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La giustizia è l’insieme delle norme che perpetuano un tipo umano in una civiltà Antoine De Saint-Exupéry

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 28 NOVEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Appello alla tregua dopo le accuse di Berlusconi ai Pm. L’Anm: «Nessun conflitto, ma non vogliamo essere aggrediti»

L’Italia ha voglia di “pace civile” Monito del Colle a giudici e governo: «Basta tensioni tra le istituzioni. Nessuno può abbattere un esecutivo che ha la maggioranza». Mai come adesso Napolitano rappresenta tutto il Paese DEMOCRAZIA A RISCHIO

di Osvaldo Baldacci

Con il Quirinale, contro la guerra

ROMA. Napolitano risponde alla guerra civile di Berlusconi con un appello alla pace civile. Le sue sono parole di ragionevolezza istituzionale, ma nel caos di queste settimane, pesano come pietre: «L’interesse del paese richiede che si fermi la spirale di drammatizzazione delle polemiche tra istituzioni». Ha poi auspicato «uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche», ricordando che «nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento». a pagina 2

di Giancristiano Desiderio iorgio Napolitano fa (ottimamente) il suo mestiere di capo dello Stato e ricorda che «nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare». Il riferimento, puramente voluto, è al capo del governo che drammatizzando l’ora presente ha detto «vogliono farmi cadere» e per essere ancora più chiaro si è rivolto ai deputati del Pdl dicendo «chi non ne accetta la linea politica è fuori dal partito». Siamo tutti con il presidente Napolitano ma - questo è il punto - stanno con Napolitano anche coloro che in concreto non ci possono stare perché la forza della loro posizione politica dipende proprio da questo bipolarismo.

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IL PARERE DI CAPOTOSTI

IL FUTURO DEL CO-FONDATORE

L’Alta Corte indiana accoglie il ricorso dei mendicanti contro il governo di Delhi che ne aveva ordinato la deportazione: «Elemosinare fa parte della nostra cultura. Lo ha insegnato il Mahatma»

«Tutti recuperino Già, «che cosa il senso dello Stato» vuole Fini?» di Riccardo Paradisi

di Francesco Capozza

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

ROMA. «Le parole del presidente Na- ROMA. «Ma che vuole Fini?», ha politano sono ineccepibili: certi conflitti sono devastanti e tutti devono recuperare un po’ di senso dello Stato»: il presidente emerito della Consulta, Piero Alberto Capotosti, analizza i pericoli istituzionali della “guerra civile” evocata dal premier per sostenere il suo attacco alla magistratura.

chiesto Berlusconi. Il tono della domanda non è interrogativo: non vuole soddisfare una curiosità, il suo è un ultimatum. Il richiamo alla disciplina di partito punta diritto a colui che aveva messo in guardia dal «rischio della caserma». Ma Fini non ha ancora deciso che cosa farà da grande.

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segue a pagina 2

La rivolta (vincente) dei clochard indù

In vista dei Giochi del Commonwealth del 2010, le autorità indiane avevano allontanato i mendicanti. Ma l’Alta Corte ha sconfessato il governo di Delhi: «Elemosinare fa parte della nostra cultura». a pagina 12

Dopo una partenza in forte ribasso, le Borse europee assorbono il colpo

La paura per il ciclone Dubai Le nostre Banche rassicurano: «Lì non facciamo affari» I limiti dell’economia degli Stati arabi

di Alessandro D’Amato

Quando il petrolio (da solo) non basta

ROMA. «L’esposizione è molto contenuta». «Faremo degli approfondimenti, ma per ora c’è serenità assoluta». Tocca rispettivamente a Fabrizio Saccomanni, direttore della Banca d’Italia, e Lamberto Cardia, presidente della Consob, gettare acqua sul fuoco del panico della Borsa, dove il crack di Dubai sta facendo molte vittime. E siccome sembrava non bastare, anche Giovanni Sabatini, direttore generale dell’Abi, dice la sua: «Allo stato non emergono elementi di preoccupazione». a pagina 8

di Antonio Picasso

ROMA. La dichiarata insolvenza del Fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti è l’ultima dimostrazione della debolezza economica di tutti i Paesi arabi produttori di petrolio: Arabia Saudita, Barhein, Kuwait, Oman, Qatar e appunto gli Emirati. Le rispettive Borse locali erano già state sconvolte dalla crisi dello scorso anno. a pagina 9 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

236 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Attenti, Erdogan è peggio di bin Laden L’islamismo brutale di al Qaeda (1.0) semina morte ma è destinato alla sconfitta. Invece quello soft dei finti moderati (2.0) rappresenta un pericolo più insidioso per il futuro della civiltà occidentale di Daniel Pipes Prendendo in prestito un termine informatico, se l’Ayatollah Khomeini, Osama bin Laden e Nidal Hasan rappresentano l’islamismo 1.0,Tayyip Erdogan (il primo ministro turco), Tariq Ramadan e Keith Ellison rappresentano l’islamismo 2.0 a pagina 16

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Ultimatum/1. La «guerra civile» evocata da Berlusconi a proposito della sfida con i Pm provoca la forte reazione del Colle

La tregua del presidente

Appello di Napolitano contro la «spirale di polemiche tra istituzioni». I giudici: «Non siamo in conflitto, ma non vogliamo essere attaccati» di Osvaldo Baldacci

ROMA. Forse si sarà chiesto dove ha sbagliato. Sorpreso che per un momento tutti abbiano condiviso le sue parole. Unanime infatti è stato il consenso intorno al solenne monito del presidente della Repubblica. Qualche silenzio, certo, e soprattutto l’evidente abitudine di scegliere ciascuno la parte di proprio interesse da mettere in evidenza. E poi bisogna vedere se alle parole seguiranno i fatti. Ma intanto il forte e saggio richiamo del presidente ha la-

«L’interesse del paese - che deve affrontare seri e complessi problemi di ordine economico e sociale - richiede che si fermi la spirale di una crescente drammatizzazione, cui si sta assistendo, delle polemiche e delle tensioni non solo tra opposte parti politiche ma tra istituzioni investite di distinte responsabilità costituzionali. Va ribadito che nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla

Il leader della Lega Umberto Bossi è stato tra i primi a sottoscrivere il messaggio del presidente, e lo ha fatto non attaccando i magistrati ma cercando di coinvolgere tutti nella responsabilità: «Bisogna stare tranquilli» sciato il segno. E ha colpito in particolare il fatto che si sia sottolineato come non si possa far cadere il governo con elementi esterni al Parlamento.

Giorgio Napolitano ieri ha ritenuto necessario intervenire per tirare le orecchie a tutti a causa della ulteriore degenerazione del clima nel mondo politico. Con in testa soprattutto lo scontro sempre più frontale e violento tra il governo e la magistratura. Ora che i duellanti sembrano essersi tolti i guanti, il capo dello Stato ha ritenuto opportuno ricordare non solo le regole del match, ma addirittura far presente che questo match non dovrebbe esistere, e che esistono campi e ruoli ben distinti per le diverse istituzioni. Per chiarire questo, con quello che è stato interpretato come un richiamo forse più ai magistrati che ai politici, ma che in realtà punta a ristabilire soprattutto le regole generali del funzionamento democratico e in questo modo si appella alla responsabilità di tutti, Napolitano ha addirittura voluto leggere una dichiarazione scritta, aspetto che sottolinea l’importanza e la delicatezza del monito, e fa anche intravedere il lavoro di limatura che deve essere stato fatto sul testo. Al termine dell’udienza al Quirinale con l’Associazione nazionale dei mutilati ed invalidi del lavoro, Napolitano ha chiamato i giornalisti per leggere una dichiarazione ufficiale:

coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare. È indispensabile che da tutte le parti venga uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche, e che quanti appartengono alla istituzione preposta all’esercizio della giurisdizione, si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione. E spetta al Parlamento esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volte

L’interesse del Paese ora è fermare il conflitto tra i poteri

Con il Quirinale, contro la guerra di Giancristiano Desiderio segue dalla prima Un bipolarismo fondato sul principio della «guerra civile mentale permanente». Può non piacere, ma la realtà dei fatti è questa. Almeno, questa è la realtà dei fatti rappresentata politicamente all’interno delle istituzioni, mentre il Paese ha bisogna di essere pacificato con se stesso e con lo Stato. Se ascoltiamo ancora una volta le parole del Quirinale ci rendiamo conto che la parola chiave del suo discorso è“drammatizzazione”: «L’interesse del Paese, che deve affrontare seri e complessi problemi di ordine economico e sociale - ha detto Napolitano - richiede che si fermi la spirale di una crescente drammatizzazione, cui si sta assistendo, delle polemiche e delle tensioni non solo tra opposte parti politiche ma tra istituzioni investite di distinte responsabilità costituzionali». È proprio questo il tasto dolente: la «crescente drammatizzazione» non è un elemento estraneo al bipolarismo all’italiana, ne è invece il presupposto. Non è un caso che a far crescere il dramma nazionale e istituzionale sia proprio il presidente del Consiglio che - particolare tutt’altro che secondario - gioca la carta del nervi tesi non tanto nei confronti dell’opposizione, quanto nei riguardi del “nemico interno” e, infatti, aggiunge che chi non concorda con la linea del Pdl è fuori dal Pdl. Berlusconi alimenta il mito del nemico esterno - i magistrati, che pure hanno le loro responsabilità e colpe, non c’è dubbio - per giustificare la eventuale fine anzitempo del governo e della legislatura e contemporaneamente per nascondere il fatto che se un governo cade è perché è venuta meno la sua maggioranza.

La drammatizzazione berlusconiana è una cortina di fumo per nascondere questa elementare verità: si cade quando non si ha più la maggioranza. Il Pdl, che ha vinto le elezioni, non è più in grado di sorreggere il suo governo tanto che il suo leader deve ricorrere ad una sorta di militarizzazione delle coscienze parlamentari? Ecco, questo è il problema che ha davanti a sé il Pdl e quel che resta al suo interno di Alleanza nazionale. Il bipolarismo all’italiana è quello strano sistema istituzionale in cui il capo del governo utilizza la minaccia dello scioglimento anticipato delle Camere (che non è un suo potere) non per affermare le virtù della democrazia dell’alternanza e comunque per agevolarne l’affermazione, bensì per bloccare il passaggio dal bipolarismo armato al bipolarismo mite. Sono sedici anni, ormai, che ci divincoliamo tutti in questa camicia di Nesso e, anno dopo anno, per tutti arriva la stagione in cui le illusioni cadono come i frutti troppo maturi che non sono stati colti quando erano buoni. In fondo, Silvio Berlusconi è oggi semplicemente un frutto troppo maturo. E, purtroppo, lo è diventato per colpa sua. Proprio lui che vanta una particolare sensibilità nel tastare il polso dell’Italia dovrebbe aver colto che oggi gli italiani vogliono pace sociale e hanno bisogno di una pace istituzionale per uscire dal tunnel del bipolarismo armato che è diventato esso stesso un elemento di aggravio della crisi sociale.

a definire corretti equilibri tra politica e giustizia». Parole forti, dense, che chiaramente rispondono alle tensioni di questi giorni in cui l’ipotesi di nuovi provvedimenti giudiziari nei confronti di Berlusconi e dei suoi, tali da poter destabilizzare la maggioranza, ha determinato un ulteriore inasprimento di toni da parte dei leader della maggioranza. Giovedì Berlusconi alla riunione dell’ufficio di presidenza del Pdl aveva tracciato un quadro da “guerra civile”: la magistratura vuole rovesciare il governo, per cui occorre serrare le fila e stare o con il premier o contro di lui. La durissima chiamata alle armi del Cavaliere ha subito trovato echi in alcune frange della magistratura, spintesi addirittura a chiedere l’acquisizione delle dichiarazioni. A quel punto l’una parte e l’altra hanno chiesto l’intervento del Capo dello Stato.

E da Napolitano è arrivato quell’appello fortissimo a evitare una ulteriore drammatizzazione delle tensioni, non solo tra partiti politici, ma tra istituzioni con poteri diversi. O, per meglio dire, a rispettare il potere della politica da parte di una magistratura che esercita una “funzione”, non un potere. Facile quindi per gli esponenti del centrodestra apprezzare quella che sembra una tirata di orecchi all’interventismo di certi magistrati. Non a caso subito sono arrivati numerosi commenti positivi alle parole del presidente, da Schifani ad Alfano a Cicchitto a Nania a Gasparri. Anche il presidente della Camera Gianfranco Fini ha espresso “piena condivisione” per le parole di Napolitano, senza dimenticare di sottolineare però che il discorso del Capo dello Stato «va letto e apprezzato nella sua totalità». Anche il leader della Lega Bossi è stato tra i primi a sottoscrivere il messaggio del presidente, e lo ha fatto non attaccando i magistrati ma coinvolgendo tutti nella responsabilità: «Condivido l’appello di Napolitano. Bisogna stare un po’ tranquilli». Analogo consenso si registra nel centro sinistra, dalla Bindi a Franceschini alla Finocchiaro.


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Il conflitto istituzionale secondo il presidente emerito della Consulta

«Tutti recuperino il senso dello Stato»

Piero Alberto Capotosti: «Il Quirinale è ineccepibile, ma non credo ci sia persecuzione contro il premier» di Francesco Capozza

ROMA. L’eccesso di enfasi nelle dichiarazio-

Per Bersani le dichiarazioni del Colle sono «un richiamo forte ed energico al quale tutti devono corrispondere. In particolare - ha dichiarato da ogni passaggio delle parole del presidente, emerge ancora una volta la centralità del Parlamento» Per Bersani le dichiarazioni del presidente sono «un richiamo forte ed energico al quale tutti devono corrispondere. In particolare - dice Bersani - da ogni passaggio delle parole del presidente, emerge ancora una volta la centralità del Parlamento». Totale identificazione col messaggio di Napolitano viene dall’Udc, che da sempre è su questa linea. Qualche distinguo invece da Di Pietro, che però ha specificato – stavolta – di non voler polemizzare con Napolitano, ma solo di voler far notare come in questo Parlamento ci siano troppi con conti aperti con la giustizia per poter affidare loro le decisioni sulla magistratura. E a metà pomeriggio di ieri è arrivata anche la dichiarazione-risposta della stessa magistratura: «Noi non siamo in guerra con nessuno, però chiediamo di non essere aggrediti». Lo ha affermato il presidente dell’Anm Palamara, al termine di un incontro che ha avuto, insieme al segretario del sindacato delle toghe Cascini,

con Gianfranco Fini. «Non abbiamo mai condiviso la tendenza di molti a sezionare le dichiarazioni del Capo dello Stato e a prendere solo ciò che piace. Gli interventi del presidente si leggono per intero».

Va comunque sottolineato che se forte è il richiamo di Napolitano al rispetto dei ruoli nei confronti di certa magistratura, altrettanto forte è l’appello ai politici ad abbassare i toni e a ricercare soluzioni parlamentari e condivise che risolvano le questioni aperte sulle regole democratiche e sul corretto rapporto tra politica e giustizia. Anche l’aperta difesa del governo - in quanto istituzione da attacchi esterni non manca di fare esplicito e insistito riferimento al fatto che è il Parlamento a dare la fiducia al governo e non il contrario. Il governo - ha ribadito ilpresidente - ha diritto di andare avanti. Finché poggia sulla coesione della propria maggioranza in Parlamento.

ni pubbliche non fa bene alle istituzioni, soprattutto se i toni accesi rischiano di creare fratture e tensioni. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, coglie l’occasione di un’udienza in Quirinale per convocare i giornalisti per una comunicazione urgente. «Scusate, vi ringrazio della vostra disponibilità - ha esordito il presidente - sento il bisogno di dire qualcosa in questo particolare momento». E il qualcosa è una dichiarazione di pochi minuti che chiama in causa la necessità di rasserenare gli animi, all’indomani di dichiarazioni che, da più parti, sono state sintetizzate come una sorta di «guerra civile». Ne approfittiamo per parlare di conflitti istituzionali con Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte Costituzionale. Presidente Capotosti, lei crede in quest’ipotesi di “guerra civile” tra istituzioni? Mi augurerei vivamente che quest’ipotesi venisse smentita dai fatti, e cioè che si abbassassero i toni della dialettica politica. Tuttavia non ravviso i termini di una situazione così drammatica come questo termine, “guerra civile”, tende ad evocare. «L’interesse del Paese, che deve affrontare seri e complessi problemi di ordine economico e sociale - ha detto Napolitano - richiede che si fermi la spirale di una crescente drammatizzazione, cui si sta assistendo, delle polemiche e delle tensioni non solo tra opposte parti politiche ma tra istituzioni investite di distinte responsabilità costituzionali». In poche parole il presidente dice ”ognuno al proprio posto”? C’è solo da ringraziare il capo dello Stato per queste parole, così misurate e così condivisibili. Bisogna stare attenti alla drammatizzazione che troppo spesso, in un paese come il nostro, rischiano di sfociare in una spettacolarizzazione. La polemica, lo sappiamo bene, quando raggiunge certe punte rischia di essere ancora più esaltata dalla televisione. Per quanto riguarda la sua domanda, il richiamo del presidente della Repubblica può tranquillamente essere inteso come un invito ad ognuno a rimanere nei ranghi della posizione che la Costituzione assegna alle istituzioni.

«Va ribadito - ha aggiunto ancora il presidente della Repubblica - che nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare». Dal punto di vista costituzionale non fa una piega, ma lei non pensa che se Berlusconi fosse condannato sarebbe difficile per lui rimanere in sella e non dimettersi? Dal punto di vista costituzionale è ineccepibile quello che ha affermato il presidente Napolitano. Non è pensabile l’ipotesi di un esecutivo sovvertito da una condanna per via giudiziaria. Per quanto riguarda invece l’ipotesi di dimissioni spontanee - le uniche possibili fin quando la maggioranza parlamentare è solida - beh, quelle stanno al senso dello Stato del presidente del Consiglio. Personalmente, non credo che ci sia alcun fumus persecutionis, così come evocato, nei confronti del premier. Quanto agli eccessi nei toni delle esternazioni dei diversi soggetti istituzionali, il capo dello Stato ha evidenziato che «è indispensabile che da tutte le parti venga uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche, e che quanti appartengono alla istituzione preposta all’esercizio della giurisdizione, si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione. E spetta al Parlamento esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia». Una giusta tirata d’orecchie anche a certa magistratura secondo lei? Una giustissima tirata d’orecchie. Personalmente non ho seguito la polemica a tal punto da ricordare recenti esternazioni particolarmente gravi di magistrati o giudici, ma il richiamo di Napolitano è sacrosanto. In particolare credo si riferisse all’Associazione nazionale magistrati i cui messaggi, spesso, sono sopra le righe. Vede, è proprio questo il punto: i magistrati dovrebbero svolgere il loro lavoro serenamente e senza il fiato mediatico e politico sul collo, ma anche loro non dovrebbero abbandonarsi ad una vis polemica inutile. Affinché venga loro garantita indipendenza e autonomia è necessario che non si lascino prendere dalla voglia di ribalta mediatica.

Non è pensabile l’ipotesi di un esecutivo sovvertito da una condanna. Ma talvolta a certi magistrati è scappata qualche parola di troppo


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Ultimatum/2. «O con me o contro di me», gli intima Berlusconi. Ora il presidente della Camera deve decidere

Già, «cosa vuole Fini?»

Il premier lo chiede in modo polemico, ma il problema esiste. Ecco gli scenari che l’ex leader di An può scegliere per il suo futuro di Riccardo Paradisi a che vuole Fini?». Chiede Silvio Berlusconi durante l’ufficio di presidenza del partito a quelli che, parole del Cavaliere, «hanno il piacere di parlare spesso con il ”presidente”». Il tono della domanda non è interrogativo, Berlusconi non vuole soddisfare una curiosità, il suo è un ultimatum. Il richiamo alla disciplina di partito punta diritto a colui che poco tempo fa aveva messo in guardia dal «rischio della caserma». Certo, il vicecapogruppo dei deputati Pdl Italo Bocchino sostiene che l’intimazione di Berlusconi – «chi non si adegua alla linea è fuori dal partito» – pronunciato giovedì sera non è da riferire a Gianfranco Fini. Versione ribadita anche dal portavoce del governo Paolo Bonaiuti. Se così fosse non si capisce allora il motivo per cui il presidente della Camera abbia reagito con gelida stizza al diktat: «Alla faccia del popolo della libertà – avrebbe esclamato Fini, aggiungendo – io comunque vado avanti». Andare avanti significa continuare ad agire in difformità dalla linea. Già, ma questo lascia senza risposta la domanda ultimativa di Berlusconi: «Che vuole Fini?». Inutile attendere una risposta programmatica del presidente della Camera. Però è possibile fare delle ipotesi. Due ipotesi, anzi tre.

«M

La prima ipotesi: Fini vuole semplicemente resistere sulle sue posizioni confidando nel vincolo della coabitazione forzata. Continuare cioè a muoversi in modo autonomo in attesa

di ereditare la guida del Pdl. In questo caso il ritmo sussultorio con cui fibrilla la maggioranza resterà invariato, con i finiani che continueranno a reclamare libertà di coscienza dopo le loro sortite e con i berlusconiani che ricorderanno loro che in guerra non si ammettono defezioni, soprattutto se su queste defezioni pesa il sospetto dell’intelligenza col nemico.

La seconda ipotesi è che Fini si decida finalmente a rompere con Berlusconi. Chi gli è vicino

cui portare a sintesi, assieme al Centro di Casini e di Rutelli, le culture politiche di un’area liberale e riformista, nella prospettiva di un partito della nazione. Magari dopo aver riportando in vita Alleanza nazionale, un partito in sonno che ha mezzi, patrimonio immobiliare solido e un giornale sovvenzionato. Una mossa che però Fini dovrebbe fare subito, perché se è vero che nel suo confronto con Berlusconi il tempo lavora contro il Cavaliere le accelerazioni dello scontro lavorano contro

Quando Fini aderisce al Pdl, dopo la caduta di Prodi, dice: «Non è il partito del predellino». Chissà se ha capito che invece è proprio quello sostiene che in questi mesi il presidente della Camera ha pensato più di una volta a questa possibilità, lasciandosi anche sfuggire un pentimento per la fusione nel Pdl di An. Il contesto di questi giorni presenta analogie stringenti con quelli che precedettero “l’alzamiento” del predellino di Piazza san Babila, «le comiche finali» le definì Fini, prima di aderire al partito unitario. Ma rompere per fare che cosa? Per fare quello che nei giorni della minaccia di elezioni anticipate, non più di una settimana fa, si era presentata come una possibilità e una tentazione agli occhi di Fini, ossia l’apertura di un cantiere dei moderati dentro

Fini. Un conto insomma sarebbe rompere con il Cavaliere da una posizione di forza un conto solo se costretto da azioni estreme come quelle delle elezioni anticipate, agitate da Berlusconi per esplorare le reazioni e la capacità di tenuta del fronte finiano. Tenuta che c’è stata. Fini è uscito dalla stretta senza concedere a Berlusconi niente di ulteriore al provvedimento sul processo breve su cui il premier e il presidente della Camera avevano siglato un accordo. «Non gliene ho fatta passare una» dirà Fini a un gruppo di suoi qualche giorno dopo l’infuocata riunione di Montecitorio. Ma aggiudicarsi una battaglia non significa vincere la

Parla Carmelo Briguglio

«Gianfranco è una vittima, come Sturzo e Gramsci» di Franco Insardà

guerra. La guerra continua. Come altro interpretare l’accendersi improvviso del motore centrale del partito berlusconiano, la fretta con cui s’annuncia l’imminente apertura degli organismi interni, dove si conteranno amici e nemici, dove si traccerà la linea? Come intendere l’apertura del tesseramento se non come il richiamo all’adunata bellica prima dello scontro decisivo coi nemici di dentro e di fuori? Una stretta ancora più dura per Fini considerando che anche l’ultimo dei suoi ex colonnelli Altero Matteoli, ha smesso di fare il pontiere per acquartierarsi nel campo berlusconiano. Insomma il presidente della Camera appare accerchiato anche se difeso dalle mura della cittadella istituzionale e da una pattuglia nutrita di fedelissimi (fino in fondo?): una cinquantina di deputati e una ventina di senatori, alcuni personaggi in ruoli chiave come authority e commissioni, una fondazione mediaticamente vivace, un quotidiano piccolo ma incursore che ha stabilito un’abitudine all’endorsement con l’opposizione: «Temo che nel Pdl abbiano in mente un centralismo democratico stile anni ’50» diceva ieri al quotidiano finiano il Ds Gavino Angius in un’intervista molto “simpatizzante” Su questa linea difensiva Fini dà l’impressione di voler restare lasciando lavorare il tempo a suo favore, forse attendendo le sorprese clamorose che potreb-

ROMA. «A menti raffinate e capaci di analisi storico-politiche, che nel Pdl pure ci sono - penso a Bondi, Cicchitto o anche Quagliarello - pongo un quesito: il centrodestra italiano in nome di un berlusconismo più realista del re vuole riservare a Gianfranco Fini il destino che fu proprio di Luigi Sturzo e Antonio Gramsci?». È iniziata così la giornata del finiano Carmelo Briguglio, vicepresidente dei deputati del Pdl, che è intervenuto nel dibattito aperto dopo l’avvertimento di Silvio Berlusconi indirizzato a Fini e ai suoi fedelissimi. Onorevole Briguglio, Fini come

be riservare la cronaca politica giudiziaria dei prossimi giorni.

E siamo alla terza ipotesi del nostro ragionamento. Forse che Fini attende l’atteso provvedimento giudiziario contro il premier per agire da protagonista dentro una crisi istituzionale e a un’eventuale governo di transizione? In questo caso, come scriveva ieri il direttore del Riformista Antonio Polito, Fini potrebbe dare un avallo istituzionale, anche se non potrebbe essere l’uomo che traghetta il centrodestra fuori dal berlusconismo. «Non dopo averlo combattuto con tanta determinazione mettendosene già praticamente fuori». Una fotografia che dimostra quale sia ormai la qualità del rapporto politico e personale tra Fini e Berlusconi. Anche se a ben guardare e riavvolgendo la pellicola della storia di questa alleanza la qualità del rapporto non è mai stata migliore. È almeno del 2003 che Fini chiede cabine di regia e verifiche programmatiche a Berlusconi, che minaccia rotture definitive: «Non esiste alcuna possibilità che An si sciolga e confluisca nel nuovo partito di Berlusconi» arriva dire dopo il Predellino. Qualche mese dopo Prodi non è più premier e Fini aderisce al nuovo partito unitario. Ma chiarisce «Non è il partito del predellino». Chissà se ha capito che invece è proprio quello.

Sturzo e Gramsci? Ho chiarito subito, per evitare fraintendimenti, che occorre fare le debite proporzioni di epoche e di figure, ma le lezioni della nostra storia nazionale servono soprattutto in fasi critiche come questa. Certo la situazione è complicata per Fini. Non soltanto per Fini, ma anche per Berlusconi. Nessuno, però, vuole arrivare a una rottura, non conviene. La vicenda principale è la giustizia. È inutile negarlo. È però innegabile che ci sia un uso politico della giusti-


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A proposito delle riflessioni di Panebianco sulla chiusura di un’epoca

Gianfranco Fini è stato oggetto di un nuovo ultimatum da parte di Berlusconi. A destra, Angelo Panebianco. Nella pagina a fianco, Carmelo Briguglio

Stacchiamo la spina al ”bipolarismo armato”

L’accanimento terapeutico in un clima da basso impero può solo far precipitare il clima generale nel Paese di Enrico Cisnetto on c’è niente da fare. Al mio amico Angelo Panebianco questa storia che il bipolarismo all’italiana è morto proprio non va giù. Certo, rispetto a un passato anche recente, in cui l’editorialista del Corriere della Sera si sforzava di dimostrare che, pur con tutti i suoi difetti, il sistema politico con cui si identifica la Seconda Repubblica era vivo e vegeto, tanto da essere preferito a ciò che lo aveva preceduto, adesso che definisce “al tramonto” il bipolarismo ha già compiuto un bel passo Così avanti. come affermare (finalmente) che il bipolarismo italico ha il difetto di essere stato costruito intorno alla figura di Silvio Berlusconi (ma se fosse stato un’altra persona sarebbe stato lo stesso, sia chiaro), padrone di un polo e unico collante dell’altro, contribuisce a chiarire le tare congenite della Seconda Repubblica.

N

Ma oltre a continuare a minimizzare – altro che tramonto: qui siamo allo zombie, il morto che cammina – Panebianco versa lacrime sulla crisi del si-

zia da parte di una piccola minoranza della magistratura che va neutralizzata. È necessario dotare il presidente del Consiglio e le alte cariche dello Stato di uno strumento per difendersi dagli attacchi di giudici ideologizzati. Sulla questione la posizione di Fini è la più corretta, avendo dato la sua disponibilità all’approvazione del processo breve nel cammino parlamentare. Anche ieri Fini ha dichiarato di condividere il messaggio del presidente Napolitano sui rapporti tra politica e magistratura. Il discorso in questo caso è più gene-

stema bipolare, che lui non avrebbe disdegnato diventasse bipartitico, e di conseguenza pronostica un’infausta stagione di instabilità prossima ventura. E qui proprio non ci siamo.

Ora, che Panebianco conosca tutti i difetti dell’attuale sistema non c’è dubbio, anche perché svolge sul Corriere una preziosa opera di critica sulle sue tante note dolens. E sappiamo bene che egli rivolge le sue attenzioni positive non tanto al bipolarismo realizzato in Italia, quanto al modello teorico in sé.Tuttavia, continuare a sottolineare che l’attuale sistema ha prodotto alternanza di governo – che la Prima Repubblica non aveva, è vero, ma il professor Panebianco sa bene che era il “fattore K” (la presenza in un paese di frontiera come l’Italia del più grande partito comunista occidentale) a impedirlo – che considera un valore in sé. Io, invece, penso, che un sistema politico non vado giudicato sulla carta, ma per il tasso reale di governo, anzi di buon governo, che riesce ad esprimere. E se lo si esamina sotto questo punto di vista, il bipolarismo armato che abbiamo costruito, avendo prodotto il declino strutturale del paese, non solo non può prendere un buon voto, ma neppure meritarsi una stiracchiata sufficienza. E la responsabilità va certo ai politici che questo sistema hanno costruito, ma anche agli intellettuali che lo hanno impropriamente benedetto, dandogli aureole che non meritava. Diciamocelo con franchezza: a furia di teorizzare le virtù teoriche del maggioritario, e di supporre che l’Italia fosse la Gran Bretagna, si è legittimato un sistema bacato che di quelle insegne e parole d’ordine si è furbescamente impossessato. Io che del maggioritario e del bipolarismo non mi sono fidato fin dal referendum Segni, non posso che guardare con soddisfazione al fatto che un insigne politologo come Panebianco sia arrivato – tre lustri dopo – a prendere atto che il sistema non ha funzionato come avrebbe dovuto. Temo,

rale sulla riforma della giustizia e riguarda sia il suo ruolo istituzionale sia quello politico. Paolo Bonaiuti ha dichiarato che chi è in dissenso dovrà adeguarsi alla maggioranza. Siamo d’accordo. Bisogna però chiarire che le decisioni non vanno prese all’interno dell’ufficio di presidenza. Occorre un confronto di tutte le posizioni nella direzione nazionale, che è l’organo che indica la linea politica, e nei gruppi parlamentari prima di arrivare al voto. A quel punto la decisione della maggioranza sarà condivisa da tutti, salvi i casi di coscienza come il

biotestamento, e ci si adeguerà. E allora qual è il problema? La maggioranza e la minoranza nel Pdl non si sono ancora formate. Non c’è stato il confronto all’interno del partito. Secondo Amedeo Laboccetta i veri amici di Fini sono quelli che non cercano a tutti i costi la visibilità e che privilegiano la polemica. È così? In un partito grande come il Pdl c’è posto per tutti, anche per le posizioni di Fabio Granata, cui si riferiva Laboccetta, alcune delle quali condivido, mentre da altre dissento. La cosa gra-

però, che la mela di Panebianco resti ugualmente avvelenata, quando presuppone che la fine del sistema produrrà inevitabilmente una forte instabilità. Perché così facendo si finisce con l’agevolare la prosecuzione del sistema, o meglio procrastinare la presa d’atto del decesso. E non è certo interesse del paese che la Seconda Repubblica prolunghi l’agonia, considerato tra l’altro che questa fase vegetativa coincide con un momento storico delicato come la faticosa uscita dalla recessione più grave che ci sia stata dal dopoguerra ad oggi.

Parliamoci chiaro: la Terza Repubblica è ancora tutta da costruire, e nessuna polizza ci può assicurare il suo buon esito. Addirittura, può darsi che, come nel caso della Seconda rispetto alla Prima, ci faccia cascare dalla padella nella brace. Ma la fine del regime bipolare così come lo abbiamo conosciuto in questi maledetti 15 anni ci può consentire di provarci, a uscire dalla palude del declino, mentre prolungarlo ancora – con un infinito “trascinamento”, in un clima da basso impero punteggiato da scandali che fanno rimpiangere quelli di un tempo sulle tangenti – non può che peggiorare le cose. E tra il certo (negativo) e l’incerto, perché non tentare? Magari chiamando uomini del valore di Panebianco a ragionare sul “dopo”: la transizione, la costruzione di un nuovo sistema politico. Io, Panebianco lo sa, sono per una fase di “grande coalizione”che consenta di rimettere mano alla Costituzione, di fare alcune grandi riforme strutturali di natura economica, di far uscire la giustizia dal default in cui precipitata. E sono per adottare il modello tedesco, sia nella legge elettorale che negli assetti istituzionali. Altri – immagino anche lui – saranno per altre scelte. Ma togliamo il tappo e facciamo in modo che il dibattito sul futuro del paese torni a incentrarsi su questo. Con buona pace della Seconda Repubblica. Amen. (www.enricocisnetto.it)

ve è che si vorrebbe imporre un metodo che esclude qualsiasi discussione. Come andrà a finire tra Berlusconi e Fini? Credo che siano linee, condivise da due aree che si riconoscono nei leader, non obbligatoriamente confliggenti all’interno del Pdl che ne ampliano la prospettiva e la capacità di consenso. Al di là delle schermaglie penso che ci sia la consapevolezza che queste posizioni debbano convivere, perché è nell’essenza stessa del Pdl. Sarebbe un gravissimo errore e un vero e proprio fallimento se dovessimo assistere all’implosione del Pdl.


diario

pagina 6 • 28 novembre 2009

Fuoco incrociato. Lo sciopero del 9 dicembre potrebbe riaprire lo scontro tra piloti e azienda dopo mesi di pace sociale

Lo spettro di Aquila selvaggia Riggio (Enac) chiede a Sabelli e Colaninno di evitare l’agitazione ROMA. Davanti al capo dell’operativo di Alitalia, Roberto Germano, Vito Riggio è stato chiaro: «Bisogna lavorare per la pace sociale, scongiurare ogni condizione avversa e ottenere la massima collaborazione del personale». In queste parole – che il presidente Enac ha pronunciato l’altro ieri, in un vertice su Fiumicino – c’è un chiaro riferimento allo sciopero generale del trasporto aereo del 9 dicembre prossimo. Una data che può segnare l’avvio di un’escalation, visto che si accinge a tornare al centro della scena sindacale l’Anpac, storica sigla dei piloti. Il 14 dicembre, infatti, partiranno le elezioni degli organi direttivi dell’Ipa, la nuova sigla dei piloti che sta per nascere proprio su spinta dell’Anpac e della Filt Cgil. Il 9 dicembre difficilmente ci saranno i bivacchi di passeggeri in attesa dei voli, bagagli ammassati sulle piste (se non persi) e tanta, tantissima rabbia per l’assenza di informazioni. Ma il blocco dell’attività, quella sì. È questo va evitato in ogni modo. Ne sono consci anche in Alitalia, dove non piace sentire neanche evocato il nome di “Aquila selvaggia”. Infatti i vertici della compagnia temono che l’agitazione – quasi a mo’di vaso di Pandora – possa riaprire vecchie tensioni, riportare uno stallo nella dialettica tra aziende e impresa. Vanificando quindi tutti i frutti di un duro lavoro, che ha portato allo spacchettamento del fronte sindacale. A quasi un anno di partenza della nuova Alitalia Rocco Sa-

di Francesco Pacifico

gressi fatti sia dalla compagnia di bandiera sia dagli attori del trasporto aereo locale. A quelli di Fiumicino – e in una riunione che è servita anche per far il punto in prospettiva dell’esodo natalizio – Riggio ha prima dato atto del lavoro fatto: all’Alitalia sono stati riconosciuti gli sforzi di aver implementato (anche se con qualche settimana di ritardo) un sistema di tracciazione con codice a barre per seguire i bagagli, per

I vertici della compagnia ieri hanno presentato a Berlusconi un nuovo progetto per rilanciare il Made in Italy su scala globale belli e Roberto Colaninno sono stati bravi nel riportare in attivo i conti. Non si può dire lo stesso per quanto riguarda i rapporti interni. Nell’incontro di giovedì Riggio ha lanciato lo stesso monito alle compagnie di handler di Fiumicino. Qui, ieri, sono seguiti i disagi dovuti alle agitazioni dei lavoratori Flightcare: il prolungarsi di una loro assemblea ha creato fortissimi ritardi alla consegna dei bagagli. E non sono mancati momenti di tensione, che in alcuni casi sono stati sedati da militari della guardia di finanza. Un aumento della tensione sociale potrebbe annullare i pro-

il gestore (l’Adr) un plauso per i varchi dedicati alla compagnia di bandiera e le nuove opere di accesso allo scalo, mentre gli handler hanno dimostrato di aver imparato a collaborare tra loro, a darsi una mano nei momenti del bisogno. Ma finite le carote è arrivato il momento del bastone. Come il presidente dell’Enac avrebbe “consigliato”alle società di smistamento dei bagagli di ampliare i loro organici, così avrebbe chiesto all’Alitalia di evitare lo sciopero del 9. L’unica strada è quella di mostrarsi più conciliante con le sigle sul pacchetto di misure che

Scontro tra Epifani e Bonanni sugli statali

Manovra, regge il rigore ROMA. Giulio Tremonti ha frenato le proposte di spesa della maggioranza. Così negli emendamenti presentanti dal Pdl alla manovra «ci sono», ha spiegato il deputato Gioacchino Alfano, «soldi per ammortizzatori sociali, rifinanziamento del fondo solidarietà nazionale incentivi assicurativi per l’agricoltura, per gli enti no profit il rifinanziamento di una quota pari al 5 per mille dell’imposta sul reddito e altri 100 milioni per il comparto sicurezza». Si cercano risorse aggiuntive per l’università, la ricerca scientifica e i cittadini dell’Abruzzo colpiti dal sisma. Accanto a quello per limitare la cassa integrazione agliu extracomunitari, la Lega ha presentato anche un emendamento per aumentare la Robin tax alle

compagnie che non adeguano tempestivamente il prezzo della benzina.

Intanto si registra un nuovo scontro tra Guglielmo Epifani e Raffaele Bonanni. Motivo del contendere lo sciopero degli statali, pro-

clamato da Corso d’Italia. «Ci sono cose come la crisi che dovrebbero vederci uniti», la stoccata del leader Cgil. «Siete in congresso e ogni giorno dovete dichiarare lo sciopero generale», la replica del segretario Cisl.

dovrebbero accompagnare il trasferimento – cessione del ramo di azienda, dicono alla Magliana – della parte di AirOne relativa agli Airbus 320 all’Alitalia. Qualche settimana fa Sabelli aveva annunciato che, in presenza di un muro contro muro, avrebbe «deciso in maniera unilaterale». Ora deve trattare. Questo trasferimento comporta il passaggio dal perimetro di AirOne a quello di Alitalia di un certo numero di mezzi ed equipaggi. Quanti, non è dato da sapere. Soprattutto riapre vecchie questioni contrattuali e salariali sull’equiparazione tra i dipendenti delle due vecchie compagnie italiane, che non è mai avvenuta. I sindacati chiedono che, nel passaggio, l’integrazione salariale per i piloti ex Toto possa avere impatti anche sul Tfr e a livello pensionistico. Ai piloti di Alitalia si vuole invece trasferire il numero di ferie e riposi di quelli di AirOne (38 contro gli attuali 30 giorni). Se si discute su quale categorie vadano privilegiate negli avvicinamenti, il nodo vero è quello dell’anzianità. Il nuovo vettore difatti non considera più l’anzianità come principale metro per gli avanzamenti di carriera, ma decise gli spostamenti su macchine più potenti in base ai criteri meritocratici. Ma secondo i sindacati non sono mai stati resi noti.

Le sigle chiedono un equiparazione e di riaprire le trattative sull’istituzione di una Cig a rotazione per gli 800 piloti non in attività. L’azienda ha fatto le prime timide aperture ieri in una riunione con i vertici di Cgil, Cisl, Uil e Ugl. Tutto pur di scongiurare lo sciopero. Claudio Genovesi, segretario del trasporto aereo Filt Cisl, racconta: «L’azienda si è mostrata attenta sui riposi e sui trasferimenti. Ci hanno promesso una risposta entro l’inizio della prossima settimana». è L’importante non disturbare il manovratore. O i risanatori. In questo clima ieri Colaninno e Sabelli hanno presentato ieri a Silvio Berlusconi un piano per usare il marchio italiano come veicolo del Made in Italy. Cosa difficile se salta la pace sociale.


diario

28 novembre 2009 • pagina 7

Le reazioni stizzite della deputata Pdl e del leader di Forza Nuova

La proposta leghista di modifica al codice della strada

Video hard, Mussolini: Non so se ridere o arrabbiarmi

Divieto di fumo con multa di 250 euro per chi guida

ROMA. Alessandra Mussolini

ROMA. La piccola San Marino

coinvolta in un ricatto per un video hard. La notizia è apparsa ieri in prima pagina sul Giornale di Feltri: si tratterebbe di un filmino a luci rosse che ritrarrebbe la deputata del Popolo della Libertà insieme con Roberto Fiore, il leader di Forza Nuova. Il “caso” ha subito scatenato le reazioni della nipote del Duce che sul quotidiano online Affaritaliani.it, senza mezzi termini, ha replicato porprio così: «Non so se incazzarmi o ridere». Poi, la puntualizzazione: «Allora: vendono su Ebay i frammenti di cervello di mio nonno; tre giorni fa ho ricevuto una chiamata dalla Polizia che mi informava del fatto che Gino Paoli mi ha denunciato per ciò che dissi sulla canzone Il Pettirosso. Io eccepii sul fatto che questo brano trattasse di pedofilia, un messaggio grave. Oggi poi uscirà un film dove mi si dà della puttana e dell’assassina e ora leggo queste cose... Che cosa devo dire? Non lo so più. Sono incerta tra l’incazzatura e il metterrmi a ridere. Perché? Ormai facessero quello che vogliono...».

ha dribblato l’Italia nella corsa al divieto di fumo per chi è al volante. Per evitare la distrazione delle sigarette, già dal marzo 2008 ai sammarinesi è vietato fumare alla guida. Il nostro Paese va verso il divieto a grosse falcate (250 euro di multa), visto che l’emendamento, targato Lega alla riforma del Codice della strada, sembra raccogliere un ampio consenso fra maggioranza e opposizione senza alcuna differenza. L’idea è del senatore leghista Piergiorgio Stiffoni: «La sigaretta riduce il livello di attenzione. E al volante questo può uccidere». «Con i finestrini chiusi - dice ancora Stiffoni - la macchina diventa una camera a gas. Almeno i più piccoli vanno protetti». L’emenda-

Sulla questione ha voluto esprimersi anche Forza Nuova: «Siamo alle comiche finali, alle barzellette e per fortuna non ci manca il senso dell’humor. È risibile che una non notizia proveniente da una fonte anonima comparsa su di un sito inattendibile come Indymedia conquisti la

Il Vaticano attacca il Natale leghista E il Carroccio: «Niente cassa integrazione agli stranieri» di Guglielmo Malagodi

ROMA. La questione-immigrati torna per l’ennesima volta sotto i riflettori del dibattito politico italiano. Se da una parte è stato diffuso il testo che Benedetto XVI invierà alla Giornata del Migrante e del Rifugiato prevista per il 17 gennaio prossimo, un documento in cui il Papa sottolinea come il migrante sia «una persona umana con diritti fondamentali inalienabili da rispettare sempre e da tutti»; dall’altra prosegue l’intemerata della Lega, che ieri pomeriggio, in un emendamento alla Finanziaria presentato in commissione Bilancio alla Camera (a firma del deputato del Carroccio e capogruppo in commissione Finanze Maurizio Fugatti), ha chiesto un limite a «qualsiasi trattamento di sostegno al reddito» per i cittadini extracomunitari che lavorano in Italia. «Per i lavoratori residenti - si legge nel testo dell’emendamento - sul territorio nazionale non cittadini italiani ovvero comunitari destinatari di qualsiasi trattamento di sostegno al reddito, ai sensi della legislazione vigente in materia di ammortizzatori sociali, la durata del beneficio non può essere per l’anno 2010 superiore a sei mesi». «Se non c’è lavoro per gli italiani non c’è per nessuno ha spiegato Fugatti. - Le risorse sono quelle che sono e prima dobbiamo pensare agli italiani». Nulla a che vedere insomma con il messaggio che il Vaticano ha diffuso ieri proprio sull’importanza di prendersi cura dei migranti e dei rifugiati minorenni. Proprio ai minori, infatti, quest’anno sarà dedicata la giornata. «Auspico di cuore che si riservi la giusta attenzione ai migranti minorenni, bisognosi di un ambiente sociale che consenta e favorisca il loro sviluppo fisico, culturale, spirituale e morale», ha detto il Papa. Mentre il presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale dei migranti, monsignor Antonio Maria Veglio, ha ricordato che molto spesso i diritti dei più piccoli non vengono rispettati. Uno su tutti, quello per cui un «minore non accompagnato non può essere rimpatriato»: a stabilirlo, sono norme internazionali. Dunque, la Giornata del Migrante 2010 sarà dedicata pro-

prio a loro, i bambini, con il titolo «I migranti e i rifugiati minorenni». Si tratta, ha spiegato il Pontefice, di «un aspetto che i cristiani valutano con grande attenzione, memori del monito di Cristo, il quale nel giudizio finale considererà riferito a Lui stesso tutto ciò che è stato fatto o negato ai più piccoli. E - ha chiesto Papa Ratzinger - come non considerare tra i più piccoli anche i minori migranti e rifugiati? Gesù stesso - ha proseguito ha vissuto da bambino l’esperienza del migrante perchè, come narra il Vangelo, per sfuggire alle minacce di Erode dovette rifugiarsi in Egitto insieme a Giuseppe e Maria». In questo contesto, il Vaticano ha espresso «tristezza e dolore» per la cosiddetta operazione ”White Christmas”con cui l’amministrazione leghista di Coccaglio (nel bresciano) ha deciso di espellere gli extracomunitari prima dell’arrivo del Natale. «Il Bianco Natale è una canzone sulla neve, è molto triste quel che si legge», ha affermato mons.Antonio MariaVegliò, presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale di migranti e degli itineranti. «È una vicenda dolorosa», ha aggiunto monsignor Agostino Marchetto, segretario del dicastero: «Il Natale celebra il mistero dell’annunciazione alla Vergine e chiama all’accoglienza di Gesù bambino. Anche Lui, come ha detto il Papa nel suo messaggio, era un rifugiato in Egitto».

Presentando il messaggio per la giornata del rifugiato, la Santa Sede si rammarica per il ”White Christmas” di Coccaglio

cronaca nazionale. Nella storiella riportata si parla di un filmato partito dal circuito di telecamere della sede di Forza Nuova quando è noto che in nessuna nostra sede vi è un circito di telecamere. Si legge poi che un fantomatico fimato sarebbe stato comprato dal Giornale, mentre lo stesso Giornale afferma che questo dato è falso. L’ufficio legale della segreteria ha deciso di procedere per danni contro coloro che riporteranno in qualsiasi forma notizie lesive dell’onorabilità politica del segretario nazionale Roberto Fiore che in questi giorni sta lanciando la sua candidatura alle regionali del Lazio».

Gli esponenti del Consiglio Pontificio per la pastorale dei migranti si sono inoltre soffermati sulle ragioni che spesso condannano i minorenni alla clandestinità, come ad esempio «la difficoltà, o talvolta l’impossibilità, di accedere al paese di destinazione desiderato. Ciò spinge - ha spiegato monsignor Vegliò - i minorenni e le famiglie a tentare l’immigrazione irregolare. In questi casi, i genitori pongono tutte le loro speranze nella riuscita del minore che emigra, il quale è pronto a subire ingiustizie, violenze e maltrattamenti pur di ottenere un permesso di soggiorno, forse una formazione scolastica, soprattutto un lavoro per poter aiutare la famiglia».

mento sarà messo ai voti nei prossimi giorni. Ma l’accordo è già stato chiuso. «È un’idea di buon senso e siamo pronti a votarla» dice il pd Marco Filippi. Per il Pdl l’ok è del relatore Angelo Cicolani: «La sigaretta al volante non distrae solo quando l’accendiamo o la spegniamo. Se cade un po’ di cenere, e capita, è facilissimo perdere il controllo. Il divieto aumenterà la sicurezza».

D’accordo anche l’Italia dei valori che sullo stesso tema aveva presentato un suo disegno di legge, e mercoledì ha formalizzato il suo sì con il senatore Gianpiero De Toni. Dopo il voto in commissione dei prossimi giorni si passerà all’Aula, sempre del Senato, per poi tornare alla Camera. Oltre alla minuscola San Marino, lo stop è già realtà ”in Gran Bretagna - spiega all’Adnkronos Salute Enrico Gelpi, presidente dell’Aci, che ha di recente sollecitato una simile misura per ridurre il rischio di incidenti stradali - e in alcune regioni del Canada”, ovvero Ontario, Nuova Scozia e British Columbia. Negli Stati Uniti rischiano la multa fumando al volante gli abitanti di Bangor, città nello Stato del Maine.


economia

pagina 8 • 28 novembre 2009

Giovedì nero. La caduta del colosso asiatico ha implicazioni politiche e finanziarie che coinvolgono pure l’Occidente

Dubai chiama Italia? Il crack, legato a un dissidio con Abu Dhabi, probabilmente lascerà un segno anche da noi di Alessandro D’Amato

ROMA. «L’esposizione è molto contenuta». «Faremo degli approfondimenti, ma per ora c’è serenità assoluta».Tocca rispettivamente a Fabrizio Saccomanni, direttore della Banca d’Italia, e Lamberto Cardia, presidente della Consob, gettare acqua sul fuoco del panico della Borsa, dove il crack di Dubai sta facendo molte vittime. E siccome sembrava non bastare, anche Giovanni Sabatini, direttore generale dell’Abi, dice la sua: «Allo stato non

lossi delle costruzioni e dell’energia, presenta una fortissima passività che ammonta a ben 59 miliardi di dollari, pari a circa il 70% dell’intero debito pubblico del ricchissimo stato mediorientale. La holding ha perciò chiesto ai suoi creditori una moratoria di almeno sei mesi sul debito, e la possibilità di rinegoziare le sue esposizioni a cominciare da un bond da 3,52 miliardi di dollari di una società controllata, la Nakheel, che scade a metà dicembre. Secondo gli esperti una simile riorgaCORRADO nizzazione, di fatto, FAISSOLA prefigura un “default”, poiché il ri«L’esposizione schio insolvenza delle banche appare piuttosto italiane concreto. Il governo verso Dubai di Dubai potrebbe World, vedersi costretto a la holding vendere, o meglio a dell’emirato che rischia il default, è inesistente o marginale»

emergono elementi di preoccupazione per il sistema finanziario italiano». Poco dopo anche il presidente Corrado Faissola gli fa eco. E ce n’era davvero bisogno, visto che il peso del debito di Dubai potrebbe oscillare «tra gli 80 e i 90 miliardi di dollari», secondo quanto scrivono in una nota gli analisti di Ubs, e non i 40 di cui si era parlato fino a ieri. «Questo implica - scrivono gli analisti della banca - che i titoli sul debito emessi nelle ultime settimane siano insufficienti per una correzione dei conti nell’immediato». Dubai aveva detto che avrebbe emesso titoli per 20 miliardi di dollari per coprire i danni del crac della Dubai World, ma evidentemente, fanno capire da Ubs, potrebbero non essere sufficienti.

Ormai la storia è nota. Dubai World, la potente holding pubblica degli Emirati Arabi Uniti (Eau), che controlla anche i co-

svendere, la sua immobiliare internazionale per far fronte alla situazione. Sempre secondo Ubs, la richiesta shock di moratoria del debito non è casuale: vulnerabilità e problemi del Dubai, in realtà, non sono una novità. E quindi si possono avanzare solo scenari sui motivi dell’improvvisa ristrutturazione del debito. Il primo ipotizza che l’Abu Dhabi intenda soccorrere il Dubai solo dopo che l’Emirato avrà fatto ordine in casa propria, il che solleverebbe preoccupazioni sullo stato delle relazioni tra i due emirati. Il fondo sovrano dell’Abu Dhabi ha asset per 500 miliardi di dollari e fare fronte alla scadenza di 3,5 miliardi del 14 dicembre del debito Nakheel non avrebbe dovuto essere un grosso sforzo, se ci fosse la volontà politica di farlo. In alternativa potrebbe essere una mossa premeditata da parte di entrambi i governi, che hanno voluto riportare responsabilità e affidabilità nel settore societario dell’emirato, evitando la scorciatoia dei salvataggi che non avrebbe solo rinviato il problema del «moral hazard». Oppure, ultima ipotesi, i problemi finanziari del Dubai sono peggiori di quanto si pensi e il debito dell’Emirato considerando le passività offbalance, è superiore alle cifre circolate finora, il che potrebbe implicare effettive difficoltà a fare fronte alle scadenze. È probabile che si tratti di un mix dei tre scenari.

Intanto, i credit default swaps (Cds) a cinque anni di Dubai, cioè il costo per assicurare il debito sovrano dell’emirato del Golfo, sono ulteriormente schizzati ieri di 134 punti 675 punti base. Un livello doppio rispetto a quello di una settimana fa, precedente lo scoppio della crisi finanziaria. Ma i pericoli, dicono gli esperti, è che i bond di Dubai siano finiti nei portafogli delle banche europee, che quindi rischierebbero di segnare altri risultati negativi nei bilanci. Secondo Ian Standard, l’esperto di strategia

Tutte in positivo dopo un’apertura in forte calo

Le Borse europee parano il colpo MILANO. Smaltito l’effetto Dubai sulle borse europee. Le piazze del Vecchio Continente dopo un’apertura a picco hanno frenato le perdite e ora si muovono tutte in territorio positivo. Londra avanza dell’1,07%, Francoforte dell’1,38%, Parigi segna un +1,5% e Milano guadagna l’1,29%. Apertura in calo invece per Wall Street: il Dow Jones arretra dello 0,67% a 10.394 punti, lo S&P scende dell’1,62% a 1.092,65 punti e il Nasdaq perde il 2,72% a 2.116,84 punti. I timori connessi a Dubai World hanno condizionato anche il prezzo del petrolio che dopo essere calato sotto quota 73 dollari al barile si attesta ora a Londra sui 74,86 dollari (-3 dollari). L’euro, sceso fino a un minimo di 1,4830, è risalito a 1,4971 dollari. L’oro, dopo i record dei giorni scorsi, e’ sceso sotto 1.140 dollari l’oncia. Secondo gli analisti di Ubs l’indebitamento del colosso degli Emirati Dubai World potrebbe superare gli 80 miliardi di dollari. Dubai World ha chie-

sto una moratoria sul rimborso dei debiti e le sue passività erano stimate intorno ai 59 miliardi di dollari. Secondo il primo ministro russo Vladimir Putin il «caso Dubai» dimostra che non sarà facile, per il Pianeta, uscire dalla crisi finanziaria globale. «L’uscita dalla crisi non sarà facile - ha detto - e flut-

tuazioni sono possibili». La Bank of China fa sapere di non avere esposizioni nei confronti di obbligazioni emesse dal colosso degli Emirati mentre appare in difficoltà l’altro colosso bancario asiatico Standard Chartered Bank, come la banca britannica Royal Bank of Scotland che è il principale intermediario finanziario di Dubai World.


economia

28 novembre 2009 • pagina 9

La debolezza estrema dell’economia araba che punta tutto sul lusso

Quando il petrolio (da solo) non basta di Antonio Picasso

ROMA. La dichiarata insolvenza del Fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti (Eau) è l’ultima dimostrazione della debolezza economica di tutti i Paesi arabi produttori di petrolio che fanno parte Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc): Arabia Saudita, Barhein, Kuwait, Oman, Qatar e appunto gli Emirati. Le rispettive borse locali erano già state sconvolte dalla crisi dei mutui dello scorso anno. Adesso però l’epicentro di questo nuovo crack globale è proprio a Dubai. E le ripercussioni politiche potrebbero essere maggiori di quelle finanziarie.

monetaria di BNP Paribas, «Ci sono preoccupazioni per quanto riguarda l’entità della esposizione delle banche del Regno Unito a Dubai. La sterlina è ormai sotto pressione, da molte settimane, i banchieri di mezzo mondo sono molto preoccupati». E in effetti, secondo quanto afferma JpMorgan, Royal Bank of Scotland è il primo in-

tafogli. Il Monte dei Paschi di Siena ieri ha smentito qualsiasi tipo di coinvolgimento. Più sibillina la dichiarazione di Corrado Passera per Intesa San Paolo: «Operiamo in tutto il mondo e seguiamo quella parte del mondo come altre, non c’è nulla che ci porti a fare un commento in particolare. In generale non vorrei giudicare quanto fatto da altri, perché ci sono grandi CORRADO progetti da tanto PASSERA tempo e molti di questi continueran«Non abbiamo no ad essere validi. nulla da dire, C’è da sperare che ma è chiaro che anche moltissimi di taluni eccessi quelli avviati da partiti dai Paesi quel Paese possano anglosassoni, completarsi». L’ad che poi hanno di Ca’ de’ Sass, incausato la crisi, somma, non escluhanno toccato de in partenza un anche i Paesi coinvolgimento, anArabi» che se per lui il rischio-paese è comunque limitato. E termediario finanziario di Du- la conferma arriva dall’Istituto bai World, mentre Hsbc è l’isti- per il Commercio Estero, che tuto più esposto nei confronti dice che sono un centinaio le degli Emirati Arabi Uniti. Rbs aziende italiane con interessi a dal gennaio 2007 ha gestito Dubai, e tra queste c’è anche 2,28 miliardi di dollari di inve- Intesa. L’elenco però non può stimenti finanziari per conto di essere esaustivo, precisano dalDubai World, e che Hsbc aveva l’Ice, perché si basa su dati forun’esposizione di 17 miliardi di niti volontariamente. Tra le aldollari a fine 2008. Nel rappor- tre appaiono, in ordine alfabetito si indica inoltre che le ban- co, Ansaldo Energia, Armani, che estere hanno 47,1 miliardi Enel, Fiera Milano, Finmeccadi dollari a rischio. Anche Bar- nica, Generali, Iveco, Lavazza, clays, Citigroup (1,9 miliardi) e Luxottica, Marazzi, TechLloyds sono nella lista. nogym, Pirelli Tyre, Prysmian, Saipem, Telecom e Tenaris. In Tra queste ci sono anche ban- caso di default, impegni e comche italiane? Anche se le auto- messe andrebbero in fumo. Ma rità dicono di no, qualche bond questo, per fortuna, per adesso potrebbe essere finito nei por- è soltanto un’ipotesi.

Per evitare questo “giovedì nero arabo”, da anni i singoli governi tentavano di definire politiche economiche per una diversificazione industriale. La dipendenza unicamente dal petrolio, dalle sue oscillazioni valutarie, dal timore sicuramente eccessivo che un giorno questo finisca e, infine, il ricorso a fonti energetiche alternative, da parte dei Paesi consumatori, ha spinto i membri del Gcc a pensare ad altre attività produttive. Alcune iniziative di questo genere sono già in corso d’opera, altre risultano consolidate da anni. In questo senso, gli apripista sono stati proprio gli Eau, i quali hanno puntato sul luxury nelle sue più svariate sfaccettature, senza però prevedere che, in un momento di contrazione finanziaria internazionale, i primi a rimetterci sono appunto i beni superflui. Al contrario, i sauditi e i kuwaitiani hanno dimostrato una maggiore lungimiranza, investendo – grazie al cospicuo contributo di capitali occidentali – prima nell’installazione di un sistema infrastrutturale e di trasporti, poi nella creazione di altre filiere industriali. Ma questo secondo step non è stato ancora effettuato.

poche settimane. Nell’arco di questi dodici mesi però l’euforia iniziale è venuta meno. L’Oman si era autoescluso dal progetto ancora nel dicembre 2008, sottolineando che la sua capacità petrolifera è ormai in fase decrescente. Aggiungiamo il legame a filo doppio che la piccola monarchia araba mantiene con il Regno Unito e con gli investimenti della City. Giustificazioni entrambe valide per evitare di vincolarsi a un’iniziativa finanziaria comunque pionieristica e da realizzarsi in una congiuntura di mercato sicuramente non favorevole come quella attuale. All’inizio di maggio era stata la volta proprio degli Emirati a sfilarsi dal progetto. Una decisione legata alla scelta di aprire la sede della Banca centrale del Khaleeji a Riyadh. Il governo di Abu Dhabi temeva lo strapotere saudita. Si era trattato quindi di una forma di protesta politica dettata dal timore di sottostare all’egemonia di re Abdullah. La conseguenza era stata un intervento dello stesso sovrano saudita volta a definire una manovra correttiva di stimolo alla necessaria concertazione tra i Paesi favorevoli al Khaleeji. Da allora non se ne è fatto più nulla. La cronaca del progetto si conclude con il collasso della holding statale di Dubai.

Con il ”giovedì nero” è affondato anche il progetto del Khaleeji, la moneta unica dell’intera area, che doveva rafforzare un sistema debole

Contestualmente si era parlato di creare un’unità monetaria del Gcc, il Khaleeji, finalizzata ad agire come unico soggetto sul mercato internazionale del petrolio, oltre che essere garante della solidità finanziaria dell’organizzazione. Il progetto – sulla base di un’idea datata ancora 1981 – era stato definito dagli osservatori locali come il “futuro euro arabo”. Una moneta di scambio comune per circa 32 milioni di abitanti della Penisola arabica, escluso lo Yemen, capace di contrastare lo strapotere del dollaro nel comparto petrolifero, ma anche di fare da antagonista all’Iran, il quale ha più volte espresso il desiderio di creare una borsa degli idrocarburi indipendente, con sede sul proprio territorio e valutata esclusivamente in euro. Il Khaleeji sarebbe dovuto entrare in circolazione in tempi brevissimi: all’inizio del 2010, praticamente fra

Al di là dei giustificati timori da parte dei mercati finanziari, il fatto merita una riflessione politica. Stati Uniti ed Europa hanno sempre dato per scontata la liquidità finanziaria dei grandi produttori di petrolio del Gcc. La loro posizione strategica, tra Medio Oriente e Oceano indiano, associata alla forza finanziaria, ha fatto di questi Paesi un punto di riferimento non solo in ambito energetico, ma anche per qualsiasi attività collaterale di politica internazionale e di investimenti esteri. Non è un caso che il Flying show – la fiera internazionale dell’aeronautica militare e civile – si tenga tutti gli anni proprio a Dubai. Peraltro l’ultima sessione si è conclusa solo dieci giorni fa con l’ennesimo successo. Improvvisamente il Gcc rischia di non poter più garantire ai governi alleati e alle aziende partner occidentali questa sicurezza finanziaria. Ed è automatico che le falle di questo settore possano contagiare anche quello strategico e l’energetico. Il mercato internazionale non ha ancora assorbito la crisi dello scorso anno. Al tempo stesso l’Opec non è stato capace di definire una politica che eviti l’incontrollabile oscillazione dei prezzi del petrolio. Infine resta aperta la crisi nucleare iraniana. E Teheran è solo dall’altra parte del Golfo rispetto agli Emirati. Uno scenario per il quale l’Occidente ha tutto il diritto di esigere maggior rigore da parte dei suoi alleati arabi.


panorama

pagina 10 • 28 novembre 2009

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

«Coabitazione», il vero incubo di Bersani ier Luigi Bersani ha un problema con il tempo. Se non riesce a giocare d’anticipo rischia di vanificare tutto il suo lavoro politico e la sua idea di partito che, in verità, è ancora soltanto nella sua testa. Per essere chiari: la questione del Pd è la sua dipendenza dalla linea politica di Antonio Di Pietro. L’ex pubblico ministero di Mani Pulite è veloce nel mettere il cappello sulle iniziative dell’opposizione al governo Berlusconi e il Pd, sistematicamente, arriva troppo tardi. Arriva, cioè, quando i giochi sono ormai fatti e le parti in lotta hanno già trovato le loro collocazioni. A quel punto il Pd che cosa può fare? O prende partito, ossia si accoda ai valori giustizialisti e sempre e comunque protestatari dell’Italia dei valori, o resta alla finestra a guardare gli altri che fanno. Il problema di Bersani, dunque, è proprio questo. Come riuscire a fare prima di Di Pietro?

Il governo non approfitta delle buone prospettive italiane

Bisogna pur riconoscere che il nuovo segre-

di Gianfranco Polillo

P

tario del Pd non ha un compito facile. Lui avrebbe scelto di non urlare, mentre i suoi diretti antagonisti, Di Pietro e i dipietristi, urlano a squarciagola; lui avrebbe scelto di ragionare, mentre gli altri preferiscono l’irrazionalismo. Bersani è nel mezzo: da una parte ha Berlusconi e dall’altra Di Pietro e il partito, non piccolo, dei giustizialisti che ha nella sua pancia una parte non piccola del Pd e dell’elettorato del partito di Bersani. Berlusconi e Di Pietro si tengono l’un l’altro, perché così funziona da molto tempo, praticamente dalla sua nascita, il bipolarismo all’italiana: Berlusconi è la forza di Di Pietro e Di Pietro è la forza di Berlusconi.

Il 5 dicembre c’è il NoBday: vedete, la battaglia di Bersani è già persa in partenza perché ciò che gli fa difetto - e non è colpa sua - è tutta una capacità immaginifica di condurre la lotta politica con gli slogan, le parole d’ordine, le frasi fatte, il pubblico sdegno, insomma l’antiberslusconismo innalzato a modello di vita intellettuale e morale. Una vera e propria antropologia che lo stesso Pd - i democratici - ha fortemente contribuito a creare e diffondere e che ora, quando il nuovo segretario vorrebbe cambiare rotta e “riformare” prima di tutto il suo stesso partito, gli si ritorce contro come una sorta di nemesi. Il Pd è un partito diviso, prima che materialmente lo è idealmente. È un partito che pensa in un modo, ma agisce in un altro modo. Questo strabismo lo porta a fare un passo avanti e due indietro. Non è semplicemente il fenomeno della confusione. Piuttosto, è la il fenomeno della coabitazione o della coesistenza: il Pd è parte di un’opposizione in cui la sua idea riformista è considerata diversa rispetto al “valorismo” dell’Italia di Di Pietro. Può Bersani rendere credibile la sua posizione continuando a coabitare con i suoi vecchi inquilini? Ogni mattina Bersani ha lo stesso problema: si alza, legge i giornali e quant’altro, e prende atto che il suo partito ha già una sua linea politica. Una fatica di Sisifo.

L’Ocse spiega a Tremonti come tagliare le tasse appoggio più convinto alla linea di politica economica del Governo viene dall’Ocase. All’origine dell’endorsement, una serie di dati positivi, sulle cui implicazioni, forse, si è poco riflettuto. Sono mesi ormai che il superindice – quello che anticipa le tendenze della congiuntura – mostra, per l’Italia, una performance sorprendente. Lo scorso febbraio eravamo al decimo posto (su circa trenta Paesi) della classifica relativa alle probabilità di una possibile ripresa. Nei mesi successivi un rapido miglioramento. Dal decimo al terzo posto nel mese di maggio, quindi al secondo tra giugno ed agosto. Per poi concludere questa breve corsa, a settembre, con la conquista del primato assoluto. Non sorprende pertanto che, nel terzo trimestre dell’anno, il Pil italiano sia cresciuto più della media europea, secondo solo alla Germania. È una semplice schiarita o qualcosa di più profondo? Guardando al futuro prossimo venturo, le previsioni di crescita sono molto più ottimistiche rispetto al verdetto della Commissione europea, per non parlare di quelle del Fmi, dove sembra alloggiare ancora – ma le elaborazioni risalgono a qualche mese fa – il più nero pessimismo. Secondo questi ultimi dati il Pil italiano dovrebbe crescere dell’1,1 per cento nel 2010 e dell’1,5 per cento nel 2011. Per il prossimo anno, in particolare, il differenziale di crescita rispetto alle previsioni Ue è pari ad oltre il 50 per cento. Una notizia che Giulio Tremonti, com’era facile prevedere, ha accolto con grande piacere. Meno allettante il confronto internazionale. Francia e Germania nei due anni considerati cresceranno più dell’Italia. Insomma: il nostro Paese è molto forte nel brevissimo periodo, come mostra l’andamento del superindice ed i dati del terzo trimestre di quest’anno. Più debole se l’orizzonte si allunga. Come si spiega?

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chiedere l’impossibile. Continueremo a vivere come quei nobili decaduti che, ogni anno, sono costretti a vendere i gioielli di famiglia. Se la ricchezza è solo sterilizzata, l’economia batte il passo. Rallentando, rispetto ai nostri competitori, esaurisce le fonti che la dovrebbero alimentare. Il che spiega il sorpasso dinamico delle altre aree dell’Europa. Bisognerebbe rompere questo circolo prima che diventi vizioso.

Le nuove previsioni Ocse offrono al governo un aiuto insperato, proprio nel momento in cui il Parlamento italiano si appresta a varare la legge finanziaria. Il quadro macroeconomico su cui sono state costruite le grandezze finanziarie della manovra scontava un tasso di crescita, per il 2010, dello 0,7 per cento. Se ad esso si sostituiscono le nuove previsioni, il risultato sono risorse aggiuntive da spendere per 3 o 4 miliardi; da sommare agli introiti derivanti dallo scudo fiscale. Non è molto, ma è sempre qualcosa specie se il loro utilizzo è finalizzato alla ripresa (la famosa riduzione dell’Irap, interventi a favore delle piccole e medie imprese e così via: tutte iniziative che per ora il governo ha accantonato). Ma ciò che conta ancora di più è il segnale che si potrebbe lanciare. Silvio Berlusconi si è speso molto per diffondere ottimismo. I risultati di brevissimo periodo gli danno ragione. Il superindice Ocse ha mostrato la performance che abbiamo indicato, soprattutto perché non abbiamo ceduto alla disperazione. Certo, le previsioni Ocse non sono il vangelo. Potrebbero dimostrarsi inconsistenti dando ragione a chi predica la politica della lesina. Ma forse è giunto il momento di rischiare qualcosa. Né i mercati, stando all’autorevolezza delle fonti, potrebbero eccepire. Chi potrebbe accusarci di avventurismo, se la razionalità delle scelte di politica economica si fondano su dati di un organismo internazionale sottratto ad ogni qualsivoglia influenza? E allora perché non farlo? Qui il gioco degli specchi della contabilità pubblica cessa di esercitare qualsiasi influenza. È l’atto di volontà che conta. Dimostrare a tutti che il primo a scommettere, pur mantenendo i piedi per terra, sulla possibile ripresa è lo Stato. Se non ci crede il Governo, perché altri (famiglie ed imprese) dovrebbero tentare l’avventura? Per fortuna siamo ancora in tempo per un operare un’inversione di marcia. Speriamo solo che su questo si possa meditare.

Il Pil del 2010 a +1% significa la disponibilità di 3 o 4 miliardi di euro in più: perché non usarli per la Finanziaria?

All’origine di tutto è la solita anomalia italiana, che questa volta, tuttavia, va colta in positivo. Siamo il Paese con la più alta ricchezza finanziaria delle famiglie, in rapporto al Pil. È quello che hanno prodotto i padri, negli anni passati. Grazie a questa risorsa la crisi ha morso meno. Le banche italiane non sono fallite, né richiesto la stampella dello Stato. I consumi hanno subito solo una limitata flessione, attingendo al risparmio accumulato. Ma alla lunga se non si produce di più anche a questa ruota di scorta non si può


panorama

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L’ex commissario europeo per l’Ambiente analizza la svolta dell’amministrazione Usa sul clima in attesa di Copenhagen

Vi spiego il bluff di Obama Ecco perché la promessa di ridurre le emissioni del 17% va rivista molto al ribasso di Carlo Ripa di Meana otto il cielo di Copenaghen regna sempre più la confusione. Dopo le solenni dichiarazioni di Singapore, in cui Usa e Cina sostenevano che in materia di emissioni di C02 gli impegni in Danimarca sarebbero stati solo politici senza essere accompagnati da impegni legali ed economici, è di qualche giorno fa il bluff di Obama con tanto di risposta cinese. Apparentemente si tratta di una macchina indietro a tutta forza, fatta per medicare alla meglio il trauma causato agli europei e agli ecologisti americani. Il presidente Usa ha infatti sostenuto che ridurrà le emissioni di gas a effetto serra del 17 per cento entro il 2020 prendendo come base però il 2005 e non il 1990 come calcolano l’Europa o il Giappone. Siccome nel 2005 le emissioni erano molto più forti che nel 1990, questo significa che in realtà gli States, fatti tutti i conti - grazie al semplice trucco di cambiare la scala – abbatteranno C02 solo del 3,5 – 4 per cento. L’Europa vorrebbe tagliare il 35 per cento e il Giappone il 25 con base 1990, usando cioè il parametro indicato a Kyoto. La Cina dal canto suo, ha risposto a Obama di essere disponibile a fare ingenti investimenti in tecnologia verde, ma non ha indicato né quanto, né quando.

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A questo va aggiunto che Obama volerà il nove a Copenaghen, ma si tratterrà assai poco e non prenderà parte alla fase finale del vertice che avverrà il 18.

Il presidente Usa poi non ha ottenuto alcuna autorizzazione del Congresso a ridurre le emissioni, autorizzazione che invece Clinton (vice presidente Al Gore) ebbe, ma che non riuscì a trasformare nella sottoscrizione di un testo internazionale di impegni concreti. Oggi sarà molto difficile riottenere l’autorizzazione del Congresso.

Douglas Elmendorf, capo dell’ufficio del Congresso che esamina conti pubblici, di estrazione democratica, ha demolito la grenn economy obamiana sostenendo che costa molto e che nel breve periodo causerà una forte perdita di posti di lavoro. Se da una parte – quella politica – siamo ormai davanti al bluff dell’asse Usa-Cina e davanti alla totale insipienza e marginalità dell’Europa, sul terreno scientifico da più

parti viene messo in discussione – proprio in questi giorni – il global warning. L’intero impianto sta traballando paurosamente. Ecco alcune delle obiezioni scientifiche. La prima fa capo al professor Mojib Latif, fisico climatico e membro dell’Ipcc, che ha sostenuto che si sta entrando in un raffreddamento globale nei prossimi 10-20 anni. Le Monde intervistando lui ed altri scienziati, che segnalano la diminuzione della temperatura globale nell’ultimo decennio, è uscito con un titolo a tutta pagina che suona così: «Clima, il riscaldamento segna il passo?».

C’è poi la storia dell’hacker entrato nel sito di un centro di ricerca dell Anglia University. Il Telegraph”ha pubblicato tutte le email scambiate fra catastrofisti, dove si discute come manipolare e ridurre la rilevanza di tutti gli elementi nuovi in grado di mettere in discussione le loro teorie e come correggere al rialzo i rischi. Per non dire dei messaggi lanciati da Al Gore: il povero orsacchiotto polare aggrappato ad un cubetto di ghiaccio e destinato a scomparire sotto gli occhi della madre che sta invece al sicuro. Bene, Bjorn Lambor, grande scienziato danese, lo ha sbugiardato: gli orsi della Groellandia sono passati da 5mila degli anni Sessanta ai 25mila attuali. Ma anche in Italia ormai i più illustri nomi della comunità scientifica, un tempo di parere diverso, criticano in modo serrato il global warning. È il caso di Franco Prodi: «Il clima è imprevedibile – ha affermato sul Cor-

riere della Sera - ricordo che lo dissi a mio fratello Romano quando era presidente del consiglio. Non disponiamo né di spiegazioni né di previsioni scientifiche.Tutto è incerto».Anche il professor Guido Visconti ha posizioni analoghe. Per non dire di Antonino Zichicchi che è stato il primo a schierarsi su questa linea, e di Franco Battaglia. Nicola Scafetta, infine, trentanovenne ricercatore alla Free electron laser laboratory della Duke University, uno dei più prestigiosi atenei degli Usa, sostiene che la terra nel periodo cambriano, 500 milioni di anni fa, ha avuto già occasione di raggiungere «il punto di non ritorno» tanto propagandato dai catastrofisti, allora infatti la concentrazione di Co2 fu venti volte maggiore di quella di oggi.

Penso, in conclusione, che l’uomo politico italiano che riuscirà, in vista di Copenaghen, a smontare questo gigantesco carrozzone del global warning che ormai ha imprigionato gli europei e che costringe Obama a bluffare, e riuscirà ad avanzare proposte - e non è difficile - farà un’opera politica sacrosanta. Spero che questo uomo politico, forte degli argomenti di tanto valenti scienziati, si muova e interrompa questa carnevalata, di cui fanno parte anche un presidente americano che sta perdendo colpi e un attempato principe ereditario britannico.

Polemiche. L’omicida recluso in Brasile lo aveva detto: il mio caso a Berlusconi non interessa

Il premier si è dimenticato di Battisti di Valentina Sisti

ROMA. «Francamente credo che neppure a Berlusconi importi nulla di questo caso». Cesare Battisti ci spera, confida cioè che Lula non conceda l’estradizione e che dall’Italia non si alzino barricate. Per dire questo avrà avuto le sue buone ragioni. Basta guardare i fatti, d’altronde. Sulla vicenda del pluri-omicida e pluri-latitante (prima in Francia e poi in Brasile), convertitosi in carcere alla lotta armata e poi fondatore dei proletari armati per il comunismo, non è che il premier si sia dato da fare più di tanto. Al presidente Lula in visita a Roma presentò l’anno scorso i suoi gioielli del Milan e l’unica volta che ha parlato ufficialmente sul caso lo ha fatto solo per dirsi certo, in vista del G8 in Italia (allargato a 20, con il Brasile) che questa vicenda non avrebbe certo modificato gli «eccellenti rapporti internazionali con il Brasile». Non sia mai.

«Non faremo pressioni sulla decisione di Lula», si uniforma alla linea del premier il ministro degli Esteri Franco Frattini ora che il destino dell’estradizione di Battisti è

tutto in mano al presidente brasiliano, al quale ha passato la palla la suprema Corte, dopo aver dato parere favorevole all’estradizione. La scena si ripete: la commissione per i rifugiati si era pronunciata contro la concessione dello status a Battisti, e il ministro della Giustizia brasiliano lo ha proclamato rifugiato lo stesso, senza che ci sia

Solo Napolitano si è speso con il presidente Lula per favorire l’estradizione: per il resto, nessuna vera pressione è stata fatta stata traccia di un intervento del ministro della Giustizia italiana Alfano contro la decisione politica presa dal suo collega brasiliano. Ora che la Suprema corte, dopo mesi e mesi, si è faticosamente espressa, ecco che la parte politica (il presidente Lula) si prepara con tutta probabilità a negare nuovamente l’estradizione, senza che il pari

grado italiano (Berlusconi) abbia niente da obiettare.

A muoversi restano solo quelli di An che hanno davo il via a una raccolta di firme per l’estradizione, che sta ottenendo tante adesioni, da Gaetano Quagliariello a Fabrizio Cicchitto, da Italo Bocchino a Denis Verdini, ai ministri Giulio Tremonti, Ignazio La Russa, Sandro Bondi a Giorgia Meloni, Mariastella Gelmini e Michela Vittoria Brambilla, ai sindaci Gianni Alemanno e Giuseppe Scopelliti, per citare solo alcuni. Perché una firma, si sa, non si nega a nessuno. Si sono fatti sentire anche i senatori della Lega. Ma a poco serve se il capo della diplomazia e il capo del governo si tirano fuori, lasciando il solo Giorgio Napolitano a spendersi, cosa che ha fatto, in prima persona – lui sì – con Lula, nel corso del G20.


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e tutto il mondo è paese, cosa di cui è lecito dubitare, è altrettanto vero che non tutte le società si assomigliano. Se in Occidente chiedere l’elemosina è una pratica comune ma non endemica, tollerata ma periodicamente nel mirino di politici populisti e uomini di buona volontà, in Oriente chi chiede aiuto all’altro ha un suo precipuo ruolo sociale. Che serve a lui e a tutti coloro che lo circondano. Prendiamo ad esempio il mondo islamico, dove la zakat [l’elemosina compiuta dal buon musulmano] è addirittura inserita fra i cinque pilastri dell’islam. Chi non fa la carità, recita quasi testualmente il Corano, è destinato a non raggiungere il paradiso di Allah. Segue lista accurata dei bisognosi cui bisogna per primi fornire il proprio aiuto: in vetta, inutile dirlo, orfani e vedove. In Cina la questione è diversa: il mendicante era nei tempi antichi colui che ricordava al buon confuciano la caducità non soltanto della vita ma soprattutto delle fortune ottenute in questa terra. Abituati a vederli mendicare fuori dai templi buddisti o dalle case da tè dei quartieri nobili e meno nobili delle città, i mendicanti erano al contempo tenuti alla larga dalla famiglia imperiale. Ciò che va bene per un comune mortale non si applica al figlio del Tan [il Cielo della religione ancestrale di Pechino], il quale non subirà crolli nelle sue fortune e quindi non ha alcun bisogno che qualcuno glielo minacci. Nei tempi moderni, la Cina rieducata da Mao Zedong ha adottato un atteggiamento poco comunista e molto pragmatico sulla questione: la maggior parte dei mendicanti non chiede infatti denaro, ma lavoro. Fa impressione per un qualunque osservatore notare le folle sterminate di persone assiepate nei pressi delle stazioni principali di Guangzhou, la capitale della ricca provincia del Guangdong, che chiedono ai capibastone dell’imprenditoria locale un posto sui loro camion per guadagnarsi la diaria quotidiana. Chi chiede denaro viene invece guardato come un parassita, uno che non ce l’ha fatta e che - con quell’atteggiamento dimesso non ce la farà mai.

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L’India è un brillante miscuglio di questi atteggiamenti. Nel mendicante indiano si fondono la spiritualità induista e sufi, la disoccupazione, il sovraffollamento e la povertà più estrema. Chi batte le strade delle città indiane incontrerà migliaia di volti che tendono le mani: bambini in lacrime, anziani barbuti, mutilati, deformi. Cercare di allontanarli è praticamente impossibile, accontentarli equivale a mettere a rischio la propria vita: se tendi una rupia, infatti, il vortice di mani sarà così rutilante da oscurare persino il sole del Maharashtra. Consapevoli di questa realtà da sempre, i politici indiani le hanno provate tutte per fermare questa carica – il cui numero, secondo le stime Onu, si attesta intorno ai duecento milioni – ma hanno fallito. L’ultimo attacco è stato sferrato lo scorso luglio, quando per “depurare” le città principali dalla piaga degli elemosinieri, il governo di Delhi li ha semplicemente messi fuori legge. Conoscendo

il paginone Per preparare i Giochi del Commonwealth del 2010, l’esecutivo ordina di arrestare e

La rivolta dei clo L’Alta Corte indiana sconfessa il governo di Delhi: «Elemosinare fa parte della nostra cultura. Lo sapeva il Mahatma, che amava i mendicanti» di Vincenzo Faccioli Pintozzi la complessità della questione, l’esecutivo ha adottato una serie di norme draconiane per liberare almeno la capitale. Che ospiterà, a ottobre, i Giochi del Commonwealth e la re-

lativa frotta di sportivi e nuovi turisti. L’Alta Corte di Delhi, in un primo momento, aveva approvato lo schema governativo. Ieri invece ha legiferato, dopo la denuncia di un senzatetto, che la nuova legge rappresenta «un crimine contro l’umanità». In particolare sono nel mirino quelle “case di ospitalità temporanee”dove chi chiede l’elemosina viene costretto a vivere. In pratica, la polizia

Il ministro del Welfare Singhal sottolinea: «Per noi è normale mendicare, ma per gli occidentali no. È per questo che dobbiamo pulire le strade prima che inizino i Giochi»

compie delle vere e proprie retate per poi chiudere queste persone in una sorta di lager che, si legge nella sentenza della Corte, «sono peggiori della peggiore delle galere».

Kripashankar Prasad ha 65 anni e soffre di tubercolosi; fino all’anno scorso, era una delle facce più note per i visitatori del tempio di Shiva, che si erano abituati al suo lento e ritmico cantilenare davanti alle porte del luogo di culto. Una settimana fa è riuscito a scappare da una delle case del governo: «Dopo essere stato rapito per strada mi hanno messo in un edificio alla periferia della città. Non hanno dato assistenza medica o farmaci ai tantissimi ammalati presenti, lasciandoli in preda ad atroci dolori. Inoltre, i custodi di questo posto erano fra le persone più violente che abbia mai visto. Sono riuscito a fuggire, ed


il paginone rinchiudere i senza tetto della capitale. Che fanno ricorso e vincono la loro battaglia

ochard di Gandhi ora so che non mi possono più prendere: è un sollievo». Secondo un rapporto della Banca mondiale, il 42 per cento della popolazione indiana vive sotto la soglia della povertà: meno di 1 euro al giorno. Soltanto a Delhi vivono circa 60mila senza tetto e 500mila mendicanti, un numero in costante aumento.

Per cercare di difendere le opinioni e le decisioni del proprio governo, il ministro del Welfare Mangat Ram Singhal ha dichiarato: «Per noi indiani è normale mendicare; per gli occidentali no. È per questo che dobbiamo pulire le strade prima che inizino i Giochi». E, in parte, la sentenza dell’Alta Corte gli ha dato ragione invertendo però il ragionamento. I giudici, legiferando sul caso, hanno infatti stabilito che «l’uso e la tradizione dell’elemosina hanno nel nostro Paese antiche e riverite radici, di tipo religioso e sociale». E sempre questo principio era alla base del ricorso presentato dai mendicanti: «Se una persona non ha la possibilità di lavorare, non può essere trattato come un criminale. Tanto più che i mendicanti del tempio sono sin dai tempi antichi un monito proprio per coloro che poveri non sono». In realtà, l’India vanta una feroce e antica legislazione contraria alla pratica dell’elemosina. La legge contro i men-

dicanti risale al 1959, quando l’allora Corte di Bombay definì i poveri «una seria minaccia alla stabilità sociale, da punire con la galera fino a tre anni». Ad oggi, con una serie di inapplicate sanzioni aggiuntive, la pena detentiva è arrivata a dieci anni. In realtà, è la stessa polizia indiana a non rispettare le regole. Un reportage dell’India Times, scritto due settimane dopo

Secondo i giudici «l’uso e la diffusa tradizione dell’elemosina hanno nel nostro Paese antiche e riverite radici di tipo sociale. Che vanno difese ad ogni costo» l’introduzione delle nuove, durissime regole abolite ieri, raccontava come le cose venissero gestite dagli agenti di Delhi: «Sono su una camionetta con il

sergente S.K. Tyagi e tre suoi colleghi. Abbiamo individuato due donne che fermano i passanti, ma il sergente ha spiegato ai suoi uomini che quelle sono troppo anziane per essere arrestate. Continuando a camminare con la macchina siamo arrivati davanti al tempio sikh: qui c’è un uomo sdraiato, ma Tyagi sottolinea che non ha la mano tesa verso il pubblico e quindi, tecnicamente, non sta chiedendo l’elemosina». Questo modo di fare, comune in ogni strato della società, potrebbe anche celare la paura di diventare un giorno un senza tetto, una paura che alberga nell’anima di ogni indiano. Consci dei sommovimenti bruschi della vita, infatti, gli indiani sono fatalisti ma adorano le storie di ascesa e caduta. Lo sa bene Gitanjali Nagpal, modella indiana fra le più famose degli anni Novanta, che è finita a chiedere l’ elemosina dopo un matrimonio sbagliato. Nell’autunno del 2007 un fotoreporter l’ha riconosciuta mentre, abbandonata all’angolo di una strada, chiedeva avanzi di cibo ai passanti. Quando sono partiti i pri-

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mi flash, l’ex modella si è messa in posa ed ha sorriso, come se fosse tornata sotto le luci della passerella di una sfilata. Da allora Gitanjali Nagpal ha iniziato un percorso per superare la depressione e i vuoti di memoria, grazie all’aiuto dei servizi sociali indiani. Ora ha chiuso con la droga. Ma proprio mentre sta per mettersi il passato dietro alle spalle, la sua storia finisce sugli schermi. È uscito infatti da poco Fashion, un film sul mondo delle sfilate e del cinema indiano. Il ruolo di Gitu è stato affidato a Kangana Renaut, un’attrice bella e famosa. Che oggi più che mai, come tutti i suoi connazionali, teme di fare la stessa fine e quindi, appena può, porge una rupia alla mano che si trova stesa davanti.

Tuttavia, sarebbe scorretto dipingere l’India come il paradiso dei senza tetto. L’opera di Dominique Lapierre, il libro fotografico intitolato La Città della gioia, mostra la povertà nei suoi meandri più bui, da cui non fugge la speranza ma che comunque certo non è mondo dorato. L’operato della Beata Teresa di Calcutta ha dimostrato che sono molti, anche fra i poveri, coloro che non dimenticano il valore della solidarietà. Ma ha anche dimostrato che contro la stratificazione sociale e il sistema delle caste c’è poco da fare. E chi nasce povero è destinato a rimanerlo. Un tentativo di descrivere un Paese in evoluzione anche dal punto di vista sociale è stato fatto da Le dieci domande, il libro rivelazione che ha lanciato Vikas Swarup da cui è stato tratto il film The Millionaire. Il protagonista del libro è un ragazzo nato in una baraccopoli, che si ingegna per sopravvivere e scopre le diverse realtà del mondo dell’accatonaggio indiano. Si va dall’agenzia criminale che rapisce i bambini, li mutila e poi li butta nelle strade a mendicare per arrivare alle piccole truffe ai danni dei turisti occidentali, convinti dalle loro guide improvvisate che il Taj Mahal sia un albergo. Il senso reale del libro è però nel finale, quando il protagonista diventa milionario grazie a un quiz televisivo: lì esplode il sentimento di timore nei confronti dei poveri, che non possono avere una cultura o salire la scala sociale proprio perché nati nei bassifondi. Il finale è positivo, e questo Swarup lo spiega con una torsione della società sempre più simile a quella britannica - di cui comunque porta i semi da molto tempo - che a quella ancestrale. C’è dunque speranza, anche se si nasce nella periferia di una delle metropoli con il più alto tasso di povertà al mondo. C’è speranza perché persino il diritto riconosce ai più poveri fra i poveri il diritto di vivere la loro vita, frutto di discriminazione sociale ed economica interna ed internazionale. Ma rimane anche la necessità di guardare in faccia la realtà e operare di conseguenza. L’India ha milioni di poveri, talmente tanti che potrebbero tranquillamente ripopolare l’Europa. È impensabile supporre che, nel nostro mondo globalizzato, gli oceani che lambiscono le due coste indiane siano per sempre ostacoli insormontabili. Nella conoscenza dell’altro c’è la ricchezza del singolo, dicono alcuni (soprattutto in Oriente). La Corte di Delhi ha aperto una strada importante e ha riconosciuto nei propri limiti un tratto culturale. Potrebbe essere un insegnamento utile per entrambi i mondi.


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Geopolitica. Africom diventerà un modello di cooperazione tra i leader del Pentagono e quelli del Dipartimento di Stato

Barack l’africano Washington si muove con militari e civili per arginare la marcia cinese nel Continente Nero di Pierre Chiartano on contenti degli impegni in Medioriente e Centrasia gli americani, nel 2007, hanno varato un’altra iniziativa. Il dipartimento della Difesa, ancora sotto l’amministrazione G.W. Bush, decise di costituire dal nulla un nuovo comando militare per l’Africa: Africom. Il 6 febbraio del 2007 la Casa Bianca ne dette l’annuncio ufficiale e il primo ottobre del 2008 il comando divenne operativo nella sede di Stoccarda in Germania. Ma appena se ne è cominciato a parlare, sono arrivate a ruota anche le critiche. Molti Paesi africani, soprattutto quelli della fascia subsahariana, hanno temuto un ritorno della politica neocoloniale, al traino degli uomini in divisa. Per non parlare degli obiettivi della missione che, secondo Foreign Policy, non sarebbero chiari a tutt’oggi. Uno di questi sarebbe quello «di combattere il terrorismo» e «condurre programmi e attività militari, e altre operazioni militari dirette a promuovere un ambiente stabile e sicuro in Africa a sostegno della politica estera degli Stati Uniti».Per capire l’iniziativa bisogna pensare alla concorrenza con la Cina per le risorse energetiche e alle considerazioni operate dall’intelligence per cui l’Africa fornirà all’America del Nord il 25 per cento di petrolio entro il 2015, come si può leggere sul documento – già datato – della Direzione nazionale dell’intelligence Usa «Global Trends 2015». È stato il presidente Bush a dichiarare che Africom servirà a rinforzare la cooperazione con l’Africa, in termini di sicurezza contro la militanza

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islamica, ricordando l’aiuto offerto all’Etiopia contro le corti islamiche in Somalia. Africom riguarderà tutti i Paesi del continente, tranne l’Egitto che viene visto più in proiezione mediorientale ed è tenuto, nella suddivisione fatta, nel comando centrale. Gli Stati Uniti forniscono attualmente all’esercito egiziano apparecchiature militari ed hanno due battaglioni disposti nella penisola del Sinai, come previsto dagli accor-

alla bisogna, utilizzare le truppe della 173ma Aerobrigata. È chiaro che tra i compiti dei militari americani ci saranno quelli di ordine operativo e istituzionale. Parliamo di Paesi che non hanno mai avuto eserciti bene addestrati, né tanto meno assoggettati al potere politico. Sarà quindi necessario promuovere una cultura sia tecnico-operativa che istituzionale. Un modo per occupare un terreno prima che lo facciano

Il comando si trova in Germania. Impiega 1.300 uomini provenienti da settori militari e da altre agenzie «non belligeranti». Il budget stanziato è pari a oltre 300 miliardi di dollari di di pace fra Egitto ed Israele. Altri schieramenti si trovano nell’Africa del Nord, prima integrati nel comando europeo, e nel Madagascar, per quanto riguardava il comando del Pacifico. Una suddivisione che veniva, però, vista come legata più al periodo della guerra fredda.

Donald Rumsfeld e poi il suo successore, avevano annunciato al Congresso la decisione di istituire un nuovo comando militare unificato per l’Africa, non solo per una questione di metodo, ma per gli interessi crescenti degli Usa nei confronti del Continente. Il generale William «Kip» Ward – già responsabile delle truppe in Bosnia – è a capo di questo progetto che ha momentaneamente sede in Germania, finché non si deciderà una nuova collocazione. E un distaccamento a Vicenza, con il comando della componente dello Us Army che può,

altri, già attivissimi nel settore delle partnership commerciali e nello sfruttamento delle risorse naturale. Leggi, Cina. Un altro compito sarà quello di preparare i militari africani a svolgere missioni di peace keeping, inquadrati all’interno delle truppe Onu. Un compito che già il dipartimento di Stato Usa svolge in seno alla Global peace Operations initiative. Un segnale di una sinergia positiva con la componente politica. Qui risiede la grossa novità di Africom, un modello che potrebbe sicuramente valere anche per il futuro, come spiega a liberal il generale Fabio Mini, esperto di questioni militari e politica estera. «Per la prima volta esiste una doppia catena di comando: militare e civile». A capo di quella militare c’è Ward, in quella civile un rappresentante del dipartimento di Stato – l’ambasciatore J. Anthony Holmes, un membro

del “circolo” del Council of foreign relations – con la funzione di deputy. Poi c’è un’altro vice militare, il contrammiraglio Robert T. Moeller. In pratica militari e civili collaborano con poteri equivalenti.

Una scelta di significato, da un punto di vista democratico, perché si rende palese il rapporto tra il potere politico e quello militare. Di valore fattuale, perché si trasforma uno strumento tipicamente operativo, in un mezzo adatto a perseguire più “direttamente” obiettivi di politica estera. La mediazione con il governo non avviene più solo tra Washington e gli uomini sul campo, ma sul teatro d’azione. Questo è il frutto anche delle polemiche – finite anche sulle pagine dei giornali – tra uomini in divisa e politici. Negli ultimi anni, i primi accusavano sempre più spesso «quelli della capitale» di capire poco dei problemi reali, facendo di conseguenza scelte sbagliate. Con Enduring Freedom si era costruito uno valido mezzo per la lotta al terrorismo islamico. Tanto da averlo clonato sui vari scenari dell’area. In Af-

ghanistan si faceva la guerra, ma altrove come in Sudan e in Etiopia si addestrava il personale in divisa, all’antiterrorismo, elargendo anche consistenti contributi. Si faceva politica, ma in maniera ancora poco incisiva. Quelle operazioni dipendevano ancora dal comando europeo ch aveva difficoltà a coordinare tutte le attività, diremmo impropriamente “fuori area”. Quindi la decisione di creare un comando ad hoc. Così è nato Africom. Per difendere in maniera più “sofisticata” gli interessi Usa in un continente, dove Pechino sta attuando una politica pervasiva che segue molte linee di penetrazione. Dal settore energetico a quello commerciale. Con una fondamentale differenza rispetto alle stesse politiche occidentali: la totale non ingerenza politica.

A Pechino non interessa se il governo di un Paese africano sia autoritario, sanguinario o predatorio. Basta che fornisca materie prime, energia e non ostacoli la penetrazione commerciale cinese. Non solo, ma anche il Fondo monetario internazionale è stato ostacolato


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nella sua azione di prestiti in cambio di politiche di buona amministrazione: un’altra maniera per insegnare ai Paesi emergenti, come gestire uno Stato e un’economia. Pechino presta denaro senza vincoli, a volte senza interessi, in cambio di forniture di materie prime. Una pacchia per molti dittatori africani. Non a caso lo Zinbabwe – come anche il Sudan – figura in cima alla lista dei Paesi africani amici della Cina.

Prestare soldi senza vincoli è un modo per fare politica e diventare “amici” dei governi. Per capire gli interessi cinesi oltre a guardare le sedi diplomatiche aperte nel Continente nero, serve anche contare gli scali aerei che le tre compagnie di Stato hanno disseminato sul territorio. Un dato che spiega le preoccupazioni di Washington e il tentativo di arginare il fenomeno con altri mezzi. Mentre

Stato. Poi si innestano le polemiche nate dalla presunta volontà di Africom di cercar casa nel Contente nero. Ufficialmente solo la Liberia si era detta disponibile a ospitare il comando Usa, anche se molti altri Paesi si sarebbero fatti allettare dai vantaggi economici legati alla presenza di Africom. Tra gli aperti oppositori ci sono invece il Sud Africa, la Libia e la Nigeria che subito hanno avversato la possibilità che il Pentagono metta radici in Africa con sedi o basi. Anche se ragioni di ordine pratico fanno preferire la base di Stoccarda. Infatti per volare dalla parte occidentale a quella orientale del Continente, allo stato attuale delle cose, si deve fare scalo in Europa, partendo ad esempio da Monrovia. È prevedibile che in futuro ci sia la possibilità che si trovi una sede africana. Già la Combined joint task force Horn of Africa, che operava autonoma-

Gli States, al contrario della Cina che pensa solo all’economia, cercano di veicolare concetti “democratici” con una prassi che passa attraverso lo strumento militare, controllato anche dai civili

Aviazione e marines in Germania, Esercito e Marina in Italia

Un comando e una struttura a rete a struttura a rete del nuovo comando del Pentagono per l’Africa, oltre ad avvalersi di tutte le ambasciate disseminate in 40 Stati africani e delle missioni militari già esistenti, ha un suo quartier generale. Si tratta della base di Stuttgart-Moehringen in Germania, dove lavora uno staff di circa 1.300 uomini, di cui metà sono civili appartenenti al dipartimento di Stato e altre agenzie governative non legate agli uomini in divisa. Il lavoro principale è quello di coordinamento con le ambasciate e gli uffici della Defense cooperation per migliorare i rapporti bilaterali con le strutture militari dei Paesi africani. E naturalmente il perseguimento della lotta al terrorismo e il controllo sulla diffusione delle armi di struzione di massa.

L

Le risorse finanziarie messe a disposizione di questa nuova struttura sono state di 50 milioni di dollari per il 2007, 75,5 milioni nel 2008 e di 310 milioni quest’anno. E l’amministrazione Obama ha fatto una previsione di spesa di 278 milioni di dollari per il 2010 pper gestire questa nuovissima struttura. Tra le componenti militari c’è la 17ma Air Force, riattivata lo scorso anno, dopo essere stata

sciolta nel 1996. È ancora una componente dell’Usafe, cioè del comando europeo dell’aeronautica americana, in attesa di diventare autonoma col nome di Air force Africa (Afafrica). È attualmente dislocata nella base tedesca di Ramstein, dove aveva operato anche a cavallo degli anni Cinquanta, prima di essere spostata nella base di Sembach, sempre in Germania. È stata riattivata il 18 settembre del 2008 ed è comandata dal generale Ron Ladnier. Attualmente è composta dal 42mo Expeditionary Airlift Squadron, con un paio di C-130 Hercules. Poi c’è la nuova componente dei marines, al comando del generale di brigata Tracey Garrett. Si tratta dello Us Marine Corps Forces Africa (MarForAf), attivato nel novembre del 2008. Nel dicembre del 2008, il Pentagono aveva annunciato che sia il comando dello Us Army che quello della Navy di Africom sarebbero stati installati in Italia. Rispettivamente a Vicenza (fatto che provocò le note polemiche sulla base Dal Molin) e a Napoli. Esiste anche un comando per le operazioni speciali (Socafrica) che prenderà il controllo delle già esistenti task force per l’area subsahariana e per il Corno d’Africa, già molto attive.

Pechino a livello governativo ed economico firma contratti a tutto spiano, migliaia di piccoli imprenditori cinesi aprono attività che nessun occidentale avvierebbe in Africa. Piccole officine ed esercizi commerciali, colonizzando anche dal basso il continente. Dall’altro gli Usa, seguendo una cultura diametralmente opposta, cercano di veicolare concetti “democratici” attraverso una prassi che, in questo caso, passa attraverso lo strumento militare, mediato dalla condivisone di responsabilità del dicastero diplomatico americano. Oltre a stabilire rapporti di diretti con le élite militari e le componenti degli apparati di sicurezza di un Paese allo scopo di prevenire conflitti ed evitare che si creino posizioni dominanti nella regione. Tra le polemiche sorte in America e riportate da Foreign Policy c’è anche quella di voler militarizzare gli aiuti umanitari. Oltre alla mancanza d’esperienza in questo settore verrebbe ad essere eliminata la tradizionale neutralità degli operatori umanitari delle ong, affermano le critiche, sollevate innanzitutto dal dipartimento di

mente dal 2002, ha una base a Gibuti nell’ex campo della Legione straniera francese. Si tratta di 1.500 uomini, tra civili e militari, coinvolti in attività d’addestramento antiterrorismo, assistenza umanitaria e intelligence. Una volta, il segretario alla Difesa Robert Gates affermò che «solo il personale militare di una portaerei» superava quello che il dipartimento di Stato aveva a disposizione per il foreign service.

Il Congresso ha subito promesso di rimpolpare le fila degli uomini a disposizione di Hillary Clinton, allargando le competenze del dicastero degli Esteri e incrementando i finanziamenti in bilancio. Vedremo in futuro se le promesse verranno mantenute. Intanto a Stoccarda si intensificano le riunioni e se non sono ancora chiarissimi obiettivi e linee guida, si è ben capito cosa non si vuole fare: essere coinvolti in un altro lunghissimo «piano Colombia» – è durato 25 anni – per sconfiggere i cartelli della droga. Un progetto costato oltre 5 miliardi di dollari. Un vero salasso per le casse del governo federale.


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L’opinione. Il modello bin Laden tramonta: cresce la minaccia turca rendendo in prestito un termine informatico, se l’Ayatollah Khomeini, Osama bin Laden e Nidal Hasan rappresentano l’islamismo 1.0, Recep Tayyip Erdogan (il primo ministro turco), Tariq Ramadan (un intellettuale svizzero) e Keith Ellison (un congressista americano) rappresentano l’islamismo 2.0. La prima versione uccide più persone, ma la seconda costituisce una maggiore minaccia per la civiltà occidentale. La versione 1.0 attacca coloro che vengono visti come un impedimento all’obiettivo islamista di una società governata da un califfato globale e interamente regolamentata dalla sharia (la legge islamica). La tattica iniziale dell’islamismo, dal dominio totalitario al megaterrorismo, prevede una brutalità illimitata. Tremila vittime in un attacco? La ricerca di bin Laden di un armamento nucleare sta a indicare che il tributo di vittime potrebbe essere un centinaio o perfino un migliaio di volte più alto.

P

Ma passando in rassegna gli ultimi trent’anni, da quando l’islamismo è diventato una significativa forza politica, ci si rende conto che la violenza da sola raramente funziona. I superstiti del terrorismo di rado si arrendono di fronte all’Islam radicale - non è successo dopo l’assassinio di Anwar Sadat in Egitto nel 1981, né dopo gli attacchi dell’11 settembre, gli attentati di Bali del 2002, quello di Madrid del 2004 e di Amman del 2005, e nemmeno in seguito alle campagne terroristiche in Israele, in Iraq e in Afghanistan. Il terrorismo arreca danni fisici, uccide e intimidisce, ma solo di rado sovverte esil’ordine

Erdogan, ovvero l’islamismo 2.0 È solo questione di strategia: un attentato non porta alla vittoria, ma la politica sì di Daniel Pipes

stente. Immaginiamo che gli islamisti siano stati gli artefici delle devastazioni causate dall’uragano Katrina o dallo tsunami del 2004: cosa potrebbero aver conseguito di permanente? La violenza non legata ad atti terroristici e volta ad applicare la

sharia non funziona affatto meglio. La rivoluzione (vale a dire una rivolta sociale su larga scala) portò gli islamisti al potere una sola volta e in un unico posto: in Iran nel 1978-79.

Così pure, il colpo di stato (un golpe militare) li portò al potere una sola volta: in Sudan nel

musulmana come il Marocco, l’Egitto, il Libano e il Kuwait. Gli islamisti godettero del successo elettorale in Algeria nel 1992, in Bangladesh nel 2001, in Turchia nel 2002 e in Iraq nel 2005. Una volta al potere, essi possono traghettare il paese verso la sharia. Mentre Mahmoud Ahmadinejad fronteggia la collera dei manifestanti scesi in strada, bin Laden si nasconde in una caverna, Erdogan gioisce dell’approvazione pubblica, è occupato a rifare la Repubblica di Turchia e offre un allettante modello per gli islamisti di tutto il mondo. Riconoscendo questo schema, quello che è stato un tempo un teorico di spicco di AlQaeda ha ripudiato pubblicamente il terrorismo e ha adottato l’uso di metodi politici. Sayyid Imam al-Sharif (nato nel 1950 e conosciuto anche col nome di battaglia di Dr. Fadl) venne accusato di aver contribuito all’assassinio di Sadat. Nel 1988 pubblicò un libro che argomentava a favore di un perenne e violento

«La nuova tattica? Quella di Hamas a Gaza, che ha vinto le elezioni nel 2006 per poi organizzare una rivolta nel 2007» 1989. Lo stesso dicasi per la guerra civile in Afghanistan nel 1996. Se la violenza dell’islamismo 1.0 di rado riesce a promuovere la sharia, la strategia dell’islamismo 2.0 di operare all’interno del sistema funziona meglio. Gli islamisti, esperti nel conquistare l’opinione pubblica, rappresentano la principale forza di opposizione nei Paesi a maggioranza

jihad contro l’Occidente. Ma col passar del tempo, Sharif ha rilevato l’inutilità di lanciare degli attacchi violenti ed è divenuto fautore di una strategia che prevede l’infiltrazione nello Stato e che è volta a influenzare la società. In un recente volume, il vecchio teorico del jihad ha condannato l’uso della forza contro i musulmani («Di ogni goccia di sangue che è stata versata o che viene versata in Afghanistan e in Iraq sono responsabili bin Laden, Zawahiri e i loro seguaci») e perfino contro i non-musulmani (l’11 settembre è stato controproducente perché «A cosa serve distruggere uno degli edifici del nemico se poi lui distrugge uno dei tuoi paesi? A cosa serve uccidere uno dei suoi cittadini se poi il nemico ne uccide migliaia dei tuoi?»).

L’evoluzione di Sharif da teorico del terrorismo a fautore di una trasformazione dell’islamismo che diventa rispettoso della legge fa eco a un cambiamento molto più ampio; pertanto, come osserva l’autore Lawrence Wright, la sua defezione costituisce una “terribile minaccia” per Al-Qaeda. Altre organizzazioni islamiste un tempo violente operanti in Algeria, in Egitto e in Siria riconoscono le potenzialità dell’islamismo rispettoso della legge e rinunciano in gran parte alla violenza. Si potrebbe altresì ravvisare un cambiamento parallelo nei Paesi occidentali; Ramadan ed Ellison rappresentano un trend crescente. (Funziona pure ciò che si potrebbe definire la versione 1.5 dell’islamismo - vale a dire una combinazione di metodi duri e morbidi, di approcci interni ed esterni. Esso implica che gli islamisti rispettosi della legge indeboliscano il nemico, e che poi gli elementi violenti assumano il potere. La presa di potere di Hamas a Gaza è stata la dimostrazione che una simile combinazione può funzionare: vincere le elezioni nel 2006 per poi organizzare un’insurrezione violenta nel 2007. Può darsi che in Pakistan siano in corso simili processi. Il Regno Unito potrebbe essere sottoposto al processo opposto, per mezzo del quale la violenza genera un’apertura politica. Concludendo, solo gli islamisti, né i fascisti né i comunisti, sono riusciti ad andare oltre la cruda violenza per ottenere l’appoggio pubblico e sviluppare una versione 2.0 dell’islamismo. Poiché questo aspetto dell’islamismo indebolisce i valori tradizionali e distrugge le libertà, esso potrebbe minacciare la vita civilizzata ancor più di quello che ha fatto la brutalità della versione 1.0.


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28 novembre 2009 • pagina 17

Quasi tutti i membri sono stati confermati, con incarichi diversi

Dopo il generale responsabile, si dimette l’ex ministro della Difesa

Presentato il Barroso bis: Tajani guida l’industria

Strage di Kunduz, Germania nel caos

BRUXELLES. Il presidente della

BERLINO. L’ex ministro della Difesa tedesco e attuale titolare del Lavoro, Franz Josef Jung (Cdu) ha rassegnato ieri le dimissioni in seguito alle accuse che gli sono state rivolte in merito al raid del 4 novembre a Kunduz, in Afghanistan. Questa decisione segue la “rimozione” del capo di Stato maggiore dell’Esercito, Wolfgang Schneiderhan, e del sottosegretario alla Difesa, Peter Wichert, finiti nel mirino per avere occultato informazioni sulle vittime civili dell’attacco Nato dello scorso 4 settembre. «Mi assumo la responsabilità politica per la linea adottata al Ministero della Difesa in materia di informazione», ha dichiarato Jung. I vertici militari e politici tede-

Commissione europea José Manuel Barroso ha annunciato oero a Bruxelles la sua nuova squadra. La nuova commissione sarà composta da dove donne, di cui tre saranno anche vicepresidenti, e 13 commissari “mutuati” dal team precedente, di cui nessuno ha però mantenuto lo stesso portafoglio. Per l’Italia Antonio Tajani ricoprirà la carica di commissario all’Industria e impresa nonché sarà uno dei vice presidenti della Commissione.

Lo spagnolo Almunia è stato nominato commissario alla concorrenza e vice presidente della commissione, il francese Barnier al mercato interno, il belga De Gucht al commercio, il finlandese Rehn agli affari monetari, il polacco Lewandowski al bilancio, il tedesco Oettinger all’energia e l’estone Kallas ai trasporti e vicepresidente della Commissione. Bruxelles ha poi nominato l’olandese Kroes commissario per l’agenda digitale, l’irlandese Goeghegan-Quinn alla ricerca e sviluppo, l’ungherese Andor all’impiego, affari sociali e inclusione, il romeno Ciolos all’agricoltura, la lussemburghese Reding alla giustizia e vice presidente della Commissione, la svedese Maelstrom agli affari

L’Aiea censura l’Iran Con due voti a sorpresa Sul nucleare Russia e Cina si schierano con l’Occidente di Massimo Fazzi

VIENNA. Il Consiglio dei Governatori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha votato ieri una risoluzione di censura all’Iran per aver costruito in segreto il sito per l’arricchimento dell’uranio, nei pressi della città di Qom, e ha chiesto di congelare immediatamente il progetto. Ora l’iter precede che il testo passi al tavolo del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che dovrà valutarlo e decidere se adottare le sanzioni previste. Di solito, la procedura si scontrava in questa fase con il veto di Mosca e Pechino. La risoluzione di ieri, invece, è stata approvata a stragrande maggioranza (25 voti a 3, con 6 astensioni) ed è la prima in quattro anni, da parte dell’organismo in cui siedono i rappresentanti di 35 Paesi, a passare con l’inusuale appoggio di Russia e Cina. Si tratta di un chiaro messaggio dell’irritazione internazionale per il comportamento degli ayatollah, che potrebbero vedere volare via l’appoggio fondamentale del governo russo. Non è chiaro però se il voto, appoggiato dalle sei potenze del cosiddetto 5+1 (il gruppo che conduce i negoziati con Teheran), si tradurrà nell’appoggio di Russia e Cina a eventuali nuove sanzioni a Teheran. Replica immediata di Teheran: «L’adozione di questa risoluzione - ha detto l’ambasciatore Ali Asghar Soltanieh - non solo è inefficace per migliorare la situazione attuale, ma comprometterà l’ambiente produttivo assolutamente necessario per il successo dei negoziati a Ginevra e Vienna, che dovrebbero portare a una comune comprensione». Nel comunicato diffuso subito dopo il voto, il diplomatico iraniano dice che la risoluzione è un passo “frettoloso e eccessivo” imposto da un ristretto numero dei Paesi rappresentanti nell’organismo direttivo. In serata, però, sono arrivati i toni usuali del regime degli ayatollah. Il ministero degli esteri iraniano ha giudicato “inutile” la risoluzione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Lo riferisce l’agenzia ufficiale Irna, secondo cui il portavoce del ministero Ramin Mehmanparast ha detto che «il voto di questa risoluzione è una decisione teatrale tesa a fare

pressioni sull’Iran. Un’attitudine totalmente inutile». Ben altri toni da parte della comunità internazionale occidentale. Il Dipartimento di Stato americano, indeciso sull’approccio da seguire nei confronti di Teheran, ha espresso“soddisfazione”per un voto definito “significativo”.

L’inviato Usa all’Aiea ha poi sottolineato che «la pazienza nei confronti dell’Iran si sta esaurendo: non si può continuare in round di colloqui, che si succedono uno dopo l’altro, senza alcun risultato». La risoluzione di censura all’Iran, ha aggiunto il ministro degli Esteri britannico David Miliband, «è il segnale più forte possibile inviato al regime. La risoluzione approvata al Consiglio dei Governatori dell’Aiea è il più forte segnale possibile all’Iran che le sue azioni e le sue intenzioni rimangono un elemento di grave preoccupazione internazionale». Anche Israele ha salutato con favore la decisione dell’Aiea: «Il passaggio della risoluzione con una larga maggioranza si legge in una nota del ministero degli Esteri dimostra che la comunità internazionale è giunta alla conclusione che il programma nucleare iraniano sta diventando una significativa e urgente minaccia alla pace». L’appello di Tel Aviv è a far sì che «la risoluzione abbia un significato concreto imponendo scadenze vincolanti e sanzioni pesanti in caso di violazioni». Sempre ieri, le autorità iraniane hanno confermato alla Norvegia la confisca della cassetta di sicurezza di una banca dove è custodita la medaglia del Nobel di Shirin Ebadi, l’avvocato per i diritti umani premiata nel 2003. Durante un incontro al ministero degli Esteri di Teheran è stato comunicato all’ambasciatore norvegese Roald Naess che «la cassetta di sicurezza è stata confiscata». La cassetta contiene la medaglia, il diploma del Nobel e altri oggetti personali. Naess ha dal canto suo ripetuto la protesta del suo governo. La premio Nobel si trovava in Spagna al momento delle elezioni presidenziali del 12 giugno e da allora non ha più fatto ritorno in patria.

Teheran ha confermato ieri il sequestro del Nobel per la pace a Shirin Ebadi. Vibrate proteste da parte della Norvegia

interni, il lituano Semeta alle tasse, consumatori, audit e antifrode. Il lettone Piebalgs sarà invece commissario allo sviluppo, il ceco Fule all’allargamento, mentre la bulgara Jeleva sarà commissario alla cooperazione internazionale e aiuto umanitario. Il maltese Dalli va alla sanità, la greca Damaki alla pesca, la cipriota Vassiliou all’educazione, cultura, multilinguismo e giovani, e l’austriaco Hahn alle politiche regionali. Alla danese Hedegaard è andato il nuovo portafoglio per l’azione climatica, e allo sloveno Potocnik l’ambiente. Lo slovacco Maros Sefcovic sarà invece vicepresidente della Commissione per le relazioni inter-istituzionali e l’amministrazione.

schi erano già in fibrillazione dopo la decisione dell’attuale ministro della Difesa zu Guttenberg di licenziare il generale Schneiderhan e il sottosegretario alla Difesa Wichert. L’accusa rivolta loro è di avergli sottratto i rapporti militari provenienti dall’Afghanistan e relativi al raid aereo, compiuto su ordine di un ufficiale tedesco contro due convogli di camion a Kunduz. Il bilancio dell’attacco fu tragico: 142 vittime, gran parte delle quali civili.

In molti, soprattutto dalle file dell’opposizione, hanno chiamato in causa Jung, giudicando impossibile che il ministro non fosse al corrente di quanto accaduto. All’epoca, Jung aveva sostenuto per giorni che il bombardamento non aveva causato vittime civili. In mattinata si è riunita anche la Commissione Difesa del Bundestag che ha ascoltato le dichiarazioni di zu Guttenberg; con tutta probabilità verrà costituita una commissione parlamentare d’inchiesta. L’intera vicenda rischia di incidere pesantemente sulla missione della Bundeswehr in Afghanistan: in questi giorni il Parlamento è chiamato ad approvare la decisione del governo di Berlino di prolungare le missioni all’estero dei soldati tedeschi.


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Il personaggio. La malinconia di vivere è presente nella narrativa dello scrittore siciliano già a partire dal suo primo romanzo “L’amico del vincitore”

L’uomo che cantava la morte Nostalgie, languori e tormenti di Vitaliano Brancati attraverso i protagonisti delle sue opere più intimistiche di Sabino Caronia n motivo peculiare della narrativa di Brancati consiste nel pensare alla morte «non solo, come accade ai più coraggiosi, con desiderio e speranza, ma addirittura con nostalgia, come al buio nativo». Giustamente un critico acuto come Giuseppe Amoroso ha sottolineato che il significato più autentico del libro è rivelato dalla scoperta di un senso nostalgico della morte. Questo senso nostalgico della morte è evidente a partire dal primo romanzo di Brancati, L’amico del vincitore. Nell’autointroduzione che pubblicò col titolo “La guerra” in Il Tevere dell’8 agosto 1930 Brancati scrive: «Noi possiamo anche pensare, dubitare, soffrire, ma in fondo alla nostra anima, in un al di qua del pensiero filosofico e del sentimento poetico, c’è una zona immutabile, eterna, giuliva, che contempla fermamente il creatore. Nessun turbamento, nessun dolore, nessuna paura la raggiunge, la sua tranquillità non ha avuto mai principio e non avrà mai fine. Tutti gli uomini posseggono questa zona di calma eterna, ma pochissimi hanno coscienza di possederla... Noi sentiamo che alla radice del nostro essere c’è un brillare bianco, lietissimo, incorruttibile».

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E aggiunge: «Noi abbiamo un fondo di eterno bianco, sul quale risaltano le labili e oscure idee, i labili e oscuri sentimenti. Solo pochi uomini ne acquistano coscienza. Abbiamo visto come nel primo capitolo Pietro Dellini col puro occhio di fanciullo abbia avvertito questo fondo di felicità nelle anime mondanamente addolorate dei suoi amici, e veduto come Gabriele Gabrieli sappia avvertire in se stesso e negli altri la presenza dell’eterna beatitudine». A proposito della felicità di Pietro Dellini, il protagonista del romanzo, in cui ritorna quella

«malinconia di non sapere perché dalla quietitudine del nulla siamo stati chiamati a vivere e a dubitare di vivere, ad annoiarci della vita e a temere, nello stesso tempo, di perderla», che era già la malinconia

Noi - scrisse possiamo anche pensare, dubitare, soffrire. Ma in fondo all’anima c’è una zona immutabile che contempla il creatore del protagonista di Fedor, si dice appunto alla fine del primo capitolo: «Ma l’idea più esatta, che ciascuno avesse degli altri, era, in fondo in fondo, quella che Pietro aveva dei suoi amici, perché egli sapeva vedere

quanta felicità di vivere e di essere uomini portavano essi, inconsciamente, in fondo ai loro dolori». E Gabriele Gabrieli, il comandante di quella spedizione polare in cui Pietro, avendo ormai perso la sua partita con l’antagonista, Giovanni Corda, il vincitore, trova finalmente la morte, ben conosce quella «calma

eterna» che è «in quella parte tranquilla della tua anima che resta sempre uguale». Così egli riflette: «Il Sole era tramontato e Venere splendeva con un che di abbondante, di troppo gioioso, come un bambino che voglia sorridere, mentre ha la bocca piena di frutti. Gabrieli sedette sopra una pietra, e sentì la soavità di questo incomprensibile mondo, che incominciava chissà dove e finiva chissà dove, e, sosteneva lui, Gabrieli, con una forma bianca che si chiamava: pietra, e lo aveva fatto nascere, e, senza dirgli niente, senza spiegargli niente, come una madre che, facendo: St!, conduce il figlioletto verso una bellezza sconosciuta, lo portava alla morte. Quand’egli pensava alla morte, un’emozione di innamorato timido gli fermava, quasi, il cuore. Di tutte le azioni, a cui egli partecipava con la sua volontà di tutte le azioni mondane - aveva una gioia discreta. Ma all’azione morte egli non partecipava. La sua volontà era assente. Cominciava l’azione assoluta di Dio. E Gabrieli pregustava la soavità di affidarsi completamente a Lui: “Chissà che farà Egli di me? Una volta sola, io mi sono affidato completamente a Lui, e m’accadde una cosa sbalorditiva: nacqui”. Il tempo gli sembrava troppo lento e troppo rapido, pensando alla meraviglia che lo aspettava. “E c’è chi ha paura! Ma paura si può avere delle cose che facciamo noi, non delle cose che fa soltanto Lui! Aver paura di morire sarebbe come... come se il feto, nell’alveo materno, avesse paura di nascere”».

E conclude: «“Lassù si soffre” pensò, sorridendo nella profondità della sua anima; e al di sotto di tutte quelle variazioni di mal di capo, senso di vomito, tremito, sentì la sua sconfinata serenità; la comunione di vita coi cieli e le stel-

A sinistra, lo scrittore siciliano Vitaliano Brancati in un disegno di Michelangelo Pace. A fianco, l’opera di Albrecht Dürer “Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo”. In basso e nella pagina a fianco, altri due disegni di Pace

le; il senso di poggiare sopra una volontà ultrapotente, in seno alla quale la sua piccola volontà poteva addormentarsi (“Non voglio vivere”) senza timore, perché l’altra volontà la faceva vivere ancora».

Abbiamo accennato a questi due personaggi che Brancati richiama nella citata autointroduzione. Ci soffermeremo anche su un terzo, Antonio Bruners, protagonista di un episodio eccentrico rispetto alla vicenda principale. Del resto, come ben osserva Enzo Lauretta, in L’amico del vincitore «c’è una folla di personaggi in ognuno dei quali c’è un frammento di Brancati». In Antonio Bruners è facilmente riconoscibile il catanese Antonio Bruno, la sua vita infelice di gobbo e la sua precoce morte volontaria quando un giorno si ritirò nella sua cameretta con un tubetto di sonnifero. L’opera di questo infelice poeta, celebrata dagli amici come Giovanni Centorbi, è stata fi-


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pesante, e sorrideva, richiamandolo al suo grembo». E di nuovo: «Era diventato piccino piccino. Fra poco, avrebbe perduto luce di pensiero e parola, e la madre lo avrebbe riassorbito nel suo grembo». Quindi: «La madre gli disse: - Affrettati, Antonio. È ora che tu ritorni a me». E infine: «- Antonio! - chiamò ancora la madre. - Eccomi, mamma: sono qua -. E con infinita soavità, s’abbandonò al Signore. Che lo prese amorosamente, gli tolse il pensiero, lo fece piccolo piccolo e lo restituì alla madre».

Per il motivo della regressione all’infanzia si possono ricordare le pagine conclusive di Fedor: «Dinanzi a lui si snodano sentieri che si perdono nel ceruleo… Essi conducono tutti verso la fanciullezza: chi vi si interna perde a poco a poco gli anni, la barba, la tristezza, e, a una svolta, si ritrova piccolino coi suoi cari». L’episodio di Antonio Bruners evoca quell’atmosfera ottocentesca che è tanta parte del sentimento nostalgico di Brancati. E giustamente nella sua introduzione a Paolo il caldo Massimo Onofri osserva che «la nostalgia di Brancati, fin da Singolare avventura, è ferma a un mondo di lunghi e profondi silenzi, di operosa onestà di cui la Catania ancora ottocentesca degli Antonio Bruno, Giovanni Centorbi, e Giuseppe Villaroel, del giovane Antonio Aniante, del giovanissimo Ercole Patti è

l’autore

nalmente raccolta nel 1987 a cura del comune nativo di Biancavilla. Di lui, che scrisse tra l’altro un discorso intitolato “Come amò e non fu riamato Giacomo Leopardi”, si legge nella dedica a Corrado Lo Duca delle Cinquanta lettere d’amore alla signorina Dolly Ferretti: «Essere incompreso misconosciuto tradito, nascere sotto i dardi del Sagittario, portare come una croce la passione per ciò che redime lo spirito dal servaggio del corpo». In una lettera è dichiarato leopardianamente che «la vita è un dolore inutile». Ma vediamo di richiamare i passaggi più significativi dell’episodio di Antonio Bruners. Ecco dunque: «Improvvisamente vide, nel suo avvenire, uno sbocco di luce: la morte».

E poi ancora: «Prese una pesca e si fermò. Il colore del frutto gli ricordò una scena, che doveva essere avvenuta molti anni prima: sua madre giovane, paffutella, sciocchina, in

campagna; improvVitaliano Brancati (1907-1954), erede della visamente, una vetgrande tradizione siciliana di Verga e De Rotura, passando per berto, analizzò la vita della borghesia sicilialo stradale, cadeva na durante il fascismo, avvalendosi di un’irodi fianco; ne scennia dissacrante, e rivelatrice del disagio sociadeva un ufficiale, si le dell’epoca. Rifiutò molto presto la giovanile avvicinava... Egli si adesione al fascismo, documentata nel rotuffò nella dolcezza manzo breve “Singolare avventura di viaggio” di quel tempo, allor(1934). Dopo la seconda guerra mondiale si feché tra l’ufficiale ce sostenitore di un liberalismo radicale, teso a della diligenza e la denunciare l’intolleranza e il dilagante dipiccola donna sprezzo per la cultura. La sua produzione letsciocchina, non era teraria comprende racconti (“Il vecchio con gli avvenuto quel fatstivali”, 1945), romanzi (“L’amico del vincitore”, taccio: lui, gobbo, 1932; “Gli anni perduti”, 1941; “Don Giovanni orribile, malato! - E in Sicilia”, 1941; “Il bell’Antonio”, 1949; l’innon sarà così, dopo compiuto “Paolo il caldo”, 1955, postumo), la morte? Una camopere drammaturgiche (“Questo matrimonio pagna serena, dei si deve fare”, 1938; “Le trombe d’Eustachio”, cipressi, dei crisan1942; “Raffaele”, 1948; “La governante”, 1952, temi; e il fattaccio bloccata dalla censura per lo scabroso tema orribile, io, sarà codell’omosessualità femminile) e saggistica. me non avvenuto! ». Poi: «Sentiva di tornare dolcemente all’infanzia: la barba gli spari- la cara capitale». va, le gambe e le braccia diven- Ricordiamo in primo luogo la tavano piccole: il pensiero gli si celebre pagina di Singolare avrinfrescava. Accanto a lui, la ventura di viaggio: «Questo simadre si era tolta la sua cera di lenzio dell’Ottocento!... Noi lo ammalata, come una maschera portiamo in fondo alla vita: es-

capo: il pensiero della morte lo aveva estasiato fino a togliergli il respiro, come un vento piacevole, ma che troppo crescesse di rapidità e violenza; i suoi mattini più felici erano stati quando si svegliava dall’aver sognato che uno sforzo fortissimo, quasi sanguinoso, della memoria gli aveva riportato un ricordo dell’al di là, di prima della nascita, ricordo che di nuovo s’era perduto, ma della cui dolcezza gli rimaneva una lacrima fredda all’orlo dell’occhio».

P e r n on s of f e r m a r c i

so sale, in certi momenti, sale piano, ci fa girare la testa...».

Entriamo dunque con Francesco Maria Lanteri, il protagonista di Singolare avventura di Francesco Maria, in questa Catania ottocentesca: «Catania, oh Catania era bella al principio del Novecento! C’era un odore di cipria per le strade, delicato come i visetti delle donne che lo portavano. Visi timidi, pazienti, deboli, veramente di donne. Si aggiungeva un gradevole odore di finimenti di cuoio per il gran numero di carrozze padronali che scorrevano da un capo all’altro del corso. Io, in verità, non li ricordo, perché allora non vivevo a Catania, né altrove, e battevo in felicità quegli uomini felici, non essendo ancora nato. Ma i ricordi degli altri mi fanno trasalire ugualmente, e la nostalgia di cose che non ho viste, e che mi sono tanto care, giunge al punto di guastarmi l’umore». Ecco, continuiamo ad inseguirla questa nostalgia prenatale. Ne abbiamo un ulteriore esempio nelle pagine del Diario romano che lo scrittore dedica a parlare della sua nascita, dove a un certo punto si legge: «Era il 1904 ed io non ero nato. Vorrei che il tempo fosse riportato indietro, che mio padre avesse venticinque anni ed io dormissi nelle sue vene, cellula a cui è promesso in lontananza uno scintillio di coscienza della durata di alcune decine di anni». Con il brano succitato se ne può richiamare un altro di un racconto anch’esso notissimo, La noia nel ’37: «Nella fanciullezza e nell’adolescenza, aveva molto meditato, e l’aria del suo viso era stata quella di un ragazzo a cui dolesse fortemente il

troppo su questo sentimento estatico della morte ci limiteremo a ricordare in Il bell’Antonio l’attitudine del protagonista nei confronti dello zio Ermenegildo, «di quell’uomo così addolcito dal desiderio della morte» in cui è facilmente riconoscibile l’autore, o a rimandare alla conclusione del racconto Passo del silenzio. In Passo del silenzio si legge: «Egli era ormai entrato in un’estasi rapinosa, sentendosi sciogliere per sempre e liberare il petto da misteriosi, crudelissimi e, fino a quel punto, inestricabili nodi, e respirando sempre meglio le delizie confuse del nulla, del paradiso, della morte e del perdono». Notevole interesse ha, nell’inizio del racconto, la considerazione sull’attitudine dei siciliani nei confronti della morte. Come dirà altrove Brancati «poche cose riescono bene in Sicilia come quelle improntate al lutto, perché il più antico culto dell’isola è quello della morte».

Enzo Lauretta nel suo Invito alla lettura di Brancati sottolinea in Passo del silenzio l’evolversi del sentimento del protagonista dalla paura di morire al mistico desiderio della morte. E Gesualdo Bufalino in Brancati trent’anni dopo indica in Giovanni Damigella, aspirante suicida protagonista di Passo del silenzio un «fratello in nostra corporale sorella morte dell’indimenticabile vecchia di Casa d’altri», il capolavoro di Silvio D’Arzo, quel Giovanni Damigella che chiede alle cose e agli uomini il “permesso” di morire. Una licenza che Domenico Vannantò, il protagonista de La noia nel ’37, «incapace di reggere oltre ai giorni di grigia cenere che gli toccava vivere nella palude di Catania», non esita a prendere, anticipando la situazione che sarà di Paolo il caldo: «In quest’isola errano come spettri le quattordicimila giornate della mia vita, fra la nascita e i trentanove anni». Ecco dunque, Brancati fra la noia del trentasette e l’uggia del cinquantaquattro.


cultura

pagina 20 • 28 novembre 2009

mportata dalla Cina nel Medioevo, la carta rivoluzionò il mondo della cultura e dell’informazione, permettendo ad un numero sempre maggiore di persone di accedere alla scrittura. Il passaggio dalla costosa pergamena alla carta ricavata dagli stracci aprì la strada all’invenzione della stampa. Oggi la carta è ovunque e spesso se ne dimentica il valore. E, soprattutto, si dà per scontata la sua importanza considerato anche che nessuna “tecnologia” come la carta ha rappresentato un veicolo di conoscenza così prezioso nella storia umana.

I

La carta è un filo rosso in grado di avvicinare civiltà lontane nel tempo e nello spazio. Una storia lunga quindici secoli, quanti ce ne sono voluti perché percorresse i 40mila chilometri che separano la Cina dalla Spagna, da dove si è poi diffusa in tutta Europa. È nel Paese del Celesto Impero, infatti, che appaiono nel III secolo a. C. i primi fogli di carta, ottenuti con fibre vegetali, ma ci sono voluti quasi mille anni prima che le tecniche segrete per la loro produzione arrivassero fino in Medioriente grazie ad alcuni artigiani cinesi fatti prigionieri nella battaglia del Talas, in grado di produrre la carta facendo macerare i cascami vegetali del lino e della canapa. Furono poi gli arabi - ai quali ancora oggi è attribuito erroneamente il merito dell’invenzione - a introdurla in Europa attraverso la Penisola iberica a partire dal 1100. A questa avventura, dipanata sugli stessi sentieri calcati della via della seta e delle spezie, Italia ed Egitto dedicano ora una mostra congiunta,“Il viaggio della carta. Dall’Oriente all’Occidente: la produzione, la diffusione, l’uso e la conservazione”, organizzata dall’assessorato alle Attività produttive della Regione Lazio e dall’Icpal, l’istituto che si occupa del restauro del patrimonio archivistico e librario. La mostra racconta la genesi e l’itinerario della carta a partire dalla sua nascita in Cina, passando per l’Asia centrale, il Medioriente, il nord Africa fino al cuore dell’Europa e la storia della sua manifattura attraverso immagini, testi e manufatti. Nata in Cina nel 105 d.C., la carta impiegò molto tempo prima di assumere l’aspetto che conosciamo: ad esempio, rimase a lungo arrotolata come si faceva con la seta, il papiro e la pergamena prima di essere usata in fogli piani. È stato il Giappone a diffondere la piegatura della carta che diventerà famosa col nome di origami. Rispetto alla seta che non tiene la piega, al papiro che si spezza e alla pergamena che è troppo dura, la carta permetteva una più ampia e veloce diffusione delle idee e

Storia. Una mostra congiunta in Italia e in Egitto ne celebra le origini

Il viaggio della carta che rivoluzionò il mondo di Rossella Fabiani

della cultura. In Asia Minore, quando la tecnica della carta arrivò a Samarcanda nel 751 d.C. incentivò scambi commerciali e culturali grazie anche alla crisi del papiro che non veniva più esportato dall’Egitto per timo-

zionalmente robuste, ma creando anche la carta più leggera del mondo per i piccioni viaggiatori che trasportavano le belle e le brutte noti-

sparmiare sul numero di fogli usati. Nacquero così i famosi piccoli libri scritti nei minuscoli caratteri persiani.

Un materiale dunque prezioso, la carta. E per l’esposizione,

Nata in Cina nel 105 d.C, rimase a lungo arrotolata come la pergamena, la seta e il papiro prima di essere usata in fogli piani. È stato il Giappone a diffondere la piegatura della carta che diventerà famosa col nome di origami re che si costituisse una biblioteca più grande di quella di Alessandria.

Gli arabi modificarono le ricette cartarie orientali adattandole alle materie prime locali e fabbricando carte ecce-

zie in ogni angolo dell’impero. Nella cultura islamica la dimensione dei fogli e della scrittura era direttamente proporzionale all’importanza dei rapporti interpersonali e l’uso sconsiderato di carta portò a una crisi e al bisogno di ri-

dal 1 al 5 dicembre, che ne racconta il millenario viaggio è stato scelto un luogo prestigioso e carico di memoria storica, la Bibliotheca Alexandrina, inaugurata nel 2002 per ricordare la più grande e ricca biblioteca dell’antichità, cuore

culturale del mondo ellenistico, andata distrutta in un incendio nel III secolo. «Per l’occasione esporremo tre libri originali – dice la direttrice dell’Icpal, Armida Batori – che sono esempi delle produzioni cartacee delle diverse aree del mondo: un testo in lingua cinese con xilografie di peonie di metà del Novecento, un manoscritto con preghiere in lingua araba proveniente dalla Turchia, risalente al XVII secolo e un incunabolo stampato a Venezia a fine Quattrocento». «Una mostra carica di significati – specifica Taha Mattar direttore dell’Istituto Egiziano di Cultura a Roma – che è inserita tra gli eventi celebrativi dell’anno italo-egiziano per la scienza e la tecnologia (Eisy 2009) e che rappresenta un’importante occasione per rinsaldare il forte legame che da sempre esiste tra Italia ed Egitto; un legame che si sviluppa su diversi piani da quello culturale a quello economico».

Ma quella della carta è anche una storia italiana visto che è a Fabriano, un paese in provincia di Ancona nelle Marche, che la manifattura arriva ai massimi livelli, raggiungendo un primato che dura tuttora. «Le materie prime erano le stesse, le fibre vegetali - spiega Batori - ma il procedimento di lavorazione introdotto nell’anconetano era diverso, perché con l’impiego dei mulini a magli metallici la poltiglia ottenuta era di qualità migliore, i tempi più veloci e i costi inferiori, mentre i mortai cinesi e le mole arabe erano meno raffinate e più dispendiose economicamente. L’uso di una gelatina animale permise anche di rendere impermeabili le pagine e l’inserimento della filigrana, attraverso un rilievo sul telaio, divenne una sorta di segno di riconoscimento in tutto il continente». Il catalogo della mostra, con l’introduzione del ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, conterrà anche due pubblicazioni in arabo sulle collaborazioni che ci sono state negli ultimi anni tra Icpal e le autorità del Cairo. «All’interno di progetti specifici abbiamo formato restauratori, archivisti e bibliotecari egiziani», sottolinea Batori. E per rimarcare come la cartiera di Fabriano sia ancora un fiore all’occhiello della manifattura italiana, si recheranno ad Alessandria in Egitto anche dieci aziende del Lazio che a vario titolo lavorano nel settore della produzione della carta e nella conservazione dei manufatti archivistici e librari. Un’opportunità per restauratori, legatori e diagnosti per illustrare con dimostrazioni, filmati e oggetti la propria attività e stabilire contatti con le autorità egiziane. Dopo Alessandria, la mostra andrà al Cairo, in occasione della fiera internazionale del libro, prevista per il prossimo gennaio.


sport

28 novembre 2009 • pagina 21

Fantasisti. Le squadre della Lanterna disputano stasera il centunesimo derby. Qualcuno onorerà le gesta di Giuseppe Baldini?

Genova e la carica del 101 di Francesco Napoli

erby della Lanterna numero 101. Le due squadre si apprestano a schierare i migliori. Si gioca alla pari e, come nella retorica del calcio si usa dire, i favoriti sono quelli più in odore di sconfitta. E i tifosi giù a scongiurare e a praticare ogni possibile gesto apotropaico atto ad allontanare gufi e malocchio. Ma oggi, mi sia consentito dire, a Genova il protagonista c’è già stato. È già sceso in campo, diversi anni fa, quando il derby era sì all’ultimo sangue ma sempre e solo in senso metaforico. Non c’era neppure bisogno di invocare il fair play, quello era dato per scontato. “Pinella”, al secolo Baldini Giuseppe, classe 1992, da Russi, (Ravenna), nella storia, non solo del derby, da calciopedatore di forza ci è già entrato, quasi sempre come pionere.

D

Primo vero bomber della storia della Sampdoria; primo marcatore nel primo derby della Lanterna, primo calciatore blucerchiato a essere convocato in Nazionale, e solo una volta, anche lì nella storia perché è accaduto per un’Italia-Portogallo 4-1 durante il quale, nello spogliatoio del Luigi Ferraris di Genova, ha inizio la tragedia di Superga. Infatti è lì, tra quelle mura, che i due capitani,Valentino Mazzola e José Ferreira, si mettono d’accordo per una amichevole tra Benfica e Torino, il Grande Torino. «Non ero in

condizione di giocare» disse Valentino nell’ultima intervista della sua vita e raccolta dal periodico Bola di Lisbona, «ma non potevo non portare il saluto della Nazionale italiana al valoroso giocatore che è Ferreira». È la partita d’addio del portoghese e sarà quella di un’intera squadra. Valentino, nonostante la febbre, partecipa alla trasferta. Finisce 4-3 per i lusitani ma il giorno dopo... Nella neonata Sampdoria con Adriano Bassetto, detto “Nano”, sì proprio così, Baldini ha dato vita alla prima coppia del gol in blucerchiato: 166 reti per i due che insieme formavano l’«Attacco Atomico», chissà, forse l’infausta era Hiroshima ancora impressa nella mente. Ma “Pinella”fu anche il primo giocatore a segnare nei derby con entrambe le maglie: quattro reti con la

ra e dalle divisioni postfasciste, il derby in uno dei capoluoghi del triangolo industriale, città cardine della ripresa, significava un inestimabile possibilità: segnare la rincorsa verso un futuro agognato come roseo e mostrare a tutti un volto di concordia non solo calcistica, tra gli uomini e tra Stato e Chiesa. La Sampdoria era la neonata società di Genova, i rossoblù erano i blasonati cugini, già plurivincitori nel campionato italiano. Fischio d’inizio e pronti via: le squadre si studiano nel borbottìo chiassoso dello stadio. Corre il 26° minuto del primo tempo e il pallone giunge tra i piedi di Baldini

Fu primo bomber nella storia della Sampdoria; primo marcatore nella prima stracittadina genovese, e primo calciatore blucerchiato a essere convocato in Nazionale

In alto, le coreografie dei tifosi di Sampdoria e Genoa allo stadio di Marassi a Genova. Al centro, Giuseppe Baldini, detto “Pinella”, scomparso giovedì. Qui sopra, Palladino e Cassano si sfideranno nel derby di stasera

Sampdoria e una con il Genoa nel 1950. Un record che solo Firmani, Edwin Ronald detto “Eddie”, classe 1933 da Città del Capo, seppe eguagliare: con i doriani nel 1956, con i cugini nel 1962. Baldini andò anche oltre: avendo iniziato a giocare prima, quando ancora esisteva l’Andrea Doria, è stato l’unico giocatore ad aver disputato un derby con la maglia di tre squadre genovesi. La storia: 3 novembre 1946, Genova assiste all’inizio del primo derby Sampdoria-Genoa che fu disputato alla presenza di, caspita, Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato italiano e di Sua eminenza Giuseppe Siri, allora arcivescovo di Genova. Per l’Italia, rotta dalla guer-

che controlla e senza pensarci tira uno dei suoi mancini, antesignani di quelli di “Rombo di

tuono” Gigi Riva. Il gol esalta la sua parte che poi fa strame del Genoa: 30 il finale per l’ovvia gioia e dolore di una città. Primo “Pi-

nella” lo è stato anche nel più clamoroso caso di calciomercato anni Cinquanta: fu pedina di uno dei rarissimi scambi di giocatori tra Genoa e Sampdoria. Deciso dai vertici societari, nell’estate del 1950 Bergamo Vittorio vestì il blucerchiato e Baldini il rossoblù (sarebbe poi stato raggiunto a campionato in corso perfino dal portiere Pietro “Piero” Bonetti).

I tifosi del Genoa videro raramente il centravanti che aveva impressionato nella Sampdoria in coppia con “Nano”Bassetto e aveva esibito le caratteristiche del leader in campo e un tiro di sinistro potente e preciso. Solo 6 in 31 incontri furono le sue reti. Una, ancorché inutile, merita di essere ricordata: il 3 dicembre 1950 trasformò un calcio di rigore con un diagonale sulla sinistra nella porta sotto la Gradinata Nord, quella giusta abitata dai suoi tifosi di allora. Pareggiò solo i conti, e per poco: il Genoa perse 1-2. Appese le scarpe al chiodo, allenatore in contrasto con un’altra gloria blucerchiata, Ber-

nardini Fulvio da Roma, classe 1905, Giuseppe Baldini dal Luigi Ferraris, detto Marassi talvolta ma solo perché sito nel quartiere eponimo, non si è mai allontanato e mai l’avrebbe fatto. Ha festeggiato le sue 87 candeline andandosi a godere in allenamento l’attuale duo atomico Cassano-Pazzini. Poi, proprio alla vigilia del derby 101 della Lanterna, forse per non dover tifare l’una o l’altra delle due casacche indossate, ha preso la porta del mondo e se ne è uscito.


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da ”Georgian Daly” del 24/11/09

Fermate quella brezza! David J. Smith a nave anfibia francese Mistral ha visitato il porto di San Pietroburgo. Si tratta di una unità d’assalto che prende il nome di un vento freddo che spira in Francia. E non è stato un semplice scalo tecnico: ma la visione della merce per una vendita. Una transazione dalle implicazioni geopolitiche inquietanti. «Abbiamo pianificato di acquistare una unità della classe Mistral dalla Francia e poi di produrre su licenza altre quattro portaelicotteri» aveva affermato il vice ammiraglio Oleg Burtsev, uno dei responsabili della Marina militare russa. Sarebbe la più consistente vendita di armamenti fatta da un Paese Nato alla Russia. Le navi di questa classe sono progettate ed equipaggiate specificamente per attaccare le fasce costiere dal mare. Per la Russia diventerebbero una potente arma d’intimidazione per i suoi vicini. La nave d’attacco francese può imbarcare 16 elicotteri pesanti oppure 35 leggeri, quattro mezzi da sbarco, 900 soldati e fino a 70 veicoli militari, inclusi una quarantina di carri armati. Il prezzo di listino della Mistral si aggira sugli 800 milioni di dollari. Le motivazioni che spingono Parigi alla vendita sono comprensibili. Inoltre, sostengono i fautori della vendita, non saranno certo poche navi moderne inserite nella barcollante e antiquata marina russa a mettere in discussione la schiacciante superiorità Usa nel dominio dei mari. Sarà Parigi pronta a premiare l’aggressione russa alla Georgia, a ignorare la rottura dell’accordo per il cessate-il-fuoco, negoziato e firmato dal presidente Nicolas Sarkozy, ad accettare il contributo militare dei soldati georgiani in Afghanistan – e imporre un embargo non riconosciuto sulle armi a Tblisi – mentre nel contempo vende sistemi avanzati a Mosca? La Francia vuole veramente che

L

Mosca acquisisca delle capacità offensive per attacchi costieri? Ignorare queste domande potrebbe, solo per qualche tempo, migliorare il clima tra Parigi e la Russia, ma quest’ultima non restituirebbe il favore in nessuna maniera concreta. Invece, potrebbe chiedere sempre di più. I russi potrebbero anche utilizzare la Mistral per una nuova aggressione, trasformando i francesi in complici. Purtroppo il progetto di vendita della nave da guerra sembra scaturire dalla peggiore economia senza scrupoli.

La collaborazione tra Francia e Russia, ha recentemente affermato il primo ministro Francois Fillon «può assumere diverse forme nella sfera della Difesa, dalla cooperazione militare alla partnership industriale». Serve ricordare che Fillon, il giorno prima del summit Nato di Bucarest nel 2008, aveva dichiarato ai microfoni di France-Inter: «ci siamo opposti all’ingreso di Ucraina e Georgia nell’Alleanza, perché pensiamo non sia la risposta giusta agli equilibri di potere europei e a quelli tra Europa e Russia». Diventa quindi difficile immaginare quale genere di potere la Francia vorrebbe controbilanciare, con la consegna delle unità anfibie al Cremlino. Mosca non è in grado, a breve, di sfidare l’America sugli Oceani. Per un prossimo futuro la marina militare russa potrà essere considerata solo una marina da basso cabotaggio, incapace di operare lontano dai porti di casa. In pratica un elemento complementare delle forze di terra. In particolare sarà il supporto di quelle forze che non vo-

gliono l’espansione della Nato verso est, in modo particolare con l’inclusione di Georgia e Ucraina. Per poter mantenere la propria base del Mar Nero nel porto di Sebastopoli, in Ucraina, ben oltre la data del 2017, anno in cui scadrebbero i diritti d’utilizzo russi. Per poter scoraggiare manovre Nato nei Paesi alleati del dopo guerra fredda. Per sfidare gli Usa nel rapporto che hanno con questi nuovi alleati. E alla fina per ribaltare una situazione che viene percepita come un’invasione occidentale. «Tutto ciò che noi consideriamo nostro, resterà nostro» affermava Vladimir Putin, brindando all’ottantesimo compleanno del decano della politica estera, prima sovietica e poi russa,Yugeny Primakov. Sul Baltico, dei vecchi possedimenti russi cui faceva riferimento Putin, rimane solo Kaliningrad, base della flotta baltica. E da lì, come auspica Medvedev, potrebbe cominciare la ricostruzione della loro Marina militare. Un altro motivo per bloccare la vendita della Mistral.

L’IMMAGINE

Nel 1948 i partiti repubblicano e azionista non facevano parte del fronte popolare Nel corso della trasmissione televisiva dedicata a Giorgio La Pira, il giornalista-conduttore ha detto una grave inesattezza, quando ha affermato che, in occasione delle elezioni del 18 aprile 1948, del fronte popolare facevano parte - oltre ai partiti comunista e socialista - anche i partiti repubblicano e azionista. A parte il fatto che il partito d’azione, che aveva subito una prima scissione nel febbraio del 1946, terminò la sua attività nell’aprile del 1947, quando - dagli ultimi dirigenti - fu decretata ufficialmente l’estinzione, il partito repubblicano non fece parte del fronte popolare e presentò liste proprie con le quali vennero eletti otto deputati e cinque senatori. Inoltre, non poteva far parte del fronte popolare perché era alleato della democrazia cristiana e partecipava con propri ministri ai governi presieduti da Alcide De Gasperi.

Luigi Celebre

VERGOGNOSA SPECULAZIONE È incredibile quanto ho scoperto sulla vicenda di Cavallerizzo (CS). La protezione civile ha ritenuto necessario ricostruire l’intero paese più a valle in località Pianette, un’area potenzialmente più a rischio dello stesso centro storico di Cavallerizzo. Questa decisione appare priva di una spiegazione logica, anche perché la protezione civile ha fornito le relazioni geologiche solo dopo 4 anni dall’evento franoso. Bisogna inoltre sottolineare che Cavallerizzo è un paese appartenente alla minoranza etnico-linguistica Arbresh (albanofona), dunque teoricamente tutelato dalla legge n. 482 del 1999, nonché da una legge regionale che ne tutela la cultura anche dal punto di vista dell’architettura e dell’urbanistica. Detto ciò appare chiaro come

tale decisione sia una mera operazione di speculazione edilizia. Si evince, infatti, come si sia preferito spendere 52 milioni di euro per realizzare la nuova zona urbana, senza prendere in considerazione l’ipotesi di recuperare il suddetto centro storico, privo di qualsivoglia evidenza di frana in atto e certamente meno costoso da sistemare. Dal punto di vista sociale questa è un’operazione etnocida, perché tende a demolire un inestimabile patrimonio di usanze, costumi e tradizioni.

Domenico

PAUSA PRANZO, SÌ A FLESSIBILITÀ Introdurre elementi di maggiore flessibilità nell’ambito nell’orario di lavoro possa costituire un grande vantaggio per tutti e soprattutto per le donne. Spesso, infatti, sono proprio le rigidità dell’organizza-

Ceneri d’argento Gli antichi greci credevano che Eolo custodisse le correnti d’aria sulle isole Eolie. È forse stata una delle sue folate ad aver fatto sollevare le ceneri vulcaniche dello Stromboli in questo spettacolare nuvolone argentato. Il vulcano siciliano è uno dei più irrequieti del pianeta: erutta una o più volte all’ora, facendo rotolare i lapilli fino al mare, lungo la “Sciara del fuoco”

zione e del timing a rendere impossibile la conciliazione fra famiglia e occupazione, costringendo molte donne alla scelta fra l’essere madri o l’essere lavoratrici. Per questo ben venga anche una rimodulazione delle pause se funzionale ad un assetto più a misura di famiglia dei tempi di lavoro.

Barbara

CONTRO D’ALEMA ANCHE DEBOLEZZA INTERNA AL PD Sulla mancata nomina di Massimo D’Alema a Mr. Pesc, abbiano pesato diversi fattori. Certo vedere quanti siano quelli che oggi si sbracciano per mettere fine alla precaria intesa del Pd con la famiglia socialista eurtopea, la dice lunga sulla debolezza interna al

Pd e sulla fragilità politica di quell’accordo. Un peso non marginale lo ha avuto pure la scarsa coesione del nostro schieramento, dove hanno pesato più le beghe interne che l’obbiettivo di vedere un italiano nel ruolo di rappresentante della politica estera europea.

Pia Locatelli


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

La tua assenza tiene compagnia al mio cuore

PROSPETTIVE DI SVILUPPO, FORMAZIONE E OCCUPAZIONE NELL’AREA EURO MEDITERRANEA Parte dal comune di Castelnuovo Cilento (Sa) l’iniziativa di un accordo di cooperazione internazionale sui contenuti della convenzione Unesco del 20 ottobre 2005, per la protezione e promozione delle diversità delle espressioni culturali. Adesioni sono già arrivate da Valencia, Spagna, Mosta, Malta. Altre sono in corso di perfezionamento. Il comune di Campora (Sa) ha assunto su questi indirizzi un ruolo di protagonista per la realizzazione di un ufficio estero di corrispondenza per gli scambi culturali, commerciali e turistici. Si punta ai fondi Enpi Cbcmed, Fondi Fas e altri fondi comunitari per il rilancio del territorio cilentano, sottoposto a intollerabili e immanenti fenomeni di spopolamento, disoccupazione, bassi redditi pro capite e, appunto, area dell’obiettivo 1 della Unione europea.Con un pubblico dibattito ancora presso l’aula consiliare di Vallo della Lucania, è stato anche illustrato analiticamente il piano del master in scienze del turismo e del benessere, a cui hanno offerto patrocinio l’Asl ex SA3 di Vallo della Lucania,

Tesoro, è orribile scriverti perché, anche se amo scriverti, ti porta così vicino a me che potrei quasi toccarti e allo stesso tempo so che non posso toccarti, sei così lontana nella fredda e crudele Ringwood e io sono nell’insipida Barnet in un pub sulla strada con niente che tenga compagnia al mio cuore tranne la tua assenza e la tua distanza. Penso sempre tutto il tempo a te. Bacio per te il mio impietoso guanciale nelle notti maligne. Ti vedo con la nostra scimmietta mongola al seno; ti vedo in quella casa ingrata che ascolti con disgusto le notizie; ti vedo a letto, più bella di qualsiasi cosa sia mai esistita in ogni tempo. Ti amo. Amo Llewelyn e Aeronwy ma te soprattutto e per sempre finché il sole si fermerà e anche dopo. E non posso venir giù questo fine settimana. Domenica devo lavorare tutto il giorno. Sto lavorando, per la prima volta dacché ho venduto la mia anima immorale, molto molto duramente, facendo in una settimana il lavoro di tre mesi. Odio gli studi cinematografici. Odio chi ci lavora. Odio i film. Non c’è altro che insicurezza disinvoltamente ingenua in questa grossa scatola di trucchi dal coperchio di latta. So solo che tu sei mia moglie, mia amante, mia gioia, la mia Caitlin. Dylan Thomas a Caitlin

ACCADDE OGGI

SEPARAZIONI E TRIBUNALI In questi ultimi anni ho visto tante storie di separazioni, ho visto papà di quasi sessant’anni, uomini col pensiero proiettato alla serenità e alla pensione, ritrovarsi senza dignità a vivere in 9mq quando la casa, dalla quale li hanno cacciati, era ben oltre i 100mq e poteva essere divisa in due unità. Ho visto papà di trent’anni che facevano molto in casa, accompagnando i figli a scuola, educandoli con giusto affetto e severità, gonfiarsi di ansia e panico da un giorno all’altro, perché la ex voleva separarsi e gli fa sapere che i figli sono delle madri e che devi preparare gli assegni, perché d’ora in poi saranno loro a far compagnia ai bambini al posto tuo. I giudici recita la tipica lettera dell’avvocato aguzzino - decidono così, perciò non stia a fare tanta resistenza signor padre, si adegui. La proprietà privata non esiste più: uno o due anni di convivenza e alla fine non hai più nulla: donna, figli, amore, casa (ereditata dai tuoi), in un cinico gioco dove non si guarda a meriti e abitudini familiari, ma si punisce chi più ha dato e si premia chi è più avido e scaltro. L’affido condiviso (Legge 54 del 2006) ha iniziato a cambiare le cose. L’affido condiviso vuole rimettete sui binari giusti la famiglia separata; si continuare a far valere l’articolo 29 della Costituzione («Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi»), e l’articolo 30 («È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli»). Ma l’affido condiviso non è applicato nei tribunali. Ogni anno agli oltre 90.000 bambini

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

28 novembre 1958 Ciad, Repubblica del Congo, e Gabon diventano Repubbliche autonome all’interno della Comunità francese 1960 La Mauritania ottenne l’indipendenza dalla Francia 1965 Guerra del Vietnam: il presidente delle Filippine Ferdinand Marcos, annuncia che invierà truppe nel Vietnam del Sud 1969 I Rolling Stones pubblicano il classico Let It Bleed 1975 Timor Est dichiara l’indipendenza dal Portogallo 1982 Rappresentanti di 88 nazioni di riuniscono a Ginevra per discutere del commercio mondiale 1984 A oltre 250 anni dalla loro morte, William Penn e sua moglie Hannah Callowhill Penn vengono nominati cittadini onorari degli Stati Uniti 1994 A Portage (Wisconsin), il serial killer Jeffrey Dahmer viene bastonato a morte da un compagno di prigione malato di mente 2005 Roberto Benigni viene nominto Cavaliere di Gran Croce

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

che subiscono una separazione, viene insegnato brutalmente che c’è un genitore che vince e uno che perde. Un genitore migliore e uno peggiore. Il migliore avrà l’80% del tempo del figlio, la casa di famiglia (anche se non è sua) e un assegno vitalizio cospicuo per i prossimi 10-15 anni in media. Così nelle separazioni si finisce per occuparsi (aggressore ed aggredito) di questi interessi, mettendo in secondo piano la famiglia e i figli, figli che diventano a tutti gli effetti il “totem del potere”, la carta “prendi tutto” del più forte e spietato. Nessun problema ci sarebbe se si facesse a metà, com’è giusto, come prima della separazione, come dice la Costituzione e la nuova legge. Sparirebbero interessi economici, immobiliari. Ma no, nei tribunali l’affido condiviso non si applica, si applica la “legge inventata” del genitore migliore e di quello peggiore. Dico una cosa a questi signori e signore dei tribunali: Ma come vi permettete? Ma chi vi credete di essere per decidere questo? La decisione che voi prendete non vi appartiene. E neppure un figlio - neanche da maggiorenne o adulto - spera e spererà di non dover mai prendere una simile decisione, di non dover mai decidere una cosa così crudele e infelice. Spero che questa lettera faccia provare vergogna a chi deve, e che le persone che hanno sbagliato pongano rimedio, e c’è un solo modo: applicare l’affido condiviso e ridare ai figli quella ricchezza morale, affettiva, economica ed educativa che comporta avere due genitori alla pari.

F. Barzagli

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

l’unione dei comuni alto calore, la presidenza del Consiglio regionale della Campania. Le attività sono focalizzate nell’ambito del know how del Programma communitas, riconosciuto con il Label europeo 2003 dal ministero del Lavoro, Miur e Ce Dg Istruzione e cultura e sostenuto da scuole statali, comuni, imprese, associazioni, un consorzio universitario, la Fondazione GB Vico, e soggetti pubblici e privati. Per questo mese di novembre è prevista una conferenza internazionale al fine di fondare la comunità euro mediterranea del libero scambio e un gruppo di cooperazione territoriale (Gect) per favorire l’attuazione di piani comunali della formazione, dei servizi e dell’occupazione, sincronizzando le politiche comunitarie della coesione, del partenariato, della crescita e dell’impiego delle competenze professionali richieste dalla innovazione tecnologica e dalla pressante competitività, che già nel 2010 vedrà impegnati i paesi del bacino del Mediterraneo a seguito del processo di Barcellona. Angelo Paolo Perriello C O O R D I N A T O R E CI R C O L I LI B E R A L VA L L O D E L L A LU C A N I A

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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