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Questa è la regola negli affari: «Fatela agli altri, perché loro la farebbero a voi» Charles Dickens
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 20 OTTOBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il capo delle guardie assassinato era in realtà il suo “controllore” che si era opposto alla repressione violenta dell’Onda
Ahmadinejad, aria di golpe I pasdaran accusano Usa e Gb per la strage: «Reagiremo con la forza». Ma in realtà l’attentato favorisce il dittatore che ora punta al potere assoluto e annuncia: «Non trattiamo sull’uranio» LO STUDIOSO AMERICANO INSISTE
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
«Khamenei vivo? Le foto sono un falso»
Sono bastati 210 seggi per rimettere tutto in discussione. Ieri a Kabul, la Commissione elettorale afgana, patrocinata dall’Onu e istituita in seguito ai reclami per le presidenziali del 20 agosto, si è espressa in favore di un futuro ballottaggio tra Karzai e Abdullah.
Quello in corso in queste ore, nell’Iran di Mahmoud Ahmadinejad, ha tutta l’aria di essere una sorta di golpe. All’arma bianca, nel senso meno nobile del termine: perché la carneficina degli oppositori, questo presidente la fa utilizzando lo scudo del terrorismo internazionale. Se è infatti quasi impossibile credere alle versioni ufficiali - che parlano di un gruppo sunnita appoggiato da Usa, Gb e servizi segreti pakistani - è fondamentale chiedersi a chi possa giovare la decimazione dei vertici militari del Paese. È la risposta è abbastanza semplice: è il presidente iraniano a tirare un respiro di sollievo per la prematura scomparsa dei militari fedeli a quell’altro grande scomparso che è Ali Khamenei. Tutto questo aiuta anche a comprendere il vertice del “5+1”in corso fino a domani a Vienna, dove l’inviato di Teheran ha dichiarato: «Noi con l’arricchimento dell’uranio andiamo avanti». E tanti saluti alla mano tesa di Barack Obama - tornato al centro di una propaganda contraria - e un grazie di cuore alla Russia di Putin. Che non soltanto fa finta di credere a Teheran, ma invia calorosi aiuti.
a pagina 16
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di Michael Ledeen Sono convinto che le foto fatte circolare dal regime iraniano che ritraggono Khamenei, Ahmadinejad e il presidente senegalese Wade siano false. Credo che un incontro del genere non sia mai avvenuto e che il regime (nel panico) abbia “truccato” le fotografie. a pagina 3
L’ONU: KARZAI SOTTO IL 50%
Intanto in Afghanistan si andrà al ballottaggio di Antonio Picasso
UNO STRANO FENOMENO DI MASSA Un megafilm, decine di libri, ansie collettive via Internet: milioni di persone temono che la profezia dei Maya sulla fine del mondo possa essere vera. È una sorta di “nuovo millenarismo” all’inizio del Ventunesimo secolo…
Chi ha paura del 2012?
alle pagine 12, 13, 14 e 15
Il testo integrale del discorso del Pontefice al rappresentante della Ue presso la Santa Sede
Parla Feltrin, politologo del Nordest
Ratzinger “avvisa”l’Europa
«Ma alla fine non so se Galan terrà duro»
«Sono a rischio le basi stesse del suo modello di civiltà»
di Franco Insardà di Benedetto XVI
CITTÀ
DEL
VATICANO. Si-
gnor Ambasciatore, sono lieto di riceverla e di accreditarla come Rappresentante della Commissione delle Comunità Europee presso la Santa Sede. Le sarei grato se volesse esprimere a S.E. il signor José Manuel Barroso, appena rieletto a capo della Commissione, i miei voti cordiali per la sua persona e per il nuovo mandato che gli è stato affidato. a pagina 6 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO
Ora di religione islamica: in Germania l’attuale Papa era favorevole
Il contrasto tra Bagnasco e Martino di Luigi Accattoli a proposta di un’ora di islam nelle scuole di Stato ha provocato grande dibattito e l’impressione di un “no” della Chiesa che in verità è solo un invito alla prudenza: a bilanciare l’obiezione del cardinale Bagnasco c’è non solo il parere favorevole del cardi-
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I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
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nale Martino ma anche la memoria dell’atteggiamento possibilista del cardinale Ratzinger e dell’arcivescovo Kasper quando la questione fu discussa in Germania. Atteggiamento confermato poi in un’occasione particolare da Papa Benedetto. segue a pagina 11 WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
ROMA. «Mi sembra molto complicato pensare a Galan alla testa di una Grosse Koalition con il Partito democratico e l’Udc. Siamo in una situazione molto fluida, difficilmente si arriverà a una rottura all’interno del Pdl veneto». Paolo Feltrin, professore di Scienza dell’amministrazione dell’università di Trieste, non crede a grossi sconvolgimenti rispetto alla candidatura leghista alla guida della Regione. a pagina 4
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 20 ottobre 2009
Iran. L’attentato, la morte dei militari ostili al presidente, la confusione e la retorica anti-occidentale: tutti gli ingredienti per un colpo di Stato
Manuale per un golpe
Ahmadinejad “approfitta” della strage per abolire la Guida Suprema e trasformare il Paese in una dittatura militare fedele soltanto a lui di Vincenzo Faccioli Pintozzi e c’è una persona felice, nell’Iran di oggi, quella è senza dubbio Mahmoud Dopo Ahmadinejad. un’estate effettivamente molto calda, con le elezioni presidenziali e le conseguenti e quotidiane proteste della popolazione, gli ultimi sette giorni hanno regalato al presidente iraniano una serie di opportunità che difficilmente riuscirà a non sfruttare. Anzi, a volerle guardare bene si potrebbe pensare che siano state proprio orchestrate da lui. Per capire questa affermazione bisogna cercare di partire da un assunto: la Guida Suprema della Repubblica islamica di Iran, Ali Khamenei, è per sempre uscito dalla bilancia dei poteri. Che sia vivo, morto o in coma non importa poi più di tanto: la sua presa sulle leve che contano nel Paese si è allentata.
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Lo dimostra il fatto che - dopo una strenua opposizione agli eccessi ordinati da Ahma-
Dal vertice del “5+1” arriva la posizione (immutata) del regime
Teheran: andiamo avanti sull’uranio di Pierre Chiartano eheran arriva in Austria con l’intenzione di ottenere la garanzia di una consegna di uranio arricchito. Ieri, è cominciato un round importante per la definizione del nodo nucleare iraniano. Un incontro riservato dell’agenzia internazionale per le’nergia nucleare (Aiea). Sul tavolo la proposta russa per eseguire il processo d’arrichimento fuori dai confini iraniani. Una triangolazione tra Teheran, Mosca e Parigi che darebbe le garanzie di produrre combustibile nucleare adatto solo a scopi civili. Ma il percorso è meno facile di quello che sembra e il tempo gioca a favore del regime sciita. Ora il programma atomico degli ayatollah segue un calendario serrato, afferma un responsabile dell’Iran Daily, Mohammad Reza Mohammad Karimi. «Se non insorgono difficoltà dell’ultim’ora, la riunione dovrebbe concludersi con risultati positivi», affermava Karimi appena pochi giorni fa. E anche da Teheran giungevano segnali incoraggianti: lo stesso presidente Mahmoud Ahmadinejad aveva dichiarato con qualche velata minaccia: «non credo che vi saranno problemi ai prossimi negoziati. Se qualcuno vorrà crearli, non ci riuscirà, e se ci riuscirà ne subirà le conseguenze».
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ha precisato che «la Repubblica islamica d’Iran continuerà il suo arricchimento di uranio al 5 per cento, ma se i negoziati non produrranno risultati adeguati, comincerà la produzione dell’uranio arricchito al 20 per cento». L’Iran «non rinuncerà mai al suo diritto», ha dichiarato Ali Shirzadian, portavoce dell’Organizzazione iraniana per l’energia atomica. I colloqui sul programma nucleare iraniano sono partiti in un clima di alta tensione, dopo l’attentato dell’altro ieri in Iran. Le accuse lanciate da Teheran agli Stati Uniti di essere dietro al sanguinoso attentato contro i vertici dei pasdaran non contribuiscono a un clima sereno per il vertice di Vienna cui partecipano, oltre ai rappresentanti di Teheran, quelli di Stati uniti, Russia e Francia.
I negoziati dovrebbero portare a un accordo affinché la produzione di uranio arricchito al 20 per cento necessaria all’Iran avvenga in un Paese terzo, con tutta probabilità la Russia. Il primo ottobre a Ginevra, l’Iran e il gruppo cinque più uno – i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania – raggiunsero un accordo di principio: Teheran avrebbe consegnato una parte del suo uranio arricchito a meno del 5 per cento a un Paese terzo per ottenere in cambio uranio arricchito al 19,75 per cento per il suo reattore di ricerca a Teheran, completamente sotto il controllo dell’Aiea. Questi nuovi negoziati tra potenze nucleari e Iran sono ritenuti cruciali per tentare di alleviare le tensioni. L’Iran, la cui priorità è ottenere il combustibile per il suo reattore di ricerca, dovrà consegnare a uno Stato terzo la maggior parte dei 1.500 chili di uranio arricchito in questi ultimi anni, malgrado le ingiunzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu a congelare l’attività, in modo che l’Aiea possa verificare che il programma è esclusivamente civile come sostiene il regime degli ayatollah. L’Iran esclude un dialogo diretto con la Francia, in merito alla fornitura di uranio arricchito, questione che è oggi proprio oggetto del vertice a quattro, a causa di un contenzioso sul nucleare con Parigi. Come hanno riportato vari organi di informazione iraniani. Secondo l’emittente televisiva in lingua araba al Alam, che cita una fonte vicina ai negoziatori iraniani a Vienna, la Francia «non si è conformata ai suoi obblighi precedenti verso l’Iran nell’ambito della cooperazione nucleare bilaterale».
Il governo pronto a consegnare una parte del materiale a un Paese terzo per avere quello arricchito. Da usare nel reattore sotto il controllo Aiea
Ha dunque preso il via la riunione, aperta dal direttore generale, a fine incarico, dell’Aiea, Mohamed El Baradei, e poi proseguita a porte chiuse. La delegazione iraniana è diretta dall’ambasciatore iraniano presso l’agenzia, Ali Asghar Soltanieh, e si prefigge di trovare un accordo per l’arricchimento del suo uranio da parte di un Paese terzo, la Russia e la Francia, allo scopo di ottenere il combustibile per il suo reattore di ricerca a Teheran. Secondo l’Aiea, la riunione potrebbe durare fino a domani. Dall esito colloqui Ginevra dipende futuro del programma iraniano e buona parte degli equilibri mediorientali per i prossimi decenni. L’Iran procederà con propri mezzi all’arricchimento dell’uranio al 20 per cento in caso di fallimento dei negoziati che sono cominciati, ieri, a Vienna con Francia, Russia e Stati Uniti. Un funzionario di Teheran, citato dall’agenzia Irna,
dinejad nel corso delle repressioni dell’Onda verde - non abbia battuto un ciglio quando questi ha rivelato il suo piano post-attentato del Belucistan. Alcune fonti informate spiegano infatti a liberal che, finito il lutto nazionale per i 42 caduti di domenica scorsa, il Paese verrà sottoposto a una sorta di coprifuoco non annunciato: lo dimostrano le dichiarazioni dei vertici, secondo cui «i colpevoli e alcuni dei mandanti di questo vergognoso gesto sono ancora in Iran. Dobbiamo stanarli».
E come si possono stanare dei terroristi interni se non si limitano le libertà civili e si autorizzano arresti e indagini ingiustificate? È vero che sono entrambi comuni in un Iran sempre più dispotico, ma con la coperta del terrorismo il presidente punta a ottenere il consenso pubblico e l’appoggio di alcuni Stati più “flessibili” di altri. Come la Russia di Putin, che ha già annunciato l’invio di esperti dell’antiterrorismo a Teheran. E questo è il primo punto del manuale del perfetto golpe. Il secondo punto, non si sottolineerà mai abbastanza, è in mano alla propaganda. Quella anti-occidentale, da tempo cavallo di battaglia del regime degli ayatollah, si era affievolita con la mano tesa di Obama. Ora, grazie alla bomba, torna più forte che mai: il comandante dei pasdaran ha minacciato «misure di rappresaglia» contro Stati Uniti e Gran Bretagna, accusando i servizi di intelligence dei due Paesi di avere legami con il gruppo sunnita Jundallah (Soldati di Dio), presunto responsabile dell’attentato in Baluchistan. Il generale Mohammad Ali Jafari, comandante delle Guardie della Rivoluzione iraniana, spiega: «Dietro questo attentato vi sono gli apparati di intelligence di Stati Uniti e Gran Bretagna e vi saranno misure di rappresaglia per punirli». E tanti saluti a quella parte di opposizione interna che sperava in un sostegno dell’Occidente: ora, chiunque ne dovesse anche soltanto accennare, verrebbe accusato di essere un fiancheggiatore dei terroristi. Il terzo punto prevede la presa del potere militare. Che al momento, nell’Iran dei due fuochi, si divide in altrettante fazioni. Da una parte i pasdaran, dal-
prima pagina A destra Ali Jannati, ayatollah che - in assenza della Guida dovrebbe guidare de facto il Paese. Sotto Ali Khamenei: le sue fotografie sarebbero dei falsi. Nella pagina a fianco, Mahmoud Ahmadinejad
20 ottobre 2009 • pagina 3
Giovedì notte il leader degli Hezbollah è andato al capezzale del suo vecchio amico
Le foto di Alì Khamenei? Un falso, e fatto pure male
Nella confusione, il governo ha mostrato il leader religioso con il presidente senegalese. Vestito in due modi diversi di Michael Ledeen ono convinto che le foto fatte circolare dal regime iraniano che ritraggono Khamenei, Ahmadinejad e il presidente senegalese Wade siano false. Credo che un incontro del genere non sia mai avvenuto. Wade si è incontrato soltanto con il presidente Ahmadinejad, cui ha consegnato una protesta formale – a nome di molti altri Stati africani – per il mancato pagamento degli aiuti promessi dalla Conferenza islamica. Che, per quest’anno, è guidata dall’Iran. Nelle foto mostrate dai media ufficiali, Wade è vestito sia con gli abiti tradizionali che con all’occidentale. Dato che il presidente senegalese è stato quattro volte in Iran, il regime (nel panico) ha montato le ultime fotografie scattate ai tre insieme. Ma non si sono coordinati, e quindi mostrano una palese incongruenza. Inoltre, la prova più evidente delle carenti condizioni di salute della Guida Suprema è che questi non è apparso in pubblico dopo il terribile attentato di domenica. Eppure, sarebbe stato normale
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l’altra i basiji. Il primo corpo (i “Guardiani della rivoluzione”) è la guardia d’elite della Repubblica islamica, nata con la rivoluzione del 1979. Conta oggi dai 120 ai 300mila uomini (il numero esatto non è noto), molto temuti e molto motivati ideologicamente, posti direttamente sotto il comando della Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. I pasdaran dispongono di forze di terra, tra cui unità anti-sommossa, aeree e navali. E proprio il loro capo, il generale Nurali Shushtari, è saltato in aria due giorni fa: no-
minato direttamente dalla Guida alcuni mesi fa, era il “cane da guardia” messo sul collo del presidente.
Che odiava, ricambiato. Dai Guardiani della rivoluzione dipendono poi i basiji, un corpo di volontari istituito dall’ayatollah Khomeini all’inizio della guerra Iran-Iraq del 1980, per organizzare la resistenza popolare contro il nemico. Attualmente tale milizia conta dai cinque agli undici milioni di persone, tra cui centinaia di migliaia di donne, e costituisce
per lui andare in televisione e parlare al popolo. Consideriamo inoltre che le vittime dell’attacco in Beluchistan erano membri della sua guardia fidata, quei pasdaran che proprio Khamenei aveva contribuito a riformare nei mesi scorsi con delle nomine a sorpresa.
Guardare con attenzione ai recenti movimenti della Guida Suprema potrebbe forse aiutare a inserire le cose nel loro contesto. Il 5 ottobre è andato da Teheran a Now Shar, dove ha visitato una base navale ed una accademia. Nello stesso giorno, in serata, si è recato nella città di Chaloos: ha recitato un sermone, pronunciato un discorso ed è rientrato a Now Shar. Il 6 ha viaggiato in automobile fino a Ramsar, una bellissima città costiera dove sorge un palazzo dell’ultimo Scià. Khamenei avrebbe dovuto trascorrere tre giorni in quel posto, ma non si è sentito bene: aveva difficoltà respiratorie. Di conseguenza, ha preso un aereo dall’aeroporto di Ramsar ed è tornato a Teheran. Per diversi giorni, è stato visitato in casa da alcuni specialisti. Ha ricevuto ossigeno, per aiutarlo a respirare. Il collasso è avvenuto il 12 ottobre, lunedì: subito dopo è stato portato in una clinica speciale della capitale, costruita in origine per l’imam Khomeini. Il 14, mercoledì, sono arrivati dottori stranieri esperti di varie patologie, che lo hanno visitato. Fra questi ci sono due celebri professori russi, già stati in Iran tempo prima, tre uomini descritti come orientali (forse cinesi, forse coreani del nord) ed altri
una forza di intervento popolare rapida. Negli anni recenti i pasdaran sono diventati una potenza economico-militare, attiva nei settori del petrolio e del gas, delle telecomunicazioni e dell’agricoltura, e hanno costituito una rete di potere politico ed economico che si estende su tutta la società iraniana. L’attuale presidente Mahmoud Ahmadinejad ha fatto parte dei volontari basiji durante la guerra con l’Iraq nei primi anni Ottanta. Sotto il suo governo, questi ultimi hanno aumentato considerevolmente
due medici che si sono dichiarati svizzeri. Ai dottori iraniani è stato detto di continuare a fornirgli ossigeno. Le medicine per la Guida Suprema sono arrivate da fuori, trasportate direttamente dall’aeroporto alla clinica. Mi è stato detto che venerdì pomeriggio era ancora in coma, molto malato. Oltre alla sua famiglia e ai suoi più stretti collaboratori, ha ricevuto soltanto una visita importante: Hassan Nasrallah, il capo dell’Hezbollah libanese. Credo che giovedì notte Nasrallah sia arrivato alla clinica: qui è rimasto per circa tre minuti nella camera di Khamenei e ne è uscito in lacrime. L’ayatollah Ahmad Jannati - capo del Consiglio dei Guardiani e, con Khamenei fuori gioco, leader effettivo del Paese – ha inavvertitamente confermato la presenza di Nasrallah parlando «di una conversazione» fra i due. Il casuale accenno si è verificato nel corso del suo sermone rituale del venerdì, un giorno dopo la visita compiuta dal capo dell’Hezbollah al leader religioso.
L’agenda dell’ultima settimana dimostra che il male lo ha colpito almeno tre giorni fa: e ora lo tengono in casa
Eppure, il viaggio del leader libanese non è stato annunciato da nessun media iraniano. Che invece, in altre occasioni, non mancano di pubblicizzare queste cose. Sabato mattina (o forse venerdì notte), Khamenei è stato trasferito dalla clinica al suo palazzo insieme a molto equipaggiamento medico. Nella mattina di sabato, Rafsanjani ha fatto visita alla Guida Suprema ma non è stato fatto entrare; gli hanno detto di tornare alle 16. Quando è tornato, il figlio di Khamenei gli ha negato l’accesso.
la loro influenza sul Paese e sono stati protagonisti della repressione delle manifestazioni di protesta dopo le elezioni presidenziali dell’estate scorsa.
Il quarto punto, l’ultimo, è il più importante. Lo scopo finale di Mahmoud Ahmadinejad è pacificare il Paese e unirlo sotto un’unica bandiera, la sua. Ma per farlo deve fare in modo che venga ammainata l’altra, più alta della sua: quella della Guida Suprema. Qui non si tratta di persone, non è uno scontro fra due singoli: siamo
davanti a un piano di riforma costituzionale, teso a modificare la natura stessa dell’Iran. Basta con la teocrazia, basta con le Guide della Rivoluzione. Meglio una sana repubblica presidenziale, da trasformare in una dittatura militare senza (quasi) colpo ferire. Basta eliminare in precedenza le pedine scomode, accusare l’onnipresente Occidente della loro scomparsa e tirare dritto verso una repressione senza precedenti. Ora che non c’è neanche più Khamenei a fargli i conti in tasca, Ahmadinejad si sente onnipotente.
politica
pagina 4 • 20 ottobre 2009
La rivolta del Veneto. «Finché non saranno definite tutte le caselle del centrodestra nelle altre dodici regioni non si scioglierà il rebus»
I nervi del Governatore Il politologo del Nordest, Paolo Feltrin: «Non sono certo che alla fine Galan terrà duro. Il vero nodo è l’Udc» di Franco Insardà
ROMA. «Mi sembra molto complicato pensare che Giancarlo Galan possa capeggiare una Grosse Koalition con Pd e Udc. Siamo in una situazione molto fluida, difficilmente si arriverà a una rottura all’interno del Pdl veneto». Paolo Feltrin, professore di Scienza dell’amministrazione dell’università di Trieste, non crede a grossi sconvolgimenti rispetto alla candidatura leghista per la guida della Regione. Come giudica questa mossa di Berlusconi di consegnare il Veneto alla Lega? La mia idea principale è che Bossi non avrebbe voluto il Veneto, ma la Lombardia. Questa sarà una scelta di ripiego per il Carroccio. Perché? Il dualismo Lombardia-Veneto per la Lega è storico e la crescita troppo forte di questa regione crea problemi interni. Non a caso si agita una terza via che si chiama Piemonte. Il Piemonte però non dà alla Lega le stesse garanzie del Veneto. La richiesta della Lega è quella di avere una Regione in cui ra-
gionevolmente si vinca, a quel punto potrebbe accettare, in aggiunta, anche una candidatura perdente in Liguria o Emilia, per radicarsi e crescere un po’anche in quelle zone. In Piemonte per essere sicuri della vittoria c’è una questione Udc, nel senso che la vittoria può dirsi ragionevolmente certa per il centrodestra soltanto se c’è una coalizione che includa anche l’Udc.
“
È normale una certa preoccupazione. Per la prima volta in assoluto, una Regione verrebbe governata dalla Lega
ROMA. Altro che ”quadra”, la vicenda veneta si complica. Ieri doveva essere la giornata decisiva, in vista della festa tenutasi in serata alla Fenice di Venezia per l’avvio dei lavori del rigassificatore polesano che ha messo faccia a faccia Silvio Berlusconi e Giancarlo Galan. Non è bastato per il presidente del Consiglio dedicare il fine settimana quasi interamente alla grana delle Regionali. Risolta senza particolari problemi la vicenda campana, Berlusconi ha dovuto subito prendere atto che la vicenda del Veneto era più complicata del previsto, tanto da dover rinunciare ad alcune interviste già accordate a giornali locali che sarebbero solo servite a certificare il suo imbarazzo. A fargli tornare i dubbi, dopo il via libera a Umberto Bossi sull’onda della solidarietà per il lodo Alfano, non c’è solo la minaccia di una nuova ricandidatura (stavolta
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Ma Casini non si è detto disponibile a sostenere candidati leghisti. Io propenderei per il dipende. Da che cosa dipende? Dagli accordi che si stanno facendo, piu o meno sistematicamente nel Centro-Sud Italia tra Pdl e Udc. Finché non saranno definite tutte le caselle del centrodestra nelle altre dodici regioni non si scioglierà il nodoVeneto-Piemonte. Questa sarà l’ul-
tima tessera del mosaico. L’Udc sta portando avanti una linea coerente di autonomia. In politica nulla è immutabile, si inizia a negoziare per poi trovare un accordo. La parte più riservata delle trattative è proprio con l’Udc, bisognerà attendere che si chiarisca questo scenario. In Veneto tra Pdl e Lega c’è sempre stata una lotta all’ultimo voto, adesso, nel caso di un presidente del Carroccio, il sorpasso sarà sicuro. Il Pdl non rischia di essere schiacciato? Non c’è dubbio ed è questo che crea problemi a entrambi. La candidatura leghista farà perdere voti al Pdl, perché gli ex elettori di Forza Italia e An delusi voteranno per la Lega. Un candidato del Carroccio farebbe schizzare la Lega al 35 per cento in Veneto. A quel punto che cosa succederebbe? Ci sarebbero problemi anche per la Lega, perché cambierebbero i rapporti di forza tra Lombardia e Veneto. Già oggi in termini di voti in Veneto il Carroccio ne ha di più, ma in Lombar-
A destra, Giancarlo Galan. A sinistra, Paolo Feltrin e, sotto, Giustina Destro. A destra, Osvaldo Napoli e Maria Teresa Armosino
dia ci sono nove milioni e mezzo di abitanti. Però con un 35 per cento diventerebbe prima in Veneto anche in valore assoluto. Lo scontro nel Pdl è molto aspro. Come andrà a finire? In ogni partito c’è una maggioranza e un’opposizione. Non penso che si arriverà a una scissione. Alla fine le lotte interne, se ben gestite, potrebbero portare più voti alla coalizione. A livello nazionale ci sarebbero problemi nei rapporti tra i due partiti? Non penso, può influire di più una crescita significativa della Lega in Emilia, Liguria e Piemonte che non in Veneto. Le Regionali non sono elezioni locali, ma hanno da sempre una valenza nazionale trovo improbabile che decidano localmente, senza tener conto
del quadro complessivo. Si può parlare di un laboratorio-Veneto con Galan alla testa di una coalizione PdUdc? Sarebbe la prima volta che a elezioni regionali le coalizioni vadano in ordine sparso rispetto alle alleanze nazionali. Penso che queste ipotesi vengano lanciate, legittimamente, per negoziare accordi. Qualche settimana fa si era ventilata la possibilità che i partiti del centrodestra potessero andare divisi con il Pdl alleato all’Udc e con un pezzo del centrosinistra. Questa potrebbe essere l’unica ipotesi che potrebbe avere una qualche possibilità, ma è molto difficile. Non pensa che Berlusconi abbia sottovalutato la tradizione bianca del Veneto ? Il punto vero che il Cavaliere a un alleato come la Lega non può
Documento del Pdl regionale. E il presidente del Consiglio annulla le interviste con i giornali locali
Ma i suoi insistono: pronti ad andare da soli di Valentina Sisti da guastafeste) del governatore uscente. Ora anche il coordinamento veneto del Popolo della libertà, riunitosi ieri mattina, conferma «la ferma volontà di mantenere la guida della Regione in capo al Pdl e al presidente Giancarlo Galan».
A rimescolare le carte anche il lungo colloquio di sabato, ad Asolo, fra quest’ultimo e Gianfranco Fini, al termine del quale Galan si è mostrato più determinato di prima. Il documento del Pdl veneto conferma il sostegno all’attuale governatore, ritenendo che l’eventualità di un cambio politico «potrebbe suonare
come un’inspiegabile e inaccettabile censura su quanto fin qui realizzato». E la richiesta del Carroccio, «seppure legittima», è bollata come «costruita su una rendita di posizione». Chi ha partecipato all’incontro racconta però di un Alberto Giorgetti, coordinatore regionale del Pdl, assai preoccupato per la tenuta nazionale dell’alleanza: di qui l’aggiunta di un inciso sulla «priorità strategica dell’accordo con la Lega Nord». «Non mi prendo la responsabilità di assecondare una prospettiva venetista», spiega Giorgetti, perchè «comporterebbe una crisi di governo». Ma il Pdl veneto si dice
comunque pronto a «intraprendere la corsa autonoma alle prossime Regionali», anche per offrire una sponda al Cavaliere nella difficile trattativa con la Lega che, minaccia di fare altrettanto. Intanto Galan ancora ieri si diceva convinto ad andare avanti. E l’Udc, a sua volta, disposta a sostenere con forza un’eventuale scelta coraggiosa del governatore uscente, o del Pdl locale, se decidessero di liberarsi della Lega.
Antonio De Poli, leader regionale dell’Udc, ricorda che «il governatore ha sempre confermato anche a me l’intenzione di
politica
20 ottobre 2009 • pagina 5
La Armosino, Osvaldo Napoli e Roberto Costa sulla presidenza al Carroccio
Il Pdl di Torino non ci sta «Perché anche il Piemonte?» «Stiamo regalando alla Lega l’egemonia: ma forse ormai è tardi, ora Silvio non sa come dirgli di no» di Errico Novi
ROMA. Adesso spunta una nuova versione, Carroccio diventerebbe la Csu italiana e il Pdl
dire sistematicamente di no. Quindi in qualche regione il Carroccio, legittimamente, non potrà, non avere un suo candidato. Dopo 15 anni di governo regionale da parte di Galan chi potrà garantire l’elettorato moderato del Pdl, le piccole e medie imprese e le confederazioni datoriali. Nel caso di un presidente leghista è un’incognita a tutto campo, perché per la prima volta in assoluto nel sistema politico italiano una grande regione viene governata da una forza “secessionista”. È normale che si guardi con una certa ansia e preoccupazione a questa evenienza e alle sue conseguenze. L’economia veneta si regge sugli immigrati, con un governo a guida leghista i problemi di integrazione
presentarsi con una propria lista, e noi siamo disposti ad appoggiare questo progetto politico, che in questi 15 anni ha dimostrato di funzionare. Il Veneto può essere un laboratorio nazionale in grado di offrire una valida alternativa a un bipolarismo malato che si sta sgretolando». Ma se le lusinghe di Berlusconi dovessero avere successo, con un incarico ministeriale (si parla delle Attività produttive o della Sanità), o al vertice dell’Eni? «Galan non farebbe una bella figura con i suoi elettori. In ogni caso, noi andremo avanti con la nostra lista e nostri uomini, dialogando con tutti quelli che riconoscono i valori fondamentali del nostro programma. Non abbiamo pregiudizi verso alleanze con il Pd, ma ci sembra prematuro fare ragionamenti di questo momento». La quadra insomma non c’è stavolta, per Berlusconi: o rompe
aumentano? La Lega governa centinaia di comuni e quattro amministrazioni provinciali su sette in Veneto dove si registrano forti concentrazioni di immigrati, ma non si registrano problemi. Sono molto realisti, fanno battaglie ideologiche, magari contro le moschee, ma quando si tratta di economia il discorso cambia. Si intravede una volontà di Berlusconi di costruire più che un’Italia federale, un’Italia feudale. Veneto e Piemonte alla Lega, la Lombardia alla componente Cl del Pdl, il Lazio agli ex An e così via. Con lui a governare su tutto. È così? Questo quadro riflette la tradizione storica dell’Italia che già esisteva nella Prima Repubblica, anche la Dc e il Pci avevano le loro roccaforti.
con la Lega o con una fetta consistente del suo partito. Nel Pdl sono tutti convinti che l’intesa con Bossi vada riesaminata: persino Aldo Brancher, ufficiale di collegamento con il Senatùr, ha sottoscritto ieri il documento. La sottosegretaria veronese alla Giustizia Elisabetta Alberti Casellati conferma che l’intento è «sollecitare Berlusconi a ripensarci. Siamo tutti convinti che Galan abbia ben operato. Ribadiamo però – aggiunge – la nostra fedeltà al premier. Non credo che nessuno (compreso Galan) sia disposto a uno strappo, aspettiamo di vedere cosa decide Silvio prima di fare ulteriori passi». Anche il ministro Renato Brunetta sostiene Galan, e lui non indietreggia di un passo: «Perchè dovrei rinunciare? Ad esprimersi sul Veneto siano i veneti. L’intesa con l’Udc c’è sempre stata. Ho sempre governato molto bene insieme a Lega e Udc».
sulla ratio degli accordi tra Berlusconi e Bossi per le regioni del Nord. La suggerisce il deputato piemontese del Pdl Enrico Costa, figlio del più volte ministro ed ex presidente della Provincia di Cuneo Raffaele Costa: «Fin dall’inizio la Lega ha chiesto la candidatura in due regioni, si sarebbe accontentata di un’unica presidenza solo se si fosse trattato della Lombardia». Teoria diversa da quella circolata negli ultimi giorni, secondo cui ai lumbàrd spetterebbero semplicemente una regione “sicura” (che a questo punto sarebbe il Veneto) e una difficile (dovrebbe essere l’Emilia-Romagna). Certo è che l’interpretazione di Costa spiega meglio di altre per quale motivo Bossi non intenda più fare passi indietro sul Piemonte e pregusti uno storico doppio colpo, come anticipato ieri dalla Stampa. Che poi il ministro Luca Zaia (o il capogruppo del Carroccio al Senato Federico Bricolo), in Veneto, e il presidente dei deputati leghisti Roberto Cota in Piemonte riescano davvero a diventare governatori è tutto da vedere. Certo è che le ambizioni padane si sono ingigantite di pari passo con il consolidarsi del patto di ferro tra il Cavaliere e il Senatùr. Pensare che quest’ultimo possa fare passi indietro è effettivamente irrealistico.
perderebbe parte della sua “sovranità”.
Ma tante obiezioni basteranno? Maria Teresa Armosino, presidente della Provincia di Asti, osserva: «Anche se nel Pdl nessuno dubita che la Lega sia un ottimo competitor all’interno della coalizione, c’è un’istanza diffusa ed evidente, nel nostro partito, secondo cui non si dovrebbero assegnare all’alleato due regioni del Nord». La Armosino riconosce anche che sì, «potrebbe esserci sicuramente» un processo di affermazione dell’egemonia politica leghista, e dunque il rischio che i lumbàrd «assorbano» in qualche modo il Pdl al Nord. Ma come gli altri parlamentari piemontesi del suo partito si deve fermare di fronte a un muro: sulla candidatura di Cota a governatore Berlusconi si sarebbe già “impegnato”con Bossi e non sarebbe più nelle condizioni di tornare indietro. È quello che spiega anche Osvaldo Napoli, peraltro in ballottaggio con il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto come eventuale candidato del Pdl: «Il presidente ha promesso il Piemonte a Bossi prima che si raggiungesse l’accordo sul Veneto, e adesso non sa più come dirgli che non se ne fa niente. Quelli lì – cioè i leghisti – ora insistono». Ma Napoli è moderatamente ottimista e concorda con i coordinatori nazionali nel assicurare che «è ancora tutto in gioco, nulla è deciso».
Giochi aperti secondo il vertice di via dell’Umiltà. Enrico Costa: «Con Crosetto anche l’Udc sarebbe con noi»
Non sembra in grado di azzerare le chiacchiere il comunicato diffuso ieri mattina dal coordinamento nazionale del Pdl, evidentemente tempestato di interrogativi dagli esponenti piemontesi del partito: «È destituito di ogni fondamento l’articolo della Stampa in base al quale ‘Berlusconi dà anche il Piemonte alla Lega’», assicura la nota, «la scelta delle candidature sarà decisa, come vuole lo statuito, solo al termine delle valutazioni del presidente, d’intesa con l’ufficio di presidenza, dopo il lavoro istruttorio dei coordinatori nazionali, sentiti i rispettivi coordinatori regionali». Preso atto che le procedure vanno rispettate, è evidente che la decisione compete a Berlusconi e che nessuno può impedirgli davvero di dare, appunto, il Piemonte a Bossi. Le considerazioni di parlamentari e dirigenti locali del Pdl peseranno, indubbiamente, perché è chiaro che un’eventuale doppia presidenza del Carroccio (in due regioni che messe insieme arrivano a un terzo del Pil nazionale, come osservava giustamente la Stampa di ieri) cambia radicalmente gli equilibri politici nazionali, riproducono il tanto favoleggiato (dai lumbard) modello tedesco, nel senso che il
Se davvero un margine esiste, riguarda le effettive possibilità di successo che una prima linea lumbàrd avrebbe in Piemonte. Spiega ancora Enrico Costa: «Io penso il meglio possibile di Roberto Cota, che quando ero consigliere regionale ho avuto come presidente dell’assemblea. Ma il vero nodo politico è il coinvolgimento dell’Udc nella partita». Costa cita l’intervista a Michele Vietti, coordinatore regionale del partito di Pier Ferdinando Casini, pubblicata domenica scorsa nelle pagine torinesi di Repubblica: «Vietti dice chiaramente che l’Udc non appoggerebbe il Pd in caso di ricandidatura di Mercedes Bresso, schierata troppo a sinistra, e non sarebbe disponibile neanche a sostenere un nome della Lega, ma avrebbe un atteggiamento diverso se in campo fosse schierato Crosetto. Perciò dico che bisogna ancora vedere». È possibile che se ne parli già oggi a Roma in un faccia a faccia tra il premier e Bossi. Nel gioco delle intese entra naturalmente anche Gianfranco Fini, a sua volta in procinto di mettere l’ultimo sigillo sull’investitura di Renata Polverini per il Lazio. Può darsi che i giochi non siano del tutto chiusi, ma il Carroccio sembra aver preso un certo vantaggio.
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pagina 6 • 20 ottobre 2009
Europa e identità. Pubblichiamo il discorso che Benedetto XVI ha pronunciato ieri ricevendo il francese Yves Gazzo
«Difendete le radici cristiane»
Così il Papa al capo delegazione della Comunità europea presso la Santa Sede di Benedetto XVI
CITTÀ DEL VATICANO. Signor Ambasciatore, sono lieto di riceverla, Eccellenza, e di accreditarla come Rappresentante della Commissione delle Comunità Europee presso la Santa Sede. Le sarei grato se volesse esprimere a S.E. il signor José Manuel Barroso, che è stato appena rieletto a capo della Commissione, i miei voti cordiali per la sua persona e per il nuovo mandato che gli è stato affidato, e anche per tutti i suoi collaboratori. Quest’anno l’Europa commemora il ventesimo anniversario della caduta del muro di Berlino. Ho voluto onorare in modo particolare questo evento recandomi nella Repubblica Ceca. In quella terra, provata dal giogo di una dolorosa ideologia, ho potuto rendere grazie per il dono della libertà recuperata che ha permesso al continente europeo di ritrovare la sua integrità e la sua unità. Lei, signor Ambasciatore, ha appena definito l’Unione Europea come «un’area di pace e di stabilità che riunisce ventisette Stati con gli stessi valori fondamentali». È una felice definizione. È tuttavia giusto osservare che l’Unione Europea non si è dotata di questi valori, ma che sono stati piuttosto questi valori condivisi a farla nascere e ad essere la forza di gravità che ha attirato verso il nucleo dei Paesi fondatori le diverse nazioni che hanno successivamente aderito a essa, nel corso del tempo. Questi valori sono il frutto di una lunga e tortuosa storia nella quale, nessuno lo può negare, il cristianesimo ha svolto un ruolo di primo piano. La pari dignità di tutti gli esseri umani, la libertà d’atto di fede alla radice di tutte le altre libertà civili, la pace come elemento decisivo del bene comune, lo sviluppo umano - intellettuale, sociale ed economico - in quanto vocazione divina (cfr. Caritas in veritate, nn. 16-19) e il senso della storia che ne deriva, sono altrettanti elementi centrali della Rivelazione cristiana che continuano a modellare la civiltà europea. Quando la Chiesa ricorda le radici cristiane dell’Europa, non è alla ricerca di uno statuto privilegiato per se stessa. Essa vuole fare opera di memoria storica ricordando in primo luogo una verità - sem-
pre più passata sotto silenzio ossia l’ispirazione decisamente cristiana dei Padri fondatori dell’Unione Europea. A livello più profondo, essa desidera mostrare anche che la base dei valori proviene soprattutto dall’eredità cristiana che continua ancora oggi ad alimentarla. Questi valori comuni non costituiscono un aggregato anarchico o aleatorio, ma formano un insieme coerente che si ordina e si articola, storicamente, a partire da una visione antropologica precisa. Può l’Europa omettere il principio organico originale di questi valori che hanno rivelato all’uomo allo stesso tempo la sua eminente dignità e il fatto che la sua vocazione personale lo apre a tutti gli altri uomini con i quali è chiamato a costituire una sola famiglia? Lasciarsi andare a questo oblio, non significa esporsi al rischio di vedere questi grandi e bei valori entrare in concorrenza o in conflitto gli uni con gli altri? O ancora, questi valori non rischiano di essere strumentalizzati da individui e da gruppi di pressione desiderosi di far valere interessi particolari a de-
trimento di un progetto collettivo ambizioso - che gli europei attendono - che si preoccupi del bene comune degli abitanti del Continente e del mondo intero? Questo rischio è già stato percepito e denunciato da numerosi osservatori che appartengono a orizzonti molto diversi. È importante che l’Europa non permetta che il suo modello di civiltà si
affrontare le sfide di domani e di rispondere alle attese della popolazione.
S i t r a t t a p r in c i p a lm e n t e della ricerca del giusto e delicato equilibrio fra l’efficienza economica e le esigenze sociali, della salvaguardia dell’ambiente, e soprattutto dell’indispensabile e necessario sostegno alla vita umana dal conce-
Secondo il Pontefice, «la visione trascendente della persona umana costituisce il tesoro più prezioso della nostra eredità culturale» sfaldi, pezzo dopo pezzo. Il suo slancio originale non deve essere soffocato dall’individualismo o dall’utilitarismo. Le immense risorse intellettuali, culturali ed economiche del continente continueranno a recare frutto se continueranno a essere fecondate dalla visione trascendente della persona umana che costituisce il tesoro più prezioso dell’eredità europea. Questa tradizione umanista, nella quale si riconoscono tante famiglie dal pensiero a volte molto diverso, rende l’Europa capace di
pimento fino alla morte naturale, e alla famiglia fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna. L’Europa sarà realmente se stessa solo se saprà conservare l’originalità che ha fatto la sua grandezza e che è in grado di fare di essa, nel futuro, uno degli attori principali nella promozione dello sviluppo integrale delle persone, che la Chiesa cattolica considera come l’unica via in grado di porre rimedio agli squilibri presenti nel nostro mondo. Per tutti questi motivi, signor Ambasciatore, la Santa
Sede segue con rispetto e grande attenzione l’attività delle Istituzioni europee, auspicando che queste, con il loro lavoro e la loro creatività, onorino l’Europa che è più di un continente, è una «casa spirituale» (cfr. Discorso alle Autorità civili e al Corpo diplomatico, Praga, 26 settembre 2009). La Chiesa desidera «accompagnare» la costruzione dell’Unione Europea. Per questo si permette di ricordarle quali sono i valori fondatori e costitutivi della società europea affinché possano essere promossi per il bene di tutti. Mentre comincia la sua missione presso la Santa Sede, desidero ribadirle la mia soddisfazione per le eccellenti relazioni che intrattengono la Comunità Europea e la Santa Sede, e le formulo, signor Ambasciatore, i miei voti migliori per il buon svolgimento del suo nobile incarico. Sia certo che troverà presso i miei collaboratori l’accoglienza e la comprensione di cui potrà aver bisogno. Su di lei, Eccellenza, sulla sua famiglia e sui suoi collaboratori, invoco di tutto cuore l’abbondanza delle Benedizioni divine.
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20 ottobre 2009 • pagina 7
«Sono molto stanco, non so se mi va più di continuare»
Roccella: «La legge 194 rende impossibile l’aborto a domicilio»
Ciancimino jr. ascoltato per quattro ore a Palermo
Via libera alla Ru486 (ma solo in ospedale)
PALERMO. «Non so se mi va più
ROMA. Via libera alla pillola
di continuare. Sono molto stanco. Anche per questo, oggi, sono qui davanti ai magistrati». L’ha detto (ieri) Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo condannato per mafia, Vito, prima del nuovo interrogatorio che ha reso davanti ai pm di Palermo e Caltanissetta. Ciancimino è rimasto a colloquio con gli inquirenti per 4 ore, e all’uscita non ha voluto rilasciare ulteriori commenti. A giustificazione del suo sfogo Ciancimino, che sta raccontando ai magistrati della cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, ha raccontato un episodio che ha definito «preoccupante».
abortiva Ru486. Il Consiglio di Amministrazione dell’Aifa, riunitosi ieri, ha dato mandato al direttore generale Guido Rasi per la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell’autorizzazione all’immissione in commercio del Farmaco Mifegyne (Mifeprostone), prodotto dalla ditta Exelgyne, «dopo aver espletato gli adempimenti previsti». La decisione «pone fine al possibile utilizzo improprio del farmaco e sgombra il campo da qualsiasi possibile interpretazione di banalizzazione dell’aborto e dal suo impiego come metodo contraccettivo». È la stessa agenzia a spiegarlo aggiungendo di «condividere le preoccupazioni di carattere etico che
«Ieri sera - ha detto - alla vigilia delle importanti dichiarazioni che dovrò rendere sui carabinieri del Ros, la mia scorta, mentre mi riaccompagnava nella mia casa di Bologna, insospettita dalla presenza di due persone, davanti al palazzo, ha deciso di fare un controllo. Si trattava di due carabinieri del Ros, armati, che hanno dichiarato di essere lì per indagini». «La scorta - ha proseguito - li ha identificati e ha fatto una relazione di servizio che ha trasmesso alle procure di Palermo e Caltanissetta». Ciancimino nel raccontare della trattativa ha
Dietrofront di Tremonti «Credo nel posto fisso» Il ministro chiude alla mobilità, figlia «della globalizzazione» di Alessandro D’Amato
ROMA. «Non credo che la mobilità sia di per sé un valore. Per una struttura sociale come la nostra, il posto fisso è la base su cui costruire una famiglia. La stabilità del lavoro è alla base della stabilità sociale». Parole e musica niente popò di meno che di Giulio Tremonti, ministro dell’Economia ma anche componente di quel governo Berlusconi che aveva contribuito, con la legge Biagi, ad apportare proprio una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro italiano. Nel frattempo si vede che il ministro deve averci ripensato. Per questo ieri, al convegno promosso dalla Bpm sulla partecipazione dei lavoratori all’azionariato delle imprese, ha dichiarato che «un conto è avere un posto di lavoro fisso o variabile in un contesto di welfare come quello europeo, un conto è avere uno stipendio senza sanità e servizi. Negli Usa i fondi pensione dipendono da Wall Street, e se le cose vanno male ti ritrovi a mangiare kit kat in una roulotte e neghi la scuola ai tuoi figli». A imporre forme di lavoro più flessibili, secondo Tremonti, è stata la globalizzazione, che «non ha trasformato il quantum di lavoro ma la qualità di lavoro, passato da fisso a mobile».
role di elogio anche per la Costituzione: «È ancora molto valida per la parte dei principi e un ritorno allo spirito originario può portare a concrete e non poco remote applicazioni. Nella nostra Costituzione c’è il confronto tra le tre diverse culture chiave che animarono lo spirito di quel tempo: quella cattolica, quella comunista e quella liberale. E l’articolo sulla proprietà industriale è la sintesi delle tre diverse visioni».
Il ministro ha proseguito spiegando che «c’è un passaggio fondamentale ossia che la Repubblica tutela e regola il risparmio e favorisce l’accesso alla proprietà dell’azionariato popolare dei grandi complessi produttivi del Paese». L’evoluzione delle cose, secondo Tremonti, ha fatto sì che ci sia «stata una rotazione rispetto ai principi formulati allora che ha portato ad un grande favore per i titoli di debito sfavorendo quelli di proprietà». Un fatto che ha portato al «controllo del sistema bancario sulla grande proprietà industriale”». Ma le reazioni alle parole sulla precarietà non hanno tardato ad arrivare. «Tremonti parla come un nostro iscritto», ha detto il segretario della Uil Angeletti, mentre Epifani della Cgil si è chiesto ironicamente cosa ne pensasse Confindustria delle parole del ministro. «Le parole di Tremonti - ha detto invece il segretario generale della Cisl Bonanni - sono sicuramente condivisibili. È un obiettivo che inseguiamo anche noi. Oggi il problema è quello di superare l’idea distorta di flessibilità. Chi è precario o flessibile deve essere pagato di più e avere più tutele e garanzie degli altri». E non è mancata l’ironia: «Tremonti a favore del posto fisso? Fantozzi lo adorerebbe, lo amerebbe. Per me invece è una tragedia - dice Paolo Villaggio - Il posto fisso, per quanto Brunetta può mettere sotto chiave i lavoratori, è assenza di stimoli. I nostri governanti sottovalutano il fatto che i lavoratori medi non hanno alcuna possibilità di avere successo e quindi non gliene frega nulla. I loro modelli sono le veline, escort, calciatori di successo, qualche attore e i politici tutti. Il loro sogno non è il posto fisso, è essere fotografati con una velina».
Ieri, il discorso al convegno promosso dalla Bpm sulla partecipazione dei lavoratori all’azionariato delle imprese
parlato del ruolo svolto dagli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, intermediari a suo dire - tra le istituzioni e Don Vito Ciancimino che agiva per conto dei corleonesi, nella cosiddetta trattativa. Ai giornalisti che gli chiedevano commenti sulle dichiarazioni dell’ex presidente dell’Antimafia Luciano Violante che ha definito il papello consegnato da Ciancimino ai magistrati una “bufala”, il figlio dell’ex sindaco ha risposto: «non voglio entrare nel merito, i magistrati sanno valutare. Certo è singolare che c’è gente che ritrova la memoria dopo 17 anni». Ciancimino jr. si riferisce al fatto che Violante, solo quest’anno, ha ricordato che Vito Ciancimino gli chiese un incontro, nel ’92, attraverso l’allora colonnello del Ros Mario Mori.
Il ministro poi ha detto la sua sul tema del convegno: «Credo che in Italia ci sia meno bisogno della cogestione e più bisogno della compartecipazione. La cogestione come nascita di figure imprenditoriali miste a me sembra meno positiva mentre è più positiva l’informazione sulla gestione». Secondo il responsabile di via XX Settembre, «un conto è avere informazioni sulla gestione, un conto è avere la corresponsabilità in un ibrido imprenditoriale». Il ministro ha quindi sottolineato che «data la geografia economica italiana non credo ci sia spazio per applicare modellistica di altri Paesi. Il meccanismo della compartecipazione può avere anche forme diverse: ad esempio quando hai - ha spiegato - un favore fiscale sulla detassazione degli straordinari identifichi già il nucleo di partenza di una diversa legge contrattuale». E, a sorpresa viste le polemiche politiche di queste settimane, Tremonti ha avuto pa-
anche questo metodo di interruzione volontaria della gravidanza comporta». La decisione rimanda a Stato e Regioni le disposizioni per il corretto percorso di utilizzo clinico del farmaco all’interno del servizio ospedaliero pubblico. L’Aifa ha anche aggiunto che continuerà «ad offrire la propria competenza tecnico-scientifica alle Istituzioni, e al Senato della Repubblica in primis, per quanto concerne il percorso applicativo del provvedimento adottato».
Uno dei punti fermi con il quale l’Aifa ed i suoi esperti dovranno comunque confrontarsi è il rispetto della legge 194 sull’aborto, in cui si prevede che l’interruzione della gravidanza avvenga in una struttura pubblica, cioè in ospedale. La legge «rende impossibile l’aborto a domicilio», spiega in una nota il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella. «Ci può essere compatibilità fra la normativa italiana e la Ru486 solo se - sottolinea Roccella - l’intera procedura abortiva viene praticata in una struttura pubblica, con le garanzie sanitarie offerte dalla permanenza in ospedale. Non si tratta di modalità che possano essere decise dai singoli medici, Asl o regioni, ma che devono essere uniformi sul territorio nazionale».
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pagina 8 • 20 ottobre 2009
Terremoto. Le accuse formulate sono di omicidio e disastro colposo, ma il pubblico ministero non esclude l’inserimento del dolo
L’Aquila, i primi indagati Casa dello Studente: dodici avvisi di garanzia per il crollo dove morirono otto ragazzi di Franco Insardà
ROMA. Sarà una coincidenza, ma assume un certo significato. Ieri è iniziato ufficialmente l’anno accademico all’università de L’Aquila sia a Medicina sia a Economia. E proprio ieri il procuratore capo del capoluogo abruzzese, Alfredo Rossini, ha riferito di aver iscritto nel registro degli indagati dodici persone per l’inchiesta sul crollo della casa dello studente, dove morirono otto studenti. Come ha spiegato il procuratore i dodici, nei prossimi giorni, riceveranno la comunicazione giudiziaria con l’imputazione e saranno invitati a comparire per l’interrogatorio. «Queste persone per la prima volta potranno entrare in una dialettica processuale e dare le loro spiegazioni». Sarà proprio dopo gli interrogatori, ha detto ancora Rossini, che sarà possibile verificare «se sono estranei ai fatti o se dovremo procedere nei loro confronti per le indagini preliminari e il processo». Il procuratore ha chiarito inoltre che la Casa dello Studente è «soltanto uno dei crolli su cui si indaga, il passo successivo sarà il Convitto. Abbiamo diviso l’inchiesta su vari siti dove sono crollate le case e morte delle persone». E con tono polemico ha aggiunto: «Nei giorni scorsi sono stati dati dei numeri riguardanti le inchieste in corso e questo lo si può accettare solo nello sport, mentre dietro a queste vicende ci sono persone che hanno subito dei lutti».
Dal dottor Rossini, che è anche procuratore distrettuale antimafia in Abruzzo, è arrivato un avvertimento, dopo la denuncia di altre quattro aziende in odore di mafia che stanno lavorando negli appalti per la ricostruzione post terremoto. «Abbiamo suggerito a tutti di tenere alta la guardia. Ho sempre detto che dopo il problema dei crolli e dell’inchiesta, ci sarà il problema della mafia. Occorre contrastare un fenomeno che, se dovesse prendere piede più di quanto è già successo, sarebbe veramente triste perché andrebbe a incidere su una città già martoriata». Forse anche pensando a quei morti sotto le macerie della Casa dello Studente che meritano giustizia il rettore dell’università de L’Aquila, Ferdinando di Orio, a margine della lezione magistrale in occasione dell’apertura dell’anno accademico della facoltà di Medicina, nella tensostruttura di Farmindustria, ha detto: «La Regione, l’Azienda per il diritto allo studio, e la Protezione civile, che hanno il compito di trovare gli alloggi per gli studenti, devono ricordarsi che questa è una città universitaria. Abbiamo già trovato 220 posti alla Reiss Romoli, ma adesso tocca ad altri trovare residenze per i nostri studenti. Se andate alla Reiss Romoli, c’è la fila di studenti che vorrebbe iscriversi all’università dell’Aquila, ma non può farlo perché non sa dove andare a
Dopo le catastrofi dell’Abruzzo e di Messina
Troppi furbi in Italia, li puniremo tutti? di Gabriella Mecucci odici avvisi di garanzia per il crollo della casa dello studente dell’Aquila. Le accuse sono di omicidio e disastro colposo, ma il procuratore non esclude neanche il dolo e rinvia ad ulteriori accertamenti da fare con gli interrogatori e subito dopo.
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L’Italia è un Paese dove si vedono le speculazioni più insopportabili. In questi giorni abbiamo visto i torrenti vicino a Messina “cementati”, l’abbandono di territori notoriamente franosi che non vengono più coltivati, ma che in compenso si riempiono di case, di ponti, di superfetazioni abusive. Del resto, L’Aquila, con i suoi quasi trecento morti, rappresenta la denuncia più esplicita della negligenza e forse del dolo con cui si costruisce nel “Belpaese”. La città e i suoi dintorni sono notoriamente zone ad altissimo rischio sismico. Ebbene, se le scosse dell’intensità dell’aprile 2009, anziché essersi verificate nel capoluogo abruzzese, avessero toccato un qualche territorio giapponese non ci sarebbe stata nemmeno una vittima. I governanti sanno da tempo quanto alto sia in questo Paese il pericolo di terremoti e, siano essi di destra o di sinistra, hanno vigilato affinché si costruisse con i materiali più adatti, nei luoghi migliori, con i progetti più sicuri. Da noi, nemmeno a pensarci. Tanto è vero che all’Aquila mezzo centro storico è andato giù come fosse un castello di carta. E i più fragili sono risultati essere proprio gli edifici pubblici. L’elenco è lungo: dalla prefettura all’ospedale, passando appunto per la casa dello studente dove hanno lasciato la vita ben otto ventenni. Ma che Paese è il nostro se nemmeno la vita di un ragazzo vale la pena di essere tutelata con l’attenzione che merita? Se si può straguadagnare cinicamente mettendo a rischio un centinaia e centinaia di giovani? Esiste, nell’ambito edilizio, un reato più grave di questo? Il sindaco della città Cialente ha denunciato che nei piloni
di cemento della casa dello studente mancavano le staffe. E più in generale non sono state seguite in nessun modo le regole antisismiche. E le occasioni per verificare lo stato di salute dello stabile non sono mancate.
Negli ultimi anni ci sono state ben tre ristrutturazioni: la prima è del luglio 2003, la seconda del novembre 2004, la terza del maggio 2005. Tutte e tre le volte, naturalmente, sono stati spesi molti denari pubblici, quelli che il contribuente versa nelle casse dello stato perché questo garantisca ai propri figli di poter studiare con costi accettabili per le famiglie meno abbienti. Ma questo danaro purtroppo serve a far fare buoni affari ai costruttori e magari a far conquistare qualche consenso al politico che elargisce gli appalti. Nessuno è colpevole davanti alla legge sino a sentenza passata in giudicato. Ma se si trovassero le prove della negligenza, o peggio del dolo nel costruire o nel ristrutturare la casa dello studente è proprio la volta di chiedere ai giudici la mano ferma: sarebbe stato commesso un reato fra i più gravi. Il mondo dei cosiddetti furbi che se ne fosse reso responsabile, dovrebbe essere punito seriamente. E non con i soliti due-tre anni che con i benefici della condizionale diventano poco più che un severo ammonimento. Questa volta sono morti 8 ragazzi che volevano studiare e che volevano vivere. Facciamo che i colpevoli non possano vivere in tranquilla libertà mentre tante madri e tanti padri piangono.
dormire. In questo modo rischiamo di perdere iscritti non per nostre responsabilità, ma per mancanza di posti-letto».
Rivolgendosi agli studenti presenti il rettore ha aggiunto: «Quella che state vivendo è una situazione molto prossima alla normalità e l’ateneo, pur tra mille problemi, è riuscito a riorganizzare in tempo il suo sistema didattico formativo. Subito dopo il sisma - ha detto di Orio - ho fatto presente al capo Dipartimento della Protezione civile, Guido Bertolaso, che bisognava risolvere il problema delle residenze degli studenti. Ho più volte chiesto la disponibilità degli alloggi della Guardia di finanza, ma mi sono stati sempre negati. Per questo, pur di venire incontro ai bisogni degli studenti, l’università si è assunta responsabilità che esulavano dalle sue competenze. Ma non ci siamo certo fermati, siamo tuttora la lavoro per darvi ciò che serve per il vostro diritto allo studio: mense, servizi di trasporto ed altre residenze». Alle parole del rettore non si è fatta attendere la replica dell’Unione degli universitari secondo la quale «la situazione è lontana dalla normalità».
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Contestata la Finanziaria 2010 e le norme sul patto di stabilità interno
Scuole pericolanti: la rivolta degli enti locali di Alessandro D’Amato
ROMA. La Finanziaria 2010, nel solco di quella del 2009 chiede il sacrificio più grande alle amministrazioni locali. Prevede un rientro dal deficit che comuni, province e comunità montane non sono in grado di garantire, a causa dei continui tagli ai trasferimenti e delle regole assurde ed impraticabili del Patto di stabilità interno. Gli Enti Locali le nel corso di un’audizione a Palazzo Madama in Commissione congiunta al Bilancio di Camera e Senato hanno hanno lamentato la mancanza di liquidità anche per spese urgenti, come la messa in sicurezza delle scuole secondarie.
Il procuratore Rossini avverte: «Dopo i crolli e l’inchiesta, ci sarà il problema della mafia. Occorre contrastare un fenomeno che, se dovesse prendere piede, sarebbe triste in una città già martoriata» Fuori, vicino alla tensostruttura di Coppito che ospiterà le lezioni, tanti gli slogan sugli striscioni esposti: «Noi studenti terremotati per quanto ancora verremo dimenticati?», «Senza abitazione come faremo lezione?», «Più Arpa per tutti». A testimonianza dei problemi e delle preoccupazioni di quelli che sono da sempre stati considerati una ricchezza per l’economia cittadina.
Gli studenti chiedono di avere un alloggio e beneficiare delle esenzioni dei servizi di trasporto. Secondo uno dei rappresentanti degli studenti, Mauro Serafini, si aspettano «risposte concrete soprattutto per quel che riguarda l’emergenza abitativa. L’unica proposta l’abbiamo ricevuta dal comune dell’Aquila che ha detto di voler mettere a disposizione un certo numero di Moduli abitativi su ruote, ma l’ultima parola spetta alla Protezione civile, vero anello decisionale della catena, e da loro non abbiamo ancora avuto alcuna risposta». Altro nodo da sciogliere è quello relativo alle borse di studio non ancora versate per l’anno accademico 2008-2009. Secondo l’Udu «la Regione deve versare circa tre milioni di euro all’Azienda per il diritto allo studio per pagare le borse dell’anno scorso, ci chiediamo come andrà nel 2010, vista la situazione in atto dopo il terremoto». Intanto la terra continua a tremare. Ieri alle 13,50, una scossa sismica è stata avvertita, oltre che a L’Aquila, in alcuni paesi già duramente colpiti come Poggio Picenze e Fossa. Ma l’attenzione maggiore è puntata sul Palazzo di giustizia.
A destra, Antonio Rosati, assessore al Bilancio della Provincia di Roma. In alto, la casa dello studente dopo il terremoto a L’Aquila. A sinistra, un’immagine dell’alluvione di Messina
All’audizione non c’erano le Regioni, che da mesi hanno rotto tutte le relazioni istituzionali con il governo ma erano presenti i rappresentati di Anci, Upi e Uncem. Hanno chiesto la modifica del ddl Finanziaria, a partire dal “Patto di stabilità interno”, accusato di provocare situazioni paradossali. Il Patto di Stabilità interno nasce dopo il Trattato di Maastricht: per questo ogni legge finanziaria assegna gli obiettivi programmatici per gli enti territoriali ed i corrispondenti risultati ogni anno. Originariamente era impostato sui saldi di bilancio, in modo che ogni ente locale potesse autonomamente decidere se agire sul versante delle spese (riducendole) o su quello delle entrate (aumentandole). E tutto sommato funzionava. Poi è arrivata la rivoluzione targata Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia ha agito su diversi fronti. Ha bloccato l’autonomia impositiva di Regioni ed Enti Locali, impedendo di fatto ad essi di agire sul versante delle entrate. Quindi, l’unica strada è bloccare le spese. Poi, ha assunto come parametro di riferimento del patto di Stabilità il saldo finanziario del 2007, calcolato in termini di competenza mista, cioè assumendo per la parte corrente i dati di competenza (accertamenti meno impegni) e per la parte in conto capitale i dati di cassa (riscossioni meno pagamenti). In questo modo vengono esclusi dal meccanismo di calcolo dei limiti imposti agli enti locali, i pagamenti di parte corrente e gli impegni in conto capitale. Se questo consente di programmare più liberamente gli investimenti, rende poi difficile la trasformazione in cassa (pagamenti effettivi) della competenza (programmazione degli interventi). In pratica, si crea un meccanismo “strutturale” di blocco della spesa effettiva per investimenti: mentre l’Ente può tranquillamente spendere i soldi per la spesa “corrente”, non può più farlo per gli “investimenti”. Secondo le stime dell’Anci, i comuni dispongono di 33 miliardi di euro di residui passivi, dei quali 11 potrebbero essere usati subito. Ma di questi, con le regole attuali risulterebbero effettivamente impiegabili solo 740 milioni di euro. L’Anci, nella memoria consegnata alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, scrive che “le regole vigenti sul Patto hanno avuto l’effetto perverso di creare residui passivi nei bilanci comunali, di portare gli Enti locali in “avanzo” strutturale. Si stima che nel 2011, a legislazione vigente, tutti i Comuni saranno in avanzo di amministrazione”. In più, la penalizzazione è selettiva: il meccanismo si
basa sul taglio “lineare”dei saldi, a partire dal livello degli stessi nei 2 anni precedenti. Così gli enti locali più virtuosi, che avevano fatto sane politiche di bilancio negli anni passati, sono penalizzati rispetto a quelli un po’“spreconi”. Nella “cupio dissolvi”tremontiana qualche anno fa finirono addirittura i Fondi dell’Unione europea, che però – se non vengono utilizzati entro un certo periodo di tempo (la cosiddetta regola dell’n+2) – devono essere restituiti a Bruxelles. Qualcuno fece notare al ministro l’infortunio e la regola venne rapidamente modificata. Ma il blocco ha portato a un paradosso. Antonio Rosati, assessore al Bilancio della provincia di Roma, intervenuto a nome dell’Upi all’audizione parlamentare, ha lanciato l’allarme: «se non ci sarà un allentamento del patto di stabilità si metterà a serio rischio il programma per la messa in sicurezza delle scuo-
L’Upi lancia l’allarme: viene impedito anche a chi ha difficoltà finanziarie di fare investimenti, a partire da quelli per la messa in sicurezza degli istituti le che dovrà essere presentato entro il 31 dicembre 2010». Molti pretori stanno chiedendo ai presidenti di provincia i programmi per la messa in sicurezza delle scuole di secondo grado, ma i presidenti non possono farvi fronte perché rischiano di sforare il patto di stabilità. Ci troveremmo in una situazione assurda: i presidenti delle province che rischiano l’incriminazione perché rispettano una legge dello Stato. «È invece fondamentale – ha detto Rosati – consentire alle Province l’utilizzo e l’impiego dell’avanzo di amministrazione per il finanziamento delle spese di investimento, anche nell’ottica di una diminuzione del ricorso all’indebitamento, con immediate conseguenze positive sullo stock di debito della pubblica amministrazione». Sono parole sagge.Verranno ascoltate? (ha collaborato Carlo Cipiciani)
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Primarie. Delle 13 al voto nel 2010, 11 sono guidate dal centrosinistra. E 10 si schierano con Bersani...
Tutte le regioni del (quasi) Presidente di Antonio Funiciello
ROMA. Per capire come il potere locale sarà determinante per le primarie di domenica è sufficiente fare due conti. Delle tredici regioni al voto il prossimo marzo 2010, undici sono guidate dal centrosinistra, di cui dieci - con la sola esclusione della Puglia di Vendola - contano un presidente regionale del Pd. Tutti e dieci, già prima dell’estate, hanno sottoscritto la mozione Bersani. Rilievo che segnala, insieme ad altri simili, che Bersani resta senza dubbio il favorito nella corsa per la segreteria democratica. La scelta per l’ex ministro è stata come sempre dettata da un misto di convinzione e convenienza: prevedendo l’annunciata vittoria di Bersani, i presidenti regionali
IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio
democratici, approssimandosi la scadenza del mandato, hanno preferito non crearsi, tra i problemi che ne ostacolano la ricandidatura, quello della contrarietà del segretario nazionale. Una scelta di prudenza e opportunità legittimata dal dato politico-elettorale che li vede, al confronto con un vertice na-
bero Chiamparino. Non a caso la Bresso è stata uno dei primi presidenti regionali a pronunciare il suo endorsement a favore dell’ex ministro, conquistandosi il biasimo di Fassino che credeva di poterla contare tra i suoi. Stesso discorso per la Toscana dove se l’attuale presidente bersaniano non sarà ri-
Prevedendo la sua vittoria, i presidenti locali del Pd hanno preferito non crearsi il problema della contrarietà del segretario nazionale zionale più volte sconfitto, unici vincitori in carica. E, fino a prova contraria da verificare il prossimo 21 marzo, unici potenziali vincitori del poco roseo domani democratico.
Per alcuni, la scelta per Bersani è stata naturale. Dalemiani ortodossi come Errani (Emilia Romagna), Lorenzetti (Umbria) e Burlando (Liguria) o lettian-dalemiani come Di Filippo (Basilicata) e Spacca (Marche), si sono trovati naturalmente collocati dalla parte di Bersani. Discorso analogo per la Bresso in Piemonte, al posto della quale ancora oggi molti preferireb-
candidato, è assodato che al suo posto ce ne sarà un altro di uguale credo politico. Sorprendente apparve, invece, ai più il sostegno offerto a Bersani già prima della pausa estiva dal presidente laziale Marrazzo. Nel 2004 la sua candidatura fu un’invenzione di Veltroni, osteggiata allora con decisione da D’Alema che avrebbe preferito soluzioni interne. Tant’è che la sua ricandidatura è tutt’oggi ostacolata dalla componente dalemiana locale. In Calabria Agazio Loiero punta decisamente a presentarsi per un nuovo mandato e per questa ragione ha lasciato la sua com-
ponente popolare, che pure gli chiedeva di schierarsi per Franceschini, per stringere un patto con D’Alema. Che in maniera simile si è mosso in Campania, accordandosi con Bassolino. Rimane fuori, almeno apparentemente la Puglia, dove è pur vero che Vendola non sta nel Pd, ma è altrettanto fuor di dubbio che il partito è sempre in mano a D’Alema.
Un simile spaccato non lascia adito a incertezze. Una vittoria di Bersani alle primarie sarebbe la logica conseguenza anche di questo equilibrio tutto favore dell’ex ministro. Esattamente come la strada specularmente prescelta dai presidenti regionali per conservare gli incarichi, ripresentandosi alle elezioni, passa per un sostegno al candidato alla segreteria che tutti pronosticano vincente. Naturalmente una massiccia sconfitta del Pd alle regionali 2010 avrebbe la ricaduta nazionale di un ridimensionamento di Bersani, qualora fosse eletto. Con i suoi presidenti non riconfermati, lo sconfitto sarebbe per tutti lui. Ma il 21 marzo è lontano, mentre il 25 ottobre è tra soli cinque giorni.
Il conduttore di Canale 5 affiancherà la Clerici al prossimo Festival della canzone?
Se Ezio Greggio “striscia” a Sanremo rima del tormentone “perché Sanremo è Sanremo” che dobbiamo sorbirci ogni anno, almeno fino a quando non riusciremo a emigrare o farci le vacanze lunghe lunghissime di Natale, c’è il tormentone “chi condurrà Sanremo?”. Peggio di Sanremo, infatti, c’è solo Sanremo. Il problema di quest’anno si chiama Antonella Clerici: chi le starà a fianco? In Rai hanno questo piccolo problema e non sanno bene come risolverlo. Allora, hanno avuto una botta di genialità e hanno pensato bene di rivolgersi alla concorrenza - si fa per dire: mica credete per davvero che Rai e Mediaset siano concorrenti? - e di chiedere a Ezio Greggio se se la sente di fare il “valletto” della Clerici. Sì c’è anche l’ipotesi di Paolo Bonolis e Fiorello con una serata speciale, ma la vera notizia è l’altra: Ezio Greggio che lascia il timone di “Striscia” per dire “signore e signori buonasera, ecco a voi…” e altre amenità del genere è o la fine di Sanremo o la fine di “Striscia”. Voi che dite?
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Prima di tutto, però, chissà che dice lui, Ezio Greggio: «Sì, è vero, la proposta mi è arrivata e la sto valutando. Una cosa comunque è certa: qualunque decisione sarà presa insieme con i verti-
ci di Mediaset». Il vertice Mediaset, lasciando da parte Silvio Berlusconi, significa Piersilvio, ma anche Fedele Confalonieri e in questo caso anche Antonio Ricci e Enzo Iacchetti. Sì, proprio così, perché Ezio Greggio non è mica “bao bao micio micio”. No, Ezio Greggio è il contraltare di Sanremo, è “l’altro Sanremo”, è il “contro Sanremo”. Sanremo sarà anche Sanremo, ma anche Striscia è Striscia. Se il “signor Ezio” va a condurre il Festival della canzone italiana - massì, una bella palata di retorica ci sta bene - chi ci sarà dall’altra parte con il “signor Enzino” a condurre “Striscia”? E cosa farà in quella settimana “Striscia”? Farà come suo solito il pelo e contropelo ai festivalieri o si farà i fatti suoi? Ci dirà in anteprima, come è quasi sempre avvenuto nelle passate edizioni, chi vincerà
la gara canora o in omaggio al “signor Ezio” non volerà una mosca? Lo scopriremo solo vivendo. Certo è che Sanremo sarà anche Sanremo ma è in piena crisi di ascolti da qualche tempo. Lo scorso anno fu praticamente un disastro, oltre che la solita noia infinita (naturalmente, per chi si è messo sul divano a sorbirsi i big e le nuove proposte). Antonellina, visti anche i suoi recenti flop, non sembra la conduttrice giusta al posto giusto. Il rischio è troppo alto: vuoi vedere - avranno pensato dalle parti di mamma Rai - che qui facciamo la fine di “Tutti pazzi per la tele”? Così si son guardati intorno e hanno avuto l’intuizione folgorante: chiediamo a Canale5 e a quei grandi rompiballe della banda di Antonio Ricci se per caso non siano disposti a darci una ma-
no. Detto fatto. Ezio Greggio potrebbe essere della partita sanremese. Ora, se l’ineffabile Greggio dovesse saltare il fosso e lavorare in Rai per la prima volta in vita sua - almeno così sembra - ci sarà il dilemma: si farà imbalsamare o porterà “Striscia” a Sanremo?
L’idea di rivolgersi alla concorrenza nasce dal calcolo di disinnescare le serate di Canale5 nella settimana dedicata al Festival. In quei giorni - ricorderete - “Striscia” non ne fa passare una liscia e con i suoi inviati almeno riesce a trasformare Sanremo in un cabaret apprezzabile sgonfiando quella prosopopea festivaliera nella quale ormai credo soltanto RaiUno. Certo è che se Antonio Ricci decidesse di continuare a fare “Striscia” alla maniera di sempre, allora, avremmo “Striscia” che fa le bucce a Ezio Greggio che invece di stare a “Striscia” sarebbe a Sanremo. In pratica, il mondo capovolto. Davvero non c’è più religione. Enzino Iacchetti contro Ezio Greggio. Voi ci credete? I due sarebbero capaci di condurre comunque “Striscia” a distanza che, in pratica, sarebbe il vero evento di Sanremo. Più che il Festival di Sanremo sarebbe il Festival di Striscia.
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Integrazione. I motivi del dissidio tra Bagnasco e Martino sull’introduzione dell’ora di religione islamica nelle scuole
Ma nel ’99 in Germania Ratzinger disse «sì» di Luigi Accattoli segue dalla prima La proposta è venuta venerdì da “Farefuturo”, la fondazione che fa capo al presidente della Camera Gianfranco Fini e suona così: «Introdurre l’ora di religione islamica facoltativa nelle scuole pubbliche». Sabato sono arrivate le posizioni in contrasto dei cardinali Angelo Bagnasco presidente della Cei e Renato Raffaele Martino presidente del Consiglio vaticano Giustizia e Pace. Martino aveva sostenuto quella posizione già nel marzo del 2006 e anche allora la sua uscita aveva provocato reazioni dentro e fuori il mondo ecclesiastico. «Gli immigrati musulmani hanno diritto di istruirsi nella propria religione», è tornato a dire sabato, purchè ciò sia fatto con i «debiti controlli». Un tale insegnamento - ha aggiunto - potrebbe essere un argine al “radicalismo”. La sua contrarietà il presidente della Cei l’argomenta paragonando l’ipotetica ora di islam a quella cattolica prevista dell’articolo 9 del Concordato «in quanto la conoscenza del fatto religioso cattolico è (considerata) condizione indispensabile per la comprensione della nostra cultura».
stazione fondamentalista. Interessante è la disputa sulla stessa materia già svolta dai tedeschi, con un quindicennio di anticipo sulla nostra.
Il primo a dare un parere favorevole fu nel ’95 Walter Kasper. Poi fu l’attuale Papa, solo previa adesione dei musulmani alla Costituzione tedesca Mentre l’insegnamento islamico sarebbe una «catechesi confessionale». Qui il cardinale Bagnasco ha ragione e certamente l’ora islamica - se dovesse esserci - dovrebbe avere altra giustificazione: dovrebbe qualificarsi come un gesto di accoglienza e insieme una provocazione a un pieno inserimento nel nostro ordinamento. Dovrebbe esservi infatti un accordo tra lo Stato e
le comunità islamiche - che però fino ad oggi non hanno una rappresentanza unitaria per la scelta dei docenti, per la fissazione dei programmi e per il controllo delle modalità dell’insegnamento, che ovviamente dovrebbe svolgersi in italiano e dovrebbe essere unico per alunni provenienti anche da paesi diversi: e sono tutte condizioni di contrasto a un’impo-
Il primo a dare un parere favorevole fu nel ’95 l’arcivescovo di Stoccarda Walter Kasper, ora cardinale e presidente del Consiglio vaticano per l’unità dei cristiani. Disse allora - per esempio in un’intervista ad Avvenire del 15 febbraio di quell’anno - che quell’insegnamento poteva essere giustificato con il principio della libertà religiosa purché si riuscisse a stabilire condizioni «valide» quanto al reclutamento degli insegnanti e alla garanzia che non svolgessero un «indottrinamento antidemocratico». Simile fu l’indicazione data più tardi dal cardinale Ratzinger in un’intervista del ’99 al settimanale Welt am Sonntag: le organizzazioni islamiche richiedenti quell’insegnamento avrebbero dovuto attestare «una piena adesione alla Costituzione» tedesca e dare garanzie che non venisse a realizzarsi «un indottrinamento ma un’informazione equilibrata e oggettiva sull’Islam». In seguito la Conferenza dei vescovi
tedeschi adottò un atteggiamento di “favore” in linea di principio, lasciando ai vescovi dei singoli Land di pronunciarsi nel merito delle singole proposte. In alcuni Land quell’insegnamento è stato sperimentato, tra questi c’è la Renania-Vestfalia, dove vivono circa un milione di musulmani. Il presidente del Land Jürgen Rüttgers il 12 giugno 2006 ne parlò con Benedetto XVI e riferì alla Radio Vaticana che il Papa «ritiene molto importante che i bambini musulmani possano avere la possibilità di frequentare nelle nostre scuole un’ora di religione musulmana in lingua tedesca, con insegnanti formati in Germania e sotto la vigilanza della scuola». In occasione della polemica italiana del 2006 si era avuto un parere elastico ma più esigente nel porre condizioni - anche dal presidente della Cei di allora, il cardinale Ruini: «In particolare occorre che non vi sia contrasto nei contenuti dell’insegnamento rispetto alla nostra costituzione, a esempio riguardo ai diritti civili, dalla libertà religiosa alla parità tra uomo e donna e al matrimonio». www.luigiaccattoli.it
Tv. Sul decoder di Sky, da dicembre, saranno visibili tutti i canali in chiaro disponibili sul digitale terrestre
Mockridge frega Masi con una Usb di Marco Palombi na piccola penna Usb. È questa l’arma con cui il gruppo Sky pensa di vincere la guerra della tv. Più che il raddoppio dell’Iva, infatti, la sezione italiana del colosso di Rupert Murdoch quest’anno è stata preoccupata dall’uscita dal suo bouquet delle grandi tv generaliste (Rai, che lo ha già fatto, Mediaset e La 7), sette canali che ancora attirano la stragrande maggioranza del pubblico televisivo e della raccolta pubblicitaria. I grandi competitor dell’analogico si sono infatti coalizzati in un’unica società per affrontare la sfida del passaggio al digitale e l’ad di Sky Italia, Tom Mockridge, ha subito capito che il rischio era enorme: in molti, pur di continuare a vedere le reti più famose senza avere il fastidio di due decoder, avrebbero optato per il solo digitale terrestre, magari scegliendo l’offerta a pagamento di Mediaset che ricalca, assai in piccolo per la verità, quella della multinazionale anglosassone.
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dere visibili sul decoder satellitare tutti i canali in chiaro disponibili sul digitale terrestre. Di più: l’offerta gratuita del DT sarà integrata automaticamente nella sezione “Guida tv”di Sky, consentendo uno zapping rapidissimo – e con un solo telecomando – tra i canali di entrambe le tecnologie. La “trovata”di Mockridge rischia di costare carissima al direttore generale della Rai,
L’offerta gratuita sarà automaticamente integrata nella sezione “Guida tv”, consentendo uno zapping rapidissimo tra i canali di entrambe le tecnologie
Da dicembre la “Digital Key” risolverà il problema: Sky offrirà ai suoi abbonati una penna Usb in grado di sintonizzare e ren-
Diego Masi, principale artefice dell’uscita delle reti pubbliche dall’unica piattaforma satellitare operante sul mercato italiano (l’altra, sempre frutto della liaison tra viale Mazzini e Cologno Monzese è ancora solo un’intenzione): il gruppo Murdoch, alla fine, avrà per niente quello per cui prima pagava parecchi milioni di euro. Come si ricorderà, fu proprio Masi a decidere per il mancato rinnovo del contratto con Sky (scaduto il 31 luglio), con la motivazione che l’offerta – tra i 50 e i 60 milioni di euro l’anno – era troppo bassa. Adesso l’aria attorno al Dg rischia di farsi complicata:
«Complimenti alla direzione generale – ironizza il consigliere Nino Rizzo Nervo - La notizia che da dicembre sarà possibile ricevere il digitale terrestre anche con il decoder Sky è la prova definitiva che la Rai, in un periodo di crisi del mercato e di conseguente difficoltà per i suoi bilanci, non rinnovando il contratto per Raisat ha gettato dalla finestra circa 60 milioni di euro».
La situazione dei bilanci Rai, come dimostrano anche i numeri nelle mani di Masi, è infatti poco incoraggiante: raccolta pubblicitaria in calo, rosso che quest’anno – tra investimenti e mancati introiti - dovrebbe superare i 250 milioni di euro, per continuare a ritmo meno sostenuto nei prossimi anni. L’ex segretario generale di palazzo Chigi ha chiesto al governo di fare qualcosa contro l’evasione del canone, che s’aggira attorno al 30%, magari legandolo alle bollette elettriche, ma si tratterebbe di un provvedimento abbastanza indigesto per il grosso pubblico.
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i sono molte decine di milioni di persone nel mondo persuase che il 21 dicembre del 2012 avverranno cambiamenti così traumatici nel nostro pianeta che la civiltà attuale subirà uno sconvolgimento straordinario. Una convinzione alimentata ormai da un filone corposo di libri, siti internet, trasmissioni televisive e ora dal film di Roland Emmerich, 2012, in arrivo anche nelle sale italiane. Un attesa che spinge migliaia di persone nel mondo a correre già ai ripari, costruendo bunker, cercando rifugi sicuri per mettersi al riparo da catastrofi naturali e rivolgimenti sociali, iscrivendosi a corsi per accedere alla quarta dimensione senza perdere la vita. Un’allucinazione collettiva?
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Probabilmente. Ma lo scetticismo di chi scrolla le spalle, fatte grandi da sei secoli di razionalismo, non aiuta a capire questa bancarotta della ragione né perché milioni di persone di ogni cultura, ceto sociale e livello di scolarizzazione siano matematicamente certe che il 21 dicembre 2012 qualcosa sconvolgerà il nostro mondo fino a renderlo irriconoscibile.“Si spiega con la follia” direbbe il razionalista, follia che attraverso internet trova un campo di estensione straordinario. Può darsi ma non risulta che chi crede attivamente al nuovo big bang del pianeta sia tecnicamente pazzo: anzi, la maggioranza di costoro lavora 8 ore al giorno, mantiene una famiglia, conduce una vita (apparentemente) normale. Follia o suggestione di massa non spiegano tutto dunque né servono a tagliare corto su una profezia da cui le persone serie si tengono alla larga per non screditarsi. Per capire questo fenomeno è allora più utile prendere sul serio questa attesa per il 2012 – questa attesa collettiva per il 2012 più che la profezia in sé - e riconoscervi da un lato il crollo di un paradigma, quello appunto del razionalismo e della fiducia nella scienza newtoniana e nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, dall’altro il riaffacciarsi di un paradigma antico come l’uomo, quello ciclico dell’eterno ritorno e della catarsi finale. In una parola dell’apocalisse e della fine dei tempi. Si, perché questa attesa neomillenarista è solo l’esempio più clamoroso e popolare del riattivarsi dell’archetipo apocalittico. Di un nucleo cioè profondo, al tempo stesso mitico e psicologico, che giace nell’inconscio collettivo dell’umanità, come dimostrano agevolmente le mitologie e le religioni comparate di tutti i popoli. Ma quello apocalittico è un archetipo che sta influenzando anche la futurologia più scientifica: chi ha applicato la teoria delle catastrofi elaborata dal matematico e filosofo francese René Thom negli anni ’50 e ’60 alla situazione attuale parla di una serie di linee di crisi che si avvicinano e convergono come gli affluenti di un fiume verso un punto di rottura: non solo i mutamenti climatici, il surriscaldamento di mari e atmosfera ma anche le crisi sociali, l’esplosione demografica, il crollo delle economie finanziarie, il dilagare dei fanatismi e degli integralismi religioni, il profilarsi di uno scontro nord-sud con motivazioni teologico-etniche, il riapparire di malattie virali e microbiche arcaiche, testimonierebbero a favore di un redde rationem imminente su scala planetaria. Certo poi ci sono i futurologi dell’ottimismo, gli ecologisti scettici, quelli che insomma pensano che vada più o meno tutto bene, che i domani cantano
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Nell’inconscio collettivo dell’umanità è sempre esistito Oggi questo archetipo sembra essersi risvegliato. Libri, siti, grup
Quattro passi n Sul 21 dicembre 2012 convergono numerose antiche profezie. A cominciare da quelle dei Maya. C’è chi le prende molto sul serio e si sta preparando… di Riccardo Paradisi ancora. Ma anche a non essere del partito della fine del mondo basterebbe il buon senso a non farci snobbare i segni dei tempi.
Ma cosa dovrebbe succedere nel 2012? Qual è il fenomeno profetizzato dagli antichi maya e dal loro calendario basato sulla processione degli equinozi? Il fenomeno che dovrebbe investirci nel 2012 e che si manifesterebbe con regolarità ogni 12960 anni sarebbe l’esito
della fermata del movimento di rotazione della terra su se stessa. Una fermata che secondo gli esegeti dell’apocalisse prossima ventura durerà 72 ore per poi riprendere a ruotare in senso inverso, con la conseguente inversione dei poli magnetici. Questa inversione darà probabilmente luogo a eventi climatici e sismici che coinvolgeranno l’interno pianeta e l’intera umanità. La terra, secondo gli apocalittici del 2012, avrebbe già iniziato la sua fase di rallentamento in-
torno agli anni Sessanta del 900 e dal luglio del 2004 al luglio del 2005, secondo alcuni apocalittici sedicenti empirici, avrebbe rallentato di tre minuti la propria rotazione, dal luglio 2005 al luglio 2006 di 5. La frenata secondo costoro avrebbe un andamento esponenziale e non lineare sicché il picco avverrà in prossimità del 2012, in corrispondenza dell’intensificarsi di mutazioni climatiche e di attività sismiche di cicloni e inondazioni.
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il presentimento della fine e della rinascita del mondo. ppi di studio e un film di Emmerich ne sono la narrazione attuale
nell’Apocalisse Il film sul 2012 a novembre in Italia
La versione di Emmerich Ambientato tra il 2009 e il 2012, il film di Roland Emmerich – mozzafiato per effetti speciali - narra degli ultimi tre anni di vita del mondo. La forza distruttiva del Sole sta causando in California come in India il progressivo surriscaldamento della superficie del pianeta nonchè un rapido sfaldamento della crosta terrestre. Uno tra i primi ad accorgersi della catastrofe imminente è Adrian Helmsley (Chiwetel Ejiofor), responsabile dei consiglieri scientifici del presidente degli Stati Uniti Thomas Wilson (interpretato da Danny Glover).
Una teoria che si basa sulla scoperta relativamente recente che l’orientamento della terra nello spazio non è immutabile, ossia che il suo asse terrestre, parametro della sua posizione rispetto al sole, subisce continue variazioni che determinano la processione degli equinozi. Così l’equinozio di primavera viene anticipato di circa un grado ogni anni. Un ciclo professionale completo avviene ogni 26mila anni quando l’asse terrestre descrivendo un cerchio cambia il proprio orientamento rispetto al sole. Tanto che prossimamente come ammettono anche gli astronomi a indicare il nord non sarà più la stella polare ma la stella Vega. Ma non c’è solo l’inversione dei poli. A offrire un panorama più ampio di ciò che dovrebbe darsi appuntamento il 21 dicembre 2012 è un vecchio collaboratore del New York Times Lawrence E. Joseph nel suo “2012”, quella che lui
chiama “Un’indagine scientifica sulla fine della civiltà”. «La tesi di questo libro – scrive Joseph – è che l’anno 2012 sarà cruciale, forse catastrofico, forse rivelatore, in una misura che non ha precedenti nella storia umana». Le antiche profezie maya indicano in effetti che il 21-12-2012 segnerà la nascita di una nuova era accompagnata da sangue e sofferenza oltre che da speranze e promesse. Joseph nel suo libro allinea otto linee di convergenza verso il 2012 che proviamo a riassumere. La prima. Fin dagli anni Quaranta del XX secolo e in particolare del 2003, il sole si è comportato in modo più tumultuoso di qualsiasi altra epoca successiva al rapido riscaldamento globale che accompagnò la fine dell’ultima glaciazione 11mila anni fa. Gli studiosi di fisica solare concordano che l’attività della nostra stella raggiungerà il prossimo picco, a livelli da record, nel 2012 le tem-
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peste sul sole sono correlate alle tempeste sulla terra. La grande ondata di uragani del 2005, tra cui Katrina, Rita e Wilma, coincise con una delle settimane più tempestose della storia documentata del sole. La seconda. Il campo magnetico terrestre, la nostra principale difesa contro la radiazione solare dannosa ha cominciato a indebolirsi, con l’apertura casuale di squarci grandi come l’Italia o la California. Potrebbe essere in corso una migrazione dei poli magnetici, durante la quale tale protezione si riduce pressoché a zero. Mentre i poli nord e sud invertono la propria posizione. La terza. Alcuni geofisici russi credono che il sistema solare sia entrato in una nube interstellare di energia. Questa nube starebbe trasferendo energia al sole e a tutte le atmosfere planetarie destabilizzandoli. Le predizioni di tali scienziati per la catastrofe che deriverebbe dall’incontro della terra con questa nube di energia la collocano tra il 2010 e il 2020. La quarta. I fisici dell’università della California a Berkeley, i quali hanno scoperto che i dinosauri e il 70% di tutte le altre specie presenti sulla terra si estinsero in seguito all’impatto di una cometa o di un asteroide 65 milioni di anni fa, affermano che con una probabilità del 99% ci attende un’altra megacatastrofe del genere, che è già in ritardo. La quinta. Il supervulcano di Yellowstone che erutta in modo catastrofico a intervalli di 600-700mila anni si sta preparando a farlo. L’eruzione più recente di intensità paragonabile, verificatosi al lago Toba, in Indonesia, 74mila anni, fa provocò la morte di più del 90% della popolazione mondiale dell’epoca. La sesta. Secondo interpretazioni plausibili alcuni filosofie orientali come l’Iching, il libro dei mutamenti cinese e la teologia induista, individuano nel 2012 la data finale; lo stesso può dirsi di una serie di sistemi di credenze indigeni.
Esistono poi numerosi papiri egizi, di epoche diverse in cui si descrive un evento straordinario accaduto in almeno due occasioni: il sole che sorge a ovest e tramonta a est per alcuni giorni, per poi tornare alla normalità. Stando alle datazioni una di queste volte corrisponderebbe al diluvio universale narrato dalla Bibbia, l’altra alla scomparsa del leggendario continente Atlantide. La settima. Almeno un’intepretazione erudita della Bibbia predice che la terra sarà annientata nel 2012. Il fiorente movimento per l’Armageddon diffuso tra musulmani, cristiani ed ebrei, cerca attivamente di affrettare la battaglia finale dell’ultimo giorno. Si è andati molto avanti con quel prendere sul serio l’attesa per il 2012, ce ne rendiamo conto. Ma è un’attesa che risponde, seppure in forme ingenue o addirittura grottesche, a un’inclinazione culturale che appartiene anche alla nostra tradizione filosofica. Gli stoici greci e romani ponevano alla base della loro visione del mondo le speculazioni sui cicli cosmici, insistendo sia sull’eterna ripetizione (per esempio, Crisippo, framm. 623-627), sia sul cataclisma, ekpyrosis, con il quale terminano i cicli cosmici (già secondo Zenone, framm. 98 e 109). Ispirandosi a Eraclito lo stoicismo volgarizza tutte queste idee in relazione con il «grande anno» e con il fuoco cosmico (ekpyrosis), che pone fine periodicamente all’universo per rinnovarlo.
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Col tempo, i motivi dell’«eterno ritorno» e della fine del «mondo» finiscono per dominare tutta la cultura greco-romana. Il rinnovamento periodico del mondo (metacosmesis) era d’altra parte una dottrina favorita del neopitagorismo, che con lo stoicismo era la filosofia che maggiormente impregnava la società romana della società romana del secondo e del primo secolo avanti Cristo.
Ma l’adesione al mito dell’«eterna ripetizione», e a quello dell’apokatastasis , sono due posizioni filosofiche che lasciano intravedere un atteggiamento antistorico molto fermo, e anche una volontà di difesa contro la storia. «Le società tradizionali – scrive lo storico delle religioni Mircea Eliade – immaginano l’esistenza temporale dell’uomo non soltanto come una ripetizione di determinati archetipi ma altresì come un eterno ricominciare. A partire da un tale retaggio, che si perde nella notte dei tempi, si è andata elaborando la dottrina delle età del mondo e dei cicli cosmici». E del resto il fondatore stesso dell’intera filosofia occidentale, Platone, non ha posto alla base della sua speculazione il mito dell’Atlantide, il leggendario continente scomparso dopo una catastrofe che distrusse la sua civiltà? «Allora innanzi a quella foce stretta che si chiama, come dite voi, colonne d’Ercole, c’era un isola. E quest’isola era più grande della Libia e dell’Asia insieme… In tempi posteriori per altro, essendo succeduti terremoti e cataclismi straordinari, nel volgere di un giorno e di una brutta notte [...] tutto in massa si sprofondò sotto terra, e l’isola Atlantide similmente ingoiata dal mare scomparve». Così scrive Platone nel Timeo riportando il dialogo che il legislatore ateniese Solone (638 - 558 a.C.) ebbe con i sacerdoti Sais. Egli parla di una grande civiltà che esisteva fuori dal mondo conosciuto fino a quel momento, che aveva come centro il Mar Mediterraneo e l’Asia Minore, che sprofondò nel mare in poche ore, per cause non chiare. Platone ribadisce la storia dei cataclismi che si scatenarono in quel periodo nelle Leggi: «...Un tempo vi furono grandi mortalità, causate da inondazioni e da altre generali calamità, dalle quale ben pochi uomini riuscirono a salvarsi. Ed è ovvio pensare che, essendo state le città completamente rase da tale distruzione, gran parte della loro civiltà fu con esse seppellita sotto le acque, ed è occorso lunghissimo tempo per ritrovarne la traccia, e cioè non meno di parecchie migliaia di anni». Sei secoli di razionalismo non sono pochi. Ma non sono abbastanza per cancellare dal nostro inconscio l’archetipo del grande ritorno, il ricordo dell’età aurea e la nostalgia del paradiso perduto, oltre alla percezione che noi oggi stiamo vivendo un grande passaggio epocale. Probabilmente il 2012 è solo l’occasione per dare una veste drammatica a questa ancora confusa sensazione. Eppure questo come altri sintomi indicano che sarebbe meglio integrare il mito alla ragione invece di espellerlo da essa. Col rischio di vederlo riaffiorare, per esempio, in una fantasia di massa apocalittica. «Voi dite che c’è stato l’illuminismo – diceva Goethe – eppure ci sono gli spettri a Tegel».
L’Armageddon è stato annunciato dai movimenti e gruppi più disparati. Ma non si è mai verificato
Ma dalla profezia dei Maya non arriverà alcuna catastrofe
Ecco perché le “previsioni” sono prive di attendibilità scientifica. Come quelle di chi aspettava la fine del mondo nell’anno Mille o Duemila di Emilio Spedicato he il futuro riservi ancora all’umanità catastrofi di scala globale simili a quelle descritte nei testi antichi, come quella di Atlantide tramandata dagli Egizi via Solone e Platone, e quella del diluvio biblico dove sopravvissero Noè e altri, come tramandato ad esempio nella storia di Gilgamesh, è difficile dubitarne. Le catastrofi citate sono certamente di origine extraterrestre e altre simili sono statisticamente inevitabili. L’uomo potrà eliminare questo pericolo solo in casi limitati, quando l’agente che minaccia la Terra è abbastanza piccolo. Questo potrebbe essere il caso di Apophis, l’asteroide di cir-
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ca 400 metri di diametro, che fra meno di vent’anni potrebbe colpire la Terra. Che una catastrofe immane, caratterizzata dall’oscurarsi degli astri e dal cambiamento delle loro posizioni normali, segnerà la fine dell’umanità, è affermato anche nel Vangelo, in una famosa predizione di Gesù, in cui Egli Gesù dice che nessuno, nemmeno Lui ma solo il Padre, sa quando ciò avverrà. Più volte, anche negli scorsi decenni, vari movimenti profetizzanti hanno annunciato la fine del mondo - ricordiamo Cayce e vari gruppi che si suicidarono per non essere presenti all’evento - ma nulla è successo.
Se la Terra in questi anni viaggia verso una catastrofe non è tanto per un possibile impatto con un oggetto esterno, quanto per il continuo deterioramento della superficie vivente del pianeta, con la scomparsa ogni giorno di un grande numero di specie, quelle degli ordini cosiddetti inferiori, di cui nessuno parla: se scompariranno le api, per esempio, è stato stimato che l’umanità si estinguerà in quattro anni. Nel dicembre del 2012 dovrebbe terminare uno dei lunghi periodi del com-
plesso sistema di calendari utilizzato dai Maya. Tale periodo è di 5200 anni e sarebbe iniziato nel 3114 a.C., in un giorno detto 4 Ahau e 8 Cumhu. I Maya davano due nomi a ogni giorno in quanto usavano due calendari contemporaneamente, uno detto tzolkin di 260 giorni (prodotto dei numeri “sacri” 20 e 13), e uno relativo all’anno attuale di 365 giorni. Il primo anno aveva 13 mesi di 20 giorni. Il secondo 18 mesi di 20 giorni, più un minimese di 5 giorni dedicato a festival, probabilmente in ricordo di quella variazione della durata dell’anno da 360 giorni a 365 che sarebbe avvenuta in conseguenza del diluvio biblico, da datarsi a circa il 3161-71 a.C. La sequenza di coppie di nomi dai due calendari si ripete ogni 52 anni, dando al numero 52 una specie di sacralità. Compiuti i 52 anni si effettuavano correzioni per tenere conto degli anni bisestili e di variazioni dovute alla precessione terrestre o altro, operazioni che i Maya sapevano compiere con straordinaria precisione. Inoltre molti monumenti venivano abbattuti e ricostruiti o comunque restaurati. Operazione che gli Aztechi compivano più frequentemente, ogni 13 anni, arrivando persino a eliminare ritualmente il sovrano che avesse già regnato per 13 anni.
il paginone
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La misteriosa lettera di un politico norvegese pubblicata su internet: «I governi stanno preparando delle arche»
I bunker per salvare le élite ll Gates si sarebbe già costruito un rifugio alle Svalbard nel quale hanno fatto anche una banca con tutte le specie vegetali. È un’informazione che divulga Matteo-sneper su uno tra i migliaia di forum di discussione sul web sul 2012 e sui modi di salvarsi dalle conseguenze degli sconvolgimenti che il pianeta dovrebbe subire. Forum dove c’è chi parla del rifugio che si sta già costruendo mentre ci sono gruppi che stanno seriamente studiando quali sono i punti del pianeta più vicini che dovrebbero star fuori dal disastro. Su Internet gira ormai da mesi anche la lettera di un presunto politico norvegese che rivela come le elite del mondo stiano preparando vere e proprie arche di salvezza. «Vorrei parlare delle cose difficili che accadranno dal 2008 al 2012 – si legge nella lettera che rimbalza di sito in sito – Il governo norvegese sta costruendo basi sotterranee e bunker in numero sempre maggiore. Israele e molti altri paesi stanno facendo la stessa cosa. (...) Loro sanno tutto di ciò che sta per accadere, ma non vogliono assolutamente fare allarmismi o creare panico di massa. otranno ancora creare o costruire: dottori, scienziati e così via.
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Quanto a me, già so che partirò prima del 2012 per l’area di Mosjoen, dove si trova un’agevole base militare sotterranea. Lì saremo divisi in settori rossi, blu e verdi. I distintivi dell’esercito norvegese sono già stati dati loro, e gli alloggi costruiti già molto tempo fa. La gente che sarà lasciata sulla superficie morirà insieme a tutti gli altri, non riceverà nessun tipo di aiuto. Il piano è che 2 milioni di Norvegesi si salverà e gli altri moriranno, questo significa che 2.6oo.ooo persone periranno nella notte senza sapere cosa fare.Tutti i settori e le arche sono collegate tra loro attraverso tunnel e un sistema di comunicazione di binari per macchine che ti possono portare da un arca a un’altra (...) È fin dal 1983 che i governanti raccontano bugie, tutti loro sono a conoscenza di ciò che succede in Norvegia, ma pochi lo diranno apertamente, hanno paura di perdere il NOAH 12 railcar che li porterà alle arche ...Tutti i governanti sono consapevoli della situazione e di ciò che sta per accadere. Per le persone che potranno salvarsi, consiglio di spostarsi in posti alti, e trovare grotte o caverne dove poter stipare riserve per almeno 5 anni, scatolame e acqua che duri per un po’».
Fiorisce anche un’editoria del disastro. In un libro anche le istruzioni per mettersi in salvo in luoghi sicuri
Come sopravvivere al 2012 roliferano naturalmente anche le iniziative editoriali sulla presunta apocalisse prossima ventura. 2012: L’ultimo mistero dei Maya (Minerva edizioni) di Giorgio Terzoli, parla di una civiltà che esisteva a cavallo dell’ultima glaciazione, 13.000 anni fa, e che trovò il modo di comunicare con noi e avvisarci che, probabilmente, il 21 dicembre 2012 della nostra era, la Terra potrebbe subire, come già accaduto nel passato, una inversione magnetica. I nostri antenati nella previsione ci avrebbero indicato la data del 2012, e addirittura un’area geografica del pianeta sicura: una Terra Promessa. Chi si troverà lì sarà sano e salvo». E a proposito di rifugi sicuri c’è anche chi fornisce precise istruzioni per sopravvivere all’apocalisse. Patrick Geryl nel suo appunto Sopravvivere al 2012 (Macro edizioni) sostiene che il ci-
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20 è la base della numerazione in oltre 300 lingue, fra cui, oltre al maya, il basco, il na-dene della Siberia, varie lingue degli amerindi del Nord America, e tracce le vediamo anche nel francese, dove ottanta si scrive come quattro per venti, quatrevingt, etc.
Spesso si è pensato che la scelta del 20
Ma ecco perché il 20 e il 13 fossero numeri speciali. Il 20 oltre che giocare un ruolo nel calendario era anche il numero base nei conteggi, fatto vero non solo per i Maya, ma per molti altri popoli. Un mio collaboratore, Antonio Agriesti, studioso di vastissima cultura, ha accertato che il
invece del 10 fosse legata all’uso nel conteggio delle dita, quelle delle mani per il 10, quelle di mani e piedi per il 20.Tuttavia gli antichi non erano rozzi come molti antropologi hanno sostenuto in passato ed è probabile un’origine più profonda, legata a osservazioni sull’universo e al loro senso delle deità. Quindi l’origine della sacralità del 20 è più probabilmente associata al fatto che ogni 20 anni Giove e Saturno si sovrappongono (la sovrapposizione è quasi perfetta ogni 60 anni, questa forse l’origine dell’uso del 60 in molti casi). L’origine del 13 è meno certa e più complessa. Può relazionarsi con il fatto che era un giorno 13 quando il faraone concesse agli ebrei di lasciare l’Egitto: il 13 quindi positivo per gli ebrei, negativo per gli egizi… ma ci sarebbe un’altra possibilità, troppo
clo delle macchie solari sarebbe in grado di influenzare il magnetismo della Terra e indurre l’inversione sia dei poli che del moto terrestre. Spostamento di interi continenti, eruzioni laviche dalla crosta terrestre, scomparsa e nascita di nuove montagne, radiazioni nelle zone elevate del pianeta e maremoti potrebbero sconvolgere la geografia della Terra. Di fronte alla prospettiva di un cataclisma epocale di queste dimensioni, l’autore invita l’umanità a correre ai ripari. Come mettersi in salvo? Quali zone del pianeta saranno meno colpite? Ecco, Geryl sostiene di essere una buona guida in questo senso. Più dubitativo il saggio di Paola Giovetti. 2012, Fine del mondo o fine di un mondo?Dopo le scadenze annunciate come fatidiche del 1000 e del 2000, ecco incombere il 2012, forse il simbolo delle paure ricorrenti dell’umanità.
complessa per illustrarla qui, in cui si va più indietro nel tempo, al momento della “creazione” delle sette coppie nel Kharsag, certamente il Giardino dell’Eden, discussa nei testi sumero-accadici più estesamente che nel Genesi.
5200 anni sono 13 unità temporali maya di 400 anni dette ciascuna baktun; dal 3114 a.C. il loro compimento, tenuto conto delle necessarie correzioni, porterebbe al dicembre 2012 come termine di un’era. Secondo alcuni in tale anno, ormai assai prossimo, si avrebbe una catastrofe. Cotterell l’attribuisce a un evento speciale nel campo magnetico solare, del quale i Maya avrebbero scoperto il funzionamento. Tali previsioni sono virtualmente prive di attendibilità in quanto: 1) assumono che l’anno 2012 sia stato calcolato esattamente (i Maya danno le misure in giorni), il che è problematico, soprattutto considerando che inversioni dell’asse di rotazione terrestre sono probabilmente avvenute nei tre millenni a.C., indicate in testi antichi, ed esse portano a una variazione del numero di giorni in un anno;
2) assumono un andamento regolare del campo magnetico solare, che invece essendo nonlineare è da ritenersi non deterministico ma caotico; ed è probabilmente influenzato da impatti di oggetti sul Sole stesso, ora noto come il corpo dove si schiantano la maggior parte delle comete e degli asteroidi tipo Apollo; 3) non tengono conto che quanto è significativo è l’origine del conteggio, l’anno 3114, e non la fine del grande computo, puro esercizio di calcolo, pura formalità; similmente sciocchi furono coloro che attesero la fine del mondo allo scoccare dell’anno mille o duemila... Ma quale significato ha l’anno 3114 a.C.? È l’anno che corrisponde a una o due generazioni successive alla devastazione del diluvio noachide. Quindi potrebbe significare o la ripresa della civiltà maya in America con un nuovo regime, oppure l’arrivo in America dall’Asia dei loro antenati. Che Maya e popoli dell’Asia sudorientale, e dell’India, abbiano legami, è stato osservato da molti studiosi e su questo tema è in corso di pubblicazione un libro di Lia Mangolini.
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Elezioni. I voti invalidati per brogli dalla Commissione afgana fanno scendere Karzai sotto la soglia del 50 per cento
Afghanistan, tutto da rifare Il Paese sempre più vicino al ballottaggio. Ora si teme un bagno di sangue di Antonio Picasso ono bastati 210 seggi per rimettere tutto in discussione. Ieri a Kabul, la Commissione elettorale afgana, patrocinata dall’Onu e istituita in seguito ai reclami per le presidenziali del 20 agosto, si è espressa in favore di un futuro ballottaggio tra il presidente in carica, Hamid Karzai, e il suo primo avversario, Abdullah Abdullah. Con un colpo di spugna, quindi, è stato cancellato quel solido 54,6% di preferenze grazie al quale Kar-
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non poteva - proprio perché si tratta dell’Afghanistan - restare impassibile. Ed è così che si va verso un secondo turno e verso una nuova esposizione della popolazione locale alle minacce dei talebani. Ricordiamoci che, nel corso della campagna elettorale di quest’estate, i vari gruppi combattenti avevano minacciato di scatenare un jihad “ad hoc” contro chiunque si fosse presentato ai seggi. In realtà, il 20 agosto non ci fu un grande spargimento di sangue.
Un secondo turno elettorale, che vedrebbe favorito Abdullah Abdullah, costringerà gli attori regionali, la Nato, ma soprattutto la popolazione a una nuova prova di forza contro i talebani zai si era dichiarato vincitore alle elezioni. Adesso però, al di là dello stabilire la data per una nuova chiamata alle urne - e soprattutto rispettarla senza dilazioni - le conseguenze che si possono prevedere appaiono allarmanti. Ancora ad agosto, l’appuntamento elettorale appariva, almeno agli occhi dei più ottimisti, il primo difficile passo per incanalare l’Afghanistan sulla strada della pacificazione e della normalizzazione politica. Ma così non è stato. Anzi, coloro che speravano di aumentare la violenza e l’instabilità del Paese, attraverso le urne, sono stati accontentati. Da quest’estate a oggi, Karzai ha commesso due errori fondamentali. In qualità di presidente uscente non ha garantito che le elezioni si svolgessero nella piena trasparenza e sotto il controllo delle autorità di sicurezza. In pratica non ha svolto il suo compito di Capo dello Stato. Una mancanza più che ovvia, tenuto conto della condizione in cui versano le istituzioni afgane a Kabul.
Il secondo passo falso, invece, Karzai lo ha fatto in qualità di candidato super favorito alle urne. Come tale avrebbe dovuto far man bassa dei voti, senza lasciar in pendenza il minimo sospetto di brogli elettorali. Al contrario, le proteste sollevate dagli altri candidati hanno richiamato l’attenzione della comunità internazionale, la quale
Purtroppo oggi non c’è nessuno che possa assicurare un ballottaggio pacifico tra Karzai e Abdullah. Anzi. Il primo parte da una posizione di evidente svantaggio. Karzai, infatti, ora verrà sottoposto al giudizio dell’elettorato per quanto fatto come presidente, ma anche per questi brogli. Abdullah, da parte sua, l’avversario più temuto e che conosce
Karzai perché in passato ha prestato servizio nel suo governo, saprà come sfruttare questo fianco debole. Ma il presidente in carica sarà anche costretto a gestire le critiche dei suoi alleati. Agli occhi di quei capi tribù che gli sono sempre stati fedeli apparirà come un leader delegittimato dagli stranieri. Per quelli che, invece, si sono avvicinati a lui per motivi utilitaristici, Karzai non ispirerà più la fiducia che li aveva portati a scegliere la strada dell’alleanza. Probabile quindi uno sfaldamento, o comunque una significativa perdita di solidità della coalizione tribale che si era creata intorno a lui.
Stessa sorte fuori dai confini del Paese. Karzai adesso è un presidente che letteralmente ha millantato vittoria. Tuttavia i partner stranieri - sui quali lui pensava di poter puntare ciecamente - lo hanno sconfessato. Osservando la scelta della Commissione da una prospettiva regionale, Karzai oggi è ancora più debole di fronte agli avversari, che ha in Pakistan per esempio, e agli ormai pochi sostenitori che potrebbe vanta-
re in India. Dall’evento sorge una domanda: il problema dell’Afghanistan è Karzai come persona? È forse il presidente uscente che solo ora si sta rivelando inadeguato a portare pace, unità e sviluppo per tutto il suo Paese? Sicuramente no. La crisi al momento irrisolvibile dell’Afghanistan non può essere fatta ricadere sulle spalle di un’unica persona. E d’altra parte, si rischia di sprecare le energie se ci si concentra sull’analisi delle colpe e delle responsabilità. L’instabilità, che si sta dimostrando sempre più regionale - in cui il Pakistan ne è ormai completamente assorbito e nel-
La proposta arriva da Newt Gingrich, già speaker repubblicano del Congresso. Ma piace a tutti
«Obama, dedica il Nobel ai caduti in guerra» di Osvaldo Baldacci l Nobel ai soldati che portano la pace, quando necessario anche con le armi. I soldati americani, dicono a Washington. Anche quelli della coalizione internazionale, aggiungiamo noi. Come si poteva prevedere, la quantomeno avventata assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Barack Obama sta creando al presidente statunitense più imbarazzi che soddisfazioni. Lui stesso nell’accettarlo ha ammesso «non so se l’ho meritato». Il premio alle intenzioni lo ha subito reso oggetto di una satira intensissima (ora lo si considera vincitore di ogni cosa ancora non fatta, compreso il Super Bowl e il premio Oscar), e naturalmente i rivali conservatori si sono scatenati negli attacchi a un leader dalla retorica tutta apparenza ma priva di fatti. Ma persino i suoi sostenitori più liberal non l’hanno presa benissimo, dato che già prima da lui si aspettavano molto di più in termini di pace, di disimpegno militare. Ora proprio dalla sua destra arriva per assurdo una ciambella di salvataggio, una mano tesa. In realtà una sfida, ma una di quelle che Obama può cogliere, che rientrano nelle sue corde, nel suo modo di porsi. Basta polemiche, dicono a destra, Il premio Nobel ormai è assegnato, ridicolo e senza senso chiedere di non ritirarlo. Ma tutt’altro che ridicolo sarebbe dedi-
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carlo a un giovane caduto. Se Obama quando il 10 dicembre andrà a Oslo a ritirare l’ambito riconoscimento lo dedicasse ai caduti in Afghanistan, caduti anche per la sicurezza e la pace degli Stati Uniti e del mondo, questo potrebbe essere un pensiero capace di unire il Paese e ridare alla missione nell’Asia Centrale quell’importanza e quella dignità che ha, ma che si sta smarrendo nell’opinione pubblica stranita dalla mancanza di una strategia chiara.
Proposta che non viene da gente qualsiasi, ma da guru dei repubblicani americani. Come Newt Gingrich, già ultraconservatore speaker della Camera, e tutt’ora leader dell’opposizione tanto da poter tornare in corsa per le presidenziali del 2012. O come Liz Cheney, figlia dell’ex presidente Dick, uno dei falchi di Bush. E l’idea, subito supportata da Fox News (attaccata nei giorni scorsi dal presidente come una tv-partito), è stata anche appoggiata da un importante editorialista del New York Times, Thomas Friedman, plurivincitore del premio Pulitzer. Per Friedman non è colpa di Obama se - concetto suo - «gli europei sono così affascinati dalla sua leadership da fare di tutto per sostenerlo, anche dargli preventivamente un premio che in questo modo sembra svalutarsi».
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Il pressing contro le “fabbriche” dei terroristi darà i suoi frutti nel 2010
Nato e Pakistan accerchiano al Qaeda di Mario Arpino empi duri per tutti, nella regione che la moda americana del momento ormai denomina correntemente come Af-Pak. In Afghanistan, in vista dell’inverno, l’offensiva anglo-americana nell’Helmand continua accelerando, sono in arrivo nuove truppe fornite da Londra e Washington - ma da nessun altro - e continua lo stillicidio dei morti. Anche le perdite nemiche, sebbene le comunicazioni sul numero degli insurgents uccisi siano ora meno frequenti, sono ingenti e sarebbero insostenibili per chiunque. Tranne che per loro, pare. Almeno fino a quando continuerà il flusso transfrontaliero proveniente dalle aree tribali del Pakistan. Ma ora la sinergia sempre auspicata tra lo sforzo militare alleato in Afghanistan e quello dell’ esercito pachistano lungo la linea Durand, tacitamente concordata, sembra iniziare a funzionare. Il flusso non cesserà subito, ma con il tempo ciò dovrebbe limitare alquanto la produzione delle “fabbriche di talebani”al di qua della linea e rendere meno agevole l’affluenza di uomini armati oltre confine. Gli esperti sanno che la nuova fase richiederà più di una stagione, anche se i comunicati parlano di “qualche mese”. Infatti le operazioni, su entrambe le due parti del confine, potrebbero essere ben presto rallentate da vari fattori, e si cerca quindi un risultato da esibire subito, prima della fine dell’anno.
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In alto, un seggio elettorale a Kabul, era il 20 agosto scorso. A sinistra, Abdullah Abdullah e Hamid Karzai, presidente uscente la quale rischiano di cadervi anche alcune province orientali dell’Iran - adesso ha un nuovo appuntamento.
Questo ballottaggio, che nessuno voleva, in primis Obama, costringerà gli attori regionali, la Nato, ma soprattutto la popolazione afgana a una nuova prova di forza. Per i talebani le urne riaperte saranno un’occasione per dimostrare la propria tenacia.
Per questo il presidente accetti pure il Nobel, ma dica chiaramente - suggerisce Friedman - «non per me stesso, ma come affermazione della leadership americana per conto delle aspirazioni della gente in ogni nazione». Friedman va oltre, e raccogliendo il plauso dei conservatori, si spinge a immaginare il discorso che Obama potrebbe fare, e lo incentra tutto sulle persone in divisa che hanno combattuto e sono morte - o sono state pronte a morire - per portare la pace in tutto il mondo, dall’Europa della seconda guerra mondiale alla Corea, dalla Cortina di Ferro al Medio Oriente, fino all’Iraq e all’Afghanistan. Quello che i commentatori chiedono a Obama è di restituire un senso alla pace e di conseguenza al ruolo delle Forze Armate che si sacrificano in giro per il pianeta per difendere la libertà, la giustizia, e di conseguenza la pace. Per dare - come dice Friedman «all’Afghanistan, e in particolare alle sue donne e ai suoi bambini, una possibilità di vivere una vita decente liberi dal fanatismo talebano». Liz Cheney chiede a Obama di andare a Oslo in compagnia della mamma di un soldato morto in Afghanistan, Gingrich suggerisce di selezionare un militare caduto per dedicargli il premio. Una bella proposta, una rivoluzione culturale che rovescerebbe quel clima ostile ai militari alimentato negli ultimi anni. Ma una proposta troppo americo-centrica. Meglio ancora sarebbe che Obama - premiato anche “per lo slancio multilateralista che ha dato un clima nuovo alle relazioni internazionali» quel premio lo diedicasse a tutti i soldati della coalizione internazionale caduti in Afghanistan, non solo gli statunitensi. Un bel gesto che può costare qualcosa a Obama, ma anche essere per lui una grande occasione da cogliere.
Risultato che non sarà certo nè decisivo né definitivo, viste le condizioni di questa guerra, ma che dovrà necessariamente essere importante considerata l’entità delle forze impegnate. Attualmente, come si è detto, gli angloamericani stanno premendo da ovest con oltre trentamila uomini, mentre i pachistani hanno iniziato l’annunciata offensiva nel Sud Waziristan, verso ovest e verso nord, intrappolando i talebani e gli associati di al-Qaeda tra due fuochi. La popolazione, intanto, fugge dalle zone operative spostandosi in aree arretrate dove il governo sta allestendo campi di assistenza. Anche da questo lato l’impiego della forza è massiccio. I soldati che stanno avanzando, con supporto aereo, di artiglieria e senza troppi riguardi per nessuno, secondo fonti governative sono circa trentamila. Più difficile il calcolo delle forze opposte, che va da un numero poco credibile di ventimila a quello più realistico di cinquemila, di cui circa quattromila talebani pashtun appartenenti all’ala più estremista e violenta del movimento quella che fa capo alla famiglia Meshud - raccolta attorno al movimento Therik-e-Taliban Pakistan (Tlp). Circa mille, forse millecinquecento, potrebbero essere i guerriglieri tagiki e gli “ospiti”arabi di al-Qaeda. Il flusso dei rifornimenti alleati dal territorio pachistano verso quello afgano è ripreso con una certa regolarità da Peshawar attraverso il passo di Khyber, sulla direttrice Jalalabad - Kabul, beneficiando della relativa“pulizia”operata dai governativi nel corso della lunga offensiva estiva nella valle dello Swat, che tuttora è fortemente presidiata. I fattori di rallentamento - il primo con cui fare i conti sarà il“generale inverno”- sono molteplici.
In Afghanistan la puntigliosa conta dei voti della commissione indipendente ha messo in forse il risultato delle elezioni sbandierato da Karzai e porta verso il ballottaggio. Questo, se può essere considerato un vantaggio ai fini del più rapido impianto di una comunque improbabile democrazia, di certo provocherà lotte intestine - inclusi scontri armati tra fazioni - che distrarranno dalla lotta principale sia le forze Isaf che quelle anglo-americane. Ne risentiranno anche la compattezza e la disciplina dell’eterogeneo esercito afgano e delle già poco affidabili forze di polizia, che di tutto hanno bisogno tranne che di divisioni interne. Se Sparta piange, Atene non ride. In Pakistan l’annuncio da parte del ministro degli Esteri Rehman Malik della nuova offensiva voluta dagli Stati Uniti e così poco spontaneamente iniziata da Asif Alì Zardari rischia di accelerare un collasso interno. Nelle ultime settimane gli attacchi terroristici, generalizzati in tutto il Paese e
Gli anglo americani assediano i terroristi da Ovest, i pachistani li braccano nel Sud Waziristan, verso ovest e verso nord. La forza aerea li contrasta dall’alto. Non se ne parla, ma è un momento cruciale anche nelle aree che si ritenevano“sanitarizzate” dopo l’offensiva nello Swat, hanno raggiunto una frequenza e un’intensità senza precedenti. Emblematico della fragilità della situazione è l’attacco al quartier generale dell’Esercito, a Rawalpindi. Il governo - forse anche a causa del supporto americano - ha raggiunto livelli di impopolarità senza precedenti. La stessa fiducia americana sembra essere assai limitata, se gli Usa hanno deciso di controllare direttamente attraverso proprie agenzie e organizzazioni non governative - gli ingenti aiuti in dollari concessi in cambio delle offensive - anziché lasciarli amministrare dallo stesso Zardari. Nawaz Sharif soffia sul fuoco, essendosi subito sfasciata, come era stato ampiamente previsto, quella coalizione con il partito di Zardari che aveva come unica finalità l’abbattimento del regime militare. La stessa Alta Corte, presieduta dal medesimo magistrato che a suo tempo era stato destituito, sta creando instabilità interna con l’abolizione di tutte le leggi approvate dal precedente esecutivo dopo la discussa dichiarazione dello“stato di emergenza”. Così facendo, si delegittimerebbero anche le elezioni che hanno portato il ricco vedovo di Benazir Bhutto al potere. Nel frattempo Pervez Musharraf, seduto sulla sponda del fiume, in silenzio resta a guardare. Per ora.
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pagina 18 • 20 ottobre 2009
Clima. L’intervento del premier britannico al Mef di Londra: niente “piano B” LONDRA. Dovrebbe essere un incontro informale sul clima, ma il clima è tutt’altro che rilassato. Cinquanta giorni all’incontro di Copenhagen, ma l’intesa sembra ancora lontanissima. Gordon Brown, padrone di casa al «Forum delle economie maggiori», ha rivolto ai suoi colleghi un messaggio chiaro: senza un accordo a Copenhagen «non c’è nessun piano B». Dopo i successi dei vertici del G20 il premier britannico prova a ripetere la magia, ma stavolta le sue doti di mediatore potrebbero venir messe a dura prova. All’incontro di Londra sono presenti i 17 Paesi che contribuiscono maggiormente alle emissioni di gas serra. Ma ieri Londra sembrava Babele. L’incontro dovrebbe servire a discutere i dettagli degli accordi di Copenhagen, che dovranno essere firmati a dicembre, senza la pressione dei vertici ufficiali presieduti dalle Nazioni Unite. Ieri a Londra non ci si aspettava nessuna decisione ufficiale; ci sarà un altro vertice a breve a Barcellona, in cui dovrebbe essere stilata la bozza definitiva in vista del meeting in Danimarca. La sensazione diffusa, però, è che il tempo stringe - e l’accordo è ancora lontano.
Brown ha tentato la via del discorso d’impatto. «Abbiamo grandi responsabilità, e il mondo ci guarda - ha detto il premier - se non raggiungiamo un accordo questa volta, non abbiate dubbi: una volta che il danno per la crescita incontrollata delle emissioni sarà fatto, nessun accordo futuro potrà riportarci indietro». Grande enfasi sulla storicità della circostanza. «In ogni era ci sono uno o due momenti in cui i Paesi del mondo si uniscono insieme e raggiungo accordi che fanno la storia, perché cambiano la storia. Copenhagen deve essere uno di questi momenti», ha concluso il primo ministro rispolverando la retorica dell’«unità di intenti» già usata in occasione del G20. Secondo le stime riportate da Brown, «in 20 anni i ghiacciai dell’Himalaya, che forniscono acqua a 750 milioni di persone, potrebbero sparire». Allo stesso modo, il riscaldamento globale rischia «entro il 2080 un altro miliardo e 800 milioni di persone potrebbero vivere - e morire - senza quantità sufficienti di acqua». Il leader laburista non manca di citare la situazione britannica, che pure sembra meno drammatica che altrove: «Nel Regno Unito affrontiamo il rischio di siccità più frequenti e di un aumento delle inondazioni». Il riferimento alle temperature da record dell’estate 2003 - che rischiano di diventare «la norma per i nostri ni-
Brown: «Pianeta vicino al baratro» A 50 giorni dal vertice di Copenhagen si teme l’accordo Washington-Pechino di Lorenzo Biondi
Per il leader laburista «manca ancora un chiaro impegno finanziario da parte dei Paesi ricchi per sostenere la lotta ai cambiamenti climatici» poti e pronipoti» - non è casuale. Brown ha bisogno del supporto del proprio Paese se vuole presentarsi come una guida credibile sul palcoscenico internazionale. Supporto che, in questo momento, sembra essere a livelli minimi. Un riferimento anche per la questione delle foreste pluviale, un altro dei nodi spinosi che verranno affrontati a Copenhagen. L’Onu ha proposto un pacchetto per la riduzione delle emissioni dovute alla deforestazione, nome in codice Redd: i Paesi sviluppati dovrebbero offrire finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo che ospitano grandi foreste, come l’Amazzonia, in cambio di pro-
ve tangibili che la deforestazione è stata interrotta. Proprio da Londra, da un’inchiesta del Guardian, sono però partite le proteste: il piano non prevede nessun controllo su come quei fondi verrebbero spesi. Interrompere la deforestazione sarebbe un ben misero successo se il denaro dovesse riversarsi nelle tasche della criminalità organizzata, magari per il commercio internazionale di stupefacenti. Brown ha poi ricordato l’appello lanciato qualche giorno fa dalle Maldive, il Paese del mondo più basso sul livello del mare. Il governo dell’arcipelago ha tenuto una seduta in immersione subacquea - con i 14 mi-
nistri muniti di muta e boccaglio. Al di là del metodo, quasi goliardico, il messaggio è serissimo: entro pochi decenni le Maldive rischiano di sparire, sommerse dall’innalzamento degli Oceani. Il minuscolo Stato di Kiribati, sperduto nel Pacifico, ha già dovuto procedere all’evacuazione di alcune delle proprie isole - ha ricordato il primo ministro. Ma non si tratta solo di qualche atollo dell’oceano. «Già adesso gli effetti del cambiamento climatico uccidono 300mila persone all’anno», ha detto Gordon Brown - facendo riferimento in particolare alle calamità naturali che hanno colpito di recente il sud est asiatico. «Il 98 per cento di queste vittime è nei Paesi più poveri, che contribuiscono solo all’8 per cento delle emissioni globali» di gas serra. Il premier britannico rimane ottimista: «L’ac-
cordo a Copenhagen è possibile». Ma al momento non sembra potersi trovare un consenso sulle misure da adottare. L’amministrazione Obama ha promesso di appoggiare l’accordo, dopo che nel 1997 gli Stati Uniti rifiutarono di sottoscrivere i protocolli di Kyoto. In questo momento, un progetto di legge depositato dai democratici Barbara Boxer e John Kerry viene discusso dal Senato Usa, dopo l’approvazione del Congresso. La battaglia si annuncia però infuocata. L’ex candidato alla presidenza John McCain, intervistato dai giornalisti che gli chiedevano se avrebbe appoggiato la legge, ha risposto seccamente: «Ovviamente no. Mai, mai e poi mai».Ma anche nel campo democratico si registrano forti tensioni. Ad agosto dieci senatori del partito di Obama scrissero al Presidente, annunciando che non avrebbero appoggiato il progetto di legge senza adeguate garanzia per le aziende americane. Il problema è che le regole sulla limitazione delle emissioni di CO2 rischiano di alzare i costi di produzione, esponendo l’industria americana alla concorrenza di Paesi meno «puliti». Cina e India in primo luogo. Inoltre, la bozza Boxer-Kerry è molto lontana dai livelli di emissione richiesti dall’Onu. La legge prevede un taglio del 20% sui quantitativi emessi nel 2005, mentre l’accordo di Copenhagen dovrebbe basarsi sulle quote del 1990, imponendo così un vincolo molto più duro da rispettare. Dall’altro lato del tavolo delle mediazioni, ci sono poi Cina e India.
I due giganti asiatici sono tra i principali responsabili dell’incrementi dei gas serra, ma temono - probabilmente a ragione - che i tassi di sviluppo a due cifre degli ultimi anni (prima della crisi) siano incompatibili con le nuove regole per proteggere l’ambiente. L’Europa sembra isolata nel sostenere la linea dura, con la sua politica del 20-20-20 (20% in meno di emissioni e 20% in più di investimenti nelle energie rinnovabili entro il 2020). Ma anche nell’Unione europea non sono mancate le proteste sulla sostenibilità di regole tanto rigide, con l’Italia in prima linea. Il grande successo di Brown e Obama al G20 fu quello di lavorare per una mediazione tra i diversi punti di vista - ottenendo un accordo serio ma che evitasse la rottura con i Paesi più recalcitranti. La mediazione in vista di Copenhagen potrebbe essere ancora più complessa. E se il Senato Usa non aiutasse Obama, questa volta Brown potrebbe ritrovarsi insieme all’Europa, ma dal lato degli sconfitti.
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Timori per il primo patto ufficiale fra le due nazioni
Pronte nuove sanzioni se al-Bashir rifiuta il dialogo
Cina-Taiwan slitta la firma dell’accordo commerciale
Obama e Hillary dicono basta al genocidio nel Darfur
TAIPEI. Il governo taiwanese ha deciso di rinviare alla fine di ottobre i colloqui commerciali informali con la Cina, previsti in origine per la settimana in corso. La motivazione ufficiale per il rinvio è data dagli impegni relativi alla discussione parlamentare sul bilancio dell’isola. Lo conferma Huang Chih-peng, direttore dell’Ufficio taiwanese per il commercio estero e capo della delegazione: «Il budget del nostro governo è al momento in fase di revisione parlamentare. Abbiamo deciso per questo di spostare gli incontri». Secondo i media locali, gli incontri commerciali fra le due nazioni (che si terranno per la quarta volta) serviranno a fissare un’agenda per delle discussioni formali. L’attuale governo taiwanese, considerato “amichevole” nei confronti della Cina popolare, spera che i negoziati possano produrre un vero e proprio accordo economico, che potrebbe far crescere l’economia interna di almeno un punto percentuale. Il Kuomintang, il partito nazionalista di maggioranza, spera di riuscire a chiudere l’accordo entro l’inizio del prossimo anno; l’opposizione, composta dal partito democratico e da altre sigle minori, è invece a favore dell’indipendenza totale da Pechino e teme che una firma ufficiale possa mettere in pericolo lo status di Taiwan. Il
WASHINGTON. In quella che è,
Quiz show alla somala, in palio armi e bombe Un “successo” il concorso a premi in onda su una Radio Islamica di Luisa Arezzo iente gettoni d’oro, auto sportive o viaggi ai Caraibi: il quiz radiofonico che spopola in Somalia, ideato inizialmente per il Ramadan dalle milizie degli studenti islamici al-Shabab, vicine ad al Qaeda, mette in palio qualcosa di molto più ghiotto per chi vi partecipa: fucili, granate e un biglietto di sola andata per la jihad islamica. L’agghiacciante e originale concorso a premi va in onda sulla radio locale “Islamica Jaru” che trasmette dal porto somalo di Kismaio. La stessa emittente radiofonica, come promo della sua iniziativa, (mandato più volte in onda nell’arco della giornata), riporta la benedizione dello Sheikh Abdul Alwali Mohammed Aden, direttore finanziario delle milizie radicali islamiche al-Shabab (Gioventù) che lavora per abbattere il governo islamico (ma considerato moderato) di Sharif Ahmed. «Non è altro (!!!) che un Trivial Pursuit in salsa terrorista - ha detto il capobanda Sheikh Abdullahi Alhaq -. E la ragione per cui abbiamo deciso di ricompensare i giovani con le armi è per incoraggiarli a partecipare alla guerra santa che si svolge in Somalia contro i nemici di Allah».
N
Premio di “consolazione”per tutti gli altri: un fucile Ak-47 con tanto di munizioni. La seconda edizione del concorso, appena avviata - come riportato dal quotidiano arabo edito a Londra Al Quds al Arabi, promette, oltre alle bombe a mano, ai fucili automatici, alle munizioni e alla cancelleria, anche degli espolosivi. Ma le domande sul Corano diventeranno, man mano, sempre più difficili e imprevedibili.
Soltanto un paio di settimane fa, il movimento terrorista si era “distinto”per un’altra inziativa: il dvd regalato e consegnato brevi manu, casa per casa, a Mogadiscio dal titolo: “Labaik ya Oussama”(“al tuo servizio, Obama”, ndr) in cui si incita alla Jihad contro il nemico americano: 48 minuti di insulti in cui «vogliamo convincere i giovani - parole di un portavoce degli Shebab - a unirsi alla guerra santa». Il filmato, oltretutto, da domenica scorsa è disponibile su diversi siti web islamisti. Il paese, intanto, è sempre più sull’orlo del collasso: basti pensare che da oltre una settimana è stato rapito il ministro della Difesa Yusuf somalo, Mohamed Siad, portato via nel corso di un blitz mentre era in visita di Stato nella capitale ugandese di Kampala. E di lui non si hanno più notizie, come confermato da un portavoce del Governo di transizione somalo (Tfg), che ha precisato come il ministro sia stato sequestrato mentre usciva da una moschea di Kampala. La Somalia è uno dei Paesi più violenti del mondo. Il suo governo è in guerra con dei gruppi islamici, in particolare gli estremisti shabab e i miliziani dell’Hezb al Islam, che controllano il sud e una grande parte del centro del paese. Nel maggio scorso, gli islamici avevano lanciato una vasta offensiva a Mogadiscio contro il Tfg, facendo per un momento vacillare il presidente Sharif Cheikh Ahmed che è sostenuto dalla comunità internazionale e da circa 5mila soldati della forza di pace dell’Unione africana (Amisom).
Ideato dai giovani di al Shabab, il gruppo terrorista vicino ad al Qaeda, il gioco è una sorta di Trivial Pursuit sul Corano
dibattito si è esteso a tutte le fasce della popolazione dell’isola, che ritengono primaria la questione dell’occupazione interna. Dopo i due boom economici di Taiwan - il primo negli anni Sessanta e il secondo negli anni Novanta - le problematiche legate ai posti di lavoro sono tornate in primo piano. Al momento il tasso di disoccupazione interna è pari al 5,82%: praticamente il doppio rispetto al 2,99% del 2000. Secondo le prime bozze dell’accordo con la Cina, la firma porterà 350mila nuovi posti di lavoro nel settore chimico, tessile e meccanico; ma c’è anche la possibilità di perdere 80mila impieghi.
effettivamente, una sospetta coincidenza, ieri l’America, per bocca del presidente-Nobel per la pace Obama e del Segretario di Stato Hillary Clinton, ha riacceso i riflettori sul genocidio in Darfur. In una dichiarazione diffusa proprio mentre il segretario di Stato Hillary Clinton parlava alla stampa sul Sudan (e questa è la sospetta coincidenza), Obama ha usato parole durissime contro il governo di Khartoum, tracciando due priorità.«Primo ha spiegato il presidente degli Stati Uniti - dobbiamo cercare di porre un termine al conflitto, ai disgustosi abusi contro i diritti umani e al genocidio in Darfur. Secondo - ha aggiunto Obama il piano di pace globale tra il nord e il sud del Sudan deve entrare in vigore per creare la pos-
Islamica Jaru trasmette da Kismayo, città portuale del sud della Somalia, dove da almeno un mese si assiste a una lotta senza quartiere fra gli estremisti shabab e i miliziani di Hezb al Islam, fazioni alleate fino a poco tempo fa e oggi in lotta per il controllo del porto cittadino e della sua regione, 300 chilometri a sud di Mogadiscio, lungo le coste dell’Oceano indiano. Sconcertante l’affluenza al quiz terrorista, completamente incentrato sul Corano: alla sua prima edizione hanno partecipato ben cinque quartieri della città. I vincitori, una squadra del sobborgo di Farjano, si sono aggiudicati il primo premio, per un valore di 1000 dollari: un fucile d’assalto Ak-47, due granate a mano, una mina anticarro e del materiale di cancelleria. Il premio è stato consegnato durante una cerimonia pubblica a cui ha assistito una folla in delirio di centinaia di persone.
sibilità di una pace duratura». L’inquilino della Casa Bianca è convinto che se nulla verrà fatto in tempi brevissimi «il Sudan è destinato a cadere in un caos ancora più grande». Obama, infine, ha paventato nuove sanzioni nei confronti di Karthoum se non collaborerà con la comunità internazionale, ma è pronto a fornire aiuti se verranno fatti progressi verso la pace. Spiega Obama: «Questa settimana proclamerò di nuovo la dichiarazione di emergenza nazionale per il Sudan, con il proseguimento di dure sanzioni nei confronti del governo sudanese. Se il governo del Sudan agirà per migliorare la situazione sul terreno e per far progredire la pace, ci saranno incentivi; se non lo farà, ci sarà una pressione crescente imposta dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale». Identico il tenore delle dichiarazioni di Hillary Clinton, che però si è vista ”sottrarre” la vetrina dal suo presidente: «Il genocidio è ancora in corso nella regione occidentale e va fermato», ha affermato la Clinton, sostenitrice della linea dura nei confronti del governo di Omar al-Bashir, il presidente sudanese ricercato dal tribunale penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità.
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pagina 20 • 20 ottobre 2009
Cartolina da Roma. La pellicola di Terry Gilliam, insieme con “Brazil”, rappresenta forse il punto più alto della cinematografia dell’ex Monty Python
Un Festival senza anima La rassegna di cinema non ha ancora trovato il giusto appeal. Però occhio a non farsi scappare “Parnassus”... di Alessandro Boschi
ROMA. Il Festival Internazionale del film di Roma (occhio, non sbagliate, ché Rondi si irrita…), giunge con questa alla quarta edizione. Dopo le prime due, da noi salutate con speranza e partecipazione, e la terza accolta con qualche dubbio e un ottimismo in fase calante, ci tocca ora fare qualche considerazione un po’ più decisa, a fronte di una manifestazione che avrebbe oramai dovuto assumere una sua precisa fisionomia. Intendiamoci, nel bene come nel male. Partiamo dall’inizio, da ciò che un giornalista o comunque un accreditato si trova davanti. La macchina messa in piedi è davvero imponente, e se davvero c’è cosa che funziona bene è la distribuzione degli accrediti, rapida e ordinata. Qualche mugugno si registra invece sulla distribuzione degli orari delle proiezioni per la stampa, che a detta di molti avrebbero potuto avere una collocazione diversa in modo da rispettare le “chiusure” delle testate. Tutto sommato non è certo della organizzazione che ci si può lamentare, anzi. Ciò che invece non convince del tutto è quella che da più parti viene indicata come mancanza di un’anima, come se questo festival non riuscisse a trovare una collocazione nell’immaginario di chi vi partecipa. Sul fatto poi che Roma aiuti i film che partecipano è argomento sul quale si potrebbe davvero discutere a lungo. Di fatto i titoli più prestigiosi, pensiamo a A serious man dei fratelli Coen a Up in the air con George Clooney, hanno già ricevuto un battesimo in altra sede, ovvero a Toronto. Ma se il pensiero corre sempre al confronto con la Mostra di Venezia non si potrà disconoscere l’indubbio merito (e la triste consapevolezza di una lot-
ta impari) dimostrato dagli organizzatori nell’evitare qualsiasi raffronto con il Lido. Questa è un’altra cosa. Già, ma cosa? Il punto resta questo. Il fine settimana, se non fosse stato per quel satanasso di Clooney, sarebbe stato un vero disastro di presenze. Un po’ per il freddo, un po’ perché l’appeal non è una cosa
rando il successo avuto nell’ultima edizione dalla brevissima anticipazione di Twilight non trascureremmo questa ipotesi. Un bel festival senza tanti pensieri, senza cinefilia spinta e senza l’affannosa ricerca della star a tutti costi. Una bella rassegna dedicata ai film destinati al pubblico più giovane, a quello che non si impigrisce, che percorre chilometri e chilometri solo per respirare per un attimo quella stessa aria respirata dal Robert Pattinson del momento. Non abbiamo più visto lo stesso entusiasmo a parte, dicevamo, per George Clooney. Nemmeno Richard Gere ha suscitato il clamore che ci si aspettava. E questo nonostante il fatto che il film diretto da Lasse Hallstrom e da lui interpretato, Hachiko, A dog’s story, gli consentisse di sfilare sul red carpet con uno di quegli strumenti di persuasione più potenti indicati da Alfred Hitchcock, un cane. Dal red carpet di Terry Gilliam invece non era lecito aspettarsi molto, ma vi consigliamo caldamente di non farvi sfuggire questa sua ultima pellicola, che forse con Brazil, rappresenta il punto più alto della cinematografia dell’ex Monty Python.
I titoli più prestigiosi, da “A serious man” dei fratelli Coen a “Up in the air” di Reitman, hanno già ricevuto un battesimo in altra sede: a Toronto che si compra, nemmeno con il cospicuo budget di cui il Festival dispone. Così le interessanti sezioni “Alice nella città” e “Extra” rischiano di perdersi al seguito di un programma che non dà mai la sensazione di una distribuzione di titoli razionale e rispondente ad un preciso criterio. Qualsiasi film potrebbe essere, ma forse è solo una nostra sensazione, in una qualsiasi delle sezioni. Se mai dessimo consigli, ma come insegna Fabrizio André De chi lo fa è solo perché non sa più dare cattivo esempio, suggeriremmo di buttarci sui teenager. Conside-
Il cui cinema è un cinema spesso imperfetto, ma sempre ricco e sorprendente. The imaginarium of Doctor Parnassus, che in Italia uscirà come Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il Diavolo, non è solo un grande omaggio a Heath Ledger che, essendo morto prima della realizzazione del film, è stato sostituito nello stesso, grazie ad un geniale espediente narrativo, da altri tre grandissimi attori: Johnny Depp, Colin Farrel e Jude Law. No, Parnassus è semplicemente un grande film, perché Gilliam è semplicemente un grande autore, un autore davvero a tutto tondo, capace di passare dalla parola scritta, al disegno e al cinema con la stessa brillante disinvoltura. Detto tra noi, poi, se aveste voluto una ulteriore conferma del suo genio, vi sarebbe bastato ammirare camicia e scarpe in-
dossate. Terry Gilliam è un personaggio assolutamente fuori dagli schemi, ed è un regista per il quale molti attori accettano di lavorare al minimo sindacale. Gilliam, lo ricordiamo, è l’unico statunitense dei già citati Monty Python, tutti rigorosamente inglesi. Ciononostante, al pari dei colleghi britannici, ha una passione smodata per regioni italiane come Toscana e Umbria. E proprio in Umbria, nei pressi di Città di Castello, ha acquistato una vecchia canonica ristrutturata dove si rifugia nei momenti di pausa dal suo frenetico modo di esistere. Anni fa avemmo la fortuna di andare a trovarlo e, vi giuriamo, quando ci apparve ci sembrò di essere capitati sul set di quel memorabile film
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20 ottobre 2009 • pagina 21
Piace e convince la nuova pellicola del regista canadese
Ma la strana coppia colpisce ancora
A tu per tu con George Clooney e Jason Reitman, sul red carpet capitolino con il film “Tra le nuvole” di Pietro Salvatori
ROMA. Jason Reitman ci piace. Decisa- corde di Clooney, che rifiuta però qualmente ci piace. Thank you for smoking era già un gioiellino. Poi ha incantato tutti con Juno, che sbancò due anni fa il Festival del Film di Roma aggiudicandosi il Marco Aurelio d’Oro come miglior film. A distanza di due anni torna ancora una volta a calcare il red carpet dell’Auditorium.
che è Monty Python e il Sacro Graal, capolavoro purtroppo massacrato da un terribile doppiaggio. Gilliam imbracciava un decespugliatore e, vedendolo, non sappiamo spiegarvene il motivo, ma ci ricordò il personaggio di Cervantes, quel Don Chisciotte sul quale il regista di Minneapolis sta tentando da anni di realizzare un film. Ma, come Orson Welles insegna, l’impresa non è delle più semplici.
Questa volta il regista canadese, completamente a suo agio tra le sale e gli stand della capitale, scorta un ospite d’eccezione: George Clooney. L’affiatata coppia è al seguito di Tra le nuvole, nuova brillante pièce del regista, che forse non raggiunge la semplice intensità di Juno, ma che ancora una volta è quanto di migliore offerto dal concorso del Festival. Clooney è Ryan, americano mediamente danaroso, che combatte contro la possibilità di instaurare qualsiasi legame. Il suo mondo è il duty free dell’aeroporto, i sedili di businness class. Il suo lavoro è quello di licenziare la gente, saltando di azienda in azienda, di città in città, per dire al primo impiegato che si ritrova di fronte: «Lei è licenziato. Ma guardi i lati positivi!». Il lieto fine c’è, ma non è del tutto consolatorio, come di consueto per Reitman, come già visto in Juno. Ma al pari della piccola mamma, la vicenda di Ryan colpisce per semplicità e forza espressiva, per la facilità di rendere ineluttabili le semplici verità che la frenesia del mondo contemporaneo mette in discussione. Questa volta tocca alla famiglia, migliore di qualsiasi rapporto occasionale, più accogliente di qualsiasi vestito firmato, dell’effimera libertà concessa dalla mancanza assoluta di vincoli e rapporti. Reitman spiega che la scelta del finale era quella fin dall’inizio. «Si parla della scoperta della virtù compagnia attraverso una perdita anziché attraverso il lieto fine. Ma esiste la possibilità di sperimentare un amore anche attraverso una mancanza. Non è importante sapere cosa avverrà al personaggio principale, il pubblico si dividerà a metà sulle sorti che toccheranno al protagonista». Un personaggio nelle
siasi accostamento: «Sono diversissimo da Ryan. Io ho una vita stupenda, degli amici stupendi, una famiglia stupenda. Molto raramente, come invece capita a lui, mi sento solo!». Anche se, a scavare, in effetti qualcosa in comune esiste. «Da quando faccio il mestiere dell’attore non mi è mai capitato, ma prima sono stato licenziato tantissime volte, quando ho fatto lavori strambi, come il venditore di polizze assicurative porta a porta, il rappresentante di calzature per donna...». La pellicola si cala profondamente nel contesto statunitense, così visceralmente legato al mondo del lavoro, al successo professionale ad ogni costo, e così scosso dalla crisi che lo sta falcidiando. Il regista arriva a riconoscerlo con profonda onestà intellettuale: «È effettivamente un film molto americano - spiega Gli americani si identificheranno con questa storia. Sono orgoglioso dei personaggi, di quello che comunicano, sono riusciti benissimo! E questo è fondamentale per un film sugli individui. In effetti siamo molto individualisti, viviamo in un mondo dove è facile sentirsi interconnessi, ma in realtà ti ritrovi molto solo». È proprio questa la visione che il film mette con intelligenza in discussione, il vero pregio di questa commedia seria e scanzonata nello stesso momento, alla quale Clooney presta volto e sorriso smagliante.
«Sono diversissimo dal protagonista - spiega l’attore - Ho una vita stupenda, amici stupendi, una famiglia stupenda. Raramente, come invece capita a lui, mi sento solo»
Forse era una visione profetica, perché dopo il primo e cinematograficamente documentato tentativo andato a vuoto, Gilliam ci riproverà nell’aprile del 2010. Ci auguriamo davvero che questa volta tutto funzioni come si deve e, se proprio non dovrà essere, che questa resti comunque la sua sfida più bella. Una ultima breve considerazione. Anche Parnassus non è un parto del Festival Internazionale del Film di Roma, essendo già passato a Cannes. Ma questo, in fondo, è solo un dettaglio. In alto, il regista Terry Gilliam e, qui sopra, la locandina del film che ha presentato al Festival del Cinema di Roma “Parnassus”. Nella pagina a fianco, un’immagine del cast alla kermesse capitolina e, sotto, gli attori Johnny Depp e Heath Ledger
E se il presente dell’attore riserva un grande entusiasmo per il Nobel ad Obama («sono fiero di vivere in un paese che l’ha eletto e spero che il Nobel aiuti il Presidente a portare avanti il suo programma di politica estera pacifista; continuo ad avere molte speranze in lui, è un momento della storia in cui serve qualcuno di veramente grande, e noi abbiamo trovato questa persona»), il futuro è denso di aspettative: «Ho un paio di progetti - ci svela - uno su un caso giudiziario del tribunale di Guantanamo, sul quale vorrei lavorare, ma c’è anche una commedia che mi interessa, sto aspettando un buon copione!».
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dal ”Financial Times” del 18/10/2009
Petrolio per tutti di Tom Burgis on sarà ancora l’economia partecipata, ma assomiglia a qualcosa di molto diverso sia stato fatto fino ad ora. Il governo nigeriano sta pianificando un progetto per trasferire il 10 per cento dei proventi derivati dall’estrazione di gas e petrolio alla popolazione del delta del fiume Niger. Un tentativo per sedare una ribellione di quelle zone che, di fatto, ha ridotto le capacità produttive dei campi subsahariani più ricchi del continente.
N
L’iniziativa andrebbe letta in un contesto più generale di riforma del settore petrolifero in Nigeria. Se la proposta venisse approvata dal Parlamento, sarebbe un forte segnale di cambiamento e l’apertura di una nuova fase del governo per trovare una soluzione duratura al problema del delta. Prima dovranno essere superate le obiezioni che, naturalmente, monteranno dalle altre regioni del Paese. Le ultime aperture sono seguite all’amnistia che ha coinvolto molti capi dei movimenti che avevano fatto una campagna antigorvernativa contro l’amministrazione federale e l’industria petrolifera. Emanuel Egbogah, consigliere speciale del presidente sulla materia, ha dichiarato al Financial Times che il presidente Umaru Yar’Adua, appoggia la proposta del trasferimento del 10 per cento delle royalty. È una parte degli introiti che l’azienda petrolifera di Stato guadagna con le joint venture internazionali, sfruttando le ricche risorse energetiche del Paese. Egbogah ha spiegato che la proposta si aggiungerà a una seria riforma del settore che, in ultima analisi, potrebbe anche portare a maggiori oneri per le compagnie straniere. L’argomento è attualmente al vaglio di una tortuosa verifica politica in Parlamento. L’offerta cinese che riguarda circa un sesto delle intere riserve energetiche, alcune del-
le quali in partnership con Shell, ExxonMobil e Chevron, ha alzato ancora di più la posta in gioco. Il piano sul delta «è un’iniziativa seria, enorme, è qualcosa di rivoluzionario» sostiene Egbogah. Un progetto che soddisferebbe un annoso problema, legato ai combattenti del delta del fiume, agli attivisti e ai leader etnici che da anni rivendicano una parte dei ricavi delll’oro nero. Un settore che produce l’80 per cento delle entrate del governo. Tutti i cittadini delle aree interessate dall’estrazione sarebbero titolati a percepire l’emolumento, con un meccanismo di tipo fiduciario. Si tratta di finanziare i singoli o i gruppi su di un progetto specifico di carattere sociale. Non è ancora chiaro con che criteri il governo distribuirà i soldi e come gestirà i rapporti tra le varie comunità che entreranno in competizione fra loro.
Come conseguenza di questa iniziativa, il resto di quello che è il più popoloso Paese africano, potrebbe subire una riduzione di reddito. Ma è un problema risolvibile, con l’aumento di produzione si potrebbe compensare la distribuzione non omogenea delle entrate. E la guerriglia sul delta, ad oggi, ha provocato un sensibile diminuzione delle estrazioni. Egbogah ha spiegato che l’erogazione dovrebbe scavalcare il passaggio intermedio dei potenti governatori degli Stati produttori che chiederebbero la loro fetta, per arrivare direttamente alle comunità. Il governo spera
così di fornire un disincentivo alla piaga dei furti di petrolio che spesso si trasformano in tragedia. Gli attacchi alle infrastrutture petrolifere hanno ridotto la produzione alla Nigeria, un importante fornitore per gli Stati Uniti. Si tratta del 40 per cento delle importazioni energetiche di Washington, negli ultimi anni. Intanto ha prosperato il commercio, per svariati miliardi di dollari, del petrolio rubato, mentre la maggior parte delle stime, dicono che, nel delta, 28 milioni di persone vivono in estrema povertà.
La miseria persiste nonostante il petrolio, i governi statali che riceveno un ulteriore 13 per cento dei ricavi petroliferi nazionali, hanno fatto crescere i loro bilanci di due o tre volte le dimensioni di quelle di altre regioni. Egbogah ha affermato che il piano dovrebbe coprire «tutte le attività del petrolio nel Paese» ma ha aggiunto che «evidentemente non ci sono comunità interessate dall’estrazione petrolifera nei campi offshore», che è dove si trovano i principali giacimenti del Paese.
L’IMMAGINE
L’uomo rende la fede una mania pericolosa per sé e per gli altri Personalmente sono favorevole alla proposta di Urso sull’ora di religione musulmana nelle scuole, e non credo che ciò rappresenti un pericolo per i riferimenti cristiani sui quali si basa la nostra cultura. È un metodo di confronto che può sicuramente far capire che una cosa è il fondamentalismo è altra cosa è l’Islam. È forse il modo migliore per combattere le radici del male al nascere, di far capire che Dio è unico e differenti sono i modi di interpretarlo a seconda delle culture e delle tradizioni. Ciò lo si può conoscere solo studiando la religione altrui, capendo nel contesto che prima di tutto, un credo è necessario per direzionare la vita verso qualcosa di compiuto, e che solo le differenzi dislocazione dell’umanità hanno nel tempo differenziato i modi per tradurre e tramandare la il messaggio del nostro Creatore, così come i nostri riferimenti cristiani sono stati necessari per affrontare la storia e i suoi sviluppi. L’uomo rende una cosa meravigliosa come la fede, una mania pericolosa per sé e per gli altri.
Bruno Russo
I DEBITI DELLA RAI Possibile che noi cittadini non dobbiamo contare niente quando si parla dei conti in rosso della Rai? Di tutti gli sprechi, di tutti i favoritismi, di tutte le spese folli e assolutamente inutili... e altre amenità e assurdità varie, noi cittadini non contiamo niente. Se non vuoi pagare il canone commetti reato, e coloro che devono controllare, ossia la commissione di Vigilanza, il presidente Garimberti, l’Autorità Garante e il Parlamento italiano se la fanno sotto come i bambini. È vero, la televisione è un mezzo troppo potente, e chi non ha paura delle tv! Però signori, c’è modo e modo, c’è misura e misura. Questa è la democrazia che dobbiamo difendere a tutti i costi? Grazie a tutti, voi e al nostro amato Silvio (lui
dice da quindici anni che vuole cambiare l’Italia), questo Paese è da buttare e da rifare completamente. I debiti della Rai li devono pagare quelli che dovrebbero controllare e che non hanno controllato. E alla Rai ci vuole un altro ministro Brunetta.
Michele Ricciardi
UN CITTADINO DI VENEZIA CI SEGNALA UN FATTO SGRADEVOLE In campo Santa Maria Formosa, tre mamme con bambini al seguito litigavano con un fruttivendolo e sua moglie. I due coniugi, poco prima, avevano cercato di uccidere un ratto sorpreso mentre camminava vicino al loro banco della frutta. Le mamme erano indignate e arrabbiate per la brutalità della scena e si erano tutte e tre schiera-
Di qui non si passa Aggrottate o distese, depilate o a “zerbino”, qualunque sia la loro forma, le sopracciglia (qui al microscopio) hanno un compito importante: impediscono al sudore e alla polvere di entrare negli occhi. Le dimensioni di questa barriera naturale variano da persona a persona, è stato calcolato che durante la sua vita, ogni pelo sopraccigliare si allunga di 0,16 mm al giorno
te dalla parte del povero ratto (cosa abbastanza singolare a Venezia, visto che la maggior parte dei cittadini li detesta). Sono volate parole e insulti tra le mamme e i fruttivendoli. Tuttavia, il ratto (per la gioia delle mamme e anche nostra) riusciva a scappare. La scorsa notte, i nostri attivisti hanno af-
fisso uno striscione di condanna sul muro della bottega del fruttivendolo. I topi sono animali intelligenti e inoffensivi. Sarebbe ora, visto che siamo nel terzo millenio, che la gente iniziasse a rispettare questi animali utilissimi all’ecosistema. I topi, infatti,“ripuliscono” i rifiuti che l’uomo lascia ovunque.
Nella cultura indiana, gli uomini sono talmente simili ai ratti che vengono raffigurati con le sembianze dell’animale. Il nostro destino è strettamente legato a quello dei topi ed è tempo che l’uomo cominci a rispettare questo meraviglioso animale.
Centopercentoanimalisti
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Tutti sono timidi e puritani Signore, se non sapessi che parlo a un uomo di spirito, oggi tentennerei questo singolare passo con timidezza e sfiducia. L’opera che vi mando, e che ho fatto una fatica infinita a trovare, la Biblioteca non voleva prestarla, perché la «Revue rétrospective» non si trova più, è pressoché sconosciuta; forse la conoscete? Ad ogni modo, non fa parte delle opere complete e nemmeno delle opere postume e solo gli appassionati di opere ricercate l’hanno letta. Da molti anni crdo che attualmente quest’opera potrebbe avere un gran successo. Un altro avrebbe pensato alla Comédie Francaise o al Gymnase, ma la scelta che faccio io mi pare migliore, primo per le qualità del direttore, ma anche, in particolare, a causa dell’aspetto - permettetemi di dirlo - paradossale di quest’opera. Mi sono detto: Hostein è stato amico di Balzac. Non siete voi, signore, che avete messo in scena così bene La matrigna? Hostein deve capire perfettamente il valore di un testo che ha l’aria di essere uno di quei rari precursori del teatro che sognava Balzac. Nei teatri sovvenzionati non si fa niente, non si conclude niente, non si muove niente. Tutti sono timidi e puritani. Vogliate gradire, signore, l’assicurazione del mio più profondo rispetto. Charles Baudelaire a Hippolyte Hostein
ACCADDE OGGI
INCAPACI DI RISVEGLIO Io mi chiedo perché continuino a vivere da morti! Incapaci di risveglio...Tutti con alterne fortune e rendite a fare ciò che non è nella potenziale natura individuale. Eppure tutti si prestano, considerano la sopravvivenza senza ideali, senza amore, senza passione e talento una vita degna di essere vissuta. Non ci sono più uomini né donne, ma un succedaneo umanoide preda dello schiavismo della società dello spettacolo. Sinceramente non so più se sia meglio vivere o morire in questo inferno artefatto dove anche la salute è subordinata al profitto. Un mio amico fa il bidello precario notturno per 950 euro al mese. Io so il suo valore, conosco la sua sensibilità, la sua conoscenza, il suo pensiero profondo, la sua meditazione spirituale... della luce che dà a chi sa coglierla! Eppure questo è ciò che la società gli offre e lui per la sopravvivenza, anche lui si presta. Solo un esempio, normale, non certo dei peggiori, di come questa società annienti, non gli importi nulla delle qualità di una persona, se la considera ancora tale, ma vuole, nel più completo disprezzo, il suo uso o la sua mercificazione, in forme poi spesso obsolete o senza senso, blandita dalla pubblicità, dall’intrattenimento e dalle icone mito. Uno scenario di violenza quotidiana dove depressione, droghe, alcol e suicidi imperversano.
Luigi Boschi
SI DICE CHE… Dicono che la destra di governo si stia frammentando, ma non è così. Esiste un modo solo di concepire la politica
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
20 ottobre 1883 Perù e Cile firmano il trattato di Ancón, con il quale la provincia di Tarapacá viene ceduto a quest’ultimo 1917 Rivoluzione d’ottobre 1935 Fine della Lunga Marcia 1941 I soldati tedeschi cominciano il massacro di migliaia di persone a Kragujevac, durante l’occupazione nazista della Serbia 1944 L’Armata Rossa cattura Belgrado, la capitale della Jugoslavia 1947 Il comitato della Camera per le attività antiamericane inizia le sue investigazioni sull’infiltrazione comunista ad Hollywood 1968 L’ex first lady Jacqueline Kennedy Onassis sposa l’armatore greco Aristotele Onassis 1973 Inaugurazione della Sydney Opera House 1977 Un aereo su cui volano i Lynyrd Skynyrd si schianta nel Mississippi, uccidendo diversi membri della band 1986 Yitzhak Shamir inizia il suo secondo incarico come primo ministro di Israele
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
nel nostro esecutivo e due modi per organizzarla, uno è quello di mantenere il più possibile il volere di un popolo espresso con il voto, e l’altro di raccordare a questo i lavori parlamentari. Forse, se il premier non ricevesse tanti attacchi inutili e dannosi, la sua azione sarebbe più serena e limpida.
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ANNOSE QUESTIONI L’aeroporto tarantino è uno degli scali aeroportuali migliori del Mezzogiorno d’Italia e il settore trasporti si coniuga strettamente con quelli turistico, congressuale e produttivo. L’incompletezza di collegamenti e la scarsità di servizi possono causare forti e inaccettabili disagi all’utenza. Tale situazione rischia di compromettere numerosi comparti del territorio tarantino e di incrementare le lamentele e i disagi che operatori e utenti avvertono quotidianamente. Si chiede a Vendola e Loizzo di conoscere l’attuale situazione vigente presso l’aeroporto di Taranto in merito ai collegamenti con gli aeroporti di Bari e Brindisi e quali soluzioni e strategie intende adottare per risolvere annose questioni problematiche che si ritorcono contro ampi settori dell’economia tarantina oltre che dell’utenza e degli operatori del settore. Vorrei inoltre sapere se ci sono gli estremi per far divenire la risoluzione eventualmente adoperata costante e capace di evitare ulteriori disagi che il territorio tarantino non merita e che non può continuare a detenere.
UDC: L’AUMENTO DEL COSTO DI PANE E PASTA DANNEGGIA LE FAMIGLIE Bisogna evidenziare lo stato di crisi del comparto agricolo lucano. Dal campo alla tavola i prezzi degli alimenti aumentano in media cinque volte, con rincari che sono superiori per nove al valore medio dell’inflazione. E questo, nonostante l’anno abbia visto crollare drammaticamente i prezzi alla produzione. La denuncia è dell’Udc, che indica anche la causa di tale meccanismo: «la grande distribuzione, che controlla una quota di mercato nei generi alimentari del 71% e rappresenta una vera e propria strozzatura nel passaggio dei prodotti dai campi alla tavola». Lo scenario è quello di poche grandi piattaforme di acquisto che trattano sul mercato in condizioni di quasi monopolio. Da qui, anche l’appello all’Antitrust perché verifichi se la grande distribuzione in Italia operi in abuso di posizione dominante e con prevaricazione delle migliaia di imprese agricole che non hanno nessun potere contrattuale per opporsi ad un diritto di accesso, pagando dazi per l’ingresso sul mercato. Un meccanismo infernale, per i produttori, ma anche per i consumatori. L’Udc calcola che il 2009 sia l’anno record dei rincari sugli alimenti. È stato calcolato che il prezzo al chilo attuale del grano è più basso di 25 anni fa: è passato infatti dai 23 cent del 1985 ai 14 cent. Eppure, la pasta costa notevolmente di più: dai 52 cent ha raggiunto quota 2,7 euro. Nel contempo, rispetto al 2008, i prezzi di grano duro e tenero alla produzione sono diminuiti rispettivamente del 30 e 33%. Pochi centesimi pagati agli agricoltori nei campi diventano euro al consumo. Il risultato è che sia i consumatori (gli italiani spendono 205 miliardi di euro l’anno in alimenti e bevande, dei quali 141 miliardi in famiglia), sia gli agricoltori s’impoveriscono. I primi non possono beneficiare della forte riduzione dei prezzi agricoli in atto, mentre i secondi vedono crollare le quotazioni alla produzione, che nell’ultimo anno sono calate in media del 16% (con punte di -71%), e avendo scarsi margini, abbandonano i campi. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
APPUNTAMENTI OTTOBRE 2009 VENERDÌ 30 E SABATO 31, ORE 11, ROMA PALAZZO WEDEKIND - PIAZZA COLONNA “Di cosa parliamo quando diciamo Italia”. Intervengono: Ferdinando Adornato, Pier Ferdinando Casini, Rino Fisichella, Carlo Azeglio Ciampi. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Antonio Scalera
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
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