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Tutti i giornalisti sono,

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per via del loro mestiere, degli allarmisti: è il loro modo di rendersi interessanti

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Arthur Schopenhauer di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 14 OTTOBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Politica e media diffondono uno spettacolo indecente. Di Pietro e Belpietro indagati per «vilipendio al capo dello Stato»

Una dittatura c’è: la volgarità Presidente del Consiglio, ministri, dipietristi, titoloni di prima pagina, opinionisti: ormai l’arena pubblica è un festival di parolacce e di insulti.Anche così l’Italia affonda… REPLICA A BERLUSCONI

di Riccardo Paradisi

«Non sono un uomo di parte». La sfida di stile di Napolitano di Giancristiano Desiderio iò che agli italiani piace e interessa del presidente della Repubblica è ciò che non piace (ma comunque interessa, eccome) a Silvio Berlusconi: è uomo delle istituzioni. Il presidente Napolitano, che abbiamo già avuto modo di definire l’uomo giusto al posto giusto, ieri ha voluto rispondere direttamente a quanto da giorni il capo del governo va ripetendo con insistenza e forza: «Napolitano è uomo di sinistra, è uomo di parte». La risposta del capo dello Stato è stata netta: «Già tredici anni fa, quando diventai ministro dell’Interno ero determinato a svolgere l’incarico come uomo ormai delle istituzioni e non di una parte politica», ha detto.

C

Le parole sono pietre. E la politica italiana non le usa per costruire. Da anni ormai la corsa all’insulto e il ricorso a un linguaggio basso-volgare impenna con progressione geometrica. Nella campagna elettorale 2006 l’attuale premier dice «nessuno sarebbe così coglione da votare contro il proprio interesse». Volgare. Come volgare e agghiacciante fu l’auspicio formulato negli anni Novanta da Massimo d’Alema: «Vorrei vedere Berlusconi chiedere la carità davanti alla Standa». Ma tutto questo non è stato che l’inizio di una lunga deriva. a pagina 2

LINGUAGGI E DEMOCRAZIA

Gli obiettivi di questo “nuovo popolanesimo” di Francesco D’Onofrio Sembra opportuno condurre l’analisi concernente la situazione politica italiana - e non solo quella italiana - non più soltanto alla stregua di criteri strettamente giuridicocostituzionali, ma anche alla stregua del rapporto che esiste ed è sempre più stretto, tra il linguaggio della politica e la democrazia.

segue a pagina 6

MODERNIZZAZIONI «È urgente alzare l’età pensionabile e adeguare il sistema di ammortizzatori ad un mercato del lavoro diventato più flessibile». Il Governatore torna a chiedere all’esecutivo le grandi riforme. Ma Sacconi gli dice di no

Il pressing di Draghi alle pagine 4 e 5

a pagina 2

Il Parlamento, a sorpresa, affossa la legge presentata da Paola Concia

Omofobia, un pasticcio Passa la pregiudiziale dell’Udc. E nel Pd scoppia il caos di Andrea Ottieri

Parla Paola Binetti, l’imputata numero uno tra i democratici

L’elogio dell’imprenditoria “micro” ha prodotto un ghetto dove Bossi e Tremonti fanno proseliti di Enrico Cisnetto • pagina 5

«Non possono chiedermi incoerenza»

ROMA. È bagarre nel Pd per via dell’omofobia: Paola Concia attacca Franceschini e Franceschini attacca Binetti. Ieri l’Aula della Camera ha «affossato» il testo di Paola Concia sull’omofobia. L’Assemblea di Montecitorio ha infatti approvato la questione pregiudiziale avanzata dall’Udc anche con i voti del Pdl e della Lega. Pd e Idv hanno votato contro.

di Gaia Miani

ROMA. La formulazione dell’emendamento sull’omofobia bocciato ieri dalla Camera dei Deputati «era ambiguo. Il mio voto è in continuità con quello che avevo espresso due anni fa in Senato sullo stesso argomento». Risponde così la deputata del Pd Paola Binetti a chi gli chiede un commento alla dichiarazioni

a pagina 7 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO

Com’è vecchio ormai lo slogan giulio-leghista “piccolo è bello”

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

203 •

del segretario del Pd Franceschini, che ha giudicato come «un problema, un signor problema» il suo voto a favore della bocciatura del testo Concia insieme a quelli dei deputati della maggioranza e dell’Udc. Posizione più morbida per Bersani: «È stata la maggioranza a bocciare il testo». segue a pagina 7 WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Metti un pomeriggio, sul lago, a parlare di Renzo Foa A quattro mesi dalla scomparsa, gli amici lo hanno ricordato in un convegno a Bettona, nella “sua” amata Umbria di Gabriella Mecucci • pagina 18

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 14 ottobre 2009

Scurrilità. Lo storico Crainz e il linguista Volli ragionano con liberal sull’involuzione del confronto politico in Italia

La Repubblica dell’insulto Dal governo a certa opposizione, dalle tivù ai giornali, la volgarità è ormai dominante. Di Pietro e Belpietro indagati per vilipendio al capo dello Stato di Riccardo Paradisi e parole sono pietre. E la politica italiana non le usa per costruire. Da anni ormai la corsa all’insulto e il ricorso a un linguaggio basso-volgare impenna con progressione geometrica. Nella campagna elettorale 2006 l’attuale premier diceva «Nessuno sarebbe così coglione da votare contro il proprio interesse». Volgare. Come volgare e agghiacciante fu l’auspicio formulato negli anni Novanta da Massimo d’Alema: «Vorrei vedere Berlusconi chiedere la carità davanti alla Standa».

L

La Prima repubblica è crollata da qualche anno, portandosi nelle macerie anche quel lessico formale, paludato e se si vuole ipocrita che però manteneva negli argini il conflitto politico. Bettino Craxi, che pure non era uno delicato, era arrivato a parlare di “Intellettuali dei miei stivali” durante il suo potere. Per lui nei giorni dell’ira s’era invece forgiata la metafora del cinghialone. Niente a confronto degli insulti diretti di oggi. Il ministro della pubblica Amministrazione Renato Brunetta è un campione della provocazione linguisitca. Recentemente a Cortina D’Ampezzo ha invitato la sinistra “per male” ad “andare a morire ammazzata”insieme alle “élite golpiste di merda”. Il giorno dopo un camion in giro per le vie di Roma – già preparato da giorni – montava un manifesto gigante dove a Brunetta veniva augurato di “pijà un colpo”«a nome degli impiegati fannulloni». Brunetta ha risposto ironico: tranquilli mai stato meglio. Invece si era arrabbiato e molto il ministro quando si sentì recapitare da Massimo D’Alema l’epiteto di: “Energumeno tascabile”. La tecnica dell’insulto accomuna maggioranza e opposizione. Basti pensare ad Antonio Di Pietro, che sull’insulto a Berlusconi investe elettoralmente da anni: “un magnaccia” (il 25 giugno), “cadrà con il dito al-

Gli obiettivi di un linguaggio che corrompe la democrazia

Il “nuovo popolanesimo” di Francesco D’Onofrio embra opportuno condurre l’analisi concernente la situazione politica italiana - e non solo italiana - non più soltanto alla stregua di criteri strettamente giuridico-costituzionali, ma anche alla stregua del rapporto tra linguaggio e democrazia. La situazione italiana sembra caratterizzata – a partire dal 1994 – da un uso sempre più frequente di linguaggi “popolani”ai quali viene attribuita una sorta di virtù democratica salvifica: lo ha detto il popolo; lo vuole il popolo; è il popolo che decide quel che si può fare; chi non ha legittimazione del popolo non può stabilire regole diverse da quelle che il popolo gradisce, e simili.

S

È dunque giunto il momento di affrontare la questione linguistica fino in fondo: di quale linguaggio del popolo si parla? Allorché parliamo del popolo ci riferiamo a tutti i soggetti che del popolo fanno parte o soltanto a quella parte di popolo con la quale siamo in particolare sintonia, come capita ad esempio negli stadi di calcio allorché parla il popolo degli ultras? La distinzione tra popolarismo e populismo è certamente una distinzione radicata e politicamente decisiva per stabilire se parliamo di un popolo o dell’altra parte del popolo medesimo. Coloro i quali affermano di ispirarsi ad una cultura “popolaristica” esprimono con tutta evidenza il desiderio di parlare a nome dell’intero popolo nel quale infatti si sono nel corso dei secoli costituiti linguaggi diversi l’uno dall’altro, ma tutti essenziali per costruire la cosiddetta volontà popolare. Coloro invece che vedono come legittima soltanto la parte per così dire “popolana” del popolo medesimo non ritengono che abbia legittimità ad essere parte del discorso pubblico chi usa linguaggi diversi da quelli “popolani”. Nella concreta esperienza italiana questa continua trasposizione dai “popolani” ritenuti popolo tout court al sistema costituzionale

popolare finisce con l’introdurre una sorta di assolutismo linguistico, laddove l’esperienza democratica si basa – anche in Italia – proprio sul riconoscimento storico della legittimità di più lingue, tutte parte della lingua popolare, all’interno della quale certamente quella “popolana”è parte significativa del linguaggio politico generale, ma non può essere considerata l’unico linguaggio della democrazia, salvo che non si intenda proprio passare da una democrazia pluralistica ad un modello assolutistico, teocratico come nel caso dell’Iran, neo-statuale come nel caso della cosiddetta Padania, falsamente definito presidenziale, come si è in qualche modo affermato anche in Italia a partire dalla elezione diretta del sindaco e del presidente della Regione. Anche la notissima separazione dei poteri di cui ha parlato Montesquieu può essere letta proprio nel senso non solo di una proposta tecnica di separazione dei poteri, ma di una profonda tripartizione dei linguaggi della democrazia: il linguaggio del fare tipico del potere esecutivo; il linguaggio del rappresentare, tipico del potere parlamentare; il linguaggio del decidere i casi concreti, tipico del potere giudiziario. È di tutta evidenza che ciascun linguaggio è costituzionalmente indispensabile se si vuole fare in modo che non prevalga l’assolutismo dell’esecutivo o del legislativo o del giudiziario.

Qualora pertanto si intendesse por mano ad una riforma costituzionale che abbia l’ambizione di affrontare questioni di fondo e non soltanto dettagli organizzativi, occorrerà che sia assolutamente chiaro quale obiettivo si intende perseguire: si è in presenza di una proposta che parte dalla constatazione dell’esistenza di più linguaggi che compongono una democrazia pluralistica, o si intende passare da una costituzione pluralistica prima ancora che parlamentare ad una nuova costituzione nella quale non vi è più l’equilibrio - necessariamente nuovo - tra principio di eguaglianza (che richiede la consapevolezza di esso da parte di tutti e tre i poteri costituzionali indicati) e volontà popolare? Occorrerà pertanto dire con chiarezza se si intende costruire una nuova fase democratica nella quale vi è una pluralità di linguaggi che il popolo parla, o se si intende fare in modo che solo il linguaggio “popolano” abbia legittimità costituzionale per fondare nuovi stati o per sopprimere del tutto il linguaggio della rappresentanza proprio dei parlamentari e quello giudiziario proprio della magistratura.

zato come Saddam Hussein” (18 settembre),“presidente del consiglio Videla” (13 novembre 2008). Esponenti della maggioranza hanno risposto definendo l’ex magistrato “bandito” (Sandro Bondi e strania Craxi) o “treccartaro”(Daniele Capezzone). Il presidente della camera Gianfranco Fini si è sentito dire “Chel lì l’è matt” da Umberto Bossi la cui abitudine al trivio si arricchisce di spunti creativi e surreali: definì Gianfranco Miglio, a lungo ideologo della Lega,“una scoreggia nell’universo”. Nei fantastici anni Novanta aveva dichiarato serafico che «Con un rutto la Lega farà diventare azzurri i capelli di Arnaldo Forlani». A Margherita Boniver, che manifestava timori sulle camicie verdi – «Sono armate?», si chiedeva l’esponente socialista – Bossi rispose: «Si sono armate, Bonazza-Boniver, armate di manico», mimando il gesto col braccio. Il resto è sempre vivo nella nostra memoria: dall’invito a una signora che assisteva col tricolore a un suo comizio di “pulircisi il culo” con la bandiera italiana all’autocertificazione di priapismo: «La lega ce l’ha duro».

Nino Strano di Alleanza nazionale, durante la seduta antimeridiana del gennaio 2008, giorno della caduta di Prodi, a Nuccio Cusumano, deputato che aveva disubbidito all’ordine di scuderia di Mastella di votare contro il governo, gridava in successione: «Cesso, cesso corroso, checca, checca squallida». Una piccola antologia: per capire che insomma la lotta nel fango non comincia con Berlusconi che dice a Rosy Bindi che ”È più intelligente che bella”o che accusa i giornali stranieri di “sputtanare” con lui l’italia intera. Si va avanti così da un po’. Giampaolo Pansa è preoccuopato: «Il bipolarismo si sta trasformando in un mostro. I due blocchi si odiano. Senza domandarsi quali effetti perversi avrà nel corpo di un paese sempre più intossicato». Rischiamo la deriva Guido Crainz storico, autore del recentissimo Autobiografia della Repubblica. Le radici dell’Italia attuale (Donzelli) non vede niente di nuovo sotto il sole. Solo che siamo alla parodia. «Ci dimentichiamo spesso gli anni della guerra fredda – dice – ”i comunisti trinariciuti, mangiatori di bambini, quinte colonne dell’Urss e i conservatori come servi dell’America e dei padroni. Erano caricature violente, dietro


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La lingua tra politica, piazza e piccolo schermo

Nessuno sarebbe co sì coglione da votare contro il proprio interesse

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Silvio Berlus coni

Brunetta, un energ umeno tascabile

Massimo D’A lema

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Antonio Di Pietro? Un treccartaro

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La camicie verdi sono armate. Armate di manico

Umberto Bo ssi

le quali però c’era la tragedia di una guerra fredda internazionale. Oggi ad ascoltare Berlusconi e Di Pietro mi viene in mente Il vecchio Marx: la storia si presenta la prima volta come tragedia, la seconda come farsa». Però secondo Crainz un problema di equilibrio esiste: «Il timore di Scalfari è fondato». Libertà di stampa a parte, è colpa anche l’involgarimento del linguaggio politico? «Il problema sono gli italiani non Berlusconi dice Crainz: lo dico in Autobiografia di una nazione: cerchiamo di non fare l’errore che abbiamo commesso ai tempi di mani pulite, tutte le colpe sono del ceto politico corrotto mentre la società civile è sana. Non era così ieri e non è così oggi. Questo non significa assolvere Berlusconi dalle sue responsabilità. Quando un capo di governo dice che sulla libertà “ghe pens’ mi c’è da preoccuparsi. Però appunto l’imbarbarimento del linguaggio politico offusca questa preoccupazione». È molto meno preoccupato invece Ugo Volli, semiologo dell’università di Torino, che sulla baruffa politica di questi mesi posa uno sguardo ironico e disgustato: «Questa è una ridicola e pericolosa deriva tutta interna però al villaggetto chiuso del mondo

politico e giornalistico. Ma davvero lei crede che gli italiani si appassionino a questi spettacoli gladiatori? Non conosco amicizie rovinate dal lodo Alfano. Né persone anche iscritte al Pd che si preparano ad andare in montagna perché temono l’arrivo della dittatura. Dicono: Repubblica ha raccolto 450mila firme per la difesa della libertà di stampa. A me sembrano pochissime. 450mila firme in due mesi sono solo un quinto dei suoi lettori. Ma poi scusi non ha letto di Obama? Ha detto che da oggi Fox Tv non sarà più trattato come un servizio di informazione ma come un partito politico». Ma se tutto è teatrino della politica, commedia dell’arte in cui, come da copione ci sono personaggi che si pestano, perché Volli dice che questo continuo volare di insulti e parole grosse è ”pericoloso”? «Perché gli imbecilli ci sono sempre. Per il resto siamo di fronte a un linguaggio sovraeccitato dove non c’è più dimensione politica». La democrazia italiana insomma non è in pericolo. È solo diventata più volgare.

Silvio Berlusconi ha abituato gli italiani ai suoi show tra aggressività e vanteria: uno stile che richiama quello di Umberto Bossi. A destra, lo storico della letteratura Giulio Ferroni

«È il modello spot: basta l’illusione»

Per il critico Giulio Ferroni, siamo tutti figli della tv e delle sue regole di Francesco Lo Dico

ROMA. «Non c’è da stupirsi, nell’osservare l’odierna barbarie linguistica. Siamo nel Paese che ha prescelto come guida un presidente del Consiglio che ha costruito le sue fortune sulla tv commerciale, che ha prosperato su un modello culturale fondato sulle volgarità dei talk-show e le licenze dei drive-in. La sistematica corruttela del nostro patrimonio espressivo non è che la spia di un più profondo processo di sgretolamento contenutistico. Studi e competenze sono state sostituite da strepiti, insulti e humour pecoreccio. Si è contrapposta la diceria all’arte retorica, il coretto da osteria al serio dibattito, la tronfia ignoranza all’eleganza istituzionale. I latini dicevano che gutta cavat lapidem. E la pietra latina è stata scalfita benissimo. A tal punto da trasformarla in una italianissima lapide». Giulio Ferroni, docente di Letteratura italiana all’università La Sapienza di Roma, non sembra nutrire grandi speranze. E non induce troppa consolazione il fatto che, nella più spericolata delle ipotesi, si possa sostenere che ser Brunetto e ser Brunetta siano accomunati in fondo dalla stessa vocazione linguistica: il ricorso al volgare. Professore, quali sono i salti logici che hanno portato molti protagonisti del Parlamento dal politichese al gergo di strada? È un fatto di concorrenza spietata. La caccia allo share inaugurata dalle reti private ha sospinto sempre più verso il basso il livello della comunicazione e del messaggio, premiando l’aggressività e la ferocia ai danni della moderazione e della qualità espressiva. Le baracconate e le lacrime finte, i cazzotti e le gag combinate non hanno interpolato soltanto il linguaggio politico, ma hanno risospinto il baricentro della nostra lingua verso i modelli più poveri e bassi. Ed è stata azzerata la pretesa educativa del mezzo televisivo, che mirava al contrario a uniformare l’italiano su standard più elevati. Il connubio sempre più stretto tra salotto televisivo e salotto politico, non ha fatto altro che mischiare i due mondi per sempre. E non è un caso, infatti, che molti esponenti politici odierni abbiano fatto formazione politica nella gazzarra televisiva e che altri, visto che il clima lo consente, si spostino senza particolari sforzi di adattamento, dalle quinte di un varietà a quelle del Parlamento. Siamo di fronte a nuove strategie di consenso vagamente populistiche? Magari si trattasse di strategie. In una panorama del genere, attentamente preparato a tavolino a immagine e somiglianza di alcune fazioni, il calcolo politico è assolutamente irrilevante. Occorre semplicemente dar fiato alla bocca. Buona parte degli italiani ha introiettato talmente tanto paradigmi e sistemi di pensiero dominanti, che sono pronti ad accogliere in buona fede le più indifendibili corbellerie e le più grandi menzogne. E il continuo appello al popolo, la dice lunga, in questo senso. È la tecnica dello spot pubblicitario moderno, che non ha quasi mai a che fare con il prodotto che tenta di vendere, ma punta tutto sullo choc e il colpo ad effetto. Confondere, stupire, è molto meglio che convincere e descrivere. E la parola riveste sotto quest’aspetto un ruolo fondamentale. Tutto sembra autentico e commovente, perché corrisponde ormai al nostro immaginario. Un mondo dove fatti e verità assomigliano a rette parallele: non si incontrano mai. Non si tratta infatti di una semplice falsificazione del linguaggio, che trasformato in insulto occulta l’argomentazione. Siamo in presenza di una corrispondente falsificazione della Storia che favorisce ad esempio certe bizzarrie di marca leghista. In un Paese come il nostro, in cui la cultura è stata posta sotto sequesto e lasciata a pane e acqua, l’invocazione del popolo a giustificazione di qualunque scempiaggine è garanzia di sicuro successo.


economia

pagina 4 • 14 ottobre 2009

Oltre la recessione. Per il numero uno della Banca d’Italia occorre cogliere l’occasione della crisi per riformare il lavoro

Il welfare di Draghi

«Alzare subito l’età pensionabile». Sacconi dice di no. Marcegaglia invece è d’accordo di Alessandro D’Amato

ROMA. Adeguare il sistema degli ammortizzatori a un mercato del lavoro diventato più flessibile. E alzare l’età pensionabile. Ma il governo dice no. Presso il collegio Carlo Alberto di Moncalieri a Torino, Mario Draghi detta l’agenda delle riforme economiche improcrastinabili, e Sacconi gli risponde che basta quello che c’è già. Il tema non una novità, a dire il vero, visto che in ogni sua uscita pubblica il governatore della Banca d’Italia ha posto l’accento sull’urgenza di questi interventi, portando spesso a corredo studi e relazioni di via Nazionale. Stavolta l’occasione è data dalla lezione dedicata a Onorato Castellino, Preside della Facoltà di Economia di Torino, presidente della Compagnia di San Paolo e del collegio sindacale della Reale Mutua, oltre che socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei e dell’Accademia delle Scienze di Torino.

E ricordando anche tutti i contributi scientifici e analitici del professor Castellino (scomparso nel 2007 dopo una lunga malattia), Draghi spiega perché il sistema italiano deve essere riformato. «Superata la fase di emergenza - dice il Governatore - resta la necessità di adeguare il nostro sistema di ammortizzatori sociali ad un mercato del lavoro diventato più flessibile. Ne sarebbe favorita la mobilità del lavoro, accresciuta l’efficienza produttiva, rafforzata la tutela dei lavoratori e aumentata l’equità sociale». Anche perché il tasso di copertura assicurato in Italia dal pilastro pubblico ai futuro pensionati «sarà più basso, a parità di età di pensionamento, di quello che il sistema ha garantito finora» e, quindi, «per assicurare prestazioni di importo adeguato a un numero crescente di pensionati è indispensabile un aumento si-

gnificativo dell’età media effettiva di pensionamento», ha aggiunto Draghi. C’è spazio anche per un elogio all’attuale esecutivo: «Nell’anno in corso sono dovunque cresciute le risorse pubbliche destinate al sostengo del reddito di coloro che hanno perso il lavoro anche in Italia lo sforzo è stato grande. Occorre dare merito al ministro Sacconi di avere messo in campo una quantità molto ampia e assolutamente adeguata di misure per superare la crisi». Questo però non cambia l’immobilismo italiano: «Da oltre un decennio si discute in Italia del sistema di ammortizzatori sociali, senza che le ripetute deleghe ai Governi che si sono succeduti abbiamo portato ad una riforma organica. Molti lavoratori restano ancora esclusi dalla tutela pubblica e nonostante i vari interventi, non si è ancora giunti ad un ripensamento complessivo

Aperture dalla Cisl e dalla Uil

Ma anche Inps e Fiom sbattono la porta in faccia al governatore di Guglielmo Malagodi

Il leader della Fiom Cremaschi ha definito «iniqua» l’idea di Mario Draghi sulle pensioni

del sistema orientato a criteri di equità ed efficienza».

Adesso è il momento di stringere: «Per assicurare prestazioni di importo adeguato ad un numero crescente di pensionati è indispensabile un aumento significativo dell’età media effettiva di pensionamento. Tale aumento potrà contribuire, se accompagnato da azioni che consentano di rendere più flessibili orari e salari di lavoratori più anziani, a elevare il tasso di attività e a sostenere la crescita potenziale dell’economia. l’aumento dell’età di pensionamento è ostacolata dal fatto che molti lavoratori sovrastimano la generosità delle attuali regole pensionistiche. Nello scegliere quando andare in pensione inoltre i cittadini tendono a confrontare le prima pensione con l’ultimo stipendio senza te-

ROMA. Possibiliste ma con qualche condizione di partenza: questo è il senso delle reazioni di Uil e Cisl alla proposta del governatore di Bankitalia sull’innalzamento («rapido e significativo») dell’età pensionabile. «La Uil, per elevare l’età media di pensionamento, così come proposto dal Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, ritiene utile continuare a lavorare sulla flessibilità e sulla libertà di scelta del lavoratore, in coerenza con i principi della legge Dini. Grazie alle riforme di questi ultimi anni, infatti, il nostro sistema previdenziale è in equilibrio ed i recenti interventi per l’elevazione dell’età delle donne nel settore pubblico e sulla correlazione tra momento del pensionamento ed aspettativa di vita hanno contribuito a stabiliz-

zarlo ulteriormente». È questa la reazione ufficiale del segretario confederale Uil, Domenico Proietti. Fa eco la Cisl con una dichiarazione tutta puntata al recupero di potere d’acquisto per le pensioni: «Il contrasto alla povertà – ha detto il segretario confederale Cisl, Maurizio Petriccioli - deve essere realizzato non solo attraverso interventi di natura assistenziale, come giustamente il Governatore della Banca d’Italia ha sottolineato, ma anche evitando che la progressiva perdita del potere di acquisto delle pensioni determini una situazione non più sostenibile per milioni di pensionati». Passando al concreto, Petriccioli aggiunge: «A tale riguardo, oltre che con l’assistenza per i poveri, è fondamentale operare sia dal lato fiscale, attraverso un forte in-

ner conto che negli ultimi anni di pensionamento tale rapporto andrà riducendosi, poiché i trattamenti sono indicizzati solo ai prezzi e non ai salari». Per questo secondo il governatore di Bankitalia «sarebbero utili una migliore informazione ed eventualmente una revisione dei criteri di indicizzazione, in cui l’introduzione di un collegamento alla dinamica delle retribuzioni fosse compensato da una riduzione dei coefficienti di calcolo della prima rata di pensione».

Ma a stretto giro di posta arrivano le repliche, piuttosto secche, del governo e dell’Inps. Secondo il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, le riforme sulle pensioni già fatte sono “più che sufficienti”. Sacconi sottolinea che ci sono due stabilizzatori del sistema: l’adetervento di sostegno nei confronti dei salari e delle pensioni, sia individuando misure più efficaci di adeguamento delle pensioni al costo della vita, con le modalità più volte richieste dalle federazioni di categoria dei pensionati. Anche per questa via si può dare un contributo decisivo al rilancio della domanda interna, indispensabile per far tornare a crescere la nostra economia». E la Cgil? Ormai bisogna prima chiedersi “quale” Cgil, dopo che la spaccatura tra la leadership di Epifani e la fronda Fiom si è acuita. Ecco allora il commento – duro – di Giorgio Cremaschi, segretario nazionale Fiom: «La ricetta del governatore della Banca d’Italia sulla crisi è socialmente iniqua e totalmente lontana dalla realtà. Proporre


economia

14 ottobre 2009 • pagina 5

La stagnazione economica non può più essere combattuta solamente con gli slogan

Quella retorica del “piccolo è bello” L’elogio del “micro” ha prodotto solo un ghetto dove la Lega e Tremonti vanno a caccia di consensi contro i “poteri forti”. Ma si tratta di un’illusione di Enrico Cisnetto n un paese dove il 97% degli oltre 5 milioni di sue imprese sono sotto i 10 dipendenti, non c’è da stupirsi se l’attenzione verso gli imprenditori piccoli e piccolissimi sia particolarmente alta. È dai tempi in cui il Censis inventò la definizione “piccolo è bello”che se ne tessono le lodi, indicandoli di volta in volta come la” spina dorsale del paese” piuttosto che la “borghesia del fare” contrapposta al ceto parassitario dell’impresa assistita e protetta. Di solito sono i politici di mezza tacca a sperticarsi nei peana, sicuri di pescare consenso in un bacino assai vasto. Ma anche la Confindustria negli anni non ha mancato di magnificare quella che poi è la sua base, cui peraltro ha continuato a mantenere un recinto, quello della Piccola Industria, che è nato per aumentarne la rappresentanza ed è finito da subito per essere un ghetto. Anche molti economisti, o presunti tali, non solo si sono spellati le mani ad applaudire questa “parte sana” del sistema economico, ma hanno anche decantato le virtù del modello di sviluppo all’italiana, quando non addirittura ne hanno teorizzato la superiorità rispetto agli altri, dal renano all’anglosassone.

I

guamento dei coefficienti di trasformazione dei contributi e la norma prevista nel decreto anti-crisi che adegua l’età pensionabile all’aspettativa di vita a partire dal 2015. «La nostra riforma nel provvedimento “anticrisi” - ha spiegato Sacconi non può essere sottovalutata perché non ha determinato forme di mobilità sociale. Già dall’anno prossimo si calcola l’andamento dell’aspettativa di vita in modo che dal 2015 ci sia un aumento automatico corrispondente e proporzionale. Da allora ogni 5 anni ci sarà un adeguamento. Credo che un meccanismo di questo genere sia più che sufficiente visto che si combina con quanto previsto dai governi Dini e Prodi sulla caratura delle pensioni». E infine, alla domanda se le riforme fatte quindi bastano, Sacconi risponde: «Ragionevolmente sì».

di innalzare l’età pensionabile quando le aziende – dice ancora Cremaschi - oggi si liberano appena possono di tutte e tutti coloro che superano i 45-50 anni, significa creare precariato anziano in concorrenza con quello più giovane». Insomma, non ci sono dubbi sulla chiusura dura e pura di Cremaschi. Ma curiosamente un no arriva anche dall’Inps, diretto interessato alla questione, per così dire: «Il sistema pensionistico così com’è tiene», ha commentato il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua: «Di fatto già nel decreto anti-crisi esiste una norma che adegua l’età pensionabile all’aspettativa di vita e a decorrenza dal 2015, ora va verificata l’applicazione di questa norma e l’impatto sui conti dalla ragioneria e dall’Inps».

verno. Infatti, tutto si tiene: da un lato ci sarebbero le élite parassitarie – come variamente le hanno declinate Sacconi e Brunetta, per esempio – che diventano sovversive per mantenere i loro privilegi a fronte di un regime politico intenzionato a tagliar loro le unghie, élite che nello scenario di Berlusconi si saldano con tutti i suoi avversari o soltanto critici, ma che il premier considera automaticamente nemici dediti al complotto, e che di volta in volta si annidano nella stampa, nella magistratura, nelle istituzioni e nelle imprese e banche “non allineate”; dall’altro lato, c’è il “popolo del fare”, al quale le élite vengono offerte in pasto come responsabili di tutto ciò che di negativo accade nel paese. Per cui Berlusconi è il miglior premier di tutti i tempi non solo per quello che riesce a fare – che di solito è il fronteggiare le emergenze, cosa ovviamente non disprezzabile ma certo non esaustiva di una leadership che dal 1994 sta vivendo il suo ottavo anno di governo – ma anche perché è costretto a fronteggiare chi vuole morto lui e chi intende impedire la sua “rivoluzione liberale”. Naturalmente, è vero che esistono gli uni e gli altri, ma in parte è fisiologico che sia così, e la bravura di un politico, o se si vuole ciò che separa uno statista da un apprendista, sta proprio nell’esserne cosciente e avere la capacità di imporre la propria strategia. E in parte ciò che ha superato la fisiologia per diventare patologia – il cosiddetto “anti-berlusconismo” – finora è stato un formidabile strumento di acquisizione di consenso per la“vittima”. Si tratta, cioè, di situazioni che non giustificano per nulla la povertà dei risultati, specie sul piano della grandi riforme strutturali, dei governi Berlusconi.

Il governo usa il “tiro al banchiere” come strumento di acquisizione di consenso e come riparo dalle critiche

Ora, che questo avvenisse negli anni Ottanta, in pieno boom del made in Italy e ben prima della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica, poteva essere comprensibile e in una certa misura giusto. E l’iniziale, positivo, sviluppo dei distretti industriali, rendeva ancor più logica quella tendenza. Ma che questa litania del micro, dell’imprenditorialità diffusa, ma soprattutto della strategicità delle “partite Iva”, sia continuata negli ultimi due decenni, a fronte di una lunga fase di stagnazione che è stata la conseguenza della perdita di produttività e competitività del nostro sistema produttivo, beh questo è segno di colpevole ignoranza. E che tutto ciò avvenga ancora oggi, addirittura con accenti ancor più forti, nel pieno della recessione che la “grande crisi” mondiale ha prodotto, è imperdonabilmente grave.

Eppure è quello che la cronaca ci segnala ogni giorno. Come nel caso dell’appuntamento di Vergiate, nel varesotto – non casualmente organizzato dalla Lega che del fenomeno micro si è fatta più di altri paladina – dove quelli che il mio amico Di Vico ha definito gli “invisibili”non solo sono stati esaltati per il fatto stesso di essere minuscoli, ma sono anche stati utilizzati (strumentalizzati?) per “vendere” al Paese che il vero problema che ha di fronte sono le banche e la loro (presunta) indisponibilità a concedere credito. Operazione che s’inquadra in una più vasta tendenza a demonizzare (presunti) “poteri forti”, fino al punto di ipotizzare l’esistenza di un complotto per rovesciare il Go-

Ma non è di questo, così come non è dell’imbecillità di una sinistra che ha regalato al giustizialismo e all’anti-politica (non a caso le armi berlusconiane al tempo della “discesa in campo”) la sua rappresentanza, che intendevo parlare quando mi sono incamminato sulla strada della critica alla retorica del piccolo e del locale contrapposta alla demonizzazione del grande e del globale. Quello che conta è riflettere sulle conseguenze che l’esercizio di questa retorica ha già prodotto, nel recente passato, a cominciare

dalla demonizzazione delle grandi imprese – basata sulla loro equivalenza con la corruzione (ricordiamoci i tempi di Tangentopoli), lo statalismo deteriore (la definizione“boiardi di Stato”dice qualcosa?), il prosciugamento delle sovvenzioni pubbliche (per esempio gli incentivi per la Fiat, che peraltro sono continuati), l’inquinamento (equivalenza che ci ha fatto perdere interi settori, come la chimica) – che a sua volta ha prodotto la scomparsa, per chiusura o per emigrazione all’estero, di grandissima parte delle nostre imprese over-size. Un danno enorme per il capitalismo italiano, specie sotto il profilo della ricerca e dell’innovazione, che è stato costretto a livelli tecnologici incompatibili con i paradigmi della competizione mondiale.

Ora tornano gli slogan contro i grandi poteri – magari ce ne fossero, saremmo meno in crisi! – e concentrano gli strali verso le banche, sulle quali fa comodo a molti scaricare la responsabilità della recessione, o di una lesta uscita da essa: al governo, che ha adottato il“tiro al banchiere” sia come strumento di acquisizione di facile consenso sia come“fuoco di copertura”per mettersi al riparo dalle critiche, ma anche alla Confindustria, cui urgeva trovare un “nemico comune” per evitare che il conflitto tra interessi troppo diversi, in particolare tra chi già ce l’ha fatta e chi non ce la farà mai a salvarsi dalla crisi, finisse per diventare esplosivo (ed è probabile succeda ugualmente). Sia chiaro, in questo gli uomini del credito – quelli ultra-conservatori del “quieta non movere” (i vertici delle banche popolari, in primis) e quelli ultramoderni fin troppo orientati al mercato – ci hanno messo del loro, con errori, omissioni, ma soprattutto con l’incapacità di fare sistema e di adottare politiche d’immagine capaci di evitare il pubblico disprezzo a cui sono stati esposti. Tuttavia, non credo esista paese al mondo dove la classe dirigente abbia promosso, o comunque tollerato, un simile “gioco al massacro”. Di sicuro non esiste governo al mondo che nel corso della crisi abbia deciso di aiutare le banche per poi “spingere” quel finanziamento fino al punto di divedere gli istituti che vi fanno ricorso e quelli no in “buoni e cattivi”. Il fatto è che tutto questo, in un capitalismo “banco-centrico”come il nostro, rischia di produrre un danno enorme. Di cui, come nel caso delle grandi imprese industriali, ci si renderà conto solo quando sarà troppo tardi. E siccome in gioco c’è la pelle del Paese, è bene che queste cose si dicano senza reticenze. (www.enricocisnetto.it)


diario

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Colle. Il Presidente risponde alle accuse di Berlusconi: «Fin da ministro dell’Interno scelsi la via dell’imparzialità»

«Non sono un uomo di parte» Montezemolo con Napolitano: «È il massimo delle istituzioni» di Marco Palombi

ROMA. «Consentitemi questo accenno personale: nell’assumere l’incarico di ministro dell’Interno ero determinato a svolgerlo come uomo ormai delle istituzioni e non di una parte politica». Giorgio Napolitano, per il secondo giorno consecutivo, tenta a forza di dichiarazioni di fermare l’ondata di attacchi a cui è sottoposto dal presidente del Consiglio e dalla stampa a lui vicina: sono 13 anni, dice in buona sostanza, che le mie scelte si muovono in questo solco «al di là dell’alternarsi di diversi schieramenti al governo del Paese». Il capo dello Stato, parlando ieri alla conferenza dei prefetti, non ha rinunciato nemmeno a qualche bacchettata al governo su ronde («solo alle forze di polizia spetta la salvaguardia attiva della sicurezza dei cittadini») e immigrazione: è necessario, ha detto, il «rispetto dei diritti umani», e in particolare di quello «d’asilo», oltre a politiche «per favorire nel modo più conseguente l’integrazione degli stranieri regolari». La strategia comunicativa del presidente della Repubblica, però, è sottile e articolata: ha infatti invocato un dialogo “oggettivo e sereno”sulle politiche di sicurezza e carezzato la Lega sostenendo che servono nuove «incisive modifiche costituzionali per dare compimento alla riforma federalista», anche «sul piano della fisionomia e del funzionamento del Parlamento nazionale» (un riferimento al Senato delle Regioni, caro al Carroccio).

Il corpo politico del capo dello Stato è stato però anche ieri ostaggio della polemica politica spicciola.Vittorio Feltri, dalle colonne del suo Giornale, nonostante la smentita formale del Quirinale continua in buona sostanza ad accusare Napolitano e il premier di aver attentato all’autonomia di un organo costituzionale, vale a dire la Consulta, attraverso quello che bizzarramente definisce «un accordo tra gentiluomini». Di fronte a questo stillicidio ieri Luca Cordero di Montezemolo ha voluto dare il suo sostegno al presidente della Repubblica, «una persona sempre di grandissima misura e che rappresenta fortunatamente l’esempio massimo delle

L’intenzione è quella di fermare l’ondata di attacchi cui è sottoposto dal premier e dalla stampa a lui vicina

istituzioni. Chi non le rispetta – ha detto il presidente della Fiat - è come quel tale che sega il ramo su cui sta seduto». Il Quirinale ieri è stato però anche il casus belli d’una nuova iniziativa

di Antonio Di Pietro. Il leader di Italia dei Valori è stato infatti indagato dalla Procura di Roma, insieme a Maurizio Belpietro, per «offese al capo dello Stato»: la denuncia, un atto dovuto, parte

Perché il Colle ha scelto di rieplicare alle insinuazioni del premier

Le ragioni di una sfida di stile di Giancristiano Desiderio segue dalla prima Allora, ha ricordato ancora, «ebbi ben presto chiaro che occorreva impegnarsi» a «ridisegnare» le funzioni del ruolo del prefetto «proprio a sostegno della trasformazione dello Stato ormai avviata». Napolitano ha anche auspicato «alcune incisive modifiche costituzionali per dare coerenza alla svolta che è stata avviata in senso autonomistico e federalista». Proprio quest’ultimo passaggio dimostra il corretto stile istituzionale di Napolitano che auspica modifiche costituzionali nei giorni in cui il capo del governo lo attacca e annuncia una riforma dello Stato che avrebbe dovuto fare quindici anni fa, ma che ritira ora fuori dal cassetto per ridare smalto alla sua stella appannata. Ma ritorniamo sul profilo istituzionale del lavoro svolto da Napolitano al Quirinale. Intanto, va notato che esiste una prova provata: Napolitano, infatti, è attaccato, per ragioni opposte, sia dal capo del governo sia dal suo più acerrimo avversario, vale a dire Antonio Di Pietro. Non si potrebbe dare prova più chiara di questa: il presidente della Repubblica “scontentando” entrambi è effettivamente al di sopra delle parti. Ma siccome l’espressione “al di sopra delle parti” ha sempre in sé qualcosa di moralistico e tartufesco proviamo a chiarire meglio la cosa: Napolitano è al di

sopra delle parti perché tiene fede con grande equilibrio e buon senso a quella che è la “sua” parte istituzionale. In fondo, ciò che dice Berlusconi sarebbe, se fosse vero, la fine non solo della democrazia, ma anche della stessa possibilità di concepire la vita democratica. Cosa dice Berlusconi? Che tutti, anche il capo dello Stato, siamo uomini di parte e nessuno è al di sopra della continua battaglia delle parti in lotta. Ma esasperare questa conflittualità della democrazia, che sicuramente è presente nella vita democratica e che, anzi, ne è la sua stessa vitalità, non significa negare la possibilità concreta che gli uomini di parte possano e debbano diventare uomini delle istituzioni costruendo nell’unico modo possibile la vita dello Stato: con impegno personale giorno per giorno. Se fosse vero quel che dice il premier, allora, Napolitano non solo non sarebbe il presidente “della”Repubblica, ma sarebbe addirittura un uomo di partito che, sotto mentite spoglie, si è impossessato della carica più alta dello Stato. Anzi, tutti i partiti non sarebbero altro che delle organizzazioni politiche chiuse in se stesse - dei piccoli Stati - il cui fine sarebbe quello di occupare uno Stato fittizio. Insomma, più Stati (veri) in uno Stato (falso). Come non rendersi conto che questa strada ci porta dritti dritti alla fine delle istituzioni democratiche? Potrà sembrare strano, ma Berlusconi oggi è l’ultimo dei marxisti.

dall’accusa di viltà che l’ex pm rovesciò sul capo dello Stato al momento della promulgazione delle modifiche allo scudo fiscale, mentre il direttore di Libero è inquisito per gli articoli con cui affermò che fu Napolitano a far ritardare i funerali dei militari morti in Afghanistan per non rinunciare a parte della sua visita in Giappone.

Di Pietro ne ha subito approfittato per chiedere a mezzo stampa al ministro della Giustizia, che deve autorizzare l’indagine, di lasciar lavorare il pm: «È un mio diritto fondamentale avere un giudizio da un giudice su un tema così delicato, quindi Alfano non può permettersi di rifiutare l’autorizzazione al processo, altrimenti lede il diritto del Capo dello Stato di avere un pronunciamento e il mio diritto di sapere qual è il limite del mio diritto di critica». Belpietro invece, a parte rammaricarsi per essere stato accomunato al pm, ha ricevuto la solidarietà del sindacato dei giornalisti e scoperto che «non tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Che di fatto c’è una persona, e non è Berlusconi, che è protetta da uno scudo, una tutela che lo esenta da critiche». Non è proprio una novità, è scritto nella Costituzione: la stessa cosa che la Consulta chiede di fare alla maggioranza per l’immunità del premier.


diario ROMA. È bagarre nel Pd per via dell’omofobia: Paola Concia attacca Franceschini e Franceschini attacca Binetti. Tutto alla vigilia di un congresso che si preannuncia infuocatissimo sui temi del laicismo. Insomma, ieri l’Aula della Camera ha «affossato» il testo di Paola Concia sull’omofobia. L’Assemblea di Montecitorio ha infatti approvato la questione pregiudiziale avanzata dall’Udc (che ha ritirato l’iniziale richiesta di voto segreto) anche con i voti del Pdl e della Lega. Pd e Idv hanno votato contro. Dunque, la questione pregiudiziale è stata approvata con 285 voti a favore, 222 contrari e 13 astensioni. L’Udc aveva inizialmente chiesto il voto segreto, ma la richiesta è stata ritirata «per coerenza» dal capogruppo Pier Ferdinando Casini dopo che Italo Bocchino del Pdl ha spiegato le ragioni per cui il suo gruppo aveva votato contro il rinvio del testo in commissione. «Questo testo - aveva spiegato Bocchino - rientra tra quelli inseriti all’ordine del giorno dell’Aula in quota all’opposizione; non era giusto che noi con i nostri voti ne determinassimo il ritorno in commissione, visto che l’opposizione stessa non era d’accordo sul mantenimento del testo. Che diritto abbiamo noi di coartare la volontà dell’opposizione?». Dura, naturalmente, la reazione di Paola Concia, parlamentare del partito democratico e prima firmataria della norma: «Io mi vergogno di fare parte di questo Parlamento». Uscita dall’Aula furibonda, in Transatlantico si è sfogata con i cronisti: «Rinviando la legge in

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Ideologia o omofobia? Nel Pd scoppia il caos Alla Camera passa la pregiudiziale dell’Udc sulla legge di Andrea Ottieri

L’onorevole replica alle critiche: contraria alla violenza, ma speravo in un rinvio

La Binetti: «Voto secondo coscienza» segue dalla prima Il segretario del Pd, replica ancora la Binetti, «ha perfettamente ragione quando dice che il mio voto è un problema. Ma io tra la coerenza con la mia coscienza e il disagio di non votare come il partito, scelgo la mia coerenza». «Spero - aggiunge che Franceschini ricordi che se c’era una sola persona da cui ci si poteva aspettare quel voto, ero io. Detto questo sono comunque contraria alla violenza, alla violenza contro tutti e quindi anche contro i gay, ma in questo testo c’erano implica-

zioni che non potevo accettare». Non si sente a disagio nel Pd? «C’è un disagio che è più scomodo di tutti, ed è agire contro la propria coscienza.Vedremo dopo le primarie quale sarà l’identità del partito. Io sono però sbalordita perché speravo che il testo potesse essere rinviato in commissione in modo che fosse riformulato in modo che ci fosse una separazione netta tra il no alla violenza e la libertà di espressione». Per la Binetti, l’emendamento rischiava di «indurre in reato chi la pensa in modo diverso: ad esempio, chi pensa di rivendicare la superiorità del matrimonio». (g.m.)

commissione era possibile salvarla, e invece il Pd ha votato contro. Io non lo sapevo: si era deciso di mettere delle condizioni e salvare la legge e invece non è andata così, nonostante io su questa legge per un anno ci abbia buttato il sangue». «Il dato politico è che la destra ha bocciato la legge contro l’omofobia. Il resto è gestione d’Aula» ha commentato Dario Franceschini. Ma il segretario Pd ha scaricato le responsabilità e ha puntato il dito su Paola Binetti che ieri ha votato con l’Udc. «È un problema gravissimo», ha spiegato, mentre l’interessata ha risposto che la sua decisione è stata motivata solo dalla coerenza.

Insomma, ieri è risultata maggioritaria la posizione dell’Udc. «Il Parlamento non può legiferare male per seguire furori ideologici, producendo leggi confuse che non eliminano le discriminazioni, ma anzi accentuano nuove divaricazioni», ha detto il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini. Casini, in margine di un convegno sulla laicità, ha fatto riferimento a «categorie come quella degli anziani o delle persone non autosufficienti che sarebbero state discriminate se avessimo approvato una legge così». Ironico, invece, il commento di Fabrizio Cicchitto del Pdl: «Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Siccome il testo della legge sull’omofobia presentava seri problemi di costituzionalità, aldilà degli schieramenti politici, allora si era addivenuti all’intesa per il rinvio in Commissione. Inopinatamente il Gruppo del Pd è venuto meno all’accordo».

Resa dei conti. Peggiora lo stato delle finanze pubbliche. E non andrà meglio nei prossimi mesi. Timori per le emissioni

1757 milioni: per il debito pubblico un record dietro l’altro ROMA. Non sembra volersi arrestare la corsa del debito pubblico. Ad agosto, come segnala il Bollettino statistico della Banca d’Italia, si è registrato un nuovo record: 1.757.534 milioni di euro. Circa 29.292 euro spalmati su ogni cittadino italiano. E quello comunicato ieri non sarà certamente l’ultimo primato, visto che il passivo si accinge a sfondare la soglia del 118 per cento del Pil nel 2010. A 24 ore dall’allarme di Giorgio Napolitano, lo stato della finanza pubblica presenta il suo conto alle aspirazioni della politica e degli attori istituzionali.Soprattutto a quella parte che trasversalmente chiede una riduzione delle tasse, quanto meno sulla parte del lavoro. In verità, e di questi tempi, non c’è soltanto l’Italia ad avere problemi di debito pubblico. Il Fondo monetario ha stimato che, complice l’ultima congiuntura finanziaria, entro il 2014 le spese per coprire il fabbisogno finanziario statale dei paesi Ue raggiungerà il 100 per cento del Pil nel 2014. In questi anni le tre maggiori economie del Vecchio Conti-

di Francesco Pacifico nente – Germania Francia e Regno Unito – dovrebbero toccare quota 90 per cento del Pil. Alla base di questa tendenza il calo del gettito fiscale dovuto al crollo dell’attività economica. Ma se si fa un confronto tra l’Italia e i suoi vicini, si scopre che all’estero il plus di passività è dovuto fondamentalmente al boom di aiuti pubblici, mentre il Belpaese paga l’incapacità a frenare la spesa pubblica. Come aveva ricordato venerdì scorso il governatore della Bce, Jean-Claude Trichet, il problema del debito pubblico italiano rischia di diventare strutturale. Anche per come è squilibrata la nostra spesa pubblica. Come ha calcolato il Cerm, gli introiti dovuti alle emissioni obbligazionali finiscono per il 13 per cento per pagare le pensioni, il 6,7 per la sanità e soltanto tra l’1,5 e 1,6 per cento alle politiche attive e passive del lavoro. E non a caso ieri il governatore Mario Draghi ha ribadito la necessità di alzare l’età pensionistica per rimodulare i

risparmi sulle altre voci del welfare. Con il dibattito sull’exit strategy che langue miseramente come i tentativi di introdurre legal standard alle transazioni, Stefano Fassina, responsabile per la finanza pubblica del Pd, consiglia a Tremonti: «Non vorrei che dimenticasse quella batteria di riforme per far crescere l’economia reale. Bisogna guardare alla crescita potenziale: innanzitutto riprendere la marcia delle liberalizzazioni, rifinanziare gli interventi di industria 2015, sostenere gli incentivi che erano stati messi in passato per gli investimenti, la ricerca e lo sviluppo». Accanto l’ex consulente di Visco vede una politica rigorosa che parta «dal riavvio della spendig review, così da poter intervenire sulle singole voci di spesa. Invece vediamo aumentare l’evasione mentre la spesa per i beni e i servizi cresce di 5 miliardi di euro sopra l’obiettivo prefissato dallo stesso governo». Ma i dati sul debito finiscono per rilanciare uno spettro che la crisi ha conge-

lato: il servizio del debito. Per pagare gli interessi ai sottoscrittori dei suoi bond lo Stato oggi spende circa 75 miliardi di euro. Le ultime aste, complice la forte richiesta e i bassi tassi del costo del denaro, ha registrato un piccolissimo incremento dei rendimenti reali, che finora erano sotto lo zero.

Ma cosa succederà quando la ripresa inizierà a muovere il livello di attività con le conseguenti ripercussioni sull’inflazione e la Bce sarà costretta a riportare i tassi oltre i due punti percentuali proprio per frenare il caro vita? Il governo calcola che nei prossimi due anni il servizio al debito arriverà a 80 miliardi di euro. Quasi un mezzo punto di Pil, quello che sarebbe necessario a Tremonti per detassare parzialmente le tredicesime. Intanto, sul versante fiscale, il Bollettino di Palazzo Koch ha comunicato che nei primi otto mesi dell’anno si sono attestate a 250,961 miliardi di euro le entrate. Per il gettito un 2,5 per cento in meno rispetto allo stesso periodo del 2008.


mondo

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Repressione. Continuano le impiccagioni e gli arresti sommari. Il mondo resta a guardare mentre l’Iran sprofonda sempre più

Grande fuga da Teheran Nuove accuse per il leader riformista Karrubi E l’Onu chiede uno stop alle esecuzioni di Vincenzo Faccioli Pintozzi ra prevedibile, ma il fatto che sia l’autorevole New York Times a darne notizia ammanta con una patina di eroismo la fuga dall’Iran di coloro che presero parte alle elezioni presidenziali della scorsa estate. Sono decine i giornalisti, fotografi e blogger iraniani - tutti coloro che hanno ricoperto un ruolo di primo piano nell’informare il mondo delle proteste post-elettorali - che stanno fuggendo dal Paese per paura di subire punizioni. Secondo l’organizzazione non governativa Reporter senza frontiere, si tratta del più grande esodo di giornalisti dall’Iran dai tempi della Rivoluzione islamica del 1979. Tra le centinaia di persone arrestate dopo le manifestazioni di protesta post-elettorali organizzate dall’opposizione ci sono anche molti giornalisti di Teheran, tra cui il reporter del magazine americano Newsweek, Maziar Bahari, che è anche un documentarista. Alcuni di essi sono imputati nei processi collettivi che le autorità iraniane stanno svolgendo a porte chiuse.

E

Durante le repressioni delle manifestazioni di giugno il governo iraniano aveva tenuto alla larga i giornalisti stranieri, e aveva ordinato a quelli iraniani di restare a casa. Diversi giornalisti hanno però sfidato le autorità e hanno diffuso su internet e in interviste telefoniche notizie su ciò che stava accadendo, e ora ne scontano il prezzo. Secondo El Mundo, la giornalista iraniana Fariba Pajooh, 28 anni, che ha lavorato per il quotidiano spagnolo durante le elezioni di giugno, si trova da 52 giorni nel carcere di Evin, a Teheran, con l’accusa di propaganda contro il suo Paese. Si tratta di un’accusa di cortina, quella che utilizza il regime per condannare a morte chiunque. La stessa che rischia di vedersi imputato l’ex candidato riformista alle presidenziali iraniane, Mehdi Karrubi, che è stato messo sotto inchiesta per le sue denunce di stupri in carcere di alcuni degli arrestati nelle proteste post-elettorali. La notizia è stata diffusa dall’agenzia Irna, che ha citato il procuratore di Teheran, Ab-

bas Jafari Dolatabadi: «Un fascicolo è stato aperto su Karrubi presso la speciale Corte per il clero». Karrubi è infatti un mullah del clero sciita. «Alcune persone sono già state convocate dalla Corte e le affermazioni di Karrubi sono oggetto di un’indagine», ha aggiunto il procuratore di Teheran. Karrubi è considerato con l’ex candi-

denunciando brogli. Lo scorso agosto l’ex candidato riformista ha affermato che alcuni degli arrestati nelle proteste postelettorali, uomini e donne, erano stati stuprati in carcere. Ma ha aggiunto che almeno uno di loro che aveva denunciato gli episodi alla magistratura era stato intimidito, cosa che aveva indotto gli altri a rimanere in

Si tratta del più grande esodo dai tempi della Rivoluzione islamica del 1979. Gli ayatollah non dimenticano coloro che, sfidandoli, hanno mostrato al mondo cosa è successo all’Onda verde

morte recentemente pronunciate dalla giustizia iraniana contro quattro manifestanti incriminati per le proteste che hanno fatto seguito alle ultime elezioni presidenziali.

dato moderato Mir Hossein Mussavi il leader dell’opposizione alla rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad nel voto del 12 giugno, di cui hanno chiesto l’annullamento

L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Navi Pillay ha inoltre chiesto all’Iran di porre fine «una volta per tutte» alle esecuzioni capitali di minorenni. In base al di-

silenzio. Sull’argomento sono intervenute ieri - per quanto possa servire - anche le Nazioni Unite, che hanno rivolto un “pressante appello” all’Iran per la revisione delle condanne a

ritto internazionale «la pena di morte in Iran può essere applicata solo a severe condizioni, per esempio contro i crimini più gravi, e solo al termine di processi scrupolosamente imparziali», ha affermato Pillay in una dichiarazione resa nota ieri a Ginevra. Secondo il parere degli organi dell’Onu, la pena capitale per crimini che non hanno causato la perdita di vite umane è contraria al Patto sui

La Clinton ha incontrato ieri l’omologo Lavrov e le Ong, che ha definito «fondamentali» per la democrazia

Niente sanzioni al regime. Per adesso di Pierre Chiartano illary Clinton sembra che non vada più alla guerra contro gli ayatollah. È giunta ieri a Mosca per un programma di colloqui col suo omologo russo e il presidente Dimitry Medvedev. Qualcuno ha anche voluto vedere nell’assenza di Vladimir Putin, in visita in Cina, una coincidenza voluta dalla diplomazia Usa per marcare le distanze tra nuova e vecchia ledership. Mano leggera col regime sciita dunque e rinuncia al tentativo di utilizzare il voto russo in seno al Consiglio di sicurezza Onu. Per gli Stati Uniti le sanzioni contro l’Iran non sono inevitabili al momento attuale. «Non siamo a quel punto, non è la conclusione già raggiunta». Così il segretario di Stato Usa, in una conferenza stampa a Mosca, ieri, con il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, apre uno spiraglio a Teheran. E soprattutto da luogo a un vero colpo di scena, viste le dichiarate intenzioni alla vigilia della visita a Mosca: ottenere il sostegno russo per una posizione forte sul programma nucleare iraniano. La Clinton ha citato le parole del presidente Dimitry Medvedev circa l’impatto limitato delle sanzioni e che il ricorso ad esse è possibile solo in situazioni limite, senza via d’uscita. «Vogliamo dire chiaramente che noi preferiamo che l’Iran lavori con la comunità internazionale, rappresentata nel formato cinque più uno» ossia i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu e la Germania, ha aggiunto la Clinton. Lavrov ha spiegato che le sanzioni contro l’Iran è improbabile che siano produttive e, si spera, che l’attuazione pratica degli accordi raggiunti dai sei mediatori, all’inizio del mese, inizierà già entro la fine di ottobre. «Oggi le nostre possibilità di successo sulla prima traccia (gli sforzi politici diplomatici

H

per risolvere problema dell’Iran) non possono essere al cento per cento, ma sono comunque buone», ha chiosato Lavrov, sottolineando che le posizioni di Russia e Usa sull’Iran sono coincidenti. Secondo il capo della diplomazia americana, la Russia e gli Stati Uniti stanno operando efficacemente per risolvere il nodo nucleare iraniano nell’ambito del «sei». Al tempo stesso il capo della diplomazia americana ha definito costruttiva la riunione che si è svolta il 1 ottobre a Ginevra. «Vogliamo fare in modo che Teheran lavori con noi e dimostri un uso solo pacifico dell’energia nucleare» ha aggiunto Clinton.Vaclav Havel e Lech Walesa, tempo fa, in una lettera indirizzata ad Obama, avevano chiamato «sfera di interessi privilegiati» della Russia, cioè la volontà del Cremlino, dopo il conflitto in Georgia, di imporre dei confini entro cui esercitare un potere egemonico. Su quel fronte non ci sono garndi novità, se non il mancato riconoscimento di Abkhazia e Ossezia del Sud. Nonostante i migliori rapporti tra la Casa Bianca e il Cremlino, non cambia la posizione americana dopo il conflitto del Caucaso dell’agosto 2008. Il segretario di Stato Usa lo ha fatto capire chiaramente durante i colloqui con il ministro Lavrov. Gli Stati Uniti non intendono riconoscere l’indipendenza di Ossezia del Sud e dell’Abkhazia. «Non condivido l’opinione (della Russia), sulla Georgia. Abbiamo opinioni diverse, e ho detto chiaramente che non si riconoscono l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia», ha sottolineato la Clinton in una conferenza stampa. All’inizio del mese la Russia ha firmato con l’Abkhazia un accordo per permettere l’esenzione dal visto di entrata per i cittadini della Federazione e della repubblica separatista georgiana. L’Abkhazia, insieme

Il segretario di Stato americano: «Vogliamo fare in modo che il governo locale lavori con noi e dimostri un uso solo pacifico dell’energia nucleare»


mondo

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Nasce il Consiglio per la cooperazione strategica fra i due Paesi

Damasco molla l’Iran e sceglie Ankara di Antonio Picasso i è aperto ieri ad Ankara il “Consiglio per la cooperazione strategica TurchiaSiria”. Dieci i ministri siriani giunti nella capitale turca per confrontarsi con le rispettive controparti del governo Erdogan. Obiettivo del vertice: approfondire il rinnovato dialogo da i due Paesi, dopo una decina d’anni silenzio dovuti all’appoggio che Damasco aveva offerto ai separatisti curdi del Pkk. Il passo successivo sarà di consolidare la partnership economica ed eventualmente definire una linea comune per il processo di pace in Medioriente. L’evento dimostra ancora una volta la disinvoltura con cui la Siria sta approfittando della congiuntura diplomatica internazionale per allontanarsi da Teheran. Il fatto che l’alleanza siro-iraniana sia una partnership strumentale è sempre stato sotto gli occhi di tutti. Quello di Damasco è un regime autoritario, di impostazione laico-socialista, guidato da una minoranza alawita, in un Paese a maggioranza sunnita. Teheran, al contrario, è il cuore pulsante dello sciismo, che solo da pochi anni ha concesso agli alawiti il riconoscimento di far parte dell’islam. Prima, questi ultimi altro non erano che apostati da combattere. Difficile quindi immaginare un’amicizia sincera tra due soggetti tanto opposti. Ora però la crisi nucleare iraniana sta portando a conseguenze anche in questo campo. Per il presidente siriano, Bashar elAssad, quella di svincolarsi dagli Ayatollah è diventata una priorità dettata dalla necessità di sopravvivenza politica del suo governo e dall’altrettanto urgente rilancio dell’economia nazionale. Dopo anni di isolamento diplomatico e di recessione, se il regime Baath vuole continuare a guidare il Paese - e nel caso condurlo sulla strada della democrazia senza subire scossoni - deve risolvere una serie di questioni ancora insolute. Prima di tutto la firma di un trattato di pace con Israele. Elemento per cui è essenziale lo smarcamento da Teheran. Vista la crisi nucleare di quest’ultima, i tempi risultano propizi a Damasco per abbandonare lo scomodo alleato e tornare a fare una politica estera autonoma nel quadrante mediorientale. Per questo non poteva scegliere un interlocutore migliore della Turchia. Ankara, affidabile alleato degli Usa in seno alla Nato, sta portando avanti una politica estera propositiva e dinamica. Prima guidato da Ali Babacan e oggi con Ahmet Davutoglu, il suo Ministero degli Esteri non nasconde l’ambizione di assumere gli abiti del grande mediatore nelle due crisi che pesano sul Medio Oriente: la nascita di uno Stato palestine-

S

diritti civili e politici, ratificato dal’Iran. Sussistono inoltre «grandi preoccupazioni sulle modalità dei recenti processi degli attivisti dell’opposizione e spero che queste sentenze potranno essere attentamente riesaminate dalle istanze superiori», ha detto Pillay.

Nella sua dichiarazione, il commissario si è inoltre detta «profondamente costernata

per l’esecuzione di Behnoud Shojaie, condannato a morte per aver ucciso un coetaneo durante una rissa quando aveva solo 17 anni». L’Alto commissario ha infine ribadito la sua opposizione alla pena di morte ed ha esortato tutti i governi a seguire la risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu del 2008: una moratoria di tutte le esecuzioni in vista dell’abolizione della pena capitale.

con l’Ossezia del Sud, è stata riconosciuta da Mosca indipendente dalla Georgia dopo la guerra del Caucaso dell’agosto 2008. Soltanto Nicaragua e Venezuela si sono allineate con la posizione russa.Sul fronte del disarmo nucleare il clima è stato invece imporntato a maggiore ottimismo. Entrambi i Paesi hanno riconosciuto di aver fatto seri passi avanti verso il nuovo documento destinato a sostituire lo Start, il trattato per la riduzione delle armi strategiche, in scadenza a fine anno. Ne è convinto il capo della diplomazia russa. «Abbiamo fatto progressi significativi» ha sottolineato. Spazio anche per i diritti civili nell’incontro, sempre ieri, della Clinton con i rappresentanti delle ong e i giornalisti di opposizione. Un omaggio al «ruolo vitale» che giocano nella società civile e la promessa che gli Stati Uniti saranno al loro fianco. «Voglio che sappiate che non siete soli. Gli Usa saranno sempre fermamente al vostro fianco. Nelle nostre discussioni con il governo, noi continueremo ad esprimere il nostro sostegno agli sforzi in vista di una migliore gestione e di un progresso in materia di diritti umani», ha sostenuto la Clinton. In serata è previsto il meeting col presidente Dimitry Medvedev, nell’agenda della visita figurano questioni bilaterali, come lo Start, il riposizionamento dello scudo Usa antimissile, e temi internazionali, tra cui il dossier nucleare nordcoreano, oltre al processo di pace in Medio Oriente. Ricordiamo che pochi giorni fa la proposta Usa di posizionare una stazione radar del sistema antimissile in Ucraina, aveva incontrato il secco no del Cremlino. Un segnale delle difficoltà in cui si muove Washington, costretta raccogliere consensi per la sua politica mediorientale e continuare ad essere un partner credibile per gli alleati.

se da un lato e il nucleare iraniano dall’altro. Ed è proprio in questi spazi che Damasco sta cercando di intersecarsi. Scontate le critiche che Israele ha rivolto ad Ankara per questa, a suo giudizio, eccessiva disponibilità al dialogo con “i nemici”. In realtà il governo Netanyahu, il cui atteggiamento è volto unicamente a placare le polemiche interne al Paese, è ben consapevole che la Turchia sta effettuando un’operazione anche a lui favorevole.

In realtà il summit siro-turco è l’ultimo di una serie di episodi in cui Assad aveva mostrato tutte le sue carte. Ultimo in termini di tempo, ma forse il più importante, era stata la visita del re d’Arabia Abdullah nella capitale siriana la settimana scorsa. Le relazioni tra Assad e il sovrano saudita si erano incrinate dopo la morte dell’ex premier libanese Rafiq Hariri. I sospetti del coinvolgimento dei servizi segreti siriani nell’omicidio avevano rovinato drammaticamente l’immagine del regime Baath di fronte a tutti gli alleati del Libano - Arabia Saudita e Francia in primis - e avevano decretato il suo definitivo isolamento diplomatico. Ora i colloqui di Damasco tra Assad e Abdullah sono da considerare come un ulteriore step per l’emancipazione della Siria dalla stretta iraniana. I due capi di Stato hanno discusso in merito al processo di pace israelo-palestinese, ma soprattutto si sono trovati concordi nel sostenere la nascita di un governo a Beirut, dopo più di quattro mesi dalle elezioni, e guidato da Saad Hariri, figlio di Rafiq.Damasco, in pratica, si sta impegnando per guadagnare nuova credibilità di fronte ai governi regionali, arabi e non, ma soprattutto per arrivare a confrontarsi con quelli occidentali. Con la Francia e l’Italia l’obiettivo è stato raggiunto. Adesso serve puntare su Washington. Da qui alla pace con Israele, il passo potrebbe essere breve. Ammesso e non concesso che le circostanze non cambino improvvisamente. Damasco, infatti, ospita la sede di Hamas e del suo Segretario, Khaled Meshal. Un’improvvisa escalation originata da chiunque in Medio Oriente - dai palestinesi a Gaza, da Hezbollah, come pure da Israele - e con l’obiettivo di scuotere la situazione di stallo attuale, potrebbe provocare un repentino cambio di atteggiamento da parte siriana. Non sarebbe una sorpresa del resto. Hafez el-Assad, padre dell’attuale presidente, era chiamato la “Volpe di Damasco” proprio per le sue capacità di mutare linea politica nell’arco di una nottata. Una virtù politica, questa, che è stata sapientemente ereditata.

Troppo ingombrante, per il presidente siriano Assad, il lungo rapporto con il regime iraniano. Meglio rivolgersi ai nuovi alleati turchi, in procinto di entrare in Europa e meno scomodi


panorama

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Polemiche. La strada che conduceva i pellegrini dalla Francia a Roma è in uno stato di vero abbandono

Chi ha dimenticato la via Francigena? di Sergio Valzania omenica scorsa a Roma, fra via della Conciliazione e l’atrio della Basilica di San Pietro, si è conclusa la Festa Itinerante dei Cammini per Roma. Dopo un’allegra sbandierata, c’è stata la consegna di attestati e riconoscimenti a quanti hanno camminato la settimana scorsa alla volta della città eterna. L’occasione è utile per alcune riflessioni, non particolarmente gratificanti. Il convitato di pietra davanti al colonnato di San Pietro è stato la Via Francigena, l’itinerario che i pellegrini percorrevano nel medio evo provenendo dalla Francia verso Roma, attorno alla rinascita del quale si affannano da anni ministeri e amministrazioni locali di ogni livello senza conseguire risultati apprezzabili. Per chi ha camminato verso la capitale nei giorni scorsi, da Acquapendente a Montefiascone, da Viterbo a Campagnano,

D

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

da Formello a La Storta, attraverso il Parco di Veio, trovare la strada giusta è stato difficile quanto lo era cinque anni fa. Molto raramente una freccia bianca e rossa, dipinta su di un muro o un palo della luce da qualche volontario, faceva tornare in mente le perfette segnalazioni che si incontrano in

per il nuovo e comprensione per le tendenze della cultura nascente in Europa. Una via costruita per essere percorsa camminando attraverso regioni molto segnate dalle attività umane non deve, né può, essere considerata da meno di un’autostrada o di una ferrovia. Non è una bizzarria o un

Ministeri e amministrazioni varie si sono limitati alle promesse: eppure si tratta di una grande occasione, non solo per il turismo ma per l’identità Spagna sul Cammino di Santiago.

Purtroppo, la questione della Via Francigena è una delle tante cartine di tornasole attraverso le quali è possibile leggere la crisi del nostro paese, che è prima di tutto culturale. Per creare un cammino che consenta di fare un viaggio a piedi lungo centinaia di chilometri, come i tanti che ormai esistono in Spagna e quelli che stanno nascendo in Francia, Germania e persino Norvegia, bisogna prima di tutto sapere di cosa si tratta. Occorre avere consapevolezza della modernità, gusto

pezzo di passato che torna a galla. Al contrario, è il futuro che ci viene incontro e chiede di essere compreso. Milioni di europei e non decidono ogni anno di impiegare una parte importante del loro tempo libero per un’esperienza che giudicano importante: il Cammino di Santiago richiede cinque settimane, la Via della Plata, che risale la Spagna da Siviglia, si percorre in sei. Questo è il fatto nuovo da comprendere: la nascente antropologia che riflette nella pratica sulla crisi del consumismo, la ricerca comune di modelli comportamentali e di soddisfacimento

estetico fino a qualche decennio fa impensabili. Senza tralasciare la forza etica e spirituale che la pratica dell’andare a piedi, di solito verso le tombe degli apostoli, sottende.

Perciò creare un percorso a piedi ben segnalato, e quindi aperto ad accogliere tutti, che attraversi l’Italia non significa solo sostenere un turismo qualificato e in larga espansione. In termini culturali una realizzazione del genere dimostrerebbe la capacità di partecipare all’evoluzione della sensibilità collettiva dei cittadini europei, di vivere la riflessione comune sui valori emergenti e sulle modalità di consumo che si vanno affermando. Far parte dell’Europa a pieno titolo comprende la partecipazione attiva alla formazione dei nuovi modelli etici e comportamentali. Per questo la Via Francigena dovrebbe essere considerata una decisiva infrastruttura culturale del nostro paese, che ci collega con il futuro dell’Europa e ci rende partecipi a esso, e non il passatempo di alcuni appassionati o l’opportunità di allargare i margini di utile del comparto turistico.

Il caso delle tre ragazze che ieri hanno preso a pugni e a morsi una vigilessa

Piccole bulle crescono... a Napoli e ragazze sono violente e strafottenti, minacciano, picchiano, fanno male. Solo qualche giorno fa riportavamo quanto accaduto su di un autobus di Roma: due ragazzine maltrattavano con grida “stai zitta sporca negra, tòrnatene da dove sei venuta” una giovane mamma africana che chiedeva loro di spegnere le sigarette per non intossicare la figlioletta. Qualche giorno fa un’indagine pubblicata dal Corriere dava dignità sociologica al fenomeno: cresce sempre di più il numero delle ragazzine violente.

L

Ed eccoci al fatto del giorno: a Napoli tre ragazze, una di 23 anni e le altre di 17, prima aggrediscono a pugni e morsi la vigilessa che si era permessa di fermarle visto che andavano in tre e senza casco sullo scooter, poi devastano la sede operativa dei vigili. Tre ragazze, non tre energumeni. Il fatto: nella centralissima piazza del Gesù una gang femminile - altra definizione non c’è - ha aggredito un’agente della municipale che le aveva fermate a bordo di un ciclomotore. L’aggressione non si è fermata alla singola vigilessa. Una volta che, dopo essere stata soccorsa da altri vigili, la vigilessa è riuscita a bloccare la furia

delle ragazze e a condurle alla sede operativa dei vigili urbani, è scattata la seconda fase: le furie hanno devastato i locali dei vigili urbani. Le tre donne, Grazia Cardolo, 23 anni, e due minorenni, tutte residenti nei quartieri della periferia orientale Barra e Ponticelli, circolavano in tre su un ciclomotore privo di targhino e senza indossare il casco. Quando l’agente ha chiesto loro i documenti, le tre napoletane hanno cominciato ad insultarla e poi l’hanno aggredita, lanciandole contro pezzi del ciclomotore. La Cardolo ha colpito con un pugno al volto l’agente, mentre una delle due minorenni le ha morso un braccio e l’ha afferrata per i capelli. Bloccate con l’aiuto di rinforzi e trasferite nella sede dell’unità operativa “Avvocata” le tre donne hanno aggredito anche gli altri

agenti presenti lanciando oggetti e danneggiando gli arredi. La maggiorenne è stata arrestata, mentre le altre due, che sono state trovate in possesso di una corda in nylon e di bulloni, sono state denunciate per oltraggio, violenza, lesioni, minacce, resistenza e danneggiamento ed affidate ai genitori. La Cardolo, processata per direttissima, è stata condannata a 16 mesi di reclusione con il beneficio della sospensione della pena. L’agente aggredita dalla banda ha riportato la frattura del setto nasale, con prognosi di 25 giorni. Altri tre vigili, intervenuti per bloccare le donne, hanno riportato ferite guaribili tra i 5nque e i 7 giorni. Ma chi sono realmente queste tre ragazze? Mettiamo da parte la sociologia. La vigilessa ha raccontato, sconvolta, il fatto e ha detto che «le tre

ragazze erano tre furie». La vigilessa ha beneficiato di un’esperienza e io no, quindi parla a ragion venduta. Le botte e i morsi se li è presi lei e la furia devastatrice delle tre ragazze l’ha vista direttamente all’opera.

Tuttavia, le tre ragazze, pur provenendo da una periferia degradata di Napoli, quindi abituate a dover combattere con ogni mezzo per poter vivere, non sono poi molto diverse da altre ragazze del nostro tempo e delle nostre città. Possono avere senz’altro più rabbia in corpo, ma il fatto che questa rabbia l’abbiano scaricata prima su una vigilessa e poi su tutto il corpo dei vigili urbani autorizza quasi a pensare che “le tre furie” non riconoscano alcun diritto alle divise dei vigili e, di più, alle forze dell’ordine. La loro reazione non ha alcuna giustificazione. Non sono state fermate, infatti, ingiustamente, ma perché circolavano senza rispettare alcuna regola: in tre senza casco su un motorino senza targa. La loro violenza non è la reazione per un torto subito, ma la rivendicazione del proprio diritto a fare tutto ciò che a loro piace. Se qualcuno si frappone tra loro e questo “piacere”, ecco che scatta la furia della violenza.


panorama TOTOGOVERNATORI

14 ottobre 2009 • pagina 11

Berlusconi tiene duro sulla Todini per non essere costretto a riconoscere il pluralismo

Si gioca nel Lazio il futuro del Pdl monarchico di Errico Novi

ROMA. Passa silenziosamente anche per la scelta dei candidati governatori la partita sul futuro del Pdl. Si capirà dalle indicazioni, annunciate per la fine di ottobre, se Silvio Berlusconi riuscirà a preservare il regime sostanzialmente monocratico o se sarà costretto a riconoscere nei fatti il pluralismo interno. Meglio ancora: con la rosa dei nomi per le Regionali si chiarirà una volta per tutte se l’unico asse che conta, nella maggioranza, è quello tra il Cavaliere e Bossi, o se esiste almeno una terza sponda identificabile con l’ex An. Buona parte della questione si decide attorno alla scelta del candidato alla presidenza del Lazio. È questa infatti l’unica altra regione, oltre alla Calabria da tempo assegnata al sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Scopelliti, in cui l’ex partito di Gianfranco Fini ha qualche chance di fare centro. E soprattutto, l’eventuale vittoria di un esponente della destra nell’amministrazione oggi governata da Piero Marrazzo realizzerebbe un asse di potere fortissimo con il sindaco di Roma Gianni Alemanno.

Ma è proprio questo l’aspetto che suggerisce a Berlusconi di

gione Lazio nelle mani di Renata Polverini, segretario generale Ugl messo in campo dal presidente della Camera, segnerebbe in modo fin troppo tangibile la natura plurale, non più rigidamente leaderistica del Popolo della libertà. Non si tratta solo di rispettare la proporzione 70 a 30 concordata da Forza Italia e An all’atto della fondazione, ma di decidere in modo forse irreversibile la natura che il movimento deve assumere.

Se non passano la Polverini o Augello torna in dubbio l’investitura al forzista Cosentino in Campania, dove Bocchino ha condotto una “istruttoria” per il premier cercare una soluzione alternativa. Non è detto che la manovra gli riesca, naturalmente: ma l’investitura piovuta sul capo dell’imprenditrice Luisa Todini punta innanzitutto a scongiura-

re un blocco aennino nella Capitale. L’altro motivo per cui il presidente del Consiglio ha chiesto all’ex eurodeputata azzurra di tenersi pronta riguarda il rapporto di forza con Fini. Una Re-

Consapevole che sul negoziato influisce la dialettica sempre complessa tra Berlusconi e Fini, Gianni Alemanno prova a eliminare questa variabile, e ha rilanciato la candidatura di un senatore vicino alla sua area come Andrea Augello. Resterebbe il problema, forse non insormontabile, di un protettorato alemanniano nella Capitale. Alla definizione della delicatissima partita romana è legata anche la scelta del candidato per la successione al monarca Antonio Bassolino. Se infatti al premier riuscisse la mirabolante impresa di schierare la Todini nel Lazio diventerebbe molto complicato pretendere l’investitura di un forzista come Nicola Cosentino in Campania. Sul

Equilibri. A differenza di Bonanni e Angeletti, il leader Cgil non applica una linea univoca sui rinnovi

Un Epifani a «geometria variabile» di Francesco Pacifico nemici in Cisl o nella Uil già parlano di contratti a geometria variabile. Accompagnata (o aggravata) dal fatto che Guglielmo Epifani finisce per fare distinguo, mostrarsi meno riformista con le categorie storicamente più rigide. Quelle che – ma è una coincidenza – sono state maggiormente colpite dalla crisi come la meccanica o l’edilizia, ma sono meno disponibili a compromessi.

I

Quarantott’ore fa

ne ideologica, ogni diktat, perché le categorie guardano a cose concrete come i benefici portati dall’indice Ipca per coprire l’inflazione, l’accelerata ai tempi delle trattative o la spinta sul welfare sanitario». Siccome le strategie confederali non potranno mai piegare le volontà dei singoli settori, è facile prevede un accordo separato per meccanici, così come non era diffici-

Minacciando accordi separati, Corso d’Italia riesce a far passare modifiche che indeboliscono il nuovo modello voluto da Confindustria e Cisl e Uil

il segretario della Cgil ha intimato a Confindustria che un rinnovo di contratto senza la Fiom non si firma. Ma negli incontri di ieri sia Federmeccanica sia Fim Cisl e Uilm sono sembrate andare in direzione opposta. Nel contempo molti ricordano gli sforzi fatti dal numero uno di corso d’Italia per arrivare a un accordo unitario per gli alimentaristi. E così far uscire dall’angolo nel quale si era infilata la prima confederazione dicendo no alla riforma contrattuale. Gianni Baratta, che per la Cisl ha seguito questo tavolo, fa notare: «Da sindacalista che ha passato la sua vita dentro le categorie, dico che il nuovo assetto contrattuale può superare ogni posizio-

le scommettere su un’intesa unitaria per gli alimentaristi. Eppure in tutti i tavoli si nota sempre la volontà della Cgil di far saltare a valle la riforma contrattuale approvata da Confindustria, Cisl e Uil ad aprile. Se si fa eccezione per quella delle tute blu – con Rinaldini che ha fermato il tempo e tratta su un semplice rinnovo del biennio economico – tutte le piattaforme sembrano avere un minino denominatore: dimostrare senza eccessivi strappi i troppi limiti del modello in vigore da pochi mesi. A ben guardare, anche le proposte della Cgil sono di fatto tarate su un arco tempo-

rale triennale e non più quadriennale e danno tantissimo spazio al welfare contrattuale. Ma per dire che il Re è nudo basta – come è successo proprio con gli alimentaristi – spingere per ottenere venti euro in più e far saltare l’indice Ipca o allungare i tempi della bilateralità. Ma per dovere di cronaca va detto che questi escamatoge, se portano a un accordo unitario, hanno il merito di garantire la pax sociale, basilare per accelerare la ripresa.

Per portare a termine il suo disegno, Epifani dovrà muoversi con la stessa abilità, con la quale negli anni Ottanta Craxi seppe imperversare nelle giunte locali. E così, brandendo il cadavere della riforma contrattuale, potrà presentarsi al congresso di marzo (quello dell’addio) con un nuovo modello per il secondo livello da imporre alle parti. E decidere il suo successore. Per non parlare del suo peso all’interno del Partito democratico, dove già si vocifera di una candidatura come governatore dell’Umbria con una segreteria Bersani. Ma cosa succederà all’Italia se Epifani dovesse fallire?

sottosegretario all’Economia il premier si è ben guardato dal pronunciare anche una sola sillaba domenica scorsa, quando è intervenuto alla Festa della libertà di Benevento. D’altronde anche per il caso campano, Berlusconi aveva provato a rompere i giochi con un nome della società civile, il presidente dell’Unione industriali Gianni Lettieri. Il quale però aspetta invano da almeno tre settimane una telefonata di Gianni Letta. Difficilmente l’imprenditore (che ufficialmente si è chiamato fuori dalla partita) riceverà buone notizie. Adesso in campo c’è casomai il leader del Nuovo Psi (entrato a pieno titolo nel partitone unico) Stefano Caldoro. Scelta che riscuote anche consensi tra i vertici nazionali del Pdl, non proprio ben disposti nei confronti di Cosentino. Nel frattempo Italo Bocchino ha condotto un’istruttoria riservata nella Regione, commisionatagli dallo stesso Berlusconi. Ha riscontrato il sostegno quasi unanime per Cosentino, ma curiosamente lo ha invitato a fare un passo indietro, cioè a «restare disponibile senza però pretendere la candidatura». Segno che la partita sul Lazio non consente ancora di sciogliere la riserva.


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Esce in questi giorni il nuovo libro di George Weigel, Lettere a un giovane cattolico (Rubbettino Editore). Si tratta di un racconto epistolare attraverso il quale l’autore illustra l’atmosfera e il significato di alcuni luoghi simbolo del cristianesimo: da Baltimora, città natale di Weigel e prima diocesi statunitense, alla Basilica di San Pietro, dal monte Sinai al pub preferito da Chesterton, da Gerusalemme alla Cracovia di Karol Wojtyla. Da qui Weigel parte per descrivere la ricchezza e la profondità della fede cristiana a quanti, giovani anagraficamente o solo nell’animo, sono affascinati dal Mistero e sperano di potergli dare un volto lungo il loro cammino. Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo la prima parte del capitolo del libro dedicato alla “Cattedrale di Chartres. Ciò che la bellezza ci insegna”. n una precedente lettera, ti avevo scritto, forse un po’ distrattamente, che la Cappella Sistina è la stanza più straordinaria del mondo. Consentimi di spingermi oltre in questo limbo comparativo, e dire che la Cattedrale di Chartres è l’edificio più straordinario del mondo. Sono stato nel Duomo della Roccia a Gerusalemme, e devo dire che è magnifico, ma non è Chartres. Non sono stato al Taj Mahal, ma dubito che possa rivaleggiare con Chartres: pietra e vetro in cui è stata versata l’obbedienza della fede e un appassionato e trasformante amore per Cristo, per Maria, per il mondo e la bellezza dell’umano. Il risultato è, così come avevano voluto i costruttori, un’anticamera del Paradiso.

I

È bene venire qui quando si è giovani. Io, sfortunatamente, avevo quarantasei anni, quando giunsi per la prima volta a Chartres, con l’aiuto di un mio amico, Jean Duchesne. Jean era stato fortemente impegnato per i preparativi della Giornata mondiale della gioventù del 1997, a Parigi, dove ho abitato con la sua famiglia, nel loro appartamento. Dopo una settimana impegnata, andammo tutti alla casa di campagna dei Duchesne in Normandia per riposare e, da lì, io e Jean ci recammo in macchina fino a Chartres. Dopo aver piacevolmente girovagato per la campagna francese, la avvistammo all’orizzonte senza alcun preavviso: una grande nave di pietra, massiccia eppure eterea, si stagliava contro il cielo. Immagina come si sia potuto sentire un pellegrino del Medioevo dopo giorni di cammino su strade sporche e in mezzo a campi non ancora mietuti di fronte a quella visione. La contemplazione non è il mio forte, ma c’erano cose in quella cattedrale che mi lasciarono letteralmente senza parole. In genere, osservando e studiando un grande edificio per la prima volta, mi piace parlarne con amici o con una guida preparata. Non qui. Qui volevo solo guardare e ammirare, e assorbire. Assorbire cosa? Non è facile dirlo. Forse solo la bellezza del luogo, delle vetrate. Non volevo parlarne. Volevo solo lasciare che il luminoso splendore di quelle incomparabili vetrate mi piovesse addosso e mi inondasse. Era come se pregassi senza proferire parole. Come l’undicesima e dodicesima stazione della chiesa del Santo sepolcro a Gerusalemme, sebbene per ragioni differenti, Chartres ci invi-

il paginone

Nel suo nuovo libro (edito in Italia da Rubbettino), George Weigel descrive, sotto della fede cristiana: dalla natale Baltimora alla Basilica di San Pietro, dal monte ta a “praticare la presenza”, a riposare e soltanto a essere nella bella, turbolenta e piena di pace presenza di Dio. Questo fu quello che feci per buona parte di quelle tre ore, prima che il mio amico francese mi segnalasse che era giunto il momento del pranzo. Mangiando discutemmo del gotico e delle sue peculiarità. Avrai certamente letto in che modo le volte, l’altezza, e i contrafforti volanti delle cattedrali gotiche evochino un senso di trascendenza. Lo stesso, ovviamente, vale per questi straordinari “muri” di vetro incorniciati da pietre cesellate con disegni molto intricati. Il gotico crea un senso di sospensione, come se si fluttuasse nello stesso spazio circostante; e quando si è “dentro” il gotico si sperimenta una sensazione di perdita di gravità. Ma tutto ciò ti è già familiare. Il mio amico Duchesne tuttavia mi indicò altre ragioni di questa permeabilità del gotico alla trascendenza.Secondo Jean il gotico è una forma architettonica cristiana che ha avuto così grande successo perché è eccentrica, non uniforme. Chartres per esempio mostra una particolare attitudine alla non uniformità. Le grandi torri non si abbinano, una è fittamente decorata con una ragnatela di pietra, l’altra ha un tetto liscio. Ci sono poi i tre grandi rosoni, ognuno dei quali è strutturato con forme geometriche diverse, con cerchi che dominano quello a Sud, quadrati quello a Nord, e cerchi all’interno di ellissi asimmetriche in quello posto a Ovest. Questa confusione secondo Jean è tuttavia de-

Lettera a un giova

La Cattedrale francese di Chartes e l’architettura gotica ne Quel confine che «separa il terreno e il trascendente, il vi di George Weigel liberata: Dio non ha creato un mondo monomisura, e i costruttori di Chartres volevano che ciò fosse riflesso nel loro progetto. Il gotico riesce inoltre a combinare il maestoso e il personale in un modo che nessun altro stile riuscirebbe a fare. La maestosità di Chartres è facile da cogliere, bisogna invece guardare con maggiore attenzione se si vuole cercare anche il personale, eppure è lì.

Le persone che hanno reso Chartres possibile grazie alla loro generosità – i suoi benefattori piccoli e grandi – sono riconoscibili in quelle straordinarie vetrate. Contadini, sacerdoti, nobili, commercianti di stoffe, fornai, macellai, banchieri, pescivendoli, commercianti di vini, maniscalchi, farmacisti, merciai, carrettieri, carpentieri, calzolai e pellegrini: tutti contribuirono alla costruzione di Chartres. Sono tutti ricordati, non per nome, ma

con delle luminose immagini in oltre cento scene disseminate lungo le finestre. Alcuni di loro donarono delle fortune; altri senza dubbio un po’ più dell’obolo della vedova di cui si racconta nella Bibbia. Sono tutti lì, e contano tutti in quella democrazia del dare e del ricevere che è la Chiesa. Il che è certamente giusto, perché la costruzione di Chartres che comportò enormi

Contadini,sacerdoti, nobili,commercianti di stoffe, fornai,macellai,banchieri,merciai, pescivendoli,commercianti di vini, maniscalchi,farmacisti,calzolai e pellegrini:tutti contribuirono alla costruzione

abilità e capacità artigianali, fu anche un’impresa popolare. Il capolavoro gotico che possiamo ammirare oggi venne costruito su una precedente struttura che era stata seriamente danneggiata da un incendio, che distrusse gran parte della città e lasciò in piedi solo la cripta, le fondamenta della torre e la facciata occidentale del Dodicesimo secolo. Una volta che si venne a sapere che la reliquia più famosa della città, la Sanc-


il paginone

o forma di racconto epistolare, l’atmosfera e il significato di alcuni luoghi simbolo e Sinai al pub preferito da Chesterton, da Gerusalemme alla Cracovia di Wojtyla La Sancta Camisia era una reliquia famosa, che attraeva un gran numero di pellegrini. La gente del luogo pensava alla sua casa, la cattedrale di Chartres, come al «palazzo terreno della Regina dei Cieli», come venne definita dal grande studioso e guida di Chartres, Malcolm Miller. E se la casa della regina era bruciata, i suoi leali sudditi dovevano ricostruirne un’altra ancora più splendida della precedente. Questo fu certamente il motivo principale che sostenne la rapida costruzione di Chartres. C’era poi il senso di attesa che permeava la vita medievale. La gente nel Medioevo considerava molto seriamente la possibilità del secondo ritorno di Cristo. Ma il Signore stesso aveva detto: «Quanto a quel giorno e a quell’ora, però, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24,36). Così era meglio che tutto fosse pronto, e con “pronto” i medievali non si riferivano solo alla loro anima, ma anche a luoghi appropriatamente gloriosi per accogliere il ritorno di Cristo. Non si può comprendere veramente l’esplosione di creatività che trovò sbocco nelle grandi cattedrali storiche se non si considera questo fatto: la gente era realmente convinta di stare preparando la camera degli ospiti, per così dire, di Cristo stesso.

ane cattolico

ell’evocazione del teologo statunitense. isibile e l’invisibile, l’umano e il divino» ta Camisia, un indumento che era stato indossato da Maria quando diede alla luce Cristo, era stata risparmiata, la gente cominciò a chiedere immediatamente che fosse costruita una nuova cattedrale. Migliaia di abitanti andarono a lavorare volontariamente nella cava di Berchères cantando inni e cantici. Caricavano carri di legno con grandi blocchi di pietra e li spingevano, tirando e trascinando il carico otto chilometri indietro fino a Chartres e cantando lungo la via. L’intero progetto di Chartres fu accompagnato da un’eccezionale generosità. Il grande incendio scoppiò nel 1194, e nel 1223, meno di trent’anni dopo, gran parte della struttura che vediamo oggi era stata completata, grazie alla filantropia dei donatori e all’entusiasmo di costruttori e artigiani. La Cattedrale dell’Assunzione di Nostra Signora non venne consacrata prima del 1260 (a

Attraversare il portale reale ed entrare in questo luogo privilegiato è come passare «attraverso le porte del Paradiso nella città celeste stessa,con le sue mura che si aprono in vetrate brillanti»

quel punto l’idea di costruire nove campanili venne fortunatamente abbandonata). Ma il grosso del lavoro era stato fatto in un periodo incredibilmente breve, in un mondo in cui non c’erano elettricità e motori a vapore, né le gigantesche gru che si vedono in tutte le principali costruzioni del mondo. Il motivo di tanta celerità? Penso ci fossero diverse ragioni, tutte interessanti.

Questo era un potentissimo sprone per l’energia, la creatività e la generosità. Queste convinzioni spiegano inoltre perché le vetrate di Chartres, famose in tutto il mondo, siano strutturate in questo modo. Probabilmente qualcuno ti ha spiegato che la vetrata gotica aveva uno scopo didascalico perché le immagini intendevano insegnare i fondamenti della Bibbia e della fede cattolica agli illetterati. Questo è vero, ma solo fino a un certo punto. Se si vuole apprezzare il genio immaginifico che caratterizza un posto come Chartres si deve allargare la lente della nostra comprensione. Gli uomini che hanno disegnato le vetrate di Chartres, e le maestranze che hanno eseguito i lavori, volevano che le vetrate della cattedrale non fossero altro che una completa storia della salvezza, la storia del mondo intesa come “la Sua storia”, per tornare a un’immagine che ho usato prima. Questa intenzione coincideva esattamente con l’obiettivo didascalico delle vetrate: quale stanza sarebbe stata più adatta ad accogliere il ritorno del Cristo glorioso, di una che raccontava l’intera storia che aveva portato il mondo a questo punto fondamentale e che ora riconosceva e accoglieva il proprio Redentore? Ecco perché il primo stupefacente quartetto di vetrate che sormonta la porta reale della cattedrale, il rosone occidentale con le tre vetrate sottostanti, è un sommario della grande storia che si dispiega lungo tutto resto della cattedrale. La finestra centrale, la più larga del trittico, è la finestra dell’Incarnazione, centrale perché rappresenta il punto d’inizio della storia: l’amore di Dio per il mondo si manifesta nel Suo Figlio venuto nella carne per salvare il mondo. La vetrata di sinistra è la finestra della Passione e Re-

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surrezione, ugualmente stupefacente nella sua evocazione dell’atto centrale del dramma della redenzione. Il rosone è dedicato al Giudizio Universale, il climax della storia della salvezza. Ma è la finestra di destra, sotto il rosone, che forse esprime meglio la ricchezza della fede e dell’immaginazione medievale attraverso l’uso di una delle immagini più care al Medioevo: l’albero di Jesse.

Consentimi di farti leggere questo breve estratto dalla descrizione che ne fa Malcolm Miller: «Jesse, padre di Davide, si abbassa, nella parte inferiore della vetrata, su un letto di lino bianco. È avvolto da un lenzuolo rosso brillante bordato di giallo. I piedi sono nudi, come quelli dei profeti e degli evangelisti [...]. Una lampada, tenuta da una catena d’oro, penzola sopra la sua testa e una tenda svolazza da un arco rosso semicircolare oltre il quale si vede la città regale di Davide, Betlemme. Dal seno di Jesse, sorgente della vita, sorge non una verga ma il tronco di un albero, al centro del quale si può vedere la linfa risalire lungo una successione di quattro re di Giuda, riccamente vestiti di rosso, verde, giallo e porpora, contro un fondo blu intenso [...]. Sebbene non vi sia alcuna iscrizione né attributi, le quattro figure coronate rappresentano probabilmente Davide, Salomone, Roboamo e Abia, il primo della lunga lista di Matteo di ventiquattro re di Giuda, antenati reali di Cristo. Cristo è seduto alla sommità dell’albero [...] circondato da colombe che simboleggiano i sette doni dello Spirito Santo [...]. All’interno di semicerchi rossi su ciascun lato delle figure dell’albero e rivolti verso di loro, ci sono i quattordici profeti dell’Antico Testamento che reggono rotoli su cui sono scritti i loro nomi [...]. Così gli antenati spirituali di Cristo circondano i suoi antenati nella carne, e preparano alla storia dell’Incarnazione, l’adempimento delle profezie, che si trova nella vetrata adiacente». Non si può concepire Chartres senza l’obbedienza della fede. La persone che hanno costruito Chartres pensavano di stare costruendo una rappresentazione terrestre della Nuova Gerusalemme, ma forse “rappresentazione” non è la parola corretta. Coloro che costruirono Chartres, e coloro che offrirono le proprie sostanze per rendere quella costruzione possibile, pensavano di essere in quel luogo nell’anticamera del Paradiso. Chartres è un “confine”permeabile che separa il terreno e il trascendente, l’ordinario e lo straordinario, il visibile e l’invisibile, l’umano e il divino: e questo è esattamente lo scopo di questo luogo. Ecco perché Chartres riesce a evocare tutto questo fascino. Ecco perché ci lascia senza parole. Attraversare il portale reale ed entrare in questo luogo privilegiato è, per usare le parole di Malcolm Miller, come passare «attraverso le porte del Paradiso nella città celeste stessa, con le sue mura che si aprono in vetrate brillanti come gioielli che diffondono un’essenza mistica e divina fatta di luce». Chartres è sia una potente espressione che una conferma della visione cattolica sacramentale. Qui puoi fare esperienza, attraverso questi colori così brillanti e luminosi, della permeabilità di questo mondo al mondo realmente reale.


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Medioriente. Critica d’autore, in tre punti, degli sforzi compiuti dal 1993 ad oggi per concludere il conflitto arabo israeliano

Accordi di pace, addio Un errore lega Clinton, Obama e i premier di Israele: voler finire una guerra senza farla Daniel Pipes e dichiarazioni di Barack Obama in merito alla diplomazia israelo palestinese: «Sono sicuro che con un po’di buona volontà quest’anno riusciremo a fare dei seri progressi», mostrano un toccante (seppur ingenuo) ottimismo. A dirla tutta, la sua determinazione ben si accorda all’inveterato schema perseguito dai politici per la risoluzione del conflitto: solo nel corso delle due amministrazioni di George W. Bush ci sono state 14 iniziative del governo americano. Stavolta potrebbe essere diverso? Verrà fatto ogni sforzo possibile e si riuscirà a porre fine al conflitto? La risposta è no. Non c’è alcuna probabilità di successo per questi tentativi. Senza entrare nei dettagli dell’approccio di Obama - che sono di per sé problematici - analizzerò tre tesi: che i passati negoziati israelopalestinesi sono falliti; che il loro fallimento è dovuto all’illusione israeliana di evitare la guerra; e infine che Washington dovrebbe spingere Gerusalemme a rinunciare ai negoziati e tornare piuttosto alla precedente e più proficua linea politica del combattere per vincere.

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La prima tesi è: riconsiderare il “processo di pace”. È imbarazzante richiamare alla mente l’euforia e le aspettative che accompagnarono la firma degli accordi di Oslo nel settembre 1993, quando il premier israeliano Yitzhak Rabin strinse la mano sul prato della Casa Bianca al leader palestinese,Yasser Arafat. Per anni, “La Stretta di Mano”

(come fu in seguito scritta in lettere maiuscole) è stata simbolo di una brillante diplomazia, che ha permesso a ogni parte di conseguire ciò che maggiormente desiderava: dignità e autonomia per i palestinesi, riconoscimento e sicurezza per gli israeliani. Il presidente Clinton, padrone di casa, magnificò l’accordo, dicendo che si trattava di una «grossa occasione storica». Il segretario di Stato Christopher concluse che «l’impossibile era a portata di mano».Yasser Arafat definì la firma «un evento storico, che ha inaugurato una nuova epoca». Il ministro degli Esteri israeliano Peres vi intravide «il profilo della pace in Medio Oriente». Anche

te dagli aiuti finanziari internazionali. Avevano scuole (efficienti), alcuni atenei e ospedali; potevano spostarsi senza doversi fermare ai posti di controllo e potevano liberamente entrare in territorio israeliano. Il terrorismo, infine, era in forte calo dal momento che era aumentata l’accettazione dell’esistenza di Israele. A tirar le somme, Oslo non ha apportato ai palestinesi pace e prosperità, ma tirannia, mancanza di istituzioni, povertà, corruzione, un culto della morte, le industrie del suicidio e la radicalizzazione islamista. Yasser Arafat aveva promesso di costruire il suo nuovo impero in una Singapore del Medio Oriente, ma la realtà che si

Se la stretta di mano tra Rabin e Arafat simboleggiò la speranza, le mani insanguinate di un palestinese dopo il linciaggio di due israeliani a Ramallah, rappresentarono la fine del sogno i media mostrarono le stesse aspettative: nel 1993, Time elesse Arafat e Rabin i due “uomini dell’anno”. Come ciò non bastasse, Arafat, Rabin e Peres vinsero assieme il Nobel per la Pace nel 1994. Tuttavia, dal momento che gli accordi hanno portato a un deterioramento delle condizioni tanto per i palestinesi quanto per gli israeliani, piuttosto che arrecare i miglioramenti attesi, quelle entusiasmanti aspettative si sono rapidadissipate. mente Quando i palestinesi vivevano ancora sotto controllo israeliano, prima degli accordi di Oslo, beneficiarono dello stato di diritto e di una crescente economia indipenden-

trovò a governare è divenuta un incubo di dipendenza, disumanità e odio, più simile alla Liberia o al Congo.

Quanto agli israeliani, essi vedevano infiammarsi la rabbia dei palestinesi, che infliggevano loro una violenza senza precedenti: nei cinque anni successivi agli accordi di Oslo sono stati uccisi dai palestinesi più israeliani di quanti ne siano stati ammazzati nei quindici anni precedenti. Se la stretta di mano tra Rabin e Arafat simboleggiava la speranza di

Oslo, le due mani insanguinate di un giovane palestinese che aveva appena linciato dei riservisti israeliani a Ramallah, nell’ottobre 2000, hanno rappresentato la sua triste fine. Inoltre, Oslo ha arrecato un grosso danno alla posizione internazionale di Israele, risuscitando degli interrogativi in merito all’esistenza stessa di uno Stato ebraico sovrano, (specie a sinistra), e generando distorsioni etiche come la Conferenza mondiale Onu contro il razzismo. Dal punto di vista di Israele, i sette anni della diplomazia di Oslo, dal 1993 al 2000, hanno in gran parte annullato quarantacinque anni di successi in guerra. Palestinesi e israeliani concordano su poche cose, ma convengono pressoché all’unanimità sul fatto che quegli accordi sono stati fallimentari. Ciò che viene chiamato il “processo di pace” dovrebbe piuttosto essere definito “processo di guerra”.

E ora vediamo la seconda tesi: la (falsa) speranza di aggirare la guerra. Perché le cose sono andate di male in peggio? Dove stanno le pecche in un accordo così promettente? Fra i tanti errori, quello basilare risiede in un malinteso causato da Yitzhak Rabin sull’esito della guerra, come rivela il suo slogan: «Non si

fa la pace con i propri amici. La si fa con il proprio nemico». Il premier israeliano si aspettava che si ponesse fine alla guerra con la buona volontà, la conciliazione, la mediazione, la flessibilità, la moderazione, la generosità e il compromesso, il tutto coronato dall’apposizione di firme sui documenti ufficiali. In questo spirito, il suo governo e quelli dei suoi tre successori - Peres, Netanyahu, Barak - hanno dato il via a una serie di concessioni, sperando e aspettandosi che i palestinesi facessero altrettanto. Così non è stato. Le concessioni israeliane hanno infiammato l’ostilità dei palestinesi, convincendoli che i tentativi israeliani di “fare pace” altro non erano che segnali di demoralizzazione e debolezza. Le “dolorose concessioni” hanno ridotto la soggezione palestinese verso Israele, fatto apparire vulnerabile lo stato ebraico e suscitato sogni irredentisti di annientamento. Ogni negoziato israeliano figlio degli accordi di Oslo ha radicalizzato e mobilitato il corpo politico palestinese alla guerra. La fioca speranza del 1993 di eliminare Israele ha fatto proseliti. I sondaggi e i risultati elettorali degli ultimi anni rivelano che appena il 20 per cento dei palestinesi accetta l’esistenza di uno Stato

A lato: palestinesi attraversano il confine con l’Egitto dopo aver fatto saltare il muro di Gaza (2008); In alto, la stretta di mano fra Rabin e Arafat (1993) e a fianco i colloqui fra Obama, Abu Mazen e Netanyahu. A destra: un palestinese esulta dopo aver linciato degli israeliani e accanto, Nasrallah


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ebraico. L’errore di Rabin è stato semplice e madornale: non si può “fare pace con il proprio nemico”, come egli pensava. Piuttosto, si può fare pace con il proprio ex-nemico. Perché la pace comporta quasi sempre che una parte sia sconfitta e rinunci ai suoi obiettivi. «Le guerre non terminano con la buona volontà, ma con la vittoria», ha osservato Sun Tzu, antico stratega cinese. «La guerra è un atto di violenza per costringere il nemico a eseguire la nostra volontà», ha scritto il suo successore prussiano del XIX secolo, Karl von Clausewitz. Nel 1951, MacArthur, disse che «nella guerra non c’è niente che possa sostituire la vittoria». Il progresso tecnologico non ha alterato questa intuizione. E le guerre terminano quando una parte rinuncia alla speranza, quando la sua volontà di combattere è annientata.

Dal 1948 arabi e israeliani perseguono obiettivi inalterati e opposti: i primi combattono per eliminare Israele e i secondi si battono per essere accettati dai loro vicini. Perché un conflitto termini, una parte deve perdere e l’altra deve vincere. O non ci sarà più uno Stato sionista o esso sarà accettato dai vicini. Questi sono gli unici due scenari per porre fine al conflitto. Tutto il resto è instabile ed è una premessa alla guerra. Gli arabi perseguono i loro obiettivi di guerra con pazienza, determinazione e fermezza; le eccezioni a questa regola (ad esempio i trattati di pace con Egitto e Giordania) sono state insignificanti a livello operativo perché non sono riuscite ad arginare l’ostilità all’esistenza di Israele. Per tutta risposta, dal 1948 al 1993, gli israeliani hanno mantenuto uno straordinario operato fatto di visione strategica e brillantezza tattica. Col tempo, tuttavia, mentre lo Stato ebraico è diventato un Pae-

se prospero, gli israeliani si sono spazientiti al cospetto dell’umiliante, lento, noioso, amaro e costoso compito di convincere gli arabi ad accettare la loro esistenza politica. Ormai, sono pochi gli israeliani che considerano la vittoria come un obiettivo; quasi nessuna figura politica di spicco oggi reclama la vittoria in guerra. Al posto della vittoria, gli israeliani hanno sviluppato una fantasiosa gamma di approcci per affrontare il conflitto: Compromesso territoriale:Yitzhak Rabin (e il processo di Oslo). Sviluppo dell’economia palestinese: Shimon Peres (e il processo di Oslo). Unilateralismo (la costruzione di un muro, ritiro da Gaza): Ariel Sharon, Ehud Olmert e il Partito Kadima. Locazione dei terreni appartenenti alle città israeliane in Cisgiordania per 99 anni: Amir Peretz e il Partito Laburista. Incoraggiamento dei palestinesi a sviluppare un buon governo: Nathan Sharansky (e George W. Bush). Ritiro territoriale: la Sinistra israeliana. Privazione ai

1993 gli arabi cercano la vittoria, mentre gli israeliani cercano il compromesso. In questo spirito, gli israeliani hanno apertamente dichiarato quanto sia logorante per loro la guerra. In breve, prima di diventare premier, Ehud Olmert ha asserito a nome dei suoi concittadini: «Siamo stanchi di combattere, siamo stanchi di essere coraggiosi, siamo stanchi di vincere e di sconfiggere i nostri nemici». Per poi proclamare, dopo la nomina a primo ministro: «La pace si raggiunge con le concessioni. Noi tutti lo sappiamo». Dichiarazioni disfattiste che hanno indotto Yoram Hazony (Shalem Centre) a definire gli israeliani «un popolo esausto, confuso e privo di direzione». Ma chi non vince è un perdente.

palestinesi sleali della cittadinanza israeliana: Avigdor Lieberman. Offrire la Giordania come Palestina: elementi della Destra israeliana. Espulsione dei palestinesi dai territori controllati da Israele: Meir Kahane. Sostanzialmente contraddittori e incompatibili come sono, tutti questi approcci mirano ad aggirare la guerra piuttosto che vincerla. Nessuno di essi si occupa della necessità di spezzare la volontà dei palestinesi di combattere. Proprio come i negoziati di Oslo sono falliti, prevedo che sarà così per ogni schema israeliano che eviti il duro lavoro di vincere. In poche parole, dal

Per sopravvivere, gli israeliani devono tornare alla politica pre 1993 e riaffermare che Israele è forte, duro e stabile. Questo non sarà facile né repentino. A causa di passi falsi commessi da Oslo in poi (specie il ritiro unilaterale da Gaza e la guerra del Libano del 2006), i palestinesi vedono Israele forte a livello economico e militare, ma moralmente e politicamente debole. Nelle pungenti parole del leader di Hezbollah, Hasan Nasrallah, Israele «è più fragile di una ragnatela». Un simile disprezzo necessita decenni di duro lavoro per cambiare. Non sarà bello: ma la disfatta in guerra implica che il

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perdente faccia l’esperienza della privazione, del fallimento e della disperazione. Detto questo, Israele gode di una chance: deve solamente dissuadere i palestinesi e non intere popolazioni arabe e musulmane. Marocchini, iraniani, malesi e altri prendono spunto dai palestinesi e col tempo seguiranno il loro esempio. Il principale nemico di Israele, quello che dovrà piegare, ha pressappoco la sua stessa dimensione demografica. Questo processo potrebbe essere visto attraverso un semplice prisma. Ogni sviluppo che incoraggia i palestinesi a pensare che possono eliminare Israele è negativo, tutto ciò che li incoraggia a rinunciare a quest’obiettivo è positivo. La disfatta dei palestinesi sarà riconoscibile quando dimostreranno di aver accettato Israele. Ciò non significa amare Sion, ma accettarlo definitivamente: revisionando il sistema educativo per eliminare la demonizzazione degli ebrei, riconoscendo il legame fra ebrei a Gerusalemme e accettando delle normali relazioni commerciali, culturali e umane con gli israeliani. Le manovre diplomatiche palestinesi e le lettere all’editore sono ammissibili, ma la violenza non lo è. La pace che ne seguirà dovrà essere continua e duratura. Simbolicamente, si può concludere che i palestinesi avranno accettato Israele e che la guerra sarà terminata solo quando gli ebrei che risiedono a Hebron (in Cisgiordania) non avranno biso-

Perché un conflitto termini, una parte deve perdere e l’altra deve vincere. O non ci sarà più uno stato sionista o esso sarà accettato dai vicini. Questi sono gli unici due scenari possibili

gno di più sicurezza rispetto agli arabi che vivono a Nazareth (in Israele). La terza analisi riguarda la politica americana. Come tutte le persone estranee al conflitto, gli americani si trovano di fronte a una dura scelta: approvare l’obiettivo palestinese di eliminare Israele oppure quello dello Stato ebraico di essere accettato dai propri vicini. Operare una scelta rende chiaro che non c’è scelta: la prima opzione è barbara, la seconda è civile. Nessuna persona per bene può appoggiare l’obiettivo genocida dei palestinesi di eliminare il loro vicino. In seguito alle scelte operate da ogni presidente americano

a partire da Harry S. Truman e ad ogni risoluzione e voto del Congresso, il governo americano deve sostenere Israele nei suoi sforzi. Questa non è soltanto un’ovvia scelta etica, ma la vittoria di Israele, ironia della sorte, sarebbe la migliore cosa mai accaduta ai palestinesi. Convincerli a rinunciare ai loro sogni irredentisti li renderebbe liberi di concentrarsi sui loro affari politici, economici, sociali e culturali. È necessario che i palestinesi subiscano la dura prova della disfatta per diventare un popolo normale: un popolo i cui genitori smetteranno di festeggiare i loro figli che diventano dei terroristi suicidi. Non esistono scorciatoie. Quest’analisi implica per il governo Usa un approccio radicalmente differente da quello attuale. Dal lato negativo, avvisa i palestinesi che avranno dei benefici solo dopo aver dimostrato di aver accettato Israele. Fino ad allora, niente diplomazia, niente discussioni sullo status finale, niente riconoscimento come stato e di certo nessun aiuto finanziario e nemmeno armi. Dal lato positivo, l’amministrazione americana dovrebbe lavorare con Israele, i paesi arabi e gli altri attori internazionali, per indurre i palestinesi ad accettare l’esistenza dello Stato ebraico, arrivando a convincerli che hanno perso.

Questo significa convincere il governo israeliano della necessità non solo di difendersi, ma di prendere delle misure volte a dimostrare ai palestinesi che la loro è una causa senza speranza. Ciò richiede non un’episodica dimostrazione di forza (come la guerra del 2008-09 contro Hamas a Gaza), ma uno sforzo prolungato e sistematico per correggere una mentalità bellicosa. La vittoria di Israele aiuta direttamente il suo alleato americano, poiché alcuni dei suoi nemici - Hamas, Hezbollah, la Siria e l’Iran - sono altresì nemici degli Usa. E una tattica israeliana più dura aiuterebbe per certi versi il governo Usa. Washington dovrebbe incoraggiare Gerusalemme a non impegnarsi in scambi di prigionieri con gruppi terroristici, per non permettere a Hezbollah di poter riarmarsi nel Sud del Libano, come pure a Fatah o ad Hamas a Gaza, e a non procedere a un ritiro unilaterale dalla Cisgiordania (che avrebbe l’effetto di consegnare la regione ai terroristi di Hamas e di minacciare il trono hashemita in Giordania). La diplomazia che mira a porre fine al conflitto arabo-israeliano è prematura finché i palestinesi non rinunceranno al loro antisionismo. Quando questo momento arriverà, si potranno riavviare i negoziati e affrontare di nuovo le questioni di Oslo: i confini, le risorse, gli armamenti, i luoghi sacri, i diritti di residenza. Ma questo avverrà a distanza di anni o di decenni. Nel frattempo, un alleato deve vincere.


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Rinforzi. La polemica innestata dal Washington Post scuote gli Usa inforzi sì, ma pochi, solo di supporto con più tecnici che combattenti, e soprattutto in sordina. Sarebbe questa la linea scelta dal presidente Barack Obama per sbrogliare la matassa dell’Afghanistan. Lo rivela il Washington Post, che afferma: Obama ha già autorizzato e cominciato a inviare in Afghanistan 13mila soldati in più, ma senza annuncio. Sarebbe il risultato della mediazione col comandante McChrystal e tra le richieste dei generali e le pressioni dell’ala liberal dell’Amministrazione di Washington. Una decisione quindi più politica che strategica, che rischia di rivelarsi un boomerang. Su molti piani. Su quello operativo, prima di tutto, ma per il presidente anche su quello politico. Anche se nella scelta qualche potenzialità positiva c’è. Ma sembra mancare il coraggio di andare fino in fondo, preferendo procedere a tentoni. E questo potrebbe essere un errore fatale, che non verrà perdonato. Andiamo con ordine. L’edizione on-line del Washington Post ieri ha reso noto di aver saputo da fonti della Difesa che il presidente Obama ha autorizzato l’invio in Afghanistan di 13mila uomini in aggiunta ai 21mila il cui impiego era stato annunciato in febbraio. Il quotidiano scrive che sarebbe già in corso il dispiegamento delle truppe composte in prevalenza da ingegneri, personale medico, esperti di intelligence e polizia militare. Queste nuove truppe portano il numero dei militari statunitensi impegnati tra Iraq e Afghanistan a un record superiore ai massimi dei tempi di Bush e del suo surge iracheno.

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Ora in Afghanistan ci sono circa 65mila soldati (il doppio dell’era Bush) e circa 124mila in Iraq, rispetto ai 26mila e 160mila del momento di massimo impegno contro l’insurrezione irachena tra il 2007 e il 2008. Ma ciononostante Obama rischia di scontentare tutti. Scontenta i suoi sostenitori liberal che vogliono il disimpegno militare e vedono raggiungere questi apici proprio mentre il presidente ottiene il Nobel per la pace alle intenzioni. E per di più di soppiatto, proprio per tenere più basso possibile il livello di critica, cosa che si sa funziona se non viene scoperta, ma fa l’effetto contrario quando le magagne vengono alla luce. Ma questa situazione scontenta anche coloro che vogliono un maggior impegno o comunque lo ritengono necessario: i soldati in Iraq infatti sono sul piede di partenza non solo concreta ma anche psicologica, per cui il loro lavoro, benché ancora rischioso, è ormai diventato residuale; in Afghanistan i militari sono comunque insufficienti, e su Obama pende

Il mistero dei 13mila uomini per Kabul Il giornale rivela: Obama avrebbe deciso, ma non vuole dare l’annuncio ufficiale di Osvaldo Baldacci

Si tratterebbe di personale non combattente, destinato ad aiutare lo sviluppo interno del Paese dal punto di vista medico e di infrastrutture l’inevasa richiesta del generale McChrystal di altri 40mila soldati combattenti, mentre l’invio di personale logistico è senz’altro utile, ma non può sostituire quanto necessario alle operazioni militari per la difesa e il controllo del territorio. Da questo scaturisce il dubbio di fondo dei militari: ma esiste una strategia per l’Afghanistan? Cosa vuole fare l’Amministrazione Obama? Cosa vuole ottenere? Come? L’invio di ingegneri, medici, poliziotti, agenti segreti è una cosa eccellente, che può essere determinante per la ricostruzione del Paese e per la lotta al terrorismo, e quindi per vincere la guerra. Può, se lo fa in un contesto adatto. Cioè se medici e ingegneri si trovino a lavorare in condizioni di sicurezza. Se invece il personale non combattente va a sostituire

quello combattente, allora rischia di costituire solo una massa di bersagli in più, in una condizione di pericolo elevata. Questi 13 mila militari non combattenti sono il compromesso che Obama può offrire ai suoi generali e a McChrystal? Non credo. Anzi, per coerenza Washington a questo punto dovrebbe rafforzare la propria presenza in Afghanistan. Perché non sembra possibile vedere un’ulteriore alternativa alle due strategie possibili: aumentare l’impegno in Afghanistan per riconquistare il controllo del territorio e impiegare le forze per ricostruirlo, oppure rinunciare a presidiare l’Afghanistan e concentrarsi solo sulla lotta al terrorismo con azioni mirate di intelligence senza schierare truppe sul terreno. Obama sembra ancora incerto

tra queste due linee, e tirato per la giacca da una parte e dall’altra: dai liberal pacifisti che pretendono da lui un totale disimpegno militare dalle aree di guerra, e dai generali che al contrario vogliono più sostegno per continuare a combattere fino alla vittoria. Se Obama persegue una sua linea, una delle due o anche una propria strada moderata ma comunque costante e coerente può ottenere dei risultati, altrimenti espone i suoi soldati a rischi e si espone alle critiche della satira che proprio in questi giorni lo sta crocifiggendo come l’indeciso e il temporeggiatore.

Il punto centrale resta la scelta del controllo del territorio afghano. La situazione sul terreno è sempre più difficile, il livello di violenza si alza, i ribelli aumentano di numero e di potenziale, e forse anche di tipologia. È di ieri la denuncia del presidente del Senato afghano che accusa “Paesi stranieri”di sostenere gruppi di insorti, mentre Karzai ha raccontato che elicotteri non identificati portano combattenti ribelli nelle regioni del nord. Il tutto mentre i rapporti tra la Casa Bianca e il governo di Kabul sono ai minimi della nuova era: Obama non è certo un fan di Karzai, e le recenti polemiche sui risultati elettorali e sui brogli (con il siluramento da parte dell’Onu di alcuni uomini di Obama) non sta certo rasserenando il clima. Per Obama un altro problema nato dall’indecisione sulla strategia da attuare: era noto che la nuova Amministrazione non era innamorata del presidente amico di Bush, ma poi non ha saputo lavorare a una alternativa, né di carattere personale né di diverso assetto istituzionale. E ora deve decidere se e come sostenere il presidente in carica, e se impegnare i propri uomini per riprendere il controllo del territorio da riconsegnare a Karzai. Come gli chiede McChrystal, nominato al posto di chi aveva già chiesto rinforzi. Ma è chiaro che chi sta sul terreno, in un’area enorme e accidentata come l’Afghanistan e con un numero di uomini che sarà comunque sempre insufficiente, chi sta lì non può non pensare alle esigenze minime di difesa e sicurezza non solo delle posizioni conquistate ma anche della stessa incolumità delle truppe schierate. Benvengano quindi i 13mila uomini per l’impegno logistico e di ricostruzione, fondamentali per creare le condizioni di vivibilità del Paese, e di conseguenza di fiducia e quindi di sicurezza. Se questa è la linea della nuova strategia è ottima. Ma per lavorare questi medici, poliziotti e ingegneri in divisa devono trovarsi in un contesto protetto, e per fare questo servono soldati. O almeno questo è quello che pensa McChrystal, e forse anche Petraeus, Jones, Gates… Non bastano le decisioni prese nel silenzio. A loro, agli Stati Uniti, all’Afghanistan e alla comunità internazionale Obama deve una risposta. Manderà o no i rinforzi per riprendere il controllo dell’Afghanistan?


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Per la quarta volta consecutiva, bloccato il visto di uscita

Combattivo il leader Emile Boc, che parla di «una guerra»

Cuba ordina: «La blogger Sanchez non esce dall’isola»

Romania, il Parlamento sfiducia governo di centrodestra

L’AVANA. Per la quarta volta consecutiva nel giro di poco più di un anno la blogger cubana Yoani Sanchez ha affrontato la complessa e umiliante procedura che i cittadini cubani devono sopportare per ottenere un permesso di uscita (e di rientro) dal governo dell’isola. E per la quarta volta consecutiva le è stato negato senza spiegazione alcuna. La Sanchez era stata invitata a New York, dove oggi avrebbe dovuto ricevere alla Columbia University il premio giornalistico intitolato a Maria Moors Cobot. «Me lo aspettavo - ha detto la blogger al Miami Herald - ma sono andata lo stesso al ministero degli Interni a chiedere se potevo viaggiare o no. E un ufficiale del Ministero mi ha detto che la mia richiesta era stata respinta e che per il momento non potevo uscire dall’isola». Il visto d’uscita è stato negato a Yoani Sanchez per la prima volta nel maggio del 2008, un anno dopo la nascita del suo blog Generacion Y nel quale racconta la vita quotidiana all’Avana, quando era stata invitata a Madrid dal quotidiano El Pais come vincitrice del Premio Ortega y Gasset. Qualche mese dopo venne invitata a Ferrara, al Festival Internazionale, ma anche in quella occasione non le venne concesso il permesso di

BUCAREST. Crisi politica in Ro-

O’Leary scatenato: dopo Murdoch, la Bbc L’ad di RyanAir: «Il reportage sulla mia azienda? Spazzatura» di Lorenzo Biondi a già sfidato l’impero dell’informazione di Murdoch, adesso sfida la Bbc. Non contento della sovraesposizione mediatica raggiunta in patria durante il referendum sul trattato di Lisbona, l’amministratore delegato di RyanAir - l’irlandese Michael O’Leary - si scatena adesso contro la tv di Stato britannica. Il programma di prima serata Panorama gli ha dedicato ieri un servizio, che l’istrionico imprenditore ha definito «tagliato con l’accetta» e «pieno di spazzatura». Il servizio della Bbc non era proprio lusinghiero nei confronti della compagnia low-cost e del suo patron. A partire dal titolo: «Perché odiare RyanAir». La compagnia addebiterebbe «costi nascosti» sui propri biglietti - sostiene il settimanale di Bbc1, riferendosi alle spese per la prenotazione su internet e per il check-in on line, che da poche settimane è diventato obbligatorio. Si continua poi con le indiscrezioni sui metodi spregiudicati di O’Leary, che secondo Panorama sarebbe solito riferirsi ai propri dipendenti come a «limoni»: «Li apriamo a metà, ne spremiamo il succo e poi li buttiamo via». C’è poco da sorprendersi che dalle parti di RyanAir il servizio non sia stato accolto in modo particolarmente positivo. Intercettato da una troup della stessa emittente, O’Leary ha commentato: «Ma la Bbc non era una sostenitrice della libertà di parola? Tutto quello che avete fatto, a Panorama, è stato fare le domande e censurare le risposte». E il collage delle risposte, O’Leary proprio non lo accetta.

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zero, palla al centro. La passione del patron di Ryan per i collage è andata avanti fino a tempi più recenti.

Alla vigilia del referendum irlandese sul trattato di Lisbona, le strade di Dublino erano tappezzate di poster con le foto dei leader dei quattro principali gruppi coinvolti nella campagna per il “no”. Sotto le facce, la scritta: «Solo i perdenti dicono no al trattato». «Touché»: tutti e quattro i politici erano reduci da sconfitte recenti nelle elezioni politiche ed europee. RyanAir ha investito mezzo milione di euro nella campagna per la ratifica del trattato Lisbona, schierandosi apertamente contro il Times e il Sun di Rupert Murdoch. Che lo spregiudicato O’Leary sia in realtà un idealista con la passione per l’Europa? Non proprio. Incalzato dalle domande di un’intervista televisiva, l’ad di Ryan aveva ammesso: «Una delle ragioni per cui sostengo il “sì” è che devo convincere il governo a vendermi AerLingus», la compagnia di bandiera irlandese. Il primo ministro di Dublino, il conservatore Brian Cowen, aveva scommesso molto sul successo del referendum, in un momento in cui il sostegno per il suo governo era ai minimi storici. L’obiettivo di O’Leary, dunque, era “comprarsi” l’amicizia di Cowen, per piegare la sua resistenza all’acquisto da parte di RyanAir di una quota di maggioranza in AerLingus. Che l’acquisto vada in porto o meno, il modello Ryan rimane un successo incredibile. Quest’anno la compagnia è stata scelta da circa 60 milioni di passeggeri; allora poco importa che O’Leary usi metodi poco ortodossi, o che il suo linguaggio scada spesso nel volgare. Quarantottenne, primo di sei figli, Michael ha studiato nelle migliori scuole del Paese prima di sposare una bancaria di Dublino e di rivoluzionare l’aviazione europea fondando la prima compagnia “low-cost” del continente. Al di là del talento imprenditoriale, però, O’Leary sembra aver capito una regola fondamentale della comunicazione. Ogni pubblicità, anche cattiva, è pur sempre pubblicità. Con buona pace della Bbc.

La tv di Stato britannica aveva parlato dei “costi nascosti” addebitati ai passeggeri dalla compagnia aerea

viaggiare. Quest’anno, prima della Columbia, la Sanchez era stata invitata in Brasile dalla Fondazione dell’ex presidente Henrique Cardoso, per parlare del suo libro,“Cuba Libre”(pubblicato anche in Italia). Quest’ultimo rifiuto arriva mentre al Congresso Usa si inizia a discutere la possibilità di abolire il divieto di viaggiare a Cuba che riguarda tutti i cittadini americani. Divieto morbido visto che viene facilmente eluso con un triangolazione: basta viaggiare dagli Stati Uniti prima verso un altro Paese e poi a Cuba (evitando di farsi stampare il timbro sul passaporto). Ma comunque divieto che ha impedito a milioni di americani di recarsi sull’isola.

Chi di collage ferisce, di collage perisce viene da commentare. I lettori italiani forse ricordano un episodio di qualche anno fa: RyanAir usò la celebre foto di Umberto Bossi col dito medio alzato, per una campagna contro il governo Berlusconi e Alitalia. «Il governo supporta le alte tariffe di Alitalia e se ne frega dei passeggeri italiani», recitava lo spot. La Lega insorse chiedendo le scuse di O’Leary, che rispose: «Se c’è qualcosa di “volgare e offensivo” nella pubblicità Ryanair è il gesto di Bossi in risposta all’inno nazionale italiano». Due a

mania. Il governo di minoranza centrista presieduto da Emil Boc è caduto ieri in seguito a un voto di sfiducia del Parlamento, che accusa l’esecutivo della pessima performance economica. I voti contro il governo - che viene licenziato dal Parlamento per la prima volta dal crollo del regime comunista nel 1989 - sono stati 254, contro 176 a favore. Combattivo Boc, leader del Partito liberaldemocratico, secondo cui il suo esecutivo «ha perso una battaglia, ma non la guerra». Il premier resterà in carica fino a quando il presidente Traian Basescu non avrà nominato un successore, che avrà tempo dieci giorni per dare vita a un nuovo go-

verno, sottoposto all’approvazione del Parlamento. Basescu, politicamente vicino a Boc, ha ringraziato il premier «per il coraggio con cui ha portato avanti le riforme» negli appena nove mesi in carica e ha affermato che il voto di sfiducia espresso ieri dai parlamenti ha una motivazione politica, in vista delle elezioni presidenziali del prossimo 22 novembre e che dovrebbero riconfermarlo per un secondo mandato. La Romania, dopo tre anni consecutivi di crescita economica intorno all’8 per cento, è stata pesantemente colpita dalla recessione nei mesi scorsi, al punto che ha dovuto far ricorso a un prestito di 17,1 miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale (Fmi). Gli indicatori economici parlano di un tasso di disoccupazione al 7 per cento, contro il 4 per cento dello scorso anno, e di un meno 8 per cento del Prodotto interno lordo. Ora si tratta di capire come intenda muoversi l’opposizione parlamentare rumena, che dopo la sfiducia deve sperare nel ritorno alle urne e non nella convocazione di un governo tecnico. Boc, infatti, esprimeva una sorta di Grosse Koalition in salsa rumena: la sua maggioranza di governo aveva infatti in sè circa il sessanta per cento dei voti.


cultura

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Il ritratto. Al museo di Bettona, l’omaggio di Ferdinando Adornato, Anna Foa, Lucetta Scaraffia, Gennaro Malgieri, Carlo Ripa di Meana, Roberto Segatori

Parlando di Renzo... A quattro mesi dalla scomparsa, gli amici del direttore di liberal lo hanno ricordato in un convegno nella “sua” amata Umbria di Gabriella Mecucci l’Ummava bria, Renzo. L’amava moltissimo. Era strano il suo amore: perché ne criticava severamente il modo in cui era governata, perché considerava le sue classi dirigenti e il dibattito culturale presente, molto al di sotto di una storia che aveva creato splendide città e altrettanto splendidi paesaggi, perché non l’ha mai vissuta come una regione felix e non ha mai

A

accettato tutti i luoghi comuni che sono stati sparsi a piene mani per creare consenso. Eppure, sulle sponde del Trasimeno stava benissimo, considerava Assisi «bella quanto Gerusalemme» e gli piaceva frequentare un gruppo di amici, di intellettuali all’opposizione, innamorati della politica e della ricerca. Appena finiva di lavorare, prendevamo la macchina e partivamo per andare a Perugia, o al lago, o a Bettona dal carissimo Mario Lispi. La giornata scorreva fra le sue grandi passioni: i libri, la

teorici della socialdemocrazia), facendo al tempo stesso i conti con la propria storia. Una faticaccia, quella di Renzo, che abbracciò gran parte degli anni Ottanta, al termine della quale germogliò una forza politica che poco o nulla aveva a che vedere con il Pd da lui pensato. Si formò – lo ha ricordato Ferdinando Adornato – un partito che ha avuto sempre come tratto fondante il ritardo, quando di quindici quando di venti anni. E ritardo in politica significa errore. Quanto alla cultura politica, eravamo sempre al punto di partenza o FERDINANDO ADORNATO un passo peggio: avanti e due indietro. Dal ’56 la sinistra ha avuto sempre Renzo si rese conto come tratto quasi subito che le cofondante se non andavano per il il ritardo, quando verso giusto. Lo capì di 15 quando di sin dal ’92-’93 e da al20 anni. E ritardo lora iniziò una riflesin politica sione acuta e dolorosa significa errore. anche sul piano esiSu questa stenziale, che lo portò convinzione lontano dalle sponde si fondava della sinistra. Il perla nostra sintonia corso è scandito da

scrittura, le discussioni di politica e di storia, magari davanti ad un buon piatto locale. Ed è stato proprio in Umbria che Renzo è stato ricordato il 9 ottobre scorso, a quattro mesi precisi dalla sua scomparsa. C’erano gli amici di qui e quelli romani: sono venuti in tanti, hanno riempito la sala del delizioso museo di Bettona per parlare di lui, per ascoltare analisi e racconti. Il convegno, promosso dal Comune e dall’Associazione culturale “Diomede”, aveva un titolo che gli sarebbe piaciuto parecchio: “Omaggio a Renzo Foa, protagonista della sinistra storica e del tempo del revisionismo”.

Quante discussioni, quanti articoli, quante arrabbiature per cercare di spostare quel mastodontico Mammuth che era il Pci. Per convincerlo a sciogliersi, per dar vita ad una “cosa” nuova: il partito democratico (il Muro aveva sepolto anche gli apparati

tanti articoli lucidi e appassionati: basta rileggerseli. Alla riformabilità del comunismo non credeva più da molto prima: da quando aveva visto con i suoi occhi il naufragio del Vietnam vittorioso, il genocidio di Pol Pot, la guerra fra Pechino e Hanoi. E poi ci fu la Polonia: gli operai in sciopero che uscivano dai cantieri di Danzica seguendo un grande crocefisso, mentre le bandiere rosse venivano stracciate. Da allora – fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta – Renzo non si soffermò più sulla possibilità di riformare il comunismo. In realtà questa porta si era chiusa per sempre – lo ha più volte scritto in saggi e articoli – già nel 1968, con l’invasione di Praga. Ma allora Renzo era

ancora un ragazzo e la consapevolezza della fine la ebbe solo una decina di anni dopo. Quando dunque arrivò la svolta gorbacioviana – il ritardo era davvero insopportabile – non ci credette e diventò rapidamente un sostenitore di Eltsin, di colui cioè che non sperava più di riformare il sistema ma voleva abbatterlo. E che ci stava a fare allora nel Pci? Se lo è chiesto tante volte e si è risposto: «Volevo salvare un pezzo tanto importante della sinistra. Speravo fosse possibile cambiare alle radici il Pci. Mi sono sbagliato». Sotto i suoi occhi, invece che novità, passarono errori e ri-

ANNA FOA Ha sempre avuto un rapporto straordinario con nostra madre Lisa. Era un piacere ascoltare le loro lunghe, informate, acute discussioni di politica estera. Si trovavano a meraviglia

tardi. Ed insulti verso chi metteva in guardia dall’estremismo no global all’antiame-


cultura

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Foa non può non avere coraggio. E lui si chiamava per di più Renzo, lo stesso nome dello zio morto nella guerra di Spagna a 24 anni. Quel nome lo aveva amato molto, ma lo aveva anche sofferto. Bisognava esserne all’altezza. La sua famiglia fu per lui molto importante.

ricanismo, dall’operaismo all’assistenzialismo, dal giustizialismo sguaiato all’antiberlusconismo.

posizione politica, Renzo cercava un nuovo punto di vista. E lo trovò nella testimonianza di Wojtila: da quando era vescovo di Cracovia al lungo paPer questo intitolò il suo li- pato. Ne scrisse, così come bro più politico: Il decennio scrisse del messaggio di Cristo. E pensava GENNARO MALGIERI che la più profonda radice Renzo revisionista dell’Europa anlo era già all’epoca dasse proprio ridei suoi reportage cercata nella dal Vietnam: cultura giudaisempre tesi co-cristiana. a cogliere ciò che accadeva davvero. Revisionista? E talmente belli Certamente lo che io, giovane fu, soprattutto universitario se questa non fascista, compravo diventa un’al’«Unità» stratta categoper leggermeli ria, ma una mo-

sprecato. E di sprechi ce n’erano stati tanti: a sinistra, ma anche a destra. Renzo aveva sempre cercato la verità – secondo Lucetta Scaraffia – e volle raccontarla anche dalle colonne dell’Unità a quegli operai che tanto avevano sperato nel loro partito. Ma più andava avanti nella sua ricerca, più i rapporti con il Pci e con i suoi eredi diventavano difficili. Sino a quando gli apparvero impossibili. Ma in realtà – è sempre Scaraffia a parlare – più che una diversa

dalità per conoscere: l’imperativo di guardare la realtà con occhi liberi e di raccontare la verità anche se questa distrugge sogni e luoghi comuni consolidati.

A costo di rompere certezze sulle quali si è fondato il senso della propria vita, di farsi male, di essere guardato con diffidenza, quando non con odio dai vecchi amici e compagni. E in fin dei conti – lo dice Gennaro Malgieri - Renzo revisionista lo era già all’epoca dei suoi reportage dal

Vietnam: «Sempre tesi a cogliere ciò che accadeva davvero, pieni di viaggi nella realtà di una guerra terribile e mai improntati all’ideologia o impegnati a dare la linea del partito». «Articoli tanto veri e belli – continua Malgieri – che io, giovane universitario fascista, compravo l’Unità per leggermeli. E poi ne discutevamo la sera fra amici». E lo stesso spirito di verità lo ha animato nello scrivere della Cambogia di Pol Pot e della Cina maoista e postmaoista: qualche volta gli articoli non venivano pubblicati con una scusa o con un’altra. Qualche volta invece si lasciavano passare perché era un bene che trapelassero, magari per dire subito dopo che c’era del vero, ma anche parecchie esagerazioni. Renzo si accorgeva di quelle ipocrisie di partito, ma andava avanti. Era spavaldo Renzo, e anche un po’ guascone. Era solito dire che «avrebbe sacrificato la carriera per una bella battuta», figurarsi se non accettava le polemiche dei tanti buoni comunisti illusi contro un suo reportage, pur di far transitare qualche verità. Del resto un

sfaccettature di un uomo dalla vita ricca di interessi: politica, giornalismo, ricerca spirituale, famiglia, scrittura, storia. La sua grande passione era viaggiare, in tutti i sensi. Era un viaggiatore che non ripercorreva mai le vecchie strade. Amava le novità, attraversava territori diversi, sfidava il pericolo di restare solo. E non chiudeva mai gli occhi davanti alla realtà, anche quando questa lo costringeva a cambiare radicalmente la propria vita. «Non puoi resta-

La sorella Anna ha citato nella sua testimonianza il nonno materno, quel professor Giua, scienziato curioso, mite socialista, a cui Renzo ha dedicato il LUCETTA SCARAFFIA suo libro più bello: In cattiva Aveva sempre compagnia. Ha cercato la verità, ricordato il rape volle raccontarla porto straordianche dalle nario con la macolonne dell’Unità dre Lisa, le loro a quegli operai lunghe, inforche tanto avevano mate, acute disperato nel loro scussioni di popartito. Più che litica estera. In una diversa genere avveniposizione politica, vano la mattina cercava un nuovo al telefono e ripunto di vista chiedevano una buona mezz’ora, durante la quale si sviscerava un tema. Era un re identico –diceva – se intorpiacere ascoltarli: si trovava- no a te tutto muta. Non puoi no a meraviglia. Erano come non riflettere». Di papa Wojtiun piccolo e affiatato gruppo la lo aveva colpito prima di musicale. E poi erano “legge- tutto quel «Non abbiate pauri”:ogni tanto fra una rifles- ra», gridato da Piazza San sione e l’altra infilavano qual- Pietro. che battuta dissacrante o pa- Purtroppo tutto questo – riradossale, e una buona risata. corda Roberto Segatori – è Perché non bisogna «prender- stato utilizzato per definirlo si troppo sul serio», altrimen- «un voltagabbana». Mentre ti si «rischia di diventare vec- gli altri, gli accusatori dicevachi tromboni». E poi c’è la fi- no, nel tempo, tutto e il congura paterna: un rapporto, trario di tutto senza mai doquello con Vittorio, molto verne rendere conto, guarprofondo, carico di affetto e dando più al proprio tornaanche di tensioni drammati- conto che ad una reale comche. Un “nodo” fondamentale prensione dei processi storici, della sua vita – osserva Carlo scaricavano su di lui, limpido Ripa di Meana – che merite- nella sua ricerca e nelle sue rebbe di essere approfondito. posizioni, l’insulto tipico delle Anche perché nell’esistenza dittature. di Renzo, così come nella sua scrittura, c’è stata sempre una E oggi Renzo che farebbe? ricerca letteraria, un rappor- Cosa penserebbe? Sarebbe “impegnato” e “responsaCARLO RIPA DI MEANA bile” come sempre. In politica, per costruire una Nell’esistenza novità che riuscisse a di Renzo, così rompere un bipolarismo come nella sua sbagliato e forse pericoscrittura, loso. Nel giornalismo, c’è stata sempre per guarire la peste della una ricerca propaganda e dei toni letteraria, sguaiati che nulla ha che un voler vedere con l’informaziorapportarsi ne. Nella storia, torneagli uomini rebbe a riflettere sul e alle donne, un 1989. Gioirebbe della volerli conoscere laurea di sua figlia che e raccontare ha amato più di ogni altra persona al mondo. E andrebbe in Umbria a ritarsi agli uomini e alle donne, posare, a scrivere e a chiacun volerli conoscere e raccon- chierare di cultura e di polititare con una cifra che andava ca con i tanti amici che sono al di là del giornalista per rag- venuti a ricordarlo a Bettona. Farebbe tutto con grande imgiungere i lidi dello scrittore. pegno, ma sorridendo con miIl convegno di Bettona è tezza e con ironia, attraverstato una sorta di caleidosco- sando “leggero” e “spavaldo” la pio: ne sono emerse le tante sua vita bella e difficile.


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cultura

Tra gli scaffali. Nel libro-intervista “L’uomo che si gioca il cielo a dadi”, Matteo Orsucci scava (e scova) nella vita di Vecchioni

Il Roberto della porta accanto di Mario Bernardi Guardi

A fianco, un’immagine del cantautore italiano Roberto Vecchioni. In basso, la copertina del libro-intervista che il giornalista Matteo Orsucci ha realizzato per Aliberti, “L’uomo che si gioca il cielo a dadi”

oscano, ventisei anni, collaboratore di Libero, dell’Ordine di Como, del Domenicale, animato da una curiosità che lo porta a scrivere sia di cultura che di politica e di sport con sciolta e disinvolta eleganza, Matteo Orsucci ha la “fissa” di Vecchioni sin dagli anni del liceo. Solo che da studente andava ad applaudirlo ai concerti, inebriandosi a distanza di quell’extravagante sfolgorio di colori, umori, invenzioni; ora che, pur tanto giovane, ha un “curriculum” di tutto rispetto, gli telefona per incontrarlo, gli chiede un’intervista, la ottiene, gli spara domande di quelle che scavano e scovano, e ci costruisce sopra un libro (L’uomo che si gioca il cielo a dadi, Prefazione di Luigi Santambrogio, Aliberti, pp.156, euro 13,90). Dove di Vecchioni ci sono un bel po’ di cose.

T

Al centro, ovviamente, l’intervista, cuore e sangue, ma anche “cervello” di queste pagine. Ma anche quanto basta di note biografiche per mettere a fuoco il vissuto di un cantautore (e scrittore, non dimentichiamolo) che va per i settanta, e non ci crederesti, e probabilmente non ci crede nemmeno lui, anche se ogni tanto tira fuori aurei granellini di saggezza, stile vecchio docente un po’ conservatore. Nel libro, poi, c’è la discografia, da Parabola (1971) a Di rabbia e di stelle (2007). E ci sono le lezioni su Domenico Modugno e Francesco Guccini, tenute da Vecchioni all’Università di Torino nel 2002, con testi, contesti, poetiche e spunti di riflessione. Ma torniamo all’intervista. Chiamala, se vuoi, l’emozione di un ritratto. Così come si conviene. Rughe e ricordi, lui come ragazzo e come figlio, lui come padre che parla dei figli - quattro - e dei

ragazzi. Li conosce bene il nostro exprof di liceo (latino e greco). E, con ogni evidenza, ha voluto bene ai suoi studenti. Leggiamo: «Dei ragazzi posso solo dire che hanno avuto una grandissima importanza nella mia vita. Perché io ho preso i ragazzi sempre come fratelli più piccoli a cui dire le ragioni per le quali siamo a questo punto nel mondo, perché viviamo così, perché esistiamo così. Come l’ho fatto? Raccontando loro la letteratura, l’arte, scienza e coscienza,

amico. Quelle sono stronzate mai viste. Quello tra alunni e insegnanti deve essere un rapporto di grande autorità. Badi bene: non intendo che deve essere di natura autoritaria, perché con l’autoritarismo non si va da nessuna parte. Pensi che dell’autorevolezza i ragazzi non sanno che farsene, proprio non gliene frega niente. Mentre l’autorità è un aspetto che scoprono da soli: però tu, insegnante, devi essere anzitutto coerente. I ragazzi ti giudicano dalle tue azio-

Nel volume, oltre al colloquio con il cantautore italiano, da cui viene fuori un eccezionale ritratto ricco di notizie, anche la discografia da “Parabola” (1971) a “Di rabbia e di stelle” (2007) la filosofia, il pensiero, i fumetti, il cinema, tutto quello che era possibile perché questo bagaglio immenso di cose che noi chiamiamo umanesimo o cultura in generale, è la difesa più alta che hai quando le cose ti vanno male, quando tutto sembra perduto, quando sei disperato, quando sei distrutto, quando hai problemi nella vita, quando non hai lavoro… La cultura è assolutamente una merce di scambio col dolore…».

Pensiero stupendo, pensiero sofferto, prof. dal sicuro carisma. Un tipo come il John KeatingRobin Williams dell’Attimo fuggente, con l’aggiunta di spruzzate sessantottine, pacche sulle spalle,“tu”reciproco, mescolati a una inconfessata vocazione piccola-piccola alla manipolazione ideologico- politicoemozionale? Mah, non diremmo. Così infatti parla il Roberto, spiegando come «non dovrebbe essere» il rapporto coi ragazzi a scuola: «Senz’altro non deve essere paterno né tanto meno di grande

ni, da quello che fai in base a quello che dici… E quindi i gesti, il modo di vivere, sono alla fine quei lasciapassare attraverso i quali uno studente può arrivare a pensare: “Però, che bella questa persona” e allora li conquisti, ti guadagni il loro rispetto». Il docente Vecchioni “docet”. Ed ha ragione. Orsucci chiede, indaga, cerca l’uomo nelle canzoni, va a caccia di pensieri qua e là seminati, sparsi e dispersi. Ovvio tirar fuori “il senso della vita”… Ammesso e non concesso che il ripasso degli interrogativi eterni - chi è Dio? che vuole da me? perché sono “qui”? perché me ne andrò “là”? - ,una consolante ricetta possa venir fuori. Ora, da quale “parte” dell’Ineffabile sta Roberto? E accanto a “quale” Dio? Si definisce cristiano - un po’ a

modo suo, un po’ come tutti -, parla della ragione e della fede, del male, del dolore, delle prove da superare, del Caso e dei miracoli. Non pare proprio che abbia voglia di esibirsi in atteggiamenti trasgressivi. Anzi. È in pace «con un sacco di cose», grato di aver avuto una vita bellissima e sette- otto donne splendide: e, oggi, una compagna “meravigliosa” e figli “unici”.

Roberto, l’Appagato? Già, poi però, insieme ad Orsucci, giovane di garbo ma poco avvezzo a dar tregua, ti arrampichi nel tempo, di canzone in canzone, da un Roberto all’altro, complici e conflittuali, e trovi la presenza-assenza, il garbuglio delle contraddizioni, le risposte non date, l’inquietudine, i silenzi, le lontananze abissali. Ma a mo’ di sigillo torna una professione di fede, cresciuta attraverso il dolore. Vecchioni ha sofferto. E prega: «Prego, sì prego. Dico l’Ave Maria, il Credo, il Pater Noster. Con Dio si può parlare ovunque, in chiesa, per strada». Ci si può anche “giocare”? Un domanda lieve come un macigno. È da lì che parte Vecchioni, nel 1973, a San Remo, con la canzone L’uomo che si gioca il cielo a dadi. Parte da lì, probabilmente è lì che deve tornare. A suo padre e a “quel” Padre. «E quando sarà l’ora di partire, vecchio mio, scommetto che ti giochi il cielo a dadi anche con Dio, e accetterà, lo giuro, perché in cielo, dove sta, se non ti rassomiglia, che ci fa?».


cultura a cultura ci salverà. Un Paese che non sostiene la ricerca scientifica, non ha futuro. Per il professore Giuseppe Novelli, genetista di fama internazionale e preside della facoltà di medicina all’Università di Tor Vergata a Roma, non ci sono dubbi. E la sua affermazione è sicura come l’esistenza del Dna. In tanti sono con lui. Ricercatori, medici, scienziati infatti, sono riuniti in questi giorni all’Accademia dei Lincei per il secondo appuntamento del Gid (Group-Inter-académique pur le Développement) che riunisce le Accademie Scientifiche e gli esperti di venti Paesi del Mediterraneo (dall’Egitto al Portogallo) dedicato quest’anno alle nuove patologie emergenti nell’area del mediterraneo. In concomitanza a Lussemburgo si è svolto il Consiglio straordinario dei Ministri della Sanità dell’Ue per affrontare il rischio pandemia dell’influenza A/N1H1. Gli incontri annuali del Gid, il primo si è tenuto a Parigi ed era incentrato sul tema dell’energia, il prossimo si terrà ad Alessandria d’Egitto sul tema delle diversità scientifiche e culturali, sono degli imponenti rapporti pilota che consentono poi ai governi di fare delle politiche specifiche, soprattutto nel campo della prevenzione. Questo per parlare di una prima applicazione concreta di simili studi.

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L

Convegni. Ai Lincei il gotha della ricerca scientica dei Paesi del Mediterraneo

Un vaccino salverà la cultura

Ma già nell’immediato futuro, la ricerca darà importanti risultati nel campo delle malattie ereditarie come in quello delle malattie endemiche: «Oggi conosciamo i geni dell’uomo, dei che un ponte di dialogo «come microrganismi e l’effetto che dimostra la relazione di un riproduce l’ambiente - dice il cercatore palestinese sulla sorprofessor Novelli - siamo in dità condotta su pazienti israegrado di studiare migliaia di liani», dice Novelli. E soprattutgeni alla volta e questo consen- to bisogna organizzarsi, smette di fare ricerca su popolazioni tere di lamentarsi e di rimpianintere e non più, come avveniva gere i grandi cervelli ’fuggiti’ alin passato, soltanto su singoli l’estero: «Quest’ultimo aspetto individui alla volta. I vantaggi non è realistico e, soprattutto, in sono quelli di poter monitorare Italia i cervelli non mancano. la frequenza dei geni di una Abbiamo bisogno di ragazzi, di malattia e di scoprire come le quelli che io chiamo cervelletti, malattie ereditarie interagisco- per fare ricerca. Ricercatori che no con quelle endemche causa- possiamo pagare 40 mila euro te dai mircrorganismi presenti l’anno, una cifra ragionevole, nell’ambiente». Se la genetica per la quale un ateneo può anha fatto passi da giganti è ancora limitato, però, un suo approccio terapeutico perché è difficile sostituire un gene difettoso. «Ma è soltanto questione di tempo - aggiunge Novelli - ad oggi la genetica permette di curare le immunodeficenze primitive, una malattia gravissima che non consente al malato di resistere all’ambiente. In tutto il mondo sono stati trattati 10 pazienti con un trapianto genico in cellule staminali del sangue. La maggior parte In alto l’Accademia dei Lincei. operati da noi in Italia, a A sinistra il genetista Tor Vergata insieme al Giuseppe Novelli e a destra professore Ferdinando il cardiochirurgo egiziano Aiuti». Sir Magdi Yacoub La ricerca può essere an-

di Rossella Fabiani che assumere 10 persone. Il rientro dei grandi cervelli è stato un fallimento, ne ho parlato anche con il ministro Gelmini, perché per fare un contratto a un personaggio come Rubia dovrei mandare in pensione dieci ordinari. Inoltre un grande nome ha bisogno di uno stipendio adeguato, una cattedra e una struttura. Troppo». Oltre a una organizzazione carente, Novelli denuncia anche la mancanza in Italia di un un’industria chimica, farmaceutica e biotecnologica, mentre per quanto riguarda la situazione sanitaria di diversi Paesi del Mediterraeno come Marocco, Israele, Libano quello che occorre è «una grande opera di acculturamento, di un’ informazione capillare e di far capire l’importanza vitale dei test genetici». Perché la scienza non deve fare paura. «Tra i nostri prossimi obiettivi - aggiunge Novelli - abbiamo quello di co-

In Italia manca l’industria biotecnologica, denuncia Novelli. Intanto ad Assuan, in Alto Egitto, è stato aperto il primo reparto di cardiochirurgia struire una rete di consulenza genetica del Mediterraneo e di creare una bio-banca di cellule di tesssuti di Dna per fare ricerca e processi di prevenzione su larga scala». Come modello di eccellenza per fare ricerca il professore non ha dubbi: «Quello modello americano, senza i difetti che sono determinati da una grandissima competizione e un grandissimo stress. In America vale il motto o pubblichi o ti ammazzi. Ma è anche vero che i ricercatori vivono quotidianamente a contatto con l’eccellenza. Due giorni fa mi ha chiamato un mio studente da Harvard per dirmi che avevano dato il Nobel alla medicina a un collega che lavora al piano di sotto».

Ai Lincei, il gotha internazionale degli

scienziati, ha visto la presenza anche del cardiochirurgo Sir Magdi Yacoub, 64 anni, baronetto di Sua Maestà, accompagnato dal professore Yeha Halim Zaky dell’Università di Alessandria e direttore del settore culturale della Biblioteca alessandrina e da Taha Mattar, direttore dell’ufficio culturale egiziano a Roma. Sir Yacoub è nato in Egitto nel 1935 e sin da piccolo voleva diventare un dottore del cuore con l’ambizione di alleviare le pene e i dolori delle persone malate. Il professor Yacoub, ha effettuato più trapianti di cuore di ogni altro dottore al mondo, su adulti, bambini e neonati. Considerato un pioniere nelle operazioni di cuore, Sir Yacoub e il suo team dedicano parte del loro tempo libero ad aiutare i bambini malati nei paesi poveri dell’Africa e dell’Asia. L’impegno di Sir Magdi Yacoub ha dato vita anche al Qal, una fondazione che raccoglie fondi per portare avanti la ricerca e la terapia delle malattie cardiovascolari con centro ad Assuan, in Alto Egitto, dove una parte dell’ospedale è stata ceduta in gestione al professore Yacoub che ha aperto il primo reparto di cardiochirurgia vascolare presente in Alto Egitto. In precedenza i malati di cuore dovevano fare migliaia di chilometri e recarsi al Cairo per curare le loro disfunzioni. La fondazione Qal si avvale soprattutto di fondi donati da privati, come Naguib Sawiris, presidente di Wind e di religione copta come Sir Magdi Yacoub. Da cinque anni anche l’Università di Firenze, facoltà di medicina, collabora ai progetti di Sir Yacoub ad Assuan e in Qatar «con il trasferimento delle nostra esperienza maturata a Firenze nel campo delle cardiomiopatie», dice il cardiologo Franco Cecchi.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”International Herald Tribune” del 13/10/2009

L’impero colpisce ancora di Andrew E. Kramer azprom il gigante del gas russo sta costruendo un muro politico tra Europa orientale ed occidentale. Come? Con l’avvio del megaprogetto per il gasdotto che correrà lungo l’asse del Mar Baltico. Una zeppa tra le due europe, costituita dalla grande azienda di Stato moscovita. Se il gasdotto porterà indubbi vantaggi all’Europa nel suo insieme geografico, i leader europei temono possa portare anche a una nuova dipendenza, che verrà sfruttata politicamente dal Cremlino.

G

Un nuovo tipo di dominazione postsovietica. Messa in atto grazia alla ricchezza di risorse naturali e una rete di relazioni personali che hanno fatto alzare il sopracciglio a molte cancellerie occidentali. Così Mosca è riuscita a dividere l’Unione europea che aveva promesso di agire collettivamente nella trattativa con il colosso russo, anziché proteggere la propria sicurezza energetica. Allo stato attuale il percorso del gas russo deve passare dalla parte orientale del continente per arrivare agli Stati dell’Unione. Quando il la Russia decideva di abbassare il pompaggio nelle pipeline per esercitare una pressione politica su di un Paese dell’est, allora le conseguenze si sentivano forti anche in Occidente. Arrivava poco gas anche ai rubinetti della ricca Europa. Il nuovo gasdotto Nord Stream dovrebbe cambiare l’equazione. Viaggiando per più di 750 miglia sott’acqua, da Vyborg in Russia, a Greifswald in Germania, scavalcherà gli Stati dell’ex Patto di Varsavia e i suoi satelliti, creando così una linea di rifornimento diretta a ovest. Molti esperti sostengono che d’ora in avanti la Russia sarà più incline a giocare la carta energetica nei rapporti con i vicini europei. «Ieri erano i carri armati, oggi è il pe-

trolio» sostiene Zbigniew Siemiatkowski, ex responsabile dei servizi polacchi. Ma non è la maniera in cui la spiegano i russi. Gazprom, che fornisce al vecchio continente il 28 per cento del suo fabbisogno energetico, spiega che il suo progetto da 10,7 miliardi di dollari si fonda su motivazioni commerciali, non strategiche. Matthias Warnig, chief executive di Nord Stream, originario dell’ex Germania Est, è convinto che i timori dell’Europa orientale siano infondati: «Il muro è crollato 20 anni fa». L’Europa ha bisogno di forniture supplementari di gas naturale per compensare il calo della produzione dal Mare del Nord e la Russia è il posto migliore dove prenderle, ha spiegato Warnig. I funzionari europei hanno descritto il progetto come uno strumento che aiuta a riunificare l’Europa e a rafforzare la sicurezza dell’approvvigionamento di energia collettiva. La Commissione europea e il Parlamento europeo hanno approvato l’oleodotto, già nel Duemila, ed entrambi hanno riconfermato la loro impegni di recente, nel 2006.

«Per quanto riguarda la politica energetica comune, noi ne facciamo parte al più alto livello di priorità», ha affermato Sebastian Sass, principale rappresentante di Nord Stream per l’Unione europea. Ma in Europa centrale e orientale la paura rimane. Mentre i profitti dalla pipeline, una joint venture tra Gazprom e un trio di aziende tedesche e olandesi, affluiranno ai fornitori russi e alle imprese di servizi, i già a lungo vessati Paesi, una volta sotto l’om-

brello sovietico, diventeranno più vulnerabili ai ricatti energetici. Queste tattiche sono quasi senza precedenti. Un ricercatore di una istituzione legata al ministero della Difesa svedese ha individuato 55 eventi riguardanti l’interruzione di forniture energetiche da quando è crollata l’Unione sovietica.

In una lettera aperta al Presidente Obama la scorsa primavera, 23 tra ex capi di Stato, di governo, politici e intellettuali dell’Europa centrale, tra cui,Vaclav Havel, e Lech Walesa, hanno sottolineato che dopo la guerra in Georgia, la Russia ha dichiarato di voler reclamare un «sfera di interessi privilegiati», che potrebbe includere i loro Paesi. Con il controllo dei gasdotti, hanno scritto, «la Russia è tornata come un’antica potenza che persegue un ordine simile a quello del XIX secolo, ma con le tattiche XXI secolo». E ora sembra che anche la Francia voglia salire sul carro del gas russo.

L’IMMAGINE

Sul web apri un sito con pochi soldi e divulghi in tutto il mondo ciò che ti pare La stampa può essere fonte di critiche, anche perché la concorrenza di internet è molta, soprattutto per una convinzione non proprio esatta: c’è più verità sul web, quindi un’informazione concisa e migliore. Ciò può essere vero per chi vive in Paesi dove l’informazione o non esiste o è manovrata dal regime, per cui internet è l’eden proibito. In altri Paesi o in Italia, però, siamo troppo avanti in tema di libertà mediatica, tanto da confonderci in una folla che talvolta può contenere anche dei mistificatori. La verità allora diventa non l’altra faccia dell’obiettività del pensiero di parte, ma una scoperta che deve accogliere proseliti indipendentemente dalla sua confutabilità. La vecchia stampa è legata a regole di tipo economico, umano, politico e normativo, mentre sul web si può aprire un sito con pochi euro e fare ciò che si vuole.

Bruno Russo

DISERTARE LE ELEZIONI Il voto del cittadino concorre all’elezione del Parlamento, che esercita la funzione legislativa. Tuttavia, le leggi possono essere cassate dalla Corte costituzionale. Questa è un super Parlamento strapagato e espressione del Palazzo, non rappresentativa della volontà popolare. Si tratta d’una oligarchia di nomina politica: è onnipotente, insindacabile e di parte. Emette giudizi soggettivi e opinabili: anche i giudici costituzionali sono essere umani fallibili, il cui raziocinio non è disgiunto dalla passione e dall’equazione personale. La bocciatura del lodo Alfano può nuocere all’efficienza e alla funzionalità del governo e, indirettamente, al Paese. Il voto popolare conta poco più di nulla: il cittadino è declassato a

suddito e può essere tentato di disertare le elezioni.

Gianfranco Nìbale

LECCE. INPS, INPDAP E LE PROMESSE NON MANTENUTE Molti cittadini lamentavano sin dall’inizio dell’anno i disagi che erano costretti a subire ogniqualvolta si recavano presso le sedi provinciali degli enti previdenziali per il disbrigo delle loro pratiche. In particolare i cittadini protestavano per l’impossibilità di usufruire delle sale di attesa prima dell’orario di apertura degli sportelli. I dirigenti degli istituti previdenziali, negando lincuranza verso l’utenza e, di fatto, ritenendo non veritiere le segnalazioni dell’Aduc, avevano comunque preso l’impegno di risolvere il problema. Le promesse, a

Che tempo farà? «Ho sentito una goccia, anche voi?». Scruta il cielo pensierosa questa famigliola di lemuri dalla coda ad anelli (Lemur catta) ospite di uno zoo di Olmen, in Belgio. Un po’ di pioggia in effetti non guasterebbe per far crescere in abbondanza frutti e foglie del Tamarindo, tra le piante preferite di questi animali

quanto ci risulta dalle nuove segnalazioni giunte al nostro sportello, non sono state rispettate. A quasi un anno di distanza non è dato sapere quale siano gli intendimenti delle direzioni provinciali in merito alla questione. Qual è il concetto di medio-lungo periodo per gli enti previdenziali? Nei giorni di pioggia o freddo, se qualche impiegato di buon cuore

non permette l’accesso alla sala d’attesa, le persone sono costrette a subire le intemperie aspettando in piedi e allo scoperto l’apertura degli uffici. Per i disabili e per le persone anziane, quindi, il maltempo rappresenta un’ulteriore sofferenza. È possibile che al disagio dell’utenza si debba rispondere sempre e solo con l’iniziativa singola di qualche addet-

to agli uffici e non con delle politiche di risoluzione definitiva dei problemi? Inps e Inpdap, a Lecce, rappresentano un’anomalia difficilmente comprensibile: ospedali, uffici comunali, provinciali e regionali permettono d’attendere l’apertura degli sportelli all’interno degli edifici. E forse chiedere troppo agli istituti previdenziali?

Lettera firmata


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog

dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Mi darebbe molta allegria vederti quando passo

CENTRI PER L’EDUCAZIONE ALLO SPORT

Mio Bebè cattivello (e molto), ho ricevuto le tue letterine. Ieri non ho avuto possibilità di scriverti; lo faccio oggi, alle sette e mezza del mattino. Mi sono appena alzato, e approfitto della calma in casa. Dunque il mio Bebè è stato triste? Anche il suo Nininho lo è stato. E poi al Nininho non è piaciuto, ieri, di dar spettacolo al suo passaggio sotto la tua finestra. Ho solo avuto modo di accorgermi che codeste persone stavano seguendo i miei movimenti; perciò, nonostante oggi pensi di passare come al solito alla stessa ora, è probabile che passi sul marciapiede dall’altra parte della strada. Non so se riuscirò a farti avere questa lettera prima che io passi. No, non mi sono dimenticato della fotografia. Il fatto è che ho sempre avuto una certa riluttanza a farmi delle fotografie. Ad ogni modo lo farò. Mi chiedi se la Rua Saraiva de Carvalho è lontana da qui. No, è vicinissima, è qui accanto. Naturalmente dipende dalla parte che ti interessa. È una via lunghissima; un pezzo è qui all’angolo, ma comincia nel Largo do Rato e finisce nel Cimitero dei Prazeres. Vedrò di passare oggi. E dunque ti prego di non trascurare quel che devi fare per stare alla finestra. Mi darebbe molta allegria vederti quando passo. Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz

ACCADDE OGGI

BENEFIT E PREMI PER IL MERITO A parità di qualifica, i dipendenti delle imprese italiane presenti con proprie sedi all’estero vengono pagati di più. La retribuzione media di un dirigente che lavora in Italia è di circa 86mila euro lordi annui, mentre il dirigente di un’impresa italiana all’estero ne guadagna poco meno di 140mila. È quanto emerge da un’indagine su un panel di imprese realizzata dal Censis per EriGradus, con l’ausilio della rete estera degli uffici dell’Ice, in merito alle politiche salariali e i processi di internazionalizzazione. Differenze significative si riscontrano anche per le altre qualifiche, ma con una forbice meno ampia: i quadri delle imprese non internazionalizzate guadagnano 50.100 euro lordi annui, contro i 61.400 dei direttivi che lavorano all’estero; la retribuzione media degli impiegati in Italia risulta pari a 27.200 euro, contro i 35.100 di quelli che lavorano all’estero; il salario degli operai in Italia è di circa 22.000 euro, ma all’estero sale a 29.300 euro; solo per gli addetti alle vendite la paga si aggira in entrambi i casi intorno ai 30.000 euro. L’indagine ha anche messo in luce la correlazione fra il livello di internazionalizzazione delle imprese e la sicurezza occupazionale: le aziende che hanno sedi all’estero sono quelle che adottano di meno i contratti di lavoro atipici (il 3,4% contro il 7,5% delle imprese non internazionalizzate), privilegiando più delle altre i contratti standard (il 96,6% contro il 92,5%). Rispetto ai benefit, nelle imprese che hanno sedi all’estero si registra una

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

14 ottobre 1960 John F. Kennedy suggerisce per la prima volta l’idea dei Corpi della pace 1962 Inizia la crisi dei missili di Cuba: un aereo-spia vola sopra Cuba, prendendo foto di installazioni sovietiche per missili nucleari 1964 Martin Luther King, diventa il più giovane vincitore del Premio Nobel per la pace 1966 La città di Montreal inaugura il suo sistema di metropolitana 1968 Guerra del Vietnam: il dipartimento della Difesa statunitense annuncia che l’esercito e i marines rispediranno circa 24.000 soldati in Vietnam per un secondo servizio non volontario 1979 La prima marcia per i diritti gay negli Stati Uniti si svolge a Washington 1980 - Per le vie di Torino si compie la Marcia dei quarantamila. Si tratta di quadri, impiegati della Fiat, ma anche di operai e comuni cittadini che manifestano per il ritorno alla normalità della città, scossa dalle proteste per la messa in Cassa integrazione guadagni di ben 24.669 operai

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

maggiore tutela delle condizioni di salute dei propri dipendenti, che in misura maggiore possono contare su una copertura assicurativa sanitaria (il 60% contro il 50,2% nelle imprese non internazionalizzate). Anche il clima aziendale ne risente. Il livello di collaborazione tra dipendenti e manager viene definito «molto elevato» dall’11,2% dei responsabili delle imprese che realizzano il fatturato all’estero, mentre nelle altre aziende non si supera quota 5%. La forte attenzione per le risorse umane risulta anche dal maggiore impegno delle imprese internazionalizzate nella valorizzazione delle competenze manageriali e nella promozione dei percorsi di carriera interna. Le imprese internazionalizzate che considerano la retribuzione una forma di valorizzazione del merito sono infatti più numerose (il 25,2%) di quelle che non hanno sedi all’estero (il 23,1%).

La legge regionale 1 dicembre 2004, n. 26, ordinando la materia ha dettato norme sullo sport, riconoscendone la valenza educativa, formativa e culturale e individuando in tale settore una importante componente della vita sociale e culturale dei cittadini della Basilicata. La normativa, tuttavia, non contiene disposizioni specifiche sull’educazione allo sport, inteso quale contributo all’inserimento, alla partecipazione alla vita relazionale, alla tolleranza, all’accettazione delle differenze e al rispetto delle regole. Tale funzione non può, infatti, ritenersi assorbita dalla semplice promozione della pratica sportiva e da quella più generale di orientamento allo sport. La specificità, dunque, dei costituendi centri per l’educazione allo sport risulta ben diversa da quella anche del centro regionale di promozione ed orientamento allo sport di cui all’art. 20 della legge regionale 1 dicembre 2004, n. 26. Tale specificità ha come oggetto la funzione educativa dello sport e il suo ruolo di promozione dell’identità e di intermediazione fra gli uomini. La pratica sportiva si basa, dunque, su valori sociali, pedagogici e culturali essenziali che forniscono un contributo decisivo all’educazione e formazione delle giovani generazioni, nonché per la partecipazione alla vita democratica del proprio Paese. In questa accezione, cioè, la sport non rappresenta solo una forma di gioco, ma una risorsa fondamentale per lo sviluppo e la crescita del singolo e, di conseguenza, della intera società in cui egli vive. Di qui la necessità di modificare la normativa regionale vigente valorizzando tale funzione e promuovendo, all’interno della programmazione triennale ed annuale regionale, la costituzione di centri per l’educazione allo sport, formati su iniziativa di soggetti pubblici o privati, la cui attività viene specificatamente finanziata.

Gaetano Fierro, Agatino Mancusi e Vincenzo Ruggiero C I R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

Giovanni Benigni, responsabile della joint venture Eri-Gradus

IL DISCORSO DELLA MARCEGAGLIA La destra di governo ha iniziato un dialogo diverso sulle riforme, mettendole in lizza alla classifica degli interventi per trasformare in meglio la nostra nazione. Da tale punto di vista, la presidentessa di Confindustria Marcegaglia fa bene a richiamare tale necessità, ma poteva anche, nella sua difesa delle istituzioni sottolineare le mancanze dell’opposizione che deve collaborare per il rinnovamento dello Stato.

APPUNTAMENTI OTTOBRE 2009 VENERDÌ 16, ORE 15, TORINO PALAZZO DI CITTÀ - SALA DELLE COLONNE “Verso la Costituente di Centro per l’Italia di domani”. Intervengono: Ferdinando Adornato, coordinamento nazionale Unione di Centro, e Gianni Maria Ferraris, consigliere comunale e coordinatore regionale Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Gennaro Napoli

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

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Emilio Spedicato, Davide Urso,

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Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,

Marco Vallora, Sergio Valzania

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Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,

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Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Revisionismo. Per rispetto ai nativi, sempre più scuole non festeggiano il giorno dedicato al genovese

Usa, Colombo condannato di Massimo Fazzi a figura di Cristoforo Colombo è in pieno declino, almeno in quegli Stati Uniti che fino ad oggi lo acclamavano come loro scopritore. Almeno nelle classi di licei e college statunitensi, dove negli anni il suo operato è stato criticato sempre di più. Al punto che, lo scorso lunedì, molti distretti non hanno festeggiato la ricorrenza nazionale che porta il suo nome. Anche se le lezioni sulla “questione Colombo”variano fra di loro, molti insegnanti hanno iniziato a proporre una prospettiva diversa di quanto è successo quando il navigatore raggiunse i Caraibi. Particolare attenzione viene oggi posta sulle sofferenze subite dalle popolazioni indigene che vennero a contatto con la truppa dell’italiano. Secondo James Kracht, docente per gli Affari accademici del College per l’Educazione e lo Sviluppo umano del Texas, «l’intera terminologia è cambiata. Non si sente più dire, ad esempio, che Colombo ha scoperto l’America. E come si potrebbe usare un termine del genere, dato che altre persone già vivevano in quei territori?». Sempre nello Stato della Stella solitaria, gli studenti del quinto anno di liceo studiano gli “scambi di Colombo”: dopo accurati studi storici, infatti, si è ritenuto più accurato porre l’accento sul fatto che i conquistadores non portavano con loro soltanto merci, ma anche malattie sconosciute agli indigeni. Che ne vennero decimati. In una scuola elementare di McDonald, Pennsylvania, gli studenti hanno messo Colombo sotto processo: le accuse variavano dalla “cattiva rappresentazione della Corona spagnola” a un più prosaico “furto”. Dopo un procedimento lungo un anno, il viaggiatore è stato ritenuto colpevole di tutte le accuse e condannato all’ergastolo. Secondo gli stessi bambini, «è stato un cattivo ragazzo».

L

Ovviamente, le prospettive cambiano a seconda delle classi e del luogo di origine degli studenti. Donna Sabis-Burns, che lavora presso il Programma nazionale per l’educazione, ha compiuto uno studio sui materiali didattici che riguardano la figura di Colombo. Nel corso della sua ricerca ha scovato libri e dispense che contengono «versioni inaccurate o pesantemente sbagliate della storia». In particolare, vengono trattati in maniera ingiusta i nativi della popolazione Taino. La stessa festa nazionale, il “Columbus Day”, non è più festeggiata da tutti. Le scuole di Miami, Dallas, Los Angeles e Seattle sono rimaste aperte, mentre quelle di New York, Chicago e Washington erano chiuse. Il giorno è poi particolarmente contestato in quelle zone dove vivono buone porzioni di nativi americani. Paul Prussing, vice direttore della Divisione per l’insegnamento in Alaska, spiega: «Qui esistono molti nativi che non considerano Colombo il fondatore di nulla. Io stesso la penso in questo modo». Secondo Kracht, i festeggiamenti per il cinquecentesimo anniversario della scoperta dell’America sono diventati - soprattutto a causa del multiculturalismo - uno stimolo a studiare anche le crudeltà compiute dagli spagnoli. In particolare, come detto, il massacro della popolazione Taino. Eppure, molte discussioni hanno ottenuto l’effetto opposto. Secondo Patrick Korten, vice presidente del settore comunicazione dei Cavalieri di Colombo, ricorda una visita a una scuola del New Jersey impegnata in una lezio-

ALL’ERGASTOLO

ravelle, con cui - su un atlante hanno ripercorso il viaggio del genovese. I piccoli iscritti dell’asilo considerato il significato dell’esploratore, che tuttavia non è più rappresentato - secondo l’iconografia classica - come un nobile eroe di fiero aspetto. Il direttore dell’istituto, il dottor Kolowith, dice: «Ho spiegato la situazione ai bambini, che hanno capito che Colombo non sapeva bene dove fosse arrivato. Alcuni lo hanno definito “un po’ prepotente”».

In un istituto elementare dello Stato della Pennsylvania, i bambini hanno messo sotto accusa l’inviato della Corona spagnola. E, dopo regolare processo, lo hanno giudicato colpevole di furto e truffa ai danni degli indiani ne “revisionista” sull’italiano. Alcuni studenti erano stati chiusi in una caffetteria dagli insegnanti, in piedi e costretti a guardare mentre altri compagni mangiavano; inoltre, venivano vessati da altri studenti più grandi. Apparentemente, in questo modo si volevano trasmettere le sofferenze subite dai nativi sotto Colombo. Korten spiega: «La mia impressione è che in alcune scuole, deliberatamente, si racconta una versione non bilanciata. Si spinge sul lato negativo, che però non è accurato». Il dirigente, comunque, non è allarmato in quanto ritiene che «si tratta di casi isolati e troppo radicali per essere presi sul serio».

In effetti, l’amore per il navigatore rimane alto in alcune parti del Paese. In un asilo di Tampa, Florida, lunedì è stato recitato un poema sullo “scopritore dell’America”; i bambini sono stati invitati a rifare in carta le tre ca-

Certo, rimangono le esagerazioni anche nell’altro senso: Jack Keller, vice preside di una scuola elementare, si è presentato agli alunni vestito in abiti coloniali. Ha dichiarato di essere Cristoforo Colombo e ha parlato dei suoi viaggi, senza però menzionare gli abitanti degli Stati Uniti che ha incontrato. Dopo un incontro di un’ora, gli studenti lo hanno accusato di essere un bugiardo e se ne sono andati, nonostante il tono goliardico dell’operazione. Felipe Fernandez-Armesto, professore universitario e autore di diversi libri sull’argomento, taglia corto: «Ogni eroe è in un certo senso un farabutto. Perché eroismo e villania sono facce della stessa medaglia, anche nel caso del genovese Cristoforo Colombo».


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