per flirt extraconiugale» di Roselina Salemi arà una tendenza inarrestabile, sarà che gli scandali sex and the city somigliano alle ciliegie e una tira l’altra, ma sembra di assistere ad un’unica grande rappresentazione, in televisione e fuori, e su tutte e due le sponde dell’oceano. C’è Roman Polaski, che si vede presentare all’improvviso il conto per un vecchio peccato (che è anche un reato), c’è Patrizia D’Addario, la escort promemoria vivente delle logiche che governano il potere, il bisogno e il desiderio; e adesso c’è David Letterman, 62 anni, intelligente, non bellissimo, famoso conduttore del Late show. Icona della satira politica senza peli sulla lingua, costretto a richiamare per una volta le sue debolezze e non quelle degli altri. David Letterman è stato ricattato da una ex amante, una signora del cast 48 hours, presumibilmente delusa che ha deciso di vendicarsi, di rovinargli la reputazione o in alternativa di guadagnarsi qualcosa. Letterman, che ha sposato questa primavera la compagna di sempre, Regina Lasko, dalla quale ha avuto il figlio Harry, è un uomo di potere non immune dalle tentazioni. Nel suo staff ci sono tante ragazze in cerca della gloria televisiva.

S

be stato imbarazzante se questa storia fosse stata resa pubblica?». «Forse. Forse sarebbe stato più imbarazzante per le donne, perché ho denunciato il ricatto. Era necessario. Dovevo proteggere la mia famiglia e me stesso e spero di proteggere il mio lavoro. Non volevo che arrivasse qualcuno a dirmi: “So che hai fatto sesso con delle donne; voglio 2 milioni di dollari, se no ti creerò problemi».

Magari poteva esserci la fila, magari, come qualunque B-Movie insegna 2 milioni di dollari era soltanto l’inizio. E mentre la ricattatrice, che fa un po’ pena alla fine, si trova un avvocato (e parlerà solo in sua presenza), venderà memoriali scottanti, scriverà un libro e forse la minacciata sceneggiatura), rimane la banalità del tradimento, l’ammissione della colpa, la fragilità femminile (escort, ricattatrici stagiste aspiranti showgirl), la triste verità del potere, del bisogno, del desiderio, la chiusura liquidatoria: è stata un’esperienza bizzarra. In qualche modo anche questa vicenda come altre è lo specchio della competizione selvaggia dello scambio al quale a volte si dà il nome di amore, del prezzo che tutti a turno pagano, della logica spietata che governa la comunicazione. David Letterman non si è sognato di negare. Non è grave avere un’amante, neanche più di una. Ha denunciato al giudice, ha patteggiato con il pubblico. Conta sulla solidarietà sulle debolezze sessuali e sentimentali che scorre come un fiume carsico sotto il perbenismo levigato dell’ipocrisia. Ma il dibattito è aperto: centinaia di interventi su blog e siti di tutto il mondo si domandano in che modo le inclinazioni e le simpatie di Letterman abbiano influenzato le trasmissioni e le carriere. Se c’era un pedaggio da pagare per lavorare con lui, se ci rimetterà sul piano dell’immagine. Certo, se l’è cavata bene. La confessione in pubblico è un genere che funziona. Potrebbe venirne fuori una forma di reality. Un non luogo dove si ammettono i peccati più condivisibili, si spiegano le ragioni, si cercano simpatie, si trovano sostenitori. E il pubblico da casa, via telecomando, darà l’assoluzione o forse no. Speriamo.

Il prezzo del silenzio, 2 milioni di dollari che l’anchorman ha finto di pagare. Quindi, come in un reality, l’annuncio in tv

anni di reclusione e lavori forzati, pena subito modificata in 18 mesi di domiciliari, per aver ospitato nella sua residenza il mormone americano John Yattaw. L’uomo, secondo la difesa, era entrato nella villa della donna senza esser stato invitato e sarebbe dunque l’unico responsabile dell’infrazione. Rifiutando l’appello, le autorità birmane impediscono al Premio Nobel di partecipare alle elezioni presidenziali del prossimo anno, le prime ad essere organizzate in Birmania dal 1990. Allora vinse in modo netto il partito di Suu Kyi, la Lega nazionale per la democrazia, che non potè insediarsi perché la giunta militare annullò il voto.

Ed ecco la tentata estorsione: 2 milioni di dollari erano il prezzo del silenzio. Come in un B Movie Letterman ha trovato in auto dentro una busta il minaccioso bigliettino: «So che fai alcune cose veramente terribili e le posso provare». A scriverlo, un misterioso personaggio in grado di provare ogni nefandezza e pronto a ricavarne una sceneggiatura sicuramente piccante. Letterman ha fatto finta di cedere, ha organizzato un incontro accompagnato da un legale, avrà pronunciato anche la famosa frase dei telefilm «parlerò soltanto in presenza del mio avvocato», ha consegnato un assegno falso, altro classico del B-Movie, e ha fatto beccare l’incauta ricattatrice, che doveva avere sulla testa non si sa quale infausto trigono, perché non solo ha dovuto dire addio ai soldi ma è stata arresta e licenziata quasi contemporaneamente. Quanto a Letterman, ha raccontato tutto nella sua trasmissione di giovedì, dove, con lo slancio marzulliano, si è fatto la domanda e si è dato la risposta: «Sareb-

2016 si terranno a Rio de Janeiro e saranno i primi Giochi mai disputati in America Latina. La città brasiliana ha prevalso su Madrid nella votazione finale dei delegati del Cio a Copenaghen. In precedenza Chicago e Tokyo erano state eliminate rispettivamente nella prima e nella seconda votazione. La mancata assegnazione delle Olimpiadi alla metropoli americano, tuttavia, «non va vista come un ripudio del presidente Barack Obama e di Michelle». Lo ha dichiarato il consigliere più vicino al presidente americano, David Axelrod. La presenza di Obama al Cio «non è stata sufficiente a superare le politiche che regnano dentro quella stanza. Ovvia-

mente è deluso, non ha funzionato ma ne valeva la pena». Nei cinque minuti di discorso all’incontro nella capitale danese, il presidente americano ha definito la capitale dell’Illinois «una grande metropoli con il cuore di una piccola città, aperta al mondo e alla diversità». Obama, rimasto a Copenaghen per poche ore, ha ricordato che da 25 anni Chicago è la sua casa e ha scoperto che questa città «nel cuore degli Stati Uniti è un posto dove l’unità è variegata». La First Lady Michelle, che lo ha preceduto sul palco, ha raccontato che l’amore per lo sport le fu trasmesso dal padre. Un’Olimpiade «all’insegna del rispetto dell’ambiente» era stata invece promessa dal premier giapponese Yukio Hatoyama, presente a Copenhagen, «Raccomando Tokyo anche per questo, perché occupa una posizione eccellente per fungere da modello di sicurezza e sostenibilità ambientale», ha dichiarato Hatoyama nel suo discorso. La candidatura (e la vittoria) di Rio de Janeiro «non rappresenta solo il Brasile, ma un intero continente di 400 milioni di abitanti», ha sottolineato il presidente brasiliano, Inacio Lula da Silva. «Rappresento il sogno di 190 milioni di persone - ha spiegato sono tutti a fare il tifo per Rio. Siamo un popolo appassionato dello sport e della vita».


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In marcia. I 170 anni di storia delle ferrovie italiane dalla Napoli-Portici a oggi. I piemontesi ironizzarono sull’utilizzo, ma poi comprarono le locomotive

Gli antenati di Frecciarossa Oggi e domani ingresso al museo di Pietrarsa dove sono in mostra treni e locomotive: dalla prima Bayard all’alta velocità di Franco Insardà ai 50 chilometri orari della Vesuvio ai 362 della Frecciarossa. I 170 anni di storia delle ferrovie italiane sono custoditi nel museo di Pietrarsa. Proprio qui fa bella mostra di se la riproduzione della locomotiva Bayard, la terza entrata in funzione sulla linea Napoli-Portici, inaugurata il 3 ottobre 1839, che con i suoi quasi otto chilometri diede il via al trasporto su ferro della Penisola. Oggi, là dove c’era il Real opificio pirotecnico di Pietrarsa che dal 1840 al 1975 ha prodotto treni, è custodita la memoria delle nostre ferrovie. La realizzazione della ferrovia fu sicuramente una grande intuizione, basti pensare che a Roma lo Stato pontificio fece realizzare la prima linea, la Roma-Frascati, nel 1856 e poi la RomaVelletri nel 1863. Quella linea ferroviaria che unì, e tuttora unisce, Napoli e Portici è da considerarsi la prima grande opera che il Sud abbia avuto, insieme all’industria del settore, che iniziò la produzione proprio in quelle officine. Oggi, là dove c’era il Real opificio pirotecnico di Pietrarsa, che dal 1840 al 1975 ha prodotto treni, è custodita la memoria delle nostre ferrovie. Il museo, aperto venti anni fa in occasione dei 150 anni delle ferrovie italiane, ha avuto varie vicissitudini, ma dopo il restyling degli ultimi mesi potrà finalmente essere visitato.

D

Ed è stato un Frecciarossa, partito da Roma Termini a portare ieri a Pietrarsa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Altero Matteoli, l’amministratore delegato del gruppo Fs, Mauro Moretti, e il presidente Innocenzo Cipolletta che hanno dato il via alle celebrazioni ufficiali dei 170 anni delle ferrovie italiani. Oggi e domani gli otto padiglioni del museo nei quali sono esposti treni, lo-

comotive, plastici, macchinari e oggetti d’interesse storico saranno aperti al pubblico gratuitamente. Ad accoglierli sul piazzale che si affaccia sul mare la grande statua in ghisa di Ferdinando II Borbone, fusa

Il 3 ottobre 1839 Ferdinando II Borbone assistette al viaggio inaugurale della linea ferroviaria che aveva patrocinato

proprio nell’Opificio di Pietrarsa nel 1852, per ricordare il sovrano che volle la costruzione della ferrovia e delle officine. La statua del re, dopo l’unità d’Italia, fu fatta bersaglio di colpi di fucile sparati dai piemontesi. Per proteggerla gli operai nel 1860 la ritirarono nel deposito della sala modelli e solo una quarantina di anni dopo tornò in esposizione. Oltre alla locomotiva Bayard uno dei pezzi più pregiati e ammirati del museo è sicuramente il Treno reale, costruito dalla

Fiat nel 1929 per le nozze di Umberto II di Savoia con Maria Josè del Belgio. La carrozza, “Presidenziale”, è stata donata al Museo da Francesco Cossiga nel 1989. Faceva parte degli 11 vagoni del Treno reale e si distingue per la ricchezza degli arredi: il salone da pranzo con tavolo decorato in mogano lungo otto metri e ventisei posti a sedere e il soffitto intarsiato con lamine d’oro e medaglioni con stemmi delle quattro Repubbliche marinare. Nell’ex reparto Tornerie sono esposti anche numerosi plastici e vari oggetti ferroviari, tra cui il famoso plastico “Trecentotreni”, lungo 18 metri e largo più di 2 metri e le antiche rotaie a doppio fungo, poggianti sui dadi di pietra lavica che erano impiegati sulle antiche ferrovie prima che venissero adottate le più moderne traversine. La mostra è arricchita anche dai nuovi treni per l’alta velocità di Trenitalia. ll complesso dei fabbricati rappresenta un pregevolissimo esempio di archeologia industriale, evocativo di luogo della “memoria” di attività industriali qualificate del recente passato; la

straordinaria raccolta di carrozze, di motrici e di materiale ferroviario, di elevato interesse storico, rappresenta l’evoluzione tecnologica operata nel tempo dalle Ferrovie.

Centosettanta anni di storia delle Ferrovie attraverso le immagini: dalla riproduzione della locomotiva Bayard, esposta al museo di Pietrarsa, al Frecciarossa, passando per tanti treni che hanno accompagnato gli italiani negli ultimi tre secoli. Nel quadro di Salvatore Fregola sono ritratti Ferdinando II Borbone, la sua corte e la popolazione che, quel 3 ottobre del 1839, festanti accolgono il treno Il Museo di Pietrarsa, per la sua storia e le sue qualità architettoniche è uno dei pochi nell’area meridionale, dedicate alla tutela e alla valorizzazione di beni culturali tecnico-scientifici. La giornata di ieri ha visto susseguirsi una serie di manifestazioni e convegni culminati in tarda serata con i fuochi pirotecnici.

Quel 3 ottobre 1839, però, fu grande festa. Ma nessuno dei tanti napoletani entusiasti e festanti – quelli che immortalò su tela Salvatore Fergola – avrebbe immaginato di stare facendo la storia. Che da lì a mezzo secolo l’Italia sarebbe stata unita da un lunghissima dorsale d’acciaio. I cronisti piemontesi maligneranno che quella corsa si istituiva soltanto un servizio per trasferire la corte dalla Reggia di Napoli a quella estiva di Portici. Fatto sta che Ferdinando II di Borbone, quella mattina del 3 ottobre, attese l’arrivo del treno direttamente a Portici. Quando la Bayard giunse a destinazione, il re era nella villa del Carrione a Portici. Racconta il cronista dell’epoca al seguito della corte, Achille Rossi, negli Annali civili del Regno delle Due Sicilie che il re disse nel discorso inaugurale: «Questo cammino ferrato gioverà senza dubbio al commercio e considerando come tale nuova

strada debba riuscire di utilità al mio popolo, assai più godo nel mio pensiero che, terminati i lavori fino a Nocera e Castellammare, io possa vederli tosto proseguiti per Avellino fino al lido del Mare Adriatico». Si legge ancora negli Annali, «finito il parlare del Re, un segnale fu dato di sopra il padiglione, cui risposero immantinente gli spari delle artiglierie de’ forti del Granatello e del Carmine… E ratto dalla stazione di Napoli mosse velocemente la locomotrice seguìta da nove grandi carri, in cui erano 258 uffiziali dell’esercito, dell’armata e delle regie segreterie di Stato. Sopra uno di que’ carri scoperto, dava fiato alle trombe una compagnia militare; sopra un altro una mano di soldati agitava a dimostrazione di giubilo alcune aste con banderuole in cima. In nove minuti e


cultura

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tive invece furono acquistate dalla società inglese Longridge Starbuck e Co. di NewcastleUpon Tyne. In seguito, anche le motrici furono costruite a Pietrarsa ed esportate anche in altri Stati italiani. Il Piemonte, per esempio, ne acquistò nel 1847 sette.

mezzo la macchina giunse da Napoli al Granatello: e di là anco velocemente sen tornò quivi donde era partita. Allora il vescovo, vestito de’ suoi abiti pontificiali, recitò le preghiere; indi benedisse la nuova strada ferrata, e mentre che tutti gli astanti si prostravano ginocchioni, le artiglierie facevano rimbombare l’aere d’una salva festiva. Ed ecco giungere un’altra volta la locomotrice col sèguito de’ suoi carri, nel mezzo de’ quali vedeva una carrozza corta per il Re e un’altra per la Sua regal corte. La macchina s’arrestò di sotto il ponte Carrione; il re con la sua

regal famiglia per una scala apposta fatta discese sulla via ferrata... Il treno a vapore parte dalla via dei fossi tra Porta del Carmine e Porta Nolana, percorre via Capasso, attraversa il sobborgo di Santa Maria di Loreto, passa sui ponti della strada dell’Arenaccia e del Sebeto, si dirige verso la strada regia delle Calabrie, si infila in un sottopasso, attraversa un rettilineo sulla spiaggia tra il Forte Vigliena e Villa Carrione per giungere al Granatello …».

Il percorso ferroviario, tra il mare e le ville vesuviane, ancora oggi collega Napoli con Salerno e ci viene raccontata sempre da Achille Rossi sugli Annali civili del Regno delle Due

Sicilie «giardini e ville deliziosissime di ricchi signori, sparse in què luoghi ameni, per cui diviene assai più ridente il cammino». Nasce così la prima strada ferrata d’Italia. E poco importa che dal Regno di Sardegna qualcuno faccia notare che «...la ferrovia di re Ferdinando nasce con il cervello e i franchi francesi».

Dopo 170 anni nessuno discute più la grande intuizione. Anche perché la prima linea ferroviaria al mondo, quella tra Stockton a Darlington, fu realizzata in Inghilterra da George Stephenson nel 1825. Soprattutto – nell’Italia che fatica a trovare i fondi per le infrastrutture – la Napoli-Portici è tra i primi esempi di finanza di progetto e partenariato tra pubblico e privato.

L’ingegnere francese , Armando Bayard de la Vingtrie, nel 1836 espose un suo progetto ferroviario al ministro di Ferdinando II, il marchese Nicola Santangelo. Il piano industriale prevedeva la costruzione della linea a proprie spese, in cambio della concessione della gestione per 99 anni. La ferrovia avrebbe collegato Napoli con Nocera, con una diramazione per Castellammare. Il re, sensibile all’innovazione, approvò la concessione, dietro il versamento di una cauzione di 100mila ducati. In cambio veniva ridotta la concessione a 80 anni e si stabilivano le tariffe dei prezzi per il trasporto sia dei viaggiatori sia delle mercanzie. I vagoni furono costruiti a Napoli, nello stabilimento di San Giovanni a Teduccio, le locomo-

La stazione di Napoli fu costruita nell’antica via detta «dei fossi», appena fuori le mura aragonesi che in quel tempo ancora esistevano tra la Porta del Carmine e la Porta Nolana. Era costituita da un’ampia sala d’aspetto per i passeggeri, di uffici, magazzini, rimesse per le vetture e le macchine e di un’attrezzata officina di riparazione. Alla fine dell’ottobre del 1839 la ferrovia napoletana aveva trasportato circa 58.000 persone fruttando un utile netto del 14 per cento. La compagnia ritenne allora di poter abbassare i prezzi e nel 1840 furono previsti biglietti ridotti per i cittadini meno abbienti, vale a dire «alle persone di giacca e coppola, alle donne senza cappello, ai domestici in livrea ed ai soldati e bassi ufficiali del real esercito». Dopo i primi otto chilometri della Napoli-Portici le ferrovie borboniche non avranno un grande sviluppo. Nel 1859 si contano soli 124 chilometri, contro gli 807 realizzati in Piemonte, i 200 in Lombardia, i 308 in Toscana. I moti rivoluzionari risorgimentali del 1848, infatti, spingeranno Ferdinando II a fermare le iniziative con capitali stranieri. Intanto il Reale Opificio di Pietrarsa continua a lavorare e costruisce la prima locomotiva napoletana, progettata da Giovanni Pattison. Il 15 Ottobre del 1860 Garibaldi, insediatosi da circa un mese a Napoli come dittatore, annullò tutte le convenzioni in atto per le costruzioni ferroviarie, e ne stipulò una nuova con la Società Adami e Lemmi di Livorno. Con l’unità d’Italia, il progetto di re Ferdinando II di realizzare una rete ferroviaria dal Tirreno all’Adriatico fu abbandonato e non venne più realizzato. I governi unitari del re sabaudo e del duce del fascismo non si interessarono a sviluppare agevoli collegamenti all’interno del Sud, anzi si concentrarono sullo sviluppo delle linee SudNord per agevolare il trasferimento della mano d’opera meridionale al Settentrione. Ora dopo 170 anni l’obiettivo resta lo stesso: collegare il Mezzogiorno d’Italia per contribuire al suo sviluppo.


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Libri. Poco riuscito il primo romanzo di Hasak-Lowy “Prigionieri”, assai distante dalla raccolta di racconti che lo aveva quasi consacrato

Provaci ancora... Todd di Antonio Funiciello

una regola della narrativa e dell’industria editoriale americana: il giovane autore deve esordire preferibilmente con una raccolta di racconti; quindi lo si attende alla prova del romanzo. Intendiamoci, non è una massima kantiana. Solo uno stratagemma intelligente per scovare sulle riviste gli scrittori emergenti più interessanti, verificare se tengono la misura della raccolta di racconti ed eventualmente provarli nel tempo lungo della prosa romanzesca. Alla ricerca del grande romanzo americano, editori, studiosi e critici statunitensi hanno così creato il circuito letterario più florido del mondo. Todd Hasak-Lowy, quarantenne docente di lingua e letteratura ebraica all’Università di Gainesville in Florida, non fa eccezione alla regola aurea. Ben se n’è accorto il suo editore italiano che manco a dirlo, quando trattasi di narratori emergenti d’oltreoceano - è Minimum Fax.

È

Nel 2005 (36enne) pubblica The task of this translator, silloge di racconti tradotti in italiano due anni dopo col titolo Non parliamo la stessa lingua. Nella migliore tradizione dell’umorismo ebraico, Hasak-Lowy inventa nel suo felice esordio letterario personaggi brillanti e subito si fa notare per la sua capacità di calare il registro umoristico della grande tradizione ebraica nel contesto della contemporaneità, nella frenesia del mondo globalizzato. «Subito prima che arrivasse una volta per tutte la fine del mondo, Larry perse il portafogli». Un incipit fulminante quello del racconto La fine del portafogli di Larry, che subito dà il senso vertiginoso del contrasto tra la Terra falcidiata da una prima ipotetica guerra nucleare e il povero Larry che impazzisce alla ricerca del suo portafogli. L’espressione di un’individualità che si aggrappa a un proprio significato particolare contro il senso generale delle cose che va alla rovina. Questo contrasto Hasak-Lowy lo ritenta nel suo primo romanzo,

Prigionieri, uscito l’anno scorso negli Usa e dall’estate disponibile nelle librerie italiane. Il protagonista è uno sceneggiatore di action-movie hollywoodiani, Daniel Bloom, che ha fatto i soldi scrivendo le scene di un blockbuster campione d’incassi, che lui aveva intitolato Prigionieri e che l’industria del cinema aveva ribattezzato Luna di miele ad Helsinki. Bloom è in piena crisi esistenziale (come marito e come padre) nonché professionale (da

del mondo (politici e capitalisti) e un poliziotto tormentato dal dissidio se acciuffarlo o lasciarlo libero, visto che il mondo va alla rovina e, proprio come il killer, l’ispettore riconosce nei poteri forti l’origine di questo declino inesorabile.

sindrome della pagina bianca). In realtà una traccia per un nuovo film pure gli frulla per la testa. Quella di un serial killer intento ad uccidere i potenti

tale del racconto dovrebbe coincidere con quello spirito distruttivo e riparatore che anima i due protagonisti del film, killer e poliziotto, che prova lo stesso autore della scenografia Bloom e che, evidentemente, non è estraneo alla critica radicale che nutre l’ispirazione dello stesso Hasak-Lowy.

Sopra, la copertina del romanzo “Prigionieri” di Todd Hasak-Lowy (Minimum Fax). In alto, un disegno di Michelangelo Pace

Per detta dello stesso autore, scrittore engagé della sinistra liberal americana, questo libro è una storia sull’America di Bush e sul suo degrado sociale e morale. La tensione fondamen-

Un crinale narrativamente pericoloso, di cui l’autore non è inconsapevole. Tant’è che s’inventa figure comiche per spezzare sul nascere ogni tentazione di panegirico del sovvertimento dell’ordine costituito che un’utopica eliminazione fisica di tutti i “colpevoli” dovrebbe produrre, assieme alla redenzione universale dei peccati. A partire dall’agente di Bloom, un certo Holden Stein che cambia però nome ogni tre-sei mesi e guai a contraddirlo, caricatura riuscita del tipico operato-

re cinematografico di Hollywood. Per arrivare al rabbino drogato Brenner, che Bloom conosce in occasione della preparazione per il bar mitzvah del figlio e che per lui diventa indifferentemente guida spirituale e pusher. E però il dispositivo stenta a girare con scioltezza, perché gli ingranaggi della vis comica di HasakLowy faticano a girare insieme ai meccanismi della rabbia apocalittica che riveste il tono della sua prosa. Lo scrittore

Sia che registro tragico portante e curvatura comica si trovino giustapposti o sovrapposti, l’esito di questa nuova fatica è tutt’altro che felice non riesce a riprodurre quel contrasto che aveva conosciuto tanta fortuna nei suoi racconti. La contesa tra la percezione della deriva odiosa dell’America di Bush e l’irrisione dell’approccio apocalittico che pure Hasak-Lowy cerca per bocca dei suoi personaggi comici resta irrisolta. Sia che registro tragico portante e curvatura comica si trovino giustapposti o sovrapposti, l’esito non è felice. Si direbbe che l’autore si pren-

da troppo sul serio. Soprattutto a leggere il suo romanzo oggi, che una bella fetta di americani elettori di Bush sono diventati elettori di Obama, ricordando più a noi che a se stessi che l’America è una: uno spirito schietto e indivisibile.

Prigionieri fa così rimpiangere la freschezza dei racconti di Non parliamo la stessa lingua, costruiti tutti su quel contrasto che non riesce compiutamente a esprimersi nel romanzo. Il colloquio di lavoro è un altro racconto della vecchia raccolta in cui HasakLowy lo dipinge con efficacia. In un intenso colloquio di lavoro, un promettente giovane con buoni studi economici alle spalle e un deluso datore di lavoro si scambiano impressioni, aneddoti e accuse, per una trentina di pagine. Entrambi i protagonisti cercano di sopraffare l’altro: chi sfruttando la propria posizione di comando (il datore di lavoro), chi mettendo in gioco tutta il vigore del proprio spirito giovanile. Anche qui un contrasto. Con il risultato finale che entrambi si riconoscono nel ruolo di spalla della segreta vicenda altrui, riconoscendo che soltanto nel loro essere termini di una sintesi ancora tutta da indagare, trovano giustificazione le loro esistenze. Il problema di Prigionieri sta tutto qui. Dato il contrasto, manca la sintesi e la narrazione finisce per divaricarsi in direzione diverse, quando non contrastanti, compromettendo la riuscita dell’opera. Se è vero che il Daniel Bloom dell’inizio della storia è distante dal Daniel Bloom dell’epilogo, con tanto di viaggio picaresco a Tel Aviv nella parte centrale del romanzo, questa distanza è tutta temporale. Lo spazio del cambiamento del suo spirito radicaleggiante è inesplorato, con la conclusione che il lettore non è neppure così sicuro di voler sapere se nella sua sceneggiatura alla fine il poliziotto si decida ad arrestare il killer o se non cominci lui stesso ad ammazzare stancamente i cattivi che infestano il mondo.


spettacoli

3 ottobre 2009 • pagina 21

ra il Gregory Peck all’italiana, aveva una forte somiglianza con Ben Gazzarra e contese a Rossano Brazzi il titolo di latin lover per eccellenza. Parliamo di Adriano Rimoldi, classe 1912, deceduto nel 1965, attore un po’ dimenticato, ma che ha lasciato una forte presenza nel cinema per i suoi primi piani e mezzi busti. Tre anni dopo la morte, venne al mondo suo nipote, Matteo Garrone, figlio della fotografa Donatella Rimoldi e del critico teatrale Nico Garrone, recentemente scomparso.

me il Douglas Fairbanks nazionale. E qualche soddisfazione se la tolse con Io, Amleto del 1951, regia di Giorgio Simonelli, in una versione da avanspettacolo del capolavoro shakespeariano versione Erminio Macario. Ebbe quindi la fortuna di girare un film con Stan Lauren e Oliver Hardy, oramai dimenticati da Hollywood, trasferitisi in Francia per Atollo K che si rivelò in autentico fiasco commerciale e di essere uno degli interpreti della pellicola Il re dei re per la regia del grande Nicholas Ray. Le sue ultime apparizioni sul set furono accanto a Vittorio Gassman ne L’amore difficile, tratto da Moravia, Napoleone a Firenze di Piero Pierotti e Baleari operazione oro, una coproduzione italo-spagnola. Un attore elegante e signorile dalla sguardo seduttivo, quasi sensuale e trasgressivo, che stava a suo agio davanti alla cinepresa con le dive del momento, Ida Pola, Clara Calamai, Doris Duranti, Lucia Bosè. Sul set come nella vita, Rimoldi amava le grandi sfide, gli azzardi, la versatilità, l‘eloquenza dei sorrisi. Ma La Spezia restò il porto sicuro delle certezze familiari. Non appena poteva o quando si trovava in difficoltà tornava a far visita alla madre e agli zii.

E

Qual è il lascito che nonno Adriano ha trasmesso all’autore della versione cinematografica di Gomorra, vincitore a Cannes 2009? Ce lo racconta la mostra “Rimoldi-Garrone: eredità di cinema” in corso sino al 22 novembre alla Palazzina delle Arti della Spezia, con tappe successive a Genova e Roma. Dopo l’infanzia spezzina, Rimoldi passò a Firenze dove iniziò a recitare in teatro e a fare il presentatore radiofonico e quindi entrò nel cinema nel 1939 interpretando un ruolo minore in Mille lire al mese di Max Neufeld, protagonista Alida Valli. L’attore toccò il picco della notorietà negli anni Quaranta divenendo protagonista prima di Addio giovinezza! (1940) di Ferdinando Maria Poggioli e poi del film I bambini ci guardano (1943) di Vittorio De Sica. Per sfuggire al conflitto mondiale passò in Spagna, dove ottenne un grande successo con pellicole che lo vedevano accanto alla sua compagna dell’epoca Mery Martin in gran parte dirette da Ignacio F. Iquino, definito il Roger Corman catalano per aver dato dignità di stile a molti B Movie. Rientrato in Italia nel 1949 non ritrovò più l’estro di un tempo e si dedicò maggiormente alla rivista, alla commedia, alla televisione che non al cinema. Tenne a battesimo la televisione italiana la sera del 3 gennaio 1954 alle ore 21,45 interpretando in diretta assieme a Isa Barzizza L’osteria della posta di Goldoni per la regia di Franco Enriquez. Così come fu chiamato dalla nascente emittente spagnola, la TVE, nel 1957 a presentare per due stagioni di seguito con Bianca Alvarez il

Mostre. A La Spezia, un’esposizione sul lascito di Adriano Rimoldi a Matteo Garrone

L’eredità del cinema, di zio in nipote di Marco Ferrari programma di maggior ascolto, Caras nuevas, dedicato ai nuovi talenti.

Il cinema degli anni Cinquanta, tra neorealismo e commedia all’italiana, non si accorse mol-

La mostra è divisa in due sezioni: la prima parte è composta da fotografie, articoli, diari e spezzoni di film di Rimoldi, la seconda è dedicata al nipote Matteo Garrone ripreso sul set da Fabrizio Di Giulio. Da quelle casse di documenti, fotografie e ritagli di giornali di Rimoldi, scovate a Roma, scaturiscono sorrisi, clamori, amori, rimpianti, grida, lacrime e addii, ma soprattutto la passione per il cinema, la stessa passione che sta dimostrando suo nipote Matteo. Un filo che lega due generazioni diverse: così

La prima parte è fatta di foto, articoli, diari e spezzoni di film, la seconda è dedicata al discendente, ripreso sul set da Fabrizio Di Giulio to di lui: riprese con La mano della morte di Carlo Campogalliani, Gente così di Fernando Cerchio su sceneggiatura di Guareschi, Il sigillo rosso di Flavio Calzavara e Capitan Demonio di Carlo Borghesio, film cappa e spada ambientato nella Firenze del Settecento. La critica lo segnalò in quell’occasione co-

In questa pagina, alcune immagini dell’attore italiano Adriano Rimoldi tratte da diversi film. Una mostra, a La Spezia, lo ricorda fino al 22 novembre

intrisa dal personalismo e dandismo, quella degli anni montanti del dopoguerra, così pervasa dalla crudeltà sociale di inizio secolo quella ripresa dall’autore di Gomorra.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal ”Wall Street Journal” del 02/10/2009

L’uranio a spasso di Marc Champion e Jay Solomon Iran ha accettato di trasferire la maggior parte delle sue scorte di combustibile nucleare in altri Paesi per il processo di arricchimento, secondo fonti occidentali, vicine al tavolo delle trattative di Ginevra. La mossa a sorpresa potrebbe limitare temporaneamente la possibilità per Teheran di costruire degli ordigni nucleari. Ma gli analisti ammoniscono che questa possa essere solo un tentativo per cercare di disinnescare la pressione delle sanzioni, che gli permetta di proseguire col programma nucleare.

L’

Nel primo faccia-a-faccia di Teheran con l’amministrazione Obama e i suoi alleati sul suo programma nucleare, il governo del presidente Mahmoud Ahmadinejad ha anche deciso di consentire ispettori delle Nazioni Unite per visitare il sito atomico clandestino. Si tratta dell’impianto di arricchimento, vicino a Qom, nel centro-nord l’Iran, la cui esistenza la scorsa settimana gli Stati Uniti e l’Europa avevano reso nota, attraverso delle foto satellitari. Perché c’era il timore che quell’impianto potesse essere utilizzato per avvicinare Teheran all’atomica. Le parti hanno inoltre convenuto di colloqui più di questo mese. Il passaggio ha il potenziale per portare a una svolta diplomatica, dopo molti anni di stallo. Ma i critici hanno avvertito che le concessioni apparenti offerte dell’Iran potrebbero rappresentare una strategia per guadagnare tempo ed evitare le sanzioni o altre ripercussioni, svicolando da qualsiasi impegno per ridimensionare le proprie ambizioni nucleari. Jackie Wolcott, che ha servito come inviato speciale in materia di non proliferazione, del presidente George W. Bush, ha affermato: «A meno che non ci sia una sorta di accordo con l’Iran da non permettere loro di avere impianti di arricchimento e capacità di ritrattamen-

to, ogni soluzione rimane pericolosa». Esperti proliferazione sono anche preoccupati che l’Iran possa cercare di ripulire il sito Qom in tempo, prima che gli ispettori delle Nazioni Unite siano autorizzati a visitare l’impianto. «L’Iran si è mosso abbastanza bene. Hanno ottenuto il combustibile per i reattori di ricerca, di cui aveva bisogno», ha detto David Albright, un fisico che è a capo dell’Istituto di Washington per la Scienza e la sicurezza internazionale. Il presidente Barack Obama ha affermato che anche se i progressi ottenuti a Ginevra sono limitati, consentono una seconda tornata di colloqui con Teheran entro questo mese. «L’incontro di oggi è stato costruttivo, ma deve essere seguito da un’azione altrettanto positiva», ha detto Obama in un discorso televisivo. «Abbiamo messo in chiaro che noi faremo la nostra parte per impegnare il governo iraniano sulla base del reciproco interesse e rispetto, ma la nostra pazienza non è illimitata».

I negoziatori iraniani hanno accettato, in linea di principio, che parte delle loro scorte di uranio arricchito possano essere ritrasformate in Russia e in Francia. I rappresentanti occidentali hanno accolto con favore l’idea, perché hanno cercato un modo per

convincere l’Iran a rinunciare alla capacità di produrre il proprio combustibile nucleare in cambio di assistenza. Rappresentanti degli Stati Uniti al tavolo di Ginevra, hanno affermato che la volontà di Teheran di inviare uranio a basso arricchimento in Russia e Francia, potrebbe essere un passo importante. «Limiterebbe la capacità di Teheran necessaria per produrre armi nucleari», ha affermato un diplomatico di Washington coinvolto nelle trattative.

Sulla quantità del combustibile fissile non ci sarebbero dati precisi, ma per gli americani dovrebbe essere «la maggior parte di esso». Il capo negoziatore iraniano, Saeed Jalili, non ha affrontato i dettagli del piano, quando ha parlato ai giornalisti giovedì. Javier Solana, capo della politica estera della Ue, e altri funzionari hanno messo in chiaro che i colloqui non avevano compiuto progressi fondamentali. Cioé di persuadere il regime teocratico a fermare l’espansione del suo programma di arricchimento dell’uranio.

L’IMMAGINE

Tre anni per realizzare ”Roma libera dal traffico”. Ci riuscirà Alemanno? La giunta Alemanno di Roma ha varato un Piano strategico della Mobilità per “Roma libera dal traffico”. Punti nodali sono la pedonalizzazione del centro storico, il potenziamento della rete tranviaria, cinque anelli di grande viabilità e la chiusura dell’anello ferroviario. È, in sostanza, il programma già visto con le giunte Rutelli-Veltroni che hanno avuto 14 anni e 4 mesi per non realizzarlo, nonostante un ingente quantitativo di denaro pubblico, 2.600 miliardi di lire, disponibile per l’appuntamento del Giubileo del 2000. A tal proposito si ricordi la “cura del ferro”(anello ferroviario e tram) la cui dizione fece sorridere i più. Non se ne fece praticamente nulla. Siamo ancora in attesa della pedonalizzazione del centro storico, in particolare del“tridente”(area tra piazza del Popolo e piazza di Spagna). La giunta Alemanno ha solo tre anni e mezzo per realizzare l’ambizioso programma “Roma libera dal traffico”, che non è riuscito alle giunte Rutelli-Veltroni. Non vorremmo essere, di nuovo, presi in giro.

Primo Mastrantoni

CANONE TV. PASSATA LA TEMPESTA TUTTO SI SILENZIERÀ Non è la prima volta che sul cosiddetto canone Rai c’è un’esplosione di disgusto e, sicuramente, non sarà l’ultima. A turno tutti i partiti, e non solo, hanno fatto proprio l’invito a non pagarlo, per punire la trasmissione di Michele Santoro oggi, per protestare contro l’esclusione delle proprie bandiere oggi e ieri. Financo il Vaticano, nel 2001, per una questione di lesa maestà alla curia di Verona aveva sguinzagliato il suo organo ufficiale, l’Osservatore romano, minacciando di invitare le masse a non pagare questa imposta. Di abolizionisti a corrente alternata è pieno il Parlamento. L’attuale capogruppo al Senato per il Pdl, Maurizio Gasparri, lanciò una feroce campagna abolizionista, diventato

ministro delle Comunicazioni uno dei suoi primi atti fu l’aumento del canone-imposta. La Leganord, sempre in prima fila ad agitare il caso, tranne dimenticarsene ogni volta che va al governo (per 6 anni negli ultimi 8), impegnata insieme agli altri partiti nella spartizione delle poltrone televisive. Fedeli al motto: partito di lotta e di governo (forse non è il loro, ma fa lo stesso) hanno presentato un ordine del giorno in Parlamento: aboliamo la gabella. Vedremo se ministri e deputati leghisti lo approveranno in massa, oppure l’autore della proposta, l’on. Davide Caparini, rimarrà isolato. Poi c’è il paradosso dell’attuale minoranza parlamentare. Il centrosinistra si auto-rappresenta come baluardo del canone Rai. Masochismo politico allo stato puro, si erge a difensore del

Primissima classe Un bel bagno rilassante con vista mare direte voi. E invece no, non siamo su una nave, ma su un aereo. Dalle finestrelle però non si riesce a vedere nemmeno il cielo. Questo velivolo quadrimotore attivo negli anni ’60 è oggi a riposo nella città olandese di Apeldoorn. E l’imprenditore Ben Thijssen ha deciso di sfruttarlo, trasformandolo in un hotel a cinque stelle

carrozzone in questo momento occupato per lo più dal centrodestra. Forse in vista della futura contro occupazione? Abbiamo salutato con piacere la scoperta dei quotidiani Il Giornale e Libero di quanto sia assurda questa imposta. Siamo consapevoli che la scoperta è strumentale non al diritto dei contribuenti e degli utenti del

servizio d’informazione pubblica, ma ad una guerra tra occupanti della Rai per conquistarsi la fetta più grossa di potere. E forse questa consapevolezza ci fa essere realisti, riconducendo il tutto al teatrino dello sfascismo istituzionale in atto nel nostro Paese. Passata la tempesta tutto si silenzierà.

A.C.

FARE SQUADRA Primarie, congressi e ripensamenti costituiscono lo statuto attuale del Pd, un partito che doveva rifare l’Italia con spirito democratico, e invece si è rivelato l’ennesimo parto della sinistra, con molte cose da dire ma poco da costruire.

Bruna Rosso


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Tutto germoglia e cerca la propria strada

RIFLETTERE «La maggior parte aveva meno di vent’anni. Figure dolenti e incomprensibili, comunque lontane. Ho negli occhi i volti tristi, le loro mogli tristi, vestite di nero; i loro bambini tristi; ho negli occhi i loro tristi fagotti, che contengono tutto il loro niente. Possibile che tutti quei ragazzi siano partiti per non tornare? E comincio a pensare che per un’intera generazione di ragazzi l’America non fosse una meta né un sogno, ma un luogo dove si compiva un rito di passaggio, di iniziazione. Dovevano compiere la trasversata, morire se volevano crescere, se volevano sopravvivere, risorgere. Dovevano essere pianti, essere persi, essere considerati morti. Dovevano tornare. Solo una parte lo fece realmente: il protagonista di molte favole iniziatiche, viaggiando, spingendosi al di là dei confini del mondo noto finisce per trovare un regno che preferisce a quello da cui è partito, per restarvi, cominciando un altra vita». Leggendo questo breve tratto della biografia di una famiglia di emigranti, la cosa più banale da pensare è che l’Italia è diventata la nuova America. Banale. Giancarlo Gonfalone C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L SI R A C U S A

Mio carissimo Helmi, molte grazie per la tua lettera, alla quale certamente risponderò più avanti e dettagliatamente. Oggi ti devo scrivere in merito alla scuola. Odo da Sonia e da te, che si va male e che da ultimo sono sorte difficoltà per la tua promozione. E da voi due apprendo che ciò non dipende dalla tua capacità, ma dal tuo insufficiente lavoro, e io lo stesso lo so. Non immaginarti che io non comprenda te e il tuo stato presente: le gemme sbocciano, tutto spunta e germoglia e spumeggia e cerca la propria strada, e ogni cosa rende felici di una felicità piena di presentimenti e nello stesso tempo opprime, angoscia perché è inafferrabile; le forze sentono di non essere ancora cresciute, né aver potuto crescere sufficienti al compito poderoso. Si cade dalle tenebre nella luce, finché non si riconosce la relatività di ogni conoscenza umana. E altri istinti si muovono: l’inclinazione non soltanto a comprendere il mondo o una parte di esso, ma a possederla e a conquistarla; e i primi germi del segreto desiderio infinitamente profondo e oblioso di se stesso, che si chiama amore. Ti bacio, mio piccolo e grande ragazzo, e ti custodisco nel mio cuore, malgrado tutto. Karl Liebknecht a Helmi

ACCADDE OGGI

PRECISAZIONE Gentile Direttore, ho letto con estrema attenzione l’articolo pubblicato, a pagina 22, su Liberal lo scorso 25 settembre, dal titolo “Indagine sulla RU486. Polpetta avvelenata”. È importante non mistificare la realtà e non giungere a delle conclusioni errate. Mi permetta, quindi, di precisare che l’avvio dell’indagine conoscitiva sull’utilizzo della pillola abortiva RU486 da parte della commissione da me presieduta, anche se condivisa, non è stata certamente decisa dal sottoscritto. Semmai è scaturita da una serie di sollecitazioni ricevute dall’ufficio di presidenza integrato e da un consenso, votato all’unanimità dei Gruppi parlamentari e con il solo dissenso espresso da parte della senatrice Poretti. Mi permetta inoltre di sottolineare che la materia, già di per sé delicatissima, non si dovrebbe prestare a facili speculazioni da parte dei media, che rischierebbero di turbare l’opinione pubblica e le coscienze di coloro che sull’argomento debbono deliberare nel massimo rispetto delle leggi vigenti e delle volontà espresse dal Parlamento.

sen. Antonio Tomassini

ERRORE DI OMONIMIA Per un errore di omonimia il Francesco Micheli ritratto a pagina 5 di ieri non è il direttore generale di IntesaSanpaolo intervistato nel pezzo “La famiglia si è ristretta”, ma il finanziere e imprenditore milanese. Ce ne scusiamo con i lettori e con gli interessati.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

3 ottobre 1908 Fondazione del giornale Pravda a Vienna per opera di Leon Trotsky, Adolph Joffe, Matvey Skobelev e altri esuli russi 1929 Il regno di serbi, croati e sloveni viene ribattezzato in regno di Jugoslavia 1932 L’Iraq ottiene l’indipendenza 1935 L’Italia invade l’Etiopia con le truppe guidate dal generale de Bono 1942 Usa: White Christmas raggiunge il 1º posto nelle classifiche 1952 Il Regno Unito testa con successo un arma nucleare presso le isole Montebello in Australia 1973 A Sofia Enrico Berlinguer ha un incidente automobilistico che ad oggi molti ritengono un attentato alla sua persona 1981 Lo sciopero della fame portato avanti dai prigionieri dell’Ira, nella prigione di Maze, vicino Belfast, termina dopo sette mesi. Durante lo sciopero sono morti dieci detenuti 1990 Riunificazione tedesca: la Germania Est confluisce nella Repubblica federale

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

BLOCCO ASSUNZIONI DEI DISABILI Con altri genitori e con l’aiuto di alcune associazioni, conduciamo da dieci anni una lotta per l’integrazione lavorativa dei nostri figli: sono giovani disabili, in grado di lavorare, che svolgono tirocini negli uffici pubblici ormai da otto-dieci anni, gratuiti e senza prospettive. Giovani che lavorano con dedizione e rispetto dell’orario. Il blocco delle assunzioni deciso nel decreto Tremonti e avallato dal voto recente della Camera rischia di distruggere il contenuto della legge 68: si rimandano a casa decine di giovani, seminando nuovo disagio sociale. Nei prossimi giorni, la Conferenza nazionale sulla disabilità a Torino discuterà questa scelta. Chiediamo a tutti di fare qualcosa perche tutti “possono” fare qualcosa, senza settarismi e con grande spirito di apertura. Chiediamo un aiuto e un sostegno a tutte le persone di buona volontà, di ogni orientamento. È in gioco non il problema particolare di un gruppo, ma la qualità delle politiche sociali. Nel nostro Paese si rischia di distruggere un modello di solidarietà civile e di relazioni umane, già in crisi. I nostri governanti sembrano non rendersi conto che negare oggi lavoro e integrazione sociale ai disabili significa creare gli emarginati di domani. Basta andare un mattino in giro per le strade e osservare chi dorme sdraiato sui marciapiedi. Non abbiamo altro che la vostra solidarietà.

U. Brancia e L. Maronta, a nome di un gruppo di genitori di giovani disabili di Roma

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

STRATEGIA POLITICA DELL’UNIONE DI CENTRO L’Unione di centro non può e non deve limitarsi ad ipotizzare la sua strategia politica rispetto alle disavventure del Partito democratico e del Popolo delle libertà. Se così non fosse si definirebbe il fallimento della proposta politica di Pier Ferdinando Casini. Le considerazioni espresse da vari componenti dei Circoli Liberal di Basilicata e da tanti altri amici sono condivisibili, e nella condivisione bisogna auspicarsi che le linee programmatiche e le proposte per il buon governo delle nostre comunità diventino la piattaforma da cui partire per elaborare un quadro politico diverso e alternativo che possa rilanciare la presenza dei tanti moderati delusi dal fallimentare sistema bipolare. Il presidente Corbo ha espresso grande apprezzamento per la mozione presentata dall’on. Rocco Buttiglione in favore delle famiglie italiane e lucane e ha annunciato la sua personale mobilitazione per promuovere ogni utile iniziativa volta a illustrare e divulgare una proposta finalizzata ad aiutare concretamente le famiglie con una tassazione e con l’applicazione del quoziente familiare. Gianluigi Laguardia C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L PO T E N Z A

APPUNTAMENTI OTTOBRE 2009 VENERDÌ 9, ORE 16, MUSEO CITTÀ DI BETTONA Omaggio a Renzo Foa. VENERDÌ 16, ORE 15, TORINO PALAZZO DI CITTÀ - SALA DELLE COLONNE “Verso la Costituente di Centro per l’Italia di domani”. Intervengono: Ferdinando Adornato, coordinamento nazionale Unione di Centro, e Gianni Maria Ferraris, consigliere comunale e coordinatore regionale Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

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Marco Vallora, Sergio Valzania

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Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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