ISSN 1827-8817 91017
Tutte le ambizioni
di e h c a n cro
sono giustificate eccetto quelle che si arrampicano sulle miserie e sulla credulità umana
9 771827 881004
Joseph Conrad di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 17 OTTOBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Un altro “editto” apre una nuova tappa della crisi istituzionale: l’asse Quirinale-Montecitorio cerca di far ragionare il Cavaliere
Sofia fa male al premier Berlusconi annuncia: «Riforme e referendum, ci vuole una rivoluzione». Ma Fini lo frena: «Le Istituzioni sono di tutti». E il Veneto si ribella alla decisione di dare la Regione alla Lega GIANCARLO GALAN, PDL
di Francesco Capozza
«Sono pronto a correre lo stesso»
ROMA. Ci risiamo. Silvio Berlusconi procla-
«Noi siamo pronti e mettere in campo una lista locale che sostenga la candidatura di Giancarlo Galan alla presidenza della Regione Veneto»: è la reazione ufficiale dell’Udc, per bocca del suo leader veneto Antonio De Poli. «La gente è dalla nostra parte».
ma e Gianfranco Fini frena: sembra quasi un gioco delle parti, ma l’oggetto non consente scherzi. Si parla di grandi riforme, di modifiche costituzionali e di rinnovo della magistratura. A Sofia (luogo che evidentemente ispira il premier: qui lanciò l’editto contro Biagi, Santoro e Luttazzi, nel 2002), Berlusconi ha spiegato ai cronisti che «la rivoluzione si farà perché una democrazia vera non può essere soggetta al potere di un ordine che non ha legittimazione elettorale» (la Magistratura). Berlusconi è fissato con l’articolo uno della Costituzione, quello che dice che «la sovranità appartiene al popolo» e promette di far ricorso al popolo per la «sua» riforma: insomma, l’idea è di puntare dritti su un referendum. Peccato che il grande alleato Fini abbia un’altra idea. «Quando si fanno le riforme, bisogna ricordare che le Istituzioni sono di tutti». Il referendum? Già fatto: la riforma a maggioranza il «popolo l’ha già bocciata».
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di Valentina Sisti È duro, il governatore veneto Galan: «Se non ci sarà una risposta più che motivata e convincente, sia in termini politici che programmatici sulla necessità di modificare la guida della Regione del Veneto, la mia decisione è quella di presentarmi comunque alle prossime regionali». a pagina 4
ANTONIO DE POLI, UDC
«Se è così, noi staremo con lui» di Errico Novi
AFGHANISTAN Il quotidiano inglese attacca ancora: «Ecco come gli italiani hanno pagato i talebani». Frattini: «Tutto falso». E la Francia fa marcia indietro: «Roma ci ha convinto»
Il Times: «Abbiamo le prove» alle pagine 14 e 15
Il racconto dello studioso che per primo ha raccolto la voce e l’ha messa in rete
L’Italia rovesciata dai dati ufficiali
Ora il Sud cresce più del Nord. «Ecco perché a Teheran hanno preso sul serio la mia notizia» Lo sa anche l’Istat
Il grande mistero di Khamenei
di Gianfranco Polillo
di Michael Ledeen
Ipotesi e scenari sulla successione della Guida Suprema
La notizia che ho dato a liberal e sul mio blog, sul presunto malore dell’Ayatollah Khamenei, ha avuto una eco - a livello mondiale - assolutamente impressionante. Quello che ho fatto è aver pubblicato una mail arrivatemi da un iraniano/a che considero un’eccellente fonte, che mi avvisava di un malore, degenerato poi in coma, che avrebbe colpito l’ayatollah Khamenei.
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Se davvero fosse morto... di Gennaro Malgieri Comunque sia, un’èra si chiude. Quella che si apre non è meno gravida di incertezze e di inquietudini. L’uscita di scena di Alì Khamenei, la Guida Suprema dell’Iran, se ridà fiducia agli oppositori del regime, paradossalmente, li getta pure nello sconforto. A rigor di logica gli assetti di potere
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dovrebbero cambiare in senso moderato, ma non è detto che non riprendano ad agitarsi gli spettri della radicalizzazione della lotta politica all’interno della nomenklatura sciita e negli apparati dello Stato. Al punto di favorire un irrigidimento da parte dei “falchi”.
he succede all’Istat? Pubblicano dati inverosimili, ma soprattutto diffondono un’immagine del Mezzogiorno che non corrisponde alla realtà certificata dalle loro stesse rilevazioni. Salvo poi correggersi. Sono mesi che, nel nostro piccolo, cerchiamo di dimostrare che il Mezzogiorno non è solo mafia, camorra, ‘ndrangheta e assistenzialismo. L’immagine tanto cara a qualche esponente della Lega Nord che sogna di tagliare in due il Paese. E ora, finalmente, la forza del Sud è stata certificata anche dall’Istat.
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
206 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
C
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Proclami/1. Da Sofia il Cavaliere si scaglia contro i giudici: «È un potere che non ha legittimazione popolare»
Il secondo editto bulgaro Berlusconi minaccia: «Sulle riforme deciderà il popolo». Fini risponde: «No, deciderà il Parlamento». E oggi intanto incontra D’Alema di Francesco Capozza
ROMA. Vuol prendere «il toro per le corna». Ovvero mettere mano alla Giustizia, anche a costo di modificare la Costituzione. Certo «non è una cosa facile - ammette Silvio Berlusconi da Sofia - ma non è che le rivoluzioni si possono fare in breve tempo». Ma per il Cavaliere, è il momento di spingere sull’acceleratore del suo chiodo fisso: dare nuove regole alla magistratura che, a suo dire, lo perseguita da anni. «Contro di me ci sono accuse portate avanti soltanto come pretesto come le altre cause che mi hanno fatto perché vogliono recare fastidio al nemico che considerano il principale ostacolo affinché la sinistra possa avere la maggioranza del Paese». Ma all’accelerazione del Cavaliere fa da contraltare la frenata di Fini. «Quando si fanno le riforme bisogna ricordare che le Istituzioni sono di tutti e non dimenticare che una riforma a maggioranza è già stata fatta e poi è stato attivato il referendum che l’ha bocciata» ha ricordato proprio ieri il presidente della Camera. D’altronde, ha aggiunto, temi su cui cercare le convergenze esistono, ecco-
A sinistra il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi; in basso il presidente della Camera, Gianfranco Fini; nella pagina seguente da sinistra Niccolò Ghedini, Giulia Bongiorno, Angelino Alfano e Gaetano Pecorella
me: «La fine del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari, il Senato delle Regioni su cui c’è la possibilità di fare riforme condivise. Se c’è la volontà, lo si fa». Il Cavaliere, però sembra orientato ad andare avanti comunque. Berlusconi aveva provato a ripararsi dietro il lodo Alfano ma dopo la bocciatura della Consulta, quello scudo non c’è più. «La decisione della Corte costituzionale non è condivisibile. Praticamente la Corte ha detto ai pm rossi di Milano: riaprite la caccia all’uomo nei confronti del premier». E allora, appunto, è il momento di «prendere il toro per le corna». Come? «Chiameremo il popolo». Insomma, anche da soli. La vera
icona del premier, ormai, è il popolo e solo con esso ha intenzione di confrontarsi: referendum. Già, referedum: non per niente ieri Fini gli ha ricordato che a forza di fare riforme a colpi di maggioranza, «un referendum già c’è stato e già è stato perso»... a buon intenditor. La verità è che il copione sembra quello di sempre: di qua Berlusconi a promettere sfraceli, di là Fini a frenare.
E l’opposizione? «Larghe intese solo se possibili ma ho poche speranze che ci possa essere un dialogo visto anche il modo in cui si esprimono» dice il premier. Che attacca: «Serve una riforma che faccia del nostro Paese una democrazia vera non soggetta al potere di un ordine che non ha legittimazione elettorale» (leggi la magistratura). Una riforma che, in caso di assoluzione, «non porti» un cittadino ancora una volta nelle aule giudiziarie. «Certo, i pm fanno il loro mestiere. Normalmente succede che quando non vedono accolta dai giudici la loro tesi accusatoria ricorrono in appello e se quell’appello respinge la loro tesi ricorrono in Cassazione. Per loro è il mestiere, per un cittadino è la distruzione della propria vita per se e per la propria famiglia». Quelle a cui pensa il Cavaliere sono modifiche che hanno bisogno, per essere approvate, di due passaggi in Parlamento e una maggioranza assoluta o di due terzi dei componenti, nella se-
conda votazione. Se i due terzi non sono raggiunti, c’è la possibilità di sottoporre a referendum del progetto. Ed è proprio questo l’iter che Berlusconi immagina. Visto che pare difficile ipotizzare un qualche tipo di accordo con l’opposizione. Un botta e risposta a distanza, l’ennesimo, tra Berlusconi e Fini che fa sorridere in molti, forse
Oggi ad Asolo il presidente della Camera e il leader Pd parleranno di immigrazione. «Ma smettetela di chiamarlo inciucio» anche lo stesso presidente della Camera in partenza questa mattina per Asolo, per concludere assieme a Massimo D’Alema la due giorni di confronto sull’Immigrazione Farefuturo e Italianieuropei.
«C’è stato un grande lavoro di ricerca delle fondazioni a precedere il convegno di Asolo con Gianfranco Fini» organizzato da Italianieuropei e Farefuturo e dedicato al tema dell’immigrazione e che si concluderà oggi pomeriggio, con gli interventi dei due presidenti. «Abbiamo presentato – spiega Massimo D’Alema a liberal – gli studi svolti sul tema dalle due fondazioni. Un bellissimo
lavoro di ricerca che è stato messo a confronto davanti a 100 giovani di diverse appartenenze che per due giorni hanno parlato, si sono confrontati. Credo sia una cosa molto bella che ragazzi di destra e di sinistra parlino insieme di grandi problemi del Paese». «Certo – aggiunge D’Alema – tutti i giornali si appassioneranno a Fini e D’Alema che organizzano un convegno insieme, dopo che D’Alema ha bevuto un bicchier d’acqua con Berlusconi e subito si parlerà di inciucio», invece «si tratta di un’iniziativa molto bella e utile. Lo scorso anno ci occupammo del federalismo e il nostro lavoro di ricerca ha influenzato i lavori parlamentari sul federalismo fiscale». Qualcuno lo scambierà certamente per inciucio, ha ragione l’ex ministro degli Esteri del governo Prodi, ma anche se il suo vero nome è semplicemente “dialogo”, non possono essere lasciate cadere nel vuoto le parole che il premier Silvio Berlusconi ha sibilato proprio nelle orecchie di D’Alema mercoledì scorso, quando i due leader si sono incontrati a Villa Madama ed hanno scambiato, sotto l’occhio vigile di un soddisfatto Gianni Letta, alcune battute lontani da sguardi indiscreti. «Ce ne vorrebbero di più di momenti di dialogo come questi» aveva detto Silvio a Massimo. « Io sono sempre disponibile» la risposta gongolante di Massimo a Silvio.
Non deve poi passare inosservato l’incontro che il premier ha avuto giovedì con il presidente della Camera, un pranzo cordiale in cui è impossibile pensare non si sia parlato di riforme e dialogo con l’opposizione, specialmente quella che uscirà dalle urne delle primarie democratiche in programma per il prossimo 25 ottobre. Dialogo, quindi, quello che si sta svolgendo in queste ore ad Asolo. Su problemi veri, sulle possibili soluzioni. Due giorni di dibattito alla ricerca delle cose che uniscono maggioranza e opposizione del Paese. Perché, in un periodo come questo in cui sembra davvero che la politica si debba per forza mettere l’elmetto, il fatto che le fondazioni presiedute da Gianfranco Fini e Massimo D’Alema abbiamo deciso di incontrarsi su
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«Il nostro ”processo” rivoluzionario»
Gaetano Pecorella: «In questi anni la Magistratura ha governato il Paese. Ora basta» di Franco Insardà
ROMA. La Bulgaria indubbiamente rende Silvio Berlusconi battagliero e effervescente. L’editto bulgaro contro Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luzzati è ormai entrato nella storia, ma anche ieri il Cavaliere non ha resistito e non ha deluso le aspettative. Questa volta il suo obiettivo è stata la giustizia, l’argomento che lo assilla di più in questo momento e che vede impegnato in prima fila l’avvocato Gaetano Pecorella, suo legale e presidente della commissione Ecomafie. Presidente, Berlusconi da Sofia ha detto che vale la pena di rivisitare la Costituzione. Non posso che condividere queste affermazioni. È assolutamente necessario partire proprio dalla Costituzione. Perché da un lato prevede il modello di processo accusatorio che necessita la separazione delle carriere, l’intervento sul Csm e tutta una serie di conseguenze, mentre le altre norme costituzionali sono ancora ispirate dal vecchio modello di processo inquisitorio. Ci sono stati dei tentativi per adeguare il processo penale al modello accusatorio? Sì, ma la Corte costituzionale, evidentemente in parte legata a vecchi schemi culturali, ha dichiarato incostituzionali quelle norme. Mi riferisco in particolare alla norma sull’inappellabilità dei processi di assoluzione, tipica di ogni processo accusatorio che la Consulta ha ritenuto incompatibile con la nostra Costituzione. Mi auguro che anche l’opposizione si renda conto che c’è la necessità di modificare molte disposizioni della nostra Carta. A questo proposito il premier più che all’opposizione ha fatto riferimento all’intervento del popolo. C’è un clima per le larghe intese?
un tema così delicato come le possibili politiche per l’immigrazione non può non essere considerata una notizia. Intanto, in questa che è la seconda edizione di Asolo, c’è qualcosa di diverso non solo a causa del clima, ma anche per l’argomen-
Il clima è reso difficile dalla situazione in cui si trova l’opposizione, perché a oggi non sappiamo con chi bisogna confrontarsi. Mi auguro che, deciso il nome del segretario, si delinei un’opposizione consapevole che il Paese va cambiato in modo radicale soprattutto per quel che riguarda la giustizia. Ieri Berlusconi ha preannunciato un incontro notturno con i suoi avvocati per preparare la difesa di due processi contro il “nemico Berlusconi”. Credo che la polemica sia rivolta a quella parte della magistratura che lo ha fatto oggetto, dal 1994 a oggi, di una serie di iniziative giudiziarie che per la maggior parte sono risultate prive di consistenza o, quando si sono chiuse con la prescrizione, riguardavano fatti tirati fuori dopo la sua discesa in politica. Quindi nessuna apertura? C’è l’invito a collaborare con l’opposizione e a quella parte della magistratura che non vede il premier come un nemico. Nella bozza di riforma del Pdl, oltre alla riforma del Csm, si prevede anche una revisione del sistema di composizione della Consulta? Già Palmiro Togliatti, durante i lavori dell’Assemblea costituente, aveva fatto rilevare la singolarità di una Consulta, la cui composizione non trova legittimazione nel voto popolare. Quindi? Occorre una Corte che direttamente o indirettamente sia riconducibile alla sovranità popolare, cosa che non av-
to che gli organizzatori hanno scelto di affrontare, l’immigrazione, in una terra in cui la propaganda leghista è sempre più capillare. Le due fondazioni si sono presentate all’appuntamento con due documenti distinti ma non distanti. Ne han-
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viene per i giudici togati. Quando si parla di separazione delle carriere c’è chi minaccia di metterli sotto governo. La Lega guarda all’elezione diretta. Nel programma del Pdl, ma anche prima in quelli di Forza Italia e An, nessuno ha mai rappresentato l’eventualità di un controllo governativo L’elezione del Pm, invece, andrebbe inserita in una riforma costituzionale molto più complessa che preveda uno stato federalista con una magistratura più collegata col territorio. Questo schema è previsto in una mia proposta di legge di riforma costituzionale. Il Carroccio si è detto contrario all’immunità. Così come nella separazione dei poteri la magistratura non deve avere alcuna interferenza dal potere politico, allo stesso modo i magistrati non dovrebbero determinare cambiamenti politici. Il sistema dell’immunità che esiste al Parlamento europeo e in molti Paesi ha questa funzione, delegando al Parlamento decisioni che riguardano i membri. In Italia così non è stato. Con un’informazione di garanzia sono caduti sia Berlusconi sia Prodi. Pensa sia giusto prevedere l’accorciamento della prescrizione? Sono favorevole a prescrizioni abbastanza brevi per evitare che si proceda contro chi ha commesso un reato quindici venti anni prima. Ovviamente va prevista l’accelerazione dei processi. Lei ha dichiarato che finito l’incubo del lodo Alfano, non si vole-
Per un’informazione di garanzia sono caduti due esecutivi: prima quello di Berlusconi e poi quello di Prodi
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no discusso, si sono confrontate e questo pomeriggio consegneranno il lavoro svolto ai presidenti Fini e D’Alema che cercheranno di tirare le fila di un discorso il più possibile condiviso. «Il documento sull’immigrazione di Farefuturo parte da
va dare l’impressione di intervenire a favore del premier. Non si è passati dalle leggi ad personam a riforme ad personam? Stiamo parlando di riforme costituzionali, non vedo quali possano essere quelle ad personam. Nega un attacco alla magistratura, mentre il presidente Napolitano dichiara che occorre sostenerne l’azione. Credo che nessuno abbia intenzione di attaccare la magistratura e di impedirle di fare il proprio il lavoro. La questione va posto in altri termini. Quali? La magistratura in questi anni ha praticamente governato il Paese con iniziative spesso fallite, come il processo Andreotti tanto per fare un esempio. Si tratta di stabilire se l’attuale assetto della magistratura sia compatibile con un processo democratico nel quale dovrebbe rimanere fuori dallo scontro politico. Scambiare la riforma della giustizia per un attacco alla magistratura è sbagliato. Non si è capito che il Parlamento deve fare le leggi utili. Non credo che si riferisse a questo il presidente Napolitano. Pensa che Berlusconi corra dei rischi per i processi in corso. Penso di no, poi saranno i giudici a decidere. Potrebbe rischiare l’interdizione dai pubblici uffici? Se si fa riferimento al processo Mills, nella peggiore delle ipotesi non si arriverà mai a una sentenza definitiva, perché è un processo destinato a prescriversi. Per gli altri, che riguardano allo stesso modo fatti molto lontani, l’ipotesi di reato è il falso in bilancio che non prevede questo tipo di condanna.
una semplice osservazione dei fenomeni globali – spiega il direttore della fondazione Alessandro Campi – l’entità di questi ultimi e la natura strutturale del fenomeno migratorio nelle società globalizzate». La proposta dell’altra parte, come ha
spiegato Marcella Lucidi del Pd «bisogna agevolare il più possibile l’integrazione per non far scatenare i conflitti». Due modi di ragionare che, per una volta, stanno cercando una sintesi operativa, senza sconti ma anche senza scontri.
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Proclami/2. Caos per la decisione di dare la regione in feudo ai lumbard, il Pdl ora rischia di subire uno storico sorpasso
La rivolta del Veneto
Galan contro il patto Berlusconi-Bossi: «Potrei candidarmi lo stesso» E le proteste nel centrodestra mettono in dubbio anche il Senatùr di Valentina Sisti
ROMA. La Lega la spunta ancora. Non si poteva pensare, d’altronde, che Umberto Bossi si fosse improvvisamente appassionato alla battaglia del Cavaliere contro i giudici. Ed ecco disvelarsi, a pochi giorni dalla minaccia del Senatùr di andare in piazza per il lodo Alfano (quando la sentenza della Consulta non era ancora nemmeno ufficiale) lo scenario già anticipato da questo giornale: presto la Lega avrebbe presentato a Berlusconi il conto di questa solidarietà per suoi i guai giudiziari. Intanto uno scaltro Bossi si era portato avanti incontrando Gianfranco Fini, promettendogli il suo ok per Renata Polverini nel Lazio, ma acquisendo il suo nulla osta, col quale incastrare Berlusconi nella cena dell’altra sera a palazzo Grazioli: «Non ti preoccupare di Gianfranco, mi ha già detto che è d’accordo». Così il Pdl rischia di certificare il sorpasso della Lega in Veneto, che già risulta dai sondaggi, dopo che alle Europee di giugno l’aveva spuntata di un pelo.
prossima settimana», frena però Brancher. Ma forse non è un caso che, dopo che si era parlato insistentemente del ministro Luca Zaia, ora cresca l’ipotesi di Federico Bricolo, capogruppo al Senato, guarda caso veronese come Brancher.
Resta ancora in pista il ministro dell’Agricoltura, che ha dalla sua un forte radicamento elettorale nel mondo agricolo e della piccola impresa, potenzialmente decisivo per vincere la contesa, mentre appare tramontata del tutto la candidatura del sindaco della città scaligera Flavio Tosi, anche perché il furbissimo Senatùr sa che se in questo momento la Lega molla una poltrona importante (di sindaco di Verona, o di ministro) dovrà fatalmente aprire su di essa una nuova trattativa, dal difficile esito, con il Pdl. Ma c’è un però. Giancarlo Galan (che oggi
Gran mediatore tra il Cavaliere e il Senatùr è Aldo Brancher. Il governatore uscente fa la conta di quanti, nel suo partito, sarebbero disposti a seguirlo Stando a un sondaggio di Affaritaliani.it la Lega nella regione sarebbe salita a settembre al 34,5 per cento, nettamente il primo partito: più 6,1 per cento rispetto a giugno e più 1,5 su fine agosto.
Niente di ufficiale, ma anche il prudentissimo Aldo Brancher ora dice: «Mi sembra che tutto stia procedendo in questa direzione», che detto da un uomo chiave negli accordi tra Pdl e Lega vuol dire tanto. Brancher era rimasto l’unico, in Veneto, a puntare sull’intesa, quando persino Niccolò Ghedini e i ministri Sacconi e Brunetta spingevano per Galan. Si ripete lo scenario di due anni fa, quando il parlamentare berlusconiano amico di Bossi riuscì, nella sua villa, a trovare la quadra, candidando Flavio Tosi a sindaco, facendo cadere l’indicazione di Alfredo Meocci, sponsorizzata da Udc e Forza Italia. «Per chiudere l’accordo bisogna aspettare l’incontro di Berlusconi e Bossi anche con Fini che dovrebbe tenersi la
dovrebbe incontrare Fini a un convegno di Farefuturo e Italianieuropei ad Asolo) è un osso duro. Il governatore veneto fa sapere che «se non ci sarà una risposta, più che motivata e convincente» dal Pdl, la sua decisione è «presentarmi quale candidato presidente alle prossime elezioni regionali». Una dichiarazione che si presta a due diverse letture, come un “avviso” al suo quasi ex partito, o viceversa come un messaggio per ottenere una robusta buonuscita. Inutile dire che questa seconda tesi è accreditata soprattutto dalla Lega, mentre altri sono pronti a scommettere su Galan alla testa di una civica di centro, come d’altronde già ipotizza l’Udc, e danno il governatore alle prese con un lavorio febbrile per sapere chi ci sta. Più di tutti spinge appunto il partito di Pier Ferdinando Casini (se ne parla in dettaglio nel servizio d’aper-
In ballo ci sono Piemonte, Liguria, Lazio, e Puglia
Ma da qui discendono tutti i grandi accordi locali di Gabriella Mecucci a candidatura di un leghista in Veneto con tanto di schiaffo a Galan e all’Udc non solo riveste una particolare rilevanza locale: è in atto una rivolta di molti ambienti e la battaglia elettorale sarebbe al coltello. Ma sarebbe particolarmente importante anche per le scelte da fare in altre Regioni, dove il partito di Casini potrebbe essere decisivo per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Fini e Berlusconi lo hanno capito e proprio per questo – come si apprende da indiscrezioni – vorrebbero proporre un candidato centrista in Piemonte e in Veneto. Ma c’è chi dice che – soprattutto se la scelta in Veneto cadrà su Zaia – l’Unione di centro si orienterebbe a fare l’alleanza col centrosinistra in tre Regioni: il Lazio, il Piemonte e la Puglia. Per quanto riguarda il Lazio si andrebbe verso una riconferma di Marrazzo, mentre i centristi chiedono forti segni di discontinuità in Piemonte e in Puglia: la sostituzione, cioè, sia di Mercedes Bresso sia di Nichi Vendola e la scelta di nuovi candidati di orientamento moderato.
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La partita è molto delicata e – se il centrodestra fa passi sbagliati – potrebbe perdere importanti Regioni che si aggiudicherebbe se riuscisse a fare l’alleanza con l’Udc. Se in Veneto prevalesse la Lega, crescerebbe ulteriormente il peso dell’egemonia bossiana sull’intero schieramento di centrodestra, uno spostamento del baricentro politico verso il populismo leghista
che al centro sono decisi a contrastare con tutte le armi possibili. Alleandosi col centrosinistra in almeno due regioni del Nord e cioè il Piemonte – come già detto – e la Liguria dove la candidatura a presidente toccherebbe ad un Udc doc. Al Centro, ci sono le regioni rosse, dove in linea di massima l’Udc sarebbe orientata ad andare da sola. Ma non mancano le eccezioni. La prima è proprio il Lazio dove, se il centrodestra candidasse Luisa Todini, i centristi avrebbero difficoltà a schierarsi sull’altro versante; ma di fronte ad una candidatura di destra-destra come quella di Renata Polverini (di cui si vocifera con insistenza), i centristi hanno buone motivazioni per preferirle Marrazzo.
Grandi manovre anche in Umbria dove il Pdl locale da tempo sta mettendo alle corde l’Udc, con una “lotta a coltello”, come la definiscono alcuni dirigenti centristi umbri. Maria Rita Lorenzetti, che spera di essere il candidato del centrosinistra (per lei si tratterebbe del terzo mandato) ha già iniziato un’opera di corteggiamento per arrivare ad allearsi col partito di Casini, concedendo il “siluramento”di Rifondazione. Ma a Roma si guarda con diffidenza a questa ipotesi. La Lorenzetti cerca di far presto per presentarsi alle primarie avendo nelle sue mani l’alleanza, ma a livello nazionale è proprio la continuità eccessiva che la “zarina” rappresenta a sollevare parecchi interrogativi in casa centrista. In Umbria poi sarebbero possibili altri candidati del centrosinistra: fra questi è spuntato il nome del segretario della Cgil Guglielmo Epifani. Insomma, le grandi manovre per le regionali sono partite. Le decisioni definitive verranno prese in novembre, ma molto dipenderà dagli esiti della “battaglia del Veneto” che si combatte proprio in questi giorni.
tura della pasgina a fianco, ndr), alleato fedele e fidato nell’attuale giunta regionale.
Una brutta gatta da pelare per Berlusconi che rischia la rottura nel suo partito, mentre anche dal Pd arrivano segnali di interesse da autorevoli esponenti come il sindaco di Venezia Massimo Cacciari o l’ex primo cittadino Paolo Costa. «Faccio appello a tutti i cittadini che credono nel Veneto e nella democrazia, a creare una grande coalizione, non in senso politicopartitico, ma come espressione della società civile, dell’impresa, della cultura, dell’associazionismo, dei sindaci, che rappresenti il territorio e che non sia frutto di scelte compiute a Milano o Roma e calate dall’alto», dice De Poli, che propone «una bella lista “Veneto per il Veneto”guidata da Galan o anche da altri per governare e non per comandare». Lo scenario veneto rafforza quindi la dirigenza dell’Udc nell’idea di andare da soli, o con liste di centro. In tutta Italia, persino in Lombardia, dove pure la personalità di Roberto Formigoni e la consolidata alleanza fino a pochi giorni fa dava per scontata l’idea di un accordo con il centrodestra. Passata la Polverini nel Lazio, e ottenuto il Veneto, la Lega in Piemonte abbassa la cresta, rinuncia a candidare Roberto Cota cedendo il passo al sottosegretario del Pdl Guido Crosetto, anche se lui dice che non ne sa niente. Il Carroccio otterrebbe però altre due regioni “perdenti”, Liguria ed EmiliaRomagna (terra del presidente federale Angelo Alessandri). E a questo punto entra in discussione anche l’alleanza dell’Udc con il centrodestra che sembrava sancita in Campania: qui potrebbe esserci un’altra contropartita per Fini con Italo Bocchino o Pasquale Viespoli, in subordine (oggi è in programma una riunione decisiva a Roma) ci sono Nicola Cosentino, il socialista Stefano Caldoro o il ministro Gianfranco Rotondi. Potrebbe però anche succedere che altri decidano di convergere su candidati dell’Udc: in Piemonte, ad esempio il centrosinistra potrebbe scegliere di appoggiare il vicesegretario Michele Vietti. Ma attenzione: l’ultimo sondaggio in mano al Cavaliere rivela che Pdl e Lega insieme viaggiano tra il 46,5 e il 48,5 per cento, e senza il 6 -7 per cento dell’Udc è difficile spuntarla.
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ANTONIO DE POLI, UDC
«Subito una lista del territorio» ROMA. Una cosa è certa: la risposta del “territorio” è tutt’altro conciliante. Molta agitazione c’è in quei larghi settori del Pdl veneto che da mesi si sono schierati a difesa del governatore uscente. E che della scelta per le Regionali del 2010 fanno una questione sia di bandiera che, appunto, di identità locale. Sono preoccupatissimi, da una parte, per un sorpasso lumbard che con un candidato alla presidenza espresso da Umberto Bossi sarebbe inevitabile. Dall’altra pongono un problema di autonomia della base nell’indicazione dell’uomo giusto, e non hanno dubbi sul fatto che Galan potrebbe ancora esserlo. A colpire più di ogni altra cosa, d’altronde, è il fatto che il criterio del legame tra la regione e la rappresentanza politica possa entrare in crisi proprio per un partito come il Carroccio che del radicamento ha fatto la propria arma principale. È proprio questa contraddizione a rendere inevitabile l’iniziativa del-
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l’Udc, il cui segretario Lorenzo Cesa ieri ha immediatamente rilanciato una proposta del coordinatore regionale Antonio De Poli: una lista del territorio in appoggio a una ricandidatura di Galan «aperta a tutti coloro che non vogliono diventare leghisti», dice Cesa, pronto a «proporre alla direzione nazionale e ai nostri dirigenti locali di rinunciare allo storico simbolo del partito, alle Rgionali del marzo prossimo, per mettere in campo questa iniziativa». Onorevole De Poli, come si spiega un caso come quello veneto, il solo nel Nord che faccia emergere un’insofferenza alla diarchia Bossi-Berlusconi nelle scelte elettorali? Perché qui si chiede il rispetto di una storia, di una tradizione e di una cultura in una terra che non è disposta a lasciare la gestione del potere a chicchessia. L’intramontabile identità del “Veneto bianco”, dunque: ma lei crede che un’iniziativa come quella lanciata da lei e da Cesa possa incrociare anche la “ri-
La proposta incontrerà il favore di quella parte del Pdl schierata con l’attuale governatore. No a scelte imposte dall’alto
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volta”del Pdl più vicino a Galan? Credo di sì. Una reazione, estesa anche al Pdl, penso sia inevitabile. Sono convinto che una lista messa in piedi contro l’imposizione dall’alto, e che consenta una risposta adeguata del territorio veneto, sia la strada migliore. Faccio appello a tutti i cittadini che credono nel Veneto e nella democrazia affinché si possa realizzare una grande coalizione. È un’espressione volutamente ispirata al caso tedesco della legislatura precedente? No, non intendo ‘grande coalizione’ in senso politico-partitico, ma come rappresentanza della società civile, dell’impresa, della cultura, dell’associazismo, dei sindaci, che parta dal territorio, appunto, e non sia frutto di scelte compiute a Milano piuttosto che a Roma e calate dall’alto. Come la chiamerebbe? Potrebbe essere ‘Veneto per il Veneto’, una sigla che richiami in modo chiaro, immediato, l’idea di non volersi proporre per ‘comandare’ ma per governare, che è cosa diversa: rappresentare tutti non in modo autoreferenziale, non per una imposizione di potere, ma a partire dalla conoscenza della storia e delle tradizioni di questa regione. (e.n.)
ANDREA MARTELLA, PD
«Ora servono alleanze inedite» di Ruggiero Capone
Galan e Zaia sono sempre in lizza per la Regione Veneto. A destra, in alto Antonio De Poli, in basso Andrea Martella. Nella pagina a fronte, sopra Rita Lorenzetti, sotto Luisa Todini
ROMA. Andrea Martella, deputato del Pd eletto in Veneto, ha qualche resistenza a confidare in uno scatto d’orgoglio dell’elettorato moderato: «C’è da fare una distinzione, perché è nella politica che fanno i vari pezzi di ex Dc che stanno ora con la Lega ora col Pdl che è rimasto ben poco della tradizione cattolica veneta. Piuttosto è in atto una vera e propria spartizione, e in barba a tutti i proclami sulla politica a favore delle imprese venete. La Lega s’è resa conto che le riforme sono lunghe da venire, allora come sua abitudine è passata al piano pratico: meglio il Veneto oggi che chissà quali riforme un domani. Ora il Carroccio vuole dimostrare ai suoi che sa prendersi i posti di potere. In questo discorso chi ci va di mezzo è il Veneto». Perché dice questo, in che senso ci rimetterebbero i veneti? Galan non ha certo fatto grandi cose. Ma è già noto come la Lega intenda operare sull’immigrazione. Ci sarebbe una indubbia chiusura. E lei cosa propone all’elettorato moderato ed ex Dc? Alleanze fuori dagli schemi e per scongiurare di ritrovarci con le macerie d’un sistema politico in lotta. Alleanze autenticamente fuori dagli schemi. Bisogna rivolgersi agli elettori delusi dal
Carroccio, a quelli di centro, centrodestra e centrosinistra e farli dialogare. Il Pd dovrebbe mettersi al centro d’una azione di questo tipo. Cercando di costruire alleanze sui programmi. Ma così non rischia di gridare ‘salviamo il soldato Galan’? Non dirò mai di salvare il soldato Galan. Come del resto non posso credere che Galan da solo possa riconquistare la poltrona di presidente della Regione Veneto. È probabile che questa battaglia la vinca la Lega. Ma le vittorie prive di programmi condivisi non fanno certo bene alle regioni. Forse l’elettore moderato è un po’ stanco di questa corsa al federelismo. Forse ritiene che persino il sano centralismo del passato sarebbe preferibile. Il federalismo non è male, anzi ha aspetti di vera innovazione. Ma questo braccio di ferro tra Galan e la Lega non ha nulla a che vedere con le lotte per il federalismo. Sono mesi che questa situazione si ripercuote sul Veneto
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con una paralisi amministrativa senza paragoni nella storia della regione. Ecco perché dico al Pd di pensare ad alleanze trasversali, anche a pezzi del centrodestra. Pdl e Lega hanno inventato un gioco sulle spalle dei veneti: il Risiko delle Regioni. Quindi per lei è solo in atto una spartizione? Sembra di vederli, Berlusconi, Bossi e, più defilato, Fini a spartirsi le ipotetiche presidenze. Il tutto secondo logiche e strategie esclusivamente legate a equilibri nazionali. Ma di quale federalismo vuole parlare il centrodestra? Le imprese e la cultura veneta non contano nulla, questo territorio è pura merce di scambio. Sarebbe bello se con la gente seria della tradizione cattolica e con l’Udc si potessero mettere su delle alleanze. Ma in Veneto sembra ci sia un forte partito a favore di Galan. Una cosa sola è certa: per Berlusconi ormai Galan è finito, lo ha sacrificato per tenersi buoni i generali di Bossi.
Siamo vittime dell’ambizione leghista, va costruito un patto sui programmi che sia trasversale e parli anche al centrosinistra
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diario
pagina 6 • 17 ottobre 2009
Crisi. La reazione di quelle che «sembrano» le zone depresse del Paese ha segnato un aumento del prodotto pro-capite
Se il Sud cresce più del Nord Anche l’Istat alla fine accerta lo sviluppo del Pil del Mezzogiorno di Gianfranco Polillo he succede all’Istat? Pubblicano dati inverosimili, ma soprattutto diffondono un’immagine del Mezzogiorno che non corrisponde alla realtà certificata dalle loro stesse rilevazioni. Partiamo dall’inizio. Sono mesi che, nel nostro piccolo, cerchiamo di dimostrare che il Mezzogiorno non è solo mafia, camorra, ‘ndrangheta e assistenzialismo. L’immagine tanto cara a qualche esponente della Lega Nord che sogna di tagliare in due il Paese, mandando al macero la parte guasta di questa grande mela. Lo abbiamo scritto anche sulle pagine di questo giornale, dopo aver convinto i gruppi parlamentari dell’attuale maggioranza. Scritto in un documento, che si potrà leggere, tra qualche giorno, su www.ircocervo.it, verificato in pubblici dibattiti a Napoli e Bari, dove hanno partecipato ministri ed esponenti di primo piano delle forze sociali – da Emma Marcegaglia ai segretari delle confederazioni sindacali con la sola eccezione della CGIL, che si è autoesclusa – credevamo di aver conseguito un successo. Che volevamo poter confermare leggendo gli ultimi dati pubblicati solo l’altro ieri.
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Siamo andati sul sito Istat per esaminare le nuove elaborazioni: «Principali aggregati dei conti economici regionali» ma ecco la prima sorpresa: «Nel Mezzogiorno – reca lo “strillo” – il calo più forte del Pil». Una cocente delusione. Vuoi vedere che le nostre teorie erano scritte sull’acqua? Con un nodo alla gola apriamo il data-base per
La fabbrica della Fiat di Termini Imerese (Palermo)
sere un errore nel programma». Ci ringrazia e ci mettiamo in attesa. A distanza di qualche ora, dopo l’immediato oscuramento delle pagine incriminate, ecco le nuove elaborazione in linea con quello che ci si poteva attendere. Che il Pil nel Mezzogiorno è caduto più che nel Centro-Nord è quello che, in gergo giornalistico, rappresenta una non-notizia. È la storia del cane che morde
Il Pil ai prezzi di mercato nel meridione è salito dell’1,2 per cento, mentre al Nord tra lo 0,7 e lo 0,8 per cento e al Centro dello 0,9 cercare di capire dove abbiamo sbagliato e lo sconcerto aumenta. Secondo quei dati il reddito pro-capite del Mezzogiorno risulta pari a quello del Centro-Nord. Sempre più sgomenti telefoniamo all’Istituto. Ci risponde il dottor Claudio Pascarella. Gentilissimo. E a lui sottoponiamo il caso. Aspettiamo che entri nel data-base e registriamo il suo commento: «Ci deve es-
l’uomo e non viceversa. La notizia vera è invece di segno contrario.Vale a dire che il Pil ai prezzi di mercato nel Mezzogiorno – come è scritto nel contesto del documento di presentazione – è aumentato dell’1,2 per cento, mentre al Nord tra lo 0,7 e lo 0,8 per cento ed al Centro dello 0,9. Non è la solita storia di un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, ma una di di-
versa ottica e prospettiva. Naturalmente una rondine non fa primavera. Siamo, infatti, consapevoli che quella migliore performance nasconde alcuni aspetti negativi. Il reddito medio nel Mezzogiorno è ancora pari alla metà di quello del CentroNord, e lo stesso rapporto descrive gli squilibri in termini di ricchezza finanziaria delle famiglie. C’è poi la componente emigrazione. Se la popolazione residente diminuisce, la torta si ripartisce tra un numero minore di bocche da sfamare. Ma queste condizioni esistevano anche prima. Quando cioè il “dualismo” Nord-Sud, anziché ridursi, seppure in modo impercettibile, aumentava.
La cosa più sorprendente è che questa tendenza non è di oggi. Utilizzando i dati successivamente corretti dell’Istat, si può vedere come questo trend sia ormai di medio periodo. Tra il 1995 ed il 2008, mentre il reddito pro-capite del Nord è aumentato, in termini nominali, del 52,9 per
cento; quello del Mezzogiorno è cresciuto del 62,3 per cento. Qualcosa è, quindi, mutato negli assetti complessivi del territorio. Una prima spiegazione è sociologica. Il Mezzogiorno non è solo criminalità e malaffare. Questa componente, purtroppo esiste ed, almeno in alcune zone, è prevalente. Ma poi c’è una società civile fatta di brava gente che, nonostante le difficoltà, si impegna, produce, lotta disperatamente per dare a sé ed ai propri figli una prospettiva migliore. Questi grandi sacrifici, che fanno il paio con la disperazione dell’emigrazione, stanno dando i primi, seppur limitati, risultati. E’ quindi giusto che si apprezzino a livello nazionale. Questo è il cambiamento culturale necessario. Se fossimo stati più attenti non avremmo titolato «Nel Mezzogiorno il calo più forte del Pil», ma «Nel Mezzogiorno la maggior crescita del PIL pro-capite». Oppure avremmo, in perfetto spirito british, considerato entrambe le variabili.
Non è solo un problema di bon ton. Quel relativo maggiore sviluppo non è frutto del caso. Fino alla metà degli anni Novanta, il Mezzogiorno era collocato ai limbi del cosiddetto mondo civilizzato. Con un Europa lontana migliaia di chilometri ed un Mediterraneo schiacciato nella morsa del sottosviluppo. Oggi non è più così. I Paesi che circondano questo specchio di mare – dal Marocco alla Turchia – negli ultimi anni si sono sviluppati ad un tasso medio del 4-5 per cento, con punte del 6 o del 7 per cento. Mentre l’Europa continentale, con l’esclusione degli ex paesi comunisti, non usciva dal suo languore. Questo cambiamento radicale negli equilibri geopolitici ha trasformato un vecchio punto di debolezza in una nuova forza, trascinando con sé economie fino ad allora sonnolenti. Questo è oggi il Mezzogiorno ed è su questo nuovo paradigma che occorre operare. Ma per farlo occorre, innanzitutto, abbandonare gli atteggiamenti compassionevoli del passato.
diario
17 ottobre 2009 • pagina 7
Il ministro annuncia la ripresa dei carotaggi in Val di Susa
Filmato senza il consenso e irriso il giudice del Lodo Mondadori
Tav, Matteoli: a fine anno ripartirà la Torino Lione
Attacco a Mesiano, bufera su Canale 5
ROMA. Si rimette in moto la co-
ROMA. «Visto che il presidente del Consiglio continua a deprecare ”l’uso criminoso” della tv, ancora una volta tirando in ballo a sproposito Annozero, gli rivolgiamo una domanda: come considera l’uso della tv che è stato fatto giovedì mattina dalla più importante rete Mediaset?». Lo chiede il presidente della Federazione nazionale della stampa Roberto Natale, che spiega: «Mattino 5 ha mandato in onda un servizio su Raimondo Mesiano, il giudice della sentenza Fininvest-Cir, che rassomiglia molto a un pestaggio mediatico, del quale peraltro l’onorevole Berlusconi aveva già dato preavviso nei giorni scorsi. Ci sembra un tema ben più rilevante che non le minacce di ritorsione sul canone Rai al solito segnate dal suo clamoroso conflitto di interessi». Natale si riferisce a un filmato “rubato”(ossia
struzione della Tav nel tratto della linea tra Torino e Lione. Il ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, ieri ha annunciato che «entro il 30 novembre inizieranno i sondaggi propedeutici per l’inizio lavori». In realtà non si tratta dell’apertura di nuovi cantieri in Val di Susa, ma di sondaggi geognostici finalizzati alla definizione del tracciato che andrà concordato con il territorio. Ha spiegato infatti il ministro: «Lunedì si terrà a Torino la riunione dell’Osservatorio per decidere la data di inizio dei lavori propedeutici all’apertura dei cantieri, lavori che inizieranno comunque entro il 30 novembre».
Intanto i segretari piemontesi di Pdl, Udc, Pd e Italia Valori hanno sottoscritto con il presidente regionale di Confindustria, Mariella Enoc, e quello di Transpadana, Luigi Rossi di Montelera, un documento per sostenere l’opera. Sempre ieri il ministro Matteoli, presentando la conferenza internazionale di Napoli sulle reti europee Ten (Trans European Trasport), ha annunciato che chiederà di «non calcolare questi investimenti nel rapporto deficit-pil vincolato dal Trattato di Maastricht». La proposta sarà formalizzata
«Stampa e televisioni rispettino il pluralismo» Il monito di Napolitano alla “Giornata dell’informazione” di Gaia Miani
ROMA. «Tenere fuori dalla mischia politica e mediatica» istituzioni come il Quirinale. È l’esortazione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel corso della cerimonia sul Colle della celebrazione della “Giornata dell’informazione”. Il capo dello Stato ha terminato il suo discorso concedendosi quella che ha definito come «una postilla telegrafica», sottolineando che «per quel che riguarda l’articolo 278 del Codice penale - che interessa il reato di vilipendio contro il presidente della Repubblica, ndr non toccato peraltro dalla riforma dei reati d’opinione di pochi anni fa, chiunque abbia titolo per esercitare iniziativa legislativa, può liberamente proporne l’abrogazione». E ha aggiunto: «Giudichino poi i cittadini che cosa è libertà di critica e che cosa non lo è, nei confronti di istituzioni che dovrebbero essere tenute fuori dalla mischia politica e mediatica». Al centro dell’intervento del Presidente Napolitano, proprio in occasione della “Giornata dell’informazione”, c’è stato il rispetto nella carta stampata e nella radio-tv, specie quella pubblica, dell’insostituibile valore del pluralismo. Il capo dello Stato ha preso spunto dai due premi assegnati a Giulio Andreotti e a Pietro Ingrao, per osservare che «la loro lunga e significativa storia politica oltre che giornalistica sottolinea bene la diversità delle voci che devono trovare spazio in democrazia, nel grande mondo di una stampa libera; come lo ha in effetti trovato nel nostro Paese nel corso dei decenni: è un esempio da cui trarre forza».
presidio della libertà e del ruolo della stampa e dell’informazione». Il presidente della Repubblica ha quindi sottolineato che «i giornalisti vivono oggi tempi difficili in Italia e nel mondo occidentale, per effetto di accelerate trasformazioni tecnologiche, di ricadute della crisi finanziaria economica globale e di processi più a lungo termine di ristrutturazione del potere economico anche in campo editoriale». Napolitano ha anche spiegato che «la libertà di espressione e anche il buon uso di questa libertà da parte dei giornalisti» costituiscono «questioni che richiedono analisi e verifiche attente, anche in sede europea e non in riferimento a un solo Paese; e che richiedono proposte comprensive di indubbia necessità di innovazioni normative oltre che di innovazioni delle prassi e dei costumi».
Il capo dello Stato ha concluso il discorso dicendo che il Colle deve rimanere «fuori dalla mischia politica e mediatica»
proprio al summit di Napoli, al quale parteciperanno ben 47 ministri europei e africani dell’area mediterranea. Il commissario europeo ai Trasporti, Antonio Tajani, interpellato sulla cosa, ha commentato con molta cautela l’iniziativa di Matteoli: «È una proposta che ascolto ora e della quale dovremo discutere a livello comunitario. Comunque, è di competenza del commissario europeo per gli Affari economici e monetari Joaquin Almunia. Penso che se ne parlerà in sede di Ecofin». A Napoli dovrebbe poi essere sottoscritta una Carta di intenti comuni, per completare entro il 2020 un pacchetto comune di grandi opere.
Per Napolitano, dunque,«è nella qualità dell’impegno e del lavoro di ogni giornalista, nella professionalità, nel rigore, nell’equilibrio, nel tranquillo coraggio di chi si dedica a questo impegno e a questo quotidiano lavoro il maggior
Il presidente della Repubblica ha poi tenuto a precisare che su questi temi è «ritornato più volte, indipendentemente dal mutare nel frattempo del contesto politico in Italia, postulando la definizione di equilibri più soddisfacenti, con uno sguardo attento in particolare alla tutela della privacy, della dignità delle persone e delle istituzioni, della riservatezza delle indagini giudiziarie, insieme ovviamente e in primo luogo con la tutela della lilbertà di informazione». Per Napolitano, si tratta insomma di «equilibri difficili e sempre oggetto di controversie, ma a cui non si può sostituire da parte del giornalismo la sottovalutazione di limiti e di responsabilità, da riconoscere e da proiettare nel proprio modo di lavorare». Infine, il capo dello Stato si è augurato, a tal proposito, che «si vada verso un tempo di riflessione più obiettiva e più aperta su questi temi e che si possa ritornare su di essi, salutando un effettivo progredire del confronto costruttivo da tutte le parti interessate».
senza il consenso del giudice) nel quale si vede Mesiano passeggiare per le strade di Milano, fumare una sigaretta, andare dal parrucchiere e infine sedersi su una panchina. Tutte queste azioni vengono definite dalla giornalista «stranezze», compreso il fatto che il giudice indossi dei calzini azzurri. Il riferimento a Berlusconi, invece, riguarda l’annuncio che fece il premier subito dopo la bocciatura del Lodo Alfano da parte della Consulta, dicendo che «su Mesiano presto ne vedremo delle belle».
Dura e immediata è stata anche la protesta delle toghe. «Siamo esterrefatti e indignati per la gravissima campagna di denigrazione e di aggressione nei confronti del giudice Raimondo Mesiano, da parte dei giornali e delle televisioni del gruppo Fininvest e della famiglia Berlusconi», hanno dichiarato il presidente e il segretario dell’associazione nazionale magistrati, Luca Palamara e Giuseppe Cascini. D’altra parte anche il quotidiano di famiglia, Il Giornale, ieri dedicava il titolo di prima pagina a sbeffeggiare Mesiano.
mondo
pagina 8 • 17 ottobre 2009
Scenari. Che sia morto davvero o no, di certo la Guida Suprema è ormai fuori dai giochi politici di Teheran
L’Iran dopo Khamenei Il futuro del Paese profondamente diviso dipende dalle mosse di Montazeri di Gennaro Malgieri n’èra si chiude. Quella che si apre non è meno gravida di incertezze e di inquietudini. L’uscita di scena, per volere di Allah, di Alì Khamenei, la Guida Suprema dell’Iran, se ridà fiducia agli oppositori del regime, paradossalmente, li getta pure nello sconforto.A rigor di logica gli assetti di potere dovrebbero cambiare in senso moderato, ma non è detto che non riprendano ad agitarsi gli spettri della radicalizzazione della lotta politica all’interno della nomenklatura sciita e negli apparati dello Stato. Al punto di favorire un irrigidimento da parte dei “falchi” nelle cui mani attualmente sono le istituzioni pubbliche e la prospettiva di perderne qualcuna non li entusiasma di certo.
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È pur vero che Khamenei, dopo la “sbandata” del 12 giugno scorso, quando si affrettò ad imprimere il suo sigillo sull’avvenuta elezione di Ahmadinejad, ha cercato di correre ai ripari e mostrarsi, sia pure soltanto a parole, maggiormente disponibile nei confronti dei moderati. Nei fatti ha avallato tutto ciò che i repressori, guidati dal presidente della Repubblica islamica, hanno messo in atto per stroncare il movimento di popolo che chiedeva e chiede riforme e rispetto per i diritti umani. Le condanne a morte comminate negli ultimi giorni dai tribunali “rivoluzionari” e quelle “silenziose” eseguite nel carcere di Evin, come negli altri penitenziari del Paese, recano tutte l’avallo di Khamenei e del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione. Difficile credere che coloro i quali si vedono privati da un giorno all’altro della “protezione” della Guida Suprema, depongano le armi e si atteggino a più miti consigli chiamando magari ad un confronto aperto e serrato i moderati che reclamano ancora il riconoscimento della vittoria strappata a Moussavi. Ma è anche difficile immaginare che tutto resti come prima. Khamenei era un usurpatore. E con lui hanno convissuto, all’ombra suo dispotismo, anche coloro i quali negli ultimi tempi lo hanno contestato. Un compromesso, per quanto ignobile, è pur sempre un compromesso e se i Rafasanjani,
i Khatami, i Karroubi che oggi rappresentano l’alternativa ad Ahmadinejad, non si fossero piegati a quel vero e proprio colpo di Stato attuato da Khamenei all’indomani della morte di Khomeini, quando si fece “riconoscere” come Guida Suprema al posto del designato Grande Ayatollah Montazeri, quasi certamente la storia avrebbe preso un’altra piega. Non è escluso che lo stesso atteggiamento assumano ora, sia pure a parti invertite.Vale a dire, lasciare ad Ahmadinejad la gestione del potere, ma dopo l’individuazione di una nuova Guida Suprema, orientarlo in senso più moderato. Resta ovviamente l’incognita del comportamento che assumerà lo stesso presidente e, soprattutto, i capi militari dei pasdaran e dei basiji nelle cui mani
la quale gli è proibito uscire, ha avuto il coraggio di lanciare moniti feroci contro tutti coloro i quali, nel trentennale della rivoluzione, hanno tradito lo spirito khomeinista. Montazeri potrebbe, comunque, giocare un ruolo per il prestigo che gli è universalmente riconosciuto. Ha numerosi seguaci nelle facoltà teologiche, però non ha un delfino, un ayatollah del quale si possa fidare. A ben vedere l’Iran è sprovvisto di religiosi d’alto rango in grado di essere accettati dal mondo sciita: Khameni fu un’eccezione imposta dal momento e, per di più, non ebbe resistenze negli ambienti dai quali ci si attendevano reazioni significative.
Quel che può accadere, dunque, nelle prossime ore è abbastanza perfino il mutamento nella sfera del potere. Il vuoto di potere lasciato dalla Guida Suprema potrebbe perfino indurre i più radicali, e cioè i vertici militari dell’esercito e delle milizie, a tenere in piedi, come un fantoccio, Ahmadinejad e mettere all’angolo i religiosi. Mossa spericolata, indubbiamente, ma comprensibile quando si rischia di perdere tutto il potere. Se l’ipotesi si rivelasse percorribile i capi della rivolta sarebbero ridotti al silenzio: ci hanno già provato con Khatami e Moussavi. Ma come reagirebbe il popolo che non contesta il khomeinismo ed è profondamente radicato nella fede musulmana? Insomma, è credibile un Iran islamico senza una guida sciita?
è concertato il potere effettivo. Naturalmente i laici al vertice dello Stato non hanno alcuna possibilità per determinare la nomina della Guida Suprema. Possono, tuttalpiù, esercitare una sorta di persuasione, che vuol dire minacce e ricatti, sul clero a scegliere l’ayatollah che è più vicino alle loro posizioni. Non ne mancano, naturalmente, nonostante i religiosi di Qom nei mesi scorsi si siano schierati quasi tutti apertamente contro Ahmadinejad ed abbiano censurato perfino il comportamento di Khamenei, ispirati da Montazeri il quale, dalla reclusione nella sua angusta abitazione nella Città Santa, dal-
indecifrabile anche se tutto lascia pensare ad una transizione relativamente “morbida” poiché non conviene a nessuno premere sull’acceleratore. Bisogna vedere come il compromesso verrà sviluppato dai protagonisti della ingarbugliata vicenda e come reagirà il popolo. Se ai giovani, soprattutto, si offrirà la possibilità di coltivare alcune libertà fondamentali, probabilmente il “passaggio” sarà abbastanza indolore; ma se questi approfitteranno, come tutto lascia credere, dell’occasione per rinnovare con moti di piazza la contestazione ad Ahmadinejad, sarà inevitabile l’inasprimento della repressione e
Francamente, al momento, è impensabile. Perciò quel che si intravede all’orizzonte è il compromesso. Non si sa ancora tra chi e con chi. Mentre sullo sfondo resta il grande problema del nucleare. Purtroppo, al riguardo, neanche tra i moderati emergono posizioni contrarie alla politica del regime. E questo è un problema. Il nuovo Iran avrebbe bisogno, infatti, di appoggi internazionali per risollevarsi e rimodellarsi in un contesto quanto più possibile pacifico. Ma se l’odio antioccidentale, l’ostilità assoluta, fino a desiderarne la distruzione, verso Israele, l’aggressività in politica estera e gli appoggi che continua ad offrire a movimenti terroristici come Hezbollah ed Hamas do-
vessero continuare ad essere i perni intorno ai quali far ruotare la politica iraniana, è inevitabile che il regime si condannerebbe ancor più all’isolamento e ciò avrebbe ripercussioni interne in termini di oppressione delle voci che, al contrario, accentuerebbero le richieste di apertura. Mentre i radicali sanno come giocare la loro partita, mettendo sul tavolo le condizioni che sappiamo (continuismo e blande concessioni all’opposizione), i riformisti non hanno una linea unitaria se non quella vaga di chiedere maggiori spazi di libertà, con una pregiudiziale inaccettabile per i primi: l’annullamento delle elezioni di giugno. Una partita che potrebbe essere interrotta qualora il clero, individuando un leader che non riusciamo a scorgere, si appellasse direttamente al popolo e mutasse gli equilibri oggettivamente alleandosi con i riformisti. In quel caso le forze armate come reagirebbero? Ecco che tutto ruota attorno a questo interrogativo. Khamenei lascia praticamente senza speranza un Iran frastornato, diviso, incattivito. È l’eredità più coerente alla vita di un usurpatore che non si è privato di nulla, perfino di tradire il suo mentore, per restare aggrappato al potere con le mani sporche di sangue. Anche del sangue di Neda, assassinata nel corso degli scontri della scorsa estate, che adesso riposa nel Paradiso di Allah a differenza del suo carnefice.
mondo
17 ottobre 2009 • pagina 9
Il racconto della fonte della notizia che tiene gli osservatori in sospeso
Così una voce della rete ha fatto paura al regime Guida ragionata alle reazioni ufficiali e ufficiose a un evento di cui tutti parlano ma nessuno conferma di Michael Ledeen a notizia che ho dato a liberal e sul mio blog, sul presunto malore dell’Ayatollah Khamenei, ha avuto una eco - a livello mondiale - assolutamente impressionante. E, come spesso accade, mi è stato dato più credito di quanto forse, sarebbe stato necessario. Quello che ho fatto è aver pubblicato una mail arrivatemi da un iraniano/a che considero un’eccellente fonte, che mi avvisava di un malore, degenerato poi in coma, che avrebbe colpito l’ayatollah Khamenei. Nel pubblicarlo, non mi sono astenuto dal sottolineare quanto tali notizie, a dispetto della serietà della fonte, debbano essere prese con le pinze. Né mi sono sottratto dal ricordare che, erroneamente, due anni fa, io stesso ero caduto in errore dando credito a una voce che lo voleva morto. Ripeto, questa volta la mia fonte era (ed è) eccellente e ciò mi ha convinto a far circolare la notizia. Il giorno dopo, ho aggiornato il mio blog facendo riferimento a un bollettino emesso da un movimento dell’opposizione, il Green Path of Hope, nel quale si riportavano le seguenti voci: al bazar di Teheran davano Khameni per morto e già discutevano della chiusura dello stesso, il giorno seguente, in segno di lutto. In più, il breve dispaccio aggiornava sulla “surreale” atmosfera che aleggiava per le strade della capitale.
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qualche influente rappresentante, dicesse qualcosa. Ma al momento, da quel che ho potuto vedere, soltanto l’ambasciata iraniana in Armenia ha rotto il silenzio, bollando la notizie (comprese le mie), come «prive di fondamento». Tanto da indurre Fox News ha scrivere sul sottopancia del telegiornale «l’Iran rigetta le voci sulla morte della guida suprema Khamenei, le cui condizioni di salute non sarebbero così drammatiche». L’altra reazione “ufficiale” arriva invece da una fonte interessante: Tabnak, il sito web vicino a Mohsen Reza’i, ex comandante delle Guardie Rivoluzionarie e candidato “fallito” (nel senso di estromesso) alle elezioni presidenziali del giugno scorso.
Mi è stato detto (io non leggo il Farsi) che hanno rimosso ogni cosa anche dagli archivi. Insomma, sono stato cancellato. Il dubbio mi assale: la mia informazione era troppo scottante?
Sopra, Ali Khamenei. Sotto, Mahmud Ahmadinejad. Nell’altra pagina, Mehdi Karroubi, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, Mohammad Khatami e Hosein-Ali Montazeri. A destra, Mir-Hossein Mousavi
Incredibilmente e velocemente, però, su ogni angolo della rete si è cominciato a fare riferimento a me come la fonte della notizia della morte di Khamenei e il coro si è spinto così oltre da farmi diventare l’uomo che ha fatto chiudere il bazar di Teheran (che è stato chiuso). Francamente, come già detto all’inizio, non credo che il mio blog sia così potente. Oltretutto, non ho mai detto di avere la certezza della morte di Khamanei, e ancora adesso non so nulla di preciso. Spero, però di avere maggiori informazioni nell’arco dei prossimi giorni, e certamente vi terrò al corrente di quel che mi viene detto. In ogni caso, vuoi in un senso, vuoi nell’altro, la verità verrà fuori. O almeno dovrebbe, sempre che la calma torni a Teheran. La gente, e questo è un dato innegabile, è apparentemente molto nervosa. Non solo il Bazar è stato chiuso, ma regna un’atmosfera insondabile, come se le persone si stessero preparando a un periodo molto difficile e dai cambiamenti imprevedibili. Mi sarei aspettato che il regime, per bocca di
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Tabnak prende completamente le distanze dai post del mio blog, ma poi, incredibilmente, traduce tutto in farsi. Incuriosito, ho chiesto a dei miei amici iraniani: «Ma se davvero pensavano che dicessi bufale, perché tradurre tutto e mandarlo in rete in Iran?». Le loro risposte sono interessanti. Ovviamente contorte ma illuminanti: la gente di Tabnak credeva alle mie informazioni e avrebbero tradotto tutto per divulgare la cosa e sottintendere: «Hey, date un’occhiata a questo! Gli americani conoscono il nostro principale segreto!». In ogni caso, oggi, hanno levato la traduzione dal web, lasciando on line esclusivamente gli insulti. E, mi è stato detto (ovviamente io non leggo il Farsi) che hanno rimosso ogni cosa anche dagli archivi. Insomma, sono stato cancellato. Il dubbio allora assale: la notizia era forse troppo “scottante”? Forse un giorno saprò come è andata.
panorama
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Risorse. Come al solito, il governo a trazione leghista limita i suoi interventi alle apparenze
La banca del Sud, un bell’«evento» di Angelo Sanza na banca per il Sud? Tutto quello che questo governo di marca leghista pone in essere a favore del Mezzogiorno è sempre un evento. Un’occasione da non respingere a priori. Ma servirà veramente questa banca per lo sviluppo del Mezzogiorno? A molti di noi, meridionalisti non da oggi, appare poca cosa. Certamente il Sud ha bisogno di fiscalità di vantaggio e di una gestione del credito più vicina alle intraprese economiche che si muovono sul suo territorio. Obiettivi questi, raggiungibili anche con strutture di credito già presenti sul suo territorio e oggi immediatamente operativi, evitando così il rischio di far nascere un nuovo carrozzone.
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A molti di noi, tutto questo strombazzare sulla nascita della nuova banca, appare più un messaggio di comunicazione e non già
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
uno strumento efficace per far partire un vero sviluppo. È probabile che sia solo un’operazione pubblicitaria del governo per rendersi credibile sul territorio meridionale in vista delle prossime elezioni regionali. Se ne discute dal giorno che il governo Berlusconi ha compiuto i primi passi, ma approda solo
Banche di Credito Cooperative è significativa, ma è pur sempre una fetta esigua del mercato meridionale. Sono 103 banche che vanno apprezzate perché testimoniano un alto indice di gradimento del cliente, però rappresentano, in termini di sportelli, solo il 9% del sistema del credito nel sud e questo può
Anche il ruolo delle Poste, buttato lì da Tremonti senza chiarire funzioni e scopi, appare solo un’operazione volta alla raccolta del risparmio oggi in consiglio dei Ministri e pare più assegnata alla fertilità inventiva del Ministro Tremonti che a un progetto realmente meditato. Le storiche banche del Sud sono state spazzate via dal necessitato processo di fusione nazionale. Queste grandi banche oggi hanno una governance al nord ma pur sempre una diffusa presenza di sportelli sul territorio meridionale. Ad esse e alle tante Banche Popolari presenti nel Sud andava affidata e sollecitata una politica di credito in favore delle medie e piccole aziende agricole, turistiche ed artigianali. La rete formata dagli sportelli delle
costituire un limite nell’obiettivo dichiarato di aumentare le possibilità di credito.
Anche il ruolo delle Poste, buttato lì dal ministro, senza chiarire funzioni e scopi, appare più un’operazione di raccolta di risparmio e non già di strumenti per agevolare gli investimenti. Vedo inoltre un secondo problema: è quello che la Banca dovrebbe finanziarsi sul mercato con obbligazioni ordinarie. In queste condizioni di mercato appare uno strumento molto fragile, tenendo anche conto che manca la garanzia dello Stato. La benedi-
zione della Lega e le perplessità di ministri meridionali, come Fitto e Prestigiacomo, nonché del sottosegretario che presiede il Cipe, Miccichè, ci fanno temere l’ennesimo enorme inganno verso i cittadini del Sud. Fitto si aspettava uno stanziamento per le infrastrutture da realizzare (oltre al ponte sullo stretto, che ha finanziamenti a parte), le risorse per la messa in sicurezza degli immobili, un coordinamento tra fondi Statali, Fas (di competenza regionale) e fondi dell’Unione Europea. Le promesse di Tremonti non sono state ancora una volta mantenute e Fitto ha dovuto subire un ulteriore mortificazione, con il “marchio” della Banca del Mezzogiorno nelle mani di Tremonti e la “cabina di regia” per lo sviluppo del sud nelle mani di Scajola.
Al Sud c’è bisogno di infrastrutture, lavoro innovazione e legalità, non certo di una nuova preoccupante struttura burocratica che per entrare a pieno regime avrà bisogno almeno di un altro anno ma che forse riuscirà solo a serrare i ranghi del Pdl in vista delle prossime regionali.
Dodici scuole chiuse e sette arresti: è il risultato dell’ennesima operazione di polizia
Quanto vale un diploma? 5000 euro orse ci avete fatto caso già per vostro conto e vi sarete, perplessi, chiesto: «Ma come è possibile che si vendano esami, diplomi, lauree?». Già, come è possibile? Semplice: il pezzo di carta si può comprare, mentre la cultura no, ma siccome nel sistema scolastico e universitario italiano ciò che conta è proprio il pezzo di carta, allora, accade quel che accade: l’acquisto dei diplomi. Per fermare il fenomeno - sempre più in espansione - basta togliere valore legale al pezzo di carta e ogni attestato, libretto d’esami, diploma, laurea perde immediatamente appetibilità dal momento che non è più utile da spendere sul mercato del lavoro drogato dal valore dei titoli. Ma siccome lo Stato non ci pensa proprio a rinunciare al monopolio della istruzione che controlla attraverso il valore legale dei diplomi, ecco che le forze della legalità - carabinieri, polizia, finanziari, magistratura - deve indagare, ricercare, controllare che tutto sia a posto, ossia che gli esami siano seri, che i registri registrino il vero e non il falso, che gli alunni risultino presenti e non assenti, che i diplomi siano pagati ma non venduti. Un’opera che sottrae tempo alle forze dell’ordine legale che, magari, po-
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trebbero impiegare il loro prezioso tempo e le loro altrettanto preziose risorse in altre operazioni. Invece, c’è il valore legale del titolo di studio.
L’ultima notizia dal fronte della legalità degli studi arriva dalla Sicilia e dalla Calabria. Dodici scuole chiuse, sette arresti, duecento denunce. È il bilancio dell’operazione Atena che ha messo a segno la guardia di finanza. Gli indagati devono rispondere tra l’altro di associazione per delinquere finalizzata al rilascio di “diplomi facili”. L’organizzazione aveva base prevalentemente a Gela, Licata e Catania, ma con ramificazioni nel resto dell’Isola e in Calabria. Grazie ad un sistema collaudato si facevano apparire come effettivamente realizzate attività scolastiche (frequenza, didattica, esami
e così via) in realtà mai realizzate. Ne avrebbero usufruito studenti di tutta Italia che pagavano da 3000 a 5000 euro per un diploma di scuola secondaria. A seconda del prezzo pagato veniva concesso anche di «costruire false carriere scolastiche ad hoc sostenendo esami, anch’essi pilotati, per saltare qualche anno». Una truffa messa in atto, sottolineano le fiamme gialle, «anche attraverso il coinvolgimento dei docenti i quali si prestavano alle falsificazioni dei registri e dei vari atti d’esame, coscienti della scarsissima preparazione degli studenti. Alla redazione di atti falsi partecipava anche personale amministrativo in servizio presso gli istituti scolastici, consentendo l’iscrizione di alunni anche se privi dei requisiti necessari, ed addirittura, in alcuni casi, effettuando
iscrizioni al quinto anno pochi giorni prima di sostenere l’esame di Stato».
Le indagini, condotte attraverso la meticolosa analisi degli atti e dei registri hanno permesso di individuare oltre quattrocento diplomi rilasciati illegittimamente ovvero sulla scorta di false attestazioni. Si è appurato che gli studenti, oltre a non frequentare, sostenevano esami farsa in quanto dall’esito del tutto scontato. La predisposizione di un vero e proprio sistema collaudato ha permesso il progressivo espandersi dell’area d’azione dell’organizzazione, che si è ramificata in territorio siciliano e calabrese, anche grazie a centri studi affiliati, istituiti al fine di procacciare gli studenti cui rilasciare diplomi facili. Il lavoro degli investigatori è stato accurato, ma forse avrebbero risparmiato un bel po’ di fatica se avessero letto il libro Perle ai porci (Rizzoli) dove l’autore, un docente di scuola secondaria superiore, spiega per esperienza come funzionano le cose nelle scuola parificate (e non solo). Qui si aprirebbe un altro capitolo: chi ha dato la qualifica di istituti parificati alle scuole coinvolte nello scandalo? Il ministero che, in pratica, arresta se stesso.
panorama
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Primarie. L’accordo tra Franceschini e Bersani per non vanificare la consultazione del 25 ottobre venne siglato in estate
La vera storia del «Lodo Scalfari» di Antonio Funiciello utta la storia del centrosinistra nella Seconda Repubblica è caratterizzata dal rapporto con Repubblica. In particolare quella degli eredi del Pci: dal 1994, con l’iniziativa del popolo dei fax promossa allora dal giornale per scegliere il successore di Occhetto tra D’Alema e Veltroni, fino alla proposta del lodo Scalfari di oggi. Tra le mille anomalie italiane, c’è senz’altro quella del maggiore partito del centrosinistra, che scontando spesso poca fantasia e senso dell’iniziativa, si lascia all’occorrenza soccorrere dal giornale amico. Questo pronto soccorso «repubblichino (absit iniuria verbis) è venuto anche stavolta al Pd senza essere richiesto, per quanto il giornale abbia mostrato di preferire Franceschini a Bersani come prossimo segretario del Pd. Malgrado quanto si mormori, ovvero una ispirazione franceschiniana per l’ultimo articolo del fondatore di Repubblica, Scalfari ha agito di sua iniziativa, come d’altronde sempre ha fatto.
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In verità, quando si videro subito dopo l’estate, i candidati alla segreteria discussero dell’eventualità, prevista dalla statuto,
Il fondatore di «Repubblica» ha reso pubblico un patto che era già stato scritto assai prima che il caso-Marino allarmasse i due contendenti che nessuno riuscisse ad ottenere alle primarie del 25 ottobre il 50% più uno dei voti. Circostanza sulla carta più che possibile vista la partecipazione alla corsa per la segreteria di tre candidati. Non ci fu un accordo sulla falsariga del lodo Scalari, ma un gentlemen’s agreement sul riconoscimento del risultato delle
primarie e del suo vincitore, quale che fosse il tasso di partecipazione e l’esito finale. La cosa era rimasta sotto traccia, soprattutto in considerazione del movimentismo di Marino e della sua ansia di avversare qualsiasi iniziativa intrapresa da chi considera il vecchio apparato da abbattere. Repubblica l’ha riporta-
ta alla luce, in un momento in cui la buona prestazione del chirurgo nei congressi di circolo e la probabilità che migliori di molto il suo 8% interno alle primarie, rendono verosimile che dal voto del 25 ottobre non possa uscire eletto per via diretta il nuovo segretario democratico. Certo Repubblica ha ben interpretato la convinzione di Franceschini, per il quale resta difficile vincere le primarie col 50% più un elettore, mentre parrebbe alla sua portata la possibilità di battere Bersani con una percentuale più contenuta. Da par suo, l’ex ministro ha una posizione favorevole, perché teme che un successo di Marino possa pescare consensi più dalle sue parti che non da quelle del rivale. Prima delle inattese percentuali raccolte da Marino al centronord, nel giro stretto di Bersani tutti erano convinti di superare quota 50% con agilità. Dopo la conta interna, qualche timore e più di un’incertezza sono invece cominciate a trapelare. D’Alema è contrario e non ha esitato a farlo sapere. La sua esposizione mediatica, di gran lunga superiore a quella del suo candidato, è stata sfruttata proprio per avversare il lodo Scalari.
Polemiche. Il termine entrato di prepotenza nel linguaggio politico in realtà ha il significato opposto
Omofobo, non basta la parola di Giuseppe Baiocchi l prefisso “omo” viene dal greco antico e significa con certezza assoluta, senza dubbi possibili,“uguale a”. E ne è prova il senso univoco di tutti i termini con il medesimo prefisso che compaiono su ogni vocabolario della lingua italiana: da “omonimo” a “omofono”, da “omogeneo” a “omologo” e via elencando. Cosicché, se la lingua nella quale ci si esprime ha una logica e un suo interno rigore, anche il termine “omofobo” non sfugge a questo significato. Ovvero se uno, come chi scrive, è sposato e padre, obeso e fumatore, sarà “omofobo” se teme, disprezza e maltratta altri “uguali a sé”e cioè gli sposati e i padri, gli obesi e i fumatori… E la “omofobìa”altro non é che temere e disprezzare quelli uguali a sé.
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menti ufficiali, nelle reprimende dell’Onu, nelle formulazioni solenni, nelle proposte di legge. Quando si violentano le parole fino ad attribuire loro un valore esattamente contrario a quello che vogliono dire, è evidente che c’è qualcosa che non funziona. Che un “baco” di stravolgimento è entrato nel pensiero collettivo, che si è insinuato nei gangli vitali della società, che im-
in maniera quasi angosciosa i termini ultimi di un cammino purtroppo già intrapreso. Dominato dalla “neolingua” e guidato dall’incessante lavoro del Ministero della Verità, che riscrive continuamente non solo la storia, ma anche il presente. Sulla facciata dell’imponente organo statale, che si occupa di informazione e propaganda, campeggiano tre scritte «La guerra è pace», «La libertà è schiavitù», «L’ignoranza è forza». Soltanto il Grande Fratello è, per ora, meno inquietante di come Orwell lo immaginò.
In italiano vale per «aver paura di chi è uguale a noi stessi» e non il contrario. Come aveva predetto Orwell, stiamo ”riscrivendo” la lingua
Invece, per un curioso e non indagato percorso di inversione linguistica, questa parola “omofobìa” ha assunto nell’accezione comune il significato esattamente opposto, ovvero l’odio per il”diverso da sé”. E quindi, per restare nell’esempio, chi scrive è “omofobo” se ha paura e rifugge dai magri, dai salutisti, dai palestrati, da quelli di un altro orientamento sessuale. E la corruzione del senso originario entra nei docu-
pone per vie surrettizie un inquietante primato della menzogna. Non conviene forse, oltre ad accorgersene, fermarsi a discutere, sapersi contrapporre, contrastare l’onda montante di un “pensiero unico” politically correct che, sotto il nobile mantello di diritti universali, rischia di imporci un’altra dimensione tirannica, proprio a cominciare dal linguaggio? D’altronde, il piano inclinato dove, quasi insensibilmente, si inizia a scivolare, è già stato acutamente descritto in un’opera che passava per fantascienza. È la cupa e lucida profezia di 1984 dove George Orwell anticipava
Se la strada che si viene percorrendo va in questa direzione, è facile prevedere che si sarà esposti al ludibrio pubblico se appena ci si azzarda a formulare un pensiero compiuto non in linea con quello obbligatorio. Se capiterà a chi qui scrive, pretende comunque di venire condannato per “eterofobìa”. Per salvare almeno la lingua italiana.
Il D’Alema che detesta le primarie, è arrivato a dire che il segretario deve essere eletto dai voti e non dai lodi. La sua preoccupazione è essere scavalcato da Bersani nell’accordo da siglare coi popolari dopo la vittoria del suo ex ministro, che D’Alema continua a considerare certa. Un accordo di questo genere l’ha in testa da sempre, giudicandolo opportuno anche nel caso in cui Bersani superi il 50% di poco. L’ex premier ama governare il suo partito dal centro, condizione realizzabile solo con un accordo con gli ex democristiani e non già sfruttando la sponda di Marino. Il quale per altro non è incline a fornire sponde, visto quanto è stata fruttuosa la sua intransigenza. Di diverso avviso il suo più grande sponsor Bettini, che contrariamente punta proprio ad essere il Casini del Pd e a pesare in maniera determinante nella scelta del nuovo segretario nel caso del mancato raggiungimento del 50%. Condizione che vedrebbe Marino unico vincitore e una neoeletta Assemblea nazionale che definire caotica è dire davvero poco.
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e primarie, la convention, gli orditi di D’Alema e l’assenza di Veltroni, lo scatto di nervi di Franceschini, il buon senso di Bersani che potrebbe essere la soluzione... anche se Debora Serracchiani detto che Dario è più ha simpatico…Infine Eugenio Scalfari, il lodo della concordia, anche se Marino dice che la soluzione elargita dal padre nobile di Repubblica è una truffa.
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«Un fallimento che viene da lontano», «Un equivoco politico», «Una far a propostito del duello tra Bersani e Franceshini, della difficile politica
Lo svolgersi dello psicodramma del Pd-Ds-Pds–Pd tiene compagnia agli italiani, come un fouilletton con qualche pretesa, ormai da vent’anni. Da quando nella sezione della Bolognina, ebbe inizio la svolta che portò allo scioglimento del Pci. Lo stesso Franceschini ha riconosciuto lo scorso settembre «il ruolo determinante che svolse Occhetto per un passaggio storico senza il quale oggi non ci sarebbero stati il centrosinistra, l’ Ulivo e il Pd». È Il 24 novembre ’89 quando Achille Occhetto annuncia che il Pci cambierà nome, simbolo, forma e dà l’avvio di una fase costituente da cui nascerà il nuovo partito. Al grande popolo della sinistra italiana Occhetto indica la navigazione in mare aperto. Solo che la bussola della grande nave rossa, comincia a fare scherzi presto. Andare oltre si, ma dove? Strappi, crisi, svolte, revisionismi, rivoluzioni nominalistiche: Pci, Pds, Ds, Pd, un partito pieno di nomi che assomiglia molto al baule pieno di identità di Fernando Pessoa. E come Pessoa in costante crisi di identità, a inseguire eteronimi e l’impossibile quadra. Uno psicodramma dentro il quale come un deus ex machina, appare ora la freudiana EMANUELE MACALUSO «Il Pd non decide nulla, non sa più cosa vuole. Perché ha perso ogni identità. È un partito troppo fragile per un vero dibattito»
figura del padre, la barba bianca di Eugenio Scalfari. Che propone il lodo, l’accordo, dice lui, le tavole della legge per un condominio civile. Ma che cosa è questa crisi che rende così sofferta la vicenda politica del partito democratico? Rino Formica, storico esponente socialista più volte ministro nei governi della Prima Repubblica, parte da lontano nel suo ragionamento con liberal, sul destino del Pd. Dalla crisi dei partiti storici italiani della fine degli anni Ottanta. «Le forze politiche erano tutte modellate intorno a quella concezione del partito che guidava, organizzava, dirigeva, la società, il partito Stato e Chiesa. Il partito più congeniale a questa impostazione – dice ancora Formica – non era la Dc ma il Pci, che aveva una serie di dispositivi che rendevano efficiente questa impostazione: disciplina di partito, rigore, un’etica condivisa che arrivava fino alle scelte sessuali. Una
Al tribunale Alla vigilia delle primarie, Rino Formica, Emanuele Macaluso e Claudio Martelli danno i voti al principale partito di opposizione che si dibatte in una crisi di identità forse senza precedenti di Riccardo Paradisi comunità semireligiosa dove tutto era disponibile dall’interno e tutto era difeso dall’esterno. Con gli anni Settanta e Ottanta questa cosa si è andata diluendo nella forma, ma nella sostanza queste tendenze erano ancora tutte vive. Nell’89 il crollo del muro di Berlino provoca l’implosione a cascata degli altri partiti e il collasso della funzione originaria del partito politico. A quel punto i detentori della tradizione della storia del Pci, o se preferiamo i suoi esecutori testamentari, si comportano come i realisti: cambiano tutta la forma necessaria e conservano tutta la sostanza utile. E così gli eredi del Pci sono apparsi dei rifor-
matori mentre erano dei conservatori del nucleo sostanziale della vecchia religione. Nel Pd vive l’essenziale del cattocomunismo e del vecchio comunismo stalinismo».
M a n o n l e s e m b r a di esagerare Formica? «Affatto – risponde sereno l’ex ministro del governo Craxi: «Si devono notare i ritorni: i cattocomunisti, come era nella ispirazione angelica di Dossetti, pensavano che sarebbero infine stati egemoni sul comunismo tradizionale; da parte loro i comunisti tradizionali dicevano che la vicinanza ai dossettiani era loro utile, per svuotarli giorno dopo giorno. So-
no rimaste come pseudovirtù la veracità di quei vizi. Franceschini pensa dossettianamente di conquistare lo Stato con la parola di Dio e crede di essere l’epuratore finale del vecchio comunismo. D’Alema, che ha sulla coscienza vari segretari e presidenti del Consiglio, bruciati nella sua strategia, propone il dialogo con il nemico – ora Berlusconi, ora i banchieri, ora Confindustira – credendo di scavare come la talpa il terreno avversario. È l’entrismo che gli consentirà di conquistare le casematte del potere e alla fine di far tornare allo scoperto il mondo del comunismo puro. Il nucleo originario del partito è rimasto identico dunque.
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rsa da comiche finali». Sono durirssimi i giudizi della ex-sinistra Pci e Psi a di grandi alleanze e della minoranza movimentista di Ignazio Marino Il confronto dei candidati alla segreteria in diretta su Youdem
Una poltrona per tre ierluigi Bersani, Dario Franceschini, Ignazio Marino a tutto campo davanti alle telecamere di Youdem: un ora e mezza in diretta per confrontarsi sui temi politici e le posizioni con cui i tre candidati si presenteranno alle primarie del prossimo 25 ottobre. Un confronto a tratti duro, che ha investito i temi della bioetica, delle alleanze, della forma partito, della politica economica e delle riforme istituzionali. Sulla bioetica il più radicale è stato Marino: «Paola Binetti sarebbe dovuta già essere fuori da un pezzo dal Pd». Franceschini lo ha accusato di essere poco democratico mentre per Bersani è giusto porre la questione delle linea del partito anche su questi temi. Se i tre sono poi d’accordo sulla riforma della scuola, che deve essere fatta in Parlamento, scattano le scintille quando si parla di informazione. Con Marino che accusa Bersani e Franceschini di non avere fatto la legge sul conflitto di interesse quando potevano farla. Franceschini spinge poi molto sull’antiberlusconismo: «Non dobbiamo tornare al tempo degli inciuci», riferendosi alla bicamerale. La replica di Bersani: «Veramente abbiamo cominciato questa legislatura chiacchierandoci con Berlusconi». E poi: «Dobbiamo proporre un’alternativa: il maggior antiberlusconiano è chi lo manda a casa». Infine sulle alleanze: mai con l’Udc, dice Marino, «un partito che non vota contro l’omofobia». Per Francschini sarebbe sbagliato tornare indietro rispetto al bipolarismo. Ma Bersani gli ha ricordato che per battere Berlusconi ci vogliono i numeri. E quindi una politica di alleanze.
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e dei «padri» E così i suoi atavici riflessi». Un “partito a consumo” così Formica dopo questa spietata radiografia definisce il Pd: «che scomparirà, per come lo conosciamo, con la morte fisica delle generazioni che così intensamente nel passato hanno creduto. Cominciano ad avere delle forme di percezione alterata. Li disorienta quella Debora Serracchiani, la giovane che si muove senza gli schemi del potere diffusivo della cultura tradizionale. Per questo loro sperano che la salvezza venga dall’alto, dalla vecchia cultu-
CLAUDIO MARTELLI «Finchè il Pd non esce dal circuito chiuso del cattocomunismo non va da nessuna parte. Al massimo potrà aspirare al 26%»
ra, dalla barba bianca di Eugenio Scalfari». Diversa nell’analisi ma non nelle conclusioni la riflessione di Emanuele Macaluso, ex direttore dell’Unità e oggi direttore delle Nuove ragioni del socialismo. Il ragionamento di Macaluso sul Pd assomiglia a un’eruzione vulcanica che lascia solo la cenere del panorama dove si riversa. «Il Pd non è adatto a un dibattito reale, è un partito fragile» dice Macaluso.
Un partito così fragile «che concede a Scalfaro di mettersi a fare l’arbitro, proporre lodi. Non lo so che cosa succederà: la mia impressione è che anche le primarie verranno stravolte dall’intervento massiccio di forze esterne come quelle dipietriste che si mobiliteranno. Del resto hanno fatto uno statuto demenziale, è il meno che gli possa capitare». Ma da che punto della sua storia questo partito ha cominciato a percorrere linea inclinata che lo ha portato alla crisi attuale? «Dalla sua nascita, o meglio dalla sua prima malriuscita metamorfosi: dalla svolta di Occhetto. È noto che io, Napolitano, Chiaromonte avevamo dato
RINO FORMICA «Un partito che alle spalle ha una grande tradizione e accoglie come l’intuizione di un nume il lodo Scalfari è alle comiche finali»
la nostra adesione motivata a quella svolta ma indicando il socialismo democratico europeo come linea da seguire. Invece si è preferito non scegliere. Si è cominciato col nuovismo: Occhetto parlava di sinistre profonde e sconosciute nel Paese, parole incomprensibili. Di questo linguaggio, di questa mentalità Veltroni ne è stato l’espressione massima. E Veltroni è diventato segretario due volte su proposta di D’Alema». Un partito ondivago insomma, senza una precisa identità.
«Andiamo alle cose vere – continua Macaluso – in Grecia ha vinto il partito socialista, in Portogallo lo stesso, in Spagna idem. In Germania sono i socialdemocratici hanno subito una flessione è vero, ma è andata avanti la sinistra radicale, che è arrivata al 12 per cento. Sommata ai socialdemocratici fa il 35%. La sinistra non finisce mai. Il problema è che cosa vuoi fare della sinistra. Una forza protestataria o una forza di governo alternativo alla conservazione? Devi deciderti, ma se non sai deciderti perché non sai più cosa vuoi né chi sei di che stiamo parlando?».
Un partito che non si decide il Pd, che non si individua, proprio come in una terapia psiche canalitica sta andando male, molto male. Macaluso indica come via d’uscita la socialdemocrazia europea per Claudio Martelli invece il problema è il permanere del Pd nel «circuito cattocomunista, da quella visione che Franceschini ha manifestato e fatto propria fino ad ora. Se non escono da questo imbuto non vanno da nessuna parte. E poi purtroppo in questi quindici anni si è visto che gli eredi del vecchio Pci hanno ridotto la sinistra a se stessi, via via o criminalizzando o marginalizzando tutti gli altri apporti e le altre componenti potenziali, e facendo questo hanno isterilito la prospettiva del partito democratico, che si è risolta nella guida di Prodi che non è mai stato messo in difficoltà come dai Ds. Un premier col timer, logorato svuotato, dalla sua stessa creatura. Incredibile. Ricorda il principe di Salina? Bisogna che tutto cambi perché non cambi nulla. Ma quelli almeno cambiavano dinastia questi cambiano nome e sono sempre loro. Così, se gli va bene, la prospettiva più ambiziosa del Pd potrebbe essere il 26 per cento del consenso». Si può sopravvivere al crollo di un mondo e di una stagione politica, ma appunto si pensa e si vive da sopravvissuti. Come dice Macaluso ”La storia è storia”: non la puoi sbianchettare, o girarci intorno. E poi, aggiunge Formica «Quando siamo al punto che sulla scena scende dall’alto, come un deus ex machina, un nume della saggezza, del pensiero, dell’autonomia, della laicità come Scalfari che fa un lodo, come Ciarrapico, e quando un grande partito tutto sommato che viene dalla tradizione del dossettismo e del grande comunismo italiano assume questo lodo come la soluzione dal cielo per fottere uno come Ignazio Marino, ecco quando si assiste a tutto questo verrebbe davvero da chiedere a Bersani a Franceschini, a D’Alema, a Fassino ma scusate non avete il senso del ridicolo? Berlusconi dicono è uno che racconta barzellette. Lui però lo fa volontariamente. Loro sono dei comici involontari». Il vecchio Marx diceva che la storia si ripete sempre come farsa. In questo senso il Pd sembra un partito ancora rigorosamente marxista.
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Guerre. Mentre alla Casa Bianca si discute della nuova strategia da adottare, continuano gli scontri nel meridione
Fuoco (amico) di carta Il Times ribadisce: «Tangenti anche a Herat» Frattini smentisce con forza e accusa Londra di Vincenzo Faccioli Pintozzi l Times colpisce ancora, e questa volta i suoi proiettili di carta hanno l’aspetto di un fuoco amico contro il contingente italiano in Afghanistan. Nonostante le risposte già fornite dalla nostra diplomazia e le minacce espresse dall’esecutivo, il prestigioso quotidiano londinese torna ad accusare i nostri militari di aver pagato - senza avvertire gli alleati - i capi talebani presenti nelle loro aree di competenza. Il ministro Frattini ha risposto, ribadendo «l’assoluta falsità ed offensività delle accuse rivolte contro l’Italia dal quotidiano inglese Times». Subito dopo una lunga telefonata con la sua controparte afgana che ha garantito una smentita anche da parte di Kabul - la Farnesina ha chiesto il ritiro delle accuse mosse dal giornale. Che, nella sua edizione di ieri, scriveva: «Sappiamo che le forze italiane hanno pagato i ribelli a Sarobi in modo da non essere attaccati. Abbiamo informazioni su accordi simili da parte dei soldati italiani anche nella provincia di Herat».
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A sostegno della propria tesi, il Times ha intervistato un sedicente leader talebano dell’area di Sarobi: «Ci fu riferito che comandanti di alto rango avevano incontrato i soldati italiani ed avevano raggiunto un accordo sul fatto che gli uni non avrebbero attaccato gli altri». Mohammad Ismayel, capo talebano di medio rango conosciuto semplicemente come Comandante Ismayel, aggiunge: «Siamo stati informati nello stesso tempo che non avremmo dovuto attaccare le truppe della Nato». Il presunto guerrigliero ha confermato di non essere a conoscenza dei termini esatti dell’accordo o di eventuali pagamenti ai leader talebani ma ha asserito che l’accordo vigeva in tutte le postazioni italiane a Sarobi: «Quando sono arrivati i soldati francesi hanno cominciato ad attaccarci. Noi non sapevamo che si trattava di soldati francesi e pensavamo che gli italiani avevano rotto l’accordo e cominciato a combattere. Dopo abbiamo ricevuto informazioni che non si trattava di italiani e che erano francesi. Così
abbiamo cominciato a combattere contro di loro». Intanto, un alto ufficiale del governo afgano ha confermato al Times che Ghulam Akbari, capo dei ribelli ucciso la settimana scorsa nella provincia di Herat dalle forze speciali americane, era uno di coloro che avrebbero ricevuto
vi combattenti, ha ricevuto cure mediche da personale italiano e denaro: il governo italiano era in contatto regolare con lui attraverso gli agenti dell’intelligence. È stato un lungo impegno. C’erano anche iniziative di altro tipo». Nel frattempo, andando oltre le polemiche con
Il quotidiano britannico intervista ieri un sedicente comandante talebano dell’area, che definisce «pratica comune» il pagamento di tangenti da parte dei nostri soldati a Helmand denaro dal governo italiano. Il funzionario ha spiegato a condizione dell’anonimato che Akbari era stato pagato per sospendere gli attacchi contro gli italiani: «Ha ricevuto soldi che ha utilizzato per reclutare nuo-
poco senso che continuano a dominare i rapporti del contingente internazionale, nell’Afghanistan che si appresta al ballottaggio una bambina è stata uccisa dal fuoco delle truppe danesi durante scontri con i ta-
lebani nella provincia di Helmand. Teatro dello scontro tra una pattuglia dell’Isaf e un gruppo di guerriglieri è stata la periferia della città di Gereshk, dove i soldati hanno sparato sicuri che non ci fossero civili nelle vicinanze. Ma poco dopo un uomo e le sue due figlie sono stati portati alla base danese dove la più piccola delle bambine è arrivata senza vita. I due feriti sono stati trasportati in elicottero in un ospedale da
campo e sarebbero fuori pericolo. Secondo i primi accertamenti, tutti sono stati raggiunti da proiettili sparati dai danesi.
I soldati danesi, ha spiegato il colonnello Erik Sommer, comandante del contingente «sono affranti per quanto è accaduto e faranno il possibile per aiutare le vittime». Il contingente danese nell’Isaf è composto da più di 700 uomini e opera sotto il comando britannico. Dall’ini-
Il “Washington Post” sostiene che si tornerà alle urne. La Commissione elettorale non smentisce
E sul Paese torna l’ombra del ballottagio di Osvaldo Baldacci n brutto spettacolo ma anche un pericolo vero. Stavolta le elezioni in Afghanistan stanno mostrando la faccia peggiore dei tentativi internazionali di aiutare quel Paese. Brogli accertati, accordi discutibili, credibilità bassa. Prende quota l’ipotesi di ballottaggio, data per certa ieri dal Washington Post e sostanzialmente confermata dalla Commissione Onu, ma i capi tribali che avevano spinto gli afghani a votare nonostante la paura stavolta sono tutt’altro che motivati. Le dita macchiate di inchiostro, le donne in fila con o senza burqa, la gente alle urne, erano stati i fiori all’occhiello della campagna di esportazione della Il democrazia. 2005 l’anno d’oro, con il voto organizzato in tanti Paesi dove non era mai successo in modo credibile. Ma stavolta in Afghanistan poco sembra essere andato per il verso giusto. Forse qualcuno spera adesso di cavare le castagne dal fuoco organizzando il ballottaggio tra Karzai e Abdallah, ipotesi che secondo Said Tayeb Jawad, ambasciatore dell’Afghanistan all’Onu, è oggi assai “probabile”. C’è da sperare che un rimando alla sovranità degli elettori (concetto per altro discutibile sulle montagne centroasiatiche) possa sanare almeno alcune delle ferite che si sono create, ma i segnali non lasciano spazio all’ottimismo. Nel voto di agosto l’affluenza era stata bassa, le violenze non erano
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mancate, il governo era ricorso alla censura per impedire il contagio della paura.. Ciononostante le elezioni erano sembrate abbastanza soddisfacenti. E la presenza di diversi candidati veri era un ulteriore aspetto positivo. Ma poi sono arrivati i brogli. Certificati, costati anche qualche poltrona importante nello scontro per gestirli interno alla comunità internazionale. E il clima tra i candidati è scivolato sempre più da concorrenza ad anticamera di guerra civile. Karzai ha cercato di tirare dritto, ha rivendicato più volte una vittoria che aveva cercato di ottenere anche con alleanze controverse come quella con Dostum e con gli sciiti per i quali ha varato una legge contro le donne. Per i rivali Karzai ha perso ogni credito di primo presidente della liberazione e non è diventato meglio dei talebani, con i quali pure ha cercato un accordo. E mentre i politici si scannavano, la situazione nel Paese non è andata certo migliorando. E il voto ha ottenuto l’effetto peggiore, quello controproducente: chi aveva messo a rischio vita, dita, speranza nel futuro sfidando i talebani per andare ai seggi si è sentito truffato e raggirato. E stenta anche a fidarsi della comunità internazionale.
Certo ora le inchieste partite a fatica stanno portando alla luce i brogli e spingono verso un ritorno sui binari della legalità, magari con la seconda chance del ballottaggio. Ma c’è il rischio che questo invece di sanare le ferite riaprendo i giochi, piuttosto aumenti da una parte la disaffezione del già difficile elettorato, dall’altra incrementi divisioni e faziosità che da quelle parti si risolvono troppo spesso a colpi di arma da fuoco. Resta il fatto che l’inchiesta sui sospetti di brogli avrebbe stimato al 47 invece che al 54,6 la percentuale delle preferenze in favore del presidente uscente Hamid Karzai, circostanza che costringerebbe l’attuale capo dello Stato a un bal-
mondo Uno dei soldati del contingente italiano in Afghanistan all’interno della coalizione internazionale dell’Isaf. A destra, una delle foto pubblicate da Paris Match dopo la strage dei componenti della coalizione: un talebano mostra il macabro trofeo composto dalla baionetta e da altri effetti personali di uno dei soldati francesi uccisi nella valle di Uzbin. Nella pagina a fianco: i candidati Hamid Karzai e Abdullah Abdullah
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Anche il ministro della Difesa di Parigi non crede al “tradimento” degli italiani
Ecco come andò nella valle maledetta Q di Enrico Singer
lottaggio con il suo principale sfidante, Abdullah Abdullah. Un secondo turno elettorale in teoria potrebbe ridare credibilità al sistema ed essere di aiuto all’amministrazione Obama, togliendo le ombre di illegittimità al prossimo capo di stato e di governo afghano.
uelle foto pubblicate da Paris Match furono un pugno nello stomaco. Un talebano che mostra con orgoglio l’orologio strappato a un soldato al quale ha tagliato la mano. Un altro che indossa un elmetto e un altro ancora parti di una divisa insanguinata. Più che tutti gli articoli sul massacro dei dieci paracadutisti francesi dell’8° Reggimento della fanteria di marina di Castres, le immagini dello scempio seguito alla strage compiuta il 18 agosto 2008 nella valle di Uzbin, nel distretto di Surobi, scatenarono un putiferio. Il ministro della Difesa, Hervé Morin, accusò il settimanale di «avere fatto il gioco del nemico, perché le foto esaltano l’impresa dei talebani, fanno da cassa di risonanza ai loro proclami e umiliano nostri soldati e i loro familiari». Di questa storia tante sono le cose che in Italia non sono state mai raccontate. O che sono state raccontate male. Tante quelle che sono state approssimate. E quando si parla di operzioni militari, l’approssimazione porta inevitabilmente a giudizi sbagliati. Soprattutto se, a distanza di più di un anno, la vicenda torna di attualità per le rivelazioni del Times che accusa l’Italia di non avere avvertito la Francia che in quella valle maledetta era meglio pagare i talebani per tenerli a bada. Accusa che lo stesso Morin, ieri, ha respinto: «Le autorità italiane hanno già risposto e non c’è bisogno di insistere. Io non ho alcuna ragione di non avere fiducia», ha detto il ministro che si trovava in visita nell’isola della Reunion. E che ha risposto così anche al capogruppo dell’opposizione socialista all’Assemblea nazionale, Jean-Marc Ayrault, che lo aveva già invitato a riferire in Parlamento.
Ma i problemi sembrano più numerosi delle effetti positivi. Intanto ancora una volta si evidenzia come i nuovi Stati Uniti non abbiano una strategia chiara per il paese dove pagano un prezzo alto, non sanno su quali uomini puntare, non sono stati incisivi nel processo elettorale e nel suo controllo, scontrandosi anche con l’ONU. Inoltre nuove elezioni potrebbero peggiorare la situazione della sicurezza, dato che ogni voto eccita le possibilità di violenza da parte degli insorti, peraltro sempre più forti e ulteriormente rafforzati da ogni carenza di autorità e autorevolezza delle istituzioni. C’è persino il rischio che per motivi climatici il ballottaggio slitti in primavera, e non si può neanche immaginare quali prezzi pagherebbe l’Afghanistan per una incertezza così lunga. Infine non c’è da stupirsi che i capi tribali abbiano già fatto sapere che non intendono tornare di nuovo al voto. Per loro la democrazia è poco più di una sovrastruttura occidentale: serve se conviene. Hanno puntato perlopiù su Karzai ritenendolo il cavallo vincente e ottenendone molto in cambio (compreso l’assoldamento delle loro milizie per garantire la sicurezza delle elezioni). Possono ricavare nuovi utili da un nuovo voto, ma in quel caso cercano almeno di alzare il prezzo. Resta da capire se esiste un prezzo adatto a farli di nuovo impegnare, a fargli mettere la faccia, a metterli almeno nominalmente contro i talebani e gli insorti.
Ma che cosa accadde davvero quel 18 agosto nella valle di Uzbin? Appena due settimane prima, il 4 agosto del 2008, i francesi avevano preso il controllo della zona di Surobi, circa 50 chilometri a Est di Kabul, rilevando gli italiani del 4° reggimento Alpini paracadutisti e del 185° Rrao (Reggimento ricognizione e acquisizione obiettivi). Il cosiddetto “distretto di Surobi” comprende quattro valli: Maypar, Tezin, Jegdalek e Uzbin. Quest’ultima è sempre stata la più difficile. Il comando italiano aveva trasmesso a quello francese tutti i “warnings”- gli avvertimenti - durante il normale periodo di affiancamento che il comandante che sta per assumere la responsabilità fa con quello che la sta per lasciare. I francesi erano stati anche avvertiti del fatto che la valle di Uzbin era particolarmente delicata perché ha una sola via d’accesso fra le montagne e perché, all’interno, non c’è copertura radio. Almeno con gli apparati usati comunemente. Gli italiani erano lì dal dicembre del 2007, quando avevano a loro volta rilevato un contingente turco, e avevano imparato a conoscere tutti i pericoli. Avevano avuto anche una vittima: il maresciallo Giovanni Pezzulo, ucciso il 13 febbraio del 2008. Per i francesi la prima operazione di una certa importanza si trasforma in disastro. Due plotoni, circa 60 uomini, entrano nella valle: ogni parà ha soltanto cento proiettili, due sole mitragliatrici di medio calibro sulle camionette, nessun supporto di artiglieria, tantomeno ae-
zio della missione 25 soldati danesi hanno perso la vita: in proporzione, il contingente più colpito della missione internazionale. Nel frattempo, alla Casa Bianca si lavora ininterrottamente per rilanciare la strategia militare in Afghanistan: ieri, nello Studio Ovale, si sono riuniti i vertici militari e quelli politici. E mentre l’amministrazione dilata i tempi della sua decisione il segretario di Stato, Hillary Clinton, torna a puntare l’atten-
zione sugli errori della precedente amministrazione. Le decisioni prese dal 2001 sono state «poco realistiche», ha detto Clinton, sottolineando la necessità di una profonda revisione della missione a Kabul. Il capo della diplomazia americana ha detto alla Cnn che nella guerra sono state impiegate meno risorse del necessario e che l’errore dell’ex presidente Bush fu di spostare tutta l’attenzione sull’Iraq.
reo. L’imboscata li coglie di sorpresa e quando i paracadutisti finiscono le munizioni, c’è l’ultimo assalto all’arma bianca e il massacro. Oltre ai dieci morti, 21 parà vengono feriti. Soltanto l’intervento - tardivo - dell’aviazione Usa salva gli altri soldati.
Le polemiche sono roventi in Francia. E gli italiani vengono subito criticati. Secondo il comando francese, si sarebbero asserragliati dentro le Fob - le basi operative avanzate - dopo la morte del maresciallo Giovanni Pezzulo e avrebbero quindi abdicato alla missione di controllo dell’area infestata non soltanto dai
I parà francesi erano arrivati appena da due settimane nella zona di Surobi quando penetrarono nel santuario dei talebani e fu strage talebani, ma anche dalle milizie di Gulbuddin Hekmatyar, signore della guerra locale. Ma gli stessi giornali francesi - da Le Monde a Libération al Canard Enchaîné - scoprono rapidamente che, in realtà, gli italiani non hanno fatto altro che applicare quella che è sempre stata la loro strategia: cercare l’appoggio della popolazione. Cominciando con l’individuazione dei malek, i capivillaggio, e realizzando attraverso il Cimic (la Coopreazione civile e militare) scuole, ponti, strade, pozzi, infrastrutture. Bilancio, nei mesi di permanenza degli italiani, una clinica, un ponte pedonale sospeso di 70 metri, altri tre ponti pedonali più piccoli e trenta pozzi d’acqua potabile, tre scuole, due cliniche veterinarie. Si possono considerare tangenti per non essere attaccati? Anche il comandante in capo delle forze Usa, il generale Stanley McCrystal, adesso vuole usare questi metodi, come gli americani hanno già fatto in Iraq, del resto. Di sicuro i francesi non hanno avuto il tempo di farlo.
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Diritti umani. Approvato il dossier che dovrebbe arrivare al Consiglio di sicurezza utti scontenti, una volta tanto l’Onu ha raggiunto l’unanimità su qualcosa: nessuno è d’accordo, nè Israele e neanche Hamas. Con 25 voti a favore, 6 contrari e 11 astensioni il Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite ha approvato il rapporto della Commissione Goldstone sull’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza. L’Italia è uno dei sei Paesi che ha votato contro il Rapporto stilato dal giudice sull’offensiva sudafricano israeliana Piombo fuso. Approvato in seno al Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite, e nel quale si accusano lo Stato ebraico e il Movimento di restistenza islamica di essersi macchiati di crimini di guerra.
T
Stando a quanto riporta il quotidiano israeliano Ha’aretz, oltre all’Italia, hanno contro votato l’approvazione del rapporto gli Stati Uniti, l’Olanda, l’Ungheria, la Slovacchia e l’Ucraina; si sono invece astenuti undici Paesi: Bosnia, BurkinaFaso, Camerun, Gabon, Giappone, Messico, Norvegia, Belgio, Corea del Sud, Slovenia e Uruguay. A favore si sono espressi invece Cina, Russia, India, Egitto, Giordania, Pakistan, Sudafrica, Argentina, Bahrain, Bangladesh, Bolivia, Ghana, Indonesia, Gibuti, Liberia, Qatar, Senegal, Brasile, Mauritius, Nicaragua e Nigeria. Il documento – presentato su iniziativa dell’Anp e con il sostegno dei Paesi dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, i non allineati e gli africani – approderà così al Consiglio di Sicurezza, dove presumibilmente il veto statunitense impedirà l’adozione di una risoluzione di condanna. A nulla sono valsi i tentativi statunitensi e dell’Ue per ritardare il voto in seno al Consiglio: l’approvazione è destinata a rimanere probabilmente simbolica, ma complica ulteriormente la ripresa del processo di pace israelo-palestinese. Il principale perdente politico della vicenda rischia però di essere il presidente dell’Autorità Nazionale palestinese, Abu Mazen, preso tra
Goldstone scontenta tutti Durante l’operazione Piombo fuso «solo vittime civili: abusi di Hamas e Israele» di Pierre Chiartano
circa 1400 palestinesi e nove israeliani. La maggior parte dei palestinesi uccisi dalle forze israeliane sarebbero civili non armati e in 300 casi si tratterebbe di bambini. I razzi lanciati dai palestinesi hanno ucciso tre civili israeliani e sei soldati, mentre altri quattro militari israeliani sono stati uccisi dal cosiddetto ”fuoco amico”. Le forze israeliane hanno inoltre condotto attacchi ritenuti «sconsiderati» dal rapporto e su larga scala, riducendo in rovina intere zone di Gaza e civili palestinesi sarebbero stati usati come scudi umani. In particolare è stata resa nota la tecdetta nica «Johnny» ovvero neighbor procedure, dove i militari utilizzavano i vicini di casa per controllare gli appartamenti, dove si riteneva fossero nascosti i miliziani armati. Una vicenda emersa in luglio, quando un soldato della brigata Golani aveva racconatato la vicenda al quotidiano Ha’aretz. All’epoca era sceso in campo il ministro della Difesa, Ehud Barak per appoggiare l’operato degli uomini di Tsahal, l’esercito con la stella di David.
Intanto Hamas
Con 25 voti a favore, 6 contrari (fra cui l’Italia) e 11 astensioni il Consiglio dei Diritti umani dell’Onu ha adottato il controverso rapporto l’incudine di Israele e il martello di Hamas: alla decisione iniziale di presentare il rapporto, dettata dalla necessità anche di una riconciliazione interpalestinese, è seguito un ripensamento su insistenza dell’amministrazione Obama, timorosa delle ripercussioni negative sulle trattative con Israele. E infine una nuova marcia indietro dopo le proteste di Hamas. Con il risultato che sia Israele che Hamas considerano ora Abu Mazen poco affidabile e vulnerabile politicamente. Dal punto di vista israeliano non lo rende un partner con cui avviare trattative serie, né apre la strada a un fronte unito palestinese che, secondo Washington, è
condizione necessaria perché qualunque accordo possa venire rispettato, in tutti i territori, e non sia limitato alla sola Cisgiordania.
Amnesty International, intanto, ha chiesto a tutti gli organismi delle Nazioni Unite di agire immediatamente e in modo coordinato, per attuare le raccomandazioni emerse dal rapporto. «Il Consiglio Onu dei diritti umani deve fare proprio il rapporto e le sue raccomandazioni e chiedere al Segretario generale di trasmetterlo al Consiglio di sicurezza» – ha dichiarato Donatella Rovera, che ha guidato le indagini di Amnesty International sul conflitto a Gaza e in
Israele. «Il Consiglio di sicurezza e altri organismi dell’Onu devono prendere tutti i provvedimenti necessari per garantire che le vittime ricevano la giustizia e la riparazione dovute e che i responsabili dei crimini non rimangano impuniti». «Se Israele e Hamas non svolgeranno indagini serie entro un periodo stabilito e breve di tempo, il Consiglio di sicurezza dovrà trasmettere le conclusioni del rapporto al procuratore della Corte penale internazionale» ha aggiunto la Rovera. La Missione di accertamento dei fatti diretta dal giudice Goldstone, ha reso note le sue raccomandazioni in un rapporto di 575 pagine, diffuso martedì 15 settembre. Nelle conclusioni del dossier riecheggiano quelle delle missioni di ricerca svolte da Amnesty sui 22 giorni di conflitto, nel corso del quale sarebbero stati uccisi
ha fatto sapere che firmerà, il prossimo 25 ottobre, l’accordo di riconciliazione palestinese: lo ha affermato uno dei dirigenti politici dell’organizzazione estremista, Mahmoud al Zahar, intervistato dal quotidiano francese Liberation. «Firmare un documento d’intesa non è difficile, ma per una vera riconciliazione è necessario un contesto appropiato ed ora non è ancora giunto il momento», ha però avvertito Zahar, sottolineando, come per Hamas, il partito moderato di al Fatah abbia «partecipato all’aggressione contro il popolo palestinese» sostenendo inizialmente l’approvazione del rapporto Goldstone. Fatah da parte sua ha annunciato di aver già trasmesso ai mediatori egiziani la copia firmata dell’accordo. Fonti diplomatiche del Cairo hanno tuttavia reso noto che la ratifica del documento è stata rinviata a data da destinarsi per dare ad Hamas più tempo per esaminarne il testo.
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La protesta chiede l’aumento dei prezzi delle materie prime
Il Pakistan vicino alla crisi umanitaria per l’esodo dal nord
Parigi, gli agricoltori danno fuoco ai Campi Elisi
Peshawar, ennesimo attentato: 11 morti
PARIGI. Colonne di fumo di
ISLAMABAD. Ennesimo attenta-
pneumatici bruciati e balle di fieno ai Campi Elisi, bloccati da gruppi di agricoltori che protestano contro il calo dei prezzi dei prodotti agricoli. I primi blocchi, con cassette di legno e balle di fieno, sono stati piazzati già alle 7.30 da manifestanti del settore cerealicolo: «Il mondo agricolo sta morendo», spiega Damien Greffin, presidente dei Giovani Agricoltori dell’Ilede-France (la regione parigina); «Chiediamo un aumento dei prezzi delle materie prime: un chilo di grano si vende attualmente a 9 centesimi, contro un costo di produzione pari a 14 centesimi». La Federazione nazionale dei sindacati dei produttori agricoli (FNSEA) reclama un piano di aiuti di 1,4 miliardi di euro, di cui 400 milioni di euro di sgravi fiscali urgenti per garantire liquidità immediata ai produttori. Gli agricoltori francesi reclamano anche un’armonizzazione delle politiche sociali a livello europeo per evitare il ”dumping social” che consente di produrre in alcuni paesi a costi inferiori. Manifestazioni si sono svolte in mattinata anche in altre città della Francia, nel quadro di questa giornata di mobilitazione. In una lunga intervista pubblicata su Le Figaro, il presidente francese Nicolas Sarkozy promette iniziative for-
to in Pakistan. Una bomba è esplosa ieri all’interno di una stazione di polizia a Peshawar, nel nord-ovest del Paese. Il bilancio sarebbe di almeno 11 morti e 13 feriti, tra cui alcuni civili. Secondo la tv araba al-Jazeera, gli autori dell’attentato sarebbero stati due kamikaze a bordo di una moto. Si tratterebbe di un uomo e di una donna, seduta dietro al conducente, che sono stati visti mentre cercavano di avvicinarsi il più possibile al commissariato. Nel momento in cui le guardie hanno tentato di fermarli, la donna, che indossava il burqa, avrebbe azionato la cintura epslosiva che aveva addosso. L’edificio colpito ospitava i criminali e i guerriglieri
Il Time vola a Detroit e cerca il vero rilancio Un anno di reportage per far ripartire la città in crisi di Nicola Accardo opo Sergio Marchionne, che ha scelto il quartiere di Birmingham vicino alla sede della Chrysler, anche il “Time” ha preso casa a Detroit. Una villa, sei camere e quattro bagni, circondata da alberi immensi, nel quartiere di West Village, la periferia deserta della città più povera degli Stati Uniti, un tempo tempio dell’automobile (General Motors) e motore dell’industria americana. Una casa del genere costerebbe almeno mezzo milione di dollari in qualsiasi altra città d’America. Non a Detroit, nel Michigan devastato dalle confische e i pignoramenti, dove ne vale 14.000. Il Time l’ha acquistata per 99.000, il suo primo regalo alla metropoli lacustre, per farne il quartier generale del “Detroit assignment”: un anno di reportage a Detroit, per comprendere “La morte - e la possibile vita - di una grande città”. Con questo titolo lo storico reporter Daniel Okrent ha aperto il numero del 5 ottobre. In copertina “La Tragedia di Detroit” e un quartiere sventrato, con i segni di una distruzione iniziata negli anni ’60, quando la città inizio a svuotarsi, perdendo ad oggi metà dei circa un milione e 800mila abitanti di allora e ribaltando la composizione etnica: i bianchi sono ora solo il 20% della popolazione. Nel “DShack”dormiranno e lavoreranno per un anno decine di giornalisti. Non solo del Time, ma anche di tutte le altre riviste e i rispettivi siti internet che gravitano intorno al gruppo Time Inc.: “Fortune”, “Money”, “Essence”, “Sports Illustrated”e “CNNmoney.com”. La casa sarà aperta a tutti, a discussioni e dibattiti, a cene con le autorità locali e con tutti gli attori sociali che vogliono che si torni a parlare della undecisima metropoli degli Stati Uniti (negli anni ’50 era la quarta), dove la disoccupazione tocca il 29% (il 15% nello stato del Michigan, la media più alta negli Stati Uniti), le grandi catene di distribuzione nazionali non hanno neppure un supermercato e il tasso di analfabetismo è del 50%.Tutto iniziò quando Leon Panetta, direttore della Cia, si recò per cercare reclute a Dearborn, periferia abitata da una popolazione quasi esclusivamente di origine araba. Un evento,
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per il Time e l’inviato Bobby Gosh, che si fermò per la festa di fine Ramadan e incontrò Fay Beydoun, direttore generale della Camera di commercio arabo-americana e Baha Saad, il più ricco ristoratore della città.
Dopo una lunga discussione, invece di tornare in albergo, il giornalista raggiunse tre colleghi partecipavano a un dibattito con i principali agenti immobiliari sulla crisi del mattone. La conferenza si svolgeva nella villa che Gosh e soci hanno deciso di acquistare. Solo sensazionalismo e pubblicità per un’azienda in crisi, o una sfida giornalistica sincera? «Ogni volta che nel giornalismo si fa qualcosa di diverso dal seguire conferenze stampa o eventi annunciati, si viene accusati di voler fare solo pubblicità - spiega Okrent, originario di Detroit e autore della prima inchiesta - Invece io trovo grandioso che proviamo a fare qualcosa che lasci il segno». L’idea è di ridare vita all’«obitorio del Michigan», secondo la definizione che lo stesso Time diede a Detroit nel 1961, quando Chrysler aveva già licenziato 80.000 dei suoi 130.000 dipendenti a causa della recessione. L’idea è di dare rilievo alle prospettive di sviluppo della città, in cui nascono aziende che guardano alle energie rinnovabili. Di dare voce agli ottimisti, a coloro che amano Detroit, città musicale culla della techno, di Madonna e Eminem. Detroit non ha avuto la «fortuna» di essere colpita da un uragano come New Orleans, o da una qualsiasi catastrofe naturale perché il mondo si soffermi sulla sua sofferenza, ha scritto Okrent. «Solo in quel caso il resto del Paese si sarebbe accorto del disastro che ha devastato quella che un tempo era la prova vivente della prosperità americana». Nessuna stigmatizzazione dei mali, nessuno stereotipo, solo un bilancio del disastro e delle prospettive di rinascita: «Non vogliamo essere delle cheerleader, e neppure fare apologia - ha promesso il direttore Huey a chi teme che le critiche a Detroit e al suo passato siano controproducenti - Vogliamo davvero che Detroit guarisca e trovi la sua via verso il futuro».
Nella “baracca” comprata dai dirigenti vivranno insieme decine di giornalisti: per evitare licenziamenti e crolli economici
ti sul dossier agricolo entro la fine di ottobre: «Dobbiamo cominciare a considerare gli agricoltori come degli imprenditori e garantire loro una giusta remunerazione del loro lavoro». La questione è anche all’esame della Commissione europea, che ha da molto tempo dei piani di sostegno per l’agricoltura in Francia. In effetti, proprio questi progetti “protezionisti” nei confronti degli agricoltori diretti ha più volte scatenato delle critiche nell’emiciclo di Bruxelles. Il Parlamento europeo, infatti, vorrebbe revocare i fondi (considerati troppi) destinati alla Francia per gli interventi rurali. Parigi ha più volte rigettato queste accuse, e si tiene strette le sovvenzioni.
sotto interrogatorio da parte delle forze di sicurezza. Nell’attentato è stata danneggiata anche una moschea nelle vicinanze. Si tratta di una delle tante esplosioni che stanno insanguinando il Pakistan negli ultimi tempi: nel giro di due settimane, il Paese è stato teatro di una serie numerossisima di attentati, costati la vita a più di 150 persone. La spirale di violenza si è aggravata dopo l’uccisione, nell’agosto scorso, del leader talebano, Baitullah Mehsud, da parte di un drone statunitense. Solo ieri un’altra autombomba era esplosa davanti a una scuola di Peshawar, uccidendo un bambino e ferendo una decina di persone. Sempre ieri una serie di attacchi ha colpito i quartieri militari di Lahore, seconda città del paese: in totale sono morte una quarantina di persone, tra civili e taliban. Il Paese si prepara poi ad affrontare una nuova emergenza umanitaria. L’annunciata offensiva di terra dell’esercito nel South Waziristan ha causato la fuga di circa la metà dei 500 mila abitanti della regione. Dall’agosto scorso oltre 200 mila persone hanno abbandonato le proprie abitazioni, 90 mila delle quali solo negli ultimi giorni. Ieri, intanto, un raid dell’aviazione ha colpito potenziali rifugi dei talebani, uccidendo 27 persone.
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spettacoli
Cartolina da Roma. L’attore di Philadelphia ci racconta le riprese della pellicola, una commovente «storia d’amore» tra un professore e il suo fedelissimo cane
Padroncino e gentiluomo A tu per tu con Richard Gere, al Festival del Cinema della Capitale con il film “Hachiko” di Lasse Hallstrom di Pietro Salvatori
ROMA. Richard Gere è ormai di casa al red carpet dell’Auditorium capitolino. Nell’ottobre del 2006 vi sfilava per presentare The Hoax-L’imbroglio, pellicola che non lasciò il segno. Ci riprova tre anni dopo, guidato dallo stesso regista, lo svedese Lasse Hallstrom, con una storia ben più intensa, anche se quasi impalpabile per la delicatezza con la quale viene narrata. È quella di Hachiko, un cane di razza akita, e dell’amore infinito per Parker Wilson, professore di musica e suo padrone. Rapporto passato alla storia nel Giappone degli anni Trenta - il film è tratto da una storia vera - perché il fedelissimo cane è tornato ad aspettare il padrone alla medesima fermata alla quale tornava tutti i giorni dal lavoro per ben 9 anni. La storia di Hachiko suscita grande commozione, anche se è molto semplice. A volerla raccontare basterebbero un paio di righe. Allungarla per un intero film non ha nuociuto alla sua efficacia? Credo che abbia ragione su un punto: la storia era semplice e la sfida era essere semplici come la storia. Durante il montaggio abbiamo eliminato molte parti in modo che la narrazione fosse semplicissima. In qualche modo è un film muto, quasi come raccontare una storia attorno a un falò, della serie “Hai mai sentito la storia di quel cane...”. Si trattava semplicemente di far vivere il cuore della storia, il rapporto con l’animale. Non ci sono giochi cinematografici. Il rapporto animale-persona, nel film emerge come se fosse una relazione quasi spirituale... La storia vera in Giappone parlava di un uomo anziano, un professore, che aveva preso questo cane. Ma c’era qualcosa di interessante nel prendere una persona di mezza età come quella che interpreto io, prendere qualcuno che non era detto che sarebbe uscito di scena di lì a poco; è un qualcosa relativo alla forza della vita, qualcosa di spirituale. L’ha resa una storia semplice, per bambini, ma anche una favola per adulti. È una storia misteriosa nel suo funzionamento, ha una grandissima forza
interiore. Quando ho letto il copione anche io ho pianto come un bambino. Si tratta di qualcosa che ha a che fare con la pazienza, l’accettazione, l’amore e la compassione. Tutte cose che ci rappresentano se ci guardiamo veramente allo specchio. È più difficile recitare con un cane o con un attore? Guardi, questa è una vera e propria storia d’amore, le persone parlano di amicizia tra il protagonista e il suo cane, ma invece è una storia d’amore, nel senso profondo, che riguarda la qualità interiore dell’essere, non il sesso o il genere dei protagonisti. Non abbiamo quasi mai addestrato il cane, solo in rarissimi casi, per due tre scene. Per il resto ab-
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non dirgli mai cosa bisognasse fare, e con il cane abbiamo fatto lo stesso. E lei ha animali in casa? Ho un cane, ho sempre avuto cani sin da quando ero piccolo, forse da quando avevo un anno: si chiamava Chipper, un cucciolino dal pelo chiaro. Poi è arrivata Billy, una femminuccia. Per me il cane è un compagno molto speciale, ed è sicuramente una delle ragioni per cui ho voluto fare questo film. Quali sono i film che ha rifiutato di fare? Che non farebbe mai? Beh, questo film per me era scontato farlo, perché viene da un retroterra filosofico e spirituale che mi appartiene, anche se non credo che sia una storia particolarmente buddista, ma per me era interessante creare questo collegamento con il Giappone, con quella prima sequenza ambientata in un monastero zen. Per il resto, ci sono pochi film dei quali non vado orgoglioso, forse un paio, ma succede a tutti. E non vi dirò mai quali sono! Ha scelto di interpretare questo film pensando anche a suo figlio, che ormai ha 9 anni? Certo che ho scelto di recitare in questa pellicola perché pensavo potesse essere un film per mio figlio. È forse il primo che decido di fare per questo motivo. Solo dopo mi sono accorto che forse funziona meglio con gli adulti anziché con i bambini. Quanto ha cambiato la sua vita l’incontro con il Dalai Lama? Praticavo il buddismo già prima di incontrarlo, avevo tra i venti e i trent’anni, i miei maestri erano antichi maestri zen giapponesi. L’incontro con lui ha avuto un impatto fortissimo. Mi sono reso conto che era quello che volevo, arrivare al punto di coscienza in cui lui si trovava, raggiungere uno stato di pace e consapevolezza. Quanto sente ancora sua la cultura occidentale? Non è poi così differente, c’è un afflato diverso, ma si affrontano le stesse problematiche, si indaga sulle stesse questioni. Mi colpì molto il vescovo Burkley, filosofo anglicano, che diceva che la realtà è una funzione della mente, che non c’è nulla di definito all’esterno. Questo è un modo comune di sentire nel buddismo. C’è comunicazio-
Ho accettato il ruolo pensando a mio figlio, che oggi ha 9 anni. Quando ho letto il copione ho pianto come un bambino. Forse perché è anche una favola per adulti
”
biamo ricreato un ambiente di fiducia, in modo che il cane fosse a proprio agio, aspettando che accadesse qualcosa di magico, e ci è voluta molta pazienza, era come lavorare come un bambino. Qualche anno fa ho fatto un film con Altman, stava girando con dei bambini ed era bravissimo, ed il segreto, mi spiegò, era
ne tra Oriente e Occidente, culturalmente ma anche scientificamente. Le due visioni sono entrambe valide, e in questo momento è interessante il connubio tra questi due universi, è estremamente importante vista la situazione globale in cui ci troviamo. Che ne pensa del Nobel per la Pace a Obama? E voi cosa ne pensate? Nel mondo tutti amano Obama, ma si chiedono “perchè proprio ora questo premio”? Io credo perché può essere un grandissimo incoraggiamento, un modo per ricordargli il motivo per cui è stato eletto alla Presidenza. Lo può preservare dall’immobilismo. Lui è uno con una visone, che parla all’angelo più compassionevole dei nostri cuori. Per il potenziale che incarna è un uomo straordinario. E sulla situazione internazionale è ottimista o pessimista? Per mia inclinazione sono ottimista, e le cose migliori succedono quando si è ottimisti. Siamo tutti interconnessi: comunicazione, trasporti, siamo tutti collegati. Se noi inte-
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Elegante il film di Ivory. Peccato invece per “Viola di mare”...
E la kermesse si tinse di qualità di Andrea D’Addio
ROMA. Un cane che non dimentica, gista americano, spiccano i volti del fedue ragazze omosessuali nella Sicilia di fine Ottocento, un professore americano di letteratura giunto in Uruguay per conoscere la famiglia dello scrittore di cui vorrebbe scrivere la biografia. Sono questi i protagonisti dei tre film principali presentati ieri al Festival del cinema di Roma. Tornati finalmente i fotografi dopo la polemica con l’organizzazione, rea di non aver provveduto ad ampliare lo spazio per il photocall nonostante due anni di lamentele e richiami, il secondo giorno della rassegna ha raccolto un pizzico di ogni elemento di cui un festival ha bisogno per aver successo. A farsi carico di quel glamour che sarebbe tanto servito durante la spoglia serata inaugurale del giorno prima è stato Richard Gere. Occasione è stata la presentazione di Hachiko: a dog’s story di cui l’attore americano è solo coprotagonista.Vera star del film è infatti l’eponimo Hachiko: cane eroe nazionale in Giappone per avere aspettato dieci anni consecutivi davanti la stazione di un piccolo paesino, il proprio padrone, morto però un giorno improvvisamente dopo essersi recato a lavoro. La produzione è statunitense e così la storia è emigrata dall’altra parte del Pacifico e riattualizzazione ai giorni nostri (dagli originali anni Venti dell’episodio). Quasi obbligata la lacrima di commozione per gli spettatori, specie se padroni a loro volta di animali domestici. Ricatto emozionale o no, il film ha ricevuto una buona dose di applausi all’anteprima mattutina della critica.
dele Anthony Hopkins (al quarto film assieme ad Ivory) e della spesso sottovalutata Laura Linney. Viola di mare è invece il titolo della versione su grande schermo di Minchia del re scritto dal trapanese Giacomo Pilati. Isabella Ragonese e Valeria Solarino si trovano ad interpretare una storia ad alto rischio polemiche.
Si parla poco di omosessualità femminile nel cinema italiano, peccato che limitatezza di budget e uno sviluppo dei personaggi protagonisti pressoché inesistente, finiscano con il rendere il tutto rarefatto e lontano, comprese delle scene di nudo che mostrano, ma non trasmettono alcun tipo di amore. Non è un’anteprima mondiale, né un vero e proprio film, ma la visione di American Prince era comunque un evento molto atteso. A dirigere infatti questo documentario di circa quaranta minuti del 1978 fu Martin Scorsese. Inedito in Italia, si tratta di un’intervista a Steven Prince, manager musicale di Neil Diamond che divenne una figura cult di Hollywood per la capacità di ricordare centinaia di aneddoti sullo star system. Vi ricordate la puntura di insulina in Pulp Fiction e il furto delle gomme di A waking life? Di questi episodi Prince parlava già trent’anni fa. A farlo notare è un secondo documentario, proiettato subito dopo quello di Scorsese, girato oggigiorno da Tommy Pallotta. Glamour, sofisticatezza, cinema italiano, chicche da cinefili. E non solo. Ieri è stata la volta anche dell’incontro con il pubblico di Gabriele Muccino e Giuseppe Tornatore. In una sala gremita, i due registi hanno commentato i momenti di cinema che più hanno apprezzato l’uno dell’altro.Tante le domande degli spettatori, buon esempio di come l’amore per il cinema non si esaurisca spesso con la semplice visione. Forse sono una minoranza, ma c’è ancora chi trova piacere a chiedere di un’inquadratura anziché di una prova di balletto o di un litigio avvenuto nel tugurio. Per loro, meglio la finzione realistica del grande schermo, che il falso realismo del piccolo.
Ieri, anche l’incontro col pubblico di Muccino e Tornatore, che hanno commentato i momenti di cinema che più hanno apprezzato l’uno dell’altro
riorizziamo questa condizione, come razza possiamo crescere moltissimo. La nostra missione è quella di aiutarci l’un l’altro. L’America ha sfruttato per lungo tempo il resto del mondo, e dobbiamo cambiare direzione. Ma perché le cose cambino, anche il resto del mondo si deve muovere nello stesso verso.
In alto, una foto di Richard Gere al Festival del cinema di Roma. Nella pagina a fianco, la locandina del film di cui è interprete “Hachiko”. A destra, la locandina della pellicola “Viola di mare”, anch’essa presentata alla kermesse capitolina
L’eleganza formale di James Ivory per The city of your final destination ha invece provveduto ad accontentare i palati di chi ama quel cinema fatto di parole eleganti, ritmi compassati e riflessioni sul senso della vita che normalmente proviene dalla pagina scritta. In questo caso l’origine è il romanzo Quella sera dorata di James Cameron. Ne risulta una pellicola profonda e al tempo stesso fluida su come la storia di ognuno di noi si possa trasformarsi in una biografia degna di essere letta e raccontata. Nel bel cast riunito dal re-
società
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o scenario internazionale è profondamente cambiato. È più incerto nelle dinamiche evolutive; più complesso e interdipendente nei problemi da affrontare; più instabile nelle gerarchie internazionali che lo rappresentano. Ovunque e in qualsiasi momento, è aumentato il senso di insicurezza personale e collettiva dei cittadini. Negli ultimi anni, mentre nuove potenze emergevano sullo scacchiere internazionale, la globalizzazione ha mostrato il suo duplice volto. A quello delle opportunità, con l’aumento della competizione tra gli Stati, si è affiancato quello delle forti interdipendenze, della crisi economica globale, di minacce non convenzionali e sfide trasversali: cambiamenti climatici, immigrazione, emergenza alimentare, pandemie, sicurezza energetica, il problema dell’acqua quale bene primario ed essenziale.
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È un dovere delle comunità internazionali, nazionali e regionali innovarsi, governare l’incertezza, disponendo delle risorse finanziarie, umane e soprattutto etiche adeguate per superare le difficili prove sulle quali è basato l’attuale confronto e sconfiggendo gli egoismi: il 10% della popolazione mondiale consuma il 60% delle risorse disponibili. Servono cioè nuove regole, mettere in campo meccanismi che correggano le crescenti disparità tra i Paesi avanzati e quelli rimasti ai margini: molti paesi in via di sviluppo dimostrano di avere compiuto importanti progressi, anche se in modo non omogeneo e con il perdurare di forti ineguaglianze all’interno dei singoli Stati. Sfortunatamente, in Africa, questo iter di miglioramento è sempre lento e stentato. Lo sviluppo del continente dipende innanzitutto da un buon governo interno: i Paesi africani hanno bisogno di cultura e governi democratici forti e sostenibili, ma ogni nazione deve dar vita alla democrazia autonomamente, in linea con le proprie tradizioni. Ogni nazione deve, cioè, essere nelle condizioni culturali, prima ancora che economiche, sulle quali costruire il proprio governo e sviluppo democratico. Il cambiamento culturale deve essere ispirato al valore della laicità sociale e religiosa: non esiste chi ha ragione e chi ha torto, ma diversi modi di guardare al mondo che devono integrarsi e convivere sulla base di valori umani condivisi. A seguito del Vertice G8 de L’Aquila, l’Africa sembra però giunta a un punto di svolta. Le sue problematiche sono state messe al centro dei lavori e hanno avuto ampia risonanza a livello mediatico internazionale, anche grazie all’impegno assunto dal presidente statunitense Barack Obama. Una grande occasione per parlare di impegno contro la
In basso, un’immagine di alcuni bambini del Sud Africa. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace dedicato al Continente nero
Cooperazione. Le risposte di un’associazione umbra ai problemi del Continente
La cultura in campo per il futuro dell’Africa di Ada Girolamini e Paul Dongmeza povertà, per la promozione dello sviluppo e del dialogo con i Paesi Africani, per battersi con fermezza contro la violazione dei diritti umani e le violenze su donne e bambini: non vi è né sviluppo economico, né pace senza affermazione dei diritti umani. L’auspicio è che l’Italia promuova un approccio inno-
vativo allo sviluppo dell’Africa, che non sia esclusivamente focalizzato sul volume degli aiuti, ma su tutti i fattori in grado di innescare processi di crescita sostenibile: istruzione, sicurezza, governance democratica, sanità e sviluppo. La portata della sfida contro la povertà è infatti tale da richiedere la mo-
sposta comune a problemi comuni; (2) inclusività, mirando a coinvolgere maggiormente i nuovi Paesi emergenti nei processi decisionali; (3) efficacia, partendo dalla convinzione che la legittimità delle istituzioni proviene soprattutto dalla loro performance, cioè dalla loro capacità di risolvere concreta-
L’Italia deve farsi promotrice di un approccio agli aiuti innovativo, focalizzato il più possibile su istruzione, sicurezza, governance democratica, sanità e sviluppo. Questa è la sfida del mondo di oggi e di quello che verrà bilitazione di tutte le risorse disponibili: non solo aiuti pubblici ma anche investimenti privati, commercio, fonti di finanziamento innovative, cancellazione del debito, rimesse. Coinvolgendo tutti gli attori: enti pubblici, privati e società. Come affermato dal ministro Frattini a Perugia «il funzionamento di questo nuovo sistema dove ispirarsi a quattro principi fondamentali: (1) una responsabilità condivisa, affinché ogni attore internazionale, Paesi sviluppati e Paesi emergenti, faccia di più e meglio la sua parte per contribuire a dare una ri-
mente i problemi che interessano i cittadini; (4) sostenibilità, poiché abbiamo bisogno di ridurre volatilità e incertezza, assicurando stabilità al sistema finanziario e alla crescita dell’economia». La tutela della salute è un altro punto di vitale importanza. Secondo l’Unicef, in alcuni paesi dell’Africa subsahariana, la mortalità infantile è talmente elevata che un quinto dei bambini muoiono prima di compiere cinque anni. La malnutrizione, la piaga della diffusione del virus Hiv, la mortalità legata al parto, sono alcuni delle cause che genera-
no ogni anno un triste bilancio di vittime. Un’altra grave questione è legata alle mutilazioni genitali femminili. Nessuna giustificazione può essere addotta per continuare a infliggere a ragazze e bambine la violenza di una pratica, che da centinaia di anni, consente all’uomo di esercitare la propria potestà sul corpo femminile e di controllarne la sessualità. Come è emerso durante la recente Conferenza Internazionale contro la Violenza sulle Donne, la protezione e la promozione dei diritti umani delle donne costituiscono la “lente” attraverso cui guardare alle complesse dinamiche sociali di discriminazione che sono alla radice della violenza. Come Associazione Umbria-Africa abbiamo recentemente dedicato una giornata al tema della lotta contro le schiavitù; oggi nonostante la schiavitù sia stata ufficialmente bandita, si ripresenta sotto nuove forme, non meno drammatiche di quelle antiche. Assume talvolta le sembianze della repressione psicologica, altre volte assume tratti di violenza fisica, più spesso si presenta sotto le spoglie del razzismo e dello sfruttamento. L’Associazione Umbria-Africa, si impegna quotidianamente per favorire la conoscenza e la reale comprensione dei paesi africani e degli africani, per promuovere iniziative culturali volte ad affrontare le problematiche legate alla presenza di immigrati africani anche nella nostra Regione e per mobilitare la società politica locale e nazionale verso azioni di cooperazione e di partenariato capaci di rispondere in modo efficace ai reali bisogni e giuste aspirazioni delle popolazioni africane. Vogliamo, anche in Umbria, contribuire alla sfida dell’Africa che è la sfida del mondo di oggi.
Attraverso le adozioni a distanza, che sono una piccola goccia, possiamo contribuire all’istruzione di bambini e giovani protagonisti dello sviluppo della loro Africa. L’aver svolto in collaborazione con l’Università per Stranieri di Perugia questa commemorazione dà proprio il segno di come al centro del nostro impegno ci sia la ricca intelligenza delle donne e degli uomini africani. Ovviamente, la strada da percorrere sarà lunga e tutt’altro che priva di ostacoli, ma aver riconosciuto la centralità dell’Africa nel futuro equilibrio mondiale e aver tracciato obiettivi concreti rappresenta di per sé un punto di partenza importante. Il consolidamento della democrazia, dello stato di diritto, il rispetto delle minoranze e dei diritti umani, l’istruzione, aiuteranno l’Africa a uscire dalla drammatica situazione che sta vivendo. Esiste un’Africa ricca di risorse naturali, culturali ed umane che meritano di esprimersi nel più breve tempo possibile.
spettacoli
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Musica. A 40 anni di distanza, esce la triplice ristampa della consacrazione live, ad Hyde Park, del primo disco dei King Crimson
La band che rivoluzionò il rock di Alfredo Marziano uarant’anni fa il rock inglese voltava pagina. I Beatles lasciavano Abbey Road camminando in fila indiana sulle strisce pedonali, gli Who inscenavano la favola allegorica di Tommy, gli Zeppelin bombardavano il rock blues dall’alto del loro dirigibile, i Cream implodevano e salutavano con un disco postumo, gli Stones presentavano al mondo il nuovo chitarrista Mick Taylor chiudendo il decennio con You Can’t Always Get What You Want e il disastro di Altamont. A ottobre uscì In The Court Of The Crimson King, il primo album dei King Crimson, e nulla sarebbe stato come prima. Erano cinque illustri sconosciuti, i ragazzi del Re Cremisi (un sinonimo di Beelzebub, “l’uomo che ha uno scopo”). Due di loro, Robert Fripp e Mike Giles (con il fratello Peter), avevano saggiato il terreno con un dischetto esile e curioso, un mix di pop psichedelico e di vecchio music hall britannico che non aveva lasciato traccia nelle orecchie dei pochi ascoltatori. Nulla che facesse presagire la bomba H che Fripp, Giles e i nuovi compagni di ventura (il polistrumentista Ian McDonald, il cantante e bassista Greg Lake) stavano mettendo a punto in un caffè londinese di Fulham Palace Road.
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Il debutto pubblico in piena regola avvenne allo Speakeasy, il locale “in” della Swinging London frequentato dai vip e dalle rock star dell’epoca. Ma fu al concerto gratuito di Hyde Park del 5 luglio 1969, prima che i Rolling Stones omaggiassero la memoria di Brian Jones con i versi di Shelley e uno stormo di colombe bianche, che ebbero il battesimo del fuoco. Tracce sparse di quella incendiaria performance riaffiorano oggi nella triplice ristampa appena immessa sul mercato (un doppio cd, un cd+dvd e un cofanetto con cinque cd e un dvd arricchiti di
prove, outtakes, versioni alternative e brani dal vivo), riverniciata a nuovo in scintillante suono surround 5.1 da Steven Wilson dei Porcupine Tree con l’imprimatur e la collaborazione dello stesso Fripp. Sull’ellepì che sarebbe uscito tre mesi do-
po quella ferocia improvvisativa sarebbe scomparsa, non però la carica rivoluzionaria della musica. Fripp, un professorino follemente lucido con la zazzera da post hippy e gli occhialini da intellettuale, aveva le idee chiare e guidava i suoi con mano sicura. Era un tiranno che amava starsene dietro le quinte, un anti guitar hero che suonava seduto su uno sgabello estraendo
tura e il palato in primo piano, la versione rock dell’Urlo di Munch (era l’uomo schizoide del Ventunesimo secolo, spiegò poi Fripp, mentre all’interno della busta apribile dominava il faccione sorridente del Re Cremisi dagli occhi tristi).
Come a dire che l’utopia del flower power era già in soffitta e presto saremmo finiti sotto una cappa di piombo: l’apertura ideale e simbolica di una nuova epoca segnata dalla vo-
mellotron di McDonald (un’intera orchestra d’archi incorporata in una tastiera), il drumming agilissimo e “melodico” di Giles, la voce cristallina di Lake e i testi del poeta visionario Pete Sinfield aprivano la stagione del rock romantico e apocalittico sciorinando ballate epiche, maestose ed enigmatiche come Epitaph e The Court Of The Crimson King, oasi di surreale quiete postatomica (I Talk To The Wind), improvvisazione minimalista (Moonchild, l’unica concessione autoindulgente e inconcludente di tutto il disco). L’incantesimo durò poco: soffocati dal despota Fripp Giles e McDonald se ne andarono quasi subito per incidere un disco in duo e prendere strade completamente diverse (il mainstream radiofonico dei Foreigner, per il secondo), Lake poco dopo per formare un supertrio accanto a Keith Emerson e Carl Palmer.
E il leader, fedele a
Nel cofanetto, un doppio cd, un cd+dvd, più un altro album con cinque cd e un dvd arricchiti di prove, outtakes, versioni alternative e dal vivo
Sopra, la copertina di “In The Court Of The Crimson King”, la prima formazione della band e uno scatto più recente del gruppo
dalla sua Gibson Les Paul ronzii, miagolii e loop ossessivi mai sentiti prima, concentrato sul suono e attento a distillare assoli con monacale parsimonia. Il suo era un manifesto ambizioso e nuovo (“organizzare l’anarchia”) eppure l’album si intrufolò nei piani alti delle classifiche inglesi, americane e anche italiane. Qui da noi, anzi, diventò molto più di un disco. Un distintivo, piuttosto, o una bandiera. Un segno di appartenenza che, portato sottobraccio a scuola, dichiarava a tutti le generalità del possessore (un tipo indiscutibilmente alternativo, sognatore e molto cool, si direbbe oggi). Anche la copertina non correva il rischio di passare inosservata: un volto paonazzo con gli occhioni terrorizzati, le narici espanse, la denta-
glia di fuga e dalle tensioni sociali, stretta tra il Sessantotto e la crisi energetica. 21st Century Schizoid Man, giusto in apertura, era l’unico ricordo della sfrenata esuberanza live, un pugno nello stomaco (e lo è ancora oggi), un graffio velenoso e urticante, una corsa frenetica e labirintica tra chitarre distorte e sax urlanti all’unisono, il rythm& blues proiettato ai confini del caos e del free jazz, “gli innocenti violentati col napalm”nella guerra del Vietnam, “i poeti morenti di fame” e i “bambini sanguinanti” che cominciavano a popolare notiziari televisivi sempre più angoscianti. Dopo quella tempesta il flauto e il
una filosofia che predicava la distruzione come premessa della ricostruzione, si dedicò alla mutazione continua, ossessiva, metodica dei Crimson, una casa a porte girevoli da cui sono entrati e usciti moltissimi musicisti, arredata di volta in volta con elementi jazz, noise, prog e minimalisti. Quel primo disco rimarrà un’opera a sé: i ragazzi italiani, quanto e forse più degli inglesi, ne consumarono i solchi innamorandosi del progressive e aprendo le braccia agli epigoni più o meno meritevoli, i Genesis e gli Yes, gli EL&P e i Gentle Giant. La PFM (che allora era ancora Premiata Forneria Marconi) vi attinse a piene mani per confezionare il suo debutto, Storia di un minuto, e tracciare il suo percorso. Molti altri si sentirono autorizzati a osare e sproloquiare, inondando il rock e le nostre orecchie di moog e di mellotron, di storie fiabesche e di suite magniloquenti. Ma quella è un’altra storia e Fripp non ne ha colpa, il pioniere del prog rock aveva abbandonato quel barcone ingombrante ben prima che cominciasse a fare acqua e a inabissarsi.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
dal ”Mainichi Daily News” del 16/10/2009
Tracce di una città perduta i tratta di un cortometraggio di un giovane regista americano, girato con un gruppo di giapponesi sopravvissuti alla bomba atomica di Hiroshima. Sta iniziando ad attirare l’attenzione di critica e pubblico negli Stati Uniti, dopo aver ricevuto un’acclamazione al festival del cinema di Los Angeles all’inizio di questo mese.
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È un documentario di 15 minuti, intitolato Le tracce di una città. È stato girato nella città portuale dell’isola di Honshu, vittima dell’attacco nucleare, da Paul Sheperd, 28 anni, americano, che ha studiato tecnologia dell’immagine presso la University of Southern California. Il suo stile prende spunto e possiamo anche dire sia influenzato dalle opere di Masaaki Tanabe, 71, un esperto di computer grafica. L’anziano tecnico d’immagini virtuali è riuscito a ricreare lo scenario irrimediabilmente perso della città, l’epicentro dello scoppio della bomba atomica (che provocò 130mila morti, ndr). Un lavoro cominciato più di dieci anni fa. Sheperd è rimasto in città per un mese, durante l’estate dello scorso anno, per intervistarlo. Il documentario include scene in cui Tanabe – che ha perso i suoi genitori e il fratello minore nella deflagrazione – ricorda la sua infanzia presso il sito della sua casa natale nei pressi del Memorial Hall della città della pace (A-Bomb Dome), e alcune interviste con gli altri ex residenti di l’area. Il 4 ottobre, il documentario di Shepherd è stato presentato al Los Angeles International Children’s Film Festival e acclamato dalla critica e da parte degli oirganizzatori del festival di celluloide. Sono arrivate subito molte richieste per la proiezioni del film in diverse città degli Stati Uniti, e anche una replica a Los Angeles. Non poteva mancare nel
programma la proizione in una kermesse cinematografica proprio a Hiroshima, alla fine dell’anno. «Il film ruota intorno ai bambini che ad un tratto hanno perso le loro abitazioni a causa dell’olocausto atomico», ha commentato Nanase Takarada, 29 anni, che è stato un membro della squadra di computer grafica che ha collaborato con Tanabe. Attualmente vive negli Stati Uniti,Takarada, e ha svolto il ruolo di coproduttore per il documentario del giovane Shepherd e anche quello di coautore del soggetto.
«Forse questo film descrive situazioni che entrano in sintonia con le cose che accadono in tutto il mondo. Se i bambini americani saranno in grado di immaginare se stessi nel film, potremmo riuscire di prevenire la prossima guerra». Allo setsso tempo, l’anziano Tanabe esprime il suo apprezzamento professionale per il lavoro dell’autore americano del corto. «Voglio rispettare la passione del giovane che è venuto dagli Stati Uniti, il Paese che ha sganciato due bombe atomiche (a Hiroshima, con una potenza pari a 13mila tonnellate di tritolo che esplose a circa 500 metri di quota per aumentarne l’effetto devastante, e Nagasaki). Testimone oculare del bombardamento di Hiroshima fu il padre gesuita e futuro generale
dei gesuiti Pedro Arrupe, che allora si trovava in missione in Giappone presso la comunità cattolica della città e che portò aiuto ai sopravvissuti. Spero che l’opera del regista americano contribuirà a promuovere, presso l’opinione pubblica internazionale, l’idea di quanto sia necessaria l’eliminazione delle armi nucleari», ha affermato Tanabe. Il 9 ottobre, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha vinto il Nobel per la Pace 2009, in parte per la sua posizione anti-nucleare, ma nella testa di molti americani ancora viene giustificata quella estrema ratio, per porre fine a un lungo conflitto: il lancio delle bombe atomiche, tra cui Little boy, quella che colpì Hiroshima. Alle 08.16, ora locale, del 6 agosto del 1945.
L’IMMAGINE
Alimentazione. I bambini italiani sono i più grassi d’Europa. Colpa dei genitori “Quello che non ammazza ingrassa”. È un vecchio detto popolare che oggi dovrebbe essere invertito in “quello che ingrassa ammazza”. Si è celebrata nei giorni scorsi la giornata mondiale dell’obesità ed è occasione per fare il punto della situazione. La convinzione che i bambini grassi si concentrino nel Nord Europa, dove salsicce e patate imperano, è del tutto sbagliata. I più grassi d’Europa stanno nel nostro Bel Paese, quello della dieta mediterranea, ben il 36% fino a 18 anni, con una prevalenza per il Sud. Le conseguenze del sovrappeso sono note: malattie cardiovascolari, diabete, ecc. Che dire? Che la responsabilità primaria è delle famiglie, cioè dei genitori. Pensare di fare il bene dei propri figli ingozzandoli di cibo, spesso ad alto contenuto calorico. Trasferire questo compito alla scuola è sbagliato. La scuola insegna, la famiglia educa. Una corretta educazione alimentare nasce nelle cucine delle nostre case, prima ancora che la scuola trasferisca le informazioni alimentari nelle aule.
Primo Mastrantoni
OMOFOBIA È passata la questione dell’omofobia ma il voltagabbana, fatto all’ultimo dal Pd, esprime a chiare lettere tutta la coerenza e la durabilità della “protezione” che a chiacchiere più volte la sinistra ha finto di avere nei riguardi dei temi più “sensibili”dell’individuo, per poi riporli in un nanosecondo nel cesto dei pensieri mozzati, da ragioni di ordine superiore ovviamente, come una vera ghigliottina politica.
Luisa Secchi
PROBLEMI DELL’IMMIGRAZIONE MASSICCIA E CLANDESTINA L’immigrazione netta in Europa è a livelli record: circa 1 milione e 700mila nuovi arrivi all’anno.
La prevalenza degli europei non desidera vivere in un miscuglio di culture mondiali. Gli europei nativi esprimono l’opposizione all’immigrazione massiccia in privato, ma temono di dirlo in pubblico. La correttezza politica può intimorirli e colpevolizzarli, con l’accusa gratuita e terroristica di razzismo. Il 57% degli europei ritiene l’immigrazione eccessiva; solo il 19 la considera vantaggiosa per i loro paesi. Nelle carceri italiane, è straniero il 37 per cento dei detenuti: anche perciò, il timore per l’immigrazione cresce all’aumento della stessa. La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci ha venduto oltre 1 milione di copie. Bernard Lewis – studioso dell’Islam a
Bello con l’anima Chi pensa che trucco e parrucco siano cose da donne, non ha mai conosciuto gli Huli. Per gli uomini di questa popolazione della Papua Nuova Guinea non c’è nulla di più virile che prendersi cura del proprio corpo, a partire dai capelli. Prima delle cerimonie tradizionali, adornano la lunga chioma con piume d’uccello, foglie, margherite e pezzi di bambù
Princeton – ha detto a un giornale tedesco: «L’Europa diventerà parte dell’occidente arabico, del Maghreb». L’Islam pone i problemi più acuti, anche per la modesta attitudine ad assimilare il costume democratico occidentale. Oltre a costi economici, l’immigrazione può contribuire a sacrificare libertà essenziali. In molte nazioni europee si è resa necessaria un’intensificazione
della sorveglianza di moschee e imam radicali. Intrusioni nelle famiglie possono rivelarsi indispensabili, per impedire che le donne siano sottomesse, violentate e/o mutilate. Un ministro svedese ha proposto visite mediche nazionali delle bambine, per combattere le mutilazioni genitali, comuni presso piccole minoranze immigrate.
Gianfranco Nìbale
RACCOLTA FIRME Dopo Bergamo anche Mozzo al centro della attenzione per la raccolta firme per la proposta di legge per la detassazione dei costi di mantenimento dei figli dal reddito. Grande sorpresa per l’afflusso di tante persone che erano già informate della iniziativa. La raccolta prosegue in altri comuni della Provincia. Info http://www.udc-italia.it/ site_upload/files/2009/famiglia.pdf
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Un breve grido di aiuto Millietje, ecco un breve grido di aiuto. Avevo cominciato una lettera per te e per Mien, ma qui una lettera diventa già inattuale mentre si scrive. Oggi per la prima volta ho avuto un breve cedimento e sono svenuta nel mezzo di una grande baracca. Sono stati di nuovo giorni pesanti. Stamattina è partito un altro convoglio di 2500 deportati e ho faticato a tenere i miei genitori fuori dal treno, è una gran disperazione. E stamattina i miei buoni e cosiddetti influenti amici di qui mi hanno confidato che i miei genitori devono prepararsi a partire la prossima settimana; pian piano ma indubitabilmente il campo si svuota. Così tutto si acutizza. Senza un miracolo dall’esterno la nostra sarà una causa persa tra una settimana o due. Se solo potessimo allontanare Mischa, che vuole a tutti i costi seguire i suoi genitori, andando incontro a una morte certa. Non ci avevano detto che Mischa avrebbe potuto comunque andare a Barneveld da solo? E potrebbe ancora ricevere l’ordine di andarci, senza i suoi genitori? Ma francamente non credo che accetterebbe. Mischa dice sempre: «Se loro partono è la mia fine». Detto fra noi, è un vero calvario. Devo interrompere questa lettera, amichetta mia, sono un po’ giù di morale. Etty Hillesum a Milli Ortmann
ACCADDE OGGI
SIAMO LIBERI IN UN PAESE LIBERO? Esiste un principio nel nostro ordinamento giuridico che gli esperti del settore indicano come nemo tenetur se detegere, una locuzione latina che esprime il principio di diritto processuale penale, grazie al quale nessuno puo’ essere obbligato ad autodenunciarsi. L’ordinamento giuridico, a fronte di diversi interessi, privilegia la libertà personale e non la repressione di un reato. Nel contempo, nel nostro ordinamento è prevista l’obbligatorietà dell’azione penale. Qualcosa non torna, siamo in un sistema schizofrenico. L’individuo è libero di fronte alla giustizia, ma non lo è più quando, da giudice, deve decidere se ci sono i presupposti o meno per usarla: non può decidere l’irrilevanza dell’avvio di un procedimento ma come “servitore dello Stato” deve comunque avviarlo e solo dopo può intervenire per dimostrare questa irrilevanza. Non può essere considerato soggetto responsabile davanti alla giustizia al pari di chi non è costretto ad autodenunciarsi: la repressione di un reato, da questo lato, è privilegiata rispetto alla libertà e alla responsabilità personale. La libertà non è uguale per tutti. Prendo una multa per violazione del codice della strada e la notifica mi viene fatta da un’azienda privata con cui il comune ha un contratto. Il codice è vago. La Corte di Cassazione e il Tribunale amministrativo regionale hanno sentenziato in alcuni casi che questa azienda non può fare le notifiche, ma il ministero dell’Interno dice che è possibile; un giudice di pace è d’accordo con il Tar e probabilmente il
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
17 ottobre 1931 Al Capone viene condannato per evasione fiscale 1933 Albert Einstein, scappa dalla Germania nazista e si sposta negli Usa 1945 Juan Domingo Perón diventa dittatore dell’Argentina 1958 Inizia la costruzione del sottomarino nucleare sovietico K-19 1961 200 dimostranti algerini vengono massacrati dalla polizia di Parigi 1967 Debutto a Broadway del musical Hair 1970 Anwar Sadat diventa presidente dell’Egitto 1973 I paesi dell’Opec iniziano un embargo del petrolio contro alcune nazioni occidentali ritenute responsabili di aver aiutato Israele nella sua guerra contro la Siria 1979 Madre Teresa di Calcutta riceve il Premio Nobel per la pace 1987 A Parigi viene celebrata per la prima volta la Giornata mondiale del rifiuto della miseria 1994 Trattato di pace tra il governo dell’Angola e i ribelli dell’Unita
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
comune farà ricorso sperando che il giudice d’appello segua il ministero e non gli altri tribunali. La legge, intesa come riferimento per il quieto vivere e non come un gioco d’azzardo, non è uguale per tutti. Mi nasce un figlio e la parrocchia vicina invia al mio indirizzo un invito a recarmi presso di loro per godere dei loro servizi religiosi. Dove hanno preso il mio indirizzo? La legge sulla Privacy indica esplicitamente che per inviarmi qualcosa a casa c’è bisogno che io dia un consenso. Ricorro al Garante e mi dà ragione. Chi ha torto si appella al tribunale e quest’ultimo gli dà ragione. Anche se le norme non sono ambigue, ora dovrà decidere la Cassazione e pende una interrogazione parlamentare. La legge, anche qui, non è uguale per tutti. Mi arriva la bolletta del telefono e ci sono 49 euro per la disdetta di un servizio che le norme, invece, prevedono che sia senza penali. Telefono al gestore e riesco a parlarci solo dopo giorni e giorni di tentativi con cancelletti, numeri, “attenda” e cascate della linea di cui ho perso il conto... e mi dice che ho torto io e ragione lui. Faccio la messa in mora con raccomandata a/r e non vengo considerato. Vado all’ufficio di conciliazione del Corecom e il gestore non si presenta. Ora dovrei portarlo davanti ad un giudice... per 49 euro... E se questo giudice usa la sua libertà come sopra, cioè applicando la legge come crede e ignorando i dettami precisi? Perché le autorità preposte non intervengono a fronte delle migliaia di segnalazioni in merito?
RINVIANO UN CONSIGLIO CON LA SCUSA DEL LUTTO DI KABUL Il sindaco di Potenza, Vito Santarsiero, ha preferito approfittare della scusa del lutto nazionale per la morte dei militari caduti nella strage di Kabul, in cui tra l’altro è rimasto vittima anche il capitano lucano Antonio Fortunato di Tramutola, per aggiornare la seduta del consiglio a data ancora da sapersi. Una figuraccia per il sindaco Santarsiero e per tutti coloro che si sono detti disponibili a rinviare la seduta. Sarebbe stata l’occasione per onorare meglio i soldati caduti ed il nostro giovane militare Antonio Fortunato, oltre che con il tradizionale minuto di raccoglimento, magari, anche con un dibattito serio in cui elogiare lo spirito di generosità dei nostri militari impegnati in missioni di pace nel mondo. E pensare che tra le deleghe assegnate dal sindaco ai suoi collaboratori c’è anche la delega “politiche per la pace”. E invece, si è preferito rinviare ancora una volta la riunione dell’Assemblea in dispregio di una città e di una comunità affogata da mille problemi e che aspetta ancora in silenzio che i consiglieri trovino la loro “poltrona” giusta per lavorare. L’ufficio stampa del comune, tra l’altro, ha diramato un comunicato, divulgato anche sul sito dell’ente, in cui con due righe viene riferito che è stato «rinviato il Consiglio comunale di Potenza per la dichiarazione del lutto nazionale per i parà caduti a Kabul», senza indicare poi il giorno in cui si terrà la prossima seduta. Oltre alla elezione dell’ufficio di presidenza, sono ben altri cinquanta i punti iscritti all’ordine del giorno, roba da far venire il mal di testa solo a leggerli, figuriamoci a sentirli discutere da consiglieri ancora neofiti, che non hanno ancora avuto la possibilità di esaminare gli atti nelle rispettive commissioni, peraltro non ancora insediatesi a quattro mesi dalle elezioni. Comunque non tutto è casuale in quanto, come si sostiene da più parti, questa è la tecnica per paralizzare l’attività del consiglio e fare in modo che la giunta proceda senza essere troppo disturbata. Ci sarà da ridere nei prossimi giorni, con una maggioranza che non riesce a far quadrato spaccata al suo interno dalle lotte interne al Pd, in attesa di scegliere il neo segretario regionale e di altri partiti, come l’Idv, che rivendica maggiore dignità. Per il momento c’è solo da vergognarsi per aver rinviato la seduta con la scusante dei funerali di Stato. Gianluigi Laguardia C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L PO T E N Z A
APPUNTAMENTI OTTOBRE 2009 VENERDÌ 30 E SABATO 31, ORE 11, ROMA PALAZZO WEDEKIND - PIAZZA COLONNA “Di cosa parliamo quando diciamo Italia”. Intervengono: Ferdinando Adornato, Pier Ferdinando Casini, Rino Fisichella, Carlo Azeglio Ciampi. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Lettera firmata
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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