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una serie di grandi opportunità brillantemente travestite da problemi insolubili

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John W. Gardner di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 9 OTTOBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

I presidenti delle Camere: «Ineccepibile il comportamento del Colle». Comunicato congiunto dopo un’ora di colloquio al Quirinale

Cosa ha in testa Berlusconi Perché ha scelto di attaccare duramente il Capo dello Stato che pure non aveva ostacolato il Lodo Alfano? È un preavviso di “rottura istituzionale”:se fra qualche mese avesse bisogno di elezioni anticipate… L’IMBARAZZO DEL PREMIER

di Errico Novi

Se Fini e Schifani lo lasciano solo

Che cosa succede se un Paese è guidato da un “rivoluzionario” che non riesce a portare a compimento alcun cambiamento sostanziale, alcuna riforma tra le tante promesse? Abbiamo girato la domanda a due osservatori particolari: Massimo Cacciari e Alessandro Campi.

ROMA. Ieri a Roma c’è stato un gran via vai tra il Quirinale e Palazzo Grazioli. Non solo di auto blu, ma anche di parole, intenzioni, spiegazioni, scuse e accuse. È stata la giornata di Napolitano. Attaccato senza apparente ragione da Berlusconi (il presidente della Repubblica ha puntato fino all’ultimo sull’approvazione del Lodo Alfano), Napolitano ha dovuto convocare i presidenti delle Camere, Schifani e Fini. Motivo? Chiedere una tregua, se non proprio una parola di scusa, da parte del premier che, nel frattempo, era asserragliato con i suoi nel bunker di Palazzo Grazioli per il direttivo del Pdl. Alla fine arriva un comunicato congiunto di Fini e Schifani che prendono le distanze dal Berlusconi: «Il Quirinale si è comportato correttamente e adesso serve lealtà tra le istituzioni». In tutta risposta, Berlusconi poi ha fatto filtrare una sua dichiarazione: «Sono io a meritare rispetto, poiché solo l’unico eletto dal popolo». Insomma, la sfida tra falchi e colombe dentro al Pdl ancora non è finita.

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di Giancristiano Desiderio Alla fine, Berlusconi restò solo. Solo è una parola grossa, è vero, ma certo la dichiarazione congiunta di Fini e Schifani lascia poco spazio alle incertezze: Napolitano ha preteso e ottenuto una difesa che non è solo d’ufficio nei confronti delle accuse del premier. a pagina 2

IL PARADOSSO DEL PREMIER

Il rivoluzionario senza rivoluzione di Riccardo Paradisi

IL NOBEL ALLA MÜLLER Il premio per la letteratura alla scrittrice tedesco-romena, che fuggì da Timisoara denunciando i crimini del regime di Ceausescu

La rivincita di Herta

alle pagine 18 e 19

L’anniversario del nostro intervento

I governatori insieme: «Il sistema finanziario è ancora fragile»

La ricetta di Draghi e Trichet Appello a due voci: «Non illudiamoci, la ripresa sarà lenta»

Otto anni a Kabul: e oggi l’Italia è un altro Paese di Mario Arpino

di Alessandro D’Amato

VENEZIA. «Abbiamo già un presidente della Bce e non potrebbe essere migliore». Una battuta sola, secca e spiritosa, per liquidare le chiacchiere di questi giorni. Mario Draghi replica così all’ovvia domanda (ripetuta due volte, visto che la prima ha fatto finta di non averla capita) che gli fanno durante la conferenza stampa che il governatore della Banca d’Italia tiene insieme a Jean Claude Trichet. Il quale, in un siparietto che suscita l’ilarità dei presenti, si gira verso di lui e lo ringrazia sentitamente. D’altronde, non è certo la conferenza stampa che segue alla

on si era ancora dissipata la polvere del crollo delle Twin Towers, che già il Presidente degli Stati Uniti, in un discorso di sette minuti, dichiarava guerra al terrorismo. La War on Terror, aveva detto, sarà lunga, difficile e di durata non determinabile. Non tutti avevano inteso bene quando aveva pronunciato la parola “guerra”e l’aggettivo “lunga”. Oggi, alla prova dei fatti, è assai più semplice comprendere cosa intendeva, e cosa ha lasciato in eredità al suo successore. I fatti hanno trasformato le operazioni in Afghanistan nel simbolo della difesa dell’Occidente dal terrorismo islamico, nella salvaguardia dei nostri valori.

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consueta riunione del direttivo della Banca Centrale Europea il luogo più adatto per discutere della successione al francese sulla poltrona di Francoforte. Meglio, molto meglio parlare di economia. E Draghi lo fa, ripetendo quanto detto in altre occasioni: «La ripresa sarà lenta e fragile, le due priorità mondiali sono la ripresa stessa e la definizione di nuove regole per il sistema finanziario come emerso dagli ultimi vertici internazionali di Pittsburgh, Goteborg e Istanbul». a pagina 6

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I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

200 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Lo scontro del Lodo/1. È stata una giornata di trattative convulse e confuse che ha coinvolto tutte le istituzioni

Il Pdl preso per il Colle

Fini e Schifani difendono il Quirinale: «Si è comportato correttamente». È guerra tra falchi e colombe: il Cavaliere prepara l’offensiva sulla giustizia di Errico Novi ROMA. Tra le cose evidenti di una due giorni durissima per le istituzioni repubblicane c’è l’impotenza di figure pure autorevoli come quelle del presidente del Senato e del presidente della Camera: né Renato Schifani né Gianfranco Fini, saliti al Quirinale ieri pomeriggio, possono spiegare al capo dello Stato perché il premier Silvio Berlusconi gli si sia avventato con furia cieca dopo la sentenza sul lodo Alfano. Possono fare ipotesi, riconoscere pubblicamente la «leatà» del Quirinale, ma non dare risposte. La ragione è semplice: Giorgio Napolitano è un falso obiettivo. La sua presunta – e chiaramente infondata – diserzione sulla vicenda del lodo serve al presidente del Consiglio come pretesto per preparare altri attacchi, di altra natura, ad altre istituzioni. Attacchi che non verranno condotti solo sul piano mediatico: lo scontro riguarderà l’equilibrio tra i poteri e servirà a sua volta come difesa quando i processi di Milano (Mills e diritti televisivi) entreranno nel vivo. È una strategia complessa. Che Berlusconi sembra aver messo a punto in modo fulmineo, in tempo reale. Gli attacchi rivolti anche ieri al capo dello Stato («è stato eletto da una maggioranza di sinistra e l’ultima sua designazione di un giudice alla Consulta dimostra da che parte stia») lasciano spiazzati non solo Schifani e Fini ma molti altri uomini a lui vicini. Il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Carlo Vizzini, tra i partecipanti alla cena con i giudici costituzionali Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano di qualche mese fa, dice per esempio che «una rottura c’è stata», ma la circoscrive entro il perimetro «delle buone consuetudini istituzionali tra Alta Corte e Parlamento: i giudici costituzionali non possono essere assimilati a un magistrato che si trova ogni volta davanti a un imputato diverso e cambia la giurisprudenza a seconda del caso. Tra il Tribunale delle leggi e il potere legislativo c’è un rapporto di cooperazione, che noi ritenevamo di realizzare con l’applicazione puntuale delle modifiche suggerite dalla sentenza del 2004 sul lodo Schifani. Si era messa in conto l’indicazione di ulteriori modifiche ma non una stroncatura del genere». Secondo Vizzini dunque, se di una rottura si può parlare, è solo di quella con la Corte costituzionale. In sostanza il premier sarebbe furente per il venir meno di quello spirito di collaborazione piuttosto che per l’inesistente voltafaccia di Napolitano. Ma altre testimonianze che provengono da ambienti della maggioranza suggeriscono che quella reazione è calcolata, funzionale a un passaggio successivo nel rinnovato conflitto tra il Cavaliere e la magistratura. Di fronte alla riapertura dei processi, infatti, Berlusconi ha in mente di dare corso a una riforma radicale e certo non concertata, dell’ordinamento giudiziario. Già

L’attacco al capo dello Stato, un preavviso di rottura istituzionale

Napolitano «scudo umano»: Ecco cosa ha in testa il premier di Giancristiano Desiderio lla fine, Berlusconi restò solo. Solo è una parola grossa, è vero, ma certo la dichiarazione congiunta di Fini e Schifani lascia poco spazio alle incertezze: Napolitano ha preteso e ottenuto una difesa che non è solo d’ufficio nei confronti delle accuse del premier. Il quale è passato dal lodo Alfano al lodo Voiello. Che cos’è? È la pasta di cui è fatto Silvio Berlusconi che ieri, come forma retorica neobonapartista, ha voluto usare questa formula: «Ora vedranno di che pasta sono fatto». Diciamolo subito: è una pasta ambigua, perché nessun altro come il presidente del Consiglio sa essere allo stesso tempo falco e colomba. Mostra di voler lavorare di buona lena e nel rispetto della legittimità istituzionale e, contemporaneamente, appellandosi al mito del popolo - sì, al mito, perché in una democrazia liberale degna del nome il popolo è appunto un mito - crea un conflitto istituzionale che gli serve per precostituirsi in un futuro prossimo venturo la via di fuga del voto anticipato. Ecco perché Berlusconi con un orecchio ascolta “sua eminenza” Gianni Letta, ma con l’altro orecchio ascolta la sua anima bonapartista usa il presidente della Repubblica come uno «scudo umano». Non vuole seguire una sola strada, ma ne vuole avere sempre una di riserva. Geniale? Può darsi. Sta di fatto che in questo modo non solo si dividono gli italiani ma si dividono anche le istituzioni e questo rientra nella patologia della vita democratica. Questo non è un problema, bensì è il problema che abbiamo davanti. Napolitano, convocando Schifani e Fini al Quirinale ha dimostrato di averlo capito. Schifani e FIni firmando quella dichiarazione congiunta a sostegno del Colle lo hanno capito. Ma Berlusconi?

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L’attacco al capo dello Stato non ha altro senso se non quello di aprire fin da ora un conflitto istituzionale per far sfociare, quando sarà e se sarà, la legislatura verso il ricorso alle elezioni anticipate. Per quale buon motivo istituzionale, infatti, ieri il capo del governo avrebbe dovuto, come ha fatto, attaccare il capo dello Stato? «Si sa da che parte sta il capo

dello Stato» è stata la frase sprezzante di Berlusconi. Già, da che parte sta il presidente Napolitano? Dalla parte del governo. Sì, proprio così, dalla parte del presidente del Consiglio, nonostante oggi il premier dica e sostenga e propagandi il contrario. I fatti, che sono le uniche cose che realmente contano, ci dicono che Napolitano ha firmato il lodo Alfano - per questa firma si è preso non poche critiche, ingiuste e ingenerose - e il Quirinale avrebbe voluto dalla Corte costituzionale una conferma della sua firma sotto la legge che porta il nome del ministro della Giustizia. Dunque, la parte di Napolitano è la parte della governabilità e l’equilibrio delle istituzioni.

Il suo arbitrario contrasto con il presidente della Repubblica ha come scopo di far pesare nella sfida politica la sua “diretta” investitura popolare. Ma in un regime democratico non populista, il peso politico del “popolo” a cui Berlusconi si appella equivale alla legittimità delle istituzioni che egli attacca. Berlusconi, che ha una doppia anima, una liberale e una populista, usa dividere il mondo in due: chi è con il popolo, cioè lui, e chi è contro il popolo, cioè gli altri. Ma il problema non è stabilire ciò che è popolare e ciò che non lo è: quel che conta è ciò che è legittimo o illegittimo fare. E allora, prima ci poniamo, tutti, questo problema e prima lo possiamo affrontare e risolverlo cercando di salvare il salvabile da una stagione, quella della democrazia dell’alternanza, che sembra arrivata alla sua autodistruzione. Ma, soprattutto, il problema è bene che se lo ponga il centrodestra e Gianfranco Fini, se non vuole passare alla storia come il leader del giorno dopo.

mette in conto le reazioni che arriveranno dai giudici: verrà contestata la brutalità dell’azione riformatrice, che prevede separazione delle carriere, nuova composizione del Csm e istituzione di un’alta corte di giustizia, un organo costituzionale di garanzia a cui affidare le iniziative disciplinari nei confronti dei magistrati e i cui componenti proverranno solo in parte (per un terzo) dalla magistratura. Una rivoluzione che comporterà modifiche costituzionali e soprattutto polemiche violente quanto quelle delle ultime ore. Del parere delle toghe però, il Cavaliere ha già deciso di non tenere alcun conto: anzi avrà un atteggiamento di assoluta noncuranza. «Ed è a quel punto che gli tornerà utile l’aggressione a Napolitano», suggerisce ancora la fonte interna al Pdl, «perché aver delegittimato in modo così forte il presidente della Repub-

L’aggressione al Quirinale? Servirà a far apparire scontata la delegittimazione delle toghe, che Berlusconi realizzerà con una revisione unilaterale dell’ordinamento giudiziario blica renderà scontata, agli occhi dell’opinione pubblica, anche la delegittimazione del Csm, dell’Anm e di chiunque si dovesse ergere a difesa dei giudici».

Un’azione di forza, dunque. Condotta non con una manifestazione di piazza (esclusa ieri nel vertice di Palazzo Grazioli) ma con la modifica degli equilibri costituzionali. La logica, riferisce l’interlocutore, è molto sofisticata: «Più Berlusconi sarà deciso in questa direzione e più le eventuali sentenze milanesi appariranno solo come una rappresaglia per le riforme attuate». Una catena di mosse preventive, dunque, tutte studiate per attenuare in ultima analisi l’effetto delle sentenze e i contraccolpi d’immagine che ne potranno derivare. Ma come si farà a realizzare una riforma che, visti gli obiettivi, dovrà per forza passare per delle leggi costituzionali? «Stavolta ci si presenterà all’inevitabile appuntamento con il referendum con spirito ben diverso da quello rassegnato del 2006», dice ancora la fonte interna al Pdl. E con quali strumenti affrontata verrà


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Anche l’area ”antagonista” chiede le elezioni come i falchi del Pdl

Berlusconi e Di Pietro Le opposte tristezze A Lodo approvato, il leader dell’Idv avrebbe potuto rivendicare l’esclusiva dell’opposizione di sinistra di Marco Palombi

ROMA. C’è solo un uomo la cui tristezza per

un’ulteriore e così impegnativa “sfida” come la difesa davanti ai cittadini di una definitiva rottura degli equilibri istituzionali, tenuto anche conto di riserve come quelle che potrebbe avanzare Fini, per esempio? Esattamente con la strategia che Berlusconi ha già annunciato di voler adoperare: da un’altra fonte della maggioranza si dà per certo che «stavolta davvero il Cavaliere si difenderà in televisione e non solo nelle aule giudiziarie: e qui il Tg1 avrà un ruolo essenziale, vedrete che le critiche alla direzione Minzolini diventeranno ancora più aspre». E ancora: «Rispetto al 20012006 sarà diverso, stavolta al Tg5 non c’è Mentana ma uno come Mimun. E soprattutto, nel momento in cui il presidente del Consiglio spiegherà con il suo linguaggio semplice l’andamento dei processi, il ruolo della carta stampata verrà di molto ridimensionato: un complicato articolo in cui si scandagliano tutti gli aspetti di una vicenda giudiziaria può condizionare solo una piccola porzione dell’elettorato, non certo la gran parte di chi segue i telegiornali». Davvero andasse così, le aggressioni a Napolitano sarebbero solo il preludio.

Ieri, dopo i continui attacchi di Silvio Berlusconi dopo la bocciatura del Lodo Alfano, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha convocato al Quirinale i presidenti delle Camere, Renato Schifani e Gianfranco Fini. Nel panorama politico, comunque, l’altro grande sconfitto della decisione della Consulta è Antonio Di Pietro

la decisione della Consulta può essere paragonata a quella di Silvio Berlusconi: trattasi di Tonino Di Pietro da Montenero di Bisaccia, che politicamente è una sorta di negativo del Cavaliere, gli capita cioè di stare nella stessa posizione, ma girato dall’altra parte. Solo il leader di Italia dei Valori, infatti, avrebbe avuto da guadagnare quanto il premier dalla promozione del Lodo Alfano: l’ex pm aveva già raccolto le firme per il refendum abrogativo e martedì sera – quando si dava per certa una bocciatura solo parziale – si preparava già all’Armageddon. «E lo facessero passare ’sto Lodo, lo facessero passare», arringava politici e giornalisti qualche tempo fa in Transatlantico. «Io faccio il referendum e lo trasformo in un plebiscito su Berlusconi». Va bene, ma poi quel plebiscito lo perdi: obiettavano gli interlocutori. «Evvabbè, intanto mi so’ fatto quattro mesi di campagna tutti per me». Tonino Di Pietro, infatti, è ancora troppo piccino per dare davvero fastidio al Cavaliere politicamente, i suoi veri nemici però – che sono poi i suoi alleati del Pd – è in grado di rovinarli: una cerimonia religiosa di massa della durata di qualche mese intorno al corpo fisico e politico di Berlusconi avrebbe segnato il contemporaneo trionfo del presidente del Consiglio e dell’ex magistrato, nonché l’irrilevanza culturale di ogni altra posizione intermedia.

hanno negato nel 2008. Ai danni di chi? Dei “democratici”, ovviamente. Questo agitarsi non è solo il frutto di legittime aspirazioni personali e di linea politica, è il movimento di superficie di una faglia che esiste assai più in profondità nell’elettorato che si riconosce, almeno attualmente, nel centrosinistra. La questione morale aperta sui territori (vedi il caso Puglia), l’inamovibilità di buona parte della classe dirigente, una linea politica ondivaga e raffazzonata stanno spingendo una larga parte del voto democrats nelle braccia del moralismo interessato di Di Pietro e lui, cui non difetta la furbizia del Bertoldo, non vede l’ora di passare all’incasso percentuale. Un referendum sul Lodo Alfano o lo showdown elettorale frutterebbero a Italia dei Valori una sorta di opa ostile su tutta l’opposizione di centrosinistra.

Questa fetta non residuale dell’opinione pubblica italiana, peraltro, festeggia a sproposito il ritorno nelle aule di giustizia di Silvio Berlusconi. Quella partita il premier l’ha praticamente già chiusa: tra leggine precedenti e leggine a venire – più lo stralcio dal processo Mills ottenuto grazie al Lodo - i processi milanesi con ogni probabilità si spegneranno con la prescrizione, mentre l’inchiesta romana è all’archiviazione e quella sui diritti cinematografici ancora non si sa dove andrà a parare. Anche in questo caso nulla di male per Antonio Di Pietro: Berlusconi gli serve infatti anche ad uso interno. Quell’area culturale – assai variegata e che solo a spanne può essere riassunta nella definizione “giustizialista” – che nell’ultimo quindicennio s’è mossa fuori e dentro i partiti e che Italia dei Valori pensava di utilizzare come massa di manovra, s’è rivelata più ostica del previsto alla normalizzazione.Ci sono le accuse di Micromega sul profilo locale di Italia dei Valori (che nel suo corpo dirigente è in buona sostanza un partito di ex Dc), le lamentele periodiche sulla mancanza di democrazia interna e ora il movimento di Beppe Grillo che si struttura in liste politiche per le prossime Regionali: tutti segnali che la stella dell’ex pm, se brilla fulgida, potrebbe anche essere vicina alla supernova. Finché c’è il Cavaliere però, e specialmente questo Cavaliere livido e rancoroso, non c’è problema. Come diceva Previti (sbagliando): simul stabunt simul cadent.

«Adesso lancio il referendum, lo trasformo in un plebiscito e faccio campgna per quattro mesi», aveva detto l’ex magistrato mesi fa, quando aveva cominciato a raccogliere le firme contro la legge

Per questo Di Pietro si augurava che la Consulta gli facesse il favore di regalargli un argomento di propaganda senza tempo – semplificando, ma neanche troppo: l’inciucione destra-sinistra per mangiare tutti assieme – per questo insiste che l’unica soluzione è andare a nuove elezioni, per questo prepara una nuova adunata in piazza e mette sotto accusa il Quirinale (come il suo doppelganger, d’altronde). Il nostro sa benissimo che Berlusconi avrebbe di nuovo la maggioranza e che uscirebbe persino rafforzato da un voto in questo momento, ma sa altrettanto bene che tutta l’opposizione “antropologica” al Cavaliere voterebbe per lui consegnando al Pd solo un’ultima, triste stagione di lotte fratricide prima dello scioglimento. È lo stesso motivo, d’altra parte, per cui chiedono il voto le sinistre radicali: sperano di riacquistare il ruolo nazionale che gli elettori gli


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Lo scontro del Lodo/2. Massimo Cacciari e Alessandro Campi discutono del paradosso della Seconda Repubblica

Il Grande Proclamatore

Che cosa può succedere a un Paese guidato da un rivoluzionario “senza rivoluzione” che annuncia cambiamenti che non arrivano mai? di Riccardo Paradisi a rivoluzione liberale, ricordate? Silvio Berlusconi l’aveva annunciata come vasto programma politico del suo schieramento, come ragione sociale o ”mission” della sua ormai mitica e lontana discesa in campo del ’94. Sono passati 15 anni ma di rivoluzioni non se ne sono viste.

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È esistita, sostiene Tinagli, la possibilità per i figli i figli degli operai italiani degli anni Cinquanta di divenire, negli anni Settanta e Ottanta, impiegati o addirittura medici e avvocati. Si tratta di quella che tecnicamente si chiama “mobilità intergenerazionale”. «Una mobilità che è stata fortissima per tutti i paesi occidentali nella prima metà del Novecento, con il pieno dispiegarsi dell’era industriale e il diffondersi dell’istruzione presso i ceti più popolari, ma che ha inevitabil-

L’Italia resta un Paese sostanzialmente immobile, vincolato da quelli che Berlusconi stesso ha sempre chiamato ”i lacci e i lacciuoli”di cui ci si sarebbe dovuti liMASSIMO CACCIARI berare. Un Paese tenuto in scacco «Non bisogna da caste e corpoconfondere razioni dove è il riformista assente ogni mocon il bilità sociale, rivoluzionario. quella dinamica Il riformista cioè che è il prinrispetta cipale indizio la Costituzione, della presenza di modifica un sufficiente lil’ordinamento beralismo in seattraverso no a una società. le procedure Lo studio di Irepreviste» ne Tinagli sulla mobilità sociale nel nostro Paese presentato al debutto della fon- mente iniziato a rallentare dazione Italia-futura mercoledì ovunque a partire dagli anni scorso è tanto rigoroso quanto Settanta». impressionante da questo pun- La mobilità intergenerazionale to di vista. precisa la studiosa in Italia non

è rallentata più che in altri paesi eppure la percezione di un peggioramento complessivo della mobilità è molto forte, soprattutto tra le generazioni più giovani. «Un sondaggio condotto nel 2008 da Swg mostra un quadro veramente sconfortante. Se circa il 41% degli ultra cinquantenni dichiarava di avere uno stato sociale migliore di quello della famiglia di origine, solo il 6% dei ventenni aveva la stessa percezione. Addirittura, il 20% dei ventenni sosteneva di trovarsi in uno stato sociale inferiore a quello della famiglia di origine».

È questo forse il dato più allarmante dello Stato del Paese, perché si porta appresso lo stato disastroso della scuola e dell’università, un welfare vecchio che non ha ancora trovato la via per una riforma che salvaguardi i diritti sociali ma che non punisca il merito e le generazioni più giovani. Erano alcune tappe della rivoluzione liberale che non è mai veramente partita, tanto che c’è chi parla di un quindicennio sprecato. La tesi del premier è invece che esistono ancora troppi ostacoli per poter dispiegare in Italia la rivoluzione liberale. Il sindaco di Venezia Massimo Cacciari la vede in modo diverso: «Non bi-

sogna confondere il termine più di quello che ha fatto. Se lui riformista con il termine rivolu- oggi avesse preso la sentenza zionario. Il riformista rispetta della Corte costituzionale con la Costituzione, avvia modifi- aplomb – prosegue Cacciari – che di struttura rispetto all’or- se avesse capito che questa dinamento, lo modifica attra- sentenza non piace nemmeno verso le procedure previste. a Napolitano, da domani Berlusconi ha ALESSANDRO CAMPI scelto la retorica rivoluzionaria, «Se non fai ora le s’è posto sempre riforme non le fai fuori e contro. più. Berlusconi ma Legittimo, ha sempre laddove uno rilamentato in tiene vi sia un orquesti anni che dine vecchio ne manovre oblique edifica all’intergli hanno no di un codice di impedito regole uno nuodi governare. vo. Questo BerluOra ha una sconi non l’ha maggioranza fatto. E anzi dopo vastissima» una sentenza della Corte costituzionale arriva ad accusare il capo dello Stato avrebbe potuto riaprire un didi faziosità, di appartenere a scorso che piace anche a tre quarti del centrosinistra sulla una forza politica». revisione delle norme per l’imA Berlusconi sembra insom- punibilità del loro mandato. Lo ma mancare la grammatica avrebbe potuto riaprire immeistituzionale e politica. «Se lui diatamente». Insomma per si fosse mosso senza demoniz- Cacciari «questo governo di zare gli avversari da un lato e centrodestra con a capo Gianni dall’altro si fosse comportato Letta farebbe dieci volte di più da statista sulle polemiche che in termini di riforme di quanto investivano la sua vita privata riesca a fare Berlusconi. Certo avrebbe potuto fare e potrebbe è che in questa situazione di ancora fare infinitamente di stallo, con un Pd di cui è me-


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L’ex presidente Antonio Baldassarre smonta i teoremi della maggioranza

«Una sentenza in linea con quella del 2004» «Le decisioni della Consulta hanno una rilevanza politica, ma sono caratterizzate da correttezza e ragionevolezza» di Franco Insardà

glio tacere per carità di patria e con Berlusconi in preda a sempre più evidenti problemi caratteriologici il Paese che non si muoverà mai che non potrà decollare né a destra, né a sinistra, né al centro».

Abbiamo sprecato quindici anni scriveva mercoledì Alessandro Campi sul Riformista, politologo dell’università di Perugia e direttore scientifico della fondazione Fare futuro. Quindici anni senza le grandi riforme che altrove si sono fatte e che da noi sono rimaste lettera morta. «L’importante è che ora si cambi registro – di-

s’è fatta dice Campi. Ma se non è partita fino ad ora perchè proprio ora, nel punto di massima difficoltà del Cavaliere, dovrebbe partire? «Perché se non fai ora le riforme non le fai più. Berlusconi ha sempre lamentato in questi anni che vinte le elezioni manovre oblique gli hanno impedito di governare. Prima il ribaltone, poi dal 2001 al 2006 la gente che gli metteva i bastoni tra le ruote all’interno della stessa maggioranza. Adesso ha una maggioranza parlamentare vastissima. Non ha più alibi. Passi alla cultura del fare che ha sempre presentato

Il Premier potrebbe avviare ora il processo riformatore fino ad oggi mai partito. Chiedendo il consenso sulle cose fatte e non sulla sua persona ce Campi – Certo, riprenderanno i processi, Berlusconi avrà delle difficoltà ma non è detto che verrà condannato. Invece di disegnare scenari catastrofistici che rischia di non potere governare dovrebbe percorrere la strada maestra del riformismo. Lasciando perdere suggestioni di tipo plebiscitario o manifestazioni di piazza. Che verrebbero lette a questo punto solo in chiave revanscista». Stiamo ripentendo da quasi vent’anni, ogni giorno, lo stesso identico copione: «la politica che non fa il suo mestiere ora condizionata dalla magistratura ora dalla sua pigrizia e dal suo poco coraggio. Ci vorrebbe senso di responsabilità da entrambe le parti. E del resto siamo sicuri che alla sinistra convenga approfittare delle difficoltà giudiziarie di Berlusconi? Il governo Prodi è caduto per l’azione improvvida di un magistrato di provincia». Fare oggi la rivoluzione liberale che per quindici anni non

come essenza della sua ideologia politica». E da dove dovrebbe partire in questa azione riformatrice interpretata come estrema risorsa della sua riscossa politica? «Di sicuro non dovrebbe cominciare dalla riforma della magistratura, un’azioneche verrebbe interpretata come una palese vendetta contro le cosiddette toghe rosse, un modo per attirarsi addosso ancora l’accusa di fare politica per salvaguardare i propri interessi».

Ci sono molti fronti aperti e da aprire: dalla scuola all’università, dalla riforma delle pensioni all’abolizione degli ordini professionali alla razionalizzazione della pubblica amministrazione. «Su queste partite Berlusconi dovrebbe chiedere il consenso non sulla sua personale figura. D’altra parte che il Cavaliere sappia vincere le elezioni lo ha dimostrato, ora deve ancora dimostrare di essere uno statista».

ROMA. «La decisione della Corte costituzionale era già scritta nella precedente sentenza del 2004, quella che ha valutato il lodo Schifani. Non c’è stato un cambio di rotta, si è, fondamentalmente, proseguito sulla linea di cinque anni fa. I due aspetti dell’illegittimità costituzionale erano già stati adombrati». Il presidente emerito della Corte costituzionale, Antonio Baldassarre non si è sorpreso della decisione della Consulta che ha bocciato il lodo Alfano e adesso ripete quella che è stata la sua opinione anche prima che i quindici giudici costituzionali si riunissero in camera di consiglio. Presidente, molti esponenti della maggioranza, tra i quali il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, sostengono il contrario. Che in quella sentenza non si faceva riferimento all’articolo 138 della Costituzione. Non è così, perché la Corte non evidenziava l’elemento della forma idonea del provvedimento, se approvare una legge costituzionale e non ordinaria, dal momento che il lodo Schifani presentava altri aspetti di incostituzionalità. Quindi è sufficiente un motivo per dichiarare l’incostituzionalità di una legge e i giudici hanno ritenuto di prodecere in quel modo. Non è vero, quindi, che non facesse menzione dell’articolo 138. Tra i due provvedimenti non ci sono contraddizioni: sia l’articolo 138 sia l’articolo 3 della Costituzione erano due aspetti già adombrati nella sentenza precedente. L’altro rilievo che viene fatto alla Consulta e che si sarebbe trattato di una sentenza politica. È coerentemente in linea con la sentenza precedente, ma questa accusa viene mossa sempre quando le sentenze non piacciono. È un atteggiamento sbagliato, a destra quanto a sinistra. La Corte svolge una delicata opera di garanzia: i giudici sono molto sereni di fronte a critiche di questo genere, perché sono convinto che tutti decidono secondo coscienza. Al limite si può parlare di giustizia politica. In che senso? La Consulta decide su argomenti che hanno una grande rilevanza politica, ma i giudizi sono sempre caratterizzati dalla ragionevolezza, non dalla passione. Poi i giudici, come qualsia-

si essere umano, possono sbagliare, ma sulla loro buona fede e correttezza ci metterei la mano sul fuoco. I difensore del presidente del Consiglio hanno insistito sull’aspetto come primus super pares? Non vorrei entrare nel merito delle strategie difensive che, tra l’altro, andrebbero conosciute in dettaglio. È evidente che esiste una violazione del principio di uguaglianza, riferito probabilmente al rapporto tra il presidente del Consiglio e ministri. E sul punto la Corte potrebbe aver detto che non c’è differenza di posizione, ma solo di funzioni. Bisogna, comunque, aspettare le motivazioni per poter conoscere il reale motivo accolto dai giudici costituzionali. Però soltanto nove giudici su quindici hanno bocciato il lodo Alfano. Molte delle decisioni della Consulta vengono prese a maggioranza. È difficile che su argomenti così delicati ci possa essere l’unanimità. Per Antonio Maccanico, di fronte a un vuoto legislativo, sarebbe meglio reintrodurre l’immunità per tutti i parlamentari. È un ragionamento condivisibile, ma ovviamente l’immunità deve riguardare tutti. Non è un caso che il Costituente l’avesse già prevista. E adesso che cosa succederà dal punto di vista giuridico? Riprenderanno i processi che erano stati sospesi che vedono imputato il presidente del Consiglio e nei quali si dovrà difendere. Ora la strada è obbligata: se si vuole ripristinare lo scudo per le alte cariche dello Stato, occorrerà procedere necessariamente per via costituzionale. Non sarà facile. Indubbiamente sono condizioni più difficili, intanto perché si tratta di una procedura che richiede mesi, dal momento che, secondo l’articolo 138, tra una votazione e l’altra è necessaria una distanza di almeno tre mesi e occorre una maggioranza qualificata, la metà più uno. Qualcuno ha il sospetto che si voglia attribuire alla Corte costituzionale la volontà di “riformare”l’ordinamento. La Consulta applica la Costituzione sulla base dei suoi precedenti, laddove ci sono, e coerentemente con la sua giurisprudenza.

La Corte applica la Costituzione sulla base dei suoi precedenti, laddove ci sono, e coerentemente con la sua giurisprudenza


diario

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Recessione. Conferenza stampa a due voci con il governatore di Bankitalia e quello della Bce sul dopo crisi

Se Draghi fa il Trichet

«Basta ottimismo: il sistema finanziario globale è ancora fragile» di Alessandro D’Amato

VENEZIA. «Abbiamo già un presidente della Bce e non potrebbe essere migliore». Una battuta sola, secca e spiritosa, per liquidare le chiacchiere di questi giorni. Mario Draghi replica così all’ovvia domanda (ripetuta due volte, visto che la prima ha fatto finta di non averla capita) che gli fanno durante la conferenza stampa che il governatore della Banca d’Italia tiene insieme a Jean Claude Trichet. Il quale, in un siparietto che suscita l’ilarità dei presenti, si gira verso di lui e lo ringrazia sentitamente. D’altronde, non è certo la conferenza stampa che segue alla consueta riunione del direttivo della Banca Centrale Europea il luogo più adatto per discutere della successione al francese sulla poltrona di Francoforte. Meglio, molto meglio parlare di economia. E Draghi lo fa, ripetendo quanto detto in altre occasioni: «La ripresa sarà lenta e fragile, le due priorità mondiali sono la ripresa stessa e la definizione di nuove regole per il sistema finanziario come emerso dagli ultimi vertici internazionali di Pittsburgh, Goteborg e Istanbul». Il primo messaggio è «continuare a sostenere la ripresa», il secondo è che bisogna «ricostruire il sistema finanziario in modo tale che le banche completino la riorganizzazione dei loro bilanci completando anche la ricostruzione del sistema di regole finanziarie»: Draghi punta il dito sul sostegno da ristabilire per il sistema bancario, indispensabile affinché le banche possano sostenere a loro volta la ripresa e il credito. E indica un altro obiettivo fondamentale: «Completare la ricostruzione del sistema delle regole». E qui risuonano gli echi delle parole del governatore sugli istituti di credito: Draghi sa benissimo che i bilanci delle banche conservano ancora molti punti oscuri. E infatti Trichet conferma: «Le banche devono adottare altre misure per rafforzare il capitale e fornire credito alle imprese e ai privati. I governi stanno facendo interventi straordinari e le banche centrali stanno facendo altrettanto. È importante che an-

che il sistema bancario continui il processo di risanamento e di rafforzamento in modo da poter dare un importante contributo riaprendo appieno il rubinetto del credito».

Ma poi Trichet aggiunge che «è assolutamente chiaro che la domanda di credito si è indebolita» e questo dipende in buona misura anche dal fatto che la domanda rimane limitata. Secondo il governatore la zona euro beneficerà degli stimoli dell’economia, con gli effetti che saranno più forti del previsto, ma la ripresa sarà piuttosto irregolare. La stabilità dei prezzi dovrebbe mante-

Ma, ai margini dell’incontro e nonostante le smentite ufficiali, dell’argomento «presidenza della Bce» si è continuato a parlare. Anche perché per l’Italia probabilmente si profila il tempo di una scelta. Il presidente del Consiglio Berlusconi ha detto in giugno che l’Italia avrebbe rivendicato la guida dell’Eurogruppo per il ministro dell’Economia Giulio Tremonti nel caso in cui, come poi successo, fosse svanita la possibilità di avere l’italiano Mario Mauro a capo del parlamento europeo. E il ministro degli Esteri Franco Frattini l’ha ribadito in un’intervista al Corriere della Sera qualche giorno fa dove ha parlato anche della poltrona

Restano invece sullo sfondo i rumors sull’avvicendamento fra i due al vertice della banca europea circolate in questi giorni nersi nel medio periodo, e i prezzi bassi aumenteranno il potere d’acquisto delle famiglie. Già che c’è, nella conferenza stampa Draghi ha risposto anche a una domanda di stretta attualità: «I recenti eventi politici non cambiano l’outlook dell’economia», risponde a una domanda del corrispondente del Financial Times che gli chiedeva se i recenti sommovimenti giudiziari potessero condizionare le prospettive di crescita dell’Italia. «No change», ha risposto Draghi alla chiara allusione sulla polemica politica scatenata dal Lodo Alfano, e ai rischi – reali o immaginari – di nuove elezioni.

di Francoforte. «Mentre l’Eurogruppo è una cosa che si decide tra governi e quindi il governo italiano può, come Silvio Berlusconi ha fatto, indicare e sostenere, la presidenza della Bce dipende da procedure interne della Bce che non sono ancora state indicate, che potrebbero essere modificate elezione per elezione e che riguardano il 2011», ha detto Frattini. L’attuale presidente dell’Eurogruppo, il primo ministro e responsabile delle Finanze del Lussemburgo Jean-Claude Juncker, scade a fine 2010. Il capo della Farnesina ha dichiarato nei giorni scorsi che sarebbe un onore per l’Italia avere Draghi alla presidenza

della Bce, aggiungendo anche che quella del presidente Bundesbank Axel Weber è una candidatura forte ma che questa volta tocca all’Italia. E qui probabilmente ci sarà di che scontrarsi con Francia e Germania: nessuna regola è stata mai scritta, ma dalla fondazione della Banca Centrale Europea la presidenza è stata sempre un affare tra i due grandi paesi, con i tedeschi che hanno rivendicato, all’epoca dell’elezione di Trichet, persino la primazia sulla carica. Oggi però l’elezione di Weber non è vista di buon occhio, viste le prese di posizione del numero uno della Bundesbank prima dell’inizio della crisi economica: la sua sarebbe una candidatura “tecnica” e che “forte”, preluderebbe l’assoluta indipendenza della Bce dalla politica. Draghi è invece un pragmatico, e per questo potrebbe essere più gradito. Ma se davvero l’Italia punta su Tremonti, molto difficilmente poi Bruxelles permetterà che due cariche così importanti arrivino a due italiani nello stesso momento.


diario

9 ottobre 2009 • pagina 7

Nel 2008 c’è stato un aumento del 13,4%, dice l’Istat

Audizione in commissione Bilancio del presidente Faissola

Sono quasi quattro milioni gli stranieri in Italia

Abi: verso le banche un clima ostile ingiustificato

ROMA. Nel corso del 2008, il numero degli immigrati presenti in Italia è aumentato del 13,4%, per un totale di 3.891.295 persone al primo gennaio 2009. Sono questi gli ultimi dati diffusi dall’Istat sull’immigrazione, che parla di una crescita degli stranieri «ancora molto elevata», sebbene inferiore a quella registrata nel 2007 (+16,8%). L’aumento - rende noto l’Istat - è dovuto soprattutto all’immigrazione dai paesi che hanno aderito recentemente all’Unione europea (+24,5%), tra cui al primo posto si colloca la Romania: nel complesso, la comunità romena è quella più numerosa: 796.000 persone, pari al 20,5% del totale. Notevole anche l’aumento di immigrati provenienti da paesi dell’Est europeo non facenti parte della Ue (+12%). Anche per quel che riguarda i residenti, è l’Est a farla da padrone: è infatti da quell’area dell’Europa che proviene la metà dei cittadini non italiani. Seguono quelli provenienti dal Marocco (+10,3%) e da paesi asiatici come Cina, India e Bangladesh (+18,6%).

ROMA. Il credit crunch in Italia

Sempre secondo la ricerca dell’Istat, gli immigrati rappresentano oggi il 6,5% della popolazione residente; all’inizio del 2008, erano il 5,8%. Su tutti i residenti con la cittadinanza

Scajola e Epifani rinnovano la loro intesa Il ministro «confida» nella responsabilità della Cgil di Francesco Pacifico

ROMA. Guglielmo Epifani e Claudio Scajola sono usciti allo scoperto. Se fino a ieri il leader della Cgil poteva “gloriarsi” della manifesta ostilità di Maurizio Sacconi e Renato Brunetta, d’ora in avanti potrà vantare un intelocutore privilegiato nel governo: il responsabile dello Sviluppo economico. Del ministo competente sulla politica industriale. Già in passato Scajola aveva lanciato importanti aperture a corso d’Italia. Emblematico che nel maggio scorso – e dopo la contestazione di Torino ai danni del leader Fiom Rinaldini – era andato ben oltre la solidarietà di rito invitando la sua maggioranza ad abbandonare il muro contro muro. Ma ieri al Tempio di Adriano di Roma – complice il convegno “Per uscire dalla crisi e guardare il futuro” – ministro e leader oppositore al governo hanno fatto un passo avanti. Scajola infatti ha scelto questa platea per lanciare la sua piattaforma per superare l’ultima coda della congiuntura: l’allargamento degli incentivi alle piccole e medie imprese e un ’osservatorio sui settori più a rischio. Proposte non certo distanti da quelle lanciate dalla stessa sede da Epifani. Il quale, mai come ieri, ha rivendicato il suo diritto a dialogare dall’esecutivo. Se la Cgil, accanto a una task force più politica a Palazzo Chigi, ha chiesto «una cabina di regia composta dalle parti e dai ministri interessati al dicastero dello Sviluppo economico per il monitoraggio preventivo dei casi aziendali di crisi», Scajola ha annunciato di rimando «l’istituzione di un “Osservatorio sul sistema produttivo, con il compito di monitorare l’andamento dei diversi settori». Una struttura, ha sottolineato Epifani, «che mancava a livello nazionale e che esiste in tutti Paesi che hanno affrontato la crisi». E che soprattutto riequilibra lo strapotere nel governo verso Tremonti che, a scapito del collega, ha blindato tutte le munizioni per la congiuntura. Se il ministro dello Sviluppo ricorda a gran voce alla Fiat che gli incentivi dovranno anda-

re di pari passo con l’aumento della produzione di auto in Italia», il segretario generale della Cgil non è meno tenero con il Lingotto: «Se dai qualcosa a qualcuno, gli devi almeno chiedere qualcosa in cambio: che almeno difenda gli stabilimenti in Italia. Facciamoci furbi». Paradossalmente il ministro più amato dalla grande impresa e il sindacalista lontano anni luce da questa Confindustria finiscono per concordare anche sul ruolo della Cgil nei rinnovi contrattuali in corso d’opera. Scajola ha detto di «confidare che ci possa essere una maggiore apertura, come avete fatto responsabilmente nei giorni scorsi firmando insieme alle altre sigle il rinnovo degli alimentari». Epifani ha rivendicato il suo no alla riforma del gennaio scorso, ma sui metalmeccanici ha “intimato”: «Non so come si possa firmare un’intesa senza il maggiore sindacato». Ieri al Tempio di Adriano soltanto un isolato contestatore – pare neanche iscritto a corso d’Italia – ha provato a rompere la luna di miele tra il ministro e la Cgil, gridando in sala “Dimettiti”. «E lei da cosa si dimette», la risposta. Fatto sta che quest’intesa, a 24 ore dallo sciopero della Fiom, potrebbe cambiare pesi e contrappesi all’interno del governo in prospettiva dei decreti sull’utilizzo dei soldi provenienti dallo scudo. Si nota in maggioranza: «Al momento questa è un’alleanza tattica. La Cgil trova un interlocutore diverso da Sacconi, può dimostrare di non essere lei a discriminare, ma di essere quella discriminata. Scajola mette sul tavolo un alleato nella sua guerra con Tremonti».

Un feeling non scalfito da un isolato contestatore. Al via un osservatorio sulla crisi e un fondo per le Pmi

straniera, quasi 519.000 sono nati in Italia, vale a dire il 13,3% degli stranieri presenti nel nostro paese. Nel 2008, i nuovi nati figli di immigrati sono stati 72.472. È in crescita anche il numero di immigrati che acquisiscono la cittadinanza italiana (+18%) e, parallelamente aumentano gli immigrati che, dopo aver trascorso un periodo in Italia, decidono di tornare a casa (+33% in un anno). In particolare, tra coloro che avevano ottenuto la cittadinanza, si sono cancellati dall’anagrafe oltre 27.000 cittadini stranieri. Secondo l’Istat, si tratta di un dato in aumento rispetto al 2007, ma nella norma rispetto al reale movimento migratorio».

«non c’è stato». Anzi, il flusso di denaro «non solo non è diminuito, ma è cresciuto». Il presidente dell’Abi Corrado Faissola, nel corso dell’audizione sulla finanziaria nelle commissioni Bilancio di Senato e Camera, è tornato a difendere l’operato delle banche, ricordando i dati di agosto secondo i quali «la dinamica dei prestiti bancari ha manifestato una lieve accelerazione: il complesso dei prestiti al settore privato ha segnato un tasso di crescita tendenziale pari al 2,3 per cento. Superiore rispetto all’area euro che è dello 0,3 per cento». Per questo il numero uno di Palazzo Altieri invita le istituzioni a non alimentare «un clima ostile contro di noi

Mosse tattiche in un risiko che ha come obiettivo la conquista del centrodestra del dopo Berlusconi. E che si vince non soltanto con le tessere. Al riguardo Scajola ha proposto anche un fondo da 60-80 milioni di euro per le Pmi e l’estensione degli incentivi a tutti settori strategici. Misure che hanno il plauso dei sindacati come delle imprese, ma che per Giulio Tremonti hanno un costo insostenibile per quest’Italia che sta uscendo dalla crisi.

che, a nostro giudizio, è assolutamente ingiustificato. Ritengo soprattutto sia opportuno non alimentarlo ulteriormente da parte delle istituzioni, dal governo ai parlamentari». Il presidente dell’Abi ha quindi sottolineato che le sofferenze accumulate dalle banche hanno raggiunto un livello al limite della sopportabilità. Secondo le previsioni dell’Abi e degli uffici studi delle principali banche, ha spiegato Faissola, le perdite sui crediti, pari a 5,5 miliardi a fine 2007 e a 9,9 miliardi nel 2008 raggiungeranno i 18 miliardi nel medio periodo. Il presidente dell’Abi, è quindi tornato a contestare il regime fiscale sulla deducibilità delle sofferenze bancarie, chiedendo una urgente revisione dell’attuale trattamento fiscale delle svalutazioni sui crediti.

Il fatto che le banche non abbiano fatto ricorso ai bond, ha poi detto Faissola, «non è per un motivo di non apprezzamento di quello che governo e Parlamento avevano messo a disposizione. Ma semplicemente perché i motivi per i quali questi strumenti sono stati confezionati sono sostanzialmente superati». Dalla scorsa primavera, infatti «i mercati hanno dato segnali di ripresa e alcune banche hanno sondato questi mercati con grande successo».


mondo

pagina 8 • 9 ottobre 2009

Anniversari. Il 9 ottobre 2001 il Parlamento approvava la risoluzione in cui si schierava a fianco degli Stati Uniti

Otto anni di solitudine Ecco perché l’impegno italiano suscitava molti dubbi sia a Washington che in Europa di Luisa Arezzo tto anni fa esatti, con la risoluzione 6-0004 approvata dalla Camera dei Deputati (non certo in maniera indolore), l’Italia espresse «la piena solidarietà del paese al popolo e al governo degli Stati Uniti d’America, nonchè alle istituzioni dell’Alleanza atlantica», assicurando il sostegno alle azioni necessarie (anche militari) e dicendosi pronta «ad assumersi le responsabilità dovute per dare pronta esecuzione agli impegni derivanti dall´applicazione dell’articolo 5 del Trattato Nato». Gli aerei kamikaze penetrati nel cuore di Manahattan erano ancora nel cuore e sotto gli occhi di tutti e la lotta al terrorismo internazionale aveva lanciato il leit motiv “Siamo tutti americani”. Ovunque si scendeva in piazza in appoggio alla War on Terror lanciata dal presidente Bush. Erano i tempi della vera caccia a Bin Laden e delle lettere all’antrace. L’intera Unione Europea cooperava con gli Usa per consegnare alla giustizia e punire gli autori, i responsabili e i complici di quegli atti inumani. Tutti sembravano scalpitare dalla voglia di dare il proprio contributo, e meno di due mesi dopo la lite internazionale verteva proprio su questo. Molti paesi, fra cui l’Italia, erano palesemente insoddisfatti del ruolo, inferiore alle loro aspettative, che sarebbero andati a svolgere. Erano delusi i tedeschi. Insorti i francesi perché si sentivano sacrifi-

O

cati, costretti a mandare un numero di militari ben al di sotto di quanto speravano. Con l’Italia che rischiava di fare le spese del malcontento generale, visto che c’era la concreta possibilità che per allargare il contributo di altre nazioni, la partecipazione del nostro paese diventasse ancora più esigua. Gli americani erano stati chiari: e alla nostra offerta di 600 uomini era stato risposto: grazie, ce ne bastano 200. L’Italia

dei soldati dell’intera missione. La Nato, allora, prevedeva di restare nell’area al massimo per due anni. A raccontarlo oggi, sembra davvero un secolo fa. E invece sono passati solo otto anni, lunghissimi, in cui nuovi (e all’epoca impensabili) lutti si sono accumulati, mentre nessun problema sembra essere stato risolto, Hamid Karzai, rieletto presidente, è più fragile che mai: ne sono riprova le dimissioni consegnate

Nel 2001 l’Italia sgomitava per mandare 600 soldati al posto dei 200 richiesti e Berlusconi prometteva a Karzai fondi e tecnologie per far resuscitare la tv nel suo paese: TeleKabul faticava ad accreditarsi con George W. Bush, e il premier Berlusconi non era ancora l’Amico con la A maiuscola che da lì a poco si sarebbe palesato. Erano anche i giorni - è agli atti - in cui Berlusconi propose ad Hamid Karzai, appena messo a capo di un’amministrazione provvisoria di una terra in macerie che ancora non si era dotata di un vero governo, aiuti economici e tecnici per far resuscitare la tv e la radio del suo paese distrutto. «Mai avrei pensato di partecipare alla fondazione di TeleKabul», diceva scherzando. E infatti non se fece nulla. Ma erano i tempi in cui la Germania voleva inviare 1200 uomini e gli venne risposto “picche” perché quel numero avrebbe costituito la metà

ieri da alcuni funzionari dell’Onu in linea con la denuncia di Peter Galbraith, ex numero 2 della missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, sui brogli elettorali e sulla falsità delle elezioni afgane.

Obama tentenna fra la richiesta di un innalzamento delle truppe e la ricerca di una soluzione per quello che sempre più spesso viene presentato come un “nuovo Vietnam”. Il nostro ministro della Difesa, La Russa, ha appena fatto sapere di escludere l’invio di nuove truppe e il parlamento olandese ha appena approvato la ritirata dall’Afghanistan nel 2010, la prima vera defezione dall’Alleanza. Per farla breve: iniziata nel 2001 come offensiva contro lo stato ta-

lebano che ospitava Bin Laden, la guerra in Afghanistan è giunta a una temperatura critica. Temperatura che non migliora e che ha visto estendere la lotta al Pakistan, dove l’offensiva dopo i bombardamenti sulla valle dello Swat - si sta spostando nella regione del Waziristan. Finiti i tempi del “vengo io, vengo io”, tutti cercano un modo indolore (che ovviamente non c’è) per salvare la faccia e uscire dalla tragedia Af-Pak il più velocemente possibile. Tutti, e noi italiani sembriamo averlo scoperto solo da poco con la morte dei nostri 6 soldati della Folgore a Kabul - contiamo delle dolorose perdite. Su quasi duemila e ottocento soldati italiani in Afghanistan (al netto dei rinforzi inviati durante il pe-

riodo elettorale), abbiamo avuto ventuno morti. Uno su cento non è tornato.

Così, più o meno, il contingente francese (31 vittime su oltre tremila militari), quello olandese (21 caduti su 1770, australiano (11 su 1.100), romeno (11 su 1.025). Molto più alto il numero delle perdite per gli Usa e la Gran Bretagna, quasi un morto ogni quaranta soldati. La verità, quella che ormai si è disvelata a tutti, è che in Afghanistan c’è una guerra asimmetrica contro il terrorismo. Noi usiamo i carri armati, gli aerei, i Lince blindati (a cui non serve - così dice ogni militare mettere il rinforzo sulla torretta, come appena annunciato). Loro le mine, i kamikaze, la

I 21 ITALIANI MORTI I ventuno soldati che abbiamo perso in Afghanistan. In ordine cronologico e dall’alto a sinistra in senso orario: Giovanni Bruno (3 ottobre 2004); Bruno Vianini (3 febbraio 2005); Michele Sanfilippo (11 ottobre 2005); Manuel Fiorito e Luca Polsinelli (5 maggio 2006); Carlo Liguori (2 luglio 2006); Giuseppe Orlando (26 settembre 2006); Giorgio Langella e Vincenzo Cardella (26 settembre 2006); l’agente del Sismi Lorenzo D’Auria (24 settembre 2007); Daniele Paladini (24 novembre 2007); Giovanni Pezzulo (13 febbraio 2008); Alessandro Caroppo (21 settembre 2008); Arnaldo Forcucci (15 gennaio 2009); Alessandro di Lisio (14 luglio 2009); Antonio Fortunato, Matteo Mureddu, Davide Ricchiuto, Roberto Valente, Gian Domenico Pistonami, Massimiliano Randino (17 settembre 2009).


mondo

9 ottobre 2009 • pagina 9

Da guerra contro il terrorismo islamico a conflitto in difesa dei nostri valori

Italia, compleanno a Kabul Ma oggi siamo un altro paese La tensione è sempre più alta e non c’è giustizia per la professionalità dei nostri militari di Mario Arpino on si era ancora dissipata la polvere del crollo delle Twin Towers, che già il Presidente degli Stati Uniti, in un discorso di sette minuti, dichiarava guerra al terrorismo. La War on Terror, aveva detto, sarà lunga, difficile e di durata non determinabile. Non tutti avevano inteso bene quando aveva pronunciato la parola “guerra” e l’aggettivo “lunga”. Oggi, alla prova dei fatti, è assai più semplice comprendere cosa intendeva, e cosa ha lasciato in eredità al suo successore. Al di là di ogni perifrasi, le condizioni, le circostanze e i fatti hanno trasformato le operazioni in Afghanistan nel simbolo della difesa dell’Occidente dal terrorismo islamico, nella salvaguardia dei nostri valori. È quindi una sfida che non si può perdere. Per vincerla, tuttavia, è necessaria una strategia idonea ad evitare quella “guerra infinita” che, immaginata otto fa da Giulietto Chiesa, è ormai per tutti fonte di angoscia. L’Italia, in questo contesto, all’inizio ha preso con decisione la sua parte di impegno. Immediato impegno politico - anche se eravamo reduci da una contestata campagna per il Kosovo - ed impegno militare dichiaratamente dilazionato, almeno per quanto riguarda la componente terrestre, che è quella che ancora oggi, più delle altre, è sottoposta a sacrificio ed usura. Tuttavia, a causa di una politica altalenante, che per motivazioni di carattere interno non sempre alle parole può far seguire i fatti e di sovente dà purtroppo l’impressione di voler lanciare il sasso e nascondere la mano, in questi otto anni non sempre la resa in immagine ha dato giustizia alla professionalità dei nostri militari.

N

do la campagna aerea sarebbe ormai stata agli sgoccioli. Ciò nonostante i piloti degli AV8 Plus, tra i meglio addestrati delle nostre forze armate e dotati degli armamenti più sofisticati, partecipavano alle operazioni integrandosi in modo eccellente e suscitando l’ammirazione dei colleghi statunitensi.

Peccato, lo si è saputo dopo, che avevano l’ordine “italiano” di collaborare solo designando gli obiettivi, ma senza sganciare armamenti. Successivamente, il governo si riscattava agli occhi degli alleati, riuscendo nel febbraio 2002 a inviare a Khost, dove si dava la caccia agli ultimi talebani tra le montagne, un contingente addestratissimo

Ora che le carte sul tavolo sono chiare, c’è maggiore coerenza tra le espressioni della politica e il ruolo che ci è richiesto dagli alleati

guerriglia sfiancante. Loro si muovono e tendono imboscate. Noi pattugliamo ad occhi aperti e nervi tesi. Portiamo cibo, aiuti, occasioni di lavoro, ospedali alla popolazione civile. Sempre con un occhio alla mitraglietta. Offriamo aiuto sperando che la trappola quel giorno non scatti. A conti fatti c’è ben poco da chiarire: si tratta di questo. Si tratta - come ha ben

gono i soldati americani, britannici o francesi, niente del genere si trova nel caso degli italiani. Al massimo c’è qualche testimonianza dei civili che talvolta assistono agli scontri. E basta. La consegna è quella del silenzio. Nessuno può parlare, nessuno cerca di raccontarlo. E sì che gli atti di valore, gli eroismi in combattimento, ci sono stati e ci sono. Tutti i gior-

Su quasi duemila e ottocento soldati italiani impegnati nella missione (al netto dei rinforzi inviati durante il periodo elettorale), abbiamo avuto ventuno morti. Uno su cento non è tornato spiegato in un’intervista alcuni giorni fa Rosario Castellano comandante della Brigata paracadutisti Folgore e responsabile Isaf del Comando West con base ad Herat - «di un attacco armato al giorno», con gli insurgents (voce omnicomprensiva che vale per talebani, terroristi, guerriglieri e altro) che attaccano e i nostri che si difendono, come impongono gli ordini. E nel 99% dei casi agli insurgents va male. È la guerra signori, non la pace. Che facciamo anche noi, anche se non di dice. A dirla fuori dai denti, sono in molti a non poterne più di essere chiamati soldati di pace, mentre quelle che svolgono sono spesso missioni offensive che non possono raccontare. Infatti, mentre è possibile leggere ricostruzioni, anche accurate - e sovente a caldo - subito dopo le battaglie che coinvol-

ni. Ma questa verità, che i cittadini italiani hanno ben compreso, è ancora coperta dall’omertà della politica. Ancora, dopo 8 lunghissimi anni.

Eppure c’è poco da disquisire e l’unica vera differenza sostanziale è che non siamo tecnicamente in presenza di guerra, perché la vittoria non comporta né la conquista del territorio né l’imposizione di sanzioni a tutto un popolo, ma solo la tutela della sua libertà e la consegna ad esso della sovranità dei suoi diritti. Queste le intenzioni, non è dato oggi sapere se ci si riuscirà. Certo la speranza resta alta. Ma perché questo obiettivo venga centrato e i sentimenti vivano oltre i riti solenni che le tragedie impongono, è necessario un pensiero forte e responsabile da parte dei nostri politici.

Qualche esempio, che prescinde dal colore dei governi in carica. A ottobre 2001 gli Stati Uniti, paghi della luce verde per l’applicazione dell’art. 5, avevano preferito al coinvolgimento dell’intera Alleanza accordi bilaterali con alcuni paesi membri, tra cui l’Italia. Avevamo offerto un pacchetto di forze ben dimensionato, approvato dal Parlamento ai primi di novembre, comprendente le componenti terrestre, marittima e aerea, più i carabinieri. Di tutto questo, tuttavia, nella seconda metà di novembre - quando il grosso delle forze talebane era stato già sbaragliato dagli anglo-americani e dall’Alleanza del Nord - tra l’entusiasmo della folla al ponte girevole di Taranto e gli schiamazzi di Casarini e compagni che incitavano alla diserzione, si muoveva solo la Garibaldi, accompagnata dalla scorta e dalla rifornitrice di Squadra. Avrebbe impiegato alcune settimane a raggiungere le portaerei americane nell’Oceano Indiano, quan-

di alpini e di paracadutisti, autorizzati eventualmente anche a sparare. Era la prima volta per il nostro Esercito. Si trattava di Enduring Freedom, non c’era ancora l’Isaf, che si è poi sovrapposta con troppe regole e caveat. Riscatto solo parziale, perché anche questa volta il ritorno è stato sì di grande ammirazione per i soldati, ma anche di perplessità verso quei politici che, pur avendo votato nel novembre precedente in modo bipartisan l’offerta italiana, si erano divisi al momento di inviare davvero i soldati.

Per molti anni il nostro Afghanistan è continuato così - ricordiamo la difficoltà di dotare il contingente di mezzi adeguati nonostante il progressivo peggioramento della situazione tra mezze ammissioni, riserve, mistificazioni e reticenze circa il ruolo combat o non combat dei nostri militari. Ora che tutti i veli sulla vera natura del conflitto sono caduti, sembra di intravedere maggiore coerenza tra le espressioni della politica e l’effettivo ruolo che ci è richiesto dagli alleati. Ci piacerebbe tanto, in questa guerra che non possiamo non vincere, avvertire anche un plauso internazionale per i nostri politici, perché di quello per i nostri soldati non dubitiamo affatto.


panorama

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Treni. L’amministratore di Trenitalia chiede l’apertura dei mercati europei ma chiude quello italiano

Moretti, il «monopolista liberista» di Carlo Lottieri impossibile non concordare con Mauro Moretti, amministratore delegato di Trenitalia, quando sollecita l’Unione europea affinché proceda ad un’autentica liberalizzazione del trasporto ferroviario; e certamente è anche comprensibile che egli esibisca con soddisfazione i risultati della sua gestione. Intervenuto alla presentazione di un rapporto Ambrosetti sulle infrastrutture europee, Moretti ha chiesto che vi sia un’accelerazione nell’integrazione tra i diversi sistemi nazionali, in modo tale che chiunque possa andare ovunque: i francesi in Spagna, gli olandesi in Germania, e via dicendo. In fondo, basta pensare a cosa è successo quando sono venute meno (o quasi) le frontiere nel trasporto aereo: si è avuta l’esplosione del mercato e una vera e

È

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

propria “democratizzazione”, con tariffe finalmente alla portata di tutti.

Moretti ha ragione e certo sa quel che dice quando punta il dito contro un Paese come la Francia, che ancora una volta si rivela campione di statalismo. A Parigi il trasporto ferroviario

parlare fosse come il suo agire. In particolare, anche se nel suo intervento egli ha descritto l’Italia come il Paese più liberalizzato d’Europa, tutti sanno come il nodo da sciogliere – qui da noi – sia il legame tra Rfi e Trenitalia, tra la società proprietaria della rete (i binari) e la compagnia che ha ereditato i servi-

La nostra Rete ferroviaria rimane blindata, tanto che resta difficilissimo (anche alla nuova società di Montezemolo) fare concorrenza allo Stato (esattamente come l’approvvigionamento energetico o la distribuzione dell’acqua) sono cose troppo serie per essere lasciate al libero gioco della concorrenza. In Francia vi sono grandi scuole, dall’Ena all’École Polytechnique, da cui escono tecnocrati che per diritto divino si sentono chiamati a gestire i cittadini in ogni momento della loro vita: dalla culla alla tomba. Tuttavia Moretti non ha fatto della filosofia: da mesi sta provando a entrare nel mercato francese, ma trova di fronte a sé ostacoli insormontabili. Quindi si lamenta e noi siamo con lui. Però, meglio sarebbe che il suo

zi delle vecchie Ferrovie dello Stato. Moretti sta muovendosi con decisione nella sua opera di risanamento manageriale di Trenitalia e gli va dato atto, ad esempio, di essersi buttato con determinazione nella mischia del collegamento Milano-Roma (e in Alitalia, oggi, non hanno neppure gli occhi per piangere). Ma se volesse rendere più credibili i suoi appelli ad un’Europa liberalizzata, dovrebbe fare tutto il possibile per scindere davvero e definitivamente il collegamento tra Rfi e Trenitalia. In questo è curioso come si possa sostenere che quella dell’Italia è la realtà

europea più liberalizzata. Secondo Andrea Giuricin, ricercatore dell’Istituto Bruno Leoni, nel trasporto passeggeri la concorrenza è ancora inesistente, mentre nel settore merci si vedono alcuni segnali positivi dall’entrata di nuovi operatori. Siamo messi meglio della Francia, ma molto peggio del Regno Unito e della Svezia.

In particolare, secondo Giuricin, la mancanza di una chiara separazione tra gestore dell’infrastruttura e principale compagnia ferroviaria è un grave limite. Tra l’altro, è ormai all’orizzonte l’arrivo sulla scena della Ntv di Luca Cordero di Montezemolo. Da uno a due è un progresso, senza dubbio. Ma un sistema ferroviario aperto non può accontentarsi e deve soprattutto permettere che la rete sia davvero indipendente e non abbia occhi di riguardo per nessuno. Moretti va apprezzato per il suo lavoro di manager. Quando oltre a guardare le travi negli occhi dei francesi saprà guardare anche quelle che sono negli occhi degli italiani, lo apprezzeremo pure come propugnatore di un’economia concorrenziale.

A Napoli si scontrano CasaPound e collettivi. Ma gli uni hanno bisogno degli altri...

Compagni e camerati, amici-nemici Napoli il calendario invece di muoversi in avanti si muove indietro. Non si festeggiano i vent’anni della fine del comunismo e della caduta del Muro di Berlino, bensì gli anni di piombo. Ricorre quest’anno, infatti, il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Due decenni nei quali si è prima teorizzata la “fine della storia e l’ultimo uomo”, come fece Francis Fukuyama, e ci si è cullati nell’idea illusoria della pace perpetua e globale, e poi si passati al disordine mondiale e alla guerra globale per scoprire, come scrive Luigi Bonanate nel suo libro La crisi (edito da Bruno Mondadori) che il sistema internazionale vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino offre pochi saldi punti di riferimento perché il vecchio mondo dell’ideologia è finito, mentre il nuovo mondo è all’insegna della incertezza e dell’insicurezza. Tranne che a Napoli.

A

Se è caduto il Muro di Berlino, non è venuto giù il Muro di Napoli. Se nel mondo sono trascorsi venti anni dal 1989, a Napoli il tempo è trascorso sì, ma, come se si fosse “riavvolto”, all’indietro. Ma siccome la storia non torna indietro se non per metafora, quando la

storia si ripete, la seconda volta - come diceva Carlo Marx - è sempre una farsa. E che farsa. «Pestati militanti di CasaPound. Tornano i tempi dei picchiatori» titolava ieri il Corriere del Mezzogiorno. Mentre il giorno prima l’apertura del quotidiano era stata dedicata al pestaggio di un rappresentante studentesco di sinistra all’uscita di scuola: il Margherita di Savoia di salita Pontecorvo. A Napoli siamo nel pieno degli anni Settanta del secolo scorso. I giovani “rossi” e i giovani “neri”si disprezzano, ma si cercano, si inseguono e si picchiano, si attraggono e si respingono come tutti quegli individui e quei gruppi che si odiano e si amano perché per esistere hanno bisogno di un Nemico nel quale specchiarsi. Gli antifascisti si mobilitano contro CasaPound e chiedono che il

convento Materdei sia liberato, ma la loro cultura antifascista è tenuta in vita proprio dall’occupazione dei “fascisti del terzo millennio”. A loro volta, i fascisti si confermano e si rassicurano nella loro identità fascista proprio grazie alla mobilitazione della Rete antifascista contro CasaPound. I “rossi” e i “neri” sono mossi da “astratti furori”: dietro le loro posizioni, le loro parole d’ordine e disordine, il loro linguaggio e il loro conato politico non ci sono né bisogni né ideali ma solo, appunto,“furori astratti” che la storia del Novecento ha dissolto e superato quando, finendo nel 1989, ha chiuso la tragica epoca delle nuove guerre di religione europee e dei totalitarismi di destra e di sinistra. La gioventù napoletana, anche a causa di una politica che ha giocato e continua a gio-

care sugli anacronismi, è ancora prigioniera della storia del XX secolo e con i suoi demoni che non sono più fattori storici, ma, al massimo, scheletrici fantasmi sociologici.

Per uscire dal Novecento bisogna maturare una cultura non semplicemente antifascista o anticomunista, ma insieme antifascista e anticomunista. Vale a dire antitotalitaria. Norberto Bobbio lo diceva con una sintesi esemplare: tutti i democratici sono antifascisti, ma non tutti gli antifascisti sono democratici. E così si può ripetere: tutti i democratici sono anticomunisti, ma non tutti gli anticomunisti sono democratici. Perché ci sia una matura “religione della libertà” c’è bisogno che i democratici siano anti-totalitari e quindi disposti alla sincerità verso gli altri, ma anche verso se stessi. Ma se la gioventù vecchia di Napoli diventasse totalitaria non potrebbe più giocare agli anni di piombo e, guardandosi intorno, dovrebbe darsi da fare. Invece, è così comodo essere rassicurati dai luoghi comuni, dalle mezze verità, dalla storiografia partitica: è infinitamente più rassicurante, mentre la matura cultura anti-totalitaria ha un brutto difetto: è faticosa.


panorama

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Primarie. La politica del partito «contro» ha finito per togliere dall’agenda generale le proposte dei democratici

Il Pd va a congresso. Ma chi l’ha visto? di Antonio Funiciello e si pensa che l’attuale composizione del quadro politico e istituzionale (col più basso numero di gruppi parlamentari da tempo immemore) è frutto dell’iniziativa del Pd con la scelta di non fare alleanze “brancaleonesche” alle politiche dello scorso anno, vedere come questo partito se la passa oggi è a dir poco sconcertante. La nascita del Pd aveva rappresentato, nel centrosinistra, una risposta al naufragio del governo dell’Unione e, nel centrodestra, lo stimolo maggiore (un obbligo, di fatto) a dar vita al Pdl.

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Una semplificazione del quadro politico che rispondeva a un’esigenza espressa in mille modi dai cittadini e per anni bellamente ignorata dall’intero arco istituzionale. Quella centralità, assunta nello scenario politico fino a pochi mesi fa, è oggi ridotta a una marginalità di idee e posizionamenti sorprendenti, considerato il poco tempo trascorso. Mentre il dibattito pubblico è animato dal rilancio dell’iniziativa politica di Casini, che punta con successo ad essere l’ago della bilancia alle prossime regionali,

L’iniziativa costante di Casini e la prospettiva di lavoro di Montezemolo hanno fatto passare in secondo piano l’appuntamento di domenica dalla nuova associazione di Montezemolo che fa il punto sull’immobilità sociale del sistema-paese e dall’esercizio critico quotidiano di Fini, il Pd continua a limitarsi ad additare a Berlusconi come all’anticristo, salvo poi favorire con l’assenza dei suoi parlamentari l’approvazione dei suoi disegni

di legge più controversi. Il Pd è in un angolo, tornato come i vecchi Ds e la stessa Margherita a dare rappresentanza sociale a minoranze: solide minoranze (zoccoli duri), ma sempre minoranze. Non accenna a uscirne perché non mette più in discussione la sua constituency come pure aveva provato a fare

all’atto della sua nascita. Nell’ambito strategico della scuola e dell’università è tornato a rappresentare i docenti, facendosi portavoce parlamentare del sindacalismo di categoria. La contestazione dei tagli della Gelmini e la difesa a oltranza di insegnati precari che, nonostante le loro tristi vicende personali, alla scuola non servono, ha dirottato l’attenzione del Pd dalla richiesta delle famiglie italiane di un sistema scolastico migliore che produca diplomati e laureati più competitivi nel mercato globale. Nell’industria, dopo aver mostrato finalmente attenzione per l’universo della piccola e media impresa del Nord-Est che vota compatta a destra, la tentazione di tornare ad accreditarsi presso i salotti buoni della borghesia industriale sta neutralizzando quanto nella giusta direzione di intelligente era stato fatto. L’atteggiamento nei confronti delle banche è ritornato remissivo e l’attacco ai provvedimenti fiscali del governo è ormai ricondotto nei registri ideologici di quella lotta all’evasione senza quartiere che dovrebbe finanziare tutto quanto proposto in alternativa a Berlusconi.

Il congresso che poteva essere l’occasione di riscatto della capacità del Pd di stare sul pezzo, al momento non ha prodotto granché. Anzi, il richiamo talora ossessivo alle culture di riferimento del passato segnala meglio - ammesso che ce ne fosse bisogno - la balbuzie di cui il gruppo dirigente del partito è affetto. Il campo del centrosinistra, che aveva trovato nel progetto del Pd il luogo privilegiato dell’investimento delle energie politiche del futuro, è tornato all’eterno bivio tra continuità e discontinuità del nuovo corso con le esperienze “riformiste” del passato. Intanto, l’Italia vera è altrove, parafrasando Rimbaud, e pare sempre meno disposta a dare ascolto e credito a un ceto politico che si parla addosso. Un peccato, soprattutto considerando che nel mondo la sinistra che si dice “democratica” (e non “socialdemocratica”) miete vittorie elettorali, candidandosi a un ruolo di guida per il quale il centrodestra mondiale, dopo le sconfitte in America e in Giappone, comincia ad apparire meno predestinato di quanto negli anni scorsi fosse stato da molti vaticinato.

Polemiche. Offendendo in tv Rosy Bindi il premier mostra i contorni della sua cultura maschilista

Il Cavaliere che odia le donne belle di Roselina Salemi osy Bindi, vicepresidente della Camera non ha bisogno di difensori d’ufficio, se la cava benissimo da sola. È passata attraverso feroci polemiche, ai tempi della sua riforma sanitaria (1999) per non parlare di quelle, più recenti, sui Dico, ed è ancora qui. È tosta e non la fai fuori tanto facilmente. A Porta a Porta era l’unica donna in studio. Ma la crudele battuta del premier, nella sua diretta telefonica («Lei è più bella che intelligente»), crudele perché rivolta a una signora che non è mai stata miss Parlamento, non ha un passato da showgirl ed esibisce senza problemi gli anni e i capelli bianchi, l’ha un po’ spiazzata. È riuscita a rispondere: «Evidentemente io sono una donna che non è a sua disposizione».

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del Consiglio ha dimostrato di essere più alto che educato». Nella corsa alla solidarietà da parte delle donne del Pd (Marina Sereni, Barbara Pollastrini, Anna Finocchiaro) con relativa richiesta di scuse a Berlusconi c’è tutto il contorto problema del momento: che cosa sono, che cosa devono essere le donne in politica? Devono essere militanti, certo, ma carine, meglio

Dietro alla volgarità di Berlusconi si nasconde un problema più grave e contorto: che cosa sono e che cosa devono essere le donne in politica

Pensava fosse finito il tempo delle allusioni, parlava non di gossip, ma di Costituzione e di regole istituzionali. Il risultato, dopo il gelo dello studio televisivo, dove nessuno è riuscito a ribattere, né stato curioso. Una valanga di battute. La più carina è di Giovanna Melandri: «Il Presidente

ancora se hanno un tocco sexy. Oggetti e non soggetti. Non risulta invece che gli uomini chiamati a occupare seggiole e poltrone, siano stati scelti perché hanno, tra l’altro, una faccia “gradevole” (ce ne sono anche di bruttissimi e poco televisivi: bocche storte, canini appuntiti, per non parlare della pancia). A nessun politico è mai stato detto: «Lei è più bello che intelligente», intanto perché il tipo alla Raoul Bova è tragicamente assente dal Parlamento, e poi perché si suppone che il giudizio sulla bellezza sia un po’ il lato debole della femminilità. Quella che rincorre il tempo e le ru-

ghe. Quella che segue il gioco della seduzione, anche alla Camera.

Ne ha viste tante, Rosi Bindi. Quando nel 1996 era ministro della Sanità, i giornali recensivano i suoi severi tailleur e con l’aiuto dei fotomontaggi, si divertivano a rifarle il guardaroba anche in versione seduttrice. C’era il minuscolo cartonato: «Vesti Rosy Bindi», come se si trattasse di una Barbie, finito in chissà quale soffitta. Lei ci rideva sopra: ha il senso dell’ironia. Eppure, sorpresa, una storia come la sua, cominciata lontano, con l’azione Cattolica, nel 1984 e passata attraverso la Democrazia Cristiana, il Partito Popolare, L’Ulivo, la Margherita per arrivare al Pd può essere liquidata con distante noncuranza e un pizzico di arsenico. La bellezza è un buon passaporto quasi per tutto, ormai, dalle liste elettorali alla Casa del Grande Fratello, ma senza intelligenza in politica non si sopravvive. E Rosy Bindi l’intelligenza ce l’ha.


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a si può fare, insomma, la storia con i “se” e con i “ma”? Bastardi senza gloria, il film di Quentin Tarantino che sta spopolando ai botteghini italiani dopo aver già mietuto successi negli Stati Uniti e aver impressionato il Festival di Cannes, è, allo stesso tempo, una trasposizione dei tipici temi tarantiniani allo scenario della Seconda Guerra Mondiale. Un omaggio a quel filone di film italiani sulla Seconda Guerra Mondiale che gli americani chiamano Macaroni War. Una reazione immaginifica al trauma della Shoà, così tarantinianamente spiazzante da poter deliziare filo-israeliani e antisemiti allo stesso tempo. Un’orgia di citazioni cinefile tale da far perdere addirittura di vista se si tratta di cinema d’autore che strizza l’occhio a quello di “serie B”, o viceversa. E, soprattutto, una pellicola d’azione, tanto per far trascorrere in modo piacevole i 153 minuti del film. Tante cose, insomma. Ma non un esercizio di quella che gli appassionati del genere chiamano ucronia: termine coniato addirittura nel 1857 in un saggio del francese Charles Renouvier. Che era un filosofo neocriticista, che aveva nostalgie per l’Impero Romano e il classicismo pagano alla Voltaire e Gibbon, e che svolse dunque la sua «storia apocrifa dello sviluppo della civiltà europea, quale avrebbe potuto essere e non è stata» partendo da questa ipotesi: «se gli Antonini fossero riusciti a cancellare il cristianesimo dall’Impero Romano».

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Secondo lui, l’Europa si sarebbe risparmiata guerre di religione e odi nazionalisti, e vivrebbe oggi, o meglio ai suoi tempi, in un’ideale utopia di pace e giustizia sociale. Ma il genere non ancora definito, a veder bene, risale addirittura a Tito Livio, e alle sue ipotesi di che sarebbe successo se Alessandro Magno avesse progettato di fare conquiste a ovest invece che a est. Tra Livio e Renouvier va citata per lo meno la Storia della Toscana sino al principato scritta da Lorenzo Pignotti e pubblicata postuma nel 1813, un anno dopo la sua morte: immagina un Lorenzo il Magnifico che sopravvive al 1492, difende l’Italia dalle invasioni straniere e riesce addirittura a impedire la riforma protestante. E anche quell’Histoire de la Monarchie universelle: Napoléon et la conquete du monde (1812-1832) con cui nel 1836 Louis Geoffroy immaginò l’esito di una conquista napoleonica della Russia. Dopo l’invenzione del termine ci sa-

il paginone “Bastardi senza gloria” ripropone il gioco della storia fatta con i “se”

Kill Adolf

Nel suo nuovo film, Tarantino fa uccidere Hitler nel 1944. Come sarebbe cambiata l’Europa? Viaggio nel mondo letterario e cinematografico dell’ucronia, da Tito Livio a Philip K. Dick di Maurizio Stefanini rebbe stata poi quella famosa antologia If It Had Happened Otherwise, “Se la storia fosse andata diversamente”, commissionata nel 1931 dallo storico britannico John Colling Squire a una serie di personalità della politica e della cultura. Winston Churchill vi immaginò, ad esempio, una vittoria sudista a Gettysburg; Gilbert Keith Chesterton un matrimonio tra il vincitore di Lepanto Don Giovanni d’Austria e Maria Stuarda; André Maurois un Luigi XVI «con un po’ di fermezza»; George Macaulay Trevelyan un Napoleone vincitore a Waterloo; Alan John Percival Taylor un Arciduca Fernando che non avesse amato sua moglie, e non fosse dunque andato a Sarajevo per compensarla con qualche omaggio delle autorità locali delle continue umiliazioni ricevute in quanto sposa morganatica...

Negli ultimi anni il genere è letteralmente dilagato, e fare un panorama completo richiederebbe un’ enciclopedia. È però da ricordare per lo meno La svastica sul sole di Philip K. Dick, su una vittoria dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale, per essere unanimemente considerato il capolavoro del genere. E poi, per venire da autori Nobel o in odore di Nobel, Storia dell’Assedio di Lisbona di José Saramago, con i mori che restano in possesso della città; e Il complotto contro l’America di Philip Roth, sul filo-nazista Charles Lindbergh che nel 1940 è eletto presidente degli Stati Uniti al posto di Franklin Delano Roosevelt. In Italia un grosso nome che si è cimentato nel filone è stato Guido Morselli, con quel Contro-passato prossimo in cui immagina la vittoria austro-tedesca nel-

la Prima Guerra Mondiale. Mentre altri titoli famosi sono stati da noi quello di Garibaldi a Gettysburg, di Pierfrancesco Prosperi: Garibaldi che diventa effettivamente comandante dell’esercito nordista, secondo una storica intenzione di Lincoln; ma non si prende con i locali, finendo così per provocare una vittoria sudista, mentre al termine di una Terza Guerra d’Indipendenza senza Camice Rosse il Veneto resta all’Austria. I biplani di D’Annunzio, di Luca Masali: inizio di una trilogia su una Prima guerra Mondiale che continua fino agli anni ’Venti, per colpa di interferenze dal futuro. Occidente di Mario Farneti: altra trilogia, sul fascismo che sopravvive grazie alla scelta di rimanere neutrale nella Seconda Guerra Mondiale, per poi inserirsi in modo decisivo nell’immediato contrasto subito scatenatosi a fine conflitto tra occidentali e sovietici. E anche 1943 Come l’Italia vinse la guerra di Giovanni Orfei.

Il termine fu coniato nel 1857 in un saggio del francese Charles Renouvie, un filosofo “neocriticista” nostalgico dell’Impero Romano e del classicismo pagano alla Voltaire e Gibbon Pure da segnalare, a livello nazionale, quell’antologia a cura di Gianfranco De Turris Se l’Italia. Manuale di storia alternativa da Romolo a Berlusconi, che rappresenta un po’ la nostra risposta a If It Had Happened Otherwise: se Roma l’avesse fondata Remo, se Dante non avesse scritto la Divina Commedia, se Leonardo avesse effettivamente costruito le sue macchine volanti, se l’esercito italiano fosse giunto a Trento nel 1917, se Mussolini fosse stato ucciso dopo l’udienza con il re il 25 luglio, se il Grande Torino non fosse perito a Superga, se Enrico Mattei non fosse morto nell’incidente aereo, se l’attentato a Papa Wojtyla fosse riuscito... Ma, appunto, l’Ucronia è il regno del “se”. Un caso particolare di quel particolare schema letterario che si può far risalire a Edgar Allan Poe, e che consiste nello svolgere con la mas-

sima logica e coerenza un ragionamento a partire da un postulato assurdo, o semplicemente immaginario.

Ipotesi assurda: immaginiamo che esistano abitanti su Marte e che possano arrivare sulla Terra grazie alla loro superiore tecnologia. Svolgimento logico di Herbert George Wells nella Guerra dei mondi: si comporterebbero con noi esattamente come noi europei ci siamo comportanti con i popoli “inferiori” con cui siamo venuti a contatto nei nostri viaggi di esplorazione, sottoponendoli a guerre di conquista e di sterminio. Ipotesi assurda: immaginiamo un pianeta sul quale la notte viene solo una volta ogni 2000 anni. Svolgimento logico di Isaac Asimov in Notturno: gli uomini impazzirebbero, non avendo mai avuto esperienza del buio. Ipotesi assurda: immaginiamo che sia disponibile un cannone in grado di lanciare un proiettile fino alla Luna. Svolgimento logico di Jules Verne in Dalla Terra alla Luna e Intorno alla Luna: e allora gli uomini lo userebbero per un viaggio di esplorazione. A neanche un secolo di distanza questa terza ipotesi ha cessato di essere assurda, e il viaggio è stato effettivamente fatto. Tra l’altro, con modalità soprendentemente simili a quelle immaginate: iniziativa statunitense; partenza dalla Florida; equipaggio di tre uomini; mancanza di gravità che fa galleggiare gli astronauti... Il procedimento viene un po’ dalla matematica, dove si ragiona a partire dei postulati, intesi come “verità talmente evidenti che non hanno bisogno di essere dimostrate”. Un po’ dalla filosofia, dove la “riduzione ad assurdo” è un antico argomento polemico, di dimostrare la falsità di un’idea attraverso le conseguenze aberranti a cui potrebbe portare.


il paginone

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“Bastardi senza gloria” non si pone i problemi classici della letteratura utronica. Tarantino non si chiede: che sarebbe successo se Hitler fosse stato eliminato circa un anno prima della sua morte effettiva? Ma si limita a mettere in scena questa storia alternativa con gran fragore spettacolare. E basta

risparmiare alla Germania l’occupazione, oltre a evitare un bel po’ di altri morti e distruzioni.

C’era infatti quel quinto postulato di Euclide, «Per un punto passa una ed una sola parallela ad una retta data», che non si riusciva a dimostrare in positivo, e per il quale dunque a partire dal XVIII secolo si iniziò a tentare la reductio ad absurdum. Invece, nacquero le geometrie non euclidee. Edgar Allan Poe, non va dimenticato, era un grande poeta, ma anche un abile matematico.

Ma torniamo ai Bastardi senza gloria. È la storia di un gruppo di militari alleati di origine ebraica che tra 1941 e 1944 si infiltra nella Francia occupata a vendicarsi dei nazisti. Ne uccidono in quantità, prendendo loro lo scalpo e lasciando solo qualche sopravvissuto con una svastica impressa in fronte col coltello. E alla fine in un cinema di Parigi fanno fuori Hitler e l’intera sua diri-

Nel 1931 John C. Squire chiede a personalità della politica e della cultura (Churchill, Chesterton, Belloc e Maurois) di cimentarsi nelle ricostruzioni ipotetiche di alcuni snodi storici cruciali genza, mitragliandoli e bruciandoli in un rogo di pellicole. Appena dell’anno scorso è l’altro film di successo Operazione Valchiria: anch’esso ambientato nel 1944, ma basato sulla storia vera di come fallì un complotto di alti gradi tedeschi per uccidere il Führer e evitare la rovina della Germania. E le due storie speculari, come Hitler fu ucciso nella fantasia e come invece non fu ucciso nella realtà, sono poi ulteriormente avvicinate dal fatto di avere a protagonisti la famosa coppia di Intervista con il vampiro: Tom Cruise per l’Operazione; Brad Pitt per i Bastardi. Nessuna delle due storie però è in realtà un’ucronia. E, paradossalmente, semmai al genere può far tendere più la visione del film storico che non di quello fantastico. Che sarebbe successo se, infatti, è esattamente l’esercizio mentale che fecero i congiurati: immaginando che togliere di mezzo il dittatore avrebbe potuto consentire una pace negoziata tale da

Retrospettivamente, si può ritenere che un successo dell’Operazione Valchiria avrebbe anche risparmiato alla Germania i 45 anni di divisione, e anche qualche sacrificio territoriale. Ma sul primo rischio i congiurati non potevano allora avere una precisa percezione, e sul secondo non ci sono riscontri possibili. È anche sostenibile che una pace nel 1944 avrebbe evitato la lunga e penosa parentesi comunista nell’Europa Orientale? Questo è meno sicuro. È perfino possibile che la resa tedesca a Est un anno prima avrebbe finito per accelerare la penetrazione sovietica, piuttosto che prevenirla. E poi, è pure notorio che mentre la propaganda sovietica salutò subito i cospiratori come eroi, i dirigenti Alleati si mantennero freddi, nel timore di una replica dello scenario del 1918: quando i militari tedeschi avevano mandato i politici a trattare la resa, salvo poi dire che l’esercito era stato costretto a ritirarsi invitto, e coltivare quella leggenda della “pugnalata alle spalle” da cui poi si era alimentato il revanscismo nazista. Insomma, gli Anglo-Americani avrebbero chiesto la resa incondizionata comunque: così come l’avevano imposta a Badoglio, al rischio poi verificatosi di consegnare più di mezza Italia ai tedeschi. Mentre Stalin cercava a tal punto ogni occasione per inserirsi, e d’altronde la proposta di una Germania unita ma finlandizzata avrebbe continuato a essere agitata dalla diplomazia di Mosca pur molti anni, pur di impedire l’adesione della Repubblica Federale alla Nato. Insomma, a parere di chi scrive uno scenario veramente alternativo avrebbe

potuto verificarsi probabilmente solo se Hitler fosse stato ucciso un bel po’ prima del 1944. Come minimo, nel 1941 o nel 1942. Ma, ovviamente, il dibattito è aperto. I Bastardi senza gloria, però, non si pongono questi problemi. Tarantino non si chiede: che sarebbe successo se Hitler fosse stato eliminato circa un anno prima della sua morte effettiva. Mette in scena questa storia alternativa con gran fragore spettacolare, e basta. Non rispetto delle regole?

Al contrario: sono queste le regole più antiche. Furio Camillo che, torniamo al racconto di Livio, sconfigge sul campo un’invasione gallica che in realtà molto probabilmente si ritirò invece da sola, riportandosi via un pingue bottino. O, scenario anche qui speculare, il villaggio di Asterix di Goscinny e Oderzo che continua a resistere anche dopo la conquista della Gallia. Il Re Artù di Goffredo di Monmouth che se ne va tranquillamente a occupare Roma. I Mori che nell’Orlando Innamorato di Boiardo e nell’Orlando Furioso di Ariosto assediano addirittura la Parigi di Carlo Magno (notoriamente con capitale a Aquisgrana...). La Giovanna d’Arco di Giuseppe Verdi che muore in battaglia invece che sul rogo. La restaurazione del potere del Senato dopo la morte di Commodo nel Gladiatore. Fino all’Opera dei Pupi, con il suo inestricabile groviglio tra epopee carolingia, normanna e crociata. È del poeta il fin la meraviglia, ricordava il Cavalier Marino. Che, guarda un po’, ci fa pure rima, con Tarantino.


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Anniversario. A Sopron, cittadina di frontiera con l’Austria, fu aperto un varco nello sbarramento che divideva l’Europa in blocchi

Il primo colpo al Muro Ungheria 1989: cade la cortina di ferro e comincia la fuga dei tedeschi dell’Est di Enrico Singer opron è una cittadina medievale con il centro storico a forma di ferro di cavallo e i dintorni, attraversati dal ruscello Ikva, immersi nel verde delle pendici di monti Lover. Un paese da cartolina nella regione del Transdanubio settentrionale: quella che segna il confine tra l’Ungheria e l’Austria.Vienna è appena a 70 chilometri, Budapest è a 200. Oggi le auto sfrecciano veloci lungo l’autostrada E66. Ma una volta da qui passava la cortina di ferro. Che non era soltanto un’immagine forte inventata da Winston Churchill nel 1946 in un famoso discorso pronunciato a Fulton, nel Missouri, al fianco del presidente americano Harry Truman, per definire la divisione dell’Europa in blocchi contrapposti «dal Baltico ai Balcani, da Stettino a Trieste, una cortina di ferro è scesa sul nostro continente» era anche un vero e proprio sbarramento fatto di filo spinato, torrette d’avvistamento, varchi con le sbarre e le guardie di confine armate di mitra. Se a Berlino c’era il muro, negli altri Paesi dell’Est c’era questa lunghissima muraglia metallica, in molti tratti elettrificata, con sistemi d’allarme e riflettori per illuminarla a giorno anche di notte che ognuno dei

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governi delle Repubbliche Democratiche e Popolari, come si chiamavano allora, doveva tenere in efficienza a proprie spese per sigillare la frontiera esterna che l’Unione Sovietica aveva messo tra sé e i suoi sudditi e il mondo occidentale. All’Ungheria toccavano 260 chilometri di cortina di ferro che assorbivano anche molti milioni di fiorini da un bilancio già asfittico. Ed è proprio qui a Sopron che è cominciata la sua fine. Prologo del-

greto del Politburo, il premier Miklos Németh andò a Mosca a informare il Cremlino che l’Ungheria avrebbe cominciato a smantellare i reticolati e ne ottenne il consenso. Gorbaciov aveva appena ufficialmente sepolto la dottrina della sovranità limitata dei Paesi della sfera comunista – quella che, proprio in Ungheria, aveva giustificato la repressione sanguinosa della rivolta del 1956 – e non poteva smentirsi. Ma quando il colon-

Quando il colonnello Balazs Novaki tagliò i primi tronconi di filo spinato temeva che i soldati sovietici sarebbero intervenuti. Nessuno si mosse perché Gorbaciov da Mosca aveva dato il consenso la caduta del muro e di tutto l’impero comunista, vent’anni fa, il quel 1989 che ha cambiato la storia dell’Europa e del mondo.

nello della Guardia di frontiera, Bálazs Nováki, tagliò i primi tronconi di filo spinato, tutti stavano col fiato sospeso perché temevano che, nonostante le promesse di non ingerenza, le truppe sovietiche di stanza poco lontano sarebbero uscite dalla loro base. E invece nessun soldato russo si mosse.

La decisione di aprire il primo varco nella cortina di ferro fu presa in estate dal governo di giovani riformatori gorbacioviani che, ancora all’interno del partito comunista ungherese, avevano rovesciato l’anziano numero uno, Janos Kadar, con un vero e proprio colpo di mano al congresso del Pc. La pattuglia dei riformatori (Imre Pozsgay, Miklos Németh e Gyula Horn) aveva avviato rifor-

A smontare letteralmente la cortina di ferro furono gli stessi uomini della Hatráoerség, la guardia di frontiera temuta dai fuggiaschi fino al giorno prima. Arrivarono con i bulldozer e i loro verdi camion Zil russi. Impiegarono anche le gru per estirpare dal terreno i pali alti tre metri che sorreggevano i reticolati della cortina che per quasi mezzo secolo aveva isolato il Paese e tenuto prigionieri i suoi abitanti. Su tredicimila

me in ogni campo: dall’economia alle libertà civili. Trasportando anche in Ungheria la perestrojka e la glasnost di Mikhail Gorbaciov. Dopo un consulto se-

tentativi di fuga attraverso quel confine, ne erano riusciti appena quattrocento. In pochi giorni Sopron fu presa d’assalto dagli austriaci che passavano la frontiera per fare la spesa moltiplicando il valore dei loro scellini. E che ribattezzarono la cittadina Shop-ron proprio perché era diventata un grande negozio a buon mercato. Ma se gli

ungheresi furono più cauti e timorosi di spingersi in Occidente, anche perché non ne avevano i mezzi, Sopron divenne presto il punto di passaggio preferito dai tedeschi dell’Est che, finalmente, riuscirono a raggiungere, attraverso il varco con l’Austria, la Germania Ovest, dove avevano parenti e amici che li spettavano da anni e che potevano anche ospitarli e sostenerli materialmente. A settembre, Budapest fu letteralmente invasa da migliaia di tedeschi dell’Est in fuga – complessivamente furono 50mila ad aggirare così il muro di Berlino – che arrivavano con le loro Trabant fumanti (le utilitarie

prodotte nella Rdt che marciavano a miscela) o con il treno. Alla fine di settembre il nuovo governo ungherese abrogò il trattato con la dittatura di Erich Honecker sull’obbligo di riconsegnare i fuggiaschi e in quella frontiera senza più filo spinato, il popolo in fuga dal muro trovò il primo varco. Honecker e il tiranno romeno Ceausescu chiesero invano a Gorbaciov d’invadere l’Ungheria, di chiudere la falla aperta nella cortina di ferro. Ma il loro potere sarebbe sopravvissuto soltanto poche settimane a Berlino (il muro cadde nella notte del 9 novembre) e fino alla fine dell’anno a Bucarest do-


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la rivolta partì sull’onda della destalinizzazione che era stata avviata nell’Urss da Nikita Krusciov con il suo discorso di fronte al 22° congresso del Pcus, il 25 febbraio di quell’anno. Stalin era morto nel 1953 e nel partito comunista sovietico era cominciato un processo di critica ai metodi dittatoriali del “piccolo padre” della rivoluzione bolscevica e al suo culto della personalità che a Budapest suscitò grandi speranze di riforma del sistema e provocò la caduta, in giugno, del dittatore Mátiás Rákosi che era lo Stalin dell’Ungheria.

ve il conducator Nicolae Ceausescu e sua moglie furono fucilati il 25, il giorno di Natale. A Mosca la bandiera rossa sarebbe stata ammainata dalle cupole del Cremino nella notte del Natale del 1991. Questi grandi sconvolgimenti hanno fatto quasi dimenticare che tutto è cominciato proprio nella cittadina ungherese di Sopron. E in Ungheria in generale dove il 23 ottobre - anniversario della rivolta del ’56, primo tentativo di liberarsi dal regime comunista - fu abolito l’appellativo di “Popolare”dalla definizione della Repubblica e furono indette libere elezioni.

Se l’Ungheria fu il primo Paese a smantellare la cortina di ferro, l’effetto-domino della fine dei regimi comunisti nell’Europa orientale era partito dalla Polonia e da quella che ancora si chiamava Cecoslovacchia. In Polonia il processo di democratizzazione era cominciato molto prima (nel 1980), con la nascita di Solidarnosc, il sindacato libero animato da Lech Walesa nei cantieri navali Lenin di Danzica, e si era concluso con le elezioni del giugno 1989 che videro il crollo del partito comunista. In realtà, la Tavola rotonda che il regime aveva concesso all’opposizione aveva escogitato un sistema elettorale che avrebbe dovuto garantire ancora il potere ai comunisti perché soltanto un terzo dei deputati della Camera potevano essere eletti con il voto popolare. Ma per il Senato il voto era completamente libero e il risultato fu che all’opposizione andò il 90 per cento dei suffragi. In Cecoslovacchia fu Charta 77 a mettere in moto la

Nella foto grande, il crollo del Muro a Berlino. Da sinistra: Mikhail Gorbaciov, il centro di Sopron, Winston Churchill, Imre Nagy, Lech Walesa e tre immagini della cortina di ferro che divideva in due l’Europa

Il 23 ottobre, nell’anniversario della rivolta del 1956, a Budapest fu proclamata la Repubblica indipendente dall’impero comunista. Il 9 novembre veniva abbattuto il simbolo della divisione di Berlino svolta col suo manifesto per i diritti umani. Ma la “rivoluzione di velluto” cominciò soltanto il 16 novembre 1989 – quando Polonia e Ungheria si erano già liberate del regime comunista – con una manifestazione studentesca pacifica a Bratislava. Il giorno dopo una manifestazione analoga fu caricata sanguinosamente dalla polizia a Praga e quell’evento scatenò una serie di dimostrazioni popolari e uno sciopero generale. Già il 20 novembre i dimostranti in piazza a Praga passarono da 200mila a quasi un milione. Il Partito comunista annunciò che avrebbe rinunciato al monopolio del potere e, il 5 dicembre, fu smantellata anche qui la cortina di ferro lungo il confine con la Germania Ovest e l’Austria. Il 10 dicembre il presidente comunista Gustáv Husák nominò un governo in buona parte indipendente e si dimise. Alexander Dub\u010Dek fu eletto presidente della Camera

mentre Václav Havel, lo scrittore che aveva animato Charta 77, divenne presidente della Repubblica.

A Praga la“rivoluzione di velluto” fu la rivincita della sfortunata Primavera di Praga del 1968 nata dal primo sogno riformatore di Alexander Dub\u010Dek e repressa dai carri armati russi che intervennero sotto le insegne del Patto di Varsavia nella notte tra il 20 e il 21 agosto. A Budapest l’abbattimento della cortina di ferro e la successiva, definitiva liberazione dal sistema sovietico e dal regime comunista, fu la rivincita di un’altra rivolta schiacciata più di trent’anni prima. Quelli che comunemente sono definiti i “fatti d’Ungheria”, che aprirono profonde crepe nella galassia comunista mondiale, furono il primo tentativo – che durò appena 14 giorni, dal 23 ottobre al 5 novembre del 1956 – di reintrodurre la democrazia in uno dei Paesi dell’impero costruito da Mosca. Nel ’56

Cominciò così la breve stagione riformista guidata dal primo ministro Imre Nagy, anche lui membro del pc, ma profondamente convinto della necessità di un’apertura democratica del regime. Quando, il 23 ottobre, decine di migliaia di persone scesero in piazza e distrussero anche l’enorme statua di Stalin che dominava, in piazza Felvonulási, il palco delle sfilate, Imre Nagy decretò la neutralità del Paese e la sua conseguente uscita dal Patto di Varsavia e istituì il sistema multipartitico. Ma, nonostante la destalinizzazione avviata a Mosca, il Cremlino decise l’intervento militare perché nemmeno Krusciov poteva ammettere lo strappo di Budapest. La repressione della resistenza che tentarono gli ungheresi fu violenta: ci furono centinaia di morti nelle strade, ventimila arresti e 220 condanne a morte, tutte eseguite. Fu condannato a morte per alto tradimento anche Imre Nagy e la sentenza fu eseguita il 16 giugno del 1958. Uno dei momenti-chiave del 1989 ungherese fu proprio la riabilitazione di Nagy e il funerale di Stato che gli fu tributato, nel giorno anniversario della sua fucilazione, al quale parteciparono decine di migliaia di persone. E non è davvero un caso se il nuovo governo democratico nato alla fine dell’estate del 1989 ha scelto la data del 23 ottobre – anniversario della rivolta del ’56 – per proclamare la Repubblica d’Ungheria e compiere l’ultimo passo per affrancarsi dall’impero comunista. Un passo arrivato in fretta dopo quel primo gesto compiuto a Sopron due mesi prima: il taglio della cortina di ferro. Oggi la cittadina è economicamente florida, legata alla vicina Austria. Gran parte dei cartelli stradali sono in ungherese e in tedesco. Per gli austriaci, in realtà, si chiamerebbe Ödenburg perché ai tempi dell’impero austro-ungarico qui non passava la frontiera. Adesso che l’Ungheria fa parte dell’Unione europea e che la pagina delle rivendicazioni territoriali e dei blocchi contrapposti è superata, anche gli austriaci utilizzano il nome ungherese Sopron. Che qualcuno continua a pronunciare, sorridendo, shop-ron per ricordare che qui, vent’anni fa, si veniva a fare la spesa.


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pagina 16 • 9 ottobre 2009

Uk. Il leader conservatore chiude la campagna elettorale a Manchester LONDRA. Ancora conservatori, ancora liberisti, ma lontani anni luce dai tempi della Thatcher. I Tories di David Cameron sono «moderni», «progressisti», «compassionevoli». E puntano all’elettorato moderato, che chiede un governo meno opprimente senza rinunciare alla garanzia dei servizi sociali di base. Nel suo discorso di ieri a Manchester, in chiusura dell’ultimo congresso conservatore prima delle elezioni politiche della prossima primavera, il leader tory vuole essere il Tony Blair conservatore: come Blair traghettò il Labour alla cultura del libero mercato, Cameron vuol dimostrare di aver portato i Tory ad accettare i fondamenti dello Stato sociale, pur rimanendo fedeli al principio di libertà e responsabilità individuale. Il grido di battaglia di Cameron è «meno governo», e non è solo una questione di soldi. È stata la politica statalista di Gordon Brown, i regolamenti scritti da lui quando Cancelliere dello Scacchiere, ad aver favorito la crisi. La logica del Labour, secondo cui «il governo è la risposta ad ogni problema» ha eroso il tradizionale senso di responsabilità del popolo britannico, spiega il quarantaduenne leader. La priorità assoluta è tagliare il debito, «che negli ultimi cinque anni è duplicato». Il piano di Cameron e dei suoi - va detto - in questo non si differenzia molto da quello annunciato dai laburisti a Brighton, una settimana fa. Anzi, Cameron invita i suoi ad uno sforzo di responsabilità, annunciando di voler mantenere la tassa di 50 centesimi che a breve Brown imporrà su tutti i redditi più alti di 150 mila sterline annue. E se il Labour ha promesso di tagliare i salari a Westminster e di congelare gli stipendi dei 750 mila funzionari di pubblica amministrazione meglio pagati, i Tory alzano la posta: bloccheranno gli aumenti per 5 milioni di lavoratori pubblici, salvaguardando solo i redditi inferiori a 16 mila sterline. «L’anno prossimo Gordon Brown spenderà più soldi per pagare gli interessi sul debito che per aiutare i bambini in condizione di povertà», rimarca Cameron, che conclude chiedendo: «Cosa c’è in questo di compassionevole e progressista?» L’attacco del leader tory contro il governo è tutto qui: da un lato la denuncia di una cultura statalista, dall’altro l’accusa di aver aumentato le diseguaglianze, tradendo le promesse. Cameron insiste: il partito conservatore è il partito della responsabilità e delle famiglie, non il partito dei ricchi. Il suo governo manterrà alcune conquiste del Labour, come la possibilità per le madri di lavorare

Cameron al centro: meno Stato per tutti Il giovane segretario scuote il partito e promette di mantenere viva la sanità di Lorenzo Biondi

Come Blair traghettò il Labour nel libero mercato, Cameron vuol dimostrare di aver portato i Tory ad accettare lo Stato sociale in modo flessibile nei primi anni di vita dei figli, o l’assistenza sanitaria gratuita per tutti. Come già aveva fatto Brown una settimana fa, Cameron richiama la propria vicenda personale come prova della sua buona fede. Ivan, il primogenito di David e dalla moglia Samantha, morì nel febbraio scorso, a sei anni, per una malattia celebrale congenita. «Quando devi correre al pronto soccorso nel cuore della notte con tuo figlio in braccio, il fatto di non dover controllare quanto soldi hai nella carta di credito ti fa capire che l’assi-

stenza universale è meglio di qualsiasi alternativa», racconta il leader. Il Labour ha cercato di trasformare il sistema in una macchina, accusa Cameron; «noi lo restituiremo alle persone», garantendo al paziente maggiore possibilità di scelta attraverso valutazioni costanti dell’operato dei medici. «Siamo noi il partito del sistema sanitario nazionale», rivendica il leader tory, rispondendo anche a chi - nel suo stesso partito, come l’europarlamentare David Hannan hanno definito il sistema «uno sbaglio lungo sessant’anni».

L’errore non sta nel proteggere i più deboli, ma nel trasformare il singolo aiuto in una cultura dell’irresponsabilità. Come annunciato nei giorni precedenti, Cameron ha promesso una stretta sull’assegnazione dei sussidi per l’invalidità. Il messaggio conservatore suona al limite tra la rassicurazione e

la minaccia: «Se davvero non puoi lavorare, ci prenderemo cura di te; ma se puoi lavorare, allora devi lavorare». Dal palco di Manchester il leader dell’opposizione spiega alla base del partito: dodici anni di governi laburisti hanno incatenato la passione britannica per la libera impresa. «Dobbiamo liberare quel potenziale», semplificando le procedure per avviare un’impresa, rendendo le regole più semplici. Il motto di Cameron è ottimista: «La fiducia in se stessi è contagiosa, vogliamo che si diffonda».

La modernizzazione del partito passa anche per l’accettazione della devolution lanciata nel 1997 da Blair. I centri del potere, a Londra, hanno dimostrato di essere soggetti al rischio di corruzione. Alla burocrazia di Whitehall, Cameron contrappone la decentralizzazione di poteri consistenti agli enti locali, per portare il governo vicino ai cittadini. E alla decentralizzazione a livello nazionale deve seguire quella al livello europeo. L’Unione europea qui è sinonimo di burocrazia, scarsa democraticità e distanza dai cittadini. Il leader conservatore corre su una linea sottile: da un lato è critico delle istituzioni di Bruxelles, come vuole il partito; dall’altro però deve far fronte a chi gli chiede di lanciare un referendum sul Trattato di Lisbona. Che andrebbe incontro ad una bocciatura sicura da parte degli elettori britannici, fortemente euroscettici.Cameron trova l’equilibrio rilanciando la proposta di un «opt out» del suo Paese dalla politiche sociali dell’Unione. Ma è un equilibrio precario: se il giovane leader dovesse seguire i «falchi» conservatori, allontanando il Regno Unito dalla cooperazione con il resto d’Europa, rischia di trovarsi isolato - ed ininfluente - rispetto ai partner continentali. Evitare il di radicalismo una parte dei Tories è la sfida più difficile per Cameron. La maggioranza degli inglesi, in un recente sondaggio, ha dichiarato di credere che i Tories non siano cambiati dai tempi della Thatcher, nonostante il ricambio generazionale. E che le fortune di Cameron siano dovute solo alla crisi del Labour. Ma se, tornati al governo, i conservatori tornassero allo stile della lady di ferro, la loro luna di miele con gli elettori potrebbe durare davvero poco.


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9 ottobre 2009 • pagina 17

Emessa contro l’attivista filo-monarchico Ali Zamani

Rivendicato dai talebani. Si teme la mano dei pakistani

Iran, prima condanna a morte per l’Onda

Kabul, attacco all’ambasciata di New Delhi: 17 morti

TEHERAN. Prima condanna a

KABUL. Una forte esplosione è avvenuta ieri mattina a Kabul vicino all’ambasciata dell’India causando diverse vittime, almeno diciassette secondo quanto riferito dal ministero dell’Interno afghano. Il luogo dello scoppio, che secondo alcune testimonianze sarebbe stato particolarmente forte, è a poca distanza dal ministero dell’Interno afghano. L’attentato è stato successivamente rivendicato dai talebani affermando che l’obiettivo era proprio l’ambasciata indiana. La deflagrazione ha danneggiato gravemente un muro della rappresentanza diplomatica indiana e alcuni edifici nei pressi e le schegge si sono distribuite tutto attorno colpendo passanti e

morte in Iran per le proteste contro i brogli nelle elezioni presidenziali del 12 giugno. Il sito dell’opposizione riformista Mowjcamp ha riferito che l’attivista filo-monarchico Mohammed-Reza Ali-Zamani è stato informato lunedì che gli è stata comminata la pena capitale. Il sito non cita fonti e non specifica la motivazione della condanna, ma secondo l’agenzia semiufficiale Mehr era accusato di combattere le autorità islamiche, di appartenere a un’associazione monarchica “terrorista”e di aver partecipato ai cortei con l’obiettivo di minare la sicurezza nazionale. In base al diritto islamico, le condanne a morte sono appellabili. Ali-Zamani, 37 anni, fa parte di un gruppo di un centinaio di sostenitori dell’opposizione accusati di avere fomentato le proteste di piazza post-elettorali, sfociate in duri scontri con la polizia. Se confermata, la sua sarebbe la prima condanna a morte per le proteste di piazza contro la rielezione del presidente, Mahmud Ahmadinejad. Secondo il sito Mowjcamp, al processo Zamani avrebbe fatto “estese confessioni”. Ma l’opposizione considera i processi una farsa e l’ex presidente riformista Mohamed Khatami ha denunciato che molte confessioni sono sta-

Il Papa ad Abu Mazen: ora pace con Israele Regalato al pontefice un quadro con «Gerusalemme araba» di Pierre Chiartano a polvere della Palestina è entrata nella Santa Sede ieri mattina. A portarla il rappresentante di quella che potremmo ormai definire solo una parte parte del popolo palestinese. Moderata, laica, ciò che rimane del vecchio movimento, corruzione esclusa. Una soluzione «giusta e duratura» per il conflitto tra israeliani e palestinesi, nella quale «i diritti di tutti siano riconosciuti e rispettati». È di questo che si è parlato ed è quanto afferma un comunicato diffuso dalla Sala stampa vaticana a proposito dei colloqui avuti stamattina in Vaticano da Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità palestinese, che è stato ricevuto da Benedetto XVI e successivamente dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, accompagnato da monsignor Dominique Mamberti, Segretario per i rapporti con gli Stati.

L

Il colloquio col Papa, nella biblioteca privata di Benedetto XVI, è durato circa 15 minuti. Al momento dell’arrivo di Abbas, il Papa, dopo averlo salutato e, prima che le porte fossero chiuse, gli ha chiesto come sono andati gli incontri avuti a New York con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e con il presidente americano Barack Obama. Al termine del colloquio privato, il presidente dell’Anp ha presentato al Papa il suo seguito di cui faceva parte, fra gli altri, Saeb Erekat, che conduce i negoziati con gli israeliani, commentando che «ha un lavoro molto importante da fare». Al momento dello scambio di doni Abbas ha offerto al Papa un quadro di maiolica con una immagine dell’antica Gerusalemme, del quale ha sottolineato la scritta «Gerusalemme capitale della cultura araba». Benedetto XVI ha ricambiato con un’immagine di piazza San Pietro in bassorilievo di peltro e ceramica. «Nel corso dei cordiali colloqui - si legge nel documento diffuso dal Vaticano dopo aver ricordato il viaggio del Santo Padre in Terra Santa, si è aperto un dialogo sulla situazione in Medio Oriente e, in particolare, sulla necessità di trovare una soluzione giusta

e duratura al conflitto israeliano-palestinese, in cui i diritti di tutti siano riconosciuti e rispettati. Al riguardo è stata rilevata l’importanza della cooperazione e del mutuo rispetto tra le parti e del sostegno della comunità internazionale». «Non è mancato - conclude il documento - un riferimento alla situazione dei cattolici in Palestina, e più in generale nella regione, e al loro contributo alla vita sociale e alla convivenza pacifica tra i popoli». Questo incontro conclude la visita italiana del presidente palestinese che mercoledì aveva già incontrato il presidente del Consiglio, quello della Camera Gianfranco fIni e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Una missione focalizzata sulle possibilità di creare sviluppo economico nei territori della Cisgiordania, come tratteggiato dal progetto del Piano Marashall per la Palestina. Tra questi anche la costruzione di un aeroporto nel West bank e numerose infrastrutture dedicate al turismo. Mercoledì la bandiera palestinese sventolava sulle Terme di Caracalla, dove è stata inaugurata la nuova sede dell’Anp in Italia. Un altro passo, frutto della visita italiana, di cui Mazen può dirsi soddisfatto. Ieri la bandiera palestinese sventolava sulle Terme di Caracalla, dove è stata inaugurata la nuova sede dell’Anp in Italia.

La Santa Sede auspica una soluzione «giusta e duratura» per il conflitto in corso tra israeliani e palestinesi

te estorte «in condizioni straordinarie» e sono pertanto nulle. Rimane comunque il timore per la sorte delle centinaia di dissidenti arrestati nel corso della passata estate. Alcuni attivisti parlano di cadaveri nascosti nelle celle dell’obitorio di Teheran, mentre altri sostengono che siano ancora tutti in carcere, in attesa di una confessione di massa. Sembrano invece aver assunto un atteggiamento di secondo piano i leader della protesta, Mousavi in testa, che fino a dieci giorni fa continuavano a ritenere nulle le ultime presidenziali. Attesa anche per il prossimo appuntamento internazionale per il presidente Ahmadinejad: l’incontro con gli ispettori Aiea.

Ricordiamo la realtà delle ormai sempre più piccole comunità cristiane che vivono nei territori di Cisgiordania e striscia di Gaza, destinate a dileguarsi del tutto nei prossimi quindici anni a causa delle difficili condizioni ambientali, politiche e religiose causate dalle spinte radicali dell’ultrafondamentalismo islamico. «La persecuzione sistematica degli arabi cristiani che vivono nelle aree palestinesi è accompagnata da un silenzio quasi assoluto da parte della comunità internazionale, degli attivisti dei diritti umani, dei mass-media e delle ong», come ricordava, di recente, Justus Reid Weiner del Jerusalem Center for Public Affairs. Una situazione che preoccupa la Santa Sede da tempo.

personale diplomatico. I feriti sono più di ottanta e tra questi ve ne sarebbero diversi in condizioni gravi. Tra le vittime, ha poi precisato l’ambasciatore indiano Brasad, «non vi sarebbe alcun indiano». Il gruppo islamista ribelle ha rivendicato l’attacco che “un martire” ha perpetrato all’interno della zona diplomatica del centro della città sottolineando che l’ambasciata indiana «era il bersaglio principale». L’attentato è avvenuto alle 8.30 di mattina (ora locale) nell’affollata via in cui si trova anche il ministero dell’Interno. L’esplosione ha provocato un’enorme colonna di fumo e polvere che si è innalzata in aria. Molte le persone colte dal panico mentre le autorità hanno da subito capito che si sarebbe trattato dell’ennesima carneficina. Zemarai Bashary, portavoce del ministero dell’Interno, ha confermato il bilancio delle vittime, salito da 12 a 17 in poche ore. Tra i morti ci sarebbero anche due agenti di polizia. Gli altri sono tutti e 15 civili, mentre sarebbero 13 i poliziotti feriti.La sede diplomatica di Nuova Delhi era già stata bersaglio di un attentato suicida che, nel luglio del 2008, aveva causato la morte di 41 persone e il ferimento di almeno altre 60. Fortissimo il sospetto di un coinvolgimento pakistano.


cultura

pagina 18 • 9 ottobre 2009

Letteratura. Il prestigioso riconoscimento va a un’autrice di origine rumena (fuggita in Germania nel 1987) ancora poco nota nel nostro Paese

Il Nobel dei diseredati Stoccolma premia Herta Müller, che ha raccontato la povertà e gli orrori della dittatura di Ceaucescu di Francesco Lo Dico ttraverso l’intensità della sua poesia e la franchezza della prosa dipinge il panorama dei diseredati». Recità così la motivazione che ieri ha assegnato il premio Nobel per la letteratura a Herta Müller. Assai nota all’estero, e considerata come una delle più influenti scrittrici di lingua tedesca contemporanee, la scrittrice nata nel Banato Svevo, area geografica passata sotto il controllo della Romania in seguito alla Seconda guerra mondiale, non è ancora molto nota in Italia, dove sono stati pubblicati soltanto Il paese delle prugne verdi per le edizioni Keller e la raccolta di short-stories Bassure per David Editori Riuniti.

«A

«Mi piacque molto la forma, la scrittura sintetica e asciutta che non cedeva mai ai facili effettismi, la capacità di descrivere con immagini icastiche e spesso morbose, le miserie del socialismo reale, senza mai cedere di un millimetro alla retorica – spiega a liberal Fabrizio Rondolino, giornalista e scrittore che nel 1987 curò propriò la traduzione di Bassure –. Quei racconti diffondevano nel lettore una sensazione di inquietudine, perché mai niente era detto in maniera esplicita. Il disagio e la sofferenza di quel mondo freddo, inerte, affioravano dalla nuda prosa sotto forma di piccoli particolari. Polvere di mattoni, foglie di granoturco, mosche dappertutto. Ogni cosa viveva in quelle parole secche e concise in una foggia assolutamente realistica, che allo stesso tempo rimandava a qualcos’altro. Si può dire in quel mondo rurale, in quella natura ostile e tetra, aleggiasse l’inconscio del comunismo. Qualcosa che era molto distante dagli elogi delle cooperative agricole graditi a Ceaucescu». E in effetti i rapporti tra la Müller e il dittato-

re romeno, non furono certo ispirati alla serafica letizia che spira nelle ecloghe virgiliane. «Fino ai tardi anni ’90 – racconta Franz Haas, docente di Letteratura tedesca contemporanea all’università di Milano – Hertha era stata mi-

nacciata da uomini riconducibili alla Securitate del regime. Nessuno le perdonò mai la sua condizione di dissidente, che la costrinse a lasciare la Romania nel 1987. Ricevette peraltro strane telefonate anche in Italia, dove si aggiudicò una borsa di studio a Villa Massimo, l’accademia tedesca di Roma. Nonostante tutto, non si è mai lasciata intimorire e ha continuato a testimoniare scomode verità. Il suo ultimo romanzo, ancora inedito in Italia, racconta di un poeta realmente esistito e molto noto in Germania, Oscar Pastior, che visse molti anni in un lager sovietico perché dissidente».

Ma chi si aspetta le classiche dicotomie fumettistiche, che spesso hanno scalfito anche l’autorevolezza dei romanzieri engagé, troverà nell’ultimo premio Nobel una gradita sorpresa. «Di Bassure mi colpì la franchezza intellettuale. Non c’era nulla che

l’autrice risparmiasse alla sua analisi impietosa. I suoi connazionali, e cioè i componenti della minoranza tedesca cui la stessa autrice apparteneva, non apparivano migliori degli altri. Appaiono chiusi anche loro, raggelati proprio come quei paesaggi in cui si faticava a scorgere un rivolo di vita. Il rigore con cui osserva ciò che le sta intorno, è accostabile a quello di Thomas Bernhard, che della società austriaca fu uno spietato critico», spiega Rondolino. «Il ruolo simbolico assunto dalla natura ha avuto una parte molto importante sin dai primi lavori della Müller – argomenta Haas – Ma l’allusione non è in lei solo una semplice copertura adoperata per stornare gli sguardi più infidi dai suoi scritti, ma la cifra di un’autentica poetica, vocazione che continua ad accompagnare sempre la sua produzione». «Non c’è mai niente di troppo esplicito nei suoi racconti – conferma Fabrizio Rondolino –, il lavoro da me tradotto a suo tempo, presentava spesso il punto di vista di una bambina che nella sua innocenza sa

Qui accanto, Herta Müller e la rivolta rumena di vent’anni fa a Bucarest in un disegno di Michelangelo Pace. Sotto, la scrittirice che ha vinto il Premio Nobel per la letteratura del 2009. A sinistra e sotto al disegno, due foto della scrittrice. Nella pagina a fianco, il dittatore rumeno Nicolae Ceaucescu in un’illustrazione ufficiale del regime

cogliere ciò che gli altri non sanno o non vogliono vedere. È un topos non infrequente nella letteratura europea, quella di affidare allo sguardo dei più piccoli vicende atroci altrimenti inenarrabili con la stessa efficacia. In questo senso, la Müller può essere accostata ad Agota Kristof e alla sua Trilogia della città di K.». Nel tentativo di tracciare alcune coordinate spaziotemporali, si può dunque con-

siderare la scrittrice tedesca, come ideale consanguinea di “autori di confine”, segnati da esperienze traumatiche ma incapaci di chinare la testa e riporre la penna in un cassetto per quieto vivere. «La Müller può essere raffrontata per certi versi a un altro premio Nobel come Imre Kertész, che raccontò la sua esperienza nei campi di sterminio nazisti in Essere senza destino. Nei romanzi della tedesca c’è la

La ribelle di Timisoara Poetessa, scrittrice e saggista, Herta Müller è nata nel 1953 a Niuchidorf, piccolo villaggio germanofono situato in quel Banato Svevo che dopo la Seconda guerra mondiale passò sotto il controllo della Romania. Figlia di un ex militare delle Ss, sua madre fu deportata in un campo di lavoro dell’ex Unione Sovietica dopo la guerra. Terminati gli studi di Letteratura tedesca e romena all’università di Timsoara, do-

ve si lega all’Aktionssgruppe Banat, gruppo di scrittori e poeti romeno-tedeschi dissidenti, Herta Müller prende a lavorare come traduttrice nel 1976, ma viene licenziata tre anni dopo in seguito al suo rifiuto di collaborare con la Securitate, polizia segreta del regime comunista di Ceaucescu. Nel 1982 pubblica a Bucarest il suo primo libro, Niederungen’, raccolta di racconti brevi sottoposti a pesanti censure

(pubblicato anche in Italia con il titolo Bassure). Arrivano intanto i primi riconoscimenti letterari: nel 1984 conquista il premio “Aspekte”, e tre anni dopo il “Ricarda Huch” della città di Darmstadt. Il 1987 è anche l’anno che vede la Müller lasciare la Romania. In seguito a minacce riconducibili al regime, si trasferisce in Germania Ovest insieme al marito – anch’egli romanziere – Richard Wagner. In terra te-


cultura

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Il suo capolavoro è «Il paese delle prugne verdi»

Un regime in agonia descritto in presa diretta di Paolo Petroni i intitola Herztier, ovvero «Bestia del cuore», il romanzo che racconta di quattro amici perseguitati per le loro idee dalla polizia politica di Ceausescu, uscito nel 1994 e considerato il più importante di Herta Müller. È anche il più recente libro tradotto in italiano (l’anno scorso, come Il paese delle prugne verdi, Edizioni Keller) tra quelli pubblicati dalla nuova Premio Nobel per la letteratura. «L’ho scritto in ricordo dei miei amici romeni uccisi sotto il regime di Ceausescu», afferma la scrittrice, per la quale il tema della dittatura resta quello centrale della sua opera. «È stata l’esperienza più intensa e violenta della mia vita e il solo fatto di essere andata a vivere in Germania, a centinaia di chilometri di distanza, non ha cancellato quel mio passato e il fatto di essere stata costretta a imparare a vivere attraverso la scrittura ha dichiarato di recente, a settembre al Festival della letteratura di Mantova - Volevo vivere secondo gli standard che popolavano i miei sogni, le mie letture: tutto qui, scrivere era il mio modo di esprimere quel che non potevo vivere nella realtà».

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stessa sensazione di barbarie, di gigantesco arbitrio che umilia l’individuo», spiega il professor Haas.

Man mano che l’universo letterario della scrittrice ribelle si delinea di fronte a noi, la domanda delle domande monta, ed esplode. Perché Herta Müller gode di una notorietà assai ridotta in Italia? «La sua è una scrittura difficile. Si avvale di una lingua desca comincia l’attività di docente, prosegue l’attività di scrittrice, e continua a collezionare riconoscimenti: nel 1989 il Premio “Marie Luise Fleißer” e nel 1991 il Premio letterario “Kranichstein”. Nel 1994 scrive quello che da molti è considerato il suo romanzo più importante, Herztier (edito in Italia da Keller sotto il nome di Il paese delle prugne verdi e vincitore del premio Kleist). L’anno successivo diventa membro della prestigiosa Accademia tedesca per la Lingua e la Poesia. Il 1998 vede la scrittrice conquistare

il premio letterario più importante dopo il Nobel, l’Impac Dublin Literary Award e l’anno successivo è la volta del “Franz Kafka”. Capace di raccogliere quattordici premi letterari, e autrice di più di venti opere letterarie, Hertha Müller è poco nota in Italia. A oggi sono stati pubblicati qui da noi soltanto i già citati Il paese delle prugne verdi e Bassure. Residente a Berlino, è stata insignita del Nobel perché «attraverso l’intensità della sua poesia e la franchezza della prosa dipinge il panorama dei diseredati».

complessa e irta di simbolismi, che spesso si annida in una semplicità apparente. C’è una dimensione allusiva, nelle sue opere, che non ne fa certo un’autrice di intrattenimento. Inoltre va poi considerato che i riferimenti culturali della Müller, e cioè la Romania di Ceaucescu, hanno scoraggiato la diffusione delle sue opere nella Penisola», rileva Franz Haas. «Nei suoi romanzi non si aggirano certo personaggi scanzonati – nota Rondolino – Ha una scrittura molto densa, e allo stesso tempo spoglia, ripulita da ogni orpello. Chi cerca letteratura consolatoria, deve bussare altrove». Desolazione, nudità, rigore. Quando i critici si soffermano su termini simili, c’è un doppio timore. Che un romanzo possa annoiare da morire, o far piangere a dirotto. «Leggere la Müller significa avvertire forti scosse, emozioni potenti perché mai inficiate dall’artificio», assicura Rondolino. «Herta scrive spesso in prosa, ma in ogni sua riga implode, potente perché mai esibita, la poesia», conclude Haas.

È quel che si racconta nel romanzo, ambientato in una Romania anni Ottanta, dove quattro giovani si ritrovano uniti dal suicidio di un’amica, Lola. Da quel dolore viene una presa di coscienza sulla condizione propria e del paese, che troverà il proprio spazio di libertà nella letteratura. Ma presto toccherà loro fare i conti con l’onnipresenza del terrore. Il sentimento che scorre nelle pagine è la paura: agli interrogatori sistematici della polizia segreta, ai pedinamenti e agli atteggiamenti intimidatori segue la perdita del lavoro e, anche quando si riesce a espatriare, ecco che le minacce proseguono e la morte ritorna sotto forma di misteriosi suicidi. Herta Müller, dopo l’università, si impiegò come traduttrice in una fabbrica dove, contatta dalla Securitate, la polizia segreta di Ceausescu, si rifiutò di collaborare come spia presso la minoranza tedesca di cui era parte e perse il lavoro. Per sopravvivere fece la maestra in un asilo nido e dette lezioni private di tedesco, finché, col marito Richard Wagner, anche lui romeno tedesco e scrittore aderente al gruppo intellettuale Aktionssgruppe Banat, riuscì a scappare a Berlino, dove oggi è considerata un’importate esponente della letteratura tedesca.

Ha scritto anche molti racconti, alcuni disponibili pure in italiano, sempre dedicati a un’umanità dolente e in fuga perenne

La sua è una scrittura particolare, quasi sperimentale, poetica, intensa, secca e sincopata, in cui osservazioni, dialoghi, pensieri sono accostati e si susseguono facendo crescere il senso e il racconto come per accumulo, con aperture visionarie, ma senza perdere limpidezza. Uno stile che si intravedeva già nei primi racconti, quelli pubblicati censurati in Romania nel 1982 e usciti in versione integrale in Germania due anni dopo, e in italiano nel 1987 dagli Editori Riuniti col titolo Bassure. Nel nostro paese era uscito anche il romanzo breve In viaggio su una gamba sola da Marsilio nel 1992. Su Die Zeit a luglio la Müller ha pubblicato la prima parte di un memoriale, scritto dopo essere entrata in possesso del dossier che la polizia romena aveva su di lei e essere tornata nel suo paese, dove si è accorta di essere controllata: «La polizia segreta di Ceausescu - ha scritto - non è stata sciolta, ha solo assunto un altro nome, Sri, ed è composta, a quanto dichiarato, al 40% di membri dell’ex Securitate, anche se probabilmente la percentuale e’ molto più alta».


cultura

pagina 20 • 9 ottobre 2009

In basso, uno scatto dello scrittore Massimo Carlotti, di nuovo nelle librerie italiane con il romanzo “L’amore del bandito”. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

mettersi in azione per salvare la donna, facendo fragorosamente irruzione negli ambienti sbagliati e dovendo scendere a patti con criminali di ogni risma, tutti fatti, questi, che innescano una serie di violenze e rappresaglie che sembra non aver mai fine. Nonostante le ferite fisiche e morali che i protagonisti riporteranno, la speranza riuscirà comunque a ritagliarsi un piccolo spazio nella vicenda, la cui conclusione è volutamente lasciata aperta da Carlotto essendo questo appena uscito solo il primo di tre libri dedicati al nuovo assetto della criminalità organizzata nel Nordest il secondo, che non tarderà ad arrivare, focalizzerà l’attenzione sulla crescente importanza del ruolo delle donne nelle mafie dell’Est Europa.

999: in Nessuna cortesia all’uscita, Massimo Carlotto racconta del vuoto di potere creatosi nel Nord Italia in seguito alla fine della mala del Brenta, quasi consegnata alle forze dell’ordine dal boss Felice Maniero dopo essersi reso conto che, conclusa la Guerra Fredda, non potrà fronteggiare la forza e i mezzi delle nuove organizzazioni criminali provenienti dall’ex blocco sovietico. 2009: a dieci anni esatti di distanza, con L’amore del bandito (Edizioni e/o, 191 pagine, 15 euro) lo scrittore di Padova torna sul luogo del delitto (perdonateci il gioco di parole), e prova a descrivere gli sviluppi di quella situazione. Sviluppi infausti, a dir poco: nonostante nessuno ne parli, la parte più ricca del nostro Paese è diventata terreno di conquista per la spietata mafia kosovara che, soppiantata quella russa, ha trovato nel confine italiano il punto ideale per far entrare in tutta Europa merce di contrabbando e soprattutto droga (Carlotto, in relazione al Kosovo, parla senza mezzi termini di “narcostato”).

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Scomparso definitivamente il giornalismo d’inchiesta, l’ex fuggiasco ricorre ancora una volta al mezzo che preferisce, la narrativa, e dopo ben sette anni (se si esclude la graphic novel del 2007 Dimmi che non vuoi morire, disegnata da Igort) riporta in libreria il suo personaggio più famoso e amato, l’investigatore privato con licenza di delinquere Marco Buratti, meglio noto come l’Alligatore. La vicenda del nuovo romanzo parte da un clamoroso

Tra gli scaffali. L’investigatore Buratti nel nuovo romanzo di Massimo Carlotto

Il grande ritorno dell’«Alligatore» di Alessandro Marongiu fatto di cronaca realmente accaduto il 17 marzo 2004 a Padova, e cioè la sparizione dall’Istituto di medicina legale dell’Università di ben 67 chili di stupefacenti tra cocaina, eroina e sostanze leggere. Un fatto per il quale, manco a dirlo, non sono mai stati individuati colpevoli e sul quale la stampa non torna più, nonostante le circostanze in cui è maturato siano a dir poco inquietanti: per compiere il furto, l’autore ha infatti avuto a disposizione le chiavi dell’Isti-

cerche da solo o con un team di altri scrittori come supporto, e attorno al furto in questione ha infine sviluppato la trama del romanzo. Muovendo da questo episodio, L’amore del bandito inizia col tentativo da parte di un personaggio misterioso di assumere l’Alligatore per saperne di più sulla sparizione della droga: uno dei due soci dell’investigatore, il contrabbandiere Beniamino Rossini (l’altro è il collettore di dossier riservati Max la Memoria), de-

“L’amore del bandito” ha venduto in un solo weekend 15mila copie. Già previste altre 20mila, da aggiungere alla prima tiratura di ben 100mila copie tuto e il codice segreto della stanza in cui erano custoditi (si fa per dire, visto come sono andate le cose) gli stupefacenti.

È qui che l’«uso sociale» della letteratura, che ha in Carlotto il suo maggiore esponente (nonché teorico), entra in scena: lo scrittore, indossati ancora una volta i panni dell’investigatore, per due anni ha raccolto informazioni e svolto una serie di ri-

cide di ucciderlo sospettando che le insistenze dello sconosciuto, che fa di tutto per assoldare Buratti nonostante i continui rifiuti, non possano che nuocere ai loro affari e portare dei guai. Guai che, naturalmente, non tardano ad arrivare: la compagna di Rossini, Sylvie, viene rapita e data letteralmente in pasto a dei mafiosi albanesi per vendicare l’omicidio, e il terzetto si trova così costretto a

L’amore del bandito è indubbiamente un buon libro, che centra perfettamente il suo obiettivo (raccontare la realtà attraverso la finzione con un’ideale mix di dati concreti e fantasia) quando descrive la presenza e i traffici nell’Italia settentrionale della criminalità organizzata dell’Est Europa; altrove l’alchimia è meno riuscita (come nelle pagine in cui il protagonista riflette sull’abulica e fintamente distratta società padovana), ma questo nel complesso non è peccato eccessivamente grave. Ma L’amore del bandito è soprattutto un libro che farà sicuramente la felicità di tutti i fan dell’Alligatore, che vi ritroveranno, oltre al personaggio che amano, le ossessioni e le passioni che da sempre accompagnano le opere di Carlotto - rientrato in Veneto dopo 15 anni passati in Sardegna, e attualmente impegnato come sceneggiatore nientemeno che per Bollywood - ovvero il blues, il cinema noir americano classico, il teatro che permea le stesura dei dialoghi («Devo scrivere almeno una testo teatrale all’anno»: dice proprio così l’autore di Padova, «devo»), il tratteggiamento dell’ambigua linea di confine tra giustizia e malaffare. E se qualcuno aveva dubbi sul fatto che i lettori si ricordassero ancora, a distanza di tanti anni, di Buratti, Rossini e Max la Memoria, le cifre parlano da sole: 15.000 copie evaporate in un weekend, e già previste altre 20.000 da aggiungere alla prima tiratura di ben 100.000. Numeri davvero altissimi in un Paese come il nostro, in cui anche la vendita di 10.000 copie di un libro è considerata dal mercato editoriale un successo notevole.


cultura

9 ottobre 2009 • pagina 21

Arte. Una grande, splendida mostra a Roma, a Palazzo Venezia, ripercorre l’intera iconografia della cultura cristiana

Come si dipinge un Santo di Gabriella Mecucci

ROMA. Raramente si sono visti

re di santi: da quelli di Bruges, dipinti da Hubert e Jan Van Eyck, all’Adorazione della Trinità di Dürer, sino al polittico di Ognissanti che si trova agli Uffizi. E poi le meraviglie di Masaccio, di Tiziano, di Caravaggio di Mantegna, di Filippo Lippi, di Tiepolo. E via così elencando: patroni eremiti e patroni potenti, patroni monaci e patroni con la spada in mano.

tutti insieme tanti capolavori provenienti da tutta Europa: la mostra, inaugurata mercoledì sera a Palazzo Venezia (erano presenti Silvio Berlusconi e il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone), dal titolo Il potere e la Grazia. I Santi patroni d’Europa è una splendida cavalcata dal 1300 sino al ventesimo secolo intorno al tema della santità. Quasi un centinaio fra

L’essere sul confine fra umano e divino conduce i santi ad essere percepiti come un confine fra umano e divino. Se il principio della santità è l’amore e il suo fine è “alter Christus”, l’effetto di una vita santa è l’intercessione. Per questo ogni santo, nel cristianesimo, è anche patrono. Non c’è dubbio che fra tutti gli abitanti del cielo un ruolo speciale nell’intercessione ce l’abbia la Madonna. E molti e bellissimi sono i quadri della mostra che raffigurano Maria: dall’Immacolata Concezione di Bartolomè Estaban Murillo a la

Masaccio, Tiziano, Caravaggio, Mantegna, Filippo Lippi, Tiepolo: sono solo alcuni dei tanti protagonisti di un’esposizione davvero memorabile

tele, sculture, vetrate, oggetti di ogni tipo, divisi in nove sezioni: il potere dei santi, martiri e confessori, monaci ed eremiti, culto e agiografia, vescovi e missionari, santità regale e dinastica, cavalieri di Dio, mistica e carità, potere e santità.

E in queste sezioni si ritrovano tanti, tantissimi artisti sublimi. Un elenco esaustivo è impossibile. Abbracciano tutte le diverse aree culturali europee: c’è l’area latina, quella germano-baltica, c’è l’area slava e c’è la celtica. A dimostrazione che «la lingua materna dell’Europa, di tutta l’Europa è il cristianesimo». Del resto «Il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra civiltà», sosteneva Emanuel Kant. E per dirla con Thomas Stearns Eliot: «Un cittadino europeo può non credere che il cristianesimo sia vero e tuttavia quel che dice e fa scaturisce dalla cultura cristiana di cui è erede. Senza il cristianesimo non vi sarebbe stato nemmeno Voltaire o Nietzsche. Se il cristianesimo se ne va, se ne va la nostra cultura, se ne va il nostro stesso volto». Ed è proprio questa l’anima della mostra di Palazzo Venezia: riuscire a far scorrere sotto gli occhi dei visitatori la più profonda e forte “radice” del Vecchio Continente. Una radice che caratterizza i costumi, la società, il territorio – come si vede in filigrana osservando le opere d’arte esposte. Ci sono le schie-

Madonna con le sante Caterina e Rosa di Lima del Tiepolo. Se questo è vero per i cattolici, lo è infatti anche nel mondo della cristianità ortodossa slava come dimostrano le tre icone esposte a Palazzo Venezia fra cui spicca una bellissima madre col bambino. C’è poi la splendida sezione dei martiri e dei confessori Qui sopra, il ”San Giorgio” di Mantegna. Accanto, la ”Crocifissione di San Pietro» di Luca Giordano. In alto, a sinistra, «Estasi di Santa Caterina» di Agostino Carracci. Sono tre delle opere esposte a Palazzo Venezia di Roma per la mostra «Il Potere e la Grazia»

che parte con il Battista di Tiziano e passa per il Martirio di San Pietro di Luca Giordano e La vita di san Paolo di Beccafumi. La chiesa antica non conosceva, sino all’editto di Costantino, altri santi che i martiri, coloro cioè che esprimevano la propria testimonianza di Cristo nel modo più radicale.

Ma è impossibile dar conto di tutto. Gioverà dunque scegliere altre due sezioni particolarmente significative. La priuma è quella dei cavalieri di Dio dove troviamo il bellissimo San Giorgio di Mantegna e la Giovanna D’Arco di Ingres. L’ultima sezione è costituita da quattro quadri che si soffermano sul rapporto fra potere e santità, una sezione che dà il titolo a tutta la mostra. I quattro dipinti sono: Il tributo della moneta di Bernardo Strozzi. L’imperatore Teodosio all’entrata della Cattedrale di Milano di Van Dyck, San Giovanni Nepomuceno davanti alla Vergine Maria di Bartolomeo Batoni e la copia antica del Ritratto di Tommaso Moro di Hans Holbein il Vecchio.Tutte le opere raffigurano il modo giusto di porre il rapporto fra comunità civile e politica e comunità ecclesiale. La chiesa deve respingere – questo il messaggio – la tentazione del potere, cedendo a questa infatti non potrebbe più avere la libertà e l’equanimità di giudizio. L’ultimo, ma forse più importante insegnamento con cui si chiude la splendida esposizione di Palazzo Venezia riguarda la libertà religiosa che è il correlativo necessario e il criterio ermeneutico della laicità dello Stato. Quest’ultima altro non è, in definitiva, se non il riconoscimento di un invalicabile limite del potere politico nei confronti della persona umana, nella cui coscienza nasce la libertà e, secondo ragione, la risposta dell’uomo a Dio che non può in nessun modo essere condizionata, minacciata o impedita da alcun potere, se non dalla forza della verità. La desacralizzazione del potere è l’unico modo per scongiurare la corruzione del potere stesso da servizio reso agli uomini a oppressione e idolatria. Non è un caso dunque che la laicità dello stato rappresenti l’altra faccia della libertà: quella che rende la persona non schiava e idolatra del potere, ma capace di ricercare la verità. Perché la verità ha bisogno di libertà. E la libertà è indispensabile alla ricerca della verità. Di questo messaggio è permeata tutta l’Europa anche quella che per lunghi periodi lo ha dimenticato.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Timesonline” del 08/10/2009

Gotico italiano ilvio Berlusconi con le sue abitudini sessuali e i suoi tentativi di sfuggire al giudizio della magistratura ha gettato discredito su se stesso e sul suo Paese. Ora dovrebbe dimettersi. La bocciatura della Corte costituzionale alla legge che garantiva immunità al presidente del Consiglio e ad altre alte cariche dello Stato (il cosiddetto lodo Alfano, ndr) è un colpo mortale per il premier. Ora è possibile per il tribunale di Milano riavviare il processo contro di lui, con l’accusa di aver corrotto l’avvocato David Mills – suo ex consulente fiscale – allo scopo di fornire falsa testimonianza durante due processi negli anni Novanta. Ormai mr. Berlusconi è un imputato che dovrà affrontare un processo penale. Ha disonorato il suo ruolo e il suo Paese. Fedele al suo stile, Silvio Berlusconi ha subito dichiarato che non si sarebbe dimesso, perché la sentenza sarebbe politica. Cercherà sicuramente di aggirare le conseguenze della sentenza, magari tornando alle urne o scovando un sistema per annullare gli effetti del giudizio. Non potrà, comunque, più contare sulla legge che aveva varato in Parlamento, lo scorso anno, a poche settimane dal suo nuovo insediamento al governo. Una norma che metteva al riparo le prime quattro cariche dello Stato da procedimenti penali. Una legge ad personam che aveva lasciato senza parole molti italiani. L’intento era quello di liberare il settantatreenne primo Ministro da una massa d’accuse per corruzione che lo infastidivano da quando era il più potente magnate dei media In Italia. I capi d’imputazione comprendono anche la frode fiscale, il falso in bilancio e il finanziamento illecito dei partiti politici. Alcuni processi si stavano mettendo male per il premier, e la legge è stato un tentativo per fermarli. Poche cose avrebbero potuto dimostrare il totale disprezzo di mr. Berlusconi per la legge che l’affermazione, di sapore orwelliano, fatta dal

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suo difensore davanti alla corte: il primo Ministro non era più un «primus inter pares» ma un «primus super pares». In modo ancora più assurdo, un altro membro del suo collegio difensivo ha insistito nell’affermare che «la legge è uguale per tutti, ma non nella sua applicazione». I giudici, ieri, non hanno perso tempo su questa teoria. Hanno affermato che la normativa violava il principio costituzionale che pone tutti i cittadini sullo stesso piano davanti alla legge. Illegittimo anche il fatto che fosse solo una legge ordinaria e non un emendamento costituzionale.

Mr. Berlusconi potrà rimanere in carica solo se il suo partito e la sua maggioranza lo vorranno sostenere. Sarebbe una sciocchezza, se ciò accadesse. La disintegrazione di una sinistra litigiosa ha dimostrato a molti italiani che non esiste un’alternativa a Berlusconi. Cioè un governo abbastanza forte da poter tirare fuori dalle secche della crisi economica l’Italia. Berlusconi immagina dunque di poter godere ancora di una larga popolarità. È la classica vittima da auto-inganno, crede alla sua stessa propaganda, in gran parte promossa dai giornali e televisioni che possiede. Ciò che non è riuscito a comprendere bene e il danno arrecato nell’associarsi a personaggi come Vladimir Putin e Muahmar Gheddafi, e dalla figura ridicola fatta a causa delle sue buffonate di carattere sessuale. Molti italiani hanno accolto le rivelazioni sul giro di prosti-

tute con divertita indulgenza. Ma il danno alla reputazione del suo Paese, ben simboleggiato dal rifiuto di Michelle Obama di abbracciarlo, indica quanto il suo indice di gradimento sia in calo. Il premier ha interpretato questo episodio e la sentenza della Corte costituzionale, come la trama di un complotto ordito dai suoi nemici. Non è vero. È stata una reazione causata dalle gravi preoccupazioni sull’onestà e il giudizio di un uomo che è a capo del governo di un’importante democrazia occidentale. Se dovesse riprendere il processo di Milano, Berlusconi dovrà comparire davanti ai giudici, per difendersi dalle accuse, come un qualsiasi cittadino italiano. È innocente, fino a prova contraria. Il processo, però, sarebbe d’intralcio al suo lavoro istituzionale di governo. Ha cercato di vivere al di sopra della legge, ora verrà politicamente logorato dal rispetto della legge. È venuto il momento in cui Berlusconi smetta di anteporre i propri interessi a quelli del Paese. Dovrebbe dimettersi.

L’IMMAGINE

Iman Cairo, finalmente smascherati i miti del fondamentalismo Finalmente anche il rettore dell’università di Al-Azhar, massima autorità della sunna islamica, ha chiarito in modo inequivocabile che le donne musulmane hanno diritto alla loro identità e che il velo integrale è del tutto estraneo alla tradizione musulmana. Si tratta di una pronuncia molto importante non solo perché smaschera i falsi miti di un fondamentalismo alimentato da retaggi patriarcali ma perché dà il segno di come l’attenzione verso la dignità della donna possa essere perfettamente compatibile con i valori e i simboli dell’Islam. A questo punto sarebbe veramente paradossale che, mentre Stati come l’Egitto proibiscono questo assurdo strumento di sottomissione, da noi si continui a non voler affrontare il problema. Perciò mi auguro che il progetto di legge all’esame della Camera venga approvato al più presto poiché il processo di integrazione delle donne immigrate in Italia passa anche attraverso questa battaglia di libertà.

Barbara S.

STATI DIFFERENTI DI UN ISOTOPO Nuovi test missilistici nel giorno di una nota festa israeliana, hanno espresso il chiaro intendimento di un entourage di antica fattura, che usa le immagini come verbo. Obama ha così riposto per un attimo i suoi fasci colorati di gentilezza nei confronti del collega iraniano, per ritornare ai vecchi proclami politici: ispezionare le fabbriche. L’ovvia risposta esprime un concetto che qualcuno prima o poi dovrebbe smontare: «decideremo noi quando ispezionare». Il direttore dell’Aiea, Mohamed El Baradei affermò anzitempo che l’Iran aveva stoccato una quantità di uranio sufficiente alla costruzione dell’atomica, basandosi su 6000 centrifughe per effettuare il processo industriale di arricchimento dell’uranio. In natura esistono due isotopi dell’uranio, il 238 e il 235, uniti nell’elemento

stesso, di cui il secondo è utilizzato nei reattori nucleari: arricchimento dell’uranio significa aumentare la quantità ottenibile dell’isotopo 235, che già ad un livello di composizione del 7% è utilizzabile nelle normali centrali nucleari basate sulla fissione, mentre al livello dell’80% è utilizzabile solo per la costruzione di bombe atomiche. Da un punto di vista pratico, per arricchire, i due isotopi vengono introdotti in una centrifuga in un ambiente sottovuoto e riscaldato per assicurare la forma di gas dei prodotti ottenuti. Aumentando la forza di gravità in tale centrifuga si ottiene la separazione del materiale più pesante (238) dal più leggero (235): il secondo verrà recuperato e sottoposto ad altre centrifughe per aumentarne la concentrazione: figurarsi in 600 passaggi quanta concentrazione è ottenibile! Alla fine il materiale ot-

Se resisti, ti sposo Occhio languido e non solo. In fatto di seduzione gli alligatori (fam. Alligatoridae) ne sanno una più del diavolo. Alcuni esemplari diffusi negli Stati Uniti (Alligator mississippiensis) per esempio, conquistano l’amata a colpi di... collo. Durante il corteggiamento il maschio fa emergere il muso dall’acqua mostrando alla partner la gola scoperta

tenuto, allo stato di gas, viene riportato allo stato metallico e in particolare in formato pasticche. A questo punto, per avere una risposta certa sulla concentrazione reale ottenuta, il procedimento dovrebbe essere seguito nei minimi particolari e fino alla fine, e non in un momento qualsiasi deciso da chi detiene l’au-

torità di tale permesso. Appare altresì palese, che sarà oltremodo difficile stabilire dove si trova l’asso di bastoni se non si può gestire l’istante ove poter alzare la carta. Facilmente, nello stato di relativa certezza, chiunque potrà rimischiare le carte e nascondere la verità. L’amministrazione Bush queste cose le

sapeva bene e non ha avuto il sostegno necessario dell’Europa per imporre modalità e tempi, per cui ha cercato inutilmente di richiedere più visite in tempi differenti e predefiniti, tra i fischi di un pubblico a cui non importa la sostanza scientifica del problema.

Giacomo


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

In nessun senso mi considererà capricciosa Potrebbe pensarmi senza un ritratto? Adesso non ne ho nessuno, ma sono piccola come lo Scricciolo, i capelli li ho di colre deciso, come la lappa castana e gli occhi, come lo Sherry avanzato nel fondo del bicchiere dagli ospiti. Le basta così? Questo fatto spaventa mio padre. Dice che potrebbe sopraggiungere la Morte e lui è in possesso di stampi di tutti gli altri, ma non ne ha nessuno mio, ma io ho notato che i Vivi, in pochi giorni, consumavano questo genere di cose ed evitavano la vergogna. In nessun senso mi considererà capricciosa. Lei dice: «Scura». Conosco la Farfalla, la Lucertola e la Orchidea. Non sono quelli i suoi concittadini? Sono felice di essere sua allieva. Saprò meritarmi la gentilezza che non sono in grado di ripagare. Se me lo concede davvero, adesso reciterò. Mi svelerà i miei difetti, in tutta franchezza, come se lo facesse con se stesso, perché io preferisco barcollare piuttosto che morire. Non si manda a chiamare il chirurgo perché possa lodare l’osso, ma per metterlo a posto, Signore, e una frattura interiore è più critica. Per questo motivo, Maestro, io le porterò obbedienza, il bocciolo del mio giardino e tutta la gratitudine di cui sarò capace. Forse le verrà da sorridere di me. Ma non potrei fermarmi per questo. Emily Dickinson a Thomas W. Higginson

SENZA UN’OPPOSIZIONE COSTRUTTIVA... Il giorno del giudizio per il premier non riuscirà a ripulire il quadro politico italiano da tutte le crepe e i colori sbiaditi, che la mancanza di un’opposizione costruttiva ha creato indelebilmente. La vera politica vincente è come un meccanismo rotante, che agisce per mezzo dell’ingranaggio di due ruote, una motrice e l’altra mossa. La resistenza di tale ingranaggio poteva essere alla base della nostra crescita in Europa.

Giovanni Renna

RICERCA DI STABILITÀ Rispettare il voto non dovrebbe essere un concetto di parte, ma di tutti coloro che nell’arco costituzionale tengono alla legislatura come affidabilità del rapporto tra istituzioni e cittadini. Non sarà quindi mai un compromesso, né un atto di irrigidimento di un esecutivo, ma la ricerca di stabilità che è la prima cosa che anche l’Europa ci ha sempre richiesto. A niente sono servite le critiche antiche sull’inaffidabilità delle tenute delle nostre maggioranze, anche quando non erano di destra? Anche il presidente della Repubblica di turno, mi sembra abbia sempre in passato ribadito tale necessità.

Giannina Mirto

CODICE SEGRETO: UN OSTACOLO ALLA LIBERALIZZAZIONE DELLA TELEFONIA Un altro impedimento alla piena liberalizzazione nel settore della telefonia fissa. Questo rappresenta l’introduzione del codice segreto per il cambio di

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

9 ottobre 1936 I generatori della diga Boulder Dam (in seguito rinominata diga Hoover) iniziano a trasportare elettricità dal Colorado a Los Angeles 1940 Seconda guerra mondiale. Battaglia d’Inghilterra: durante un raid aereo della Luftwaffe, la Cattedrale di St. Paul, a Londra, viene colpita dalle bombe 1942 Il Westminster adoption act formalizza l’autonomia dell’Australia 1963Strage del Vajont: nell’Italia nord-orientale, oltre 2000 persone vengono uccise quando una frana caduta nel bacino della diga del Vajont produce una gigantesca onda che supera la diga e si riversa a valle 1967 Il giorno dopo la sua cattura, Che Guevara viene giustiziato per aver incitato la rivoluzione in Bolivia 1970 In Cambogia viene proclamata la Repubblica Khmer 1982 Attentato alla sinagoga di Roma: muore un bambino di due anni e 35 feriti gravi 1994 Viene creato l’elemento 110

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

operatore telefonico da linea fissa. Il sistema per le migrazioni da un operatore all’altro diventerà più complicato e farraginoso, penalizzando gli utenti, a tutto vantaggio dell’operatore che detiene il monopolio delle telecomunicazioni nel Paese. Non è con l’introduzione di nuove procedure, che prevedono controlli incrociati, che si rende più libero il mercato per gli utenti. Non saranno i nuovi codici a facilitare le migrazioni e la lotta contro le frodi nel settore, per cui Agcom non si limiti a vigilare sugli utilizzi dei codici ma renda effettivi i controlli contro le lentezze con cui vengono rilasciati i clienti diventando essa stessa un baluardo a tutela dei cittadini contro le frodi.

Sarah Ostinelli

NON SCHERZIAMO Elezioni anticipate? Governi tecnici? Non scherziamo. Teniamo alta l’attenzione su una crisi economica globale che ha messo in ginocchio gli italiani, e vogliamo spendere soldi inutili, anche perché vincerebbe di nuovo il centrodestra? Cerchiamo invece di ricomporre gli animi sulla necessità di una pacificazione nazionale. Tutte le altre soluzioni vanno nella direzione degli interessi personali, dei poteri locali, delle solite concussioni che non hanno nulla a che vedere con la logica compattezza. Premiamo quei politici, indipendentemente dalla loro appartenenza, che vogliono lavorare per la solidità dell’Italia, che deve proseguire con l’esecutivo scelto dagli italiani.

SUSSULTI DI COSCIENZA (I PARTE) In molti, a causa dei provvedimenti legislativi sulla sicurezza, hanno riportato il tema dei flussi migratori sulle prime pagine dei media. Il dibattito avviato risulta, però, imbrigliato da sofisticate analisi sugli aspetti demografici, dalla attualizzazione degli assetti geo-politici e dalle questioni di ordine giuridico, con approfondimenti sugli obblighi internazionali e sulla legislazione nazionale. Le stesse posizioni, cristianamente e laicamente ispirate al “bene comune” e alla “centralità della persona” e, conseguentemente, aperte alla “integrazione” e all’“accoglienza”, limitano, di fatto, le valutazioni sul fenomeno a questioni interne al nostro Paese. Oggi è necessario, al contrario - in adesione a quanto ha avuto modo di segnalare, ultimamente, Savino Pezzotta - approfondire le cause profonde che hanno portato all’“intolleranza” che si manifesta nelle nostre comunità, nel Nord-Est più che altrove. E tanto per poter, poi, immaginare utili percorsi perché siano ripristinate le regole del buon vivere civile. Per questo, è utile ripartire dalla fine degli anni Novanta. Già in quegli anni, infatti, si registrarono segnali di intolleranza nei confronti degli immigrati, che la politica non colse e che, nel tempo, si sono moltiplicati nell’ampiezza che conosciamo, fino a trovare “riconoscimenti” nella più recente legislazione sulla sicurezza. La Chiesa, di fronte all’incalzare degli sbarchi di gente disperata, in particolare quella di Lecce, organizzo\\u0300 centri e servizi per l’accoglienza degli immigrati che non fecero avvertire l’assenza dello Stato (che si limitò a sostenere, parzialmente, i costi) e dell’Unione europea (priva, al tempo, del cosiddetto “pilastro sociale”). Il fenomeno venne contrastato, sostanzialmente, con l’“accoglienza di transito” e con “processi di integrazione” che la Bossi-Fini, successivamente, sostenne perseguendo l’obiettivo di quantificare e normalizzare le presenze, rinunciando all’attivazione delle politiche di inclusione. Mario de Donatis C I R C O L I LI B E R A L BA R I

APPUNTAMENTI OTTOBRE 2009 OGGI, ORE 16, MUSEO CITTÀ DI BETTONA Omaggio a Renzo Foa. VENERDÌ 16, ORE 15, TORINO PALAZZO DI CITTÀ - SALA DELLE COLONNE “Verso la Costituente di Centro per l’Italia di domani”. Intervengono: Ferdinando Adornato, coordinamento nazionale Unione di Centro, e Gianni Maria Ferraris, consigliere comunale e coordinatore regionale Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Mario Fabi

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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PAGINAVENTIQUATTRO Il personaggio. È scomparso a 92 anni Irving Penn, il gigante della fotografia che cambiò il volto della moda

L’ultimo flash di un genio di Gaia Miani l mondo della moda, delle immagini, ma potremmo dire dell’arte più generale senza far torto a nessuno, piange la scomparsa di un grande del Novecento. Precisamente del «gigante della fotografia americana», come è stato definito negli anni quel genio dell’eleganza in bianco e nero che è stato Irving Penn. Un genio che il Novecento non ha voluto solamente attraversarlo, ma viverlo e interpretarlo a modo suo, restituendocelo nelle forme aggraziate e a volte graffianti di quelle tante immagini che hanno fatto il giro del mondo.

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DELL’ARTE

Il 92enne «occhio di Vogue» è morto la sera di mercoledì scorso nella sua abitazione di New York, a 17 anni di distanza dalla scomparsa della sua compagna di sempre, la modella e sua

Si affermò a 26 anni come assistente di Alexander Liberman per “Vogue”, rivista per la quale realizzò eleganti copertine, ritratti in bianco e nero e soprattutto nature morte, definendo un nuovo «visual style» personale musa Lisa Fonssagrives. La particolarità delle fotografie di Penn risiedeva soprattutto in una sorta di “metodo senza elaborazione artificiale”, furono cioè realizzate senza l’uso di elaborati espedienti, ma semplicemente con l’aiuto di un fondale di carta e con la più semplice illuminazione possibile. A partire dalla famosissima still-life, la natura morta apparsa nella copertina di Vogue (ottobre 1943), passando per le foto-icone degli anni Sessanta (dedicate alla Beat Generation e alla Summer Love del ’67), fino ad arrivare alle successive dedicate al mondo della moda, fu proprio questo metodo di lavoro a rendere le sue immagini dei veri e propri capolavori. Ossia il perfetto e sofisticato risultato dell’estetica less is more da lui lanciata, che si basava sull’assunto «più si sottrae da un’immagine, più essa può risultare efficace e suggestiva». Nato a Plainfield, nel New Jersey, il 16 luglio del 1917, Irving Penn studiò alla School of Industrial Art di Philadelphia. L’incontro con Alexey Brodovitch, uno dei suoi docenti, si rivelò presto prezioso e gli fruttò una collaborazione con la rivista Harper’s Bazaar dal 1938 (anno in cui si trasferì definitivamente a NewYork). Nel 1943, dopo aver conosciuto Alexander Liberman, cominciò a lavora-

utilizzava nel bianco e nero vennero riprodotti nel colore, ben definito in campiture precise e in spazi luminosi, chiusi, stretti, a volte fatti di angoli di pareti costruite per l’occasione.

re come fotografo di moda per Vogue, firmando la prima natura morta comparsa sulla copertina della storica rivista. E proprio con Vogue Penn avviò la sua lunga carriera: a partire dal 1947 realizzò un’ampia serie di ritratti di intellettuali, artisti, scrittori. La nettezza dei toni che Penn

Nel 1967 creò un piccolo studio fotografico “da viaggio”, attraverso il quale fu in grado di fotografare sullo stesso scenario, in ogni parte del mondo e in ogni condizione: nacque così la famosa serie Words in a small rooms (mondi in una piccola stanza), nella quale si alternano ritratti di personaggi celebri e le fotografie di gruppo, dove l’etnografia si mescola alla moda, come testimonia la famosa foto degli Hell’s Angels. Negli ultimi trent’anni Penn si era concentrato su ritratti a carattere etnografico, su nudi e studi sul colore. Fra i ritratti più noti di alcune delle celebrità che Penn ha immortalato, da Miles Davis a Spencer Tracy, da Georgia O’Keeffe a Pablo Picasso.


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