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Sei amato solo dove puoi

mostrarti debole senza provocare in risposta la forza Theodor W. Adorno

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 1 DICEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

È polemica sul voto di Zurigo che ha vietato la costruzione di nuovi minareti islamici. E in Italia non manca chi fa lo svizzero...

I “muezzin” della Padania Ue e Vaticano contestano l’esito del referendum elvetico: «È un colpo alla libertà religiosa». Invece i mullah di casa nostra soffiano sul fuoco: e la Lega propone la croce nel tricolore di Riccardo Paradisi

Comincia alla Camera l’iter della Finanziaria

Preoccupazione per l’esito del referendum svizzero che vieta la costruzione di nuovi minareti: sono questi i sentimenti ricorrenti nell’Occidente. Monsignor Antonio Maria Vegliò (nella foto) ha espresso il timore del Vaticano per la restrizione della libertà religiosa. Stessa presa di posizione da parte della Ue: solo in Italia si leva la voce dissonante della Lega.

Un governo riformista ha il dovere di cambiare le pensioni Il responsabile lavoro del Pdl: «Non è vero che l’esecutivo è fermo. Ma è vero che ora ci vuole molto di più» di Giuliano Cazzola

Entro il 2030 potrebbe essere navigabile d’estate: ecco come Usa, Canada, Danimarca, Norvegia e Russia si contendono il controllo di un oceano immenso

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LA VERITÀ STA NEL MEZZO

LE REAZIONI A CASTELLI

Né integralisti, La Russa chiude, né multiculturali Frattini apre di Giancristiano Desiderio

di Francesco Capozza

La giusta via, come al solito, è il sentiero di mezzo. In questo caso il sentiero di mezzo dice pressappoco così: si innalzino pure minareti, ma si ascoltino le campane dei campanili. Abbiamo bisogno di integrazione, non di multiculturalismo.

Il Pdl è diviso su tutto: opposte le reazioni di Ignazio La Russa e Franco Frattini alla proposta di Castelli di mettere la croce nella bandiera italiana. «Suggestiva», dice il ministro degli Esteri; «offensiva» risponde il collega della Difesa.

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troppo basso il tasso di riformismo del Governo? In quindici mesi di attività – nel bel mezzo di una crisi improvvisa e profonda – sono tanti provvedimenti assunti, in molti campi, che hanno sicuramente un profilo innovatore. L’Italia si è data una nuova politica energetica; sono stati impostati primi cenni di politica industriale; avviate alcune misure di accelerazione del processo civile. Nei prossimi giorni arriverà alla Camera, in seconda lettura, un testo che affronta anche taluni miglioramenti del processo del lavoro, che valorizzano la conciliazione e l’arbitrato, che orientano il giudizio nelle cause di licenziamento, secondo parametri che limitano la discrezionalità del giudice.

na minaccia è tale soltanto se le viene riconosciuta dignità da chi dovrebbe fare preoccupare. Se non si concede questo passaggio, qualunque sfida diventa soltanto una serie di parole. Ma è altrettanto vero che ignorare una minaccia può essere pericoloso: Bolton, Romano e Cervellera spiegano a liberal le tre strade possibili per fermare Teheran: guerra totale, nuovo round diplomatico o rafforzamento delle sanzioni.

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50 ANNI DOPO IL VECCHIO TRATTATO

Le mani sull’Artico alle pagine 12, 13, 14 e 15

Teheran prima attacca l’Aiea poi invita a nuovi incontri con i diplomatici occidentali

Ahmadinejad apre il suk nucleare L’Iran conferma le nuove dieci centrali e poi riparla di dialogo di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Per la prima volta la comunità internazionale è unanime

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I QUADERNI)

• ANNO XIV •

Luttwak: «Adesso servono sanzioni molto più dure» di Pierre Chiartano ora di intervenire con le sanzioni economiche contro il regime iraniano già stremato da inflazione e crisi globale». Edward Luttwak, stratega di Washington, non si fa incantare dalle aperture di Larijani sull’atomica e irrita

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NUMERO

237 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

l’atteggiamento di leader come il turco Erdogan o quelli di Paesi come la Germania. Mentre la Cina «può far poco» sul dossier nucleare iraniano, la Russia «si è comportata saggiamente negando armamenti sofisticati a Teheran». a pagina 8

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

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Simboli. Nelle pieghe della consultazione elvetica c’è il futuro della nostra civiltà: ne parliamo con il sociologo Pierpaolo Donati

La croce e il minareto

Europa e Vaticano contestano il grave «colpo alla libertà religiosa» L’Occidente si interroga sulle contraddizioni del referendum svizzero di Riccardo Paradisi l voto svizzero è un segnale molto preciso di quale possa essere il limite che gli europei sono disposti a fissare verso la pretesa dell’islamismo di essere sovrarappresentato rispetto alle sue reali dimensioni in Europa. La presa di posizione dell’Unione europea è il segno che le elite laiciste non comprendono più il senso reale delle cose». Pierpaolo Donati, professore di sociologia dei processi culturali all’Università di Bologna è stato coordinatore nel 2004 di un gruppo di lavoro che nel capoluogo emiliano, sindaco Giorgio

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GIULIANO AMATO Secondo Donati, «Servirebbe una carta dei diritti-doveri della convivenza come quella considerata dall’allora ministro Amato»

Guazzaloca, propose una carta dei diritti-doveri della convivenza civile approvata poi in consiglio comunale che sanciva un patto civile tra bolognesi e immigrati.

Un esperimento che venne poi preso in considerazione dal ministro dell’interno Giuliano Amato durante il secondo governo Prodi. Insomma Donati è una delle teste d’uovo che in Italia lavora scientificamente a una cultura dell’integrazione. Eppure non se la sente di puntare il dito contro quegli svizzeri che hanno detto di no a nuove moschee con relativi minareti sulla loro terra. «All’Unione europea, alla cultura laicista dei suoi membri, privi delle categorie per capire il senso comune delle persone, sfugge la componente pubblica della questione religiosa – dice Donati – A Bruxelles, a Strasburgo sono lontani anni luce dalla vita reale che si svolge in Europa. Non comprendono che la cultura dominante, la tradizione di questo continente, anche quando laicizzata, è profondamente cristiana. E già questo è un segno di astrazione, di distacco». Ma non si è colto anche un altro aspetto di questa vicenda per ora svizzera e cioè il ruolo che ha giocato la differenza tra minareto e moschea. «Il minareto è percepito come una torre di proiezione del proselitismo religioso, un simbolo

concretamente invasivo, anche storicamente, dove gran parte della vita pubblica di una città è scandita per cinque volte ogni giorno dalla voce del muezzin che chiama a raccolta i fedeli». Perciò il voto svizzero non va criminalizzato né censurato con sussiego, sostiene Donati. Un errore speculare alla sua immediata strumentalizzazione da parte leghista: «Quelle leghiste non sono posizioni ragionate. Sono un tentativo strumentale di mettersi sulla scia di un referendum vinto, non c’è nessuna volontà di affrontare e risolvere costruttivamente il problema della convivenza tra diversi». Che appunto è un problema. Per questo Donati critica le posizioni dell’Unione europea e non lo convincono quelle di chi in Italia sceglie la via dell’irenismo. «Nel 2004 un gruppo di lavoro a Bologna propose una carta dei diritti-doveri della convivenza civile approvata poi in Consiglio comunale che sanciva un patto civile tra “autoctoni” e immigrati, per offrire l’ospitalità della città in cambio dell’impegno dell’immigrato di rispettare i valori stabiliti in questa carta: la laicità dello Stato, il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, la parità tra i generi e le confessioni religiose. L’immigrato che prendeva la residenza a Bologna doveva firmare l’accettazione di questi valori» Occorre includere insomma, ma con regole molto precise, con patti vincolanti che chiudano a ogni posizione che collida con valori costituzionali. «La convivenza civile non è mescolanza o compromesso qualunque. Non è nemmeno imposizione di un modello laicista. Del resto sia l’assimilazionismo francese sia il multiculturalismo britannico hanno mostrato d’essere modelli a rischio. È vero, anche in Italia – in aree delimitate, va precisato – si sono creati quartieri o zone fortemente etnicizzate, ma non sono legittimate dal senso comune: la cultura della città insomma non accetta questa emarginazione o autoghettizzazione come accade in società compiutamente multiculturali come l’Olanda o l’Inghilterra. In questi Paesi la chiusura delle minoranze, cui vengono concessi diritti e rappresentanze particolari, è un fatto istituzionalizzato, in

Come sempre, virtù e verità stanno nel mezzo

Né integralismo né multiculturalismo di Giancristiano Desiderio a giusta via, come al solito, è il sentiero di mezzo. In questo caso il sentiero di mezzo dice pressappoco così: si innalzino pure minareti, ma si ascoltino anche le campane dei campanili. Il voto svizzero ha detto “no”alla costruzione delle torri da cui il muezzin (“colui che annuncia”) chiama i fedeli alla preghiera per Allah e l’errore non è tanto nel risultato del voto, quanto nella possibilità che un’espressione di un culto religioso possa essere sottoposto al giudizio della volontà popolare.

L

La libertà religiosa non è una concessione dello Stato perché là dove non c’è libertà religiosa è praticamente impossibile parlare di libertà e di democrazia. Infatti, il mondo arabo-musulmano, che non differenzia tra politica e religione, non pratica né l’una né l’altra. Ma noi sì. E fino a quan-

do avremo forza per pensare e vivere secondo i nostri principi cristianoliberali non potremo fare a meno di riconoscere a tutte le preghiere libertà

di espressione. Il punto fondamentale e dolente di tutta questa polemica, che nel frattempo si è scatenata in Italia e in Europa, è proprio questo: noi crediamo nei nostri principi e siamo disposti a viverli e difenderli? Più volte, in questi anni che ci separano dall’attentato alle Torri Gemelle, abbiamo sentito dire e abbiamo ripetuto che la vera sfida con l’Islam si vince soprattutto con le armi della cultura e, nella nostra cara vecchia Europa, soltanto confidando in una ragionevole integrazione con la quale i musulmani hanno la possibilità di essere liberi di praticare il loro culto e contemporaneamente di rispettare le nostre leggi acquisendo diritti ma anche doveri. L’integrazione non è arrendevolezza ma, al contrario, è vittoria culturale. Purtroppo, l’integrazione non la sappiamo praticare perché da tempo abbiamo rinunciato a difendere le giuste ragioni della nostra cultura e ad accogliere solo le sbagliate motivazioni del multiculturalismo. Un grave errore.

Il multiculturalismo è solo un suono privo di significato. Non si possono mettere le culture una affianco all’altra nella convinzione che così si costruisce una più completa umanità. No. Le culture sono già in sé tutta l’umanità. Noi non abbiamo bisogno del multiculturalismo, ma del pluralismo. Ma dai fallimenti dell’ideologia multiculturale si cade nell’errore opposto: l’intolleranza religiosa di cui si impossessa il leghismo. Camminare nel sentiero di mezzo è più difficile, ma sempre più necessario.

Italia tutto questo non c’è». Meglio non percorrere quindi la strada del multiculturalismo, è una strada che presenta molti pericoli secondo: «riconoscere a qualcuno un particolare status specifico, istituzionalizzarlo, sancisce un’alterità radicale che può generare rischi seri per la convivenza». In Gran Bretagna ha generato il terrorismo dei figli di seconda generazione degli immigrati. «D’altra parte l’affermazione inattenuata della propria diversità spinge lontano dall’integrazione, produce frammentazione, relativismo culturale, società costrette a dover colmare conflitti e vuoti molto forti tra i diversi gruppi etnici. L’Italia deve continuare a dire che i valori comuni della costituzione devono essere accettati anche dalle culture di immigrazione».

Tradotto ancora più chiaramente: «non è accettabile che vengano affermati valori o diritti in ROBERTO CASTELLI «La Lega vuole cavalcare l’onda svizzera senza preoccuparsi per la convivenza civile», dice Donati

contrasto con questi principi. È vietata l’infibulazione delle bambine, è proibito il matrimonio poligamico, sono censurati e perseguiti quei casi in cui le donne vengono trattate come cose. Fatto questo si tratta di distinguere, a differenza della Francia, fra valori fondamentali e beni secondari che richiedono pluralismo culturale e sociale. La repubblica francese è assertiva sulla lingua, sulla preparazione dei cibi, sui simboli religiosi. La Francia ha vietato lo chador. In Italia questo non accade. In questa capacità italiana di mediazione oltre un tradizionale buon senso c’è il retaggio della cultura cristiana, del suo universalismo». Un orizzonte di ragionevolezza che al di là delle astrazioni, delle strumentalizzazioni e dei fondamentalismi può guidare quella che Donati chiama «la ricerca sincera e spassionata di un contesto comune che possa salvaguardare i diritti di ognuno». Scartata questa strada ne resta solo un’altra: quella dei crudi rapporti di forza.


prima pagina Minareti non vuol dire moschee «I minareti sono le nostre baionette, le cupole i nostri caschi, le moschee le nostre caserme e i credenti il nostro esercito». Così Tayyip Erdogan, l’attuale Presidente della Turchia, nel 1997, da sindaco di Instanbul, si esprimeva citando un poeta musulmano turco. Non tutti gli svizzeri che hanno votato a favore del divieto di costruire nuove moschee con minareti in Svizzera conoscono questa citazione, ma certo devono aver còlto inconsciamente come nel minareto sia contenuto un simbolo di aggressività culturale. Il minareto (in arabo manar, «faro», il faro che proietta la fede) è la torre, presente in quasi tutte le moschee, dalla quale il muezzin cinque volte al giorno chiama alla preghiera i devoti di Allah. È una parte della moschea che travalica la dimensione religiosa e della preghiera tendendo ad assumere significati di proselitismo.

Il minareto infatti, oltre ad essere un simulacro di potere, è un simbolo storico dell’espansionismo islamico. Lo costruivano generalmente i mori dopo la conquista di ogni città, a significare che su tutto il territorio dominato dall’alto del minareto imperava l’Islam. È per questo che i promotori del referendum svizzero hanno sostenuto che, se è vero che la Costituzione prevede attraverso l’articolo 15 la tutela della libertà di religione e di culto, va anche sottolineato il fatto che attraverso l’articolo 72, la stessa Costituzione, obbliga la Confederazione ed i Cantoni alla tutela della pace religiosa nel Paese. Il minareto rappresenterebbe dunque un simbolo di conquista, una rivendicazione di potere politico-religioso che non avrebbe nulla a che vedere con l’integrazione e la coesione e che anzi le metterebbe a Sarebbe rischio. cioè secondo i vincitori del referendum svizzero un primo pericoloso passo verso un processo d’islamizzazione del Paese, che rischierebbe di minare l’attuale stabilità fra le componenti della popolazione. Disquisizioni sottili, ma a volte i conflitti di civiltà si possono annidare nei particolari.

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In Italia c’è chi si distacca dalla «preoccupazione» internazionale

E la Lega cavalca la polemica svizzera

Fini attacca: «Un regalo al fanatismo». Frattini apprezza l’idea della croce sulla bandiera di Francesco Capozza

ROMA. Fa discutere il «no» ai minareti sancito in Svizzera da un referendum. Sono molte, infatti, le reazioni al risultato. Il presidente del Pontificio consiglio dei migranti, monsignor Antonio Maria Vegliò, spiega di essere «sulla stessa linea dei vescovi svizzeri», che hanno espresso forte preoccupazione per quello che hanno definito «un duro colpo alla libertà religiosa e all’integrazione». Lo stesso Vegliò, del resto, aveva espresso con chiarezza il suo pensiero sul referendum tre giorni fa, in occasione della presentazione del messaggio del Papa per la Giornata mondiale per i migranti. «Non vedo come si possa impedire la libertà religiosa di una minoranza, o a un gruppo di persone di avere la propria chiesa», aveva detto il presidente del Pontificio consiglio. «Certo - aveva aggiunto - notiamo un sentimento di avversione o paura un po’ dappertutto, ma un cristiano deve saper passare oltre tutto questo, anche se non c’è reciprocità». Anche per il ministro degli Esteri svedese e presidente di turno dell’Ue, Carl Bildt, il no alla costruzione dei minareti emerso dal referendum svizzero lancia «un segnale negativo». «È un’espressione di un notevole pregiudizio e forse anche di paura, ma è chiaro che è un segnale negativo sotto ogni aspetto, su questo non c’è dubbio», ha dichiarato alla radio svedese. Da noi, Gianfranco Fini lancia l’allarme: «Il risultato della consultazione svizzera è davvero un regalo al fanatismo». Come del resto dimostrano le reazioni della Lega.

evitare di dare la sensazione che c’è una stigmatizzazione nei confronti di una religione, in questo caso l’Islam - ha sottolineato Besson -. In Francia dobbiamo favorire l’emergere di un islam francese che si integri ai valori della repubblica, e il miglio modo per raggiungerlo è evitare i falsi dibattiti».

In Italia, intanto, il dibattito si sposta sulla proposta della Lega di inserire per via costituzionale la croce nella bandiera e sul plauso dello stesso Carroccio alla decisione elvetica. Il viceministro Roberto Castelli rilancia la sua idea: «Spero che il partito di cui mi onoro di far parte faccia propria la mia proposta». Il viceministro delle Infrastrutture auspica cioè che la Lega chieda di introdurre la croce nella bandiera italiana. Ma l’ipotesi non piace agli alleati di governo il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, per esempio, dice «no». «La Svizzera - ha spiegato La Russa - ha fatto molto bene a esprimere un’opinione che conferma che non bisogna mai discriminare ma nemmeno arrendersi ad un futuro, non dico multietnico che mi va bene, ma multiculturale. Ma non ha senso far discendere da questo un cambiamento della bandiera. Lo può fare solo chi non la ama: non è nemmeno una provocazione, è solo una battuta che può fare chi non capisce che le bandiere non sono bandierine che se ne possa sventolare una diversa ogni giorno». Quanto al crocefisso, secondo La Russa «basta saperlo tenere dentro la nostra cultura e la nostra tradizione cristiana». Anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, parla di proposta demagogica. «Su queste cose non si gioca - afferma bisogna essere molto seri, il crocifisso va difeso nelle aule scolastiche e negli edifici pubblici: queste proposte hanno un sapore demagogico». Il responsabile della politica estera Franco Frattini apre invece alla «suggestiva» proposta della Lega di mettere la croce nella bandiera italiana. «Noi per ora vogliamo difendere il diritto a tenere il crocifisso nelle nostre classi», ha affermato il ministro degli Esteri, «poi vediamo se si può fare un po’ di più». «Ci sono nove Paesi europei che hanno il crocifisso nella loro bandiera», ha aggiunto il ministro, «è una proposta assolutamente normale».

La Russa: «Soltanto chi non ama uno dei massimi simboli della nostra Patria può pensare tranquillamente di cambiarlo»

Lo stesso ministro della giustizia elvetico, Eveline Widmer-Schlumpf, comunque, spiega che «non si tratta di un voto contro la religione islamica ma contro i minareti come edifici. In Svizzera si rispetta la libertà di fede, è un valore fondamentale, ma certo il risultato di questo referendum non è un bel segnale ha affermato la Widmer-Schlumpf - È importante che nella nostra democrazia si abbia la possibilità di votare, e questo voto non è contro la religione islamica». Il dibattito investe anche la Francia, anche se il ministro francese dell’immigrazione, Eric Besson, dichiara che «i minareti non sono un tema politico, e il miglior modo per raggiungere l’integrazione dell’islam con i valori repubblicani è evitare i falsi dibattiti». «Bisognerebbe


economia

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Proposte. Il responsabile lavoro del Pdl immagina un cambio di rotta, mentre la Finanziaria arriva alla Camera

Le pensioni che vorrei

«Non è vero che il governo è immobile sulle riforme. Ma è vero che è il momento di cambiare marcia per modernizzare il welfare» di Giuliano Cazzola segue dalla prima E soprattutto il testo approvato dal Senato riapre i termini di due deleghe importanti – sui lavori usuranti e sulla riforma degli ammortizzatori sociali – ereditate dalla precedente legislatura e dal protocollo del 2007. All’inizio della attuale legislatura il ministro Sacconi ha dato corso a misure di semplificazione degli adempimenti aziendali ed ha avviato interventi di detassazione delle voci retributive erogate a livello

un disegno di legge delega per la riforma del diritto di sciopero nei pubblici servizi. Ulteriori riforme sono annunciate: a partire dallo Statuto dei lavori che lo staff di Sacconi ha messo in cantiere da tempo. A tali iniziative vanno aggiunti i diversi decreti anticrisi che si sono succeduti durante il primo semestre dell’anno nel tentativo di tutelare le persone e le famiglie in condizioni di maggior disagio, di salvaguardare il reddito dei lavoratori dipendenti da aziende colpite dalla

All’inizio dell’attuale legislatura, il ministro Sacconi ha dato corso a misure di semplificazione degli adempimenti aziendali e ha avviato interventi di detassazione in cambio di una migliore produttività e qualità del lavoro aziendale in cambio di una migliore produttività e qualità del lavoro. Questa scelta, riconfermata con adeguati stanziamenti nella Finanziaria del 2010, è la migliore garanzia del successo della nuova impostazione di politica contrattuale indicata nell’accordo quadro del 22 gennaio fortemente sollecitato dal Governo, dopo quattro anni di negoziati inutili che tutte le parti sociali hanno trascorso subendo i veti della Cgil.

Nel pacchetto delle innovazioni, poi, meritano un posto d’onore la legge delega Brunetta sul pubblico impiego e il decreto attuativo relativo. Anche sul versante delle pensioni la miniriforma del luglio scorso è stata importante, essendo di carattere strutturale le fattispecie affrontate dell’equiparazione dell’età di vecchiaia delle lavoratrici del pubblico impiego a quella dei colleghi maschi e dell’aggancio automatico, a partire dal 2015, dell’età pensionabile all’evoluzione dell’attesa di vita. È stato corretto il Testo Unico sulla sicurezza e la salute dei lavoratori (dlgs n.81/2008), rendendolo condivisibile da parte di tutte le forze sociali che si erano sentite penalizzate dalla prima stesura. Altre iniziative sono depositate in Parlamento: tra queste

crisi (attraverso il massiccio finanziamento – 8 miliardi in un biennio - della cig in deroga), di dare respiro a settori industriali di carattere strategico anche per il loro indotto (i provvedimenti in favore dell’industria dell’auto). E dopo 15 mesi di stallo o di recessione, nell’ultima fase dell’anno si è intravisto un cenno di ripresa, con una crescita (+0,6%) maggiore non solo di quella media della Ue, ma anche di quella dell’area euro.

La linea di condotta del Governo ha tenuto conto, nella misura del possibile,

dei vincoli di bilancio e delle risorse disponibili, spesso riallocandole in corso d’opera. Se si fossero seguite le indicazioni del Pd – ovvero la richiesta di varare dei piani corredati di risorse più consistenti – oggi i conti pubblici sarebbero ancora peggiori di quelli attuali (non proprio tranquillizzanti per quanto riguarda il deficit e soprattutto il debito). In tale contesto, la società civile non si è fermata: sono stati rinnovati i contratti di lavoro per centinaia di migliaia di dipendenti privati, altri negoziati sono in corso (le ore di sciopero, per tanti motivi, sono diminuite del 71%). Il caso della Fiom non è la regola ma l’eccezione. Ciò premesso, il giudizio più puntuale, su quanto è stato attuato e sul «che fare?», è stato esposto da Luca Ricolfi su La Stampa del 23 novembre, il quale ha scritto di comprendere sempre più «l’inerzia» di cui è accusato Tremonti, da quando lo stesso Ricolfi si è preso la briga di «analizzare le alternative reali alla linea di Tremonti, ossia quelle sostenute da veri soggetti politici». «Per alter-

native reali – sostiene Ricolfi – intendo le controproposte di politica economica avanzate in questi mesi dall’opposizione (soprattutto dal Pd) sia dalla fronda interna alla maggioranza (ad esempio, la contromanovra di Baldassarri o le richieste del c.d. partito del Sud). Ebbene – prosegue Ricolfi – a mio parere ciascuna di esse avrebbe avuto ed avrebbe conseguenze macro-economiche nefaste. Le proposte del Pd – sono sempre parole dell’editorialista – sono pericolose sul piano dei conti pubblici, quelle di Baldassarri (in particolare il taglio dei consumi intermedi) metterebbero in ginocchio la pubblica amministrazione, quelle del partito del Sud farebbero esplodere la spesa».

Lunga vita (politica) a Giulio Tremonti, dunque? Di certo, la sua «inerzia» non è priva di risultati, soprattutto mettendola a confronto con quanto sta avvenendo in quei Paesi le cui politiche economiche, all’inizio dell’anno che sta per finire, erano portati ad esempio di attivismo e di riformismo da

re un discreto carnet di riforme (mentre altre sono in cantiere) sembra fregiarsi, a volte e con taluni dei suoi esponenti migliori, di una presa di distanza da una cultura delle riforme? È stata assolutamente condivisibile una linea connotata da prudenza e cautela durante la fase più acuta della crisi. Solo i «Dottor Stranamore», la cui unica responsabilità è quella di scrivere editoriali, possono teorizzare con disinvoltura l’esigenza di riforme audaci, tali da sconvolgere processi e comportamenti consueti, e perciò rassicuranti, in circostanze difficili. Se il Governo, invece di finanziare in modo massiccio la cig in deroga, avesse seguito i suggeridell’opposizione e menti rafforzato in senso «universalistico» l’indennità di disoccupazione, il segnale inviato alle imprese, nel passaggio più critico della crisi, sarebbe consistito in un invito a licenziare.

Ma la legislatura è lunga. Non a caso – come già ricordato – il Governo si è posto il problema della riforma degli am-

Quando, in futuro, verrà il loro turno di uscire dal mercato del lavoro, i giovani di oggi non potranno godere di quel trattamento trattamento che invece hanno garantito con i loro contributi ai lavoratori della generazione precedente alla loro parte dell’opposizione. Se queste considerazioni hanno un qualche fondamento, viene spontanea una domanda: perché un Governo che – pur con tutti i suoi limiti – può vanta-

mortizzatori sociali, mentre fino a ieri ne escludeva l’urgenza. A parte le sortite sul «posto fisso», l’aspetto più singolare è l’accanimento con cui viene negata l’attualità di un intervento riformatore sulle pensioni. Anche considerando le misure assunte a luglio, non è corretto sostenere che non vi sono più problemi. Un segnale allarmante si trova in fior di documenti ufficiali. Innanzi tutto il Dpef, da cui emerge in bella evidenza che, a causa della crisi, il picco della spesa pensionistica sul pil, atteso nelle previsioni precedenti intorno al 2035, si presenterà in misura del 15,5% a partire dall’anno prossimo. Così il rientro al di sotto del 14% atteso per il 2045 avverrà verso il 2060. L’altro documento interessante è il rapporto sull’invecchiamento della Ue, dove vengono


economia

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Dal ministro dello Sviluppo arriva un nuovo attacco al rigore di Tremonti

Scajola non demorde: «Risorse per la ripresa» Nella sua agenda: banda larga, imprese e rinnovabili. Dal Tesoro sgravi alle banche che hanno aderito alla moratoria per le Pmi di Francesco Pacifico

ROMA. «Credo che sia giusto il controllo dei conti pubblici, ma ritengo che in questo momento in cui si avvicina la ripresa, sia necessario stimolare la crescita del Paese». Anche ieri – ormai è una cantilena – Claudio Scajola ha rinnovato la sua personale battaglia contro Giulio Tremonti e l’assenza in Finanziaria di misure di sviluppo. Al momento, con la Camera che si accinge a studiare l’ammissibilità di oltre 2.400 emendamenti, la linea del rigore non sembra essere stata scalfita. Nei quattordici emendamenti presentati dal governo in commissione bilancio ci sono misure per il welfare, il taglio alle retribuzioni degli eletti locali, sconti alle banche che hanno aderito alla moratoria per le Pmi, fino al miliardo per l’emergenza idrogeologica. Fatta sta che il responsabile dello Sviluppo va avanti nella sua campagna, sperando che al 15 dicembre prossimo – ultima data per aderire allo scudo di fiscale – il bottino rientrato in patria sia più ampio dei 3,8-4 miliardi ipotizzati da Tremonti. E allora sì che si potrebbe tornare a discutere di tagli all’Irap, all’Irpef o di cedolare secca per gli affitti.

Secondo Giuliano Cazzola, Tremonti, Berlusconi, Scajola e Sacconi dovrebbero approfittare della crisi e della Finanziaria in arrivo alla Camera per riformare le pensioni tracciati alcuni scenari sugli effetti della crisi sui sistemi pensionistici. In tutte le ipotesi il peggioramento è rilevante. Quanto all’Italia, non sembra possibile riportare il deficit sotto il 3% e contenere il debito senza affrontare la questione-pensioni, per il peso che essa ha sulla spesa pubblica. Poi occorre mettere all’ordine del giorno un’idea di sistema pensionistico in grado di interpretare il futuro, tutelando al meglio i giovani occupati degli ultimi anni. Costoro hanno avuto ed hanno una vita lavorativa discontinua ed instabile, peggiore di quella delle precedenti generazioni.

Ma, quando verrà il loro turno di andare in pensione, i giovani saranno condannati a cavarsela con trattamenti pensionistici inadeguati, nello

stesso momento in cui, in nome della ripartizione, hanno dovuto garantire per decenni da lavoratori - alle generazioni precedenti prestazioni che per loro rappresentano un obiettivo irraggiungibile. Per fare fronte a tale situazione, la proposta bipartisan cho go firmato con TIzianoTreu immagina, per i nuovi occupati, un pensionamento flessibile nell’ambito di sistema di previdenza obbligatoria articolato su due livelli: una pensione di base finanziata dal fisco ed una contributiva, sostenuta da un’aliquota - intermedia rispetto a quelle attuali - uguale per tutte le tipologie di lavoratori. Così si ridurrebbe anche il costo del lavoro e si supererebbe quel divario dell’aliquota contributiva che è una delle ragioni del dualismo del mercato del lavoro.

Oggi il ministro vedrà Sergio Marchionne, che gli presenterà il piano sulla produzione in Italia. Ieri ha incontrato i sindacati sul futuro di Termini Imerese. E, indipendentemente dagli interlocutori, la sua linea prevede sempre la stessa soluzione: aumentare il numero di auto costruite in Italia. Pena, una rimodulazione dei 1,5 miliardi che lo Stato si accinge a mettere a disposizione per il settore. Scajola è stato accusato nei giorni scorsi dall’Ad di Fiat di non conoscere i numeri della produzione italiana. Davanti ai rappresentanti dei confederali il ministro dello Sviluppo ha replicato che «dai dati in mano al governo», e confrontati con quelli sulla produzione degli altri Paesi rispetto al fabbisogno interno, si evincerebbe che quella domestica del Lingotto «è inferiore alle aspettative del governo». I sindacati sperano che il governo spinga il management di Torino a raddoppiare il numero di vetture da costruire in Italia: dalle 850mila ventilate da Marchionne al 1,6 milioni che spazzerebbe via ogni dubbio sul futuro di Termini Imerese. Scajola poi ha già fatto sapere che vuole legare l’erogazione dei fondi alla produzione interna. Marchionne, invece, non vuole sentire imposizioni. In più da via Veneto è arrivato un altro richiamo alla Fiat: «Bisogna capire», avrebbe detto Scajola sempre al tavolo dei sindacati, «quali investimenti siamo disposti a fare per l’innovazione del prodotto». Il piano di Marchionne per rilanciare Chrysler prevede margini molto stretti, tali da non consentire dei rilanci in Italia. Sulla carta c’è il rischio di una rimodulazione dei fondi.

Oggi il titolare di via Veneto incontra Marchionne. Se la Fiat chiuderà lo stabilimento di Termini, verranno rimodulati i fondi per le rottamazioni

Di conseguenza la battaglia politica dell’ultimo giapponese del partito dello sviluppo va avanti. E il ministro, come è il primo a sapere che sono minimi gli spazi di manovra sugli emendabili – «Abbiamo pochi soldi ma troveremo le soluzioni per metterli laddove stimolano maggiormente la crescita» –, così non fa fatica a trovare un nuovo, possibile terreno di scontro: il passaggio in Parlamento della manovra. Va da sé che l’unica strada percorribile è quella lanciata da Gianfranco Fini: evitare la blindatura attraverso la fiducia. Ieri mattina, ospite del “Caffè”di Rai News 24, e alla domanda se la manovra sia emendabile o meno, il titolare dello Sviluppo economico ha risposto secco: «La Finanziaria passa attraverso il voto del Parlamento. Se passerà con la fiducia o meno, non si è ancora deciso». Quindi ha spezzato una lancia verso le richieste del presidente della Camera: «Ha detto di no al maxi emendamento soltanto per un lavoro più forte in commissione». Come dimostra il recente passato, il governo potrebbe stabilire interventi di sviluppo attraverso cornici diverse dalla Finanziaria. Uno spiraglio, Scajola, potrebbe trovarlo nelle pieghe della trattativa con Fiat per il rinnovo degli incentivi alla rottamazione.

Tra banda larga, risparmio energetico e crisi industriali Scajola ha soltanto l’imbarazzo della scelta su come utilizzare i risparmi. Anche perché «gli imprenditori meritano attenzione. E hanno molte ragioni: il loro compito è quello di chiedere di più di quello che si può effettivamente dare». Ma non soltanto le aziende chiedono di più. Vasco Errani, governatore dell’Emilia-Romagna e presidente della Conferenza Stato-Regioni, ieri ha bocciato le politiche conservatrici del governo. «Stare fermi sull’emergenza», ha spiegato, «non ci fa fare passi avanti. Credo che ci sia un limite serio di prospettive in questo Paese. C’è bisogno di politiche industriali, non solo emergenziali. Servono politiche nuove, all’altezza del cambiamento dell’economia globale».


diario

pagina 6 • 1 dicembre 2009

Giustizia. Non bastano le aperture dell’Udc e del Pd a indirizzare la maggioranza verso soluzioni meno traumatizzanti per il sistema

Nella trincea del processo breve «Il governo ne condivide il principio e lo spirito», dice Alfano in Senato ROMA. Sospesi nell’attesa. Il Paese e il suo governo dipendono dallo sblocco della questione giustizia. Nel frattempo c’è spazio solo per l’ordinaria amministrazione di Tremonti e della sua Finanziaria “prendere o lasciare”. Ancora non si intravede la fine dell’intervallo: anziché segnali di ripresa dell’iniziativa politica, dall’Esecutivo e dal suo vertice si annunciano d’altronde ulteriori dilazioni. Proprio negli stessi minuti in cui Silvio Berlusconi prefigura a Minsk, insieme con il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, nuove partnership commerciali «a partire da Finmeccanica e dalla costruzione di case», da Palazzo Chigi ricordano il vertice bilaterale Italia-Russia di giovedì prossimo. A Milano gli avvocati del premier Niccolò Ghedini e Piero Longo presentano l’istanza di legittimo impedimento per il giorno successivo, venerdì, data per la quale sarebbe prevista la ripresa del processo al presidente del Consiglio sul caso Mills. Seguirà a inizio gennaio il secondo summit intergovernativo con la Romania.

Perché questo spasimo infinito possa interrompersi ci vorerebbe una decisa accelerazione sulla giustizia, una scelta di interventi praticabili con cui assicurare uno scudo a Berlusconi e far ripartire finalmente la legislatura. Servirebbe soprattutto la capacità della maggioranza di conciliare l’ingegneria giuridica con le proposte dell’opposizione.Vorrebbe dire non intestardirsi sul processo breve e muoversi più

schio sono inconfutabili (non più dell’1 per cento) e liquida come «non rappresentativi» quelli dell’Anm. Il presidente della commissione Filippo Berselli a sua volta prevede l’arrivo della nuova legge nell’Aula di Palazzo Madama «entro Natale».

È vero che sia Ignazio La Russa che Giuseppe Valentino (relatore del provvedimento) si dichiarano aperti ai contributi dell’opposizione, che inizierà oggi la discussione, ma è anche vero che certe inevita-

Ai segnali distensivi di Enrico Letta sui processi del premier, Di Pietro risponde minacciando la fine dell’alleanza. Bonino: «Sì a un’amnistia» spediti sui provvedimenti condivisi da Udc e Pd: il Lodo Alfano costituzionale e la tipizzazione del legittimo impedimento, ipotesi avanzate entrambe da Pier Ferdinando Casini. Invece il governo e la coalizione che lo sostiene preferiscono procedere alla cieca sulla legge ammazza-processi: il ministro della Giustizia Angelino Alfano assicura davanti alla commissione Giustizia del Senato che «principio e spirito» del provvedimento sono condivisi dall’Esecutivo. Aggiunge che i suoi dati sul numero dei procedimenti a ri-

noscerlo davvero, implica anche la rinuncia alla mitologia dell’assedio. E costringe una volta per tutte il presidente del Consiglio a proporsi come uomo dello Stato e non da condottiero di un’incursione eroica in campo avverso. Non sembrano scalfire il sostanziale autismo della maggioranza i toni misurati e istituzionali del vicesegretario del Pd Enrico Letta, né le nuove aperture arrivate ieri, con sfumature diverse, da Nicola Latorre o da Giorgio Merlo. E non basterà probabilmente a modificare un certo atteggiamento di diffidenza nemmeno il realismo estremo dei Radicali: Emma Bonino arriva a ipotizzare addirittura «una grande riforma della giustizia» che parta da «una grande amnistia» per risolvere «la situazione drammatica nelle carceri», ma soprattutto abbatte il tabù antiberlusconista aggiungendo «anche se ne beneficiasse il premier, è un prezzo che si potrebbe pure pagare».

di Errico Novi

bili turbolenze legate alla nuova norma rischiano di rendere ancora più asfittico il Parlamento. Nella maggioranza si nota comunque una certa riottosità ad ascoltare le proposte degli avversari. Come se da parte berlusconiana ci fosse ancora il sospetto che le opposizioni formano un tutt’uno indistinto con la magistratura. Più che un sospetto potrebbe anche trattarsi di un’opzione di comodo: riconoscere che dall’altra parte non ci sono partiti assetati di condanne ma interlocutori pronti a competere su terreni diversi, rico-

Secondo Bonanni «la società è matura»

La Cisl per la cittadinanza ROMA. «Speriamo che in Parlamento al più presto si definisca quella proposta bipartisan, che va nella direzione del riconoscimento del voto agli immigrati, dei diritti civili e amministrativi per chi paga i contributi e le tasse e ha un rapporto stabile con l’Italia». È l’auspicio del segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, che a margine di un seminario sulla riforma della legge sulla cittadinanza, orgadallo nizzato stesso sindacato, ha aggiunto: «I cittadini e i lavoratori italiani non cascano nella trappola della xenofobia e della contrapposizione. Il Paese è maturo per fare questi passi e andare nella direzione dell’integrazione». Parlando delle «nuove provocazioni degli ultimi giorni, in cui si invoca la strada della xenofobia e di quella parte della classe dirigente che ritiene ancora di soffiare sul fuoco e innescare nuove contrapposizioni», Bonanni

ha invece sottolineato che, a suo parere, «la nostra società prospera nel rispetto delle persone, se c’è il riconoscimento di chi umilmente contribuisce alla crescita del Paese. Il nostro “White Christmas” è non perdere posti di lavoro e mandare un forte segnale a sostegno dell’integrazione e non della disgregazione del Paese». Gli ha fatto eco Liliana Ocmin, segretario confederale la quale ha spiegato che la Cisl «da tempo propone il riconoscimento della cittadinanza per i nati in Italia», un passaggio che oggi è «fondamentale per una società che sia coesa e integrata». Ocmin ha sostenuto che «il passaggio dallo “jus sanguinis”, cioè dal diritto per chi è figlio di almeno un genitore in possesso di cittadinanza italiana, allo “jus soli”è prioritario, necessario e fondamentale se si vuole realmente costruire una società coesa e integrata».

Forse è un po’ troppo, ma certo la vicepresidente del Senato dimostra ancora una volta come nell’attuale opposizione i pregiudizi giustizialisti sopravvivano ormai solo nella riserva indiana dell’Italia dei valori. La leader radicale non trova sensata la mozione sulle riforme che domani Pd e Udc presenteranno nell’aula di Palazzo Madama, giacché vi si rivolge al governo perché avvii un confronto sul riassetto delle istituzioni. E invece è proprio il coinvolgimento dell’Esecutivo, e di Palazzo Chigi in particolare, l’elemento necessario, e per ora introvabile, perché questa legislatura esca dalle sabbie mobili. Chi preferirebbe vederla annaspare ancora è Antonio Di Pietro, il quale ieri si è prodotto in un avvertimento piuttosto esplicito a Enrico Letta: «Sentirgli dire che Berlusconi fa bene a difendersi non solo nei processi ma addirittura dai processi è un’affermazione grave, che mette a rischio la possibilità di alleanze». Minacce che in realtà dovrebbero confermare alla maggioranza come il Pd si sia davvero avviato, con la segreteria Bersani, verso posizioni ragionevoli non lontane da quelle dell’Udc. E invece la scarsa costruttività del Pdl mostra come l’epoca della diffidenza e della sfiancante guerra di trincea non sia ancora superata.


diario

1 dicembre 2009 • pagina 7

Secondo i dati Istat, l’aumento è stato dello 0,7% in un anno

L’annuncio dato dal ministro: «Ma il vaccino funziona»

Risale l’inflazione, peserà sulle famiglie

Mutato il virus della febbre: polmoni più a rischio

ROMA. Sale l’inflazione in Ita-

ROMA. Anche in Italia, come in Norvegia e in altri Paesi nel mondo, è stata rilevata una mutazione del virus A/H1N1. La conferma è arrivata dal ministero del Welfare, dopo che l’Istituto superiore di sanità si è messo a lavoro per stanare eventuali «metamorfosi» del virus che ha innescato la pandemia influenzale. «Circa una settimana fa – dice una nota del ministero - le autorità sanitarie norvegesi hanno segnalato l’identificazione di una singola mutazione dell’emoagglutinina (proteina virale di superficie) del virus della nuova influenza A/H1N1, consistente nel cambiamento di un unico aminoacido (una glicina al posto di un acido aspartico), in alcuni pazienti affetti da una grave polmonite. Casi sporadici della stessa mutazione sono stati riportati, a partire da aprile, in diversi Paesi del mondo sia in pazienti con polmoniti gravi che in pazienti con decorso benigno della malattia». «Questa mutazione, al momento, non sembra in grado di diffondersi» ha confermato Giovanni Rezza, capo del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore di sanitá (Iss) «E comunque, anche nei confronti di questo virus mutato, l’efficacia del vaccino sembrerebbe inalterata».

lia ed Europa. A novembre, secondo le prime stime dell’Istat, nel nostro paese il costo della vita ha registrato il +0,1% rispetto ad ottobre e il +0,7% rispetto a novembre 2008. In particolare, gli aumenti congiunturali più significativi si sono verificati per i capitoli Trasporti e Altri beni e servizi (+0,5% per entrambi). Anche nell’Eurozona, per la prima volta da sette mesi i prezzi al consumo riprendono a crescere (+0,6% su base annua a novembre, contro il -0,1% di ottobre mentre gli analisti si aspettavano un incremento più contenuto dello 0,4%). Secondo gli esperti l’aumento dello 0,6% a novembre è legato soprattutto all’incremento dei prezzi dell’energia, che questa estate hanno spinto l’inflazione in calo e ora la fanno risalire.

Tornando in Italia, molto critici i commenti dei consumatori. Per il Codacons, l’aumento si tradurrà in aumento della spesa pari a 328 euro l’anno a famiglia. Secondo Adusbef-Federconsumatori, il rialzo del tasso di inflazione è «cosa gravissima e appare un fatto ancora più grave, dal momento che si trova in concomitanza con una crisi dei consumi». Una contrazione che si attesterà al 2,5-3% ed addirittura al -4% per le famiglie a reddito fisso, con una riduzione complessiva della spesa di 30 miliardi di Euro. Per le due associazioni, tale situazione sta comportando gravi ricadute sul benessere delle famiglie, oltre che sull’intero tessuto industriale del nostro Paese. Inoltre, se l’inflazione, a fine anno, si attestera’ all’1%, come si potrebe prevedere, vi sarà un ulteriore aggravio di 300 Euro annui a famiglia, che andranno a decurtare ulteriormente il potere di acquisto delle famiglie. Confcommercio, invece, sottolinea come il dato italiano sia in linea con l’Europa mentre per Confesercenti è preoccupante la debolezza della domanda interna.

Un regalo torinese per Cai-Alitalia I nuovi voli della compagnia li paga la Regione di Alessandro D’Amato

ROMA. Venghino, siore et siori, vengano tutti al gran mercato del viaggio all’estero. Grazie ad Alitalia e alle regioni italiane, d’ora in poi anche la casalinga di Voghera potrà decidere di passare un week end a Istanbul. A spese del contribuente. In Piemonte, per ora, e a breve anche in Veneto, Puglia e Friuli. La Regione Piemonte e Alitalia, insieme a Sagat Aeroporto di Torino, Camera di commercio, Comune e Provincia di Torino hanno siglato un accordo quadro con la finalità di promuovere il territorio e sviluppare nuovi flussi di traffico da e per il Piemonte e la città di Torino. «Nell’ambito di questa partnership, Alitalia amplierà l’offerta di voli con quattro nuovi collegamenti internazionali, operativi a partire dal 15 dicembre, e il territorio svilupperà una serie di iniziative di comarketing tese a promuovere le risorse turistiche della Regione», dice la Sagat, che gestisce l’aeroporto. I nuovi collegamenti andranno verso Berlino, Amsterdam, Istanbul e Mosca, e verranno adeguatamente pubblicizzati, come fanno sapere i siti istituzionali, «attraverso campagne congiunte di comunicazione e marketing finalizzate a promuovere i diversi primati dell’offerta turistica del Piemonte: natura, sport, cultura, arte, enogastronomia e la città di Torino nella sua accezione di destinazione City Break». Il tutto al modico costo, per gli enti locali piemontesi, di un cifra totale di sei milioni di euro, la metà in carico alla Regione e il resto suddiviso tra le altre istituzioni e la Sagat. In questo modo gli altri (o per meglio dire: le istituzioni, che spendono i soldi di tutti) si accollano gran parte dei costi vivi dell’iniziativa, consentendo ad Alitalia di mantenere i prezzi bassi per le sue destinazioni. Facendo così concorrenza agli altri aeroporti e alle altre compagnie.

le regioni Puglia, Veneto e Friuli e i rispettivi enti locali pronti a coprire la spesa di Alitalia allo stesso modo della Regione Piemonte. Quindi con emolumenti a carico delle istituzione e voli a prezzo “politico”. Una strategia non certo inventata dall’ex vettore nazionale, come dice a L’Espresso Oliviero Baccelli, docente di Economia dei Trasporti all’Università Bocconi di Milano: «Questo tipo di operazioni è stato spesso utilizzato da compagnie low cost come Ryanair per lanciare nuove rotte, ma il problema è la redditività dei voli. Nel caso di Alitalia, dubito che un collegamento tra Torino e Istanbul, tanto per fare un esempio, possa effettivamente attrarre una quantità sufficiente di clienti da rendere il volo sostenibile anche senza contributi esterni». Eh, già, perché una volta esauritosi il sussidio pubblico – il piano è trimestrale – è molto difficile che le destinazioni possano rimanere nei programmi di Alitalia e degli aeroporti, visto che il prezzo del biglietto, senza sussidi, fatalmente aumenterebbe a tal punto da rendere conveniente l’utilizzo degli altri vettori.

Il piano, a spese delle collettività, appena siglato con il Piemonte sarà esteso entro breve anche a Puglia, Veneto e Friuli

E non finisce qui, visto che via della Magliana stessa fa sapere che sono allo studio avanzatissimo anche altri collegamenti con gli aeroporti di Bari, Brindisi,Venezia e Trieste. Con

Ma per adesso questo non sembra costituire un problema: dopo aver “salvato” Alitalia facendo accollare allo Stato un paio di miliardi e rotti di passività, aver utilizzato la cassa integrazione a carico del contribuente, e mentre gestisce in una situazione di monopolio di fatto rotte e collegamenti italiani, la Cai è pronta a questa ennesima sfida imprenditoriale da far tremare i polsi (e anche i polsini): portare a casa altri sussidi, mascherati da incentivi alla realizzazione di collegamenti non economicamente redditizi, ma sussidiati a carico di tutti. Con la particolarità che mentre il salvataggio è arrivato con un governo di centrodestra, il presente “aiutino”è appannaggio di due regioni di centrodestra (Veneto e Friuli) e due guidate dal centrosinistra (Piemonte e Puglia). Insomma, quando si tratta di dare una mano ai monopolisti privati nessuno si tira davvero indietro. Com’è che si dice “bipartisan”in turco?

Il primo caso italiano di mutazione del virus dell’influenza «non desta preoccupazione e non deve allarmare» ha detto il virologo Fabrizio Pregliasco che ha invitato a «non leggere in modo negativo» i dati resi noti dal ministero del Welfare e ha spiegato: «La mutazione c’è stata, ma per ora si tratta di una variante minimale e come tale va considerata». Certo, conclude, «la situazione deve essere tenuta sotto controllo nel caso in cui la mutazione si diffondesse in una seconda ondata influenzale». Secondo gli esperti, la mutazione registrata nel nostro Paese, dello stesso tipo stanata in Norvegia, ha come caratteristica quella di legare i recettori a livello di più proteine, minando maggiormente i polmoni.


mondo

pagina 8 • 1 dicembre 2009

Proposte. Le nuove centrali atomiche di Ahmadinejad hanno scatenato una ridda di reazioni. Ma frenarle sembra impossibile

Tre ricette per l’Iran

Bolton, Romano e Cervellera indicano le alternative per fermare Teheran: «Guerra aperta, sanzioni più dure o nuovo round diplomatico» di Vincenzo Faccioli Pintozzi na minaccia è tale soltanto se le viene riconosciuta dignità da chi dovrebbe fare preoccupare. Se non si concede questo passaggio, qualunque sfida diventa soltanto una serie di parole. Ma è altrettanto vero che ignorare una minaccia può essere estremamente pericoloso: il cane che abbaia non morde, ma questo vale soltanto per alcune razze. Ci sono cani, infatti, che abbaiano e poi mordono. Il caso iraniano non è molto distante da questa realtà: il regime degli ayatollah ha dimostrato in più occasioni la propria pericolosità, e la Rivoluzione islamica del 1979 ha rappresentato soltanto il preludio a una serie di violazioni ai diritti umani e di sfide alla comunità internazionale. L’ultima è arrivata due giorni fa, quando il governo guidato da Mahmoud Ahmadinejad ha annunciato la costru-

U

le e pericoloso negarlo. Persino gli Stati arabi iniziano a temere lo strapotere degli ayatollah, perché sanno meglio di noi a che punto sono». Per fermare questa minaccia, «la strada passa obbligatoriamente da Israele. Sfortunatamente, il tempo della diplomazia è finita: arrivo a dire che la diplomazia è morta, negli ultimi sette anni. L’Iran continuerà a costruire armi nucleari, e niente potrà impedire che Israele – la più direttamente in pericolo – usi la forza militare per fermarli».

L’escalation delle affermazioni iraniane ha una sua spiegazione. Venerdì scorso, infatti, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha votato per applicare nuove sanzioni al regime, colpevole di poca trasparenza nella gestione delle centrali. Con il voto favorevole, per la prima volta, di Cina e Russia. E il mini-

Secondo Romano «non si deve dimenticare che i persiani amano trattare. E poi è molto pericoloso minacciare sanzioni che sarà molto difficile ottenere dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu» zione di dieci nuovi impianti atomici. «Costruiremo dieci nuovi impianti: in cinque i lavori inizieranno entro due mesi, degli altri dobbiamo decidere i luoghi», ha annunciato Ali Akbar Salehi, capo dell’Organizzazione atomica iraniana, aggiungendo che i siti «saranno grandi come quello a Natanz», il più importante oggi in Iran. Lo stesso Ahmadinejad ha poi precisato: «Per generare 20mila megawatt di elettricità ci servono 500mila centrifughe, ovvero 250-300 tonnellate di combustibile nucleare all’anno, arricchito al 20 per cento nel nostro Paese». La percentuale è importante: per arrivare ad avere un ordigno, infatti, c’è bisogno che essa arrivi almeno all’80 per cento. Ma niente impedisce a una centrale avviata di alzare il livello di arricchimento fino al livello bellico.

L’Iran, dice a liberal l’ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite John R. Bolton, «sta perseguendo il proprio programma nucleare da almeno 20 anni. E, nel frattempo, sostiene il terrorismo islamico in giro per la regione. La minaccia nucleare di Teheran esiste, è inuti-

stro degli Esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, ha accusato l’Aiea di imporre «la legge della giungla» nella denuncia del suo programma di arricchimento dell’uranio e nella richiesta di chiudere l’impianto di Qom. «La risoluzione dell’Aiea contro l’Iran non è logica, non c’è nessuna ragionevolezza in una logica simile. Questo è un atto di bullismo, oggi lo chiamiamo legge della giungla. Il capo della diplomazia della Repubblica islamica ha poi ribadito che Teheran «non rinuncerà mai al suo diritto alla tecnologia atomica previsto anche dal Trattato di non proliferazione di cui è firmatario. Non possiamo accettare discriminazioni nelle relazioni internazionali». Per l’ambasciatore Sergio Romano - diplomatico di

lungo corso, esperto di politica internazionale ed editorialista del Corriere della Sera – il problema «deriva in gran parte dal risultato delle ultime elezioni, che hanno confermato al potere in maniera tutt’altro che chiara il governo e il gruppo dirigente di Mahmoud Ahmadinejad. C’è dunque un’opposizione che all’interno del sistema è contro Ahmadinejad, e che in qualche modo cerca di rendergli il governo difficile». Se fosse andata al potere questa opposizione, sottolinea il diplomatico, «avrebbe probabilmente stabilito un rapporto con gli Stati Uniti abbastanza collaborativo. Ma in questo momento non desidera che Ahmadinejad si attribuisca il risultato di quella che, tutto sommato, sarebbe una vittoria diplomatica. E quindi assistiamo a un paradosso: persone che in linea di massima sarebbero state d’accordo a stringere un patto con gli Usa, ora non vogliono che questo venga fatto dal governo». Naturalmente, continua Romano, «si tratta di uno scontro al vertice, dato che la protesta popolare è stata contenuta e limitata. Ho avuto l’impressione, nelle scorse settimane, che ci fosse la possibilità di un’intesa. Oggi, però, gli iraniani chiedono che lo scambio di uranio proposto dall’Aiea avvenga sul territorio nazionale. In altre parole, non sono contrari ad arricchire l’uranio al di fuori dei propri confini nazionali; vogliono però che lo scambio avvenga nello stesso momento. In altre parole, le nazioni occidentali dovrebbero importare uranio arricchito in Iran in cambio di uranio

Parla il politologo americano Edward Luttwak

«Colpiamo duro, ma l’economia» «Soltanto indebolendo il regime si potranno ottenere risultati reali» di Pierre Chiartano ora di intervenire con le sanzioni economiche contro il regime iraniano dei mullah già stremato da inflazione ed effetti della crisi globale». A Edward Luttwak, stratega di Washington, non incantano né le aperture di Larijani di ieri, sulla lunghissima vicenda atomica e irrita l’atteggiamento di leader come il turco Erdogan o quelli di Paesi come la Germania. Mentre la Cina «può far poco» sul dossier nucleare iraniano, la Russia «si è comportata saggiamente negando armamenti sofisticati a Teheran». Dennis Ross in Cina ha cercato di coinvolgere Pechino sul dossier nucleare iraniano. Paventando un possibile intervento armato israeliano sulle strutture. Cosa ne pensa? Ci sono stati due sviluppi importanti della vicenda. Il primo riguarda Mohammad ElBaradei che durante gli anni della sua presidenza dell’Aiea si è rivelato essere un grande musulmano. Ha sempre sminuito il pericolo e accettato la situazione iraniana. Nel suo rapporto finale ha però affermato che Teheran aveva sistematicamente violato le risoluzioni Onu. Proprio nel periodo in cui ElBaradei rassicurava il mondo sul fatto che l’agenzia avesse tutto sotto controllo, è uscita la notizia, poi corredata da foto satellitari, sull’impianto se-

«È

greto iraniano. È una farsa. Teheran costruisce delle istallazioni segrete, che poi vengono rivelate, grazie soprattutto all’opposizione interna. Una storia che continua da sette anni. È nel 2002 che le altre grandi istallazioni nucleari furono rese note. L’altro chiaro sviluppo è che il governo israeliano con il presidente Peres è andato a Mosca a chiedere che la Russia non consegnasse sistemi d’arma antiaerea a Teheran. Si tratta di missili Sam S-300 che sono di lunghissima gittata e pericolosi nonostante le contromisure dei mezzi aerei di Gerusalemme. Il Cremlino ha saggiamente dichiarato che non avrebbe consegnato questo sistema, peraltro già pagato dal regime sciita. Ahmadinejad afferma che i missili stanno arrivando, Medvedev dice il contrario. Per questo la scelta di Israele di rendere pubblica la faccenda. Pensa che gli israeliani possano e vogliano fare un blitz? Sicuramente lo possono fare. La loro è una vera strategia in senso lato. Da anni l’Iran proclama, tramite il suo cosiddetto capo spirituale Khamenei, e il presidente Ahmadinejad, di voler distruggere lo Stato ebraico. Ogni raduno politico e pubblico si conclude inneggiando alla distruzione di Israele. Gerusalemme di solito non reagisce, non da importanza alle parole. Diverso è quando Teheran non parla solamente, ma agisce concretamente. Il caso siriano insegna. Damasco aveva dato alla Corea del Nord gran parte delle proprie riserve valutarie per comprare un reattore nu-


mondo

cleare. Appena arrivato in Siria è stato stoccato in un deposito in attesa dell’assemblaggio. Gli israeliani sono arrivato e l’hanno distrutto, con un singolo e brevissimo attacco. Senza alcun annuncio. Il governo siriano, sempre pronto a dichiarare anche un semplice colpo di pistola, ha taciuto. Non una parola all’Onu o in altra sede. Teheran sa benissimo che Israele ha la capacità di distruggere le istallazioni nucleari in Iran in qualsiasi momento. Il regime fa dichiarazioni “bombastiche”, una ogni tre giorni. Affermano che Israele non oserebbe mai attaccarli, mostrando i muscoli con esercitazioni va-

Hanno ragione i russi quando affermano che gli iraniani non ci sanno fare con l’atomo? Loro guardano all’Iran dalla prospettiva di un grande Stato che può schiacciarli come uno scarafaggio. Ma non è la prospettiva di Gerusalemme. Quando gli iraniani minacciano e loro non rispondono, perché non li prendono sul serio, c’è un leader come il premier turco Erdogan che si alza e comincia a sbraitare verso i propri generali che il potere d’Israele è un mito: ”vedete che non rispondono agli iraniani”. Il problema è politico non tecnico. Il loro è un programma nucleare che non va da nessuna parte. Erdogan segue le orme di Ahmadinejad, è questo il vero problema che ha fatto dei veri danni. Israele aveva dei buoni rapporti con Ankara e con i militari. Erdogan accusa Israele di genocidio, dopo aver accolto ufficialmente il vero genocida, il presidente sudanese. Non rispondendo all’Iran, Gerusalemme ha dannegiato la propria capacità di dissuasione. È questa la vera paura d’Israele. Con Obama fanno ancora un lavoro di squadra. Prima dunque la diplomazia, poi le sanzioni, per ultimo un contrattacco. Sulle sanzioni il problema non è la Russia che è favorevole, o la Cina, che le appoggerà. Ma è la Germania che continua a vendere tecnologie non libri di Goethe.

Sulle sanzioni il problema non è Mosca,che pare favorevole, o la Cina,che le appoggerà. È Berlino:vende tecnologia e non libri di Goethe al regime

rie. Ma sanno che i sette od otto edifici che fanno parte del programma nucleare non potrebbero difenderli. Israele non ha paura di ritorsioni, della chiusura dello spazio aereo iracheno – una fesseria affermata da Brzenziski – o del terrorismo che da anni contengono benissimo. Il programma iraniano va avanti dal 1985, quando comprarono un pacchetto tecnologico completo dal Pakistan. Per 24 anno hanno spesso soldi, costruito e non hanno un chilogrammo di materiale fissile. Il loro programma è così caotico...

da arricchire. Naturalmente, all’Occidente questo sembra per il momento fuori considerazione anche perché la proposta è stata fatta in maniera non costruttiva». Poi, ricorda ancora l’ambasciatore, «è arrivato il gesto forte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, che a mio avviso dal punto di vista negoziale ha avuto l’effetto di un boomerang. Questo perché ha rafforzato i nazionalisti, che hanno invocato una risposta fiera poi arrivata: non ho l’impressione che l’Iran possa rappresentare una minaccia. Teheran vuole creare per sé stesso una posizione simile a quella del Giappone, che ha una tecnologia nucleare estremamente avanzata e arricchisce il proprio uranio: d’altra parte, questo lo permette anche il Trattato per la non proliferazione nucleare. La colpa dell’Iran è quella di non aver aperto in maniera abbastanza trasparente le proprie centrali all’Aiea».

D’altra parte, aggiunge, «se guardiamo la carta geografica vediamo che l’Iran è circondato da potenze nucleare: la prima al mondo, gli Stati Uniti, è accampata sulle sue frontiere occidentali e orientali». Per quanto riguarda il balletto diplomatico dell’Occidente, secondo Sergio Romano «esso deve continuare. Credo che tutti si rendano perfettamente conto che l’Occidente deve dare una sensazione di fermezza. Obama è molto criticato per aver tenuto un atteggiamento conciliante che non ha dato i frutti sperati. Ma se si fa un passo verso la fermezza si deve decidere qual è il successivo. Noi tutti, in teoria, lo conosciamo: sanzioni più rigorose». Ma per ottenere questo risultato, conclude, «le sanzioni devono avere anche l’avallo politico, de-

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vono essere decise dalle Nazioni Unite, con l’unanimità del Consiglio di Sicurezza. Russia e Cina hanno controfirmato la mozione dell’Aiea, ma sono disposte a sanzionare anche un nuovo imbargo? Credo di no. E quindi si deve stare attenti a minacciare una cosa che poi non si può fare. Continuiamo a giocare così, una partita dai tempi lunghi. E a questo proposito vorrei ricordare una questione di carattere nazionale: gli iraniani hanno il gusto del negoziato. Le partite non sono a tempo, sono

un’altra possibilità. Dare il via a delle sanzioni dure, come dicono alcune fonti interne ad AsiaNews, avrebbe l’appoggio anche della popolazione contraria al regime. Una guerra, invece, avrebbe l’effetto opposto: compatterebbe un popolo fiero intorno alla sua leadership, qualunque essa sia».

Rimane il fatto che la provocazione di Teheran rappresenta l’ennesimo schiaffo a chi ancora sperava che la recente proposta dei negoziatori interna-

Per Cervellera, «la popolazione iraniana sosterrebbe un embargo contro il proprio governo, che non appoggia. Una guerra invece avrebbe l’effetto di ricompattarli attorno ai loro leader» mosse in mezzo alle quali far passare il tempo. D’altra parte, sono stati gli iraniani a inventare gli scacchi». Padre Bernardo Cervellera, direttore dell’agenzia AsiaNews e missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere, la pensa in maniera diversa: «L’Iran è una minaccia, che continua a far crescere la tensione con le centrali nucleari. È chiaro che vogliono ottenere la bomba atomica. Ma l’Iran è una minaccia anche perché è estremamente fragile al suo interno: quindi non si sa chi potrebbe usare alla fine della lotta la bomba, e con quali scopi».

Ma c’è un altro aspetto da tenere sott’occhio: la minaccia iraniana «si può disinnescare chiedendo una moratoria dei siti nucleari di tutto il Medioriente. Così si sgonfierebbero anche le pretese di Teheran, che non vuole potenze atomiche attorno a sé». Sulla situazione attuale, conclude padre Cervellera, «c’è

zionali venisse alla fine, almeno in parte, accettata: Teheran avrebbe consegnato a Russia e Francia il 75 per cento del suo uranio - arricchito al 3,5 - per ricevere in cambio combustibile prodotto da uranio al 20 per cento, da usare a fini medici. Ma la proposta, già di fatto respinta, è stata definitivamente sepolta dall’annuncio della forte espansione del programma nucleare. A questo si deve aggiungere poi la decisione surreale del governo che - dopo mesi di abusi sui dissidenti interni - ha stanziato 20 milioni di dollari per «stilare rapporti annuali sulle violazioni dei diritti umani in Usa e Gran Bretagna» e per sostenere «chi resiste alle due potenze». Una metafora per definire di solito Hezbollah e Hamas, i due movimenti islamici che con il sostegno di Teheran continuano una partita pericolosa. Una decisione che, se non trova sbocchi, non aiuterà a riavviare il dialogo.


panorama

pagina 10 • 1 dicembre 2009

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Gli italiani? Per Celli sono sempre gli altri ier Luigi Celli - ora direttore generale della Luiss, un tempo direttore generale della Rai - ha scritto una lettera pubblica a suo figlio per dirgli che è stato davvero bravo a scuola e all’università, non ha deluso mamma e papà, ma ora rischia di rimanere fortemente deluso dal suo Paese che non è in grado di offrirgli niente che si alla sua altezza, al livella della sua preparazione, del suo senso della giustizia, e quindi per evitare amarezze è bene che tagli la corda, vada via, via all’estero, perché questo non è un Paese per il figlio di Celli. Alla fine della lettera, però, il direttore generale dice che già sa che cosa risponderà suo figlio: papà, hai ragione, anche a me questo Paese fa schifo, ma resto proprio per questo, per fargliela vedere io a questa «vil razza dannata» (questo l’ho aggiunto io).

P

Il manager ha le sue buone ragioni. Non possiamo certamente dargli torto così alla leggera. È vero.Viviamo (tutti) in un Paese individualista - ma la definizione più giusta è Paese dell’individualismo statalista - in cui a nessuno frega di nessuno, basta che vadano bene i fatti miei. La nostra concezione dello Stato è questa: lo Stato non è di tutti, ma di nessuno, quindi si può fare man bassa di ogni bene, mentre ciò che è direttamente nostra - la roba, diceva Verga - è praticamente sacro, non si tocca e si fa di tutto per alimentarne la crescita, anche e soprattutto ai danni dello Stato e con i soldi dello Stato. Anzi, le cose che dice il direttore generale sono anche fin troppo superficiali, si attinge un po’ alla cronaca - il disastro Alitalia un po’ ai luoghi comuni - è un Paese di raccomandati - si tira fuori la solita pappa pronta della solidarietà e della giustizia e alla fine si giunge al risultato di un polpettone moralistico indigeribile. Manca solo che dica che è tutta colpa di Berlusconi, che pure - come sanno i lettori da queste pagine critichiamo, ma proprio per questo non si può trasformare in un capro espiatorio o in un parafulmine delle sciagure nazionali. Che invece vengono da lontano e, forse, non ci toglieremo mai dalle spalle perché sono la nostra seconda pelle. La stessa lettera di Celli non appartiene forse a quella tipica lamentela degli intellettuali? Non è forse un vezzo italiano quello di parlar male dell’Italia? Pier Luigi Celli, come si è visto, non è mica un signor nessuno. Il suo lamento somiglia alle lacrime del coccodrillo e richiama quel detto popolare, forse un po’ volgare ma essenziale e non fuori luogo, che dice “chiagne e fotte”. Dopotutto, i buoni risultati scolastici e universitari del “piccolo Celli” non sono anche un merito indiretto di questo schifo di Paese? Perché i meriti sono sempre nostri e le malefatte sempre degli altri? Perché gli italiani - i cattivi italiani - sono sempre gli altri? Ma non sarà poi che il giudizio di papà Celli è insieme strabico e miope? Non confonderà l’Italia solo con il Palazzo, non accorgendosi che l’Italia è più varia e vera della rappresentazione che se ne dà?

Il rito del silenzio secondo papa Ratzinger Benedetto XVI ha cambiato le ”forme” del suo pontificato di Luigi Accattoli a sabato il Papa ha una nuova croce “pastorale”quando celebra, più piccola della precedente che era stata usata da Pio IX. E tra poco sarà un anno che nelle liturgie papali si fanno lunghe pause di silenzio, in particolare dopo le letture e dopo la comunione. Sono due tra i tanti piccoli ritocchi dei riti e dell’immagine papale apportati da Benedetto, tutti nella direzione di un sapiente dosaggio di elementi nuovi e antichi in modo da segnalare la continuità del Papato oltre lo spartiacque conciliare.

D

Vesti papali, arredo liturgico, aspetti secondari del rito: sono questi i settori dove il Papa teologo è venuto introducendo con discrezione – e senza provocare polemiche – una novità dopo l’altra. Nel dicembre del 2005 – alla fine del primo anno da Papa – si presentò in piazza San Pietro per la prima volta con il camauro in testa: l’ultimo a usarlo era stato Giovanni XXIII. Nel settembre dell’anno seguente percorse i passaggi tra la folla di quella stessa piazza con in testa il “saturno”: rosso, di paglia, versione estiva. Giovanni Paolo II l’aveva portato qualche volta solo nei viaggi in paesi caldi. Nello stesso dicembre del camauro riprese l’uso della “mozzetta”: una corta mantellina di velluto rosso scuro bordata di ermellino bianco, non più usata dopo Paolo VI. Papa Wojtyla usava soltanto la mozzetta estiva di seta, senza bordo. Più significativi i ritocchi all’arredo, ai paramenti e ai riti liturgici. Qui l’anno chiave è il 2008. La Domenica delle Palme celebra sulla piazza portando la croce di Pio IX, invece del crocifisso di Paolo VI che era poi passato ai due Giovanni Paolo e che egli stesso aveva usato fino ad allora. A partire dal Corpus Domini di quello stesso anno inizia a dare la comunione esclusivamente nella bocca e a fedeli inginocchiati. Dal novembre di quell’anno sono tornati la croce e i candelabri sulla “mensa”della celebrazione papale, dalla quale erano stati tolti a seguito della riforma liturgica post-conciliare, venendo sistemata la croce a lato dell’altare ed essendo i candelabri sostituiti con piccole candele su ciotole.

alle spalle e si ricongiunge sul petto) che gli era stato “imposto” all’inizio del Pontificato – e che era stato rifatto secondo le indicazioni delle fonti antiche – e ha ripreso quello stilizzato che avevano portato tutti i Papi dell’epoca moderna. Sollecitato da Benedetto, il cerimoniere Guido Marini utilizza poi con abbondanza “tronetti”di Pio XII,“pianete”di Paolo VI,“piviali”di Giovanni XXIII.Tutti questi recuperi avvengono senza toccare nessuno degli aspetti centrali del nuovo rito: egli fino a oggi ha sempre celebrato in pubblico con il messale di Paolo VI, usando anche le lingue moderne e rivolto al popolo. Solo in due occasioni nella Cappella Sistina ha celebrato rivolto alla croce dell’antico altare e dando le spalle al’assemblea. A mio avviso la più significativa di queste innovazioni è quella riguardante la croce che il Papa usa come pastorale. Al posto della croce tradizionale Paolo VI aveva introdotto un crocifisso scolpito per lui da Lello Scorzelli e quel crocifisso l’avevano poi ereditato i successori. Dal crocifisso di Papa Montini alla croce di Papa Mastai: così si disse perché la croce che prese a usare non era nuova, ma era appartenuta a Pio IX.

Così il Pontefice dimostra di avere cara tutta la «successione apostolica» della storia, non solo i suoi più prossimi predecessori

Dalla festa dei Santi Pietro e Paolo del 2008 ha pure abbandonato il nuovo “pallio” (una stola che gli gira intorno

Altri dissero che si passava “dal crocifisso del kerigma (cioè dell’annuncio evangelico) alla croce del dogma”. Ma era dire troppo. L’intento del Papa era di stimolare a una veduta ampia della continuità papale, alla quale egli ci aveva già invitati con la scelta del nome “Benedetto”che sormontava la serie conciliare dei Giovanni e Paolo. Come con il nome aveva segnalato l’intenzione di avere cara tutta la “successione apostolica” dei Papi, senza legarsi in maniera privilegiata ai più recenti, così voleva che la continuità fosse richiamata con le vesti, i paramenti e i tronetti. Infine le pause di silenzio nelle celebrazioni. Sono iniziate il Natale scorso. Si fanno pause dopo le letture, dopo i salmi, dopo l’omelia e una pausa più lunga dopo la comunione. L’attaccamento di Benedetto al silenzio – che caratterizzava la vecchia liturgia e che è quasi scomparso dalla nuova – si era già segnalato con la più abbondante proposta dell’adorazione eucaristica. Con queste pause egli sta ora cercando di educare le folle papali a un maggiore raccoglimento in ogni celebrazione. www.luigiaccattoli.it


panorama

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Non si placano nel Partito democratico le polemiche sollevate dalla chiamata alle armi contro il premier lanciata dall’IdV

NoBday: nel Pd comincia la conta Crescono le adesioni alla manifestazione dipietrista e sale l’imbarazzo di Bersani di Antonio Funiciello

ROMA. È un copione già visto più volte: ieri i girotondi, oggi Di Pietro, e in mezzo il maggiore partito dell’opposizione (ieri i Ds, oggi il Pd) che non sa che fare. E poi le adesioni a titolo personale, il “mi si nota di più se vado, se non vado o se vado e me ne sto in disparte”, le bandiere, le interviste in dissenso, eccetera, eccetera, eccetera. I più severi parlano di una crisi di leadership della sinistra italiana tanto profonda da determinare naturalmente la confusione che si ripropone ancora una volta in questi giorni, in vista del no B day. E qualcosa che non va ci dev’essere di sicuro se prima Veltroni e oggi Bersani, si tratti di Cgil o dell’Italia dei Valori, non riescono a salvaguardare il loro Partito democratico dalla concorrenza piazzaiola interna al campo del centrosinistra. Quello della piazza è in realtà un problema risolto da tempo da tutti i grandi partiti di centrosinistra delle democrazie avanzate d’Occidente. Semplicemente in piazza non ci si va. Non si organizzano più manifestazioni di partito e, per quelle degli altri (partiti alleati, sindacati o associazioni), al massimo partecipa qualche esponente politico a titolo individuale, senza fare una conferenza stampa per annunciarlo alla stampa. E men che meno si vedono bandiere dal sen fuggite. Negli altri paesi insomma, eccezion fatta per le campagne elettorali, un partito di go-

verno non fa manifestazioni di piazza. Punto e basta.

L’ultima manifestazione del Labour Party fu negli anni profondi dell’era Thatcher e, ovviamente, servì solo a rafforzare il consenso dei conservatori. Una delle scelte che ha permesso a Labour di vincere per tre volte di seguito le elezioni politiche, come mai era successo in precedenza, è stato proprio smetterla

di organizzare concertini di piazza. Il Pd, di suo, si è ritrovato un anno fa al Circo Massimo alla ricerca di un rafforzamento della sua leadership, invece di fare un congresso, come si fa in simili casi altrove. E difatti tre mesi dopo il suo leader s’era dimesso. Perché se nella prima Repubblica una manifestazione poteva buttare giù un governo, al massimo oggi fa cadere il capo dell’opposizione. Da qui la preoccupazione di Bersani per il no B day del prossimo 5 dicembre che, se non rischia evidentemente di mettere in discussione il segretario democratico in carica da poco più di un mese, gli complica parecchio la vita. Bersani ha cercato di marcare una distanza con l’ennesima iniziativa anti-berlusconiana, convinto giustamente com’è, che la stessa non rappresenti altro che una potente iniezione di vitamine per un governo in debito di salute. L’opposizione che Berlusconi predilige. Eppure molti democratici s’incaricano di complicare la vita a Bersani, avendo annunciato la loro partecipazione. La segretaria democratica del Friuli Debora Serracchiani ha aderito al no B day (chissà cosa ne pensano i laboriosi friulani…), così come il vice presidente del partito Scalfarotto e il candidato alla segreteria Marino, il dipietista dal volto umano, per dirla una una brillante definizione di Michele Salvati. Altri, pur non avendo aderito, hanno

I più severi parlano di una crisi di leadership, tale da determinare la confusione che si ripropone in questi giorni

sottolineato la radice web e non dipietrista della manifestazione, come gli ecodem di Realacci e Giovanna Melandri.

Il Pd, per rispondere al clamore del no B day, ha indetto due giornate di mobilitazione l’11 e il 12 dicembre, ma nessuno ne sa niente. Si è preferito pure stavolta evitare di staccarsi nettamente da una iniziativa che si giudica sbagliata e provare a uscirsene con l’ambiguità dell’eterna risposta per cui il partito non va, ma i dirigenti che vogliono sì. Con la conseguenza che gli italiani non hanno capito se il Pd il 5 dicembre sarà o meno a Roma in piazza della Repubblica. Non è un buon viatico per la scelta dei candidati alle regionali e la formazione di liste e listini, per la quale il Nazareno avrebbe voluto avere un quadro chiaro già prima di Natale. D’Alema avrebbe preferito un posizionamento più deciso contro l’iniziativa dipietrista, ma Bersani non è uomo da traumi, che giudica generalmente poco pruducenti e nella fattispecie ancor più pericolosi. Anzi è convinto che, grazie alla sua prudenza, quella che era nata come una manifestazione più per strattonare il Pd che il Pdl abbia mutato registo. Difficile dirlo oggi. E, comunque, basterà aspettare pochi giorni per vedere come andrà a finire.

Paradossi. Passa il tempo, ma gli «oggetti del desiderio» continuano a raccontare la società

Anche il calendario vola low cost di Pier Mario Fasanotti e li ricordo quan’ero bambino. O forse era un racconto di mio padre, non so. Una volta i barbieri, alle feste comandate, regalavano piccoli e profumati calendari. Leziosi assai, kitch, ma dietro ad essi c’era una cortesia. Era l’epoca del garbo, del gentile sottinteso. Ma i calendari continuano a ritmare il succedersi delle epoche. Sociologia appesa col chiodo.

un tir c’era il rischio di sbandare. È pur vero che il connubio donna conturbante-auto continua a non declinare. Anzi. Basta andare a qualsiasi salone: sul cofano dei bolidi a quattro ruote c’è sempre una fanciulla-velina, scosciata, scollata, che ti guarda maliziosamente e magari ti fa dimenticare

Dai piccoli cadeaux dei vari “figaro” di città e di provincia si è passati ai poster con donne semi-nude, o interamente spogliate, immancabili quadretti fissati alle pareti delle officine-auto. È consigliabile, ieri come oggi, non entrarci assieme a figli piccoli. La loro educazione sessuale è meglio che sia più morbida e graduale. Pare a volte che gli elettrauto – sia detto senza offesa alla categoria - siano parenti morbosi di ginecologi, tanto sono espliciti alcuni primi piani. Più che espliciti, pornografici. Loro magari ti direbbero: «Ma ormai ‘ste cose le vedono dappertutto». Come se selezionare sia roba da collegio inglese dell’Ottocento. Una volta si diceva: roba da camionisti. Con lo sbirciare i vetri di

la tua domanda, intenzionalmente tecnica, sui cavalli-vapore, sul turbo, e sul prezzo delle protesi narcisistiche dei ricchi voyeur di cilindrate. Ma i calendari, ovverosia le donne da appendere, riservano quest’anno belle sorprese. Una compagnia aeronautica, la Ryanair, ha deciso

M

Ryanair ha invitato le sue hostess a spogliarsi un po’ per illustrare i dodici mesi. «Ma solo quelle consenzienti»

di far fotografare le sue hostess. Per ora in minibikini. Prossimamente faranno un calendario «più caldo». Si vola nel sesso annunciato, promesso, in assenza di idee circa altri optional o “servizi”. La Ryanair, a scanso di equivoci sindacali, ha tenuto a precisare che le hostess calienti sono tutte consenzienti. Su quattromila assistenti di volo, hanno detto sì 400. Ho il dubbio che una qualche selezione ci sia stata, a monte. Ma posso sbagliarmi. Spesso sono le stesse donne a sapere di potersi esibire. Chi non s’è prestata ad essere “calendarizzata” non dovrebbe temere ritorsioni aziendali.

La grande furbizia del marketing del viaggiare “low-cost” è fare sapere che i proventi delle vendite andranno tutti a Kids, associazione di beneficenza che si occupa di bambini. Cosa non si fa per l’infanzia sfortunata!


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Artico è sempre più il termometro del mondo. Sia perché il cambio climatico di tale regione - due volte più veloce della media globale - è lo specchio dello stato di salute del nostro pianeta. Sia in termini di surriscaldamento delle dinamiche geopolitiche e geostrategiche delle potenze sub-artiche: Stati Uniti, Canada, Danimarca, Norvegia e Russia. Esse hanno modificato la propria “grande strategia”, basata sulla definizione e la dinamica degli interessi nazionali, proprio sulla base dell’assetto e delle potenzialità dell’Artico.

L’

Il “Grande Nord”, con un’estensione di oltre 30 milioni di kmq, pari ad un sesto della superficie terrestre del Pianeta, è un vero e proprio “sub-continente oceanico”. Oggi ancora più di quanto lo fosse in passato. Lo scioglimento dei ghiacci dell’Artico - si stima che in venti anni la copertura dei ghiacci durante la stagione estiva si sia ridotta del 29 per cento, che porterà l’Artico ad essere navigabile nei mesi caldi entro il 2030 - oltre a disastrose conseguenze sulla flora, la fauna e sulle popolazioni indigene, sta aprendo rotte finora sconosciute e non raggiungibili dall’uomo. La possibile navigabilità del “mitico”Passaggio a NordOvest (coste nord del Canada e dell’Alaska) o “la Rotta del Mare del Nord” (via che passa dalla parte russa del Circolo Polare Artico) aumenta l’importanza strategica dell’Artico, soprattutto perché riduce enormemente le distanze per i trasporti di merci tra uno Stato e l’altro. Inoltre, l’Artico è circondato da tre continenti - Europa, Asia e Nord America oltre alla Groenlandia (danese) ed a numerosissime isole ed isolotti, che rendono la regione appetibile per un gran numero di player, oltre agli Stati sub-artici. In più, i bordi dell’Artico si contraddistinguono per la presenza di mari periferici - mare di Barents, di Bering, di Beaufort, di Chukchi, di Kara, Siberiano Orientale, ecc. - che, negli anni, hanno portato alla nascita di aree portuali strategiche: le città russe di Murmansk e Arcangelo, Churchill in Canada e Prude Bay in Usa. Lo scioglimento dei ghiacci sta riducendo la distanza tra aree on-shore e off-shore, facilitando il trasporto di merci. Già agli inizi del Duemila, tanker hanno iniziato a trasportare petrolio dall’artico russo in Europa. Inoltre, lo scioglimento sta facendo emergere un immenso tesoro ancora inesplorato, fatto di ricchi depositi di metalli, oro, argento, rame, diamanti; di uranio, combustibile per le centrali nucleari; e, secondo le ultime stime, di circa il 20-25 per cento delle riserve di petrolio e gas del pianeta non ancora scoperte. Petrolio e gas sono il driver dell’economia dell’Artico. Senza contare che le acque artiche sono considerate una delle ultime grandi riserve di pesce del mondo. Secondo il rapporto Artic Oil and Gas 2007, l’Artico produce oggi circa un decimo del greggio e un quarto del gas del mondo. Di tale quantitativo, quasi l’80 per cento di petrolio e il 99 per cento di tale gas vengono dall’Artico russo. Inoltre, con l’aumento della domanda mondiale, l’attività di estrazione di petrolio e gas nella regione artica aumenterà. Soprattutto, se si considera che, ormai da molti anni, grandi giacimenti di petrolio nel mondo Opec e Mediorientale non sono stati trovati e che il petrolio russo

speciale/geopolitica

La superficie dell’Estremo Nord è pari a un sesto del pianeta. Co

La grande guerra d Entro il 2030 potrebbe essere navigabile d’estate: Stati Uniti, Canada, Danimarca, Norvegia e Russia si contendono il controllo di un oceano immenso di Davide Urso si trova sempre più a nord e portarlo a sud, verso gli utilizzatori russi e verso il mercato internazionale, è sempre più costoso. La World Wildlife Foundation ha stimato che l’Artico detiene le più grandi riserve di gas inutilizzate al mondo e tra le più cospicue riserve di petrolio ancora non sfruttate.

Il rapporto del U.S. Geological Survey del giugno 2008 ha calcolato che in 25 aree geograficamente conosciute della zona nord del Circolo Artico ci siano circa 90 miliardi di barili di petrolio sconosciuti, ma tecnicamente recuperabili; 1.670 mila miliardi di metri cubi di gas naturale, anch’esso estraibile; e 44 miliardi di barili recuperabili di gas naturale liquido (Gnl). Qualcuno ha addirittura iniziato a chiamare l’Artico “la ghiacciata Arabia Saudita” o “l’Arabia

Saudita del nord”. Le industrie fossili considerano l’Artico come “l’ultima frontiera per lo sviluppo degli idrocarburi”. Sono in fase di studio progetti per nuove pipeline.

La Federazione Russa sta progettando la costruzione di un oleodotto dal bacino della Siberia Occidentale e TimanPechora al porto artico occidentale, di un oleodotto del Far East per il trasporto del petrolio artico ai porti del

Sta emergendo un tesoro ancora inesplorato, fatto di oro, argento, rame, diamanti, uranio e (soprattutto) miliardi di metri cubi di gas

Pacifico e di nuovi terminali marittimi e di nuovi tanker per rafforzare il mercato delle risorse energetiche dell’Artico. Il Canada sta investendo molto nell’estrazione di greggio dalle sabbie bituminose, presenti nel nord dello Stato di Alberta. Attualmente vengono estratte in Athabasca-Wabiskaw, Cold Lake e Peace River, un’area di 140 mila metri cubi con risorse stimate in 175 miliardi di barili di sabbie bituminose non lavorate. Secondo le ultime stime, entro il 2015 un quanto della produzione di petrolio del Nord America dovrebbe derivare dalle sabbie bituminose. Ciò inciderebbe profondamente sugli equilibri geoeconomici mondiale, rendendo gli Stati Uniti più indipendenti dalle importazioni petrolifere del Medio Oriente. Pechino ha investito in imprese ed oleodotti per il trasporto di greggio dall’Alber-


speciale/geopolitica

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Con lo scioglimento dei ghiacci, la sua importanza strategica cresce anno dopo anno Il governo di Copenhagen presenta una bozza per il summit

Entro il 2050 emissioni giù del 50% Ma l’India risponde: «No grazie»

dell’Artico ta alle coste del Pacifico, per poterlo poi importare in Cina.

Inoltre, il Canada ha in costruzione il gasdotto Mackenzie Valley per aumentare lo sviluppo e la produzione nel Delta Mackenzie e nel Mare di Beaufort. Un gasdotto in Alaska, dal North Slope ai mercati meridionali, è in fase di finalizzazione, per sfruttare le riserve oggi conosciute. Le acque del Polo Nord sono considerate “mare internazionale”. Tutti gli Stati hanno uguali diritti nello sfruttamento delle risorse presenti, dalla navigazione, alla pesca, alla posa dei cavi. Non è ammissibile che gli Stati se ne approprino a loro arbitrio fino al punto di sopprimere ogni possibilità di utilizzazione da parte degli altri Paesi. Il diritto esclusivo di esercitare il potere di governo sulle attività di sfruttamento viene acquistato in modo automatico a prescindere da qualsiasi occupazione effettiva della piattaforma. La Convenzione di Montego Bay del 1982 dispone che uno Stato costiero ha il diritto esclusivo di sfruttare le risorse della piattaforma continentale e della zona economica esclusiva fino a 200 miglia marine dalla costa. Lo Stato costiero ha il controllo esclusivo di tutte le risorse

La Danimarca scende in campo con una proposta-base su cui avviare il vertice di Copenaghen che si terrà dal 7 al 18 dicembre e incassa l’immediato No dell’India. Secondo la bozza (anticipata dalla Reuters) il mondo dovrebbe ridurre le emissioni di gas a effetto serra della metà entro il 2050 rispetto al 1990 e la maggior parte di queste riduzioni, l’80%, dovrebbe provenire dai paesi industrializzati. La proposta danese individua nel 2020 l’anno in cui le emissioni di Co2 mondiali toccheranno il massimo e non contiene indicazioni su obiettivi di taglio delle emissioni a medio termine per i paesi ricchi. L’intento, che mira a contenere il riscaldamento globale entro i due gradi Celsius, è che la bozza possa diventare la base per un’intesa politica al vertice. Immediata la risposta dell’India: «Se la bozza danese contiene indicazioni temporali, allora Copenhagen è già fallita. La proposta, che non si basa su stime realistiche, è totalmente inaccettabile da noi», ha detto ieri il ministro indiano dell’ambiente Ramesh. Che si è detto pronto, assieme ad altre economie emergenti come Cina, Sud Africa e Brasile, a presentare già oggi a Copenhagen una nuova bozza «molto più vicina alle nostre posizioni e non negoziabile». Ramesh, come l’intero governo indiano, è contrario a qualsiasi cornice temporale e numerica in fatto di taglio di emissioni, pensando al 2050 come data più realistica del 2020. La decisione indiana nasce dalla convinzione del governo che «le nostre emissioni pro capite sono molto basse. Abbiamo già detto che siamo pronti a discutere sul livello di efficienza energetica. Ma dobbiamo conservare quel realismo di cui sono privi i paesi sviluppati». Se la bozza danese dovesse essere accettata, l’India è pronta ad abbandonare il summit.

economiche della zona, sia biologiche che minerali, sia del suolo e del sottosuolo che delle acque sovrastanti e per la pesca. Spetta allo Stato fissare la quantità massima delle risorse ittiche sfruttabili, determinare la propria capacità di sfruttamento e, solo se questa è inferiore al massimo, consentire la pesca agli stranieri. Per molti esperti sarà,

Gli oceanografi russi sono al lavoro per dimostrare la teoria secondo la quale la Russia e il Polo Nord sono parte della stessa piattaforma quindi, una corsa contro il tempo, visto il vuoto del diritto internazionale sulla sovranità dei fondali artici e sullo sfruttamento delle sue risorse.

In realtà, più che una questione di tempo gli Stati sub-artici stanno giocando al “gioco della globalizzazione”, per spartirsi le zone d’influenza dell’Artico. La globalizzazione - e la “geopolitica dell’orto”, basata sull’approccio glocal alle relazioni internazionali - garantisce guadagni per tutti a fronte di successi

locali basati su collaborazioni strategiche. L’attrazione dell’Artico è troppo forte e le tecnologie estrattive a disposizione sono ancora troppo deboli perché gli Stati sub-artici possano agire fuori dalle regole della globalizzazione e degli equilibri geo-strategici, innescando possibili mini-guerre fredde. Il rischio è la perdita dei vantaggi economici e di rango geopolitico che l’Artico destinerà nel medio-lungo periodo. L’unico Stato in grado di agire sulla base di interessi globali e non locali è la Russia, che per storia, dimensioni e cultura, si colloca in posizione privilegiata. Lo scorso agosto, una spedizione scientifica russa, composta da due batiscafi Mir-1 e Mir-2 e costata circa 70 milioni di euro, ha piantato una bandiera russa sui fondali della banchisa artica ad oltre 4.200 metri di profondità. Il Cremlino ha paragonato la spedizione alla prima passeggiata degli astronauti sulla Luna. L’esplorazione dell’Artico è un’impresa scientifica alimentata più da aspirazioni di egemonia e di controllo, che di conquista di un singolo mercato regionale.

Non si tratta di una mera impresa geologica, quanto una vera e propria conquista geopolitica e di potenza. L’obiettivo era dimostrare che la dorsale

Lomosonov - catena sottomarina lunga 1700 km che si estende dalla Siberia all’estremità Nord-occidentale della Groenlandia - è il prolungamento del territorio della Federazione. Sotto la spinta di Mosca, gli oceanografi russi sono al lavoro per dimostrare la teoria geopolitica - denominata “Artico Sovietico” - secondo la quale la Russia e il Polo Nord sono parte della stessa piattaforma. Se la tesi del Cremlino fosse confermata dall’apposita commissione delle Nazioni Unite, la Russia otterrebbe la sovranità non solo sulla dorsale e i fondali, ma anche sulle risorse naturali del sottosuolo artico. Sarebbe un successo per la politica post-zarista di Putin, tendente alla conquista dei mercati geoenergetici, per il ritorno alla grandeur della Vecchia Russia (non è un caso che Putin abbia dato il titolo di “Eroi della ai Russia” membri della spedizione e che il neopresidente Medvedev abbia ribadito la volontà che la Russia torni ad essere una potenza marittima e navale). Visto che la dorsale Lomonosov taglia il Mar Glaciale Artico, collegando la piattaforma Eurasiatica a quella Nord Americana, anche Canada e Danimarca acquisirebbero gli stessi diritti di Mosca. Copenaghen, dal canto suo, sta da tempo cercando di dimostrare che la dorsale Lomonosov è parte della piattaforma della Groenlandia.

Il 30 ottobre 2009, Mosca ha annunciato massicci investimenti per iniziare una accurata e qualificata mappatura dei fondali dell’Artico, che impegnerà la Russia per 3 anni, con l’unico scopo di giustificare la richiesta russa della propria sovranità territoriale. Chiaramente, tale attività innescherà un effetto domino, costringendo le altre nazioni sub-artiche in competizione a fare lo stesso o, quantomeno, a dichiarare di voler fare lo stesso. Sovranità e sicurezza per l’Artico sono spesso sinonimi. Gli Stati sub-artici devono trovare una soluzione a questo e decidere se far rimanere l’Artico una zona di cooperazione o meno. Nel maggio 2008 i cinque Stati circumpolari hanno siglato la Ilulissat Declaration, che ufficialmente dichiara l’obiettivo comune di mantenere l’Artico una regione di pace e cooperazione e risolvere le rivendicazioni territoriali, soprattutto quelle che vedono in “lotta”due o più Stati. Da allora quasi nulla è stato fatto. In più, il governo degli Stati Uniti ha aperto la strada ad un nuovo approccio artico limitando la pesca industriale a circa 200mila miglia quadrate delle acque statunitensi nella zona del Pacifico settentrionale, almeno fino a che studi scientifici determineranno in modo oggettivo il grado di fragilità dell’ambiente marittimo dell’area artica. L’auspicio è che questa mossa da parte degli Stati Uniti possa permettere di sviluppare un approccio globale verso l’Artico.


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Nel 2008, la Ue e la Federazione Russa hanno annunciato le loro strategie verso l’Artide e la Danimarca, l’Islanda, la Norvegia, il Canada continuano a spingere per una maggiore attenzione e più sforzi per massimizzare la sicurezza dell’area. L’inerzia burocratica e, soprattutto, le velleità economiche sembrano però per ora prevalere sul benessere collettivo, oltre che dell’Artico. Il rischio è che la prevalenza di interessi nazionalistici, con l’aggiunta di una politica non comune della comunità internazionale, provochi potenziali danni ambientali, escalation militari e attività illecite.

Infatti, secondo gli esperti internazionali, l’aumento continuo delle attività marittime potrebbe generare l’acidificazione delle acque artiche e l’inquinamento dell’aria e del mare, nonché l’introduzione di nuove specie di organismi e forme di vita da parte di navi straniere in un ambiente del tutto sconosciuto. Inoltre, maggiori sono le attività marittime di transito delle petroliere e maggiori sono i rischi di incidenti, che – considerate la grandezza, la difficoltà di navigazione e la posizione geografica dell’Artico – potrebbero essere conosciuti anche dopo giorni. Tutto ciò produrrebbe disastri economico-ecologici sulla fauna e la flora sub-continentale, nonché sull’economia ittica ed estrattiva degli Stati litorali e non litorali attivi nell’Artico. Le richieste di sovranità territoriale sommate all’apertura del Passaggio a Nord-Ovest sono aspetti strategici che, se non ben definiti e risolti dal diritto internazionale o da accordi vincolanti bilaterali o regionali, potrebbe generare una militarizzazione dell’Artico. Le attuali attività militari - come la ricognizione aerea, le esercitazioni dei sottomarini militari e le navi guidate rompighiaccio per la mappatura dei fondali non sono ben conosciute né dai paesi limitrofi, né dalla comunità internazionale, e dipendono dai singoli investimenti degli Stati nazionali. Vi è anche un’elevata possibilità che trafficanti possano provare a sfruttare la vastità della regione artica per trasportare merce illecita (droga, armi, persone, ecc.) negli Stati sub-artici. Sarebbero difficilmente scopribili anche sfruttando le migliori tecnologie investigative. La corsa contro il tempo non sarà però tanto per la sovranità (ancora incerta) o per la sicurezza dell’Artico, quanto sugli investimenti in tecnologie in grado di sfruttare l’off-shore profondo, cioè le risorse dei fondali artici, e sulla protezione di quelle su cui ciascuno Stato sub-artico rivendica la propria sovranità. A otto giorni dalla missione russa, il Canada - non avendo mezzi rompi-ghiaccio adeguati - ha annunciato la costruzione di una base di addestramento al combattimento per l’esercito in condizioni estreme a Resolute Bay sull’isola di Cornwallis, a 600 chilometri dal Polo Nord, e di un porto d’altura per il rifornimento per le navi da guerra e dei vascelli di pattugliamento a Nanisivik, sede di un’antica miniera di zinco, a nord dell’isola di Baffin. Intanto il governo canadese ha stanziato un finanziamento per la costruzione di 6-8 pattugliatori d’altura di V classe che presidieranno l’area artica, nel tentativo di assicurarsi il Passaggio a Nord Ovest.

La corsa al Passaggio a Nord-Ovest Due cargo tedeschi, nel 2008 e nel 2009, hanno “risparmiato” 4.000 km ome evidenziata dalla Nasa il 3 settembre 2009, il Passaggio a Nord Ovest è stato navigabile pochissime volte e fino al 2007 le immagini satellitari ne davano una visione selvaggia e quasi impenetrabile. Quella che ancora oggi può essere definita la“rotta di Amundsen”è stata aperta nell’agosto 2008 e il 12 settembre 2009 la prima di due navi-cargo commerciali tedesche, di proprietà del Belga Group, ha navigato con successo il Passaggio e trasportato merci in Giappone, Sud Corea e Russia.

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Le due navi hanno non solo risparmiato circa 4.000 km ciascuna tagliando il globo, ma hanno dimostrato che farlo è possibile. Inoltre, i miglioramenti e le innovazioni tecnologiche (es. l’accuratezza della mappatura dei fondali marini, i Gps moderni e i mezzi di trasporto) rendono sempre più agevole per gli Stati e le compagnie private esplorare l’Artico, limitando con quasi assoluta certezza le aree da analizzare e guadagnando molto sul tempo e sul denaro. La“corsa all’Artico”è iniziata a colpi di politiche economiche, storico-strategiche e concorrenziali. Ciò sta scatenando contenziosi diplomatici tra le potenze sub-artiche, soprattutto quelle maggiormente o simbolicamente tagliate fuori - Stati Uniti e Norvegia -, riaprendo vecchi contenziosi mai risolti. La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha innescato un processo di “rinnovamento geopolitico” da parte del Cremlino. Tutti gli accordi stipulati o firmati e non ratificati prima e durante la Guerra Fredda non vantaggiosi per la Federazione sono stati considerati nulli.Pertanto, con buona pace del diritto del mare, Mosca sta deliberatamente provocando piccole dispute lungo le frontiere mari-

ne artiche, sfruttando l’attuale superiorità geografica e tecnologica sull’Artico. I conflitti principali sono con gli Stati Uniti e la Norvegia. Non si tratta di confronti militari - né oggi, né in prospettiva - ma di dispute geopolitiche su tratte di mare di enorme importanza economica e strategica: abbondanti ricorse ittiche, ingenti giacimenti di petrolio e gas, e il controllo di vie di comunicazione e di trasporto marittime.

Nel 1867, gli Usa hanno acquistato dall’allora zar russo Alessandro II il territorio dell’Alaska: 600 mila miglia quadrate, al costo di 7,2 milioni di dollari, circa 2 cent per acro. L’accordo d’acquisto definiva una

La frontiera tra Usa e Urss nel Mare di Bering fu rinegoziata nel 1990. Ma l’Unione sovietica collassò prima di ratificare l’accordo

frontiera marittima tra la Russia e gli Stati Uniti nello Stretto di Bering - la International Date Line - senza però specificare il tipo di linea che avrebbe dovuto separare i due Stati e il tipo di proiezione della mappa utilizzata per definire il confine marittimo. Inoltre, né Stati Uniti, né Russia produssero mai la cartina geografica utilizzata durante i negoziati. Ciò - con l’estensione a 200 miglia marine della zona economica esclusiva - generò una diversa interpretazione della linea di confine: entrambi i Paesi descrivevano il trattato come una “linea dritta”di confine. Gli Stati Uniti consideravano la frontiera marittima del Mare di Bering come una “linea geodetica” (ovvero la linea che descrive localmente la traiettoria più breve fra gli estremi).

La Russia, invece, la considerava come una “linea rhomb”(ovvero la linea tracciata da ogni punto della bussola su una carta nautica, eccetto i quattro punti cardinali). Usa ed Urss giocavano la partita per la sovranità su 15mila miglia marittime. La frontiera fu rinegoziata con l’accordo “Baker-Shevardnadze” del 1 giugno 1990. Esso, rispettando le differenze interpretative cartografiche tra i paesi, si rivelò decisamente favorevole agli Stati Uniti, che mantenevano il possesso sul tratto di mare - Mare di Bering e Mare di Chukchi -, con riserve di petrolio e gas stimate rispettivamente in 24 miliardi di barili e 126 trilioni di metri cubi, e con capacità di pesca - stimata dagli Stati Uniti superiore ai 2 milioni di tonnellate di pesce l’anno nel Mare di Bering.Inoltre, l’accordo creò 4 aree speciali: 3 nel lato americano, definite “aree speciali orientali” e 1 - “area speciale occidentale” - nel lato sovietico. L’accordo sarebbe entrato in vigore a seguito della ratifica dei rispettivi Parlamenti. Quello americano ratificò immediatamente l’accordo. L’Urss è collassata prima di poterlo ratificare.


speciale/geopolitica

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costi. Improvvisamente, quella che era stata una cooperazione lineare tra Norvegia e Russia divenne motivo di contrasto. Mosca chiese l’aumento della percentuale russa sullo stock cod, fino ad allora spartito equamente. Il problema divenne serio quando lo stock cod raggiunse all’inizio del XXI secolo livelli critici di sfruttamento e la Comunità internazionale, a causa della mancanza di certezze scientifiche sul futuro dello stock e le sue conseguenze, raccomandò il rispetto del“principio di precauzione”. Esso fu subito accolto dall’Ices e dalla Joint Commission. Gli scienziati raccomandavano una drastica riduzione delle quote dello stock cod. Il governo russo si oppose a tale riduzione, che, diversamente, fu accettata (anche se non del tutto) da quello norvegese. Un accordo sulle quote fu trovato nel 2001 e nel 2003 la Joint Commission pose delle regole più moralizzatrici per la gestione e lo sfruttamento del cod dell’Artico NordOrientale. La Federazione Russa ha continuato ad eccedere nelle attività ittiche. Il governo norvegese ha più volte accusato Mosca di overfishing, ovvero di pescare pesce fresco in acque comuni e di trasportarlo, come pesce surgelato, in paesi terzi, senza rendere conto alla Norvegia.

E l’Italia si allontana dal Polo Nord Pochi fondi: rischiano di evaporare anni di ricerche e riconoscimenti a Federazione Russa ritenne subito invalido l’accordo con gli Stati Uniti, con la motivazione che il ministro degli esteri Shevardnadze non rappresentava gli interessi della Federazione, ma dell’Unione. Mosca ha invitato Washington a rinegoziare l’accordo, per una maggiore equità nella determinazione delle quote ittiche transfrontaliere. La giustificazione della richiesta è proprio che la dorsale Lomonosov sarebbe agganciata al continente eurasiatico e, quindi, alla Federazione Russa.

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Le industrie ittiche della Russia Orientale hanno chiesto 150 mila tonnellate di quote ittiche dalle acque americane come compensazione per l’area persa con l’accordo del 1990, in cambio del loro appoggio alla ratifica dell’accordo da parte del governo russo. Mosca vuole mettere le mani sulla “zona Pollack” in Alaska, garantendo al Paese un territorio ricchissimo di stock ittici e di giacimenti di materie prime e un passaggio marittimo strategico per i sottomarini russi. Sempre più spesso i pescherecci russi sconfinano in acque americane, con il rischio concreto di scontri con la Guardia costiera Usa.Wa-

shington ha recentemente rifiutato di riaprire una negoziazione, forte dei vincoli imposti dal diritto internazionale, che considera valido l’accordo Usa-Urss del 1990.

Per ostacolare la prevista richiesta dei russi, Washington dovrebbe prima ratificare la Convenzione di Montego Bay. L’amministrazione Reagan aveva negoziato la Convenzione, ma il Senato si ri-

Il nostro Paese è uscito, di fatto, dall’Artico. Proprio quando tutta la comunità internazionale si è resa conto della sua importanza fiutò di ratificarla per timore che limitasse eccessivamente la libertà d’azione degli Stati Uniti sui mari aperti. Ora il quadro internazionale è mutato e la posta in gioco è molto più alta. Mosca è già in grande vantaggio. La seconda disputa territoriale riguarda la sovranità sul Mare di Barents tra Russia e Norvegia. La map-

patura delle risorse ittiche del Mare di Barents è stata sviluppata in collaborazione tra gli scienziati norvegesi e quelli russi/sovietici, a partire dagli anni cinquanta. Essa è oggi istituzionalizzata nell’International Council for the Exploration of the Sea (Ices). La Joint Norwegian-Russian Fisheries Commission spartisce le quote per gli stock ittici tra i Paesi e definisce i regolamenti tecnici. Essa definisce anche le Tac, ovvero le quote di estrazione nei tre stock comuni per i due Paesi: cod, haddock e capelin.

I primi due sono spartiti al 50 per cento, mentre lo stock capelin è per il 60 per cento a vantaggio della Norvegia. Fintantoché le flotte ittiche del bacino settentrionale dell’Urss erano occupate in acque lontane (Africa Occidentale e Sud America) pertanto, l’Urss non era dipendente dagli stock di pesce del Mare di Barents - il governo sovietico era favorevole alle raccomandazioni dell’Ices su uno sfruttamento più limitato delle Tac. La discontinuità della politica russa con quella sovietica ha portato, tra le altre cose, a puntare sulle acque vicine, senza spingersi troppo lontano, risparmiando in termini di tempo e

Secondo l’Ices, il pescato russo non denunciato nel cod sarebbe di 90 mila tonnellate nel 2002, 115 mila nel 2003, 117 mila nel 2004 e 166 mila nel 2005; un incremento di overfishing annuale di circa il 25-40 percento. In altre parole, la Russia avrebbe superato le quote nazionali ittiche a disposizione (circa il 50% del Tac) tra il 50 e l’80 percento. Nel 2006, le autorità russe hanno stimato l’overfishing in 20-30 mila tonnellate l’anno. Dal 2006, la Norvegia ha assunto la presidenza di turno del Consiglio Artico fino alla fine del 2008. Inoltre, fa parte della Cooperazione nordica.Tali ruoli istituzionali consentono ad Oslo di avere un ruolo centrale nelle discussioni sulla gestione delle risorse artiche. La futura spartizione dell’Artico determinerà molti dei futuri assetti geopolitici mondiali e la sicurezza del XXI secolo. Essa sta sempre più diventando strumento di richiamo politico per i governi. L’Artico - e l’apertura del Passaggio a Nord-Ovest (via commerciale che consentirebbe di accorciare di circa 5.000 miglia le rotte dall’Artico al Pacifico) - rappresenta una sfida anche per gli equilibri geopolitici dell’Europa, in particolar modo per gli Stati portuali del Mediterraneo e, soprattutto, dell’Adriatico del Nord, che hanno una posizione privilegiata per gli scambi con l’Asia. Nel marzo 2007 è stato istituito l’Anno Polare Internazionale (Ipy). È un’iniziativa di ricerca scientifica internazionale per il periodo marzo 2009marzo 2009, che riguarda 200 progetti e coinvolge circa 50mila ricercatori di oltre 60 nazioni. L’obiettivo è comprendere le regioni polari nel loro complesso, attirando l’attenzione del mondo intero sulla loro importanza. Nonostante l’Italia abbia presentato 35 progetti riguardanti l’Artico, non è passata la legge che assegna il finanziamento da parte del Governo alla partecipazione italiana alle attività di ricerca dell’Ipy. Nel 2006, tutta la ricerca italiana nell’Artico ha risentito della fase di riforma profonda del Cnr, con conseguente perdita di finanziamenti. Il risultato è che l’Italia è uscita, di fatto, dall’Artico proprio quando tutta la Comunità internazionale sta facendo sistema con il linguaggio universale della scienza. La mancanza di fondi rischia di far evaporare per l’Italia anni di ricerche, esperienze e riconoscimenti da parte di tutto il mondo.


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Ue. Javier Solana traccia un bilancio dei suoi 10 anni da ministro degli Esteri opo oltre dieci anni alla guida della diplomazia europea, lo spagnolo Javier Solana lascia oggi l’incarico alla britannica Catherine Ashton. Solana cominciò all’indomani della fine dei bombardamenti sulla Serbia. Erano i tempi della guerra del Kosovo a cui il socialista iberico aveva partecipato come segretario generale della Nato. Niente male per uno che nei primi anni Ottanta aveva militato contro l’adesione della Spagna all’Alleanza atlantica. Ma la sua carriera è stata un crescendo: da ministro in vari governi guidati da Felipe Gonzalez fino ad oggi. Per lui il pallino resta il Medioriente, una costante della sua azione politica ventennale e un interesse primario per il suo paese di origine. Ecco perché in molti casi è stato considerato troppo amico dei palestinesi e poco vicino agli Israeliani. Ha inoltre avuto il compito delicato di guidare i negoziati cinque più uno per il nucleare iraniano. Javier Solana, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, lei oggi lascia il suo incarico di Alto rappresentante per la politica estera Ue. Cosa pensa delle nuove nomine nelle istituzioni europee, in particolare per quanto riguarda il ruolo da lei svolto finora? Aumenterà il peso della Ue nel sistema internazionale? Beh, per quanto riguarda Catherine Ashton posso dire di conoscerla piuttosto bene da anni e di averla seguita in quest’ultimo periodo a Bruxelles, dove ha un importante portafogli di commissaria, il commercio estero. E non c’è dubbio che ormai la componente economica della politica estera, come le questioni commerciali, sia estremamente importante. È vero che anche altre parti della politica estera comune, come la

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Da Arafat a Obama (ma poco è cambiato) Di Catherine Ashton (che da oggi lo sostituisce) dice: «È brava, ma senza esperienza» di Sergio Cantone

Pochi giorni fa leggevo l’estratto di un nastro sbobinato di recente sulle considerazioni dell’ex presidente Clinton che analizzava Camp David. Ne ho sottolineato una parte: «È il forte a dover compiere il

«Cosa penso di Israele? Che è il forte a dover fare il passo più difficile, soprattutto visto che ha un Paese. Non il più debole» gestione delle crisi, sono essenziali in questo lavoro, ma sono cose che si imparano come molte altre. Un’altra sfida rilevante per la Ue è la questione mediorientale, la sitazione è ancora estremamente difficile... Non abbiamo potuto fare nulla, anche in questo momento in cui le cose sembravano smuoversi, anche perché il governo israeliano non bloccava gli insediamenti… Ora potrebbero farlo. Ma tocca agli israeliani fare il primo passo?

passo più difficile, perché è il più forte e perché ha già un Paese». L’altro è debole e soprattutto non è un Paese. E quale passo dovrebbero compiere gli israeliani? Fermare la colonizzazione. Crede che il governo di Netanyahu sia in grado di farlo? Non ho perso le speranze che ciò sia ancora possibile, ma dobbiamo essere tenaci, determinati a allo stesso tempo fare in modo che i nostri amici palestinesi abbiano un governo legittimato e funzionante. È importante. E in que-

sto senso il primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese Fayad, sta facendo un gran buon lavoro. Lei ha svolto un ruolo fondamentale come mediatore e negoziatore sulla questione nucleare iraniana, cosa pensa che accadrà? È fondamentale insistere per ottenere garanzie oggettive affinché il programma nucleare iraniano sia pacifico. Dare la possibiltà di accrescere i rischi della regione con la proliferazione sarebbe drammatico. Ma pensa che gli iraniani vogliano veramente fermare la creazione di un arsenale nucleare, perché è un problema di volontà, e non sembra che lo vogliano. Inoltre i messaggi che mandano… Dobbiamo recuperare la fiducia. Ecco perchè la posizione del presidente Obama, quello che ha scritto in occasione del capodanno iraniano è importantissimo. Il fatto che gli Usa abbiamo pienamente parteci-

È entrato in vigore il Trattato di Lisbona Un presidente permanente e un “ministro degli Esteri” destinati a essere il volto dell’Europa, un’iniezione di democrazia che pone il Parlamento europeo al centro del processo decisionale, uno stop all’utilizzo del diritto di veto in Consiglio, la possibilità, per gruppi ristretti di Paesi, di formare avanguardie sulla strada dell’integrazione: queste alcune delle principali “rivoluzioni silenziose” previste dalTrattato di Lisbona. Che oggi entra in vigore dopo un’attesa durata esattamente otto anni - era il primo dicembre 2001 quando i leader Ue diedero il via alla Convenzione sul futuro dell’Europa guidata da Valery Giscard D’Estaing.Grazie al nuovoTrattato,da oggi il Parlamento Ue sarà chiamato a dare il suo assenso (a maggioranza qualificata) su circa il 90% delle norme Ue: un sistema che disinnesca la possibilità che un paese possa bloccare tutto quando è richiesta l’unanimità.

pato a questi negoziati accanto a me è importante. Ma la risposta iraniana a queste aperture ell’amministrazione Obama è stata un’ulteriore radicalizzazione delle loro posizioni… Il livello di sfiducia è ancora molto profondo e la politica estera si basa sulla fiducia, e la fiducia non si crea in qualche ora, diventa costruttiva solo dopo grandi sforzi e con tenacia. Potrebbe definire Yasser Arafat in poche parole? Ho avuto una relazione molto profonda con Yasser Arafat. Penso che si fidasse di me e penso di avere qualche merito per le cose buone che ha fatto. Ho parlato con lui regolarmente, gli ho reso visita molto spesso, anche quando era in stato di arresto alla Muqqata. E Ariel Sharon? Con lui ebbi una pessima relazione all’inizio. Non si fidava di me. Pensava che come europeo non potessi essere amico di Israele, ma cambiò idea. Ricordo che l’ultima volta che lo vidi, poco prima dell’ictus, conversammo a lungo. E in un certo qual modo, alla maniera di Sharon, si scusò, faccia a faccia, per l’errore che commise trattandomi con diffidenza all’inizio. Non crede che ci sia un’enorme differenza fra l’esperienza che lei già possedeva quando assunse questo incarico alla Ue, nel 1999, e quella di Catherine Ashton oggi? Beh, esperienze diverse forse, ma non significa che la capacità di fare un lavoro sia solo legata alle esperienze precedenti. Torniamo alla galleria di personaggi, l’ultimo: cosa pensa di Hamid Karzai e della situazione afgana? Lo seguo fin dall’inizio del suo primo mandato.Il fatto che non sia riuscito a dare un taglio alla corruzione che già esisteva nel governo e a rompere con certi signori della guerra della tragica storia afgana mi ha creato una certa tristezza. Crede che l’Afghanistan sia una guerra che valga la pena di essere combattuta dagli europei? In questo momento sí, penso che dobbiamo esserci, però dobbiamo anche capire quanto il governo e i locali ci vogliano lí. La prova del nove è semplice: se cooperano, ci vogliono. Viceversa no. È anche importante che capiscano che non vogliamo sottomettere il loro paese. Certo, se continuano ad andare in una direzione totalmente opposta a quella dei nostri aiuti, sarà estremamente difficile mantenere l’appoggio delle opinioni pubbliche nei nostri paesi, ivi compresi gli Usa.


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La doccia fredda è arrivata da Al Saleh, capo delle Finanze

Il sovrano è malato e sabato non pronucerà il suo discorso

Dubai World: il governo non coprirà il debito

Thailandia, il re è muto e il Paese spaccato in due

DUBAI. Il governo di Dubai

BANGKOK. Di solito rappresenta l’occasione per fastose e sentite celebrazioni.Tuttavia, per milioni di thailandesi, stavolta il compleanno di re Bhumibol Adulyadej, sul trono da 63 anni, sarà lo spunto per ulteriori preghiere per la salute dell’uomo che chiamano “padre”. L’anziano sovrano, in ospedale da oltre due mesi, sara’ impossibilitato a tenere il tradizionale discorso alla nazione. Un ulteriore fattore di incertezza per il paese, alle prese con divisioni politiche sempre più profonde. L’Ufficio della Casa reale ha comunicato ieri il rinvio a tempo indeterminato sia del discorso del 4 dicembre, vigilia dell’82esimo compleanno di Bhumibol, sia della parata d’onore prevista per dopodomani. Il re dovrebbe comun-

non garantirà i debiti di Dubai World. Lo ha annunciato il capo dipartimento delle Finanze di Dubai, Abdel Rahman al-Saleh. «È vero che il governo è proprietario di Dubai World ha detto al Saleh - ma dato che il gruppo ha diverse attività che sono esposte a ogni genere di rischi, fin dalla sua creazione era stato deciso che non sarebbe stato garantito dal governo». La doccia fredda alla fine è arrivata: come era nell’aria già da diversi giorni il governo del Dubai ha ufficializzato la sua posizione di non dover garantire automaticamente il debito delle società controllate. Mercoledi scorso la Dubai World aveva chiesto un congelamento del debito di 59 miliardi di dollari, ma in particolare nell’occhio del ciclone vi è la Nakheel, colosso delle costruzioni inciampata in investimenti troppo grandi per le proprie tasche, e ora oberata da debiti non precisamente quantificati e che difficilmente potrà ripagare.

La prima scadenza importante sarà proprio un bond della Nakheel che dovrebbe essere rimborsato il prossimo 14 dicembre. Per riscadenziare il debito e cambiare le condizioni del prestito occorre il 75% delle adesioni da parte dei bondholders (i detentori delle

L’Union Jack sventola a Kigali e sul Nilo Il Ruanda entra nel Commonwealth e adotta l’inglese di Antonio Picasso on il suo ingresso nel Commonwealth britannico e la normalizzazione dei rapporti diplomatici con la Francia, si può dire che il Ruanda abbia definitivamente concluso quel periodo di transizione successivo al genocidio del 1994. I due avvenimenti, che si sono succeduti a ruota fra domenica e ieri, ovviamente non cancellano il passato. Il Tribunale penale internazionale, insediato per il massacro di oltre 800mila Tutzi da parte degli Hutu, sta proseguendo l’inchiesta nei confronti di Paul Kagame, attuale presidente della Repubblica e ritenuto coinvolto nei tragici fatti. Tuttavia, la scelta del Commonwealth delle Nazioni - resa ufficiale nel corso del summit annuale a Trinidad e Tobago lascia intendere che il governo britannico abbia volutamente distolto l’attenzione da questi fascicoli giudiziari ancora aperti. E altrettanto pare abbia fatto riguardo al processo di democratizzazione del paese. A luglio infatti, in un rapporto della Commissione per i diritti umani interna all’organizzazione (la Commonwealth Human Rights Initiative, Chri), veniva sottolineato come il Ruanda «abbia ancora da compiere considerevoli passi avanti nell’ambito dei diritti civili, della libertà di stampa e della lotta alla corruzione». Peraltro vanno aggiunti i recenti scontri nel Kivu, al confine con la Repubblica Democratica del Congo, che coinvolgono il paese nell’instabilità regionale. Ma l’iniziativa del Commonwealth è tutt’altro che dettata da superficialità.

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renziale e a “doppio senso di marcia”nei rapporti con la sua controparte londinese. Le istituzioni ruandesi potranno trarre giovamento dalle facilitazioni economiche interne al Commonwealth stesso. I capitali della City, a loro volta, saranno esentati da eventuali barriere doganali in Ruanda. Va detto inoltre che il paese fa parte del bacino idrografico più ricco di tutta l’Africa. È attraversato dal fiume Kagera, lambito dal Ruzizi, che sfocia nel Lago Tanganica e dal Luguka, affluente del Congo. Infine è di sua giurisdizione la sponda est del Lago Kivu. Ma soprattutto è la sorgente effettiva del Nilo. Questo permette al paese di far parte del Nile Basin Committee (Nbc), l’organizzazione multi governativa che, sulla base di un trattato del 1953, dovrebbe amministrare in modo paritario le risorse che il più lungo fiume del mondo mette a disposizione. In realtà, il deus ex machina dell’Nbc risulta essere solo l’Egitto, per il fatto di controllare il solo tratto effettivamente navigabile del fiume e di essere il più vicino al suo immenso delta. Ciò non toglie che le risorse d’acqua per un’economia emergente come quella ruandese siano fondamentali. E il know how britannico potrebbe tornare utile a Kigali. Altrettanto risultano interessanti le ricchezze minerarie di tutta la regione, del Congo in primis, ma anche quelle del Ruanda. In particolare il metano nel Lago Kivu e l’oro, i cui giacimenti mancano totalmente di supporto tecnologico. Poco importa quindi se il paese non sia una completa democrazia. Londra vuole tornare in Africa e impiantare la Union Jack nelle aree lontane dagli interessi cinesi e Usa e dove la Francia sta perdendo influenza. Non è un caso che il Ruanda, pur non essendo una ex colonia britannica - bensì prima tedesca e poi belga - sia entrata nel Commonwealth. Come si era già fatta eccezione per il Mozambico, ex dominio portoghese, 14 anni fa. Appare tardiva quindi la mossa di Parigi di riaprire gli scambi diplomatici con Kigali. Un’ultima postilla: il Ruanda è sempre stato un Paese di lingua francofona. All’inizio di ottobre ha scelto l’inglese come idioma ufficiale. Anche questo vorrà dire qualcosa.

Il Regno Unito torna in Africa lontano dagli interessi cinesi e americani e “frega” Parigi. Che vuole dare battaglia

obbligazioni). E il governo del Dubai guidato dallo Sceicco Mohammed al-Maktoum è sufficientemente fiducioso di poter raggiungere questa percentuale in quanto una parte di questi bond sono posseduti dalle banche locali. La comunità finanziaria internazionale, invece, preferirebbe una dichiarazione di default del bond che spianerebbe la strada a un’azione legale che potrebbe andare ad aggredire anche le altre attività della holding Dubai World. l braccio di ferro dunque è cominciato e il pericolo riguarda l’effetto contagio a livello di borse internazionale di questa crisi finanziaria.

L’organizzazione, declassata impropriamente a formale vestigia dell’Impero britannico, è un valido paravento per un nuovo ingresso di Londra in Africa.Vale a dire in un continente dove il Regno Unito è pressoché assente dal periodo della decolonizzazione, e nel quale Francia, Stati Uniti, ma ora anche Cina e India hanno dato vita a una strategia di accaparramento delle risorse naturali. Da questa nuova “corsa all’oro”, Londra non può restarne fuori. Il Commonwealth quindi ha compiuto una mossa strategica sotto ogni punto di vista. Perché permette al governo di Kigali di aprire un canale prefe-

que presenziare a un ricevimento al Palazzo reale, davanti a un pubblico selezionato. Ma sarà il secondogenito Vajiralongkorn, primo in linea di successione, a prendere le sue veci in alcune cerimonie religiose e diplomatiche nei giorni successivi. Dopo aver sofferto un lieve ictus nel settembre 2007, il sovrano ha diradato le sue apparizioni in pubblico, evidenziando un progressivo indebolimento fisico.

Le preoccupazioni sono aumentate lo scorso 19 settembre, quando è stato ricoverato all’ospedale Siriraj di Bangkok, provocando il crollo della borsa thailandese. Secondo diversi osservatori, non è un caso che l’attuale incertezza istituzionale coincida con il ruolo sempre meno attivo del re. Il Paese resta infatti spaccato in due, tra “rossi”e “gialli”. I primi, che accusano l’attuale governo di Abhisit Vejjajiva di essere sostenuto da un’aristocrazia monarchico-militare, auspicano il ritorno in patria dell’ex premier in autoesilio Thaksin Shinawatra, deposto da un colpo di stato nel 2006 e condannato in contumacia per corruzione. Di contro, le “camicie gialle” - autrici del blocco degli aeroporti di Bangkok un anno fa - sono ancora attive nell’organizzare manifestazioni per ribadire la loro ostilitò a Thaksin.


cultura

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Riletture. Viaggio nei romanzi e nei racconti dello scrittore toscano, a cento anni dalla nascita e a venti dalla scomparsa

Il poeta della narrativa «La prosa come prodotto delle emozioni» Ritorno alla lezione di Romano Bilenchi di Leone Piccioni omano Bilenchi nasce il 9 dicembre nel 1909 a Colle Val d’Elsa in provincia di Siena. Sono dunque passati cento anni dalla sua nascita e ne sono passati venti dalla sua morte, avvenuta a Firenze il 18 novembre 1989. È stato uno dei pochi e dei maggiori narratori del secolo scorso. Richiesto di come si riconosca uno scrittore rispose: «Dalla poesia che riesce a raccogliere in quello che scrive e dalle emozioni che dà. Uno scrittore o è un poeta che scrive in prosa, o è meglio che smetta». E ancora: «Mi è sempre interessato vedere la vita nei punti più dolenti.Trovare quei rari momenti nei quali si può prenderla in mano, e sentire pulsare il polso della gente: non è vero che devono essere solo momenti storici, ma più spesso momenti strettamente privati anche minuti. Impressioni - seguita Bilenchi - incontri rapidi, storie d’amore, cose che sembrano attimi e non hanno fine mai. Sensazioni che per la strada crescono e s’infittiscono e rimandano a tante altre cose. Così, quando, appunto, scrivo pagine e parti ci credo… poi butterò forse via ogni cosa come ho fatto tante volte».

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no nasce soprattutto quella straordinaria felicità del narrare di Bilenchi, la luminosità delle sue pagine, dei suoi caratteri, dei suoi travolgenti paesaggi, pur nella tensione per lo più drammatica del suo modo di raccontare.

L ’analisi psic ol ogica che Bilenchi riesce a condurre, senza venir meno sul piano dell’impegno poetico e stilistico è cosa staordinaria specie quando si applica ai ragazzi, alle donne, ai vecchi (il rap-

miglia. In Anna e Bruno i passaggi di umore del bambino verso la mamma sono portati avanti con tale delicatezza e insieme con tale fermezza, che difficilmente si trovano pagine che possano stare vicino a queste. Ma Bruno ha inquietanti presentimenti: ci sarà la straziante morte del padre, la vedovanza di una donna giovane e bella come la madre, corteggiata e insidiata con proposte di matrimonio anche utili dal punto di vista economico, con tutte le gelosie e i terrori di Bruno, con una bellissima conclusione: quando Bruno sta per votarsi al sacrificio accettando che la madre si risposi, è lei, Anna, che rinuncia definitivamente a quell’idea: «Sta’ tranquillo - gli dice - non riprenderò marito».

Il suo primo grande estro si incarna in “Anna e Bruno”, dove l’autore ci conduce in una straordinaria luminosità di paesaggi e caratteri

Bilenchi ha scritto molti racconti e due romanzi: Il Conservatorio di Santa Teresa tra il ’36 e il ’38, uscito nel ’40, un capolavoro, e Il bottone di Stalingrado, una prova meno felice del ’72. Per il resto molti racconti, come ho detto, Anna e Bruno e altri racconti, del ’38 e Mio cugino Andrea del ‘43, nei quali si trovano opere compiute o altrimenti molti spunti che serviranno a riprodurre temi centrali della sua narrativa. Ma io qui voglio esaltare quello che considero il suo primo grande estro narrativo e cioè le trenta pagine del racconto Anna e Bruno, che andrebbe studiato anche in rapporto a quello che sarà subito dopo Il Conservatorio di Santa Teresa. In Anna e Bru-

porto nonno-nipote sarà fondamentale nella Siccità e altrove) che in definitiva sono i personaggi chiave di quella entità principale del suo modo di raccontare che resta sempre, pur nei contrasti, negli odi, nei risentimenti, la fa-

E da Bur arrivano le “Opere complete” Autore troppo a lungo dimenticato, Romano Bilenchi vede oggi finalmente riconosciuto dalla critica il ruolo di maestro della narrativa italiana. Alieno dalla facile letteratura che ha fatto dell’eccentricità la chiave del proprio successo, Bilenchi ha una scrittura asciutta e legata alle “cose”, che si sposa a trame dense di azione drammatica. La sua opera omnia viene oggi pubblicata dalla casa editrice Bur nel volume prezioso “Romano Bilenchi - Le opere complete”, che raccoglie “Vita di Pisto” (nella versione rivista dall’autore e mai ripubblicata dal 1931), “Il capofabbrica”, “Anna e Bruno e altri racconti”, “Conservatorio di Santa Teresa”, “II bottone di Stalingrado”, “Gli anni impossibili”,“Amici”.

Da questa che si può considerare la prima grande prova, forse non abbastanza valutata di Bilenchi, vorrei passare direttamente all’ultima prova, quella dell’82 intitolata Il gelo, anche questo un racconto lungo. Così facendo ci rendiamo conto di saltare forse arbitrariamente la parte centrale dell’opera bilenchiana e cioè il ro-

manzo Conservatorio, e quello che forse è il suo massimo punto di espressione che sta nel racconto La siccità (1941).

«Cosa fai?», gli chiedevo. «C’è che mi innamoro», fu la la risposta. Ma aggiunse: «Mi dicon tutti: “Non scrivi, non scrivi”; prima di tutto non è vero nulla che si debba scrivere sempre, si può campare se si è riusciti a scrivere due racconti buoni». «All’obbligo nella narrativa, - aggiungeva - al romanzo da scrivere ogni anno io non ci credo. Io sono un lirico, piuttosto che attaccare un romanzo scrivendo “Mario attraversò la via e suonò al n. 18…”mi faccio mozzare il capo».

*** Siamo nell’82, e c’è stata una lunga lontananza di Bilenchi dall’esercizio Impegnato letterario. politicamente, direttore del quotidiano comunista di Firenze Il Nuovo Corriere, uscito dal Partito dopo i fatti d’Ungheria e rientratovi con Berlinguer, gli chiedevamo in una lunga intervista pubblicata dal settimanale Il Tempo (1966) come attraversasse quel tempo della sua “siccità letteraria”, quando interruppe almeno apparentemente le attività politiche e si dimise anche dal Nuovo Corriere, rinunciando dunque alle sue attività principali insieme alla letteratura.

Nel “Gelo” il giovane protagonista al limite dei sedici anni ha il cuore aperto, volto alla ricerca del rapporto solidale con gli altri, amici ragazzi, famiglie così vicine da sembrar parenti, ma tutte le volte ne riceve offesa del tutto gratuita; è ferito in profondo per una disposizione generale della maggioranza della gente all’offesa, alla ferita, al male, tanto più quanto più fiducioso quel limpido e schietto animo s’avvicini. Si salvano solo il nonno (un paradigma bilenchiano) e una madre che ricomparirà solo nell’ultima pagina, severa ma come promessa di pacificazione e di conciliazione nel momento più aspro sperimentato dal ragazzo. Verrà, a questo punto, da chiederci in che rapporto si


cultura

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I poli d’attrazione dello scrittore, sospeso tra realismo e finzioni narrative

L’estetica della parola nella Firenze letteraria

È lì, a contatto con i grandi artisti e pittori dell’epoca, che Bilenchi mise a frutto il suo lavoro linguistico di Francesco Napoli omano Bilenchi muove i suoi primi passi nell’Italia letteraria Trenta-Quaranta attratto da due grandi poli. Il primo è quello della allora vigente sollecitazione realista in narrativa, un impulso ravvisabile un po’ in tutti gli scrittori che s’affacciano allo scenario in quegli anni. Segnatamente l’istanza più o meno esplicita si muove in direzione di un rapporto fra realtà e scrittura che attenui al massimo il diaframma interposto dalla finzione letteraria. Si tratta di un’esigenza dalle radici lontane e variegate, che possono essere tanto ideologiche quanto meramente letterarie o anche esistenziali, che spesso interagiscono fra loro e con situazioni peculiari per ciascuna delle penne in campo. Innegabile anche la presenza di certi recuperi del realismo ottocentesco, soprattutto sotto forma di un regionalismo che sfugge però bozzettismi e folclorismi per ancorarsi fortemente alla realtà sociale ed economica: ad esempio, alla Napoli paese d’‘o sole e al possibile falsificante colore locale, Carlo Bernari (1909-1992) sostituisce una città costantemente battuta dalla pioggia, fangosa e con una nitida visione di periferie industriali e operai taciturni e Ignazio Silone (1900-1978) con il suo falso toponimo Fontamara per la sua Pescina rende forse il manifesto di questo nuovo modo di leggere la realtà. E con essa credo che Bilenchi abbia medesimi approcci problematici e accidentati mentre predilige l’età dell’infanzia e dell’adolescenza per le quali «scrive il suo romanzo unico e continuo» dice Benedetta Centovalli nella sua partecipata Introduzione alle Opere complete (Bur Rizzoli, 1300 pp., 26,50 euro) appena riproposto nell’occasione del doppio anniversario. Ma per lo scrittore toscano infanzia e adolescenza rappresentano non tanto il modo di rifiutare la consapevolezza che s’accompagna all’età adulta quanto, piuttosto, quello di risalire all’insicurezza esistenziale, direi all’ansia esistenziale, di un’intera generazione, la sua, che soffre quel “male di vivere” di montaliana memoria.

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A sinistra e sotto, le copertine dei libri di Romano Bilenchi “Conservatorio di Santa Teresa”, “Il bottone di Stalingrado”, “Anna e Bruno”. In basso a sinistra, l’Opera completa dello scrittore pubblicata da Bur. A destra, Palazzo vecchio in Piazza della Signoria a Firenze. Sopra, Romano Bilenchi in un disegno di Michelangelo Pace pone Il gelo con le prove di tanti anni prima e in particolare con La siccità. Da una parte è mirabile che Bilenchi si riproponga ancora con tanta freschezza di colori e di profili, ma d’altra parte non c’è nessuna mimeticità, nessuna ripetitività, è tutto nuovo e rinnovato e, a mio parere, è forse andato anche oltre al capolavoro del ’41. Ci dà pagine e scene di vita ferma, bloccata, in una sequenza di immagine fissa, dense e come marmorizzate, sia pur con la levigatezza di una materia completamente finita. E a quella marmorizzazione, come per incanto, fa contrasto ma si armonizza un trasalire continuo, un’ansia, un’ariosità, una luce, una forza di lievitazione, un’emozione in lui trattenuta e che ti colpisce in profondo dandoti

un senso di esaltazione alla lettura.

La luce, la luce di Bilenchi, la luce che esce dal ritmo di quella sua prosa che si offre in poesia del passaggio e della presenza sentimentale: passaggi di vicende che profondamente si uniscono e si intridono. Come può Bilenchi da una pagina far uscire tanta luce che in certi momenti t’abbaglia, ti abbuia lo sguardo? Penso alle pagine centrali del racconto sulla vacanza in una località di campagna, all’amicizia nata con Gino, al campo di girasoli luogo di ritrovo nell’afa estiva. A entrare, insieme ai ragazzi tra quei girasoli qualcosa t’abbaglia, hai il senso tattile di esserne circondato, l’occhio è stupito e dilatato, una gran luce - dalla pagina - ti investe e ti abbaglia, per forza di poesia, per magia di ritmo narrativo.

dava Bilenchi stesso a proposito del suo racconto Il gelo: «Lavoro sulle parole, scegliendo quelle che per me, in quel momento, hanno il massimo di risonanza poetica». Si considerava evidentemente un poeta della narrativa e qui lo ricorda con giustezza anche Leone Piccioni. Bisogna poi considerare come non esiste forse una generazione più impegnata nell’accurata adozione della parola come quella ermetica così prossima a Bilenchi e che aveva in Ungaretti il gran maestro, proprio per questa ossessione. Complesso dunque il lavoro dei filologi per una eventuale edizione critica del suo lavoro, ma le Opere complete curate da Benedetta Centovalli e ricordate poc’anzi mi paiono un buon punto di partenza, così come i diversi titoli singolarmente riproposti con ricchezza d’apparati nella medesima collezione tascabile della Rizzoli.

Nella mania del rifare Romano Bilenchi decise a un certo punto di riprendere perfino il suo primo, e ce ne sarà solo un secondo, romanzo, Il Conservatorio di Santa Teresa, strettamente correlato al precedente racconto Anna e Bruno. Cominciò a riscriverlo verso la fine degli anni Cinquanta, senza però giungere a termine, interrompendosi al sesto capitolo quando si rese conto che le nuove pagine stavano dando vita a un “altro”romanzo, sempre più lontano dall’iniziale stesura. Nella sua prima versione, forse unitamente a Gli anni impossibili, questo romanzo rappresenta senza dubbio uno degli esiti più alti e convincenti della scrittura bilenchiana. Sobrio ma incisivo, il denso racconto del percorso per diventare uomo dell’infante protagonista Sergio si impernia sulla sofferenza e il travaglio dell’iniziazione alla vita che cammina di pari passo allo sfaldarsi di tutte le ingenuità infantili. Di rilievo in queste pagine, e in antitesi con gran parte del suo lavoro, il tentativo di Bilenchi di delineare quella figura paterna peraltro quasi del tutto assente nella sua opera, cercando di scartare dall’asse madre-figlio che informa per intero la sua produzione. Tutto il tempo del romanzo sembra scandirsi sui giorni e le stagioni nel paesaggio tra città e campagna toscana tanto che la natura stessa sembra assurgere a protagonista del romanzo. Il linguaggio, poi, è almeno un tono sotto, comunque e sempre da solfeggio esatto, come ha osservato Enzo Siciliano, però proprio grazie a quella intensità minima Bilenchi riesce a ottenere sul piano espressivo la massima potenza per uno straordinario bildungsroman da mandare a memoria per chiunque volesse cimentarsi nel genere.

Per lui, infanzia e adolescenza erano lo strumento per risalire all’insicurezza esistenziale della sua generazione

Il secondo polo che attira Bilenchi in formazione è quello della Firenze delle riviste letterarie e delle Giubbe Rosse, dei grandi poeti e pittori, dallo stesso Montale a Luzi, da Bigongiari a Gatto a Parronchi e ai maestri dell’Ermetismo. Da questi amici e sodali compagni apprende e mette magnificamente a frutto quel lavoro sulla parola per lui indispensabile e che lo condurrà a una produzione di racconti, e due romanzi, sempre soggetti a ripensamenti e riscritture. Ricor-


cultura

pagina 20 • 1 dicembre 2009

a Roma, ho amato fin da giovane la sua tensione verso l’infinito che è ricerca spirituale», spiega Philippe Casanova, «quando ero all’Accademia a Parigi trascorrevo ore al Louvre a copiare le opere del barocco romano. La spiritualità del barocco è per me una magnificenza che appaga i sensi e lo spirito; a differenza del mondo chiuso, a sé stante, nella ricerca della perfezione del neoclassicismo, il barocco contiene l’aspirazione all’infinito». I suoi dipinti romani sono realizzati a tempera su carta intelata, un tipo di pittura che, volutamente, allude all’affresco, la tecnica italiana per eccellenza. Dietro a quegli squarci di soffitti di chiese barocche, in quei frammenti di vedute delle pareti affrescate di nobili palazzi romani o nelle gigantesche statue di santi colte come in un fotogramma, c’è lo studio accurato della luce, e per arrivare in modo più immediato agli effetti di luce Casanova inizia dipingendo sulla carta bianca, come si fa con gli acquerelli.

ell’era tecnologica del postmoderno succede di incontrare a volte persone che sembrano appartenere ad altre epoche, estranei al mondo che li circonda ed immersi piuttosto in atmosfere che noi non vediamo, legati, anima e corpo, a valori ora dimenticati. Li caratterizza una gentilezza desueta, e in loro si percepisce di fondo quasi un disagio a muoversi tra volgarità e materialismo. Quando si incontrano persone di questo genere bisogna ascoltarle perché recano messaggi che non ci sarebbe altrimenti possibile comprendere, ci aiutano in un certo senso, a percepire e ad afferrare realtà per noi invisibili.

N

È questa la sensazione che si prova conoscendo il pittore francese Philippe Casanova, classe 1965. Lo incontriamo dall’antiquario Megna a via del Babuino a Roma, dove sono esposti, fino all’8 dicembre, alcuni tra i suoi più recenti lavori che ruotano, come ormai da diverso tempo, intorno allo studio del Barocco romano, o meglio, ne celebrano il trionfo. “Lampi voci tuoni. Frammenti barocchi”, questa piccola, ma intensa mostra, raccoglie i dipinti di un neofita «folgorato lungo la via di Roma». Così infatti giustifica il titolo lo stesso Casanova in catalogo: «Un giorno, visitando la mostra “Roma barocca” a Castel Sant’Angelo, fui colpito da una formula letta su una didascalia,“Lampi, Voci, Tuoni”. Potrebbe essere il titolo di un trattato di etruscologia, oppure un proclama futurista (...) ma io vi trovai una folgorante sintesi della pirotecnica barocca in quanto successione di ritmi lanciati nello spazio. Mi immedesimai facendo di queste tre parole un motto, una bandiera e, man mano che sentivo aumentare in me l’entusiasmo, il prurito di inseguire Bernini, Juvarra e molti altri, mettendo i miei passi nei loro, presi il mio slancio prima di entrare in quella che Bert Treffers ama chiamare “il Ballo Santo dell’Arte Barocca”». Casanova si riferisce alle parole con cui Marcello Fagiolo, curatore della mostra romana del 2006, descriveva, usando una metafora di forte potenza evocativa, la Cattedra di S. Pietro del Bernini: «Nella girandola di luce la Cattedra sembra emettere “lampi e voci e tuoni”come il trono dell’Apocalisse. La luce, protagonista assoluta della recita divina, si manifesta in tutte le forme possibili. Nasce reale dalla finestra, diventa calda e afosa al contatto con la vetrata, e poi si materializza nel bronzo dei raggi» È questa concezione della natura in divenire e delle sue continue metamorfosi, in cui lo spirito del barocco riconosceva la

Pittura. A tu per tu con l’artista parigino «folgorato sulla via della Città eterna»

Il Casanova francese della Roma barocca di Olga Melasecchi manifestazione di Dio in terra, che ha stupefatto e meravigliato il giovane artista francese. «È del poeta il fin la maraviglia», scriveva il poeta secente-

sco Giovan Battista Marino, e meravigliare vuol dire coinvolgere i sensi del riguardante, creare un moto continuo tra lui e l’opera, lo spettatore diventa

A via del Babuino a Roma, dall’antiquario Megna fino al prossimo 8 dicembre, sono esposti alcuni tra i più recenti e significativi lavori con le sue emozioni elemento attivo della stessa creazione.

«Dello stile barocco, dapprima in Austria e poi soprattutto

In questa pagina, alcuni dei più recenti e significativi lavori del pittore parigino Philippe Casanova, in mostra a Roma, fino all’8 dicembre prossimo, presso l’antiquario Megna a via del Babuino

A differenza tuttavia della tecnica immediata dell’acquerello, dietro la sua pittura data a colpi di pennello, sulla scia di grandi pittori come Velazquez o Renoir, c’è un accurato lavoro di studio delle proporzioni, per poter essere libero di esprimersi con il colore senza paura di sbagliare. Le sue vedute di sghembo, alla Degas, sarebbero piaciute a Bernini, perché immediate, vive nel loro suggerire l’idea di movimento. «I miei quadri», spiega infatti l’artista, «sono visioni di una persona in cammino, in pellegrinaggio, che all’improvviso, dietro una colonna, scopre una statua che medita nella penombra o aspetta noi inondata dalla luce». Il suo interesse per il barocco lo ha portato a vivere esperienze fuori del comune: ha vissuto tre anni tra le stanze borrominiane della Chiesa Nuova, respirando ogni giorno l’atmosfera mistica e rarefatta che ancora si percepisce in quegli ambienti, dipingendo per i padri dell’Oratorio sedici vedute legate a S. Filippo Neri, tra le quali sono qui in mostra due ardite visioni della navata principale della chiesa inondata da filamenti di luce; a lui è stato eccezionalmente concesso di rimanere ore dentro la Basilica di S. Pietro con le sue tele per diventare interprete moderno dei capolavori del Bernini, dal ciborio dell’altar maggiore al tabernacolo della cappella del Sacramento, astrazioni liriche dei capisaldi del barocco trionfante.


spettacoli

1 dicembre 2009 • pagina 21

Musica. Il grande successo del disco inedito “Heart”, registrato per intero durante la gravidanza dell’artista italiana

Nuova nascita «per Elisa» di Matteo Poddi

A sinistra e in basso, due immagini della cantautrice italiana Elisa, che il 22 ottobre è diventata mamma dando alla luce la piccola Emma Cecile. Qui sotto, la copertina del suo nuovo album “Heart”, uscito in Italia il 13 novembre e per intero registrato durante la sua gravidanza

a maternità rappresenta per una donna una vera a propria rigenerazione tanto fisica quanto mentale. Se la donna in questione è un’artista tutto questo non può che riflettersi anche sulla sua arte. Se poi il suo mezzo di espressione è la voce l’effetto è ancora più evidente. C’è, infatti, una nota di dolcezza in più nella voce di una donna incinta in grado di regalare un brivido a chi la ascolta. A maggior ragione se si tratta di una voce già particolarmente adatta a trasmettere emozioni come quella di Elisa. Il 22 ottobre, infatti, Elisa è diventata mamma dando alla luce Emma Cecile, figlia sua e del compagno Andrea Rigonat che è anche il chitarrista della sua band nonché il coproduttore del suo nuovo album Heart. Qui davvero arte e vita sembrano fondersi tanto che la gravidanza è andata di pari passo con la registrazione di questo sesto album di inediti, che si è protratta proprio da gennaio a settembre di quest’anno.

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Così il 13 novembre ha visto la luce, poco dopo Emma Cecile, Heart, un album che, proprio come suggerisce il titolo, punta dritto al cuore di chi l’ascolta senza inutili giri di parole. E anche questa volta Elisa sembra aver fatto centro. Heart, infatti, è entrato direttamente al primo posto nella classifica Fimi-Nielsen degli album più scalzando venduti dalla vetta addirittura il re del pop Michael Jackson con il postumo This is it. A distanza di cinque anni dal suo ultimo album in studio Pearl Days, Elisa si ripresenta al pubblico più matura, più donna e più bel-

la come dimostra il video del primo singolo estratto dall’album Ti vorrei sollevare, cantato in duetto con il frontman dei Negramaro Giuliano Sangiorgi e già al primo posto nella classifica dei brani più trasmessi dalle radio.

Nel videoclip diretto dal regista di Santa Maradona Marco Ponti, Elisa veste i panni coloratissimi di una squaw del terzo millennio capace di rendere accogliente attraverso il calore trasmesso dalla sua voce persino l’interno di un igloo. La canzone è una ballata dolcissima che parla dell’eterna battaglia che vede contrapposti istinto e ra-

genuinamente rock come dimostrano brani quali Your Manifesto, caratterizzato da un riff trascinante di chitarra elletrica e da percussioni martellanti. Un fulmine a ciel sereno, una scarica di adrenalina. E l’attitudine rock della cantante torna a farsi sentire, nella sua versione più melodica, in Lisert, la dodicesima traccia dell’album, dedicata appunto alle “radici” della cantante, quelle che la le-

Il 22 ottobre la cantautrice ha dato alla luce la piccola Emma Cecile. Neanche un mese dopo ha pubblicato l’album, annunciato in radio dal gettonatissimo singolo “Ti vorrei sollevare” gione e della necessità di lasciarsi andare alle proprie emozioni nonostante questo significhi, spesso, soffrire. Le parole, a volte, possono essere pesanti come macigni e ferire nel profondo dell’anima. «Ti ho visto sparare a quell’anima che hai detto che io non ho» canta Elisa ed il suo sembra davvero un invito a comunicare più che con le parole con le emozioni che non si prestano così facilmente a fraintendimenti e incomprensioni. Ti vorrei sollevare però rappresenta solo una delle due anime di questo disco, quella più romantica e sentimentale. In realtà Heart è anche un album istintivo e

gano alla sua terra natale, il Friuli, dove Elisa ha scelto di continuare a vivere e a lavorare. Ma nei quattordici brani che compongono Heart c’è spazio anche per una cover, Mad world dei Tears For Fears, ispirata dalla versione acustica della canzone presente nella soundtrack del film Donnie Darko, e per un secondo duetto, Forgiveness, che vede Elisa al fianco del carismatico Antony Hegarty di Antony and the Johnsons. Forgiveness è la vera chicca dell’album, una canzone elegante e toccante.

L’esaltazione del perdono visto come «la sola nostra chiave di accesso al mondo», l’unico modo per entrare in relazione con gli altri e lasciarsi il passato alle spalle. Archi e cori accompagnano le voci di Elisa e di Antony che si divertono a rincorrersi per tutto il brano senza mai raggiungersi. Altra perla del disco è indubbiamente Anche se non trovi le parole, il primo degli unici due brani in italiano che si incontrano scorrendo la tracklist. Il testo recita: «È pur sempre bellissima un’emozione… Con

le cadute e tutto il male, come una musica come un dolore lascia il suo segno e non si fa scordare». E allora non ci resta che farci emozionare da Elisa e lasciarci trascinare nei vortici emotivi descritti in Vortexes, il brano che dà il via al disco nel quale Elisa esprime tutta la sua gioia per la nuova vita di madre che la aspetta: «Sono felice e mi sento in paradiso. Non saprei dire il perché. Non so darmi ragioni. Un’onda mi avvolge, ma riesco persino a giocarci dentro. Come farebbe un pesce. Stupita. Mi risveglio davanti a una nuova vita».

Queste parole spiegano davvero il senso della definizione «disco di ripartenza» che la stessa cantante ha dato all’album. Heart rappresenta per la Elisa una rinascita, una rigenerazione, un ripartire da zero senza però dimenticarsi di nulla. Tanto da recuperare un brano come Coincidences che doveva essere inserito nel suo primo disco Pipes and flowers del 1997. E così il passato, il presente e il futuro sembrano fondersi in un unico punto. Proprio quello contenuto nel titolo, indicativo dell’umiltà della cantante, dell’ultimo brano dell’album: Dot in the universe nel quale Elisa canta: «Sono un punto nell’universo. Sono viva. Sono una macchina veloce che vuole solo correre». Sarà proprio l’umiltà la carta vincente dell’artista italiana? Quello che è certo è che l’ascolto di questi quattordici nuovi brani conferma tutte le potenzialità di una cantante che non si è mai seduta sugli allori e che non è prevedibile. Heart, infatti, spiazza l’ascoltatore con continui cambi di ritmo e di intensità. Elisa dimostra ancora una volta di avere tutte le carte in regola per continuare a stupirci e ad emozionarci.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal ”Wall Street Journal” del 30/11/09

Dammi retta Pechino! di James T. Areddy rove tecniche di trasmissione economica tra Pechino e Bruxelles. Il summit bilaterale, tenuto a Nachino e terminato lunedì. Sì è parlato del renmimbi e di un suo auspicato riallineamento con l’euro, di clima e di accesso al mercato. Sono stati due giorni di vertice Cina-Ue nella città della Cina orientale che potrebbero condurre ad un allentamento del cambio rigido yuan-dollaro, per dare una mano ad allentare la tensione del settore finanziario mondiale ancora sotto stress a causa di un anno di recessione globale. Si è trattato anche del piano di riduzione dei gas nocivi da portare al prossimo vertice sul clima di Copenhagen. Su entrambi i fronti non sembra ci siano stati passi avanti, anzi non è mancato il confronto senza esclusione di colpi soprattutto sui temi dei diritti umani e dello sviluppo sostenibile. I rappresentanti Ue hanno premuto affinché Pechino si decida finalmente ad allentare il tasso di cambio così rigido nei confronti del dollaro che aiuterebbe ad un riequilibrio del sistema finanziario globale. Rivolgendosi ai giornalisti dopo le riunioni formali di lunedi, il premier cinese Wen Jiabao, affiancato dai suoi colleghi europei, ha risposto a questa sollecitazione con una affermazione, sottolineando che i 27 Paesi del blocco Ue sostengono delle politiche commerciali, con limiti alle esportazioni di alta tecnologia ha obiettato la Cina. «Questo non è giusto», ha affermato Wen. «Sono misure che limitano lo sviluppo della Cina». Nei suoi commenti, il primo ministro svedese Fredrik Reinfeldt, che è l’attuale presidente del Consiglio europeo, la scorsa settimana, aveva riconosciuto l’impegno di Pechino a ridurre la crescita delle proprie emissioni di anidride carbonica entro il 2020. Ma aveva anche sottolineato che Pechino non fecsse abbastanza per una soluzione globale nel

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mantenere il pianeta al riparo dal riscaldamento climatico. «Non possiamo risolvere i problemi del clima per tutto il mondo, senza che la Cina sia parte della soluzione», ha affermato. In un discorso a seguito di una conferenza sugli affari sinoeuropee, collegata al vertice, il premier Wen ha evidenziato quello che lui chiama il «grande costo per le risorse di tutto il mondo», dopo 200 anni di sviluppo dei Paesi più industrializzati.

Ha elencato le maniere in cui la Cina non è stata solo un sostegno della crescita economica mondiale durante un «periodo difficile», ma sta anche monitorando e stringendo i controlli sulle emissioni nocive. I suoi investimenti nei settori dell’energia idroelettrica e nucleare, così come la chiusura delle miniere di carbone sporco, ha dichiarato, sottolineano «il senso di responsabilità di Pechino verso la nazione cinese e l’intero genere umano». L’Ue e la Cina sono tra l’altro dei grandi partner commerciali. Entrambi condividono una visione «multipolare» del mondo, preferendo affrontare le sfide nei contesti multilaterali più importanti come il G 20, pittosto che bilateralmente. Con gli Stati Uniti che inevitabilmente inseriscono anchge le questioni militari nel quadro del dialogoa due tra Pechino e Washington. Il raggiungimento di risultati concreti a Nanchino è stato limitato agli accordi tecnici relativi ad argomenti come i codici di costruzione e la ricerca di energia pulita. Un comunicato congiunto filtrato dal vertice a porte chiuse è stato un piccolo segno

di un nuovo slancio nel rapporto. La moneta cinese de facto agganciata al dollaro significa che si è notevolmente deprezzato nei confronti dell’euro negli ultimi mesi, anche se molti economisti affermano che sarebbe utile una pressione al rialzo sullo yuan. La forza dell’euro nei confronti dello yuan è un punto dolente per i politici europei, che temono il tasso di cambio limiti il potere d’acquisto (e faciliti le importazioni di merce cinese, ndr) e freni la rapida crescita dell’economia cinese e faccia crescere la disoccupazione in Europa. Lo yuan ha guadagnato più del 20 per cento nei confronti del dollaro nei tre anni successivi allal decisione della Cina di sganciare le due valute a metà del 2005. Ma Pechino ha fatto poco per affrontare le questioni sul tasso di cambio quando poi l’aggancio al dollaro è stato effettivamente ripristinato a metà del 2008.

L’IMMAGINE

Mercato del falso e illegalità diffusa, tutti si chiedono: «Dov’è lo Stato?» La Confesercenti stima in 18 miliardi di euro il mercato del falso con 130mila addetti. Metà, o più dell’Italia, è in mano a camorra, n’drangheta, sacra corona unita e mafia, l’altra metà è appannaggio dei furbetti del quartierino. L’evasione fiscale ammonta a 250 miliardi di euro (imponibile), per dire che le tasse le pagano i cosiddetti ventisettisti che si accollano le tasse tra le più alte della Ue. Il sistema burocratico gode nel vessare i cittadini di incombenze e di intralci. La maggiori città sono nel perenne caos del traffico, i mezzi pubblici assomigliano sempre più a carri bestiame. Ogni volta che si verifica un evento particolare, dal terremoto ai mondiali di qualcosa, ci si ritrova con incriminati e opere, pubbliche o private, sequestrate dalla competente autorità. Insomma, sembra che l’illegalità sia l’elemento distintivo di questa Italia. Dov’è lo Stato? Ce ne sarebbe da lavorare per riportare questa Italia a un civico consesso regolato da civiche leggi.

Primo Mastrantoni

CERTEZZA PER SCUOLE PARITARIE E CINQUE PER MILLE Reintegro totale del fondo per le scuole non statali e certezze per il 5 per mille. Sono due priorità che nella finanziaria 2010 potranno trovare risposte attraverso gli emendamenti presentati dai componenti Pdl della commissione Bilancio. Comprendo la difficile situazione dei conti e l’enorme debito pubblico italiano, che ci costringe a scelte dolorose, ma in un’ottica sussidiaria e in piena attuazione del programma di governo, valorizzare queste realtà educative e associative, produce solo benefici alla comunità e quindi anche allo Stato, e benefici anche economici. Più si tagliano questi settori più deve spendere lo Stato per garantire con mezzi propri assistenza ai cittadini.

Con la presentazione degli emendamenti la maggioranza dimostra ancora una volta che è priorità del gruppo del Pdl ottenere le certezze anche economiche che queste realtà si meritano.

Gabriele

LAVORO GARANTITO Tra Termini Imerese e altre località si lancia il grido del lavoro garantito, che oggi dovrebbe essere più di ieri una certezza. I sindacati sono impantanati in un processo di riunificazione che stenta a decollare per tutte le disparità e contrasti interni, che sono la risultante di tanti errori del passato. Il nostro governo è dalla parte dei lavoratori, ma ora tocca ai politici dimostrare di essere più compatti di quanto lo siano le forze del lavoro.

Bruno Russo

Cornice naturale Niente di meglio di una bella cornice, per esaltare un’opera d’arte. Lo sa bene madre natura che per valorizzare al massimo la già spettacolare Sierra Nevada ha realizzato un “contorno” d’eccezione: il Mobius Arch. L’arcata rocciosa, modellata da secoli di erosione, si trova ai piedi della catena montuosa, nell’area protetta delle Alabama Hills

LA MAGGIORANZA CONVERGA SU DANIELA CHIAPPETTI Stiamo addivenendo ad una soluzione finale alla problematica del nuovo presidente del consiglio municipale, la questione è assai delicata e stiamo cercando di incastrare nel miglior modo possibile tutto il nuovo scacchiere che

si è delineato, ma resta il fatto che in giunta e nelle commissioni si sta continuando a lavorare alacremente, come tutti i cittadini possono ben riscontrare nel territorio. Speriamo che anche gli ultimi elementi della maggioranza si decidano a convergere sulla figura di Daniela Chiappetti, per-

sonaggio indubbiamente di grande carisma e presenza istituzionale, che darebbe ancor più lustro e magnificienza al nostro amato II Municipio, sempre più presente ai vertici con valide figure al femminile per amministrare al meglio il territorio.

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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Amore e pazzia mi seguitarono Mia cara amica. Usciamo alfine di tutela: non c’è altro compenso per liberarti dal tuo custode fuorché quello di parlargli chiaramente. Il bell’amore che ti vuol egli ispirare, così brontolone e noioso com’è! Mi sono ritrovato in pari caso. Sai tu il rimedio? Ho rappacificati i due amanti disgustati per causa mia; e poi ho fatto sferzare i cavalli del mio calesse, e dritto sempre sino a Siena. Amore e pazzia mi seguitarono, è vero, da Milano, e mi furono ospiti per alcuni mesi su e giù per la Toscana: scrissi, piansi, mi afflissi... fu tutt’uno. Duecentoquaranta miglia di distanza, un po’ di ragione, un po’ d’amor proprio, un cavallo e due libri mi hanno finalmente ridotto a darmene pace. Che vuol dire romanzetto ambulante? O Antonietta: vuol dire ch’io non era immensamente innamorato e che il tempo vinse la passione perché, a dirtela, la passione non era più forte del tempo. Confesso che in altri casi non avrei avuto tanta costanza. Ma il conte di Albania, è egli innamorato? O Contino! L’amore per vanità è vuoto, vuoto, sto per dire come la testa di madama Fermiggini. Un’altra donnetta sul candeliere, circondata da quattro giovanetti di moda, provveduta di una bella carrozza, poca testa e niente cuore. Ugo Foscolo a Antonietta Fagnani Arese

ACCADDE OGGI

MOLTE SEGNALAZIONI SULLA COMPLESSITÀ DELLE BOLLETTE L’ufficio del difensore del cittadino riceve ogni giorno numerose segnalazioni inerenti a disfunzioni, lacune, ritardi, errori da parte di enti pubblici e privati, che il cittadino si trova a dover affrontare perdendo ore e ore di tempo per arrivare ad avere, se ci riesce, una chiara spiegazione della questione che lo riguarda. Tra le centinaia di segnalazioni pervenute all’ufficio nazionale del difensore del cittadino abbiamo elaborato una classifica delle doglianze più frequenti dei cittadini: ai primi posti la complessità delle bollette dell’energia elettrica, del gas e telefoniche, anche se,per quanto concerne le bollette dell’energia elettrica e del gas, è la situazione e la “forma” stessa delle bollette stanno lievemente migliorando, soprattutto grazie all’impegno dell’autorità competente. Tra tutte le società erogatrici di servizi quella maggiormente segnalata è l’Enel, non solo per quanto riguarda la sua storica funzione nell’ambito dell’energia elettrica ma anche per il relativamente nuovo servizio di distribuzione del gas: alcuni cittadini hanno lamentato la poca chiarezza sulle modalità di \u0824addebito sullo stesso conto corrente (tramite Rid) sia della bolletta della luce sia di quella del gas. Altre segnalazioni, sempre relative ai servizi erogati dall’Enel, riguardano la difficoltà di lettura dei nuovi contatori, la segnalazione di errori negli indirizzi e in al-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

1 dicembre 1971 Guerra civile cambogiana: i Khmer rossi intensificano gli assalti alle posizioni del governo cambogiano, costringendoli a ritirarsi 1973 La Papua Nuova Guinea ottiene l’auto-governo dall’Australia 1986 Inaugurazione del Musée d’Orsay di Parigi 1987 La Nasa annuncia il nome delle quattro compagnie che ottengono i contratti per la costruzione della stazione spaziale internazionale: Boeing Aerospace, la divisione aerospazio della General Electric, McDonnell Douglas, e la divisione Rocketdyne della Rockwell 1990 Operai francesi e britannici addetti allo scavo del Canale della Manica, si incontrano a 40 metri di profondità sotto il fondale della Manica, stabilendo il primo collegamento terrestre tra Gran Bretagna ed Europa continentale dall’ultima glaciazione 1991 Gli elettori ucraini approvano a larga maggioranza il referendum per l’indipendenza dall’Urss

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

tri dati del cliente che la società, dopo mesi dalla segnalazione, non ha ancora corretto, il fatto che risulti dalla bolletta in corso che la precedente non è stata pagata mentre è stato fatto (con il conseguente spreco di tempo e spese di fax e telefonate da parte del cliente che deve comunicare all’Enel il suo avvenuto pagamento), l’arrivo di bollette dall’importo spropositato per le quali, prima di avere delucidazioni o correzioni, si attendono mesi e mesi. Perdite di energia, perdita di rete che vengono addebitate al cliente senza che questi possa avere spiegazioni esaustive su cosa sono queste perdite e chi ne è responsabile. Non voglio dare un giudizio su queste segnalazioni, ma ritengo doveroso che vengano date, in tempi ragionevoli, le dovute spiegazioni, chiare e semplici ai clienti.

Raffaele Costa

ABOLIRE LA PAUSA PRANZO Il ministro Gianfranco Rotondi ha sostenuto la necessità di abolire la pausa pranzo, perché fa male al lavoro. Per il ministro le necessità dei lavoratori sono, evidentemente, secondarie e, quindi, non tutelabili. Ha detto pure che lui la sua pausa pranzo l’ha abolita da tempo. Non ha detto però quando comnincia la sua attività lavorativa né che tipo di colazione fa al mattino. Anche l’uso dei bagni nuoce al ritmo del lavoro? Perché non ha proposto di chiuderli come hanno fatto le ferrovie in molte stazioni?

Luigi Celebre

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

IL DIALETTO È UNA RISORSA O UN ELEMENTO DISCRIMINANTE? Durante l’ultima stagione estiva, la nostra lingua dialettale è stata al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica a causa della idea-provocazione proposta dalla Lega Nord di considerare come elemento di valutazione della preparazione del corpo docente nella scuola pubblica la conoscenza del dialetto scritto e parlato nel territorio di appartenenza dell’istituto. È come dire che un insegnante originario di Trento, per poter prestare servizio a Cagliari, deve dimostrare di conoscere la lingua sarda. È noto che l’Italia è un Paese “diviso” da un numero elevato di lingue dialettali che non rispettano i confini regionali. La Puglia, per esempio, registra differenze e contrasti notevoli in tema di lingua; la provincia di Foggia, per esempio, risente della influenza partenopea, poi esiste la lingua dialettale barese con le sue peculiarità, e le province salentine che accolgono nel loro dialetto la cultura greco bizantina. Esistono, poi, nel territorio pugliese delle vere e proprie “isole linguistiche”, cioè piccole porzioni di territorio dove si parlano lingue dialettali “diverse”; accade a Faeto nel sub Appennino dauno dove si parla il franco provenzale e accade a Calimera, comune leccese, nel quale è presente il dialetto “griko”. Infine in alcuni paesi pugliesi (ma il fenomeno si registra anche in Basilicata e in Calabria) il dialetto parlato è quello albanese. L’esempio pugliese non è un fenomeno isolato, si potrebbe ipotizzare che la stessa situazione è presente in tutte le regioni italiane. Il fenomeno si spiega nella maggiore parte dei casi studiando la storia dei popoli che hanno invaso la nostra penisola, hanno fondato città, hanno imposto i loro culti, tradizioni, leggi e, pertanto, hanno lasciato le loro tracce anche attraverso la propria lingua. Le lingue dialettali hanno vissuto fino ai giorni nostri grazie anche alle università che sin da tempi remoti si sono occupate di mantenere in vita le tradizioni locali e, di conseguenza, i dialetti. Poi, lo sviluppo industriale ha permesso l’abbandono delle tradizioni dialettali; con lo sviluppo industriale, infatti, si sono registrati in tutto il Paese due fenomeni: l’emigrazione e l’innalzamento del livello culturale medio. Oggi la provocazione della Lega Nord fa sorridere e riflettere. Se si continua su questa falsa riga della contrapposizione fra Nord e Sud, deve valere la regola che la valorizzazione delle tradizioni locali, come i dialetti, è valida ovunque, a Bolzano come a Trapani. Bisogna invece considerare i problemi dei territori come parti di un unico problema nazionale. La questione meridionale è per certi versi identica alla questione settentrionale, in quanto entrambe devono godere di una politica unitaria di sviluppo economico. Occupazione, sicurezza, infrastrutture, semplificazione della imposizione fiscale, maggiore rigore nell’utilizzo delle risorse pubbliche sono questioni tanto meridionali che settentrionali. In questa ottica, allora, mettiamo da parte le differenze linguistiche e lavoriamo tutti per riscoprire la vera identità di questo grande Paese. Francesco Facchini C O O R D I N A T O R E CI R C O L I LI B E R A L PR O V I N C I A D I BA R I

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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