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Si passa sovente dall’amore all’ambizione, ma non si ritorna mai dall’ambizione all’amore François De La Rochefoucauld

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 18 NOVEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il leader dell’Udc incontra l’Anm e tenta una mediazione per evitare che il “caso Berlusconi” diventi un trauma istituzionale

Bersani fermo, Schifani chiaro Litiga con Di Pietro sul no B-day, ma non risponde a Casini che gli propone un “patto di ragionevolezza” sulla giustizia. E il presidente del Senato minaccia elezioni anticipate LE OPPOSIZIONI A UN BIVIO

Global warming: la Caporetto europea

La mossa dei centristi, il Rubicone del Pd di Giancristiano Desiderio

di Carlo Ripa di Meana • pagina 5

Era fin troppo prevedibile ed è ciò che puntualmente si è verificato: Di Pietro scende in piazza ma la manifestazione chiamata “No Berlusconi Day” è in realtà un “No Pd Day”. Il vero obiettivo è Bersani. Così, a poche settimane dalla sua elezione alla guida del Pd, Bersani è già a un bivio: farsi guidare dal dipietrismo o scegliere il riformismo?

di Franco Insardà Lo scontro istituzionale sta per far esplodere la legislatura: «Se la maggioranza non tiene - ha detto il presidente del Senato Schifani - si va alle elezioni». Sembra quasi una dichiarazione dettata dal premier in persona, che invece continua a mantenere un significativo silenzio pubblico. L’unico che lavora per ricomporre i conflitti e salvare le istituzioni è Pier Ferdinando Casini che ieri ha incontrato il vertice dell’Anm e lo ha convinto a discutere una norma che superi lo scontro sul processo breve. «Ma serve la sponda del Pd», ha detto Casini. Il quale Pd, dal canto proprio, aveva già da fronteggiare l’attacco di Di Pietro che accusa Bersani di «scarso fuoco antiberlusconiano».

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CLIMA TESO AL NAZARENO

Democrats preoccupati: «Rischiamo la paralisi»

Fame nel mondo: il vertice della vanità di Mario Arpino • pagina 4

di Antonio Funiciello Da quando Pierluigi Bersani è il nuovo segretario del Pd, Pier Ferdinando Casini non fa che incalzarlo. Ha cominciato con le elezioni regionali, dicendosi disposto a un accordo in Piemonte e Puglia. Ma Bersani ha detto no. Se ribadisse quel no anche ora sulla giustizia, più che un no, sarebbe uno sgarbo. a pagina 3

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La proprietà pubblica scenderà al 30%: gli ambientalisti promettono battaglia

Fiducia sull’acqua privatizzata

L’Onda diventa lunga Studenti in piazza tra proteste e tensioni

Il governo blinda il decreto, ma la Lega prende le distanze di Errico Novi

Il vice capogruppo leghista alla Camera

«Il Carroccio era contrario»

Il governo ormai va avanti a colpi di fiducia nel timore di perdere in Aula pezzi preziosi (e indispensabili) della propria maggioranza: ormai questa maggioranza che era nata come una delle più compatte della storia repubblicana è diventata una delle più volubili e incerte. L’ennesimo voto di fiducia, dunque, ieri è stato posto per il decreto sulla riforma dei servizi pubblici che prevede la sostanzaiale privatizzazione della fornitura dell’acqua: il voto è previsto per questa sera. Le opposizioni di sinistra e gli ambientalisti promettono battaglia, ma stavolta anche la Lega è in difficoltà: «Era meglio cambiare il testo in Parlamento piuttosto che andare alla fiducia». a pagina 9 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

di Francesco Capozza Marco Reguzzoni, vice capogruppo leghista alla Camera, non ha apprezzato la fiducia: «È un vero peccato che su questo provvedimento venga posta la fiducia, perché ciò impedisce a noi e alla maggioranza di migliorare ulteriormente il testo». a pagina 9 • ANNO XIV •

NUMERO

228 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

La protesta ricomincia in occasione della giornata mondiale del diritto allo studio. La ministro: «È stato tutto organizzato dai centri sociali». Scontri e arresti a Milano Francesco Lo Dico • pagina 8

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 18 novembre 2009

Fratture. La questione giustizia ormai si interseca a quella della fine della legislatura: maggioranza in ordine sparso

La scommessa di Casini

Mentre Schifani minaccia le elezioni, il leader centrista convince l’Anm e dice: «Soluzione condivisa dal Pd per salvare le istituzioni» di Franco Insardà

ROMA. Pier Ferdinando Casini considera la proposta del governo sul processo breve una «schifezza». L’ha ripetuto anche ieri vedendo i vertici dell’Anm. Ennesimo tassello nella strategia del leader udc di trovare un accordo trasversale per superare il testo dell’esecutivo ed evitare lo stop a tanti importanti processi. E per centrare questo obiettivo Casini chiede collaborazione al Pd e al suo segretario Pier Luigi Bersani che ha incontrato ieri pomeriggio a Montecitorio. Ma i due si rivedranno anche nei prossimi giorni.

L’ex presidente della Camera ha già chiarito che la via d’uscita passa per un “Lodo Alfano” approvato con i crismi della legge costituzionale. Ma dal Pd Bersa-

ni ha già fatto sapere di essere contrario all’ipotesi della “terza via”, perché, come ha spiegato, la Corte costituzionale non ha bocciato il Lodo Alfano soltanto per l’iter seguito, ma anche perché in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, quello che stabilisce il principio di uguaglianza. Al termine dell’incontro con l’Anm Casini ha detto: «Stiamo lavorando responsabilmente.

Ora chiederemo un incontro al Partito democratico per capire se è interessato a trovare una soluzione. Noi, da soli, le montagne non le possiamo spostare. Se c’è la collaborazione di tutti, una soluzione, una terza strada, forse si può trovare. Ma è chiaro che senza sponde è difficile riuscirci». A rendere più complesse larghe intese sulla giustizia c’è soprat-

tutto il fronte dipietrista che sta cavalcando il “No B. day”, la manifestazione organizzata da alcuni blogger e dall’Idv per il prossimo 5 dicembre. Una mobilitazione che la direzione del Pd ha già rimandato al mittente. Ma l’obiettivo dell’Udc è chiaro: trovare insieme con il Pd una soluzione condivisa per evitare che il testo sul processo breve diventi legge. Proprio sul testo del di-

Il Pd, pressato con violenza sempre maggior dall’Idv, deve rispondere alla sfida dei centristi

Ma adesso Bersani deve attraversare il suo Rubicone di Giancristiano Desiderio ra fin troppo prevedibile ed è ciò che puntualmente si è verificato: Antonio Di Pietro scende in piazza e suona ancora una volta la carica dell’antiberlusconismo in servizio permanente effettivo. Di Pietro contro Berlusconi, «come sempre» verrebbe da dire. Invece, le cose stanno diversamente. Perché la manifestazione chiamata “No Berlusconi Day”è in realtà un “No Partito Democratico Day”. Il vero obiettivo è Bersani. Così, a poche settimane dalla sua elezione alla guida del Pd, Pier Luigi Bersani è già a un bivio: farsi guidare dal dipietrismo o scegliere la via del riformismo?

E

Se stiamo alle parole, possiamo dire che Bersani non va a rimorchio di Di Pietro. Bersani, infatti, ha detto «noi facciamo le nostre manifestazioni e lezioni di antiberlusconismo non le prendiamo da nessuno. Il più antiberlusconiano è quello che riesce a mandare a casa il presidente del Consiglio e non quello che grida di più». Tuttavia, una cosa è replicare a parole e ben altra cosa è adottare una linea politica diversa facendo scelte precise e determinanti per il futuro. Il bivio di Bersani non prevede solo il “no” a Di Pietro, ma anche il “sì” all’azione che Casini sta portando avanti con il “lodo Alfano” in versione costituzionale. L’Anm, infatti, non è contraria alla riproposizione del lodo e apprezza la strada indicata dall’Udc. Si può essere antiberlusconiani gridando, come fa Di Pietro, oppure abbassando i toni, come suggerisce Bersani. Ma il più autentico problema politico di Bersani è se essere o no antidipietrista. È qui che il suo antiberlusconismo soft mostra la corda. Ci rendiamo conto che, nel bel mezzo di una crisi di governo strisciante, qual è quella alla quale stiamo assistendo in diretta, il segretario del Pd si trova in una stranissima posizione perché da una

parte non vuole soccorrere il governo e dall’altra non vuole farsi risucchiare dalla foresta dipietrista. Tuttavia, per un partito che vuole fare opposizione e contemporaneamente esprimere cultura di governo si pone ancora una volta la “questione giacobina”: è in grado Bersani di tagliare finalmente il cordone ombelicale che lo lega alla cultura giustizialista?

segno di legge a firma GasparriQuagliariello e sulla possibilità di una sua inemendabilità Casini ci ha tenuto a chiarire che «l’idea di un doppio binario non esiste. Qui il binario è uno solo: farsi carico della posizione della maggioranza. Il resto sono chiacchiere, tanto gli italiani sanno benissimo quale è il problema. Allora o lo si affronta in modo condiviso, oppure se non lo si affronta si andrà al muro contro muro».

Rispetto all’ipotesi che il lodo Alfano o una legge simile di tutela delle alte cariche istituzionali dai processi per l’intera durata del mandato possa essere inserita nella Costituzione, Casini si è limitato a commentare con un «vediamo». Aggiungendo che «non basta salvarsi la coscienza. La politica impone l’obbligo di assumersi la responsabilità delle scelte, anche di decisioni difficili». Per questo il leader Udc vuole confrontarsi con Bersani che, però, ha già sbarrato la strada al lodo costituzionale. Non ha voluto fare commenti su quest’ipotesi il presidente del-

La strada individuata dall’avvocato Ghedini - il cosiddetto “processo breve”- è una strada non percorribile. Troppi gli ostacoli, non solo giuridici, che si devono superare. La legislatura, che sembrava essere destinata a una tranquilla velocità di crociera, sembra invece giunta in un vortice in cui tutto e tutti sono risucchiati verso il fondo. Il “processo breve” sembra essere anche la via più breve per incattivire ancor di più il clima della politica e del Paese. E’qui che si inserisce la strada indicata dai moderati e sulla quale il Pd deve mostrare di saper camminare con passo fermo e convincente: il “lodo Alfano”fatto secondo la Carta costituzionale. Esiste strada migliore? Bersani eviti di fare come il celebre asino di Buridano. La sua astensione dalla manifestazione di Antonio Di Pietro è sterile se non è seguita da una concreta scelta antigiacobina. Il berlusconismo e l’antiberlusconismo sono tra loro speculari: Berlusconi si specchia e vede Di Pietro, Di Pietro si specchia e vede Berlusconi. Il modo più utile, oggi, di essere antiberlusconiani e dare una mano al Paese è svuotare una volta per sempre la “questione giacobina”. Il tanto peggio, tanto meglio è l’antitesi del riformismo.

l’Anm, Luca Palamara: «È un argomento che riguarda la politica». Le toghe hanno confermato la loro bocciatura al testo del processo breve. E promettono reazioni se dovesse essere approvato in Parlamento. Si tratterebbe, secondo Palamara, di un «colpo letale al funzionamento della giustizia. Non staremo più fermi di fronte alle amenità sui giudici che lavorano quattro ore al giorno e bloccano la giustizia. Se dovesse andare in porto, bloccheremo la macchina applicando proprio quel provvedimento». Il presidente dell’Anm ha sottolineato l’apprezzamento dell’associazione per «una parte della politica che si sta rendendo con-


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La nuova politica delle alleanze per il momento non decolla

Il partito degli indecisi. Pd in cerca di strategia Tra gli esami di Di Pietro e la mano tesa dei centristi, il segretario non sa scegliere da che parte stare di Antonio Funiciello

Il presidente dell’Anm, Luca Palamara, ha sottolineato l’apprezzamento delle toghe per «una parte della politica che si sta rendendo conto degli effetti pericolosi del processo breve» to degli effetti pericolosi che potranno esserci se questo provvedimento dovesse entrare in vigore. Bisogna essere molto chiari: il testo depositato al Senato non è emendabile». Per l’inizio di dicembre si attende anche il parere del Csm sul processo breve. La sesta commissione di Palazzo dei Marescialli, infatti, deve mettere a punto il documento destinato al ministro della Giustizia. Intanto è iniziata la “conta” dei processi che subirebbero uno stop per la nuova norma. Su questo aspetto Luca Palamara ha precisato che «allo stato non possiamo avere dati, però è facile immaginare che la gran parte dei procedimenti subirà un blocco. Basta considerare che, per come è strutturato l’attuale sistema giudiziario e in mancanza di riforme organiche degli uffici, è praticamente impossibile concludere i processi nel periodo di tempo chiesto dal legislatore».

Sull’altro fronte, quello della maggioranza, la situazione non è certamente tranquilla. Nel mirino soprattutto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, accusato di fare il «doppio gioco». Al punto che Il portavoce del Pdl, Daniele Capezzone, ha dichiarato: «È sempre più chiaro che è in corso una manovra politica e giudiziaria volta non solo a colpire il premier, ma la volontà democraticamente espressa dagli italiani».

Concetto ripreso anche dal presidente del Senato, Renato Schifani, che ieri pomeriggio ha dettato alle agenzie: «Compito della maggioranza è garantire che in Parlamento il programma del governo trovi la compattezza degli eletti per approvarlo. Se questa compattezza viene meno, il risultato è il non rispetto del patto elettorale. Se ciò si verificasse, giudice ultimo non può che essere, attraverso nuove elezioni, il corpo elettorale. È sempre un atto di coraggio, di coerenza e correttezza verso gli elettori». A Schifani ha prontamente replicato il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione: «Questo delle elezioni anticipate sta diventando un tormentone. Le elezioni anticipate sarebbero il fallimento di questo governo, di questa maggioranza e di questa formula politica».

E in questo clima il capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, ha sottolineato: «Il premier è intenzionato a proseguire nella sua azione. Non c’è un complotto del presidente della Repubblica e di quello della Camera, però esiste un network fatto da alcune procure, da un gruppo editoriale, dall’Italia dei valori e da una parte del Pd, che vuole usare la giustizia per ribaltare il quadro politico uscito dalle urne». Parole che dimostrano quanto sia difficile la scommessa di Pier Ferdinando Casini.

ROMA. Da quando Bersani è il nuovo segretario del Pd (un mese circa), Casini non fa che incalzarlo. Ha cominciato nell’incontro sulle prossime elezioni regionali, piantando le grane Piemonte e Puglia al segretario democratico. Per queste amministrazioni regionali in particolare, l’Udc è ben disposta a un accordo con il Pd, a patto che Bersani ridiscuta i candidati presidente. I quali rispondono ai nomi della bersaniana Mercedes Bresso e di quel Nichi Vendola che è stato tra i primi, in quanto leader di Sinistra e libertà, a vedere e benedire il nuovo capo del Nazareno. Non bastassero le regionali, ieri Casini in un incontro con l’Anm ha risposto all’accelerazione del Pdl sulla giustizia, con una disponibilità di massima a impegnare i suoi parlamentari in una riforma che considera necessaria. Per la quale, però, ha riconosciuto come indispensabile la sponda del Pd annunciando una richiesta di incontro ad hoc, accolta da Bersani con una certa tiepidezza. Sollevare la questione giustizia nei giorni in cui il Pd lavora con la maggioranza per la nomina a Mr Pesc di Massimo D’Alema, non corrisponde esattamente al gesto della mano tesa di un amico. E tuttavia Casini recita giustamente la sua parte, mentre è più difficile capire il ruolo in commedia dei democratici.

tutto indisponibile a fare sconti al Pd sull’argomento. Bersani ha mostrato già in passato, quando non era segretario del suo partito, una certa ritrosia sul tema generale del confronto parlamentare con Pdl e Lega. Si ricordi soltanto la sua ostilità a presentare un disegno di legge sul federalismo fiscale alternativo a quello della maggioranza, sulla base del quale andare alla discussione nelle commissioni e in aula. Difficile dire adesso in cosa possa trasformarsi la sua ritrosia su un tema caldo come quello della giustizia.

Il Pd ha già espresso il suo parere negativo sull’idea più specifica di Casini di riprendere per via costituzionale il vecchio Lodo Alfano. Ciononostante il leader dell’Udc non si è perso d’animo, è ha rilanciato indicando

Torna la stagione del «ma-anchismo» di veltroniana memoria: il problema è non scontentare troppo l’elettorato antagonista che assolutamente non vuole discutere di giustizia

Il protagonismo di Casini ha preso alla sprovvista un Pd già combattuto sulla vicenda della manifestazione anti-Berlusconi dell’Italia dei Valori. La posizione espressa dal segretario democratico (no all’adesione ufficiale, sì alla partecipazione di chi vuole andare a titolo personale) è parsa debole a chi chiede a Bersani di porre fine a quella Babele che ha caratterizzato il Pd dei suoi predecessori. Il «ma-anchismo», tante volte rimproverato a Veltroni, è tornato a fare capolino al Nazareno. All’eterna questione-Di Pietro, si è aggiunta quella più importante posta di Casini, che non chiede semplicemente - si fa per dire - una posizione chiara sulla partecipazione a una manifestazione, ma l’impegno a lavorare in Parlamento su un tema come la giustizia. Tema nei confronti del quale l’elettorato democratico più attivo, quello delle primarie, è particolarmente sensibile, aizzato da una stampa di sinistra del

la necessità di una ”terza via”tra la proposta della maggioranza e l’intransigentismo piazzaiolo dipietrista. Se Bersani vuole tenere fede alla sua linea politica, che prevede la sostituzione della vocazione maggioritaria con la strategia delle alleanze, qualche carta di Casini è pur costretto ad andare a vederla. Avendo già detto di no sulla messa in discussione di Bresso e Vendola per le prossime regionali, un secondo rifiuto a Casini risulterebbe, più che antipatico, ostile. La vicenda s’intreccia poi con la scelta di Bersani del nuovo responsabile Pd del dipartimento giustizia, vista la improbabile conferma in quel ruolo del “popolare” Lanfranco Tenaglia. È più plausibile immaginare che il Pd scelga un altro togato per sostituire il magistrato d’appello Tenaglia, o comunque un dirigente politico che non spiaccia all’Anm.

Ma piacere a tutti è impossibile e Bersani sa che prima o poi dovrà cominciare a spiacere a qualcuno. Cominciare da Casini, visto il dibattito congressuale che è alle spalle, sarebbe un paradosso non da poco.


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Summit/1. Nell’assenza dei “grandi” d’Occidente, la Conferenza è stata solo una passerella per i satrapi di ogni tipo

Il vertice della vanità

A Roma si è recitato il solito rito dei dittatori “poveri” che mettono sotto accusa le democrazie ”ricche”. Ma così la fame aumenta di Mario Arpino l vertice della Fao è qualcosa di molto serio, considerata la materia - la fame nel mondo - e i numeri in gioco, davvero impressionanti anche nella loro accezione minimale. Però, quando Jacques Diouf quantifica in quaranta miliardi di dollari all’anno i fondi necessari per dimezzare entro il 2015 il miliardo e passa di affamati, mentre pare che un altro miliardo - di cui 300 milioni sarebbero gli obesi - sono in sovrappeso, ecco che inizia il balletto delle cifre. Con conseguente, quanto ovvia, crisi di credibilità, se si considera che negli ultimi anni situazione e numeri sono sì cambiati, ma certamente in peggio. Vi è chi assicura che gli affamati, con l’attuale tasso di crescita da una parte e la mancanza di ottemperanza agli impegni dall’altra, entro il 2025 potrebbero addirittura arrivare al raddoppio. Allora, come ha osservato con estrema franchezza il sindaco Alemanno, mancano davvero indicazioni chiare dell’impegno finanziario, cui si deve porre rimedio. Gli ha fatto eco il premier Silvio Berlusconi, presidente dell’assemblea, confermando che per passare dal dire al fare è necessario almeno cominciare a decidere sui tempi e sulle quote dei 20 miliardi di dollari che i grandi del G.8 si erano impegnati a versare quest’estate all’Aquila. Ma, forse per dovere di ospitalità, Berlusconi è stato l’unico degli otto membri ad essere presente al summit. Degli altri sette, nessuna traccia.

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Verrebbe da pensare, allora, che il vertice Fao forse non è una cosa così seria e importante come dovrebbe, o come noi riteniamo dovrebbe essere, ma è solo un’altra di quelle celebrazioni del politicamente corretto cui ormai ci ha abituato la prassi quotidiana di un certo Occidente, che non ci piace. Non ci si può sottrarre, pena la scomunica. Così, il vertice diventa una specie di rito masochista dove i paesi ricchi volontariamente si sottopongono ad un feroce tiro al bersaglio da parte dei diseredati. Un gioco dove la vanità dei singoli - lo si vede dal tipo di affluenza - fa premio sulla realtà della fame, che è vera. È una palestra dove si permette a satrapi di ogni ti-

po e piccoli dittatori di sbeffeggiare l’Occidente, cercando di perpetuarne - a sessant’anni dalla fine dell’ultimo colonialismo europeo - sensi di colpa che loro, vittime innocenti, non dimostrano mai. È un foro dove si permette a un insolente Muhammar Gheddafi di denunciare, senza che nessuno osi fare contradditorio, «…le ipocrisie, le frodi e le contraddizioni delle potenze ex coloniali, che hanno saccheggiato le risorse di interi continenti come l’Africa e l’Asia causando fame e disperazione».

Da Mugabe al Colonnello, sfilano i Pasdaran della Fao di Luisa Arezzo ncredibile ma vero: il vertice della Fao 2009 bissa il fallimentare esordio di lunedì (che ha visto l’approvazione di un documento pieno di buone intenzioni e privo dei necessari stanziamenti per realizzarlo) e va ancora peggio. Ieri la giornata è stata monopolizzata dal dittatore dello Zimbabwe Robert Mugabe che dallo scranno dell’Assemblea non solo ha accusato i presenti di applicare delle sanzioni «illegali e inumane» verso il suo paese, ma ha anche lanciato un appello affinché i soldi promessi dal G20 dell’Aquila (gli unici sui quali al momento si può contare) non vengano usati come «arma politica» e vengano invece destinati a favore «dei piccoli agricoltori, specialmente le donne e i giovani». Ora, che a una riunione sull’Alimentazione abbia partecipato Robert Mugabe - un despota che affama il suo popolo - non è solo un curioso paradosso. È un tragico esempio di quel «mondo alla rovescia» che sono ormai diventate da tempo le Nazioni Unite. Un dato di fatto sul quale la diplomazia occidentale dovrebbe riflettere. Ma le “stranezze” non si sono concluse qua: oltre a quelle del Colonnello Gheddafi, che dopo aver aperto le sue stanze alle 300 hostess fra i 18 e i 35 anni e blindato l’ingresso alle tv italiane (ma non a quelle arabe, che potranno così mandare in onda i festini in salsa occidentale), il vertice della Fao ha dato la parola al premier somalo Ali Sharmarke, accusato più volte di stupro, e a una serie di piccoli padri padroni del continente africano.

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Per “smorzare” il flop, il consesso ha puntato tutto su un codice di condotta contro i predoni delle terre, ovvero l’accaparramento di terreni agricoli da parte delle multinazionali straniere e fondi di investimento che, secondo gli esperti, muove un giro d’affari di 100 miliardi di euro. Preparato dall’Ifad e dalla stessa Fao, il codice nasce già zoppo: dovrebbe infatti incontrare il favore di molte diplomazie internazionali e del settore privato, che però si è sempre rifiutato di partecipare a qualsiasi incontro di consultazione. Come dire: anche qui ottime intenzioni ma nessuna sostanza. E che dire dell’annosa discussione su come far giungere gli aiuti umanitari a destinazione che sempre ieri ha tenuto banco? Nulla. Solo tanta retorica, e nessuno capace di dire quello che tutti sappiamo: le derrate arriveranno in containers nei porti dei paesi del terzo mondo. Il governo locale li bloccherà nel porto con le scuse più varie (mancati visti, dichiarazioni inesatte, timbri non visibili, etc..) finché non siano pagate pesanti tangenti o, peggio, condizionerà la distribuzione degli aiuti al fatto che sia il governo stesso a provvedere. Ovviamente il ricatto riuscirà perché un container parcheggiato nel porto, costa, perché le derrate alimentari hanno una scadenza, (generalmente molto breve visto che il clima è di solito caldo ed umido) e soprattutto perché la Fao non può dire a un governo sovrano «Non mi fido a farti distribuire i miei aiuti alla tua popolazione». Ebbene, il 99% delle derrate una volta caricate sui camion del governo sparirà e si trasformerà magicamente in bonifici in conti svizzeri o in nuove voci negli arsenali, del restante 1% sarà filmata la distribuzione a beneficio degli “ingenui”donatori.

Le decine di tirannelli che occupano buona parte degli scranni dell’Assemblea dell’Onu invece sono sempre innocenti, nessuno li accusa, se sono soggetti a mandato di arresto nessuno si muove, mentre la loro megalomania viene compensata con condiscendenza ed onori. «Ora ci devono compensare» ha tuonato il colonnello, includendo, ovviamente, anche Bashir e Mugabe. «Non chiediamo elemosina, ma rivendichiamo un nostro diritto». Si, anche Mugabe va compensato. Infatti, la sua politica dissennata e autoritaria, come ci spiega chi conosce bene lo Zimbabwe, ha prodotto disoccupazione per l’80 per cento della popolazione, abbandono di un territorio un tempo fertile, negozi vuoti, rete stradale deserta, comunicazioni saltuarie, aspettativa di vita scesa a 36 anni per gli uomini e 34 per le donne. Ora è a Roma anche lui, con tre aerei e quaranta persone al seguito. Aiutiamolo. Forse in una cosa Gheddafi ha ragione, ed è quando pronuncia la parola “ipocrisia”. Dall’alto: Robert Mugabe (Zimbabwe), Gheddafi (Libia), Fernando Lugo (Paraguay); il premier turco Tayyp Erdogan e, sotto, Omar Abdirashid Ali Sharmarke (Somalia)

Quando si parla di fame, il pensiero va subito all’Africa. Nessuno pensa, per esempio, al dittatore comunista nordcoreano - il caro leader - che con la folle corsa agli armamenti e la chiusura alle relazioni esterne - c’è un rapporto che lo testimonia - si dice abbia causato una serie di carestie con oltre quattro milioni di morti. Eppure, non ricordo che la Corea del Nord sia stata colonizzata dai biechi occidentali. Dobbiamo aiutare anche lui, magari con senso di colpa? Ma, se i popoli sono incolpevoli, i dittatori no, e qualcosa bisogna fare. Fermarli,


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18 novembre 2009 • pagina 5

La Caporetto dell’Europa Sconfitta a Singapore la pretesa autoritaria della Ue di imporre al mondo la “green economy” di Carlo Ripa di Meana Singapore la nuova alleanza composta da Stati Uniti, Cina, altri paesi asiatici e dell’Oceano Pacifico, inclusi Giappone ed India, ha deciso che dal 7 al 18 dicembre a Copenhagen non verrà assunta alcuna decisione concreta per il dopo Kyoto. Esaurito cioè il tempo del protocollo di Kyoto, che ha iniziato a ridurre le emissioni di Co2 per scongiurare il global warming, non interverrà nessun altro piano contenente nuovi impegni precisi e cogenti. I grandi Paesi che si affacciano oggi alla società industriale hanno sempre sostenuto che sarebbe stato profondamente ingiusto per loro dover assumere pesanti impegni finanziari contro i gas a effetto serra quando la superpotenza industriale americana non ne prendeva. A proporre un piano costosissimo di interventi era rimasta dunque solo l’Europa. Negli ultimi dieci anni l’Unione europea, forte del rapporto dell’Ipcc (Intenational panel climate change), organismo delle Nazioni Unite composto da alcune migliaia di scienziati, ha sostenuto che la causa del riscaldamento globale va ricercata nelle attività antropiche: per intenderci, nelle industrie, nei consumi. E quindi toccava all’uomo introdurre una profonda modificazione della propria vita diminuendo le emissioni di gas a effetto serra e catturando il surplus di Co2 nell’atmosfera per seppellirlo nelle miniere abbandonate.

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Peccato che questa operazione, oltre ad essere scientificamente discutibile, costi la cifra spaventosa di 2700 miliardi di dollari da spendere subito, e 40mila miliardi entro fine secolo. Ai suoi critici è stato però sempre risposto con siper esempio. Altrimenti, specie in Africa, armi, lotte, conflitti e corruzione continueranno a divorare sempre tutte le risorse. Per rendersi conto della conflittualità in atto nel continente africano, è sufficiente dare un’occhiata alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Nel 2008, anno in cui il Segretario Generale aveva preso l’iniziativa per formare

cumera che è indispensabile spenderla perché altrimenti si va incontro ad una catastrofe planetaria. La tesi è stata elaborata e sbandierata da un gruppo corposo e agguerrito di apocalittici, guidati da Al Gore che per averla sostenuta si è preso un premio Nobel e un premio Oscar. Accanto a lui, la mente “scientifica” è quella di Sir Nicholas Stern, alto dirigente dello Stato britannico ed esperto di economia, non di ambiente.

Costoro hanno messo il silenziatore a quella parte, anch’essa numerosa e molto qualificata della comunità scientifica, che diceva: attenzione, il clima è solo in piccola parte determinato dall’attività umana. Prima di tutto è correlato ad alcuni grandi fenomeni naturali: vedi le eruzioni vulcaniche, l’attività sismica, i movimenti solari. L’eruzione del vulcano Pinatubo, nelle Filippine, che ha versato per due anni lava incandescente nell’Oceano Pacifico, ne ha riscaldato, ad esempio, le acque dando luogo al fenomeno del Niño. La natura, non l’uomo determina il clima. La grandinata di dollari da spendere per modificare i comportamenti umani sono dunque un gigantesco spreco, perché la mano dell’uomo poco conta nei cambiamenti climatici. Gli impegni presi all’Aquila da Obama, Berlusconi e compagnia, con i quali si assicura che la temperatura non aumenterà di più di due gradi celsius, sono in realtà scritti sull’acqua. Non saranno i politici a stabilizzare il clima che si modifica indi-

la task force ad alto livello per la sicurezza alimentare, su un totale di una sessantina di risoluzioni del Consiglio ben 35 riguardavano paesi africani. Anche nel 2009 le risoluzioni di sicurezza riguardanti l’Africa sono circa il 50 per cento del totale. Sono tutti presenti al vertice Fao in assetto accusatorio, ma non si sente mai un’autocritica. È possibile

pendentemente dalle loro scelte: il Medioevo è stato caldo e alla fine s’è verificata una piccola glaciazione. Non capiremo questo andamento studiando le decisioni di alcuni monarchi, per quanto potenti. Le cause del global warming (per la verità dall’inizio del decennio la temperatura diminuisce, non aumenta) sono a dir poco controverse. Ma l’Europa ha tacitato tutti i critici dell’Ipcc e ha decretato che quella era la verità: non restava che investire, investire, investire. L’Unione però nel suo delirio megalomane non ha tenuto conto di alcuni non insignificanti particolari Innanzitutto, Cina, Brasile, Messico, India e compagnia non hanno accettato di dover spendere una valanga di soldi. Hanno risposto: voi volete imporci la green economy, tutta pensata e voluta da voi, ma noi non ci stiamo. Obama, che doveva essere il motore dell’operazione, stremato dalla crisi economica e dai giganteschi impegni finanziari per la riforma sanitaria, e con una declinante influenza presidenziale, non è stato in grado né di ottenere il via libera del Congresso, né dispone delle risorse imponenti che occorrerebbero. Si è scoperto così che sulle questioni concrete è molto più forte il rapporto degli Usa, con la Cina e con altri Paesi asiatici, di quanto lo sia con la vecchia Europa. Questa nuova alleanza si è mossa contro la natura chimerica e presuntuosa dei progetti dell’Unione che ha appreso dai giornali l’azzeramento di Copenhagen. Un esito, questo, ampiamente previsto da Bjørn Lomborg, danese, in passato

Si trattava di un’operazione scientificamente discutibile. E anche estremamente costosa

che tutte le colpe siano sempre degli altri?

Come al solito, alla fine, di questa kermesse rimarrà assai poco. I condoni dei debiti che comunque non sarebbero mai stati pagati sono improduttivi, come pure lo sono quegli aiuti che servono a sfamare qualcuno per qualche giorno, ma non incidono sulle strutture produt-

dirigente di Greenpeace che ha abbandonato, autore del libro L’ecologista scettico. Le cose sono andate esattamente come aveva detto lui. L’Europa e i suoi tromboni, le stesse associazioni ambientalistiche, escono da questa vicenda con le ossa rotte. In un solo giorno hanno ricevuto il seguente messaggio: quello che affermate è discutibile sul piano scientifico e le vostre proposte concrete non sono realizzabili. E ben le sta all’Unione europea questa patetica conferma di irrilevanza: ha sbagliato conti e tempi pretendendo in modo autoritario di imporre la green economy,visto che i cittadini non la vogliono. I leader più potenti del mondo le hanno sbattuto la porta in faccia.

Una sconfitta cocente quella di Singapore anche per tutto il settore delle energie rinnovabili, in particolare, per l’eolico che - come ha scritto Mario Pirani - rovina il paesaggio e intorno al quale hanno proliferato, come dimostrano in Italia gli arresti recenti, fenomeni di corruzione; mentre in Svizzera il 72 per cento dei cittadini ha votato contro le torri. Una sconfitta anche per chi nega aprioristicamente un ritorno al nucleare. Ma un colpo durissimo ha raggiunto la cultura che sta dietro a tutto ciò: quella dell’ambientalismo europeo che ha teorizzato l’esistenza di un orizzonte catastrofico, capace di imporci la fuoriuscita dal capitalismo. Il presidente ceco Vaclav Klaus, il cosiddetto euroscettico, aveva già risposto a queste affermazioni con un libro dal titolo programmatico: Pianeta blu o verde. Cos’è in pericolo il clima o la libertà?. Per il dopo comunismo – questa la tesi – è hià pronta una nuova impostazione autoritaria.

tive locali, quando ci sono. Se non ci sono bisogna crearle, ma ciò è impossibile se prima non cambiano le cattive abitudini, chiamiamole così, di un buon numero di governanti locali. Purtroppo, in alcuni paesi è assai improbabile che ciò possa avvenire spontaneamente, dall’interno. Ciò che rimarrà sono le parole del Santo Padre, che in questa occasione potrebbero

venir recepite anche quali veri e propri suggerimenti di carattere applicativo - come lo sviluppo rurale guidato - e i principi conclusivi contenuti nel testo della dichiarazione finale. Nel lungo termine è già qualcosa, se chi chiede aiuto comincia con l’aiutarsi da solo. Altrimenti, il pozzo di San Patrizio, ancora una volta, sarà in grado di restituire ben poco.


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Summit/2. Dimezzare l’emergenza alimentare forse si può, ma non sconfiggerla. E l’aiuto umanitario tout court non serve

Il business della fame

Dall’Uganda al Brasile, gli esempi virtuosi non mancano. Ma non ci sono formule vincenti e durature e i dittatori sono troppi di Maurizio Stefanini er la prima volta dal 1970 gli affamati nel mondo sono, dato 2009, aumentati: 100 milioni di persone in più, pari al 9%, con una punta relativa nei paesi ricchi, dove l’incremento è stato del 15,4%. Per la prima volta nella storia gli affamati hanno superato il muro del miliardo: un miliardo e venti milioni di persone per la precisione, di cui 15 milioni nei paesi ricchi. Due anni fa un’annata di siccità nell’emisfero australe innescò un allarme alimentare che provocò rivolte a catena nel Terzo mondo e un rincaro pesante della pasta anche sugli scaffali dei nostri supermercati. Passata l’emergenza, la siccità in Argentina e in Australia minaccia però l’anno prossimo di riportarci in una nuova situazione di emergenza. Anche se proprio quei due paesi sembrano dimostrare quanto il ruolo dei governi possa fare la differenza.

P

In Argentina, in particolare, i coniugi Kirchner sono stati accusati di aver dissennatamente spremuto di tasse i produttori, solo per mantenere una base di disoccupati organizzati che hanno a lungo costituito la loro massa di manovra elettorale, e anche il loro pacchetto d’urto sulle piazze. Solo che adesso la produzione è precipitata del 70%, per la prima volta dal 1890 l’Argentina sarà costretta a importare cereali, e l’anno prossimo c’è il rischio pesante che accadrà lo stesso anche per la carne (e infatti il movimento dei piqueteros, ormai non più foraggiabile, ha iniziato a scappare di mano, e i Kirchner stanno inanellando una sconfitta elettorale dopo l’altra…). Al contrario, in Australia il governo ha fatto slittare di un anno l’introduzione della tassa sulle

emissioni di carbonio e ha infine deciso di esentarne del tutto il settore agricolo. Ma qui bisogna ricordare anche il ruolo della rappresentanza politica. In Argentina gli agricoltori si fanno rappresentare da associazioni storicamente squalificatesi nell’opinione pubblica con etichette come “agrari” o “latifondisti”, che tendono a ridurre la loro pur cospicua capacità di pressione politica.

In Australia c’è invece un partito degli agricoltori che mantiene un quasi monopolio nella rappresentanza dei collegi rurali al di fuori del bipartitismo tradizionale tra laburisti e liberali, anche se è sempre alleato

Il presidente Lula, con il suo programma ha ridotto la malnutrizione infantile del 62% e sfamato 20 milioni di persone. Come? Tutelando l’agroindustria e le esportazioni ai liberali. Il ruolo dei governi, appunto. In un vertice Fao dove in tanti si sono presentati a lanciare grida di allarme e lo stesso direttore generale Diouf non aveva apparentemente trovato

di meglio che mettersi a digiunare pure lui «per sensibilizzare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale», il presidente brasiliano Lula si è invece presentato con il fiore all’occhiello del Programma “Fame Zero”, con il quale dice di aver tolto dalla fame 20,4 milioni di persone e di aver ridotto la malnutrizione infantile del 62%. In apparenza, il suo metodo è stato lo stesso dei Kirchner: prendere risorse dai grandi produttori agroindustriali, per girarle agli affamati. In pratica, però, la semplice differenza dell’impostazione ha capovolto del tutto i dati. In Argentina, infatti, i Kirchner hanno agito con spirito sostanzial-

In alto, dei bambini mostrano la porzione di riso ricevuta grazie agli aiuti umanitari. A destra: il dittatore Robert Mugabe che ha portato l’economia dello Zimbabwe al collasso, come si vede dalla foto a sinistra: un chilo di frutta costa 50 milioni di dollari locali, l’equivalente di 10 centesimi di euro

mente punitivo, e usando appunto anche i piqueteros come massa di manovra spesso schiavista. In Brasile, Lula ha invece accompagnato il “trasferimento”con una politica di appoggio alle esigenze dell’agroindustria: tutela della proprietà contro la minaccia delle occupazioni da parte di quei Sem Terra che pure erano stati una componente importante del suo blocco sociale; sostegno energico alle richieste degli esportatori in sede di Wto; la grande campagna per la promozione e la difesa di immagine del biocarburante; e anche alla Fao è venuto a ricordare che secondo il Brasile “il sistema del commercio multilatera-


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A destra, dalla prima foto: aprile 2008, Filippine: un tifone provoca l’esondazione di un canale d’acqua con conseguente allagamento di baraccopoli; un contadino africano che recupera delle sementi e, a sinistra, una “mondina” del Myanmar. Al centro, Lula e la locandina del suo programma “fame zero” le deve liberarsi dei vergognosi sussidi agricoli ai Paesi ricchi”.

I produttori, insomma, hanno “pagato” al governo i dividendi per una politica di appoggio, e il governo ha a sua volta cercato di trasformare gli assistiti in nuovi consumatori, piuttosto che in adepti del neo-capitalismo. Lula ha riprodotto dunque nel contesto brasiliano il grande contratto sociale che fu delle socialdemocrazie nordiche. I Kirchner sono tornati al circolo vizioso del primo peronismo. C’è alternativa? In teoria, la Rivoluzione Francese e l’Homstead Act degli Usa dell’800: distribuire la terra ai piccoli contadini per innescare una rivoluzione agraria. Purtroppo oggi questa scuola è stata tradotta nei metodi alla Mugabe e alla Chávez, di mettere sotto attacco la grande proprietà senza sostituirvi nessuno. E così nello Zimbabwe si è scatenata la carestia, e in Venezuela quella penuria generalizzata da cui Chávez cerca di distrarre aizzando all’escalation bellica contro la Colombia. Ma anche l’Uganda è un esempio virtuoso, per il modo in cui è riuscita ad aumentare la sua produzione di riso del 250% in quattro anni. Il problema delle formule liberiste che Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale hanno suggerito e a volte imposto ai Paesi africani negli anni ’90 era che presupponevano anche da parte di Stati Uniti e Unione Europea un’analoga opera di smantellamento del proprio protezionismo agricolo: il che, evidentemente, non è avvenuto. Il problema delle opposte formule dirigiste, protezioniste e populiste è però che poi tendono a deprimere l’iniziativa e a incentivare l’efficienza. Senza contare l’altro storico problema delle politiche di sostituzione di importazioni applicate a sistemi produttivi che non hanno la capacità di far fronte alla nuova domanda, finendo così per creare solo inflazione. Il vicepresidente Gilbert Bukenya, principale artefice di questa “rivoluzione del riso”, come prima cosa ha dunque cercato di assicurarsi che questa capacità vi fosse. In tempi in cui è di moda sparare contro gli ogm, ha promosso in prima persona lo sviluppo di una nuova varietà di riso che richiedes-

se meno acqua e prosperasse in alta quota. Insomma, un prodotto più adatto alle condizioni ecologiche nazionali. Solo quando questo riso “nazionale” è stato disponibile ha allora imposto una tariffa sull’importazione del riso pari al 75 per cento, senza però impedire che i produttori interni si facessero una sana concorrenza. Questa concorrenza, anzi, è aumentata quando l’import di riso si è dimezzato tra 2004 e 2005, e di nuovo dimezzato tra 2005 e 2007, e gli importatori si sono allora resi conto che a quel punto conveniva loro di più investire anch’essi nella produzione interna. Il risultato è stato che i prezzi si sono mantenuti stabili proprio mentre nel resto del mondo decollavano.

Il ruolo, naturalmente, che hanno avuto le biotecnologie nel “miracolo ugandese” non può non richiamare quel che diceva il Nobel per la Pace del

mai sperimentato la sensazione fisica della fame». Agronomo, figlio di contadini luterani di origine norvegese, nato in quello Iowa che è uno dei granai degli Stati Uniti, dopo aver conseguito a 28 anni un dottorato in patologia e genetica delle piante, era andato a sperimentare nuova varietà di grano più produttive e resistenti in Messico con un programma del governo locale e della Fondazione Rockfeller, fino a quando nel 1963

Banca Mondiale e Fmi hanno imposto ai Paesi africani un liberismo che presupponeva la fine del protezionismo agricolo in Europa e negli Usa. Mai avvenuto

l’ulteriore successo a lanciare lo slogan della Rivoluzione Verde e a procurargli il Nobel, di cui lo informò la moglie in Messico, mentre stava facendo test in un campo nella valle di Toluca. «Non prendermi in giro», fu la sua risposta. Dopo il Premio, andò a occuparsi pure dell’Africa. Si è calcolato che almeno 245 milioni di persone abbiano evitato la morte per fame grazie a lui. E anche il tasso mondiale di deforestazione era stato ridotto in seguito alle tecniche di più efficiente utilizzazione del suolo da lui introdotte. Ma gran parte del movimento ecologista e terzomondista contemporaneo lo odiava. All’inizio, dicevano che aveva propugnato un modello di agricoltura a alto investimento di capitale che aveva diffuso il capitalismo, distruggendo le economie di sussistenza tradizionali. Più di recente fu coinvolto nella campagna anti-ogm, di cui la

sua biotecnologia era stata l’anticipatrice. Ma lui, come abbiamo visto, non se ne preoccupava più di tanto. «Mi piacerebbe che i miei critici ci provassero anche loro a passare cinquant’anni della loro vita tra i contadini del Terzo Mondo come ho fatto io», era un’altra delle sue battute preferite. Che è poi qualcosa di analogo a quello che risponde Lula, quando gli rimproverano il suo appoggio alla grande agroindustria e al biocombustibile: «io la fame l’ho conosciuta di persona».

1970 Norman Ernest Borlaug, recentemente scomparso all’età di 95 anni. «Gli ambientalisti occidentali sono spesso il sale della terra, ma ancora più spesso sono persone benestanti che se ne stanno nei loro confortevoli uffici a Washington o a Bruxelles, senza avere

quel paese non ne divenne esportatore. Fedele alla sua massima: «è la fame a provocare le guerre», dopo quella del 1965 tra India e Pakistan si trasferì appunto in quei due paesi, per cercare anche lì di migliorare la capacità di approvvigionamento alimentare. Fu quel-

Chiarito però che l’ha maggior parte del problema dipende dai governi e dalla disponibilità più generale ad accettare il progresso, per quello che riguarda il mondo ricco, si può dare di più? Canzone di Morandi, Tozzi e Ruggeri a parte, è questo in pratica il messaggio di Salvare una vita si può di Peter Singer. Il libro appena pubblicato (in italiano dal Saggiatore) del filosofo australiano che per aver lanciato nel 1975 il

movimento animalista col suo primo best-seller Animal Liberation è stato definito da Time “tra i cento personaggi più influenti del pianeta”. Teorico di quella che definisce “etica applicata”, Singer si è messo ad esaminare come si può in pratica “salvare un bambino”, proprio a partire dalle obiezioni più correnti contro l’aiuto allo sviluppo. È vero: molti soldi destinati all’aiuto allo sviluppo vengono sprecati non solo dai governi corrotti, ma anche da ong burocratiche e inefficienti. Per questo, suggerisce, bisognerebbe creare organismi in grado di monitorare con efficacia gli esiti di questi interventi. Nello spiegare che esiste pure un’organizzazione da lui non menzionata “le cui spese amministrative ammontano al 77% del denaro che incassa”, Singer ricorda che già nel 2001 è stata fondata negli Usa Charity Navigator, che è proprio una agenzia di rating sull’efficienza delle organizzazioni umanitarie. E un’altra è GiveWell, nata nel 2007, e che ha in più una propria ong che invia fondi già “certificati”: Clear Fund.

Altra obiezione: molti aiuti finiscono per creare dipendenza. Lo stesso Singer ricorda la “malattia olandese” degli anni Sessanta, quando la scoperta del gas naturale lungo la costa dei Paesi Bassi invece di creare sviluppo economico provocò un calo della produzione industriale. L’afflusso di valuta aveva infatti fatto crescere il fiorino fino a compromettere le esportazioni. Ma «quando gli incentivi si utilizzano per migliorare infrastrutture e metodi agricoli nonché per aumentare la professionalità della forza lavoro, si assiste a un incremento della produttività e delle esportazioni che può combattere gli effetti della malattia olandese». Casi virtuosi citati: il Mozambico dopo il 1992; il Botswana dopo il 1966; Taiwan negli anni ’50; l’Uganda negli anni ’90. Terzo problema: e non sarebbe spesso più utile togliere di mezzo certe barriere protezioniste che affondano le economie del Terzo Mondo, come propone pure Lula? Sì. Ma poiché far saltare certi interessi costituiti è impresa disperata, argomenta Singer da “etico applicato”, vediamo intanto che cosa si può fare in alternativa…


diario

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Scuola. In occasione della giornata mondiale sul diritto allo studio, nuove proteste contro la politica del governo

Studenti in piazza: torna l’Onda Manifestazioni in tutta italia. Gelmini: «Sono dei centri sociali» ROMA. Lo tsunami scatenato dalla riforma del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gemini, ieri ha sollevato di nuovo le onde, per niente anomale, del mondo studentesco. Sono state più di cinquanta le città italiane che ieri hanno ospitato manifestazioni di protesta. In occasione della Giornata di mobilitazione internazionale per il diritto allo studio, i giovani hanno sfilato da Torino a Palermo, concedendo ben poco al beneficio d’inventario. Nel capoluogo piemontese gli studenti si sono resi protagonisti di un fitto lancio di uova e carta igienica contro la sede regionale del Miur, mentre altri hanno occupato il rettorato. Toni non troppo collaborativi anche a Milano, dove numerosi studenti hanno levato voci di protesta contro il ministro, dopo lo sgombero del liceo civico Gandhi. Non prive di coloriture situazioniste le ondate di protesta nella Capitale, dove i partecipanti hanno percorso le vie cittadine tenendo in pugno delle banane, frutti che ispirarono a O.Henry la celebre metafora che saluta tutt’oggi le repubbliche dittatoriali di stampo latinoamericano. La manifestazione è partita da piazza Vittorio per concludersi all’università La Sapienza con un’assemblea pubblica. Cortei di protesta anche nei due principali poli universitari siciliani. A Palermo una manifestazione che è partita da piazza Politeama per concludersi davanti alla presidenza della Regione, a Catania un corteo partito da piazza Roma. Da Nord a Sud, nel

studio e la riforma delle superiori. Cahiers de doléances che trovano nel motto della Giornata di mobilitazione internazionale per il diritto allo studio un’efficace sintesi: Education is not for sale, l’istruzione non è in vendita. «Una giornata in difesa del valore pubblico della formazione e del libero accesso ai saperi», fa sapere Stefano Vitale, membro dell’Unione degli studenti. Particolarmente sgraditi ai giovani universitari, i nuovi nu-

Incidenti, cariche della polizia e quattro arresti a Milano per un corteo non autorizzato che ha raggiunto anche piazza San Babila mirino della mobilitazione studentesca coordinata da Unione degli universitari, coordinamento degli studenti universitari “Link”, e da Unione degli studenti e Rete degli studenti in rappresentanza delle superiori, i tagli alla formazione scolastica e universitaria, il conseguente disegno di legge che spalanca ai privati le porte degli atenei, l’ulteriore ridimensionamento del diritto allo

nel raggiungere il successo formativo», nota la Rete degli studenti. Particolamente critica è stata la situazione a Milano, dove alcuni studenti del liceo civico Gandhi e ragazzi del cebtro Sociale Cantiere hanno dato vita a un corteo non autorizzato. In piazza San Babila ci sono stati scontri con polizia e carabinieri, durante i quali diversi ragazzi sono stati buttati a terra e colpiti a manganellate. Quattro giovani, tra cui una ragazza, sono stati portati in Questura in via Fatebenefratelli per accertamenti, che dovrebbero concludersi con due arresti e due denunce a piede libero. Con la sua consueta approssimazione propagandistica, la ministro Gelmini ha seccamente commentato che i manifestanti di ieri - tutti erano solo militanti dei centri sociali delle varie città italiane. Costoro, sempre secondo Gelmini «per lo più legati al mondo dei centri sociali, non rappresentano certo i milioni di ragazzi che studiano».

di Francesco Lo Dico

clei di valutazione. «Dovrebbero fare verifiche qualitative – spiega Giorgio Paterna, coordinatore nazionale dell’Unione degli universitari – ma verranno affidati a mani esterne all’ateneo, togliendo qualsiasi freno a una dequalificazione della didattica». Invisa a molti anche la riforma delle superiori, in vigore a partire da settembre. «Gli studenti si troveranno meno ore di scuola e più difficoltà

La violenza non serve all’insegnamento

Ma non sono “criminali” In Italia la giornata mondiale del diritto allo studio è finita a botte. Ognuno ha fatto la sua parte: gli studenti facendo di tutto per non capire ciò che ormai è chiaro a tutti, ossia che il sistema scolastico italiano è al collasso e non certo per responsabilità della Gelmini; e, da parte sua, il ministro dicendo che i manifestanti «sono dei centri sociali, non rappresentano chi studia». Lo diciamo con grande franchezza: non nutriamo simpatia per gli studenti in piazza che non sanno fare altro che gridare slogan vuoti. Altrettanto: non nutriamo simpatia neanche per un ministero la cui unica forza è rimasta la burocrazia e che è vittima della sua stessa impotenza a fare qualcosa. Questo è il primo punto che studenti, docenti e Parlamento dovrebbero vedere con chiarezza: per avere una scuola di Stato autorevole dobbiamo avere una scuola di Stato che lavori e insegni in un regime di libertà e non più di monopolio. Ma in un feroce

clima ideologico, per quanto farsesco, il necessario dibattito serio sulla libertà della scuola e dell’insegnamento di cui abbiamo tutti bisogno è una sorta di utopia. Quella che gli studenti chiamano “riforma Gelmini” è il necessario controllo di una spesa scolastica che va via quasi per intero in stipendi e il recupero della precedente “riforma Moratti”che rimette ordine nei cicli scolastici. Insomma, la “riforma Gelmini”, che gli studenti e i gruppi ideologizzati vedono come una minaccia per la scuola, altro non è che una riorganizzazione che il sistema ministeriale fa di se stesso per evitare che la barca vada a fondo prima del previsto. È anche e soprattutto un’operazione di tagli? Certo, ma che volete che sia oggi una riforma scolastica in una scuola di massa fatta per assistere studenti, docenti, impiegati e famiglie? In fondo, il ministero ha i contestatori che si merita. In Italia, non studia (g.d.) più nessuno.

Ma le ondate di protesta di ieri non sono che l’inizio. Già annunciate per i prossimi giorni ulteriori manifestazioni di protesta, l’undici dicembre sfilerà a Roma un mega corteo in direzione viale Trastevere. Al centro del malcontento il decreto “salva-precari” firmato Gelmini, rifiutato in itinere dagli stessi esponenti del Pdl, in quanto prevedeva che i contratti a tempo determinato per il conferimento di supplenze non potessero “in alcun caso” trasformarsi in rapporti di lavoro a tempo determinato, e poi anche il disegno di legge Aprea sulla scuola e la riforma universitaria, ancora griffata Gelmini. «Il progetto del governo Berlusconi in materia di istruzione pubblica è incentrato su due elementi: tagliare e impoverire la scuola e aprire il settore della formazione e della conoscenza al mercato», osservano le associazioni studentesche. Lamentata da più parti la totale indisponibilità al confronto da parte dei vertici del Miur, gli studenti promettono battaglia. Dopo il secco rifiuto opposto alla nursery, il ministro Gelmini farà bene a dotare viale Trastevere di una sala tv.


diario

ROMA. È il primo segnale di vita che la maggioranza dà in Parlamento dopo giorni di sostanziale paralisi, ma è un segnale di impotenza. Il ministro Elio Vito si presenta a Montecitorio «e annuncia distrattamente ancora una volta la fiducia», per dirla con il capogruppo dell’Italia dei valori Massimo Donadi. Lo fa per blindare il decreto Ronchi, che contiene la privatizzazione dei servizi pubblici locali e in particolare delle risorse idriche. Le opposizioni hanno gioco facile e più di una ragione a far notare la debolezza della coalizione che sostiene il governo. Donadi definisce «appecoronati» i colleghi di Pdl e Lega. Ma è l’altra faccia della medaglia, perché secondo il pd Enrico Farinone, per esempio, « è chiaro che l’Esecutivo ha paura della propria maggioranza, per questo mette la fiducia», e lo pensano in molti. In effetti un punto debole, rispetto alla condivisione del provvedimento, si scopre subito e riguarda la Lega: dopo l’annuncio del ministro ai Rapporti con il Parlamento, il vicepresidente del gruppo lumbàrd alla Camera Marco Reguzzoni non nasconde il parziale disappunto (come riferito anche nell’intervista impaginata in basso, ndr) e concede un via libera a denti stretti. La premura del Carroccio sui servizi pubblici locali è nota, eppure il grado di liberalizzazione introdotto con il decreto resta modesto. È evidente che una riforma più incisiva non sarebbe arrivata nemmeno al dibattito in Aula. Ma certo è che la decisione del governo di porre la fiducia arriva senza i motivi di necessità e urgenza che pur sempre dovrebbero sorreggere la scelta di

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Acqua ai privati: l’ennesima fiducia Il governo blinda il decreto che “rivoluziona” le forniture di Errico Novi emanare un decreto legge e a maggior ragione di renderlo blindato. Piuttosto emerge la fatica del governo e in particolare del suo vertice nel negoziare i provvedimenti con l’alleato nordista, in un momento in cui si ritiene di dover capitalizzare il sostegno di Umberto Bossi soprattutto sul tema della giustizia. Nello stesso tempo, nei

giorni in cui l’unico altro impegno legislativo di rilievo, ossia la Finanziaria, vede il Parlamento sostanzialmente espropriato, si prova a esibire la conversione del decreto Ronchi come se fosse un grande passo avanti sul piano della modernizzazione. In tempi di magra va bene tutto: così tra oggi e domani andrà in onda sulla Rai

«Maggioranza appecoronata», accusa l’Idv. Il vicecapogruppo dell’Udc Vietti si appella a Fini: «Non si può espropriare la Camera»

Parla Reguzzoni, vice capogruppo del Carroccio alla Camera

«La Lega è contraria a questa scelta» di Francesco Capozza

ROMA. Il voto di fiducia sul decreto Ronchi è previsto per questo pomeriggio, ma le opposizioni non ci stanno. Anche la Lega Nord, una componente fondamentale della maggioranza, non nasconde la sua insoddisfazione per le norme sull’acqua previste dal Dl. Onorevole Reguzzoni, lei ha dichiarato di non essere d’accordo con la decisione del Governo di porre la fiducia. È una posizione personale o di tutto il Carroccio? Ovviamente in questo caso esprimo una posizione del partito, non mia personale. Per noi è un vero peccato che su questo provvedimento - così importante per i cittadini del Nord - venga posta la fiducia, perchè ciò impedisce a noi, ma anche ad altre componenti della maggioranza, di migliorare ulteriormente il testo. Cosa intendete fare, voterete contro? Mi pare evidente che non voteremo contro la fi-

ducia, però presenteremo un ordine del giorno e lavoreremo con il governo per rendere il decreto nel suo complesso più aderente alle aspettative degli amministratori locali del Nord. Le opposizioni gridano per l’ennesima fiducia che «esautora il Parlamento»... A noi non piace che in questo caso venga posta la fiducia perchè non ci fa incidere sul testo. Al Senato avevamo introdotto alcuni miglioramenti rispetto al testo originario, tra cui la proprietà pubblica delle reti. La fiducia ora non ci consentirà di introdurre ulteriori correttivi. Il presidente del senato Renato Schifani ieri ha detto che se la maggioranza non è compatta tanto vale tornare alle elezioni, che ne pensa la Lega. Per quanto ne so io, la posizione del partito è di totale lealtà a questa maggioranza. Se poi all’interno del Pdl c’è qualcuno che trama contro il governo non so e, francamente, non è un problema né mio né della Lega, ma tutto interno al partito di Berlusconi.

una piccola maratona televisiva, con le dichiarazioni di voto a partire dalle 15 e un’ora più tardi il pronunciamento dell’Aula sulla fiducia, fino alla diretta del giorno dopo sul voto finale nella tarda mattinata.

Sia il Pd che l’Udc si appellano alla presidenza della Camera per chiedere che gli imbarazzi del governo (al ventiseiesimo voto blindato della legislatura) non ricadano sulla qualità dei lavori. «È una litania costante, una coazione a ripetere», dice il vicecapogruppo dell’Udc Michele Vietti, «ed è dovere dei parlamentari non lasciar passare sotto silenzio questo ennesimo atto di prevaricazione». Il problema è aggravato oltretutto dalle sfasature temporali tra Camera e Senato, fa notare ancora Vietti: «Di questo deve farsi carico Fini, mi chiedo se è normale in un sistema bicamerale come il nostro che un decreto venga trattenuto da una delle due Camere per 45 giorni e che quel ramo del Parlamento intervenga pesantemente introducendo ex novo intere materie: non è possibile che Montecitorio sia espropriato delle sue facoltà». È così lampante l’umiliazione, come la definisce la democratica Marina Sereni, che persino un deputato del Pdl come Simone Baldelli non riesce a trattenere il disappunto: «Servono regole certe per l’esame dei testi». Questo in particolare, destinato in teoria all’assolvimento di obblighi comunitari, già incrocia le minacce referendarie dell’Italia dei valori, anche se non si tratta certo di una liberalizzazione selvaggia (come rivendica lo stesso ministro agli Affari comunitari che dà il nome al provvedimento) e fissa al 30 per cento la quota massima di capitale pubblico nelle utilities. Da 31 dicembre 2010 scatterà una presunta rivoluzione da cui saranno comunque esclusi il gas, il trasporto ferroviario comunale e le farmacie regionali.


panorama

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Curiosità. A Lissone, un paese della Brianza, sono stati vietati i cortei funebri: distraggono dalla funzione

Dopo il processo, il ”funerale breve” di Pier Mario Fasanotti molto probabile, oltreché augurabile, che non ci sia il “processo breve”. C’è però il “funerale breve”. Almeno in terra di Lombardia, pianura di fabbriche e fabbrichette, ville e villini e villotti (quelli che facevano orrore all’ombroso e geniale Gadda), popolata anche di gente chiassosa e con un modo di pensare che scarnifica la realtà fino al punto da diventare un proiettile contro la sottigliezza (vista come perdita di tempo), contro i comportamenti non in riga con la prassi della sveltezza e del «non rompetemi le balle».

È

Al l a se v e r i t à di m ar c a austriaca, è tornata la “braveria” spagnolesca alla quale la Lega ha alzato l’audio. A Lissone, paese a Nord di Milano, nella ric-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

ca e truciolata Brianza (qui si costruiscono i mobili), il parroco, indispettitosi per i chiacchiericci da happy-hours dietro il catafalco del morto, ha deciso di abolire i cortei funebri. Da secoli e secoli le vecchiette, e i loro coetanei, “ciciaravano” trascinando i piedi dietro l’ultimo involucro del

market, degli afro-bomber dell’Inter, delle corna di un assessore e dei probabilissimi (e torbidi) segreti di un vedovo che la sera non sempre gioca al biliardo. «Al bar della piazza chì ghe sunt i negher», o «Te legiù su La Padania? Il Bossi una bella bastonata l’ha data ancora all’omett de Arco-

Sembra una storia inventata da Guareschi quella “scritta” da un parroco inferocito con i cittadini che durante il rito «parlano e si distraggono» caro estinto, sempre meno rispettosi della circostanza luttuosa. Come se tra il Padreterno e il defunto avessero ormai eretto un tinello o un dehor dove far bivaccare ciò che con l’aldilà ha poco in comune. Se in certe parti del Meridione si alzano i melodrammatici lamenti delle prefiche e il dolore sale sul palco delle «parole oscure» (verso di Dante), al Nord dietro il morto si fa una contabilità minuziosa sugli affetti ancora in vita e quelli mancanti, per passare subito, vista l’occasione socializzante, a discutere di nipotini, delle offerte speciali nei mini-

re!», e così via, tra immaginari e cigolanti carrocci e l’abbaiare di fucili dei valligiani, sempre pronti a sparare contro la “Roma ladrona”, salvo che questi attori domenicali del neo-celtismo preferiscono il barbecue alle marce di Alboino re. Il parroco, imponendo la brevità funeraria ha spezzato la pacchiana collana di plastica attorno al concetto di morte. Ha imposto il decoro, con atto quasi pretorile. Avvisi in tal senso sono stati affissi sui portoni delle chiese. E volteggiano i volantini: «Per garantire una celebrazione profondamente religiosa, il

defunto sarà portato direttamente un quarto d’ora prima del funerale. Pertanto nelle nostre parrocchie il corteo sarà sospeso. Per tutti». Indietro non si va, anche il Consiglio pastorale è sulla linea della fermezza.

Tuttavia il rischio di uno scontro tutto paesano c’è, e ricorda la profetica fantasia di Giovannino Guareschi. Il sindaco di Lissone ha incontrato il parroco e gli ha detto: «Questo cambiamento non mi piace. Qui si vuole togliere la macchia con le forbici». E ha tirato in ballo le radici e la tradizione. Ma quali tradizioni? Quelle dell’osteria parlante che segue il morto? E le radici? Sono ben piantate solo se non sono inquinate dal brusio simile a quello delle sale del Bingo, del bowling e delle corsie per bocciofili, con la bocca piena di bestemmie. E’ la Lombardia leghista che sputa su Roma, ma ignora che le celebrazioni funebri dei padroni del mondo duravano quattro giorni, e tutti erano obbligati a parteciparvi. Dai patrizi agli ultimi dei servi. Rispettosamente.

Un libro-inchiesta su tutti quei diciottenni che scelgono la chirurigia estetica

Una generazione di plastica (rifatta) i fa presto a dire “è rifatta”. Dietro questa affermazione - o avanti? c’è un mondo che immaginiamo ma non conosciamo. Il mondo della plastica che ha invaso da molto tempo ormai la nostra vita, i nostri occhi, il nostro pensiero, i nostri desideri. Chi non ha pensato mi rifaccio questo o quello? Confesso: io. Mi dà fastidio la vista del tatuaggio e dell’orecchino altrui, riesco a sopportare l’orologio al polso solo perché è di quelli leggerissimi e ultra-piatti, figurarsi se riuscirei a immaginare di farmi rifare questo o quello. Eppure, c’è un’umanità varia e diffusa che ha come suo primo pensiero il rifacimento di questo o quel pezzo di carne: il seno, le labbra, le orecchie, il naso, i piedi, i glutei. Un’umanità varia che va dai 16 ai 75 anni. Impossibile? Leggete allora il libro inchiesta di Cristina Sivieri Tagliagambe: Appena ho 18 anni mi rifaccio. Storie di figli, genitori e plastiche (Bompiani).

S

Hanno tra i 16 e i 18 anni, sono benestanti e, per lo più, bei ragazzi e belle ragazze. Però hanno qualche desiderio: vogliono cambiare o migliorare qualcosa del loro look corporeo: come sono stati fatti da mamma e da madre natu-

ra va bene, però un interventino del chirurgo plastico può fare miracoli. È una generazione che va dal chirurgo plastico come io andavo dal medico della mutua. Per il loro compleanno, per i 18 anni, per l’esame di maturità - maturità! - chiedono semplicemente un regalo, l’esaudimento di un desiderio che si portano dietro da anni o magari da giorni. Un ritocco estetico: i piedi per sembrare come la Barale, che li ha perfetti ma come lo sapranno? -; le labbra tipo Scarlett Johansson; naturalmente, il seno come quello di Jessica Alba o semplicemente dell’amica con cui vanno in palestra e che - giurano - ce l’ha perfetto. Il corpo non è più per loro un elemento di natura e si può modificare. Il chirurgo plastico è stato inventato proprio per questo. Per loro la loca più importante

«è piacere e non rimanere indietro». Allora, c’è quella che si rifà il seno, quello che si fa una mentoplastica - 47000 euro, tanto per capirci - c’è la rinoplastica, la mastoplastica additiva (e c’è anche quella riduttiva), protesi ai glutei e lipofilling, thermage addominale, depigmentazione cutanea, liposcultura, labioplastica, liposuzione. Avete capito: si può fare di tutto o quasi; dunque, perché non farlo? Ecco: il pensiero è elementare, come quello che sovraintende alla manutenzione della vostra automobile: se un pezzo non va o si aggiusta o si cambia. Allo stesso modo: se una pezzo del corpo non va bene non c’è niente di strano a metterci mano e modificarlo riducendo o accrescendo o sostituendo totalmente. Dove stiamo andando? Verso il futuro dell’umanità di

plastica. Oddio: detta così sembra una catastrofe. In fondo, ogni epoca ha la sua verità e confrontare le epoche della storia sulla base dell’idea di una verità che è al di là della Storia e del bene e del male è un anacronismo.

Va bene. Ma c’è qualcosa in più rispetto alla plastica e alla concezione del corpo come una macchina da modificare. È il pensiero che i ragazzi sviluppano di se stessi. Dice bene l’autrice: «E invece di affrontare la risoluzione di un problema dell’“esteriorità” attraverso il pensiero, la riflessione, la meditazione o l’accettazione, adotteremo una logica efficientista e pragmatica: cambieremo il pezzo. Proprio così: intervenire, e subito, invece che pensare. Come fanno gli adolescenti, cambieremo il pezzo anche quando il problema non è il pezzo in sé, ma la fragilità psicologica a esso legata. Un po’ come una bella signora senza grande vita sociale si rifà il naso nella speranza di ricevere, finalmente, inviti su inviti, così anche noi modificheremo il nostro corpo sognando un destino migliore, diverso, cercando di vincere così la gara della nostra vita». Senza sapere che in quello stesso momento abbiamo perso.


panorama

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Polemiche. L’amministratore della compagnia low cost annuncia il sorpasso. Ma non è solo «terrorismo industriale»

2010, Ryanair supera Alitalia. Ecco perché di Alessandro D’Amato i aspettiamo di superare Alitalia il prossimo anno per diventare la compagnia aerea numero uno d’Italia: non le manda certo a dire a via della Magliana, l’amministratore delegato di Ryanair, Michael O’Leary, che ha presentato ieri a Roma l’apertura di due nuove tratte da RomaCiampino per Cracovia e Siviglia, che partiranno a marzo 2010. Il traffico in Italia del colosso low-cost, nel 2009 è aumentato «del 22% a 18 milioni di passeggeri in un anno in cui si prevede che il traffico di Alitalia diminuisca del 23% a 18 milioni di passeggeri. Nei prossimi 12 mesi opereremo 31 rotte con cinque aeromobili basati a Ciampino, trasportando 3,5 milioni di passeggeri all’anno e sostenendo 3.500 posti di lavoro nello scalo», ha fatto sapere O’Leary, che poi ha chiuso ai progetti della Regione su un nuovo aeroporto: «È più facile che il terzo aeroporto del Lazio venga spostato sulla Luna che a Viterbo, dove noi non andremmo mai».

C

E già che c’era, O’Leary ha polemizzato sull’aumento delle tariffe aeroportuali: «Il premier Berlusconi ha detto che vuole

Il caos negli aeroporti e nei cieli di lunedì scorso dimostra che la politica di Colaninno e Sabelli non riesce ad affrontare le difficoltà del settore puntare sul turismo per uscire dalla crisi. L’aumento delle tariffe non è un buon viatico. Si scaricherà sui biglietti, penalizzerà l’Italia come meta turistica rispetto ai competitor europei. Peraltro penalizzerà non tanto noi ma soprattutto Alitalia». A via della Magliana saranno fischiate molte orecchie. Soprat-

tutto dopo la tragica giornata di lunedì, passata dai suoi clienti seduti ad aspettare in aeroporto oppure sequestrati nell’aereo «A Fiumicino assemblee sindacali impediscono ai passeggeri di sbarcare dagli aerei. Sono bloccata dalle 15,30 su un aereo proveniente da Torino e il comandante ci ha informati

che non ha la più pallida idea di quanto tempo sarà necessario per l’arrivo della scaletta e del pullman per il trasferimento in aeroporto», ha detto Margherita Boniver, deputato del Pdl, alle 17,30. Non si sa se il grido d’aiuto dell’onorevole sia stato rispettato. Di certo c’è che anche Roberto Castelli ha voluto dichiarare la propria felicità, stupendoci con un’analisi molto più profonda di quelle che fa di solito: «Le assemblee dei lavoratori di terra di Alitalia indette dalle organizzazioni sindacali stanno bloccando il Paese. Da Roma e da Milano in aereo non si riesce a partire. È inaccettabile che il monopolio di Alitalia provochi disagi di questo tipo». In effetti, a Castelli mancava soltanto di ricordare chi è ad aver permesso a Cai, la Compagnia Aerea Italiana di Colaninno, di operare in regime di monopolio. E di far vedere a Fiumicino spettacoli come l’imbarco «a chi arriva prima» nei voli per Linate alle 20 di sera: senza rispettare prenotazioni, priorità, biglietti, si faceva partire chi era più svelto a presentarsi. Ad alcuni sfortunati è capitato anche di trovarsi sul pullmino che trasporta i pas-

seggeri all’aereo, sballottati in giro per le piste perché l’autista non sapeva quale fosse il velivolo giusto dove portarli (e se ci fosse, mormora qualcuno). E alcuni hanno dato il via all’occupazione di un aereo per far rispettare l’ordine dei biglietti acquistati ai furbetti che la compagnia aveva fatto salire senza controllo, soltanto così ottenendo poi da hostess e piloti il rispetto della fila.

Lo sciopero dei lavoratori di Alitalia è partito per il problema del quarto d’ora. Il tempo che vorrebbero le maestranze per raggiungere i luoghi del pranzo, considerato necessario al punto da scioperarci su. I capitani di ventura di Alitalia, soltanto una decina di giorni fa, si bullavano sui giornali per aver chiuso il terzo trimestre con un risultato operativo positivo per 15 milioni di euro. Che ha portato la perdita operativa dall’inizio dell’anno alla bazzecola di 258 milioni. Contenti loro, in attesa di ammettere a mezza bocca il fallimento e chiedere per piacere ad Air France di accollarsi il carrozzone, ripetiamo tutti insieme il mantra: Berlusconi ha salvato Alitalia. No?

Celebrazioni. Ricorrono vent’anni dalla firma del documento dell’Onu sui diritti del fanciullo

Quella Convenzione per la vita di Luca Volontè enerdì prossimo, 20 novembre, ricorre il 20° anniversario della Convenzione Universale sui Diritti del Fanciullo, approvata dalla assemblea generale dell’Onu il 20 novembre 1989 e tale ricorrenza merita, anche nel nostro Paese, una celebrazione anche attraverso iniziative che ne completino e ne attualizzino i contenuti.

V

La Convenzione del 1989 considera bambino anche il concepito non ancora nato, come risulta dal Preambolo, dove si afferma che «il fanciullo, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale ha bisogno di una particolare protezione e di cure speciali, compresa una adeguata protezione giuridica, sia prima che dopo la nascita». La qualità di “essere umano” deve essere attribuita anche al concepito non ancora nato in base ai dati forniti dalla scienza biologica e genetica. Questa evidenza scientifico-biologica, oltre al riconoscimento della Convenzione Internazionale, ci deve imporre una riflessione comune, al di là

degli schieramenti politici e degli steccati ideologici. Oltre a ciò, anche due sentenze di Corti Costituzionali Europee (in Italia la decisione n. 35 del 10 febbraio 1997 e in Polonia la decisione del 28 maggio 1997) hanno richiamato proprio la Convenzione sui diritti del fanciullo per affermare il diritto alla vita del concepito fin dalla fecondazione. La stessa dottrina dei diritti umani sarebbe distrutta se non fosse chiaro che il titolare dei diritti è ogni essere umano

La Carta riconosce i diritti dell’embrione perché la persona è tutelata, anche dal punto di vista giuridico, «sia prima sia dopo la nascita» in quanto tale, cosicché la questione della soggettività dell’embrione appare di estrema importanza. Merita particolare menzione, a questo proposito, la Convenzione americana sui diritti dell’uomo, adottata il 22 settmebre del 1969 a San Josè di Costarica, che esige il rispetto del diritto alla vita fin dal concepimento (art. 1), fa

coincidere il concetto di persona con quello di essere umano (art. 4), domanda che anche al nascituro sia riconosciuta la capacità giuridica (art. 3), le numerose Costituzioni che proclamano intangibile e sempre uguale la dignità umana (tra queste quella irlandese afferma esplicitamente il diritto alla vita del concepito), i ripetuti pareri del Comitato Nazionale di Bioetica italiano, dove si afferma il dovere morale di trattare l’embrione fin dalla fecondazione, come una persona.

Perciò urge introdurre nei nostro ordinamento i conseguenti principi, proposti recentemente per iniziativa del Movimento della Vita Italiano, che

cioè: «Ogni bambino, fin dal concepimento, è titolare del diritto alla vita, alla salute, alla integrità fisica; ad ogni essere umano, fin dal concepimento deve essere riconosciuta la capacità giuridica; una protezione speciale deve essere assicurata alla maternità con ogni opportuna misura economica, sociale, educativa; anche nei paesi dove è legalizzato, l’aborto non può mai essere usato come mezzo di controllo delle nascite; il principio di eguaglianza riguarda anche i bambini non ancora nati, conseguentemente il loro diritto alla salute non può essere garantito attraverso la selezione e la distruzione di embrioni». Il minimo per chiamarci Paese civile e per festeggiare uno dei più importanti anniversari negli ultimi anni.


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Oggi in libreria Mussolini segreto (Rizzoli), i diari di Claretta Petacci scritti dal 1932 al 1 un duce smargiasso, con punte di forte antisemitismo, vittima di pulsioni erotiche spesso Da sinistra una fotografia in posa di Benito Mussolini. In successione il duce con Adolf Hitler e accanto con il re d’Italia Vittorio Emanuele III. Nella foto a sinistra Claretta Petacci, qui sotto in un’altra delle numerose fotografie che amava farsi scattare. Nella pagina accanto, in basso, Mussolini in una sfilata accanto al gerarca nazista Rudolf Hess. I diari di Claretta raccontano di un rapporto tormentato del duce con il dittatore nazista. ”Un sentimentalone”, secondo Mussolini che invece definiva se stesso un uomo distaccato

Mussolini segre Per Emilio Gentile tutto quello che vien fuori dai diari inediti si conosceva già. Per Francesco Perfetti le rivelazioni riguardano i rapporti del duce con le donne di Riccardo Paradisi n Mussolini sconosciuto e inedito, si è detto, quello che viene fuori dai diari di Claretta Petacci che oggi escono per le edizioni Rizzoli con il titolo Mussolini segreto per la cura di Mauro Suttora, inviato speciale di Oggi. Ma è poi così vero che sia un Mussolini segreto quello che possiamo conoscere dalle annotazioni di Claretta Petacci? Vediamo.

U

Suttora ha curato una selezione, oltre 500 pagine, dalle migliaia scritte dal 1932 al 1938 negli originali appunti privati dell’amante di Mussolini. Diari dai quali emerge un Mussolini animato da pulsioni antisemite, duramente anticattolico – i giudizi su Pio XI, colpevole di ostacolare in tutti i modi la politica razziale del regime sono pesantissimi – ossessionato dal sesso e dalle donne, superstizioso – «Sibilla Aleramo porta jella» – timoroso della vecchiaia: «Pensa che fra cinque anni io ne avrò sessanta e tu trenta, sarai nel fiore della vita e io sarò vecchio. Mi farò schifo e tu mi tradirai». Un Mussolini lontano insomma dall’immagine che gli ha costruito una letteratura tutto sommato assolutoria fatta da amici, parenti, biografi simpatizzanti o almeno non ostili. Mussolini dittatore bonario, buon padre di famiglia (Cfr. Mussolini mio padre di Romano Mussolini) adultero ma anche

bravo e affettuoso marito, razzista recalcitrante, le cui più gravi colpe – come la guerra, le leggi razziali – sarebbero da imputare al mefistofelico alleato tedesco. Insomma, una letteratura non ferocemente ostile come è sempre stata la storiografia della vulgata antifascista, come la chiamava Renzo de Felice. Intendiamoci, stiamo parlando di una storiografia minore, quella dell’aneddotica, dello scandaglio nel privato, un genere tutto sommato più sentimentale che scientifico. Peraltro adattissimo ai tempi in cui viviamo, dove gli strumenti con cui si indaga la politica e i suoi attori sono il gossip giornalistico, le inchieste a sfondo pruriginoso, una realtà osservata dal buco della serratura con attese morbose. Ma fatta questa premessa torniamo a chiederci: ci sono novità di rilievo in questi

diari di Claretta Petacci custoditi per tanti anni tra le carte degli Archivi generali dello Stato? L’impressione di Emilio Gentile, ordinario di storia contemporanea alla Sapienza di Roma, è

«Un conto è l’autenticità dei diari, un dato su cui non si può avere dubbi. Un altro è la loro attendibilità storica. Che invece è scarsa»

che i diari di Claretta non rivelano nulla di nuovo, di veramente inedito su Mussolini. «Non mi sembra si possa parlare di documenti sconvolgenti, che possano condizionare o modificare la sostanza di quello che si è detto

e si è scritto fino ad ora sul capo del fascismo. Certo, le impressioni private di Claretta Petacci, le sue annotazioni su quanto ha sentito dire da Mussolini possono essere interessanti. Ma si dovrebbe anche vagliare come vengono tradotte le affermazioni di Mussolini dalla Petacci, qual è il filtro della ricezione». Insomma, secondo Gentile niente di nuovo sul fronte degli studi sul fascismo e in particolare su Mussolini. E d’altra parte gli unici segreti che forse emergono da questi diari dell’amante del duce sono proprio quelli relativi a una relazione tormentata, scandita dagli eventi storici che vi fanno da sfondo, una relazione che intreccia sentimenti, gelosie, fantasie erotiche private con la storia e la tragedia del fascismo. Si viene a sapere che nel 1938 – nel marzo di quest’anno Hitler invade l’Austria, e a settembre si terrà la conferenza di Monaco – Mussolini sente il bisogno di fare almeno dieci telefonate al giorno alla Petacci, che gelosissima gli rinfaccia avventure con altre donne per le quali Mussolini si scusa e si compiace al tempo stesso.

Dice a Claretta che per lui il sesso è un bisogno ma poi si scherma e si scusa: «Ti adoro e sono uno sciocco. Non ti devo far soffrire, anche perchè questa tua sofferenza si riversa su di me, che soffro di ciò che soffri».


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1938 fino ad oggi custoditi nell’archivio di Stato. Ne emerge o incontrollabili. Interessante, ma di nuovo c’è veramente poco

eto? Mica tanto L’altro duce inedito. Quello che scriveva romanzi d’appendice Un altro Mussolini inedito, ma sarebbe meglio dire poco conosciuto, quello che si presenta in veste di narratore con un romanzo d’appendice dal titolo L’amante del Cardinale. Claudia Particella apparso a puntate, dal 20 gennaio all’11 maggio del 1910 sul giornale socialista Il popolo fondato. Imperniato su una vicenda accaduta nel Seicento – lo scandaloso amore del vescovo-principe di Trento, Carlo Emanuele Madruzzo, per la bella cortigiana Claudia Particella – il romanzo ricorre a tutte le classiche armi del feuilleton, mescolando abilmente horror e erotismo. Il libro documenta anche le idee politiche del Mussolini di allora: anarchico, socialista e rivoluzionario.

Più che di aspetti reconditi del fascismo e dell’azione politica di Mussolini le rivelazioni più interessanti dei diari di Claretta riguardano il rapporto di Mussolini con il sesso femminile. È questo più che altro secondo Francesco Perfetti, direttore di Nuova storia contemporanea, il lato interessante del Mussolini segreto. «Ci sono delle affermazioni che Mussolini fa all’amante, anche quelle che sembra abbiano relazione con questioni politiche, che sono rivelatrici del suo rapporto con le donne. All’amante il duce vuol far vedere quello che è, vuole trasmettere la sua grandezza, la sua potenza, anche in modo palesemente rodomontesco. Per esempio quando riferendosi a Hitler dice che lui era razzista prima che lo di-

ventasse il Fhurer tedesco lo dice perché non vuole dare alla sua amante l’impressione che lui vada a rimorchio di Hitler». Non c’è un programma politico nelle affermazioni di Mussolini alla Petacci dunque. Peraltro, aggiunge Perfetti, «Un conto è l’autenticità di questi diari, che sono assolutamente autentici e su questo non ci piove. Un’altra è la loro attendibilità storica. Che è scarsa. Non solo perché riguarda dei colloqui privati con la Petacci, che l’ha riportati non si sa con quale fedeltà, operando quali filtri, ma anche perché ci sono testimonianze e dichiarazioni di Mussoli-

ni, rilasciate in altri ambiti più o meno ufficiali, in cui il duce del fascismo afferma esattamente il contrario di quello che sostiene con Claretta. Appuntoi diari di Claretta rivelano solo la psicologia di Mussolini nei confronti delle donne, una psicologia molto maschile, incline a vantare il primato personale sulla scena della lotta e della vita. Questo vale sia nelle affermazioni su Pio XI sia in quelle su Hitler. «Tu non sai il male che fa questo Papa alla Chiesa – dice Mussolini alla Petacci – Mai Papa fu tanto nefasto alla religione come questo. Oggi siamo gli unici, sono l’unico a

Pio XI è stato accusato dal presidente Fini di essere stato timido nella difesa degli ebrei. Secondo Mussolini era esattamente il contrario

sostenere questa religione che sta per spegnersi. E lui fa cose indegne. Come quella di dire che noi siamo simili ai semiti. Come, li abbiamo combattuti per secoli e siamo come loro»La riflessione che si potrebbe fare riguarda le recenti polemiche su Pio XI accusato anche dal presidente della Camera Gianfranco Fini di essere stato timido nella difesa degli ebrei. Da quello che riporta Claretta Petacci sarebbe stato vero, secondo Mussolini, esattamente il contrario.

Anche nel rapporto con Hitler dai diari di Claretta viene fuori la psicologia rodomontesca: «Mussolini – dice ancora Perfetti – tendeva sempre a dare l’impressione di comandare. Si dimostrava sempre più duro di quello che era. Alla Petacci ci teneva a ricor-

dare che lui era stato razzista prima di Hitler, che il Fuhrer fosse un sentimentale, mentre lui era capace di grande distacco, che il Fhurer pendeva dalle sue labbra. Questo non era vero naturalmente ma è quello che cerca di portare avanti come immagine con la sua donna». E del resto fino a Monaco Mussolini – che nel ’33 aveva appoggiato le destre tedesche contro Hitler – ha l’illusione di controllare Hitler, e fino alla guerra d’Etiopia all’avvicinamento tedesco comincia a essere convinto di essere lui il fulcro». Viene fuori un Mussolini antisemita dalle pagine del Mussolini segreto? Anche in questo Perfetti ha forti perplessità. «Più che di antisemitismo, che comunque Mussolini aveva respirato sin dalle sue origini socialiste, si potrebbe parlare di un generico razzismo, la cui emersione si può riconnettere alla guerra di Etiopia e alla “minaccia del meticciato”. Per quanto riguarda l’antisemitismo va ricordato che Mussolini era stato amante e discepolo dell’ebrea Sarfatti, aveva collaborato con le riviste dirette da ebrei come Pagine libere di Angelo Olivetti».

A proposito della Sarfatti. Mussolini, che pure aveva delle donne certamente un’idea poco moderna e lusinghiera, aveva avuto una grande stima intellettuale nei confronti di questa intellettuale che ebbe molta parte nella costruzione del suo personaggio pubblico. Molta meno stima intellettuale aveva di Claretta Petacci. Donna con cui era profondamente coinvolto dal punto di vista erotico e affettivo ma alla quale non riconosceva una grande intelligenza. Sicchè le confidenze di cui la metteva a parte possono benissimo non appartenere al Mussolini più segreto. Che se mai è esistito resta tale. Una buona operazione editoriale insomma, utilissima peraltro a una ricostruzione fattuale della storia del fascismo, ai retroscena privati del suo capo, a una più profonda comprensione della psicologia di Mussolini con le donne come dice Perfetti. Per le grandi rivelazioni magari si tratta di attendere la prossima puntata dell’eterno romanzo italiano di Mussolini, duce del fascismo, passione segreta degli italiani.


mondo

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Summit. L’atteso incontro fra Obama e Hu Jintao si conclude con un richiamo a Pechino: dovete dialogare con il Dalai Lama

Il Gatto e la Volpe Copenhagen «non può e non deve fallire» Ma Cina e Stati Uniti se ne lavano le mani di Vincenzo Faccioli Pintozzi rotezionismo, diritti umani e nucleare. E un timido, controverso e inaspettato accenno a quella conferenza sul clima di Danimarca che sembra sempre meno puntata verso un risultato. Sono i temi principali su cui si sono confrontati ieri il presidente americano Barack Obama e la sua controparte cinese Hu Jintao, nel corso dell’ultimo giorno della visita in Cina del leader statunitense. Dopo un lungo faccia a faccia, i due hanno tenuto una conferenza stampa dal sapore particolare, in puro stile cinese, per illustrare i risultati del summit: ai giornalisti presenti all’incontro, che ha avuto luogo in una delle sale del dell’Assemblea del popolo, non è stato infatti consentito di rivolgere domande.

P

I cellulari sono stati spenti e i reporter presenti hanno solo potuto ascoltare le dichiarazioni dei due leader durate circa un quarto d’ora ciascuna. Dichiarazioni particolari per un momento particolare: dopo aver sepolto senza appello la conferenza sui cambiamenti climatici prevista a Copenhagen per il prossimo 7 dicembre, i due hanno aperto

uno spiraglio. Secondo Obama, infatti, «senza gli sforzi congiunti di Stati Uniti e Cina, i due maggiori consumatori e produttori di energia non può essere raggiunta una soluzione al problema del riscaldamento del pianeta. Non vogliamo un accordo parziale o una semplice dichiarazione politica ma piuttosto un accordo che copra tutti i punti dei negoziati e che possa avere effetti immediati». Subito dopo, l’inquilino della Casa Bianca ha ribadito che nella sua visione i diritti umani «sono valori universali» e ha chiesto alla Cina di riprendere il dialogo con i rappresentanti del Tibet, sul quale ha però riconosciuto la sovranità di Pechino. Per quanto riguarda Taiwan, che gli Stati Uniti si sono sempre impegnati a proteggere, Obama ha riconfermato la politica statunitense di “una sola Cina”, l’espressione che usa Pechino per difendere l’inviolabilità del suo territorio. Da parte sua, Hu Jintao ha sottolineato che «Paesi come Stati Uniti e Cina possono avere differenze su alcune questioni, ma l’importante è che queste siano discusse in modo costruttivo e aperto al dialogo». Sul fronte economico

Obama ha ribadito la necessità di un nuovo modello di crescita sostenibile e ha sottolineato la necessità di aggiustare il valore della moneta cinese alla realtà del mercato. Riguardo alla questione del nucleare iraniano, i due capi di Stato hanno concordato che «vi saranno conseguenze» se Teheran non dimostrerà in modo trasparente gli scopi pacifici del suo programma atomico: «Abbiamo convenuto che l’Iran deve dare assicurazioni alla comunità internazionale sul fatto che il suo programma nucleare è pacifico e trasparente».

Al termine dell’incontro i due presidenti incontrano la stampa, cui però non viene concesso fare domande. Il leader tibetano: «Pronti a nuovi e proficui colloqui con la Repubblica popolare» L’Iran - ha proseguito il presidente degli Stati Uniti - «ha un’occasione per presentare e dimostrare le sue intenzioni pacifiche, ma se non riesce a sfruttare questa occasione dovrà affrontarne le conseguenze». E sulla questione, l’inedito allineamento di Pechino potrebbe provocare più di una preoccupazio-

ne al regime degli ayatollah, finora sostanzialmente assolti dalla Cina. Anche sul fronte del nucleare nordcoreano, Obama e Hu Jintao hanno espresso una posizione comune, ribadendo che l’unica strada da seguire è quella del negoziato a sei. Da parte sua, il convitato di pietra dell’incontro – quel Dalai Lama

che Obama non ha voluto incontrare prima della sua visita a Pechino – ha detto: «Siamo sempre pronti a dialogare con il governo della Repubblica Cinese. Gli Stati che hanno buoni rapporti con la Cina potrebbero essere riluttanti nel sostenere le rivendicazioni del Tibet. Potrebbero però, al contrario, anche modificare l’atteggiamento della Cina verso il Tibet. Se suggerimenti in positivo per il Tibet arrivassero da Paesi di cui la Cina ha fiducia potrebbero essere costruttivi». Meno propositivo Urgen Tenzin, Direttore esecutivo del Centro tibe-

Nonostante i toni di apertura del regime, continua la persecuzione contro l’etnia rimasta fedele alla Guida buddista

Ancora condanne e arresti in Tibet di Osvaldo Baldacci bbiamo idee diverse - ha concluso l’incontro con Obama il presidente cinese Hu Jintao - ma l’importante è che le confrontiamo». E come si sviluppa questo confronto? Sembra esserci molto materiale per i detrattori della politica di aperture di Obama e per chi nutre sfiducia in Pechino. Soprattutto perché il dialogo procede su due frequenze diverse e, almeno da fuori, dà l’impressione più che altro di uno spettacolo orchestrato per il pubblico occidentale. Intanto Obama parla di diritti umani, e nelle stesse ore i cinesi arrestano diversi dissidenti; Obama invoca la libertà di espressione, specie su Internet, e lo ascolta solo un pubblico selezionato di 500 giovani comunisti, mentre la notizia è censurata su Internet e non compare su nessun giornale cinese; Obama chiede più dialogo con il

«A

Dalai Lama, e Pechino condanna a 15 anni il webmaster di un sito di letteratura tibetana. Ieri l’International Campaign for Tibet (Ict) ha riferito informazioni raccolte da esiliati tibetani secondo le quali il 12 novembre, dopo un processo a porte chiuse tenuto nella prefettura di Gannan, un tribunale ha condannato a 15 anni di prigione Kunchok Tsephel, 39 anni, fondatore di un sito letterario tibetano.

Il sito Chodme (che significa lampada a olio) promuove la cultura tibetana, e l’accusa è divulgazione di segreti di stato, verosimilmente per avere anche riferito delle manifestazioni anticinesi a Lhasa e nelle regioni vicine.Tsephel era stato arrestato in febbraio e da allora i suoi familiari non avevano più sue notizie. Insegnante di tibetano e inglese, oltre che ex funzionario per la protezione

ambientale, l’attivista è in cattive condizioni di salute e non ha avuto diritto all’assistenza di un avvocato. E non si tratta dell’unica condanna contro attivisti tibetani: Reporter senza Frontiere ha reso nota da Parigi la condanna a cinque anni di carcere del blogger tibetano Kunga Tseyang, arrestato in marzo nel monastero di Gansu dove studiava. Il tribunale della prefettura di Golok lo ha condannato a cinque anni di carcere per gli articoli sul buddismo e la cultura tibetana in generale, oltre a foto del locale ufficio per la protezione dell’ambiente. Anche nei giorni immediatamente precedenti all’arrivo di Obama in Cina il governo di Pechino ha preso provvedimenti per impedire possibili contatti di dissidenti con funzionari o giornalisti stranieri, o con il presidente. Sono stati arrestati o costretti agli arresti domici-

liari numerosi dissidenti e attivisti, scrive in un comunicato l’organizzazione Chinese Human Rights Defenders, dando la notizia delle “decine di arresti”.

Almeno 20 gli arresti in tutto il Paese secondo il sito AsiaNews, secondo il quale decine di attivisti sono stati prelevati dalle loro case e spediti in viaggi fuori città insieme a poliziotti, oppure mantenuti a domicilio coatto, o controllati 24 ore su 24. Le autorità cinesi hanno poi imposto a diverse altre persone che si battono in difesa dei diritti civili di non viaggiare a Pechino o Shangai nei giorni della visita di Obama. L’attivista Qi Zhiyong ha confermato, in una intervista all’agenzia di stampa tedesca Dpa, di essere stato messo agli arresti domiciliari dallo scorso 9 novembre. Nella sola Shanghai, dove Obama ha iniziato il suo


mondo

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La mutua assistenza tra i due grandi del mondo frena le riforme finanziarie

E sullo yuan scatta un patto di non belligeranza Da Washington timide richieste per un rafforzamento Tocca all’Europa e al Fmi fare la voce grossa di Francesco Pacifico

ROMA. Barack Obama giura di aver posto il problema. Di aver spiegato a Hu Jintao che rafforzare lo yuan, renderlo «più vicino al valore di mercato, darebbe un contributo essenziale agli sforzi di riequilibrio globale». Ma non deve avere insistito più di tanto. E così, durante la conferenza stampa congiunta dei due leader, a specifica e dettagliata domanda sull’argomento, il premier cinese ha risposto con un imbarazzante silenzio.

tano per i diritti umani e la democrazia, che commentando il viaggio del leader americano dice: «La crisi economica mondiale e la volontà di compiacere il governo cinese fanno passare sotto silenzio la questione tibetana e il rispetto dei diritti umani».

Secondo Tenzin, «non si può dimenticare in alcun modo il dovere morale che incombe sulla comunità internazionale a difesa dei diritti di tutti i popoli, compresi i tibetani e i cinesi». Il leader di Tchrd giudica positivo il richiamo di Obama sui diritti

umani, ma precisa: «C’è una stretta relazione fra diritti umani e democrazia. Questi non possono essere separati». E proprio questa ambivalenza sembra essere alla base della politica del presidente americano, che schiacciato dalle contingenze internazionali in cui si trova ad operare, non può fare a meno di adottare una realpolitik“più realista del re”per evitare danni catastrofici all’economia del suo Paese. Come sul clima, un passo avanti e uno indietro caratterizzeranno il futuro della politica americana.

tour cinese e ha parlato di “libertà” a 500 selezionati studenti, sette attivisti sono detenuti. Fra di loro, il più famoso è Zheng Enchong, controllato a vista da più di 20 poliziotti. Zheng ha difeso in passato le vittime di espropri e per questo ha passato anni in prigione e vive da tre anni agli arresti domiciliari. A Pechino, l’altra tappa del viaggio di Obama, cinque dissidenti sono stati costretti a lasciare la città per “non creare guai” durante la visita del presidente Usa; Li Hai, un ex studente di Tiananmen è scomparso dal 12 novembre scorso; Liu Di, un’attivista internauta, è stata costretta da tre giorni a una vacanza forzata fuori Pechino. Fra gli altri detenuti Zhao Lianhai, capo di un gruppo di genitori i cui figli sono stati avvelenati con il latte alla melamina, arrestato il 13 novembre.

Imbarazzante soprattutto per il presidente americano, che nella lunga marcia verso il G2 non può permettersi passi falsi con Pechino. E che è a sua volta è al centro delle critiche dell’Europa e del Fondo monetario. Gli stessi che ieri – in concomitanza con la visita di Obama a Pechino – hanno chiesto mai come in passato un apprezzamento della moneta cinese. Così, al momento, fa testo quanto ha chiarito nei mesi scorsi Zhou Xiaochuan, potente e flemmatico governatore della Banca del Popolo: non ci saranno ritocchi ai tassi prima della fine del 2010. E lo ha detto sperando che per quella data saranno ridotti gli afflussi di capitali. Altrimenti si rischierà di importare soltanto inflazione. Eppoi, a migliorare l’indifendibile posizione della Cina, ci ha pensato proprio la debolezza della moneta americana. Quel dollaro forte al centro delle critiche dell’Europa, stanca di dover sop-

portare e subire le speculazioni attraverso il carry trade dovuto ai bassissimi tassi d’interesse del biglietto verde. Per non parlare delle fortissime critiche che a Washington arrivano da tutte quelle economie asiatiche ancorate alla divisa Usa e che temono di dover fronteggiare sul medio termine ondate di instabilità finanziaria. Impossibili poi da respingere se il nuovo inquilino della Casa Bianca tarerà l’asse verso il Far East sulle necessità della mutua assistenza con Pechino. Di conseguenza rischiano di abbaiare alla luna, quelli che come Domenique Strauss Kahn e Joaquin Almunia chiedono a Pechino di velocizzare i tempi per un rafforzamento del renmibi. «L’apprezzamento prima si farà meglio sarà», ha intimato ieri il direttore generale del Fmi. «La leadership cinese sa ed è d’accordo sul fatto che dovrà riequilibrare la sua economia e che un certo apprezzamento dello yuan è necessario proprio per questo», ha aggiunto il commissario Ue all’Economia. Ma a loro, come alla stampa che chiedeva conto dei tempi e dei modi, Hu Jintao ha risposto attaccando. E ha attaccato l’America: «Ho insistito che, nelle attuali circostanze, i nostri due Paesi devono opporsi e rifiutare ogni forma di protezionismo». Altro che yuan. Ieri il numero uno del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, ha anche ripetuto un concetto che fino qualche mese fa era uno dei cavalli della strategia estera cinese. «La stabilità del sistema dei cambi mondiale», ha detto, «non potrà continuare a reggersi su una valuta, il dollaro, emessa da un unico Paese». Quindi, ha spiegato che non resta che affidarsi a«un nuovo paniere di monete, visto che in un mondo globalizzato non ci sono soluzioni nazionali».

Il vertice della Repubblica popolare si rifiuta di rispondere a domande sulla moneta e chiede di «opporsi e rifiutare ogni protezionismo»

Ma questo progetto non sembra più al centro delle linee programmatiche di Pechino. Soprattutto in una fase in cui cinesi e americani hanno bisogno l’una dell’altra per uscire dalla crisi. I primi sanno che senza un adeguamento dello yuan potrebbe indebolire la domanda interna Usa, indispensabile per assorbire la loro produzione interna. Per non parlare delle ripercussioni sul debito pubblico statunitense, detenuto quasi per metà da Pechino, e che finirebbe per essere svalutato. Per le stesse ragioni gli americani sanno che non possono tirare troppo la corda. Di conseguenza da questa duplice debolezza può nascere quel G2 che tanto temono l’Europa e le altre tigri asiatiche. E che va avanti se i due grandi del mondo ieri hanno convenuto «sulla necessità di tenersi in stretto contatto sulle politiche macroeconomiche e finanziarie e consultarsi costantemente, da pari a pari, per risolvere in modo appropriato le loro divergenze economiche e commerciali».


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quadrante Ritorni. Il terrorista ha scontato 26 anni in galera per diversi omicidi

ISTANBUL. L’ora di Ali Agca sembra essere arrivata. La stampa turca ha reso noto che il prossimo 18 gennaio lascerà il carcere di Sincan, alla periferia di Ankara dove è stato trasferito nel 2006 dopo aver trascorso un periodo di detenzione a Istanbul. Il terrorista deve scontare non solo il tentato omicidio di Papa Giovanni Paolo II, a cui sparò il 13 maggio del 1981 in piazza San Pietro, ma anche l’assassinio del direttore del quotidiano liberale Milliyet, Abdi Ipekci, freddato a Istanbul nel 1979. Agca, che militava nel Bozkurtlar, i Lupi Grigi, organizzazione terroristica di estrema destra e vicina agli ambienti del fondamentalismo islamico, uscirà dopo aver scontato tutti i 26 anni di carcere che gli sono stati assegnati dai tribunali e aver usufruito dell’amnistia del 1991, senza la quale sarebbe stato condannato facilmente alla pena di morte. Stando a quanto rivelano i giornali turchi, che seguono ancora con grande attenzione le sue vicende, non si sa ancora se Agca vivrà nel Paese della Mezzaluna o meno. Secondo il quotidiano Hürriyet, avrebbe chiesto asilo politico sia in Vaticano sia in Portogallo, ma entrambi avrebbero già rifiutato di accoglierlo. Bisognerà poi vedere se la Turchia per prima autorizzerà l’uscita dal suolo nazionale dell’ex terrorista, che sarà anche un uomo libero, ma rimarrà sempre un “sorvegliato speciale”. Uno dei motivi inoltre per cui l’ex Lupo Grigio, che al momento della scarcerazione avrà 52 anni, potrebbe non lasciare la Turchia è il fatto che Yalçın Özbey, suo complice nell’attentato contro il Papa, è ancora a piede libero.

A pesare ci sono anche le condizioni fisiche e psichiche dell’ex terrorista, che secondo i suoi avvocati sarebbe molto provato dall’esperienza del carcere. A margine, Agca, soprannominato nel Paese “la vergogna più grossa della Turchia”per l’attentato a un fautore del dialogo interreligioso come Giovanni Paolo II, dovrebbe ancora svolgere il servizio militare. Ma sono in molti a pensare che la Turchia sarà ben lieta di sollevarlo dalla leva, per motivi di sicurezza e per lo scompiglio che porterebbe l’avere uno dei terroristi più pericolosi in una caserma dello Stato, e per il fatto che tre anni fa, in seguito ad alcuni accertamenti, era risultato non idoneo. Quel che è certo è che, anche se si trovava dietro le sbarre Agca è sempre riuscito a fare parlare di sé. Nel gennaio del 2006 fu liberato nello stupore generale e per pochi giorni per quello che ri-

Il “lupo” Ali Agca verso la libertà L’uomo che sparò a Giovanni Paolo II ha chiesto asilo a Vaticano e Portogallo di Marta Ottaviani

sulterà un errore di calcolo della giustizia turca. L’ex terrorista finì subito sulle prime pagine di tutti i quotidiani della Mezzaluna per non essersi presentato al commissariato di Çamçeme, nella parte asiatica di Istanbul, per firmare il registro delle presenze come ordinato dalla sentenza di scarcerazione. Per giustificarsi disse che voleva evitare il fastidio provocato dai giornalisti. A margine si era anche concesso dichiarazioni che avevano allarmato non poco sia il governo islamico-moderato guidato da Recep Tayyip Erdogan, sia le autorità di sicurezza. Se Mustafa Demirbag, inossidabile legale di Agca, che ha tentato fino all’ultimo di fargli avere una riduzione della pena, aveva detto che l’ex lupo grigio era un uomo nuovo e pronto a lavorare nella pace, l’ex terrorista aveva definito Istanbul «una città bellissima ma ancora troppo piena di comunisti».

Nei giorni successivi il quotidiano Hürriyet pubblicò in esclusiva alcune lettere scritte da Agca e inviate a Eenkal Atasagun, ex capo del Mit, il potente servizio segreto turco. Le missive sorpresero tutti per il contenuto, al limite del delirante. L’ex terrorista chiedeva di essere liberato per andare a catturare bin Laden in Afghanistan, aggiungendo di essere lui il vero Messia e di averlo detto personalmente anche a Giovanni Paolo II, nella storica visita che il San-

Nel gennaio del 2006 fu liberato per pochi giorni a causa di un errore di calcolo della giustizia turca Il parere favorevole della Congregazione per le cause dei santi

Karol Wojtyla beato nel 2010 di Massimo Fazzi I cardinali e vescovi della Congregazione delle Cause dei Santi hanno votato a favore della positio riguardante l’eroicità delle virtù di Karol Wojtyla, noto al mondo come Giovanni Paolo II. Le fonti ufficiali vaticane non ne danno notizia, ma non smentiscono le indiscrezioni apparse ieri sui giornali italialiani: il voto infatti ha un valore “consultivo”. Il risultato della votazione, e di quella dei teologi (che già si erano espressi favorevolmente), sarà infatti portato all’attenzione del Papa che, quando riterrà di farlo, proclamerà il decreto di “eroicità delle virtù” del Papa polacco e lo dichiarerà “venerabile”. Si apre così l’ultima fase del processo: l’esame - da parte della com-

missione dei medici e di quella dei teologi del miracolo attribuito all’intercessione di Giovanni Paolo II. Il caso che sarà presentato è quello di una suora francese guarita dal morbo di Parkinson. Solo dopo il voto dei medici, dei teologi e infine dei cardinali e dopo un’ulteriore e definitiva conferma di Benedetto XVI, Papa Wojtyla potrà essere beatificato. Nei giorni scorsi, interpellato in proposito dai giornalisti, il segretario di Stato, card. Tarcisio Bertone, aveva escluso che ci saranno nuove “accelerazioni” dopo la dispensa concessa da Benedetto XVI nel 2005 affinché si potesse avviare la causa senza attendere cinque anni dalla morte, come è prescritto.

to Padre fece al suo attentatore quando ancora recluso in Italia. L’ultima follia nel maggio scorso, quando alcuni quotidiani locali pubblicarono la notizia della sua conversione al cattolicesimo, che sarebbe avvenuta il 13 maggio del 2007, e aggiunsero anche che Agca stava cercando una moglie italiana, possibilmente donna di fede. Appuntamento al 18 maggio, dunque. Le autorità di sicurezza turche faranno di tutto per tenere la notizia sotto tono. In occasione della scarcerazione del 2006 infatti, molti giovani si erano presentati davanti al carcere per applaudire e inneggiare ad Agca come leader. E qualcuno si augura che questa volta, ora che praticamente è un uomo libero, l’ex lupo grigio decida di ritirarsi in buon ordine ma soprattutto in silenzio.


quadrante

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Il governo filippino rade al suolo le case di 400mila persone

Lo Stato indiano è stato teatro di un pogrom anti-cristiano

Per fermare le inondazioni Manila abbatte le baraccopoli

L’Europa invia una missione a visitare l’Orissa

MANILA. Nei prossimi mesi oltre 400mila persone della baraccopoli di Laguna Lake (Manila) rischiano di restare senza un tetto. Per evitare future inondazioni il governo vuole infatti demolire tutte le costruzioni abusive presenti nell’area. Ciò senza trovare una reale soluzione alternativa per i suoi abitanti. «Non demolite le case dei poveri senza un adeguato piano di trasferimento - afferma in una lettera pastorale il card. Gaudenzio Rosales, arcivescovo di Manila - non si possono incolpare i poveri delle inondazioni che hanno colpito la città, che sono frutto della continua costruzione di miniere nelle montagne e della gestione irresponsabile dei rifiuti». Il prelato aggiunge che «per trasferire i poveri e riqualificare la città la priorità è dare un lavoro a questa gente. Il problema delle baraccopoli non è dovuto alla mancanza di case, ma di lavoro». Il trasferimento dei residenti in altre aree della città, non collegate con il centro, colpisce oltre ai poveri anche la classe media, quali insegnanti, tassisti, colf e poliziotti, che saranno costretti ad abbandonare la loro occupazione. La città di Manila ha 11,5 milioni di abitanti, di questi oltre 4milioni vivono in baracche costruite sotto i ponti, nelle discariche e nelle aree libere da edifici. Nel 2002 il governo ha destinato alcuni ettari di terreno per la costruzione di nuovi quartieri situati nell’estrema periferia di Manila. Essi distano però anche 100 km dalla capitale e a tutt’oggi non esistono strade di collegamento. Nei nuovi quartieri non c’è lavoro e gli abitanti si rifiutano di abbandonare le loro abitazioni di fortuna e preferiscono vivere nella spazzatura. Le recenti inondazioni causate dai tifoni Ketsana e Parma hanno aumentato a dismisura il problema. Secondo le autorità le costruzioni abusive avrebbero bloccato il deflusso delle acque, allagando l’80% dell’area urbana e provocando oltre 500 morti e 1,3 milioni di sfollati.

DELHI. I rappresentanti di cinque Paesi europei sono in visita nello Stato indiano dell’Orissa, teatro del sanguinoso pogrom anti-cristiano di un anno fa. Scopo della missione è verificare la condizioni dei rifugiati cristiani, accertare la situazione della sicurezza nella zona e incontrare alcuni sopravvissuti alle violenze indù che hanno insanguinato la regione. I delegati di Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia e Islanda non hanno ricevuto il permesso da New Delhi di visitare il distretto del Kandhamal. Ieri hanno incontrato Manmohan Praharaj, direttore generale della polizia a Cuttack, insieme ad altri alti ufficiali. E prima ancora hanno dialogato con 10 vittime dei po-

Un supercellulare per Angela Merkel Un algoritmo proteggerà le conversazioni della cancelliera di Pierre Chiartano on sono ancora arrivate le feste di Natale, ma Angela Merkel ha ricevuto già un primo regalo: un nuovo supercellulare, il cosiddetto Krypto-Handy. Grazie a un chip speciale dotato di un criptoprocessore le conversazioni, gli sms e le email della cancelliera tedesca saranno molto più protette di quanto non lo fossero finora. Uno scudo che darà filo da torcere alle ”spie” dei vari servizi segreti o ad altri aspiranti ascoltatori. Un’azienda americana, la Verysign, ha messo sul mercato una tecnologia in grado di dotare di chiavi di sicurezza le comunicazioni del computer e, in futuro, anche dei telefonini che attraverso la rete Umts potranno – ad esempio – acquistare azioni in Borsa, spostare conti correnti bancari, allestire corrispondenze fra aziende. In questo caso, l’identificazione dell’interlocutore diventa indispensabile se non si vuole incorrere in spiacevoli incidenti – leggi truffe – elettroniche. Non solo le email possono essere lette, ma anche modificate. Si capisce dunque perché società come la Ford o la General Motors, Kodak o Ibm, abbiano, a partire dal 1997, avviato procedure di criptaggio interne piuttosto efficienti. In pratica il sistema è lo stesso applicato per rendere sicure le carte di credito usate per acquistare va Internet. Attraverso l’uso degli algoritmi, le comunicazioni vengono scomposte al momento in cui partono e ricomposte al loro arrivo. Ma soltanto chi ha la chiave fornita dall’ azienda produttrice del software può aprire e leggere. Il problema delle chiavi non è da poco. Negli anni sessanta e settanta banche e corpo diplomatico di vari Paesi mandavano in giro centinaia di funzionari con valigette. Ogni settimana consegnavano le chiavi per decifrare i sistemi di secretazione. Un costo enorme per enti pubblici e privati, che ha portato allo sviluppo di un sistema complesso. Quello a doppia chiave di lettura, pubblica e privata. E come se chi invia un messaggio in codice lo mettesse dentro due scatole. La prima che può essere aperta da chiunque e la seconda da una chiave “privata”

N

che conosce solo chi la riceve. Quest’ultimo l’aveva mandata in precedenza, usando lo stesso sistema. Un treno di comunicazioni tecniche prima che cominci quella vera. Naturalmente in frazioni di secondo. Così viene mantenuta la segretezza delle cifre dei codici. Nel caso della cosiddetta cifratura asimmetrica, parliamo sempre di algoritmi, il tempo necessario per rompere il codice, anche con i computer più potenti, sarebbe enorme. In questo modo la segretezza delle comunicazioni è garantita con un certo margine di affidabilità. In Italia siamo ancora indietro. La protezione di Internet e dunque delle carte di credito è abbastanza avanti, anche se esiste già il sistema per gabbare la difesa dei codici.

Gli hacker si posizione all’entrata dei server. In questa maniera diventa inutile controllare il dominio della pagina in cui si opera, perché è proprio quella autentica. Solo che il codice che si digita , prima di arrivare al processore della banca , viene intercettato dall’hacker. Come insegnano al Gat, il nucleo special contro le frodi telematiche della Guardia di Finanza del colonnello Rapetto. Le sembianze del nuovo handy (come in tedesco viene chiamato il cellulare) di Angela Merkel saranno identiche a quelle di un normale Nokia 63 – scriveva ieri il tabloid tedesco Bild – ma il suo valore è decisamente superiore: il superchip costa 2.618 euro, «non scontato». Fra i politici tedeschi Angela è notoriamente quella che usa di più il cellulare: «via handy governa il Paese e anche la Cdu», commenta il Bild. E capita spesso che chiami per telefono, senza preavviso, il presidente francese Nicolas Sarkozy o il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso. Impossibile invece una simile procedura con l’inquilino della Casa Bianca: i colloqui con Barack Obama devono essere sempre concordati in anticipo. Quello di Merkel è il primo cellulare di questo genere, ma non sarà l’ultimo: il ministero degli Interni tedesco ha ordinato 5.250 super-chip per tutti i ministri e gli alti funzionari del governo.

Il ministero degli Interni ha ordinato 5.250 chip per i telefonini in dotazione a tutti gli alti funzionari del governo

grom, trasportate apposta nella capitale dello Stato, presso l’arcivescovado di BhubaneswarCuttack. A seguito dell’incontro privato con gli scampati ai pogrom i rappresentanti dei cinque Paesi del nord Europa non hanno rilasciato dichiarazioni. Aoulsen Ole Lonsmann, ambasciatore di Danimarca e membro della delegazione, ha parlato di una «discussione privata» il cui contenuto «non può essere diffuso in pubblico». Oggi i cinque inviati visiteranno Kalahandi e Koraput per sincerarsi anche della situazione della regione alle prese con i ribelli maoisti. Mons. Raphael Cheenath, arcivescovo di Bhubaneswar-Cuttack, afferma che i cinque inviati hanno manifestato “preoccupazione” per la situazione, ma aggiunge che «hanno ascoltato le vittime, ma non hanno promesso nulla». Il vescovo ha manifestato loro l’angoscia per le persone che ad oltre un anno dai pogrom vivono ancora lontano da casa e sotto minaccia. «Pensiamo che circa 50mila persone abbiano abbandonato il Kandhamal durante le rivolte», ha detto mons. Cheenath. «Ora il 50% di esse ha fatto ritorno, ma stanno affrontando problemi per le abitazioni e il governo dello Stato dovrebbe affrontare con più serietà questo problema».


cultura

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Polemiche. Come avrebbe reagito, il drammaturgo tedesco, alla fine della Ddr e del socialismo reale? Una domanda scomoda per gli intellettuali di sinistra

Il crollo di Brecht A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, è il momento di riflettere anche sul massimo interprete del Teatro Politico di Franco Ricordi 20 anni dall’implosione del Muro berlinese, crediamo non si possa fare a meno di riflettere sull’operato di colui che è stato considerato come il massimo interprete del Teatro Politico nel XX secolo, anche per la sua consapevole e decisa scelta di andare a vivere nella Ddr dopo la Seconda Guerra Mondiale, e per le relative responsabilità: il grande poeta e drammaturgo Bertolt Brecht (1898-1956). Nato nella Selva Nera, come lui stesso ci ricorda in una celebre poesia, Brecht ha profondamente influenzato - anche sulla scorta di Marx, Benjamin, Lukacs tutto ciò che nel XX secolo è stato il rapporto fra l’Arte e il Potere, nella fattispecie la scena teatrale e la politica internazionale. E quello che venne poi definito Teatro Politico, anche attraverso Piscator ma poi la maggior parte dei drammaturghi di sinistra fino al suo successore al Beliner Ensemble Heiner Mueller, assume in Brecht un riferimento primario anche dal punto di vista metodologico.

A

Il suo teatro, come molti ricorderanno, si opponeva a radicalmente quello che egli definiva drammaturgia aristotelica, ovvero mimetica: il teatro moderno, per Brecht, doveva epico, diventare nel senso di rinunciare alla drammaticità diretta per indurre lo spettatore ad un approccio necessariamente critico verso l’argomentazione, proteso in ultima analisi verso una esperienza non più estetica quanto ideologica; il tentativo di Brecht era quello di non credere più ad un mondo “statico”, come quello decantato dalla drammaturgia occidentale da Eschilo fino a lui, ma ad una

effettiva possibilità dinamica dell’arte teatrale, protesa immancabilmente a cambiare il mondo (die welt aendern) come suonava il suo stesso motto. Si può comprendere come un uomo che viva la propria

Perfino sua nipote, la regista Johanna Schall, parla di una presa di posizione tardiva nei confronti della dittatura comunista giovinezza fra le due guerre mondiali, e che sia testimone della nascita del nazismo, volesse cercare di creare un senso diverso di impegno sociale da parte del teatro. Tuttavia vi sono due grandi interrogativi

che oggi emergono, e risultano assai inquietanti, come anche alcuni onesti intellettuali di sinistra hanno riconosciuto: anzitutto, che avrebbe detto oggi Brecht, come bene scrive il suo biografo Cesare Molinari, al cospetto del crollo del

“socialismo reale”? Avrebbe forse continuato incessantemente in quella direzione ideologica, di cui certo la Ddr è stata una delle maggiori interpreti? Ma poi, ancora prima della storia, questa sua impostazione estetico-ideologica del teatro epico (non a caso molto avversata sia da un grande filosofo come Gadamer che da un grande regista teatrale come Peter Brook) non risultava forse essa stessa una sovrapposizione inattendibile e necessariamente pericolosa, come del resto lo stesso Brecht ammise alla fine dei suoi Scritti teatrali? Com’è possibile un teatro epico?

L’arte drammatica, la realizzazione della pagina scritta sulla scena, è già per sua quintessenza un superamento della prima persona e della terza persona, e qualunque atteggiamento si voglia assumere sulla scena, essa è già da sempre “mimesis”, ovvero interpretazione, come specificano sia Gadamer che Brook. Il rischio era in ogni modo segnato da una inevitabile sottomissione delle possibilità artistiche a quelle ideologiche, di un teatro che rifiutasse la “mimesis” per dover necessariamente obbedire ad una prescrizione, quella di cambiare il mondo, che aveva dei precisi mandanti nell’ambito politico. E purtroppo bisogna anche dire che il meccanismo in qualche maniera abbia funzionato assai bene: tutti ricorderanno come ancora negli anni ’70 l’influenza di Brecht sulla cultura teatrale fosse grandissima; avallata soprattutto in Italia dal primo grande Teatro Stabile pubblico, il Piccolo di Milano, in cui Strehler e Grassi furono diretti allievi e sostenitori di Brecht, es-

Nato nella Selva Nera, Brecht ha profondamente influenzato tutto ciò che nel XX secolo è stato il rapporto fra l’Arte e il Potere. Dopo la Seconda Guerra Mondiale decise di andare a vivere nella Ddr comunista. Per Brecht, il teatro moderno doveva diventare epico, nel senso di rinunciare alla drammaticità diretta per indurre lo spettatore a un approccio critico verso l’argomentazione, proteso verso un’esperienza non più estetica quanto ideologica

sa si estendeva poi anche a quei brechtiani più radicali o ideologici che, come il regista Massimo Castri, consideravano l’operato di Strehler troppo borghese, non adeguato a quella lotta di classe che prevedeva la stessa estinzione del teatro politico per l’avvento della nuova società. «Il teatro politico lavora per la propria morte», scriveva Castri nel suo libro Per un teatro politico. Si trattava, per contro, di riprendere la lotta più specificamente operaista, arrivando a definire radicalmente quelle che dovessero essere le prerogative dell’autentico teatro politico: «Non ci può essere un teatro politico», scriveva sempre Castri allora regista stabile di quello che poi divenne il Ctb, Teatro Stabile di Brescia, «senza un’attiva collaborazione tra operatori teatrali e

organizzatori di base, tessuto associazionistico e infrastrutture culturali della Sinistra».

In questa maniera il teatro politico più agguerrito degli anni ’70 arrivava a preconizzare con Castri come gli stessi «Soviet e i consigli di fabbrica fossero non solo strumenti di lotta, ma le entità che prefiguravano gli assetti della nuova società». A leggere certe dichiarazioni, oggi, sembrerebbe avvertire anche un accento romantico, in tale ingenuo ed esasperato massimalismo. Ma la verità è che purtroppo in Italia, paese in cui ha operato il più grande partito comunista dell’Occidente, questi nodi politico-culturali non sono mai venuti al pettine: si sono resi conto i nostri registi-intellettuali che affondano le loro radici cul-


cultura

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suddetto), nell’ambito culturale tutto ciò è stato denunciato soltanto nel 2006, dal giovane regista che ha meritato l’Oscar per il miglior film straniero. La cultura occidentale, che l’arte teatrale riflette in modo particolare con le sue appendici politiche, è rimasta ancora oggi ancorata a quella esperienza novecentesca che, anche a poter essere considerata nella maniera più alta e distaccata come si potrebbe pensare della Vita di Galilei di Brecht, è stata comunque in ogni modo connivente con quel sistema politico-culturale. È questo il messaggio chiaro ed evidente di quel film rivelazione del 2006, che sotto questo aspetto non è stato ancora sufficientemente acquisito e compreso.

turali negli anni ’70, tutti schierati a Sinistra quasi fosse una conditio-sine-qua-non, che tale impostazione era fondamentalmente deviata, che anzi per la prima volta in 25 secoli di Storia il teatro veniva ad assurgere a icona di una sola parte della politica? Si sono resi conto che uno solo fra loro, Pier Paolo Pasolini, li aveva ammoniti in una disperata quanto disattesa e inascoltata testimonianza, rischiando proprio in tal senso di venir sempre più emarginato? Si rendono conto che il concetto di diversità elaborato da Pasolini aveva molto più a che spartire con quella che Heidegger chiamava differenza, che non con una superficiale apologia dell’omosessualità?

E si rendono conto dell’odierna deriva, oggi che nel teatro politico italiano l’ideo-

logia si è ridotta a burocrazia, ovvero sistema di potere che è governato - guarda caso - nella maggior parte delle situazioni da quel che resta del PciPds? Si capacitano, gli intellettuali “di sinistra” di ieri e di oggi della situazione a dir poco vergognosa in cui versano, soprattutto da questo punto di vista politico, gli attuali assetti post-brechtiani? Il cosiddetto “teatro civile”, che oggi vorrebbe sostituirsi alla dizione troppo dura e ideologica di teatro politico, non dovrà forse superare le barriere di quella cortina di ferro, aprendosi nuovamente a quella determinazione politica del teatro di tutti i tempi che, da Eschilo a Shakespeare, da Schiller a Pasolini, ha visto sostanzialmente nel dramma e nella commedia «qualcosa di più elevato e filosofico del-

la storia», vale a dire qualcosa che sta al di sopra della destra, della sinistra e di tutte le parti politiche? Non si è ancora capito, per concludere con franchezza, che il teatro politico del XX secolo sia stato fortemente voluto e strumentalizzato dagli apparati di una sola parte politica?

Per dimostrarlo ricorreremo ad un film sulla Ddr che molti ricorderanno, Le vite degli altri, di Florian Henkel Von Donnersmarck. Il problema è tutto lì: se infatti da più di 30 anni ci siamo in qualche modo capacitati del disastro storico-politico seguito all’applicazione del socialismo reale nei paesi dell’Est (e la Ddr essendo di natura “teutonica” ha saputo svolgere meglio che mai il compito affidatole, come bene promana dal film

Pur citando poeticamente Brecht, il regista Donnersmarck ci raffigura chiaramente una Ddr dove tutto veniva controllato e spiato fino al parossismo, e dove dunque il teatro politico dello scrittore protagonista del film non potesse essere se non di ribellione e forte contrapposizione al sistema: il sistema che, da parte sua, pretendeva di essere il solo e ufficiale mandante del Teatro Politico! E chi meglio del Berliner Ensemble di brechtiana memoria poteva interpretarlo? E Brecht, in questo senso, dovrà assumersi le sue postume responsabilità visto che pure sua nipote, l’oggi 51enne regista teatrale Johanna Schall figlia del celebre attore Ekkehard e di sua figlia Barbara, parla di una presa di posizione tardiva nei confronti della dittatura nella Ddr! Ecco, lì sta il nodo ancora irrisolto, non solo della cultura teatrale, ma del rapporto ancora oggi vigente in senso internazionale fra le arti, la cultura e il potere. Ancora oggi, a vent’anni dalla caduta del famigerato Muro, non si è sufficientemente compreso come il cosiddetto “impegno” delle arti non sia, per sua costituzione, “qualcosa di sinistra”, come vogliono anche Harold Pinter (grande drammaturgo, soprattutto nei testi

anni ‘70), o il meno entusiasmante regista Michael Moore, e in casa nostra i due “numi tutelari” Dario Fo e Nanni Moretti. Ancora oggi non si è sbloccata quella vera e propria coscienza infelice dell’intellettuale novecentesco che è rimasta, in maniera impressionante e - dobbiamo scriverlo - ideologica, legata a quella sola relazione che si è potuta stabilire: il comunismo è la sola via di una politicizzazione dell’arte, pertanto l’artista che voglia in qualche maniera impegnarsi non può che farlo a sinistra. E nonostante la denuncia del grande film di Donnersmarck lo schieramento culturale non si è ancora sbloccato. Quanto ci vorrà? Ancora pochi giorni fa Dario Fo protestava immancabilmente a modo suo contro e soltanto contro i privilegi del centro-destra, come se la sinistra fosse immune da “peccati” di ordine politico: si rende conto lui (a suo tempo comunista extraparlamentare) che nel 1975 scriveva l’assai discutibile Fanfani rapito, che da 20 anni a questa parte tutti noi europei siamo più liberi, proprio perché ci siamo liberati dall’oppressione del socialismo reale che ci stava alle porte? Sarà mai possibile smascherare finalmente questa storica, incredibile, terribile e connivente ipocrisia dell’intellettuale italiano? Ecco, forse l’occasione del ventennale della caduta del Muro, potrebbe darci la spinta per iniziare ad aprire un nuovo spiraglio che, si badi bene, non è limitato soltanto alla “cultura per la cultura” ovvero alla cosiddetta “arte per l’arte”. È invece un discorso politico fondamentale della nuova Europa che stiamo vivendo, che non ha ancora sufficientemente inteso e interpretato la struttura più intima di quella libertà a doppio senso che abbiamo, ovvero possiamo vivere, da quando finalmente ci siamo scrollati in tutto e per tutto sia il retaggio nazifascista che quello del socialismo reale, il comunismo.

E in tal senso non si potranno fare distinzioni di razza o di casta, come qualcuno ha provato e tuttora tenta di indurre o esorcizzare, asserendo che comunque le intenzioni del socialismo fossero “a fin di bene”, ovvero culturalmente alte e motivate. Non sarà facile, lo sappiamo bene, superare il senso ultimo di questa egemonia che viene da più di 70 anni di Europa culturalmente a senso unico. Ma siamo tenuti ad iniziare, a scagliare la prima pietra. Facciamolo, anche ricordando lo splendido film di Donnersmarck che ci ha aperto gli occhi verso ogni possibile e improbabile Ostalgia (nostalgia dell’Est, nel nuovo termine coniato) che voglia darsi.


cultura

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Tra gli scaffali. Un illuminante volume curato da Elio Guerriero ripercorre le vite (e l’esempio) di sei importanti personalità

Non lasciamo stare i Santi di Maurizio Schoepflin

on particolare frequenza e, purtroppo, non sempre in occasioni felici - si pensi, per esempio, alla recente sentenza della Corte europea sulla presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche - negli ultimi anni si è tornati a parlare delle radici cristiane dell’Europa. Si tratta di un argomento di straordinaria rilevanza, che richiama alla mente un’immagine particolarmente suggestiva, quella delle radici appunto, organi che fanno pensare alla stabilità e al nutrimento, ovvero a due funzioni essenziali alla vita di un organismo. Privata delle sue fondamenta cristiane, l’Europa finirebbe per indebolirsi in modo irrimediabile. Ma le radici fanno pensare anche alla pianta nella sua interezza, al tronco, ai rami e ai frutti, la cui copiosità è direttamente connessa con la positiva vitalità dell’albero nel suo insieme; a questo riguardo, non si va lontano dal vero se consideriamo la santità il frutto più maturo e significativo dell’Europa cristiana.

C

Radicandosi nell’Evangelo, da cui ha tratto alimento prezioso, e nella Chiesa, all’interno della quale ha vissuto quotidianamente la fede, la cristianità europea ha espresso altissimi esempi di santi, alcuni dei quali sono stati giudicati così emblematici da meritare il titolo di patroni, di celesti protettori del Vecchio Continente. Sono tre uomini e tre donne, a cui i cristiani possono guardare con ammirazione, nella certezza di ricevere dal loro esempio quella linfa vitale che, circolando

A fianco, il dipinto del Correggio “Martirio dei 4 santi”. In basso a sinistra, uno scatto di Elio Guerriero. Sotto, la copertina del libro da lui curato “Santi Patroni d’Europa” (Edizioni San Paolo)

nesimo che ha fatto crescere l’Occidente nel segno della fede in Dio e della fiducia nell’uomo. Nella prima parte del volume vengono riportati tre documenti pontifici: una catechesi di papa Ratzinger su San Benedetto e due lettere apostoliche di Giovanni Paolo II, con le quali, rispettivamente, il grande pontefice polacco proclamò nel 1980 Cirillo e Metodio e nel 1999 le tre Sante compatroni d’Europa, perfezionando l’opera iniziata da Paolo VI, che nel 1964

ra una volta emerge - prosegue il curatore - l’anima cristiana dell’Europa e ad essa congiunta una fecondità generatrice di bellezza. Questo aspetto merita di essere sottolineato. Parte cospicua delle opere d’arte in Europa nascono dalla passione cristiana per il bello. Per questo il presente volume è riccamente illustrato e si propone come un percorso attraverso la geografia della bellezza in Europa». Merita una menzione speciale la scelta operata da Giovanni Paolo II di segnalare alla

oggi Edith Stein compatrona d’Europa significa porre sull’orizzonte del vecchio continente un vessillo di rispetto, di tolleranza, di accoglienza, che invita uomini e donne a comprendersi e ad accettarsi al di là delle diversità etniche, culturali e religiose, per formare una società veramente fraterna». L’Europa dei santi è davvero l’Europa unita, come si legge nella Egregiae virtutis, la lettera apostolica dedicata da Giovanni Paolo II a Cirillo e Metodio, i santi fratelli originari del-

Il libro permette al lettore di entrare in contatto con Benedetto, Cirillo, Metodio, Brigida, Caterina e Teresa Benedetta, modelli di un cristianesimo che ha fatto crescere l’Occidente nel segno della fede in Dio

dalle radici sino all’ultimo ramo, costituisce l’autentico nutrimento della civiltà e della storia europee. Un ottimo libro curato da Elio Guerriero per le Edizioni San Paolo e intitolato Santi Patroni d’Europa (pagg. 240, euro 24) permette al lettore di entrare in fecondo contatto con queste sei personalità: Benedetto, Cirillo, Metodio, Brigida, Caterina e Teresa Benedetta, sono i modelli di un cristia-

aveva eletto San Benedetto patrono del nostro continente. Nella seconda sezione del libro sono accolte le biografie di queste eccelse personalità, opportunamente integrate da loro scritti e da ulteriori testimonianze. «La terza parte - scrive Elio Guerriero - è costituita dall’iter iconografico che permette di cogliere l’animus di ogni patrono quale è stato percepito nei secoli dagli artisti, a loro volta interpreti della sensibilità e della devozione dei fedeli nei secoli e nella geografia dell’Europa. Anco-

mente e al cuore dei cristiani tre straordinarie figure femminili: la svedese Brigida e la senese Caterina, vissute nel XIV secolo, e Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein), nelle cui vicende umane e religiose, culminate nel martirio subito ad Auschwitz, sono mirabilmente sintetizzati le tragedia e il riscatto dell’Europa novecentesca, che ha trovato nella fede in Cristo l’unico vero antidoto contro la barbarie. A questo proposito, nella lettera apostolica Spes aedificandi, papa Wojtyla affermò: «Dichiarare

la Grecia, vissuti nel IX secolo: «L’Europa, infatti, nel suo insieme geografico è per così dire il frutto dell’azione di due correnti di tradizioni cristiane, alle quali si aggiungono anche due diverse, ma al tempo stesso profondamente complementari, forme di cultura. San Benedetto, il quale con il suo influsso ha abbracciato non solo l’Europa, prima di tutto occidentale e centrale, ma mediante i centri benedettini è arrivato anche negli altri continenti, ritrova al centro stesso di quella corrente che parte da Roma,

dalla sede dei successori di San Pietro. I santi fratelli da Tessalonica mettono in risalto prima il contributo dell’antica cultura greca e, in seguito, la portata dell’irradiazione della Chiesa di Costantinopoli e della tradizione orientale, la quale si è così profondamente iscritta nella spiritualità e nella cultura di tanti popoli e nazioni nella parte orientale del continente europeo».

Il libro fa gustare al lettore la bellezza e la fecondità del cristianesimo europeo, albero dalle radici assai profonde e dai frutti particolarmente succosi. Storia e geografia del nostro continente si amalgamano nella santità dei suoi patroni: dall’antichità al Medioevo, fino all’epoca contemporanea, dall’Atlantico agli Urali, da settentrione a mezzogiorno, l’Europa, che nell’XI secolo il monaco cluniacense Rodolfo il Glabro vide ricoprirsi di un bianco mantello di chiese, è ancora oggi consapevole che il suo futuro è affidato al Vangelo, per il quale vissero Benedetto, Cirillo, Metodio, Brigida, Caterina e Teresa Benedetta.


cultura

18 novembre 2009 • pagina 21

ove nacque la fatidica “tavola rotonda”? Tra le tante paternità, una non teme concorrenze. Siamo nel maggio 1968 all’Università di Pisa. L’allora potente Unione dei Circoli Cinematografici dell’Arci, presieduta dal compianto Gianni Menon, mette attorno ad un tavolo a discutere di e con Roberto Rossellini i responsabili dei cineclub di Pisa, Genova, La Spezia, Modena,Venezia, Bari e di altre città: in tutto 23 ragazzi tra i venti e ventuno anni. Non lo sanno, ma stanno mettendo le basi del nuovo cinema e della nuova critica italiana.

D

A quarant’anni di distanza, le trascrizioni di quelle quattro giornate (dal 23 al 26 maggio) tornano a risollevarsi dalla polvere e dall’oblio e come un film dimenticato tornano a riflettere immagini che pensavamo perdute: il dibattito dopo le proiezioni, il confronto serrato tra regista, pubblico e critici, le finalità politiche e sociali della settima arte, le accese contese ideologiche senza pregiudiziali e la lettura analitica del linguaggio filmico. A riproporci quel clima è ora il libro Dibattito su Rossellini, edito da Diabasis, a cura di Adriano Aprà. Il testo, in realtà, aveva avuto una prima ediziodi Marco Ferrari ne semiclandestina nel 1972 da Partisan Edizioni di Roma, al sione, rammentando quello costo di mille lire, ma quei libri spartiacque fatidico di Pisa, hanno cominciato quasi subito quel bagno psicoanalitico, a perdere fogli nel vero senso quella seduta terapeutica che della parola oltre che a perdere segnò per sempre le loro esid’attualità. Quelle pagine ci restenze: alcuni a fare cinema stituiscono adesso la sregoladavvero (Paolo Benvenuti, Fatezza di quei tempi: cinéphiles incalliti, novelli Dziga Vertov liero Rosati, con cineprese a 8 millimetri Franco Ferrini e sulle spalle, cinemini di provinlo scomparso cia freddi e angusti divenuti acEnzo Ungari), alcademie di dibattiti di alto protri a fare da critifilo, riviste in ciclostile, garçon- protagonisti di quel seminario ci attenti (Adrianières di antichi palazzi tra- si raccontano senza veli e reti- no Aprà e Fabio sformate in alcove ideologiche cenze al giorno d’oggi, oramai Carlini), altri an(“Cinemazero” a Pisa), feste in sessantenni sulla via della pen- cora persi nelle casa, manifestazioni all’università, le canzoni di Antoine e dei Giganti in testa, il sogno di un viaggio a Parigi per stare un’intera giornata seduti alla Cinémathèque française. E anche il mondo cattolico non sembrò immune da tale contagio di effervescenza culturale come testimoniano le esperienze di padre Angelo Arpa (1909-2003) con la Fondazione Columbianum di Genova, che ci fece scoprire il Cinema Nuovo brasiliano e di padre Nazareno Taddei (1920-2006), ideatore dell’attivissimo Centro internazionale dello spettacolo e della coIn alto, Roberto Rossellini e Ingrid Bergman. municazione che sdoSopra, Anna Magnani nel film “Roma città aperta” e le locandine ganò Federico Fellini. I di altre due pellicole di Rossellini: “Stromboli” e “Paisà”

Libri. Tornano rilegate le famose 4 giornate di dibattito sul cinema del maggio ’68

Quando Rossellini ispirò la nuova critica

Nel volume curato da Adriano Aprà, rivive la tavola rotonda che reinventò, in maniera strutturalista, le teorie del linguaggio filmico

più inconsuete vesti di esattori di tasse, pubblicitari, insegnanti, editori e correttori di bozze.

La finalità di quelle esperienze, secondo l’allora presidente dell’Ucca Gianni Menon, triestino, classe 1938, scomparso prematuramente nel 1989, era quello di formare nuovi quadri dirigenti, organizzatori di cineclub, volontari della cultura dell’immagine. Si tennero pertanto tre seminari: Reggio Emilia, marzo 1968; Ve-

nezia, dicembre 1968 e appunto Pisa, l’anno successivo. «I docenti - racconta Menon, nella prefazione alla prima edizione, a proposito dell’appuntamento veneziano - eravamo io e Aprà soltanto, che non ci sentivamo di insegnare niente a nessuno. Durante il giorno si vedevano i film; la sera, per ore e ore, si discutevano a ruota libera. Chi ne voleva, aveva del vino». All’università di Pisa, invece, si cambiò metodo. «Non più lezioni cattedratiche - spiega Aprà ma discussioni aperte in forma di tavola rotonda. Cominciavo io oppure Menon e poi si proseguiva nell’ordine del cerchio. Il primo cerchio serviva a scaricare le banalità, a superare gli imbarazzi, a liberarsi dai pregiudizi. Dal secondo cerchio in poi ognuno si sentiva più a proprio agio, sciolto da impacci, capace di esprime ciò che davvero sentiva. Il risultato fu sorprendente».

E Roberto Rossellini? Si sottopose ad una mitragliata di domande rispondendo in modo cordiale ma energico, non solo ai giovani critici, ma anche al pubblico normale . «La lotta di sempre - disse dopo la proiezione del film Europa ’51 al Cinema Mignon - è quella tra il progresso e chi lo frena: Proudhon diceva che la rivoluzione nasce dalla lotta che viene fatta alle idee. Se prima il progresso andava avanti a salti di grillo, ora è prorompente. Da ciò la necessità di vincere la paura, il terrore delle strade che non si conoscono». La scelta era caduta su Rossellini perché il regista alternava opere cosiddette militanti (Roma città aperta, Paisà) ad altre non politiche (Stromboli, Viaggio in Italia) e persino di analisi dei valori religiosi (Francesco giullare di Dio e Giovanna d’Arco al rogo) suscitando diverse considerazioni al punto che taluni lo giudicavano non spendibile né in funzione critica né politica. In quell’atmosfera conventuale un gruppo di ventenni si misurò con un bisogno nuovo, quello di vedere in maniera diversa il cinema, analizzandone insieme le tensioni politiche, estetiche e linguistiche. Di certo quel seminario cambiò la vita di tanti.Visto con gli occhi di oggi quel documento, estratto da quattro giorni di tavole rotonde, sbobinato a mano e riscritto con una Olivetti 22 per poi essere pubblicato in un libro, in un contesto di battaglie ideologiche sessantottine, rappresenta il passaggio da una critica illuminata ad una critica nel campo del cinema che inventò, in maniera strutturalista, le teorie del linguaggio filmico. Un passaggio necessario per capire il nostro modo di guardare, usare e interpretare i nuovi mezzi di comunicazione.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”Straits Times” del 17/11/09

Singapore sempre più onesta ingapore sempre più onesta. La città Stato ha fatto un altro passo avanti nella classifica dei Paesi del mondo meno corrotti. Lo afferma la graduatoria stilata da Trasparency international (Ti) per il 2009 e pubblicata martedì. Il Paese asiatico si trovava già nell’Olimpo dell’alta classifica degli onesti, al quarto posto. Ma questo appena passato è stato l’anno del sorpasso. Uno scavalcamento non da poco, visto che Singapore ha scalzato dal podio un Paese come la Svezia, ben noto per le qualità morali dei suoi cittadini e governanti.

S

Nuova Zelanda e Danimarca sono davanti, rispettivamente al primo e al secondo posto della classifica dei probi, che vede in quinta posizione la Svizzera degli orologi a cucù. Lo studio di Transparency da molta importanza alla «stabilità politica» che dimostrano avere i Paesi nelle prime cinque posizioni. Oltre a leggi che regolano i conflitti d’interesse, stabiliti già da lungo tempo e a istituzioni pubbliche solide. La hit parade valuta la percezione riguardo alla corruzione del settore pubblico in 180 Paesi attraverso l’opinione di uomini d’affari e la valutazioni di esperti del settore. Gli Stati Uniti si sono posizionati diciannovesimi nella classifica del 2009. Un piccolo arretramento rispetto al diciottesimo posto dell’anno scorso. La Somalia rimane comunque lo Stato più corrotto al mondo, seguita da Afghanistan e Myanmar (la vecchia Birmania che non ha ancora liberato Aung San Suu Kyi, ndr), il Sudan e l’Iraq. Il fondo della graduatoria dimostra come i Paesi percepiti come i più corrotti, siano anche quelli colpiti da lunghi conflitti che ne hanno disintegrato le strutture pubbliche e istituzionali, afferma il rapporto di Trasparency international. Nel punteggio assegnato secon-

do criteri abbastanza complessi, vediamo la Nuova Zelanda con 9,4 punti, la Danimarca con 9,3 e Singapore con 9,2, che è lo stesso punteggio totalizzato lo scorso anno. Sempre nello stesso rapporto stilato dall’organizzazione berlinese guidata da Huguette Labelle, si legge un duro attacco contro il segreto bancario e i paradisi fiscali. «Il denaro sporco non deve più trovare rifugi sicuri. È ora di smetterla di accampare scuse» ha dichiarato Labelle. Sulla scia della crisi finanziaria il G-20, il gruppo dei Paesi più industrializzati, aveva alzato il tiro sui paradisi fiscali, destinati ai Paesi ricchi. Parliamo di Stati con legislazioni sul segreto bancario di lunga data, come il Liechtenstein e la confederazione Svizzera.

La signora Labelle ha però affermato che ulteriori sforzi siano «un imperativo», chiedendo che vengano siglati dei trattati bilaterali per lo scambio di informazioni per «porre veramente fine al regime di segretezza». Nel complesso, il rapporto stilato per il 2009, è già fonte di «molte preoccupazioni» ha sottolineato la presidente di Ti.Visto che la maggior parte dei Paesi scrutinati ha totalizzato un punteggio che va al di sotto di cinque, in una classifica che vede il punteggio dieci come quello dei più virtuosi e zero quello degli improbi. Da sempre la città Stato asiatica, che in sanscrito significa letteralmente «città del leone», secondo un’antica leggenda malese, ha una cultura e dei costumi improntati alla rettitudine. Probabilmente è stata la radice buddista – circa metà della popolazione è di

quella fede – innestata dalla cultura britannica, a produrre un caso atipico per i costumi asiatici. La colonia venne amministrata dalla Compagnia Inglese delle Indie Orientali.

Poi i mercanti del luogo fecero pressione presso le istituzioni britanniche perché riformassero la legislazione, in modo da garantirli contro la pirateria e gli altri crimini. Singapore fu dichiarata «colonia della corona» nel 1867 e qui vi si instaurò saldamente il dominio della corona britannica. Attirati dalle esenzioni doganali, gli immigranti vi si riversarono a migliaia e Singapore divenne una fiorente colonia e una base navale militare. Durante la seconda guerra mondiale, nel febbraio 1942, l’isola cadde in mani giapponesi, in seguito ad un’invasione operata da terra, allorché la difesa di Singapore era orientata esclusivamente verso il mare.

L’IMMAGINE

Posta elettronica certificata per scambi con la pubblica amministrazione È stata pubblicata una nuova scheda pratica sulla Posta elettronica certificata (Pec). Le schede pratiche rendono intellegibile e pratico un provvedimento, una normativa sì da poter diventare di uso corrente da parte del cittadino utente e consumatore. Quella redatta per esempio da Rita Sabelli, è così strutturata: cos’è e come funziona, operatività: le tappe di legge; la Pec al privato cittadino; riferimenti normativi e link utili. In sintesi, per quello che abbiamo potuto appurare, il cittadino privato può munirsi di una casella Pec per comunicare con chiunque ne sia analogamente munito rivolgendosi ad uno dei gestori dell’elenco pubblicato sul sito del Cnipa, leggendo il manuale operativo nonché il contratto da sottoscrivere. Il servizio non è gratuito; da ottobre 2009 è possibile aprire un indirizzo Pec gratuito con l’Aci o con l’Inps, utilizzabile solo per comunicazioni con la pubblica amministrazione. Ciò grazie ad una convenzione che permette di sperimentare il sistema “Pec ai cittadini” promosso dal Governo.

Aduc

INVASIONE, SOVRAFFOLLAMENTO E VIVIBILITÀ Al 31dicembre 2008 gli stranieri residenti nel comune di Padova superano il 12% della popolazione e raggiungono quasi il 20% nel quartiere Arcella. Il ritmo d’incremento è elevatissimo. Vanno aggiunti i molti clandestini. Risultano cifre che bastano e avanzano, anche perché possono contribuire al declino della qualità e serenità di vita. Si riducono gli spazi vitali e le aree verdi.Aumenta l’inquinamento. Si continua a cementificare. All’illegalità e criminalità d’italiani si aggiungono quelle di stranieri. Nonostante l’indulto, le carceri sono sovraffollate. L’ammassamento rende pericolosi e insufficienti i marciapiedi, le ciclabili e le strade: troppi gli incidenti, con morti, feri-

ti e danni a cose. Non si può uscire serenamente nelle ore serali e notturne, poiché si rischia di subire crimini. Il cittadino è ripetutamente avvicinato e talvolta molestato da accattoni. Abbonda la sporcizia sulle strade.“Portoghesi”viaggiano privi di biglietto su mezzi pubblici. Baby bulli sporcano muri e assumono atteggiamenti aggressivi: si ritengono al di sopra delle leggi e accusano di razzismo e discriminazione chi li richiama bonariamente. Si verificano clonazioni di carte bancomat, prelievi indebiti e molte altre truffe. Si cerca la sicurezza, anche con case blindate, assicurazioni, istituti di vigilanza privata, telecamere, poliziotti di quartiere, presidi fissi di vigili, identificazioni di persone sospette e altro. Vengono distribuiti volantini della

Amici per la pelle Quando la vede passare le scocca un bacio appassionato. È il modo in cui il leone Jupiter mostra gratitudine alla sua salvatrice: Ana Julia Torres, che 10 anni fa lo ha liberato da un circo dove veniva maltrattato. Il felino da allora vive, circondato da mille premure, a Villa Lorena, un centro di recupero di animali in difficoltà fondato da Torres a Cali, in Colombia

Polizia, contenenti regole per prevenire reati diffusi. La solidarietà se professata e ostentata - rischia d’apparire maschera, celante cupidigia di potere.

Gianfranco Nìbale

SALTO GENERAZIONALE CON GABRIEL E NAHLES Auguri dei socialisti italiani al neoeletto leader della Spd, Si-

mon Gabriel, chiamato a dirigere il partito in un momento certamente difficile, anche se occorre ricordare che la crisi non è della sola Spd ma di tutta la socialdemocrazia europea. Dal congresso di Dresda arriva un segnale importante che potrebbe essere di esempio agli altri partiti sociademocratici europei per invertire la rotta dopo gli insuccessi delle ul-

time elezioni. Assieme al poco più che quarantenne Gabriel verrà eletta nella carica di segretario generale l’ancor più giovane Andrea Nahles, perché si è scelto di fare un vero e proprio salto generazionale, un’indubbia novità per una delle socialdemocrazie più antiche d’Europa con i suoi 146 anni di storia.

Pia Locatelli


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Mi parve d’aver sul cuore il dolore muto di tutte le cose Le tue lettere giungono qui a mezzogiorno; ma come la posta è lontana, certe volte ritardano a venire nelle mie mani. Tanta tristezza mi fecero le tue parole che non ebbi più la forza di rimanere in compagnia. Erano su al Convento di mia madre, le mie sorelle, mio fratello, ed alcune signore amiche, venute a vedere il mio ritiro prima della clausura. Ciccillo Michetti faceva festa.Tutti erano intorno a una liberale mensa ornata d’una gran quantità di girasoli e d’aranci selvaggi. Col pretesto d’andarmi a vestire pel ballo della sera, scesi giù per le viottole solitarie che conducono alla spiaggia, qui dove abito io. Andavo lentamente; mi teneva un’angoscia così grave che mi parve a un punto d’aver sul cuore il dolore muto di tutte le cose, e il cielo era coperto d’una trama sottile di nuvole bianche. Il silenzio e la pace, intorno, profondi. Io mi ricorderò sempre per la vita della commozione ch’io ebbi jersera quando apersi la strana porta della casa marina. Avevo gli spiriti così esaltati e allucinati che mi pareva di sentire la tua presenza nella casa solitaria. I miei passi su per la scala tortuosa avevano un suono mai udito. Il mistero mi stringeva. E il cuore mi batteva con tanta furia che il gran battito empiva la casa come d’un fragore. Gabriele d’Annunzio a Barbara

ACCADDE OGGI

UNA TRIPLICE INTESA PER UN NUOVO CENTROSINISTRA Socialisti e radicali hanno fatto nel tempo lunghi tratti di cammino assieme perché sono tante le cose che ci uniscono, moltissime di più di quelle che ci dividono. Per questo mi piacerebbe che, in vista delle regionali, si ragionasse assieme sulla possibilità di costruire delle alleanze. Sono sempre più convinto che l’Italia abbia bisogno di una triplice intesa tra Pd, socialisti e radicali, per dare vita a un nuovo centrosinistra in grado di proporsi come vera alternativa di governo al centrodestra. E questa intesa dei riformisti dovrebbe poggiare su un programma semplice, concreto, praticabile, costruito su linee guida essenziali: il merito, la tutela del lavoro, il rigore e la sobrietà, di cui c’è bisogno soprattutto dopo lgli ultimi 15 anni. Un quindicennio che coincide con l’entrata in politica di Silvio Berlusconi, perché non c’è dubbio alcuno che in questi anni non ha fatto altro che dividere l’Italia e gli italiani, allargando o creando divisioni nella politica, nella società, nelle istituzioni. Erano sessant’anni che questo Paese non viveva fratture così profonde, diffuse, pericolose e il centrosinistra deve ora lavorare per riportare prima di tutto unità e concordia.

Riccardo

LA FABBRICA MONDIALE DELL’EROINA Oltre ai motivi politici, evitare il collasso di uno Stato in preda all’anarchia, e ai motivi militari, impedirvi

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

18 novembre 1971 Il gruppo hard rock dei Led Zeppelin pubblica un album senza titolo, spesso chiamato Led Zeppelin IV, nel quale compaiono “Rock & Roll”,“Stairway to Heaven”e altri classici molto apprezzati 1978 Suicidio di massa di Jonestown: Jim Jones guida il suo Popolo del Tempio ad un suicidio di massa; muoiono 913 persone, tra cui 276 bambini 1987 31 persone muoiono in un incendio nella più trafficata stazione della metropolitana, a King’s Cross 1988 Il presidente Ronald Reagan firma una legge che prevede la pena di morte per i trafficanti di droga responsabili di omicidio 1991 Rapitori musulmani sciiti in Libano liberano gli inviati della Chiesa Anglicana: Terry Waite e Thomas Sutherland 1993 In Sudafrica, 21 partiti politici approvano la nuova Costituzione 2003 Lutto nazionale in Italia, nel giorno dei funerali di Stato dei 19 connazionali morti in un attentato a Nassiriya

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

l’instaurazione di regimi islamici integralisti di supporto al terrorismo internazionale, c’è un’altra ragione per cui occorre resistere in Afghanistan, e riguarda il mondo intero. Nel Paese si coltiva il 90% della produzione totale di oppio del pianeta. Questa gigantesca struttura produttiva è nelle mani del nuovo organizzatissimo cartello del narcotraffico afgano, comprendente una cinquantina di gruppi criminali. Oggi i narcos afgani invadono ogni nazione coi loro carichi di oppio, eroina e morfina: dalla Cina alla Russia, dai Paesi arabi all’India, fino all’Occidente europeo e americano, ogni anno tonnellate e tonnellate di droga afgana arrivano a casa nostra uccidendoci.

Lettera firmata

TERRORISMO Ogni giorno vengono sgominate cellule terroristiche in vari posti d’Italia, pronti a riaccendere il clima della tensione internazionale nel nostro Paese, che quasi miracolosamente è rimasto alquanto incolume. Nessuno può negare che l’azione del governo e della Guardia di finanza sia più che efficiente e rassicurante al riguardo. Una cosa, però, resta certa, ossia che il livello di guardia non si può abbassare, anche perché, e la cosa mi turba molto, sembra che dal 2007 i proventi di molte rapine sul nostro territorio venivano inviati in Algeria e altri Paesi, per finanziare i kamikaze.

STATI GENERALI UDC-BARI (II PARTE) Pier Ferdinando Casini ha fatto sì che l’Udc si sdoganasse da quella immagine negativa tatuata sui democratici cristiani dopo la caduta del muro di Berlino, dopo la stagione di tangentopoli e durante il funerale della prima Repubblica, rinunciando a presidenze e ministeri, ma guardando al futuro del partito e degli italiani. Certo, ragionando pragmaticamente, si potrebbe addurre, a giustificazione di una alleanza, il fatto che l’attuale legge elettorale regionale sarebbe penalizzante per i partiti piccoli e per le piccole province, come la neonata sesta provincia pugliese in quanto il rischio, non apparentandosi, sarebbe addirittura quello di non avere l’eletto. C’è da chiedersi allora, perché non riformare subito la legge elettorale? Perché non sperimentare la fedeltà del presunto futuro alleato già in questa occasione? La rincorsa a una possibile vittoria può essere sufficiente ad abortire il progetto di quel grande partito di centro, moderato e cattolico predestinato a risollevare la nostra Italia? L’appiattirsi su vecchie posizioni non sarebbe una regressione al generalismo e alla politica dei due forni? Dopo cinque anni di opposizione alla regione Puglia, come giustificare una alleanza con il centrosinistra? Discontinuità nella continuità significa dire no a Vendola, sarà possibile? Su temi cruciali come la famiglia come faremmo a discutere con gli oltranzisti laici della sinistra? Per una via d’uscita occorre coraggio, scelta e decisione uniforme. Se l’Udc dovesse optare per un alleanza programmatica con uno dei due poli dovrebbe, poi, essere consequenziale su tutto il territorio nazionale. Supponiamo un alleanza con il Pdl alle regionali questo dovrebbe implicare necessariamente che l’Udc nei comuni in cui è all’opposizione del centrodestra dovrebbe entrare in maggioranza, là dove è in maggioranza con il centrosinistra passare all’opposizione, e alla provincia Barletta-Andria-Trani passare in maggioranza. Vi sembra possibile? In questo modo saremmo coerenti e potremmo evitare accuse infamanti dall’elettorato e dagli avversari politici di turno? Occorre coerenza. Quella coerenza che è mancata a quei consiglieri regionali che gravitano come satelliti intorno all’Udc senza decidere se far parte o meno di questo partito. Francesco di Feo C O N S I G L I E R E PR O V I N C I A L E UD C D E L L A B T

APPUNTAMENTI NOVEMBRE 2009 GIOVEDÌ 26 - ORE 19 - NAPOLI HOTEL RAMADA - VIA G. FERRARIS 40 “150 anni di Storia dall’Unità d’Italia al Partito della Nazione”. Incontro-convegno dei Circoli liberal della Campania. Saluti: Vincenzo Inverso. Conclusioni: Ferdinando Adornato, presidente dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Bruna Rosso

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1

Amministratore Unico Ferdinando Adornato

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e di cronach

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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