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La minima deviazione iniziale dalla verità si moltiplica col tempo di migliaia di volte

Aristotele

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 4 DICEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Stanziati 21 milioni di dollari del governo al National Institute for Health: e la sinistra del suo partito torna ad applaudirlo

Il baratto Kabul-embrioni Per placare le proteste contro l’aumento delle truppe, Obama sblocca d’improvviso i fondi per la ricerca sulle staminali. Una tattica cinica, ma soprattutto una decisione contro la vita di V. Faccioli Pintozzi

Berlusconi-Fini: ormai è diventata una soap-opera

a coincidenza appare quanto meno sinistra. Il giorno dopo l’annuncio della surge in Afghanistan, un aumento di 30mila uomini in armi e provenienti dagli Stati Uniti, il presidente americano approva la concessione di fondi governativi per la ricerca sulle cellule staminali embrionali. La decisione politica non rappresenta una novità assoluta: già lo scorso marzo Obama aveva annunciato che avrebbe rimosso il bando imposto sull’utilizzo dei fondi del governo centrale a una delle sperimentazioni più controverse del mondo moderno. La ricerca avverrà, invece, su undici linee cellulari custodite dagli scienziati dell’ospedale pediatrico di Boston, e su altre due dell’Università Rockefeller di New York.

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Alla mattina Gianfranco si fa tutore della magistratura: «La sua indipendenza garantisce la tenuta della democrazia» Al pomeriggio Silvio nega le polemiche: «Tra me e lui non c’è alcuna competizione. Leggo sui giornali frasi che non ho mai detto»

«Il presidente si sta «Sono esseri umani, piegando alle lobby» non fiocchi di neve» di Massimo Fazzi

di Daniel S. McConchie

Obama «si è piegato alla lobby della ricerca scientifica, che non ha ancora ottenuto un risultato degno di nota nella ricerca sulle staminali embrionali ma ha paura di ammettere il suo fallimento per interromperla». È l’opinione di Francesco D’Agostino, presidente del Comitato nazionale per la bioetica.

Nel 1998, le cellule staminali embrionali sono state isolate dagli embrioni umani per la prima volta. Gli scienziati che hanno lavorato a quella ricerca speravano che queste cellule - in uno stadio ancora “non specializzato” - avrebbero potuto curare molte malattie al momento incurabili.

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OVVIETÀ E RISCHI DEI CO-FONDATORI

La commedia, il gioco d’azzardo

di Errico Novi

Dopo l’invito dell’ex manager Rai al figlio di “fuggire” all’estero

ROMA. È il giorno del-

l Paese dell’ovvio. Ecco che cosa siamo diventati. È ovvio, scontato, che la magistratura abbia una funzione indipendente rispetto all’esecutivo. Ma in Italia no. È ovvio, praticamente scontato, che ci sia bisogno di un sistema giudiziario nel quale avere fiducia. Ma in Italia no. In Italia dire cose del genere significa non solo dare una notizia ai giornali, ma anche creare un fatto politico. Perché? Perché siamo diventati il Paese delle ovvietà straordinarie? Perché il partito di maggioranza ha due leader i cui destini sono di fatto divisi, ma sono costretti a fare ancora di necessità virtù. Il governo e la maggioranza si reggono a mala pena sui rapporti burrascosi tra Berlusconi e Fini.

la pace, come previsto. Dopo la farsa, dopo la tragicommedia, arriva la il gioco delle parti. Dal canto suo, Siulvio Berlusconi se l’è presa con i giornalisti dicendo che lui ha sempre pensato tutto il bene possibile di Gianfranco Fini ma che come al solito la stampa ci mette il suo veleno e gli fa fare una figuraccia: «Tra me e Gianfranco non c’è competizione. Non ho mai detto quello che mi hanno attribuito i giornali: certe cose non le ho mai nemmeno pensate». E Fini torna a parlare di magistratura la cui libertà è indispensabile.

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di Giancristiano Desiderio

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I QUADERNI)

IL LEADER USA DEI “PRO LIFE”

PARLA FRANCESCO D’AGOSTINO

Napolitano boccia Celli

• ANNO XIV •

Appello del presidente ai ragazzi: «Restate in Italia» Ma come si può sconfiggere l’assenza di futuro? di Riccardo Paradisi

ROMA. I nostri giovani devono restare e devono aiutarci a costruire il futuro: l’appello arriva dal presidente Giorgio Napoletano ed è una sostanziale bocciatura della lettera che Pier Luigi Celli ha inviato al figlio spingendolo ad andare a cercare lavoro e futuro all’estero. Insomma: ha ragione il direttore della Luiss quando invita i ragazzi a lasciare l’Italia perché non è più un posto per giovani talentuosi, o ha ragione Napolitano quando si appella alla volontà di far NUMERO

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• CHIUSO

crescere il Paese? Hanno ragione quanti invitano a espatriare in cerca di occasioni migliori oppure chi preferisce spingere per continuare a combattere in patria? Il dibattito è aperto: ne parliamo con Giacomo Vaciago, Vittorio Emanuele Parsi e Irene Tinagli.

IN REDAZIONE ALLE ORE

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Polemiche. La Casa Bianca sblocca i fondi federali per la ricerca sulle staminali embrionali. E lo dice il giorno dopo la surge

Il triste baratto di Obama

La sinistra americana torna ad applaudire il presidente, che concede 21 milioni di dollari del governo a chi seziona gli embrioni umani di Vincenzo Faccioli Pintozzi a coincidenza appare quanto meno sinistra. Il giorno dopo l’atteso annuncio della surge nel conflitto in Afghanistan, un aumento di 30mila uomini in armi e provenienti dagli Stati Uniti, il presidente americano approva la concessione di fondi governativi per la ricerca sulle cellule staminali embrionali. La decisione politica non rappresenta di per sé una novità assoluta: già lo scorso marzo, infatti, l’inquilino della Casa Bianca ha annunciato che avrebbe rimosso il bando imposto sull’utilizzo dei fondi del governo centrale a una delle sperimentazioni più controverse del mondo moderno. La ricerca avverrà, invece, su undici linee cellulari custodite dagli scienziati dell’ospedale pediatrico di Boston, e su altre due provenienti dall’Università Rockefeller di New York.

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ti, uno stimolo enorme alla mia ricerca». Daley, che per inciso è l’uomo che ha creato e custodito le prime undici linee su cui avverrà la sperimentazione, si spinge a dichiarazioni importanti.

E dice: «Posso guardare alle persone e ringraziare Dio per la presenza di Obama. Qui ad Harvard siamo stati molto fortunati, perché abbiamo beneficiato per tanti anni della beneficenza privata. Ora però questa è molto rallentata, a causa della crisi finanziaria e di una gestione meno accorta». In effetti, parliamo di una mossa politica estremamente sottile: la Casa Bianca non ha, di fatto, annunciato nulla che

Tutte le linee cellulari che andranno in sperimentazione sono state prelevate da coppie che cercavano una cura per l’infertilità. Il direttore dell’Istituto, Francis Collins, dice: «Si tratta di un cambiamento epocale. È la prima volta che viene permesso alla comunità scientifica di esplorare uno dei campi potenzialmente infiniti della biologia». Secondo il dottor George Daley, dell’Istituto per le cellule staminali di Harvard, «è un enorme balzo in avan-

Il leader dell’American for Life

Al momento sono 13 le linee cellulari su cui è stata permessa la ricerca. Ma altre 254 sono pronte per essere presentate all’attenzione di Washington avrebbe potuto irritare i pro-life (membri di quella potente destra religiosa che l’amministrazione teme), ma ha lanciato un osso estremamente succulento alla sinistra del Partito democratico. La coincidenza, dicevamo in apertura, è sospetta perché proprio quest’ala della formazione politica del presidente non ha esitato

di Daniel S. McConchie

ton ha approvato la ricerca. Altre 96 linee sono in attesa di approvazione, e circa 254 saranno presentate il prima possibile. Per le prime 31 linee il governo ha stanziato 21 milioni di dollari di ricerca. Il dibattito fra le sezioni religiose della società e quelle laiche si è consumato senza eccezione di colpi dopo l’annuncio politico di marzo.

Le prime sostengono che la stessa sperimentazione che si vuole effettuare sulle embrionali potrebbe essere svolta sulle cellule staminali adulte, cellule non specializzate reperibili tra cellule specializzate di un tessuto specifico e

el 1998, le cellule staminali embrionali sono state isolate dagli embrioni umani per la prima volta. Gli scienziati che hanno lavorato a quella ricerca speravano che queste cellule - in uno stadio ancora “non specializzato” - avrebbero potuto curare malattie al momento incurabili come il Parkinson, il diabete, il cancro, l’anemia e altre. Ancora oggi, molti pensano che sia possibile curare praticamente ogni malattia dell’essere umano con le cellule staminali embrionali: la corsa all’uso di queste cellule è iniziata quando gli scienziati hanno dichiarato che, da queste, sarebbe sgorgata la fonte dell’eterna giovinezza. Ma, per ottenere delle cellule staminali embrionali, bisogna distruggere un embrione umano. Per ottenerle, infatti, bisogna prendere un embrione al primo stadio, farlo a pezzi e prenderne le cellule dalla massa interna. Queste vengono poi prese, fatte crescere e usate per la ricerca. Uno dei problemi che riguarda questa tecnica viene dal trapianto, perché basta che il dna sia leggermente diverso per otte-

N «Parliamo di vite umane, proprio come le nostre. È un delitto se corriamo troppo veloci»

ad attaccarlo con decisione per il suo annuncio sulla guerra a Kabul. Il sospetto, quanto meno fondato, è che Barack Obama abbia usato mestiere e cinismo per limitare i danni politici di una guera che, oramai, gli appartiene. In pratica, abbia barattato gli embrioni con l’Afghanistan. Una linea di condotta che, se comprovata, darebbe il tono di una disinvoltura politica non certo deprecabile ma quanto meno spudorata. La questione della ricerca sulle cellule staminali embrionali tocca molte frange del dibattito pubblico americano, e la riforma sanitaria non aiuta ad ammorbidire i toni. Al momento, dunque, ci sono tredici linee cellulari su cui Washing-

nere dal corpo ricevente la reazione opposta: pensa che le staminali siano degli invasori e le uccide. Ed è per questo che si è arrivato allo stadio successivo: la clonazione. Clonare allo scopo di effettuare ricerca biomedica o clonare a scopo terapeutico vanno nella stessa direzione: ottenere una copia di sé stessi da cui poi far derivare delle cellule compatibili. Quindi si prende un ovulo da una donna adulta, gli si rimuove il nucleo e gli si impianta quello del paziente; poi lo si convince di essere stato fecondato – tramite shock elettrico o bagno chimico – e questo inizia a dividersi, prendendo la forma di un embrione; a quel punto, lo si prende e lo si sventra. Ma con le giuste cure, quell’embrione sarebbe potuto diventare un essere umano. Ovviamente, alcuni pensano anche al procedimento inverso: effettuare lo stesso tratta-

sono prevalentemente multipotenti. Queste sono tuttora già utilizzate in cure per oltre cento malattie e patologie. Sono dette più propriamente somatiche, perché non provengono necessariamente da adulti ma anche da bambini o cordoni ombelicali.

In questo caso, dice prevalentemente la Chiesa cattolica, non si deve uccidere una vita umana. Richard M. Doerflinger, membro della Conferenza episcopale statunitense, dice: «Eticamente, non pensiamo che nessun contribuente debba finanziare quelle ricerche che si fondano sulla distruzione della vita umana, ad ogni stadio essa si trovi». Per poter ottenere una linea cellulare di cellule embrionali, infatti, si rende necessaria la distruzione di una blastocisti, un embrione non ancora cresciuto sopra le 150 cellule; tale embrione è ritenuto da alcuni un primitivo, od almeno potenziale, essere umano, la cui distruzione equivarrebbe all’uccisione di un essere umano già concepito. Il dibattito vede dunque contrapposti coloro che preferiscono adottare, proprio per la mancanza di certezze sul momento in cui possa individuarsi la nascita dell’essere umano, una posizione prudente e contraria all’utilizzo degli embrioni umani per fini di ricerca, e coloro che condividono e sostengono la necessità di ricerca sulle cellule embrionali umane pur essa implicando la distruzione dell’embrione fermo restando che sarebbero utilizzati solo embrioni congelati che sarebbero poi distrutti per la perdita della loro efficacia. Questa ricermento e poi re-impiantarlo, quella che viene definita clonazione riproduttiva. Tutto questo avviene senza una vera base scientifica: gli stessi scienziati che mettono le mani sulle cellule embrionali dei topi da laboratorio non hanno ottenuto, in 25 anni, neanche una cura valida. Chi pensa di poter fare lo stesso con gli esseri umani compie un errore enorme, oltre a essere ripugnante. Anche con la prospettiva reale di poter ottenere una cura si hanno dei seri problemi etici: uccidereste delle vite innocenti per salvare la vostra? L’alternativa a tutto questo esiste, ed è sotto gli occhi di tutti: usare cellule staminali adulte, tratte cioè dal tessuto della persona già sviluppata. La ricerca in questo campo ha già ottenuto risultati considerevoli nella cura di 70 diverse malattie, e altre si aggiungono ogni giorno che pas-


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Un processo chirurgico in opera su una cellula staminale embrionale. Il dibattito mondiale riguarda l’etica di manipolare quelle che, per alcuni, sono vite umane. In basso il professor Francesco D’Agostino, fondatore del Comitato per la bioetica. Nella pagina a fianco il presidente americano Barack Obama e, in basso, una manifestazione pro-life negli Usa ca, comunque permessa negli Stati Uniti, era di fatto bloccata dal congelamento dei fondi pubblici. Ora, la difesa della ricerca parla di «morale salva», perché la Commissione etica degli Usa impone comunque che le linee cellular,i provengano da coppie che abbiano firmato il consenso informato. Secondo Collins, «si tratta di un procedimento che deve andare avanti. Sappiamo quello che facciamo, nel rispetto dei donatori».

Ma, dicono gli oppositori, senza il consenso della vita che viene distrutta nel procedimento. Alla fine, tutto si riduce a questo: credere o non credere che l’embrione nelle prime fasi del suo sviluppo rappresenti una vita umana o meno. Alcuni parlano di formazione del cuore, altri puntano sullo sviluppo del cuore, per altri ancora si deve attendere il sistema centrale nervoso. Come che sia, rimangono i dati scientifici: la ricerca sulle embrionali non ha prodotto nulla, quella sulle staminali adulte già aiuta settanta diverse tipologie patologiche. Ma gli investimenti, e il carico propagandistico, sono collegati al primo gruppo di cellule. E poco importa se siano vite, formate o da formare. sa. Il futuro della cura dell’essere umano non passa per la distruzione di altri organismi. Sono le ricerche che hanno un background etico quelle in grado di curare, anche perché forniscono al paziente dignità e rispetto. Il 19 luglio del 2006, l’allora presidente degli Stati Uniti ha annunciato di aver posto il veto - il primo veto della sua presidenza - alla concessione di fondi federali per chi voleva effettuare la ricerca sulle staminali embrionali. Attorno a lui, in una sala della Casa Bianca, c’erano decine di famiglie con figli piccoli. Erano tutti figli dei cosiddetti “embrioni scartati”, quelli salvati dalla ricerca e congelati. Al momento, la ricerca medica si avvale del sostegno del presidente Obama, che ha concesso loro i fondi del governo. Ma è interessante notare che lo sforzo primario di queste persone, oramai, è cercare di convincere il loro Paese che non ci sono preoccupazioni morali in relazione ai loro esperimenti. Vice presidente dell’American Unite for Life

L’opinione del professor D’Agostino, presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica

«Il presidente si è piegato alle lobby» di Massimo Fazzi

ROMA. Il presidente americano Obama «si è piegato alla lobby della ricerca scientifica, che non ha ancora ottenuto un risultato degno di nota nella ricerca sulle staminali embrionali ma ha troppa paura di ammettere il suo fallimento, costato miliardi di dollari, per interromperla». È l’opinione del professor Francesco D’Agostino, presidente onorario del Comitato nazionale per la bioetica (di cui è membro fondatore) e presidente dell’Unione giuristi cattolici italiani. In un’intervista a liberal, il professore mette in guardia anche l’Europa, in cui la deriva che ha colpito gli Stati Uniti «potrebbe arrivare presto». Professore, l’amministrazione Obama ha sbloccato ieri i fondi federali destinati alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Cosa ne pensa? La decisione ha fondamentalmente un valore simbolico, perché negli Stati Uniti i fondi di ricerca provenienti dai privati sono infinitamente superiori a quelli forniti dal governo federale. Quindi non sarà certo lo sblocco di Obama che renderà più celere la ricerca in materia. Una ricerca che, fino ad ora, ha dato risultati praticamente pari a zero. La ricerca sulle cellule staminali embrionali si potrebbe già definire uno dei peggiori fallimenti scientifici degli ultimi anni, rispetto a quella sulle staminali adulte che invece hanno dato risultati estremamente interessanti. Non dobbiamo però limitarci a valutare queste decisioni in chiave puramente funzionale: valutiamole in chiave simbolica. Purtroppo, a mio avviso, con questa decisione Obama ha ceduto a un certo scientismo che sta dilagando nel mondo, secondo il quale non si può dire di no alle richieste degli scienziati. Che da parte loro vogliono avere mano libera, nel falso presupposto che ogni ricerca scienti-

fica - in quanto tale - si giustifichi da sola. Ma questo non è vero, perché la bioetica è nata proprio per giudicare la ricerca e definire quale sia eticamente fondata e quale no. Dalla ricerca sulle staminali adulte arrivano buoni risultati, mentre quella sulle embrionali è fallita. Allora perché ci si ostina su questa strada? Non è semplice dare risposta a questa domanda. La risposta a mio avviso più plausibile è anche quella più malevola: sono già stati fatti investimenti colossali, da parte dell’industria farmaceutica, nella ricerca sulle staminali embrionali. Prima che l’industria farmaceutica si arrenda e riconosca di aver buttato questi soldi dalla finestra, ce la mette tutta per ottenere dei risultati. Per ottenere cioè dei brevetti, che se queste ricerche dessero dei risultati si tradurrebbero in introiti economici straordinari. Credo che, purtroppo – e dico purtroppo perché questo fa capire quanto, oramai, la ricerca scientifica sia inquinata da interessi economici – la vera ragione sia questa: chi ha investito nella ricerca sulle embrionali vede con terrore il momento in cui si annuncerà in maniera pubblica che questa non dà frutti. Quindi ce la mettono tutta per ottenere almeno qualcosa, prima di dichiarare fallimento. Professore, questa deriva scientifica può arrivare anche in Europa? Attualmente, i governi del

Vecchio Continente sembrano più morbidi sull’argomento… Se ricordiamo la Convenzione europea di bioetica, ricordiamo anche che conteneva un principio interessante: il divieto di produrre embrioni al solo scopo di ricerca. Non a caso, il Regno Unito non ha firmato questa Convenzione: voleva tenersi le mani libere per sperimentazioni in questo campo. Ma il fatto che, in epoca insospettabile, si fosse capito che bisognava porre un limite alla ricerca sugli embrioni, introducendolo poi nel testo di Oviedo, non è privo di significato. L’ingresso di questa deriva in Eudipende da ropa quanto forte sarà la pressione delle lobby scientifiche nel Vecchio Continente e in Italia in particolare. Io noto, con molto rammarico, che tante volte a molti scienziati illustri – e parlo di persone davanti alla quale ci si deve levare il cappello – si dà uno spazio per valutazioni etiche che è assolutamente ingiustificato. Il fatto che il signor X sia un grandissimo scienziato non lo qualifica per dare valutazioni etiche; però, il prestigio della scienza viene presentato come tale da attivare fenomeni mediatici di questo tipo. Bisognerebbe contrastare queste dinamiche, e ricordare a tutti che come lo scienziato merita plauso e lode quando fa ricerca scientifica, quando fa valutazioni etiche e politiche è un cittadino come gli altri. E la sua opinione vale come quella di tutti gli altri.

Anche in Europa dobbiamo stare attenti: nel campo sono stati investiti molti, troppi soldi


politica

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Soap-opera. «Nessuna competizione tra me e Gianfranco», dice il premier. «Certe cose che mi hanno attribuito io non le ho nemmeno pensate»

Fine primo tempo Nella tragicommedia del Pdl ieri è stato il giorno della finta tregua Bocchino avverte: «Senza di noi, la maggioranza in Aula non c’è» di Errico Novi e Valentina Sisti

ROMA. Perché Fini infligge a Berlusconi un distacco forse incolmabile, dal punto di vista strategico? Semplice: perché nell’altra trincea che attraversa il Pdl c’è un nugolo di cortigiani confusi, in conflitto tra loro, pronti a intrecciare lo spirito di adulazione con le proposte di legge. Cocktail micidiale, che inchioda la maggioranza sul nodo dello scudo per il premier da quasi due mesi, ormai, da quando cioè la Consulta ha bocciato il Lodo Alfano. Nel giorno che precede la deposizione del pentito Gaspare Spatuzza al processo Dell’Utri (il senatore sarà in aula ad ascoltarlo) la maggioranza fa poco o nulla per rimettere la crisi, nonostante la proposta del vicecapogruppo Udc Michele Vietti sul legittimo impedimento spalanchi la strada che porterebbe a una rapida soluzione. Cosicché il presidente della Camera può concedersi l’ennesima digressione da uomo super partes: al Salone della giustizia di Rimini, davanti al presidente dell’Anm Luca Palamara, proclama che la magistratura «ha assunto quei connotati di indipendenza dal potere esecutivo che continuano a rappresentare la vera garanzia per la tenuta dell’ordinamento democratico». Quasi a legittimare il ruolo di “opposizione istituzionale” svolto dai giudici nei confronti del premier.

Non è il solo passaggio in cui l’ex leader di An concede qualche lusinga all’uditorio togato della manifestazione: rilancia anche la raccomandazione di Giorgio Napoilitano sul rischio di riformare la giustizia con «misure correttive svincolate da una logica di insieme». Quasi a dire che la legge sul processo breve resta una distorsione inopportuna, come se non fosse stato lui stesso, Fini, a lasciarle via libera. Si aggiungono indicazioni su ipotesi di riforma peraltro già ampiamente condivise nella maggioranza, dalla depenalizzazione dei reati minori alla separazione delle carriere («ma senza intaccare l’autonomia dei pm»). Di sicuro Gianfranco Fini può spaziare liberamente sul terreno ancora incolto della ristrutturazione del sistema giudiziario grazie, appunto, all’affannoso procedere delle falangi

Fini e Berlusconi battibeccano in pubblico per poi riconciliarsi sotto banco

Commedia all’italiana, ma anche gioco d’azzardo di Giancristiano Desiderio l Paese dell’ovvio. Ecco che cosa siamo diventati. È ovvio, praticamente scontato, che la magistratura abbia una funzione indipendente rispetto all’esecutivo. Ma in Italia no. È ovvio, praticamente scontato, che ci sia bisogno di un sistema giudiziario credibile e nel quale avere fiducia. Ma in Italia no. In Italia dire cose del genere significa non solo dare una notizia ai giornali, ma anche creare un fatto politico. Perché? Perché siamo diventati il Paese delle ovvietà straordinarie? Perché il partito di maggioranza relativa ha due leader i cui destini sono di fatto divisi, ma sono costretti a fare ancora di necessità virtù. Il governo e la maggioranza si reggono a mala pena sui rapporti burrascosi tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Non si parlano, non decidono e hanno destini politici ormai diversi e opposti. Ma sono costretti a stare insieme. Sono nella stessa barca, ma remano in direzioni diverse e sperano che la barca non affondi o che non si scateni una burrasca che non saprebbero come fronteggiare. Per il resto - il resto è l’Italia - beh, ci penserà il Padreterno. Loro hanno altro a cui pensare. Si devono accordare sottobanco.

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tura nel tempo ha assunto quei connotati di indipendenza dal potere esecutivo che continuano a rappresentare la vera garanzia per la tenuta dell’ordinamento democratico». Cose ovvie, eppure decisive. È proprio lì che passa una - una, precisiamo, quindi non l’unica - delle cose che dividono Fini da Berlusconi, ma che gli italiani possono sapere soltanto a spicchi e bocconi, per sentito dire, attraverso indiscrezioni, dichiarazioni e poi smentite. C’è una commedia in corso, ma il contenuto di questa commedia è cosa fin troppo seria. Ma le cose serie vengono fatte passare sotto il banco, non sopra. I litigi tra i due ex sposi sono appariscenti, ma il nodo del contendere non appare mai realmente. Così si spiegano le continue smentite del premier: non ho detto questo, non ho detto quello, i giornali scrivono falsità, tra me e Fini va tutto bene. Così si spiegano anche i continui tira e molla del presidente della Camera che - va detto nel momento in cui gioca a braccio di ferro con il capo del “suo” governo, lo accusa di essere un monarca e un maresciallo («il Pdl non è una caserma») ma poi ritorna a casa senza colpo ferire, beh, è chiaro che ci rimette la sua autorevolezza. Gianfranco Fini non fa politica. Calcola. Gioca a risiko. È una politica anche questa. Certo. Ma non è roba autorevole.

I litigi tra i due ex sposi sono molto appariscenti, ma il vero nodo del contendere non appare mai realmente chiaro

Accadono cose strane. Ministri, capigruppo, vicecapigruppo, deputati, senatori, giornalisti invitano il presidente della Camera a farsi da parte perché ormai, con le sue dichiarazioni in onda e fuori, si è «messo fuori dalla linea del partito». Si scatena il putiferio. Berlusconi sa tutto e lascia fare e lascia dire. Poi - come direbbe Totò che qui ci sta bene, tanto è una commedia - tomo tomo, cacchio cacchio, dice: «Con Fini nessuna competizione. I giornali scrivono cose che non ho mai detto, né pensato». Nelle stesse ore proprio l’ex leader di An - il “co-fondatore”- dichiara a Rimini all’inaugurazione del Salone della Giustizia: «Recuperare efficienza, credibilità e fiducia nel sistema giudiziario italiano è vitale per la democrazia e una prerogativa per tutte le istituzioni. La magistra-

Fini ieri ha parlato dei reati da derubricare e anche della separazione delle carriere dei magistrati, ha quindi auspicato tempi rapidi nell’attuazione delle necessarie riforme che interessano il settore, «ma ciò deve avvenire dopo un adeguato dibattito parlamentare». Tutte cose ovvie. Ciò che invece non è per nulla ovvio è ciò che non vediamo: la trattativa in corso tra il capo del governo e il presidente della Camera. Per il presidente di Montecitorio è importante che «la politica sappia estirpare il germe della sfiducia», ma la commedia a cui abbiamo assistito in questi giorni e che sarà in replica anche nei mesi a venire non sembra la politica più adatta ad estirpare il germe della sfiducia.

berlusconiane. Non lo scalfiscono affatto anatemi come quello di Sandro Bondi, che dalle colonne del Corriere della Sera dichiara chiusa l’era della poesia e legge nella prosa di Fini «una cultura politica che non è, non può essere quella del popolo del Pdl».

A Berlusconi non sfugge il vantaggio tattico del co-fondatore: disconosce subito i virgolettati in cui invita il presidente della Camera ad andarsene, e quando i cronisti gli chiedono a bruciapelo se con Fini c’è una competizione, taglia corto: «Non c’è nessuna competizione con nessuno». Ai finiani ovviamente va bene così: va benissimo a Italo Bicchino poter rammentare che «sbaglia chi sottovaluta Gianfranco, perché con i suoi numeri è determinante in Parlamento per la prosecuzione della legislatura». Mentre l’enclave post-aennina tiene le fila ben serrate, il resto del Pdl si disperde nelle mille alernative al compianto Lodo Alfano. Enrico Costa, il berlusconiano autore con il leghista Matteo Brigandì della proposta “di maggioranza” sul legittimo impedimento, esibisce per la verità un po’ di buonsenso quando apprezza il contributo di Michele Vietti. Il presidente della commissione Giustizia del Senato Filippo Berselli invece se la prende con l’esponente del partito di Pier Ferdinando Casini: «Il suo è un trappolone politico perché prevede una norma ad personam, e invece bisogna estendere il legittimo impedimento agli altri membri del governo e ai parlamentari». È o p po r tu n o , d i ce Be r s e l li , scansare gli equivoci e tenere in


politica

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Tra Cavaliere e presidente della Camera anche tensioni pre-elettorali

I finiani giocano in difesa: «Vogliamo il bene del Pdl» Angela Napoli: «Al partito servirebbero candidati del livello di D’Ambruoso in tutte le regioni» di Ruggiero Capone

pista il processo breve «anche se non si farà sfuggire la “garanzia” in Aula potrebbe ripiombare pri- pretesa fin dall’inizio: «Nessuna ma la Finanziaria». La cosiddetta concessione ai reati legati all’imlegge Gasparri non si tocca, dun- migrazione clandestina, che rique. Verrà corretta al limite con marranno esclusi, purché coerenun ampliamento dei reati esclusi ti con l’elenco dei reati per i cui dal beneficio, assicura Berselli. processi va assicurata la priorità Che però non cita i reati di truffa, assoluta come stabilisce il decreaggiotaggio e tutti quelli conte- to sicurezza del 2008. Settecentostati, per esempio, alla banda di mila clandestini costituiscono un Calisto Tanzi. Curioso che la Lega grave problema sociale». E megasi faccia passare sotto al naso un truffe come quella di Parmalat? simile salvacondotto per i potenti. «Bisognerà valutare se questi Sandro Mazzatorta, vicepresi- possono costituire un serio allardente del gruppo lumbàrd al Se- me sociale», conclude Mazzatornato e sottoscrittore del ddl sul ta. Il sospetto è che se passa il ddl processo breve, dà una sua spie- sul processo breve, assieme ai gazione: «Tutte queste proposte, processi del premier verranno selegittimo impedimento, Lodo Al- polti anche quelli di Calisto Tanzi. fano corretto in forma costituzio- E come se non bastasse, la versionale, immunità parlamentare, ri- ne del legittimo impedimento schiano di aprire tante porte, col energicamente difesa da Berselli rischio che non si contro quella riesca più a chiuavanzata da Vietti, derle», dice a libecontiene una sorta ral. Nessun rallendi prescrizione tamento sulla legbreve per l’intera ge Gasparri, duncasta della politique, «vogliamo ca romana: presiROMA. L’Anm proporrà concludere al più dente del Consile primarie per la scelta presto l’iter, che glio, ministri e dei candidati togati per non è incompatibiparlamentari bele elezioni del nuovo le con il legittimo neficerebbero di Csm, nel luglio del 2010. impedimento. È un continui rinvii «I membri testo concordaprocessuali in della giunta to e rappresenta virtù della loro atnon parteciuna riforma tività, senza che la peranno alla molto più amdecorrenza dei corsa di papia, un passagtermini venga inlazzo dei gio culturale». terrotta. Se davveMarescialli ro la proposta Secondo il viperché saVietti, che non cecapogruppo leranno arbitri nella ge“brucia” i tempi di ghista, anche lui stione della scelta dei prescizione, veniscomponente della candidati», ha detto Luse respinta, sarà commissione Giuca Palamara (nella foto), interessante spulstizia, il partito di presidente dell’Anm. ciare il lungo elenUmberto Bossi co dei beneficiari.

L’Anm propone le primarie per i magistrati

ROMA. Prende sempre più corpo la versione che reputa il fuorionda faccia parte delle tensioni preregionali. Non è un mistero che Fini abbia più volte chiesto (alla luce del caso Cosentino) che alle presidenze regionali fossero candidate «persone di specchiata onestà e grande autorevolezza istituzionale». Qualche indiscrezione parla di elogi fatti dal presidente della Camera per la scelta del magistrato antimafia Stefano D’Ambruoso come candidato del Pdl in Puglia. Sempre secondo addetti ai lavori, s’è parlato del rammarico dello stesso Fini per il fatto che in Campania non vi fosse un candidato altrettanto autorevole. Considerazioni che dimostrerebbero come Fini non abbia alcuna voglia d’abbandonare il Cavaliere. Intanto qualcuno fa notare come molti ex An stiano sottolineando che «il partito di Fini non può pesare meno della Lega a livello regionale». I soliti pettegoli di palazzo accrediterebbero la teoria che, «se il Carroccio ha spuntato la candidatura alle presidenze di Veneto e Piemonte, l’area degli ex An dovrebbe puntare alle presidenze di Campania, Lazio e Calabria». Ma una simile ipotesi è ovvio che scontenti tutti gli ex Forza Italia di Roma e dintorni. Così Fini potrebbe mediare: «Nel Lazio candidiamo Renata Polverini, segretaria dell’Ugl e persona vicina ad An, in Calabria ci mettiamo Scopelliti ed in Campania troviamo un magistrato, o persona d’alto profilo, giammai implicabile in alcun tipo d’affare giudiziario ed equidistante da An come da Fi». Ipotesi che trova qualche risposta nelle dichiarazioni di Ignazio La Russa (coordinatore del Pdl e ministro della Difesa). «Non c’è nessun diktat che arrivi dalla Lega o dal Pdl, siamo al lavoro per trovare una soluzione mediana” afferma La Russa, parlando del dibattito interno alla maggioranza per le candidature alle elezioni regionali.

nessuno voterebbe contro di lui alcuna autorizzazione.

«Sono le direttive del Pdl - dice Angela Napoli (deputata finiana del Pdl) - ancora un volta è un gruppo dove la libertà dei componenti viene vincolata. Non è affatto un ritorno della disciplina di partito. Disciplina di partito è sottoporre un gruppo ad una linea unica su argomenti governativi. Ma, quando si votano scelte che riguardano la persona, come nel caso di Cosentino, dovrebbe prevalere la libertà di coscienza. La libertà ed il rispetto del senso d’indignazione, che non è pari in ognuno di noi». Ma Certe cose Fini le avrebbe dette per chiedere maggior “rigore” nelle scelte regionali? «Certe esternazioni non escludo vengano dette per dire all’amico politico che sarebbero opportune differenti condotte di governo ribatte Angela Napoli -. Poi la tecnica di registrazione usata da Repubblica.it è alquanto sospetta, ancor più il fatto che le esternazioni pescaresi siano state rese pubbliche un mese dopo. Per quanto riguarda le candidature regionali, in Calabria non è ancora stato confermato Scopelliti, altre candidature potrebbero rientrare nell’ambito di una valutazione per le regioni meridionali, Lazio compreso. Non credo questo discorso possa ora adebitarsi al fuorionda, credo nessuno voglia scegliere i candidati a dispetto - sottolinea la deputata -. Certo in Campania un passo indietro sarebbe decoroso. Ma certe scelte dipendono dalla dignità di ciascun politico. In Campania dovrebbero seguire l’esempio pugliese, dove la candidatura di D’Ambruoso smorza non poco tutti i veleni giudiziari. Una candidatura similare in Campania potrebbe mettere a tacere le discordanze a seguito del caso Cosentino. Con D’Ambruoso si punta su persone che hanno una certa storia, tutta al di sopra di ogni sospetto.Vorremmo si seguisse lo stesso metodo ovunque». Ed in Calabria? «In Calabria occorre che il centro-destra attacchi Loiero - sottolinea la Napoli - per i suoi sprechi: ha creato persino la nomina di sottosegretario regionale, per sistemare il nipote dell’onorevole Laganà. In Calabria, Scopelliti o chiunque venga candidato, deve strappare con la moralità due maglie nere europee: quella di prima regione per usura e quella di prima regione per decessi nella sanità pubblica. Se Fini chiede gente che conduce queste battaglie lo fa per il bene del Pdl».

Il magistrato anti-mafia che sarebbe candidato dal Popolo della Libertà in Puglia riscuote i consensi unanimi degli ex-aennini

Il coordinatore del Pdl però evita di entrare nelle ultime vicende legate al Pdl, e fa capire che le dichiarazioni sul fuorionda del presidente della Camera sono ormai acqua passata. Importante sarebbe oggi per An ottenere nelle candidature regionali uno spazio pari a quello ottenuto dalla Lega? Per raggiungere questo scopo necessita che Nicola Cosentino faccia un passo indietro in Campania, ed in cambio


diario

pagina 6 • 4 dicembre 2009

Quattroruote. La casa francese, che in passato era stata vicina a un fusione con la Fiat, ha scelto il mercato asiatico

Peugeot sposa Mitsubishi

Sta per nascere il sesto gigante dell’automobile globalizzata l possibile acquisto di quota un’importante azionaria da parte della casa automobilistica Psa della giapponese Mitsubishi sembra confermare quella che è una tendenza in atto da ormai diversi anni, vale a dire la creazione di un mercato globale dell’auto.

I

L’entrata dei francesi direttamente sul mercato giapponese segue un periodo di condivisione di progetti tra le due case automobilistiche. Il passo è molto importante, perché in questo modo, anche il gruppo francese riesce a intraprendere quel processo di globalizzazione che non le era riuscito negli scorsi anni e che invece è riuscito a Volkswagen o Renault. Psa aveva infatti le proprie vendite concentrate in Europa e come Fiat rischiava di rimanere fuori dal mercato automotive. L’entrata in Giappone non è facile e non sarà facile da portare a termine il processo di integrazione tra le due case automobilistiche, come ha dimostrato anche la precedente fusione RenaultNissan. Il nuovo gruppo potrà produrre con una piattaforma unica e questo le apporterà delle economie di

di Andrea Giuricin

un anno fa, in seguito all’acquisto di Chrysler e che anche Peugeot ha deciso di intraprendere. Negli scorsi mesi, dopo l’acquisto di Chrysler da parte di

L’entrata in Giappone non è facile e non sarà facile da portare a termine, come ha dimostrato anche la precedente unione Renault-Nissan scala molto importanti da poter sfruttare per poter crescere nei diversi mercati. L’entrata nel mercato asiatico per il gruppo Psa è essenziale, perché proprio in quel mercato si gioca il futuro dell’auto, come ha saputo comprendere in anticipo Volkswagen. Il gruppo tedesco ha venduto nel 2008 più automobili in Cina che nel proprio paese di origine. Fiat, al contrario, ha scelto di crescere nel mercato americano, che questo anno non sarà più il primo al mondo per numero di autoveicoli venduti, poiché superato dal mercato cinese.

La scelta di entrare e crescere in nuovi mercati è essenziale e quel che è certo è la necessità di creare grandi gruppi a livello globale che siano in grado di produrre almeno 5 milioni di autoveicoli l’anno. Questa è la previsione che Sergio Marchionne fece

Fiat, si era parlato spesso di un “matrimonio” tra la casa torinese e Psa, ma in realtà le due aziende erano molto simili e difficilmente avrebbero potuto coesistere in un unico gruppo. Il gruppo Psa è infatti il primo concorrente di Fiat, in quanto la clientela dei principali marchi della casa torinese e quella francese non è molto differente. Difficilmente sarebbe stata possibile un’integrazione senza una cannibalizzazione tra Fiat, Peugeot e Citroen. Questa scelta di Psa di andare verso il mercato asiatico è sicuramente una scelta coraggiosa ed inevitabile.

Tutto è cominciato per tutelare l’ambiente

Un affare “elettrico” TOKIO. Ormai è ufficiale: la casa automobilistica francese PSA Peugeot Citroen è in trattative con Mitsubishi Motors per l’acquisto di una quota consistente del capitale, stimata tra il 30 e il 50 per cento. Lo ha comunicato la stessa Psa in un breve comunicato in cui conferma i colloqui con il costruttore giapponese per «esaminare le pos-

sibilità di estendere le relazioni a un partenariato strategico», in cui - riferisce invece un portavoce di Mitsubishi «la fusione è una delle possibilità». Secondo quanto anticipato dal quotidiano finanziario Nikkei, la casa automobilistica giapponese sarebbe sul punto di aumentare il capitale riservato da 200 a 300 miliardi di yen (da 15, a 2,25 miliardi di euro), che permetterebbe all’azienda francese di diventare l’azionista di maggioranza. La Peugeot sembra intenzionata ad investire una somma nell’ordine di 330 milioni di euro. Con questa operazione, il gruppo sarebbe al sesto posto nel mercato mondiale, con oltre quattro milioni di veicoli prodotti. Già a settembre le due società avevano raggiunto un’intesa per consentire al gruppo francese di vendere le auto elettriche di Mitsubishi prima della fine del 2010, recuperando lo svantaggio sulla Renault, che a sua volta è legata a una casa giapponese, la Nissan. I titoli Mitsubishi, nel frattempo, hanno spiccato il volo in Borsa, segnando un balzo di oltre il 20%; le azioni della Peugeot sono in rialzo di oltre il 3%.

Le piattaforme uniche sono il futuro dell’automotive. Sempre meno esisteranno impianti produttivi di dimensioni ridotti e con una forte specializzazione, come è il caso di Termini Imerese. Tutte le case automobilistiche puntano ad impianti che producono almeno 500 mila veicoli l’anno per diverse marchi. Questo è anche il caso di Fiat in Polonia o di tutti i grandi gruppi mondiali. Difficilmente l’impianto siciliano potrà continuare la propria produzione poiché si trova ad essere in una posizione competitiva molto debole. Lo sciopero di giovedi 3 dicembre da parte delle aziende dell’indotto poco cambierà la situazione, come poco è destinata a cambiare la situazione, il dialogo aperto tra Fiat, sindacati e Governi. La posizione dei sindacati è la più irrealistica, poiché hanno chiesto un incremento produttivo in Italia da 659 mila veicoli l’anno a circa 1,6 milioni di veicoli. Questo obiettivo non realizzabile dovrebbe essere raggiunto tramite una politica d’incentivi governativi atti a mantenere la produzione italiana di Fiat a scapito di quella straniera. Una tale misura andrebbe sicuramente contro l’Unione Europea che la bollerebbe come aiuto di Stato. Tutte le politiche degli incentivi alle vendite poco hanno aiutato a rendere l’Italia più competitiva dal punto di vista produttivo, tanto che nel 2008, nel nostro paese sono usciti dagli stabilimenti meno auto che in Repubblica Ceca o Belgio. La misura degli incentivi è certamente facile da realizzare per il Governo, seppur dispendiosa (è possibile stimare costi netti per 400 milioni di euro nel 2009), ma essa non risolve i problemi strutturali italiani. È necessario ripensare totalmente le politiche nel settore automotive, cercando di attrarre investitori stranieri con una burocrazia meno elevata e con una tassazione meno onerosa per le aziende. Se le case costruttrici hanno compreso che devono globalizzarsi per sopravvivere, gli Stati devono comprendere che devono attirare investitori esteri per mantenere una produzione nazionale di veicoli.


diario

4 dicembre 2009 • pagina 7

Trichet lascia invariati i tassi dell’Euro: risale il Pil

Nasce il quarto gruppo mondiale dell’intrattenimento

Bce: inizia la strategia di uscita dalla crisi

Comcast compra Nbc e sfida la Disney

FRANCOFORTE. I governi euro-

NEW YORK. Forte di una capi-

pei devono tornare rapidamente a bilanci sostenibili e alcuni di loro dovranno continuare ad affrontare l’emergenza deficit già dal 2010. Lo ha sostienuto il presidente della Bce Jean Claude Trichet al termine del consueto board del giovedì a Francoforte. «Ma mi auguro che le decisioni sulla tenuta dei conti del 2010 vengano implementate», ha concluso di Trichet. Quanto ai dati della Bce, i pil nell’area dell’Euro dovrebbe registrare nel 2009 un calo compreso tra -4,1 e -3,9%. Nel 2010 il pil dovrebbe registrare una crescita compresa tra lo 0,1 e l’1,5%. «Il Consiglio direttivo si attende per il 2010 una crescita moderata» ha sottolineato Trichet affermando che i livelli di incertezza «restano alti».

talizzazione di 30 miliardi di dollari, l’America può vantare un nuovo colosso dell’intrattenimento e dell’informazione. Il quarto, per la precisione, dietro ai giganti Walt Disney, News Corporation e Time Warner. Ieri mattina Comcast e General electric hanno annunciato la creazione di una newco che mette assieme attività del principale operatore della Tv via cavo Usa e della Nbc. Nella nuova realtà Comcast – che ha sborsato oltre 13 miliardi di dollari – è il principale azionista con il 51 per cento del capitale. Azioni acquistate da GE, che detiene il restante 49 per cento. Quota che manterrà – come prevede un’opzione – per

D’altra parte, il prodotto interno lordo dei Paesi aderenti all’Euro torna a crescere per la prima volta dopo quindici mesi. Lo certifica Eurostat confermando le anticipazioni di novembre. Nel terzo trimestre dell’anno in corso il Pil delle sedici nazioni che hanno adottato l’euro ha registrato una crescita dello 0,4% contro il -0,2% dei tre mesi precedenti. Anche nell’intera Unione europea (Ue-27) il Pil è tornato a crescere dello 0,3%. Per

Manovra, nuovi ritardi sulla strada di Tremonti Il ministro presenta i suoi emendamenti ma slitta il voto di Francesco Pacifico

ROMA. Sembra passato un secolo da quando Giulio Tremonti si vantava che la sua era una Finanziaria blindata. Ieri, dopo una genesi molto difficile, sono arrivati gli emendamenti del governo. Quelli che rendono più pesante una manovra altrimenti molto pingue e che, soprattutto, blindano i 3,7 miliardi dello scudo. Vuoi il diktat di Fini per far scrivere in commissione Bilancio il testo sul quale porre la fiducia. Vuoi l’appesantimento della manovra stessa, lievitata fino a 8 miliardi di euro. Fatto sta che al ministro non sono bastati una serie di riunioni con la sua maggioranza – ieri ha visto i coordinatori del Pdl in via dell’Umiltà – o il seguire direttamente i lavori parlamentari per velocizzarne l’iter. Se in maggioranza il presidente della Camera ottiene sempre minor consenso – «Questo scontro è neve al sole, passerà velocemente», ha fatto sapere il ministro dell’Agricoltura Luca Zaia, ospite dell’ultimo incontro del Cenacolo di Marco Antonellis – c’è la volontà nel Pdl di riequilibrare i rapporti con via XX settembre. Ieri il presidente della commissione Bilancio, Giancarlo Giorgetti, è stato costretto a rinviare a questa mattina la ripresa della votazione sugli articoli e la presentazione dei subemandamenti. Del clima sembra farne le spese l’emendamento omnibus che dovrebbe presentare il relatore di maggioranza, Massimo Corsaro: potrebbe slittare a oggi, nonostante tocchi materie come scuola pubblica, turn over nelle forze armate, salvaguardia del territorio, risorse per Roma capitale fino al possibile condono sulle sanzioni Inps e ai fondi per le authority. Il primo emendamento a essere stato presentato è quello relativo ai finanziamenti per il comparto sanità. E che ha seguito di poco la firma definitiva tra l’esecutivo e Regioni del patto per la salute per gli anni 2010-2012. È previsto un incremento del finanziamento al Servizio sanitario nazionale di 1,6 miliardi di euro nel 2010, di 1,719 miliardi di euro nel 2011 ed un aumento nel 2012 sul 2011 del 2,8

per cento. Sale a 400 milioni il fondo per le non autosufficienze, mentre c’è quasi un miliardo ai comuni per i mancati versamenti Ici. In attesa di ammissibilità anche l’emendamento Calderoli sul taglio a consiglieri e assessori comunali e provinciali: la norma varrà dalle prossime elezioni e dovrà essere recepita negli statuti degli enti locali. Sbloccati i finanziamenti per la sanità, i governatori attendono che questo protocollo sia propedeutico alla chiusura di due partite non meno importante: lo sconto del 13 per cento sui farmaci e, soprattutto, l’approvazione da parte del Cipe dei Par. «Abbiamo firmato il patto della salute», ha aggiunto Errani, «perché il ministro Fitto ci ha promesso un rapido sblocco dei Fas. Ha anche disposto che entro dicembre ci sia una riunione del Cipe sui Par per i Fas regionali». Se va verso una conclusione il confronto con le Regioni, monta la rabbia dei sindaci per le poche risorse a disposizione e il versamento dei 2 miliardi a compensazione del mancato versamento dell’Ici. Senza dimenticare i tagli imposti dall’emendamento Calderoli. Ieri il primo cittadino di Torino, e presidente dell’Anci, Sergio Chiamparino ha annunciato una dura mobilitazione: «Abbiamo convocato per giovedì 10 dicembre in mattinata, nel giorno in cui la Finanziaria dovrebbe approdare in Aula alla Camera, una mobilitazione di tutti i sindaci d’Italia davanti a Montecitorio».

Firmato il patto della salute insieme ai governatori: 1,6 miliardi in più nel 2010. Sindaci pronti a scendere in piazza

ritrovare il segno più davanti al Pil della zona euro bisogna risalire al primo trimestre del 2008 (+0,7%), cui sono seguiti ben cinque trimestri consecutivi negativi. Il picco della recessione si è toccato nei primi tre mesi del 2009 con -2,5%. Comunque l’aumento del Pil europeo è di gran lunga inferiore a quello degli Stati Uniti, pur se è risultato inferiore alle attese. Tra le principali economie europee, a guidare la ripresa sono la Germania (+0,7%), l’Italia (+0,6%) e la Francia (+0,3%), mentre restano in terreno negativo Spagna e Gran Bretagna (entrambe a 0,3%). A trainare la risalita del Pil europeo sono state soprattutto le esportazioni.

Oltre al merito all’Anci non piace neppure il metodo usato in questa manovra: «Noi siamo pienamente disponibili», chiarisce Chiamparino, «a discutere di un ridisegno di tutto il sistema per abbassare i costi della politica e non vogliono difendere l’esistente. Ma non si proceda a spizzichi e bocconi». Non piace quindi il ricorso a un emedamento della manovra, mentre sarebbe meglio ridiscutere «i tagli all’interno di un provvedimento specifico organico: magari nella carta delle autonomie. Altrimenti tagliamoli del tutto gli stipendi».

i prossimi tre anni e mezzo. Per rendere possibile il deal GE ha invece acquistato per 5,8 miliardi di dollari dal gruppo francese Vivendi la quota in suo possesso del 20 per cento.

L’obiettivo di Comcast è sfidare apertamente la supremazia di Disney. Mettere le mani su Nbc vuol dire ampliare la sua offerta con marchi riconosciuti come Bravo, una rete dedicata ai reality show e al gossip o Cnbc, il più importante canale di news economico-finanziarie degli Stati Uniti. Senza dimenticare la stessa rete Nbc, Telemundo, gli studios e i parchi a tema Universal. Il passo successivo dovrebbe essere quello di rendere più rapido il passaggio dei film passeranno dal cinema alla tv via cavo, così come più diretta la distribuzione degli show televisivi via Internet e su telefoni. Ora si attende soltanto il via libera dell’antitrust. Intanto l’amministratore delegato di GE, Jeffrei Immelt, ha detto che si tratta di una buona operazione. «in grado di creare valore per Nbc Universal» e che offre a GE la possibilità di utilizzare la somma incassata a seguito della creazione delle newco (8 miliardi di dollari cash) per finanziare «molte opportunità di investimento».


società

pagina 8 • 4 dicembre 2009

Inchiesta. Mandare i figli all’estero o far crescere il Paese? Ne parliamo con Irene Tinagli, Vittorio Parsi e Giacomo Vaciago

Una nazione non espatria Napolitano boccia Celli sui giovani: «Restate, costruiamo insieme il futuro!» di Riccardo Paradisi asciare l’Italia, perché non è un posto per giovani talentuosi come il direttore della Luiss Pierluigi Celli consiglia di fare al figlio oppure restare, come chiede ai ragazzi italiani il presidente Giorgio Napolitano? Ha ragione Celli quando sostiene che l’Italia è finita o ha ragione Napolitano che si appella alla generosa volontà delle nuove generazioni di far crescere il Paese? Oppure le cose sono più complesse di come le schematizza il dibattito politico giornalistico italiano?

L

Intanto qualche dato, per capire di che stiamo parlando, partendo dal merito del dilemma restare-partire: ogni anno se ne vanno dall’Italia cinquemila talenti, una cifra che dimostra di un’emorragia continua di intelligenza e di risorse verso l’estero. Via da un Paese dove l’età del primo impiego stabile arriva intorno ai 35 anni, dove per metter su casa e famiglia occorre aspettare di media i 40 anni, dove la struttura del

mercato del lavoro e della ricerca premia l’anzianità lavorativa invece che la produttività e le competenze. In 10 anni il numero di giovani dipendenti in ruoli dirigenziali è passato dal 9,7% al 6,9% e tra i quadri dal 17,8% al 12,3%. I giovani imprenditori sono passati dal 22% al 15% e i liberi professionisti, dal 30% al 22%. Il dato dell’università è forse il più devastante: uno studio del Cnel mostra che l’età media dei docenti universitari è di 51 anni, la metà dei professori di prima fascia ha superato i 60 anni e circa 8 docenti su 100 hanno compiuto 70 anni. I giovani sono solo il 7,6% se si considerano quanti non hanno più di 35 anni. Di questi però la stragrande maggioranza ricopre la qualifica più bassa della gerarchia accademica: i giovani ricercatori, infatti, sono 4.374, i professori associati 311 e gli ordinari solo 21. I giovani in Italia non contano nel mercato del lavoro e della ricerca dunque, un deficit di peso sociale specifico direttamente proporzionale a quello politico. Dal 1992 ad oggi, sottolinea la ricerca del Cnel, i deputati under 35 non hanno mai raggiunto il 10%

(a eccezione della legislatura 1994-96), e attualmente alla Camera sono solo il 5,6%. Una deriva gerontocratica, perchè se i 25-35enni costituiscono il 18,7% della popolazione maggiorenne, il loro peso parlamentare è meno di un terzo (5,6%). Il freno posto ai giovani funziona anche in quello che dovrebbe essere il libero mercato: incontrano difficoltà enormi i giovani italiani che vogliono intraprendere la strada del giornalismo, della medicina, dell’avvocatura o del notariato. Non è vero che il merito premia sempre: «Anche le persone più capaci, per riuscire a vivere del proprio lavoro, tra tirocini, concorsi e contratti a brevissima scadenza – sostengono gli

nizzata per caste e al cui vertice si trova una gerontocrazia inamovibile». O se ne vadano appunto, quando possono. Sicchè alla fine sembra avere ragione Celli nel presentare al figlio l’Italia come un panorama con rovine: «Una società divisa, rissosa, fortemente individualista», in cui conta solo il «riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili, di carriere feroci fatte su meriti inesistenti». Dove un giovane di talento è destinato a guadagnare meno di una velina, meno di un tronista. A meno che GIACOMO «non sia un merito VACIAGO l’affiliazione, politica, di clan, familisti«Il dramma ca». Al netto del non sono pulpito da cui viene i 5000 italiani la predica – c’è chi che ogni anno ha rinfacciato a Celvanno li: «Proprio tu para studiare li?» – davvero stanall’estero, no così le cose? ma i 5000 Davvero non c’è via stranieri che d’uscita? non vengono «Il mio ultimo figlio da noi» è all’estero – dice a liberal l’economista Giacomo Vaciago – esperti del Cnel – devono pa- l’ho iscritto a una grande scuozientare fino a quarant’anni la di Oxford dove ha fatto le circa. Fino ad allora non posso- scuole medie e l’università, ogno che continuare a sperare gi vive e lavora felicemente a nell’aiuto della propria fami- Londra. Non me ne vanto, non glia. Il rischio è che i giovani, me ne dispero, non l’ho spinto rassegnati a questo immobili- io a questa scelta, soprattutto smo sociale, continuino ad ac- non ho scritto lettere aperte ai cettare la propria condizione di giornali come invece ha creduemarginati in una società orga- to opportuno fare il mio amico

VITTORIO PARSI «Abbiamo il dovere di preoccuparci per quelli che non possono andarsene. E poi quelli che se ne vanno non sono sempre i migliori»

Pier Luigi Celli. Ma a mio avviso è sbagliato il modo con cui Celli imposta il discorso. Racconta la decadenza, che esiste, ma senza inquadrare il problema nella giusta prospettiva. Insomma il dramma non è che ci sono 5mila giovani che se ne vanno ogni anno dall’Italia verso la Spagna, la Germania, l’Inghilterra. È che non ci sono 5mila giovani che ogni anno arrivano in Italia dai paesi stranieri. Non siamo attrattivi». Se ne deduce da questa riflessione di Vaciago che l’economista non è d’accordo con Celli ma nemmeno con Napolitano: «i giovani migliori restano se diventiamo attrattivi. E se siamo attrattivi non c’è nessun problema che se ne vadano 5mila giovani italiani all’anno. Siamo in un mondo globale, è normale che merci, persone, idee, circolino nel mondo scambiandosi visioni ed esperienze».

Essere attrattivi dunque, ma come? «Generando maggiore meritocrazia. A Oxford c’è un sistema meritocratico. In Italia poche istituzioni italiane hanno


società scelta, me ne sono andata negli Stati Uniti. E andarsene deve rimanere una scelta personale, non deve essere un dramma né per i padri che restano né per i figli che partono. Avviene in tutto il mondo».

stilato delle classifiche di merito e di accesso a scuole d’eccellenza come lì. Il Mit di Boston ha la maggioranza di studenti stranieri che sono i migliori del mondo: sono risorse umane, cervelli che arrivano negli Usa e li restano. L’Italia respinge i nostri bravi e non ne attira altri». Non è un Paese competitivo il nostro, soprattutto nel settore strategico della formazione: «Abbiamo una serie A, B, C nel calcio e ora nella sanità, occorrerebbe farla anche nel sistema scolastico. La riforma Gentile questa classifica l’aveva fatta: la serie A era il liceo classico, la serie B il liceo scientifico, e poi via via le altre scuole, utili e formative. Abbiamo disfatto quel mondo nel 68’ senza sostituirgli niente. Negli Usa ci sono le migliori e le peggiori università del mondo ma le tengono separate, qui le teniamo unite. Sarkozy ha indivuduato dieci università d’eccellenza, in Svezia il governo di centrodestra ha dato soldi ai migliori istituti privati per fare concorrenza alle scuole pubbliche. Noi che facciamo?».

Ci esercitiamo in pose di sprezzante decadentismo o chiamiamo all’appello i giovani per la patria. Un’impostazione che a Irene Tinagli, 34enne docente di economia all’università di Madrid, non piace per niente. «In Italia ci sono gli stessi problemi che c’erano anche 10 anni fa, quando, per

La specificità dell’Italia però è che da noi chi può parte ma non arriva nessuno. Non siamo attrattivi come dice Vaciago: «Il problema è proprio questo – dice Tinagli che alle chiusure italiane ha dedicato il libro Talento da svendere (Einaudi) – Non ci si impegna a costruire un Paese che attragga talenti o che faccia restare volentieri quelli che non possono o non vogliono partire. Stiamo con le braccia conserte a descrivere e deprecare la decadenza con toni apocalittici e rinunciatari. In altri Paesi di fronte all’avanzare di problemi drammatici si è deciso di affrontare il problema e di risolverlo. In Germania lo si è fatto con la scuola, in Spagna, dopo le recenti riforme, l’università è diventata un polo d’attrazione per molti studiosi che avevano preso i dottorati a New York o a Londra. Non voglio essere ottimista a tutti i costi, ma non ne posso più di quelli che dicono “no”, non si può fare niente perché hanno qualcosa da perdere. Ci si dovrebbe mettere in gioco tutti. Avere il coraggio di aprire la società italiana e di far emergere con politiche più liberali e incentivazioni intelligenti anche ai ceti medi e bassi dove il talento ha anche più motivazione e voglia di fare». D’altra parte l’espatrio è una via di salvezza individuale, non collettiva. «Noi abbiamo il diritto e il dovere di lavorare perché le persone abbiano possibilità di stare qui – pensa Vittorio EmaIRENE TINAGLI «Andarsene è, e deve rimanere, una scelta personale di crescita, non deve essere un dramma né per i padri né per i figli che partono. È così ovunque»

nuele Parsi, docente di relazioni internazionali alla Cattolica di Milano e membro della fondazione Italia Futura. «Un paese non può espatriare. Abbiamo il dovere di preoccuparci per tutti quelli che non hanno questa chance, che peraltro non deriva solo dal merito. Non espatriano sempre i migliori, spesso se ne vanno i privilegiati. Io ho tre figli per cui potrebbero domani potrebbero aprirsi contatti all’estero. Il problema non sono loro. Sono i miei trecento studenti che trovo in aula quando faccio lezione. A loro che dico: andate via dall’Italia?»

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Andarsene dal proprio Paese non vuol dire soltanto non amarlo

«Io, cittadina americana per assenza di rispetto» di Anna Camaiti Hostert proprio vero: parlar male dell’Italia è «un vezzo» tipico soprattutto degli intellettuali snob di questo paese. Su queste colonne Giancristiano Desiderio - rispondendo alla lettera pubblicata su Repubblica del 30 novembre con la quale Pier Luigi Celli invita il figlio a lasciare l’Italia - ha messo veramente il dito nella piaga. Ossia: «Perché gli italiani - i cattivi italiani - sono sempre gli altri?». Questo è davvero il male degli italiani che non amano prendersi le proprie responsabilità, che sono pronti a condannare gli altri ma non osservano il proprio comportamento, che non hanno senso dello Stato e pertanto neanche quel senso civico tanto comune agli individui di tutte le democrazie anglosassoni.

È

Su un marciapiede dove ci sono delle persone ferme a parlare è assai difficile che qualcuno si sposti per lasciare spazio ad altri pedoni che lì transitano, tanto che ogni individuo che si avvicina è costretto a chiedere “scusa” e “permesso” per passare, cioè per esercitare un suo diritto. Cosa assolutamente impensabile in un paese anglosassone, ad esempio, dove la parola “sorry” è usata anche se si urta una persona solo di striscio o se ci si avvicina troppo. Gli italiani invece sono in uno stato permanente di distrazione civica, (oblivious, si direbbe in inglese), secondo cui non solo non tengono contro dell’altro, ma addirittura lo considerano qualcuno che disturba la quiete del proprio gruppo, un intruso e non il componente di una comunità più ampia della quale tutti siamo parte e nei confronti del quale abbiamo l’obbligo del rispetto. Il mio vivere negli Stati Uniti gran parte dell’anno e, cosa non secondaria, la mia cittadinanza americana, rendono così evidente questa mancanza che tutte le volte che rientro devo riabituarmi ai costumi italiani: a non sorridere e a non salutare quando per la strada incrocio lo sguardo di qualcun altro. Cose secondarie, mi si dirà, in un paese dove ben altri sono i problemi, ma che rivelano la salute di una democrazia e la maturità dei suoi cittadini.

za e questa rigidità con i suoi riti e con l’arroganza dei suoi politici. E non da ora e non da una sola parte politica. Non ci sono “anime belle”. La società italiana è divenuta così incurante e, col tempo, immobile e priva di ricambio. In essa chi esercita un qualsiasi potere non vuole mai andare in pensione, non vuole lasciare lo scranno, perché dopo non può più ricevere i privilegi a cui quella posizione dava diritto e non può più disporre degli altri come faceva prima. La grandezza di una figura come quella di Cincinnato che abbiamo incontrato sui libri di scuola non ha lasciato alcuna traccia nella cultura politica di questo paese. Se i capisaldi della tradizione di un paese vivono nel tempo, il potere è transeunte e deve passare di mano in mano per permettere il ricambio assieme alla continuità. Così si perpetua la grandezza di un paese.

Quando Hannah Arendt paragonava la società romana e quella americana faceva una distinzione tra autorità e potere collocando i principi della prima rispettivamente nell’istituzione del senato romano e nella costituzione americana e quelli del secondo nelle mani dei vari leader che per un periodo di tempo esercitavano la propria funzione rispettando i principi della tradizione incarnati nella prima per poi ritirarsi a fare altro. E allora è forse da chiedersi se sia giunto il momento che dal Palazzo (ex direttori della Rai inclusi) venga l’esempio di un rispetto e di un senso civico che ormai mancano da molti decenni in Italia, un paese che viceversa dovrebbe imparare ad amare di più le proprie tradizioni, e a rispettare di più le regole che in esso vigono. Questo forse incoraggerebbe nei figli il rispetto degli altri e quindi di se stessi, e susciterebbe in essi il desiderio di rimanere immersi in una cultura che per quello che ha rappresentato nei secoli merita certamente un amore maggiore e necessita di cambiamenti strutturali che non annientino il peso della propria storia e della propria cultura. Un patrimonio che tutti ci invidiano nel mondo, di cui andare davvero orgogliosi e di cui ancora porta le tracce una parte cospicua della società infinitamente più articolata dei rappresentanti del Palazzo, ma ormai stanca di comportamenti eticamente malati. La sfida allora è quella di costruire un presente all’altezza di questa tradizione. E su questo devono riflettere sì i cittadini ricordando i loro doveri civici, ma soprattutto i rappresentanti che affollano il Palazzo e che non dovrebbero mai dimenticare di essere di esempio.

Hannah Arendt ha detto che i costumi non derivano dalle leggi ma dai leader:in questo senso,la nostra classe dirigente davvero non brilla per correttezza

La mancanza di senso civico è tuttavia un grave male di cui l’Italia soffre da molto tempo, un male che impedisce alla società italiana di progredire: e qui la distinzione che fa Desiderio, alla fine del suo articolo, tra Palazzo e società at large è molto appropriata. E anche se non è una giustificazione ai comportamenti individuali nel sociale, è stato ed è il Palazzo che ha incoraggiato questa prepoten-


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panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Essere pendolari nel paese delle automobili n treno pendolare ogni tre arriva in ritardo. Tutto sommato, se ci pensate bene, è un buon risultato. Il ritardo, infatti, è solo di cinque minuti e cinque minuti sono sopportabili. Un treno che “porta ritardo” per cinque minuti è un treno puntuale. Basta spostare in avanti le lancette dell’orologio e l’orario del treno è tranquillamente rispettato. I guai grossi arrivano quando i cinque minuti diventano dieci, poi quindici, quindi venti e via in crescendo. Ma, per fortuna, queste situazioni limite sono rare. E ciò che realmente conta nell’orario ferroviario non è la rarità, ma la media. La media è accettabile.

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Ma la ricerca fatta da Legambiente merita altre considerazioni. La campagna «Pendolaria 2009», realizzata grazie al monitoraggio effettuato dai volontari in 13 stazioni di 11 città capoluogo di provincia, tra il 23 e il 27 novembre, nella fascia oraria compresa tra le 7 e le 9 del mattino, per tre giorni consecutivi è una spia significativa per capire l’Italia. Quell’Italia dei pendolari che è un pezzo tutt’altro che piccolo del sistema-Italia. Ci si sposta in treno più di quanto si immagini, ma gli investimenti che si fanno nel trasporto su ferro sono ben al di sotto delle media degli altri Paesi europei. Eppure, proprio l’Italia, per la sua stessa conformazione sia geologica sia urbana, avrebbe bisogno di una rete ferroviaria di ben altra qualità. Sono Milano e Roma le stazioni che fanno registrare il maggior numero di ritardi. In terza posizione troviamo Palermo, con solo il 16% dei treni monitorati in orario, il 41% in ritardo di pochi minuti e il 43% in ritardo dai 5; quindi c’è Salerno (37% dei convogli con ritardi dai 5 minuti), Torino (32% dai 5 minuti) e Messina (30%). Chiude la classifica la stazione di Genova Principe, con ”solo” il 18% dei treni pendolari in ritardo di più di 5 minuti ma ben il 44% comunque fuori orario anche se entro i 5 minuti. Il ritardo medio registrato (sempre calcolato dai 5) è di 11 minuti anche se la media sale a 15 a Salerno e alla stazione di Genova Principe e a 16 a Messina. Più fortunati a Roma, Palermo, Bari e Torino, dove il ritardo medio ammonta a 9 minuti. «I risultati del nostro monitoraggio – dice Edoardo Zanchini di Legambiente - mostrano l’urgenza di nuovi investimenti. Gran parte di questi ritardi infatti, sono causati dal sovraffollamento delle carrozze che causano l’accumulo di minuti persi ad ogni fermata per permettere il flusso in entrata e in uscita degli utenti. Servono anche binari dedicati ai treni pendolari nelle grandi città e nuovi convogli che permettano di aumentare le velocità potenziando il servizio. Ma per tutto ciò, evidentemente, è necessario spostare le priorità d’investimento dalla strada alla ferrovia e puntare sui nodi urbani. Oggi invece il 70% dei finanziamenti della legge obiettivo è destinato a strade ed autostrade, mentre solo il 30% dovrebbe garantire lo sviluppo di Tav, ferrovie e metropolitane». Noi siamo il paese delle auto, mentre abbiamo bisogno dei treni.

Il tramonto di Lombardo, governatore solitario La Sicilia è appesa a un filo: il presidente non trova alleati di Marco Palombi

ROMA. Leggenda vuole che a Raffaele Lombardo non sfugga mai nulla. Per una capacità semidivina, dicono i suoi, anche in una piazza strapiena sa sempre chi ha risposto ai suoi perentori inviti via sms e chi no. Quelle presenze e quelle assenze rimunera poi di conseguenza, alternando l’algida lontananza che è la sua cifra più personale a momenti di maggiore espansività in cui si lascia andare persino a usare il “tu”: chi lo frequenta da un po’, però, sa che sono cedimenti momentanei, essendo capace di tornare all’abituale “lei” nel giro di poche ore. L’umoralità del nostro è tutta, plasticamente, in una storia anch’essa leggendaria, quella di Nino Amendolia, funzionario Inps di Riposto, un passato da calciatore locale: Amendolia nel 2006 aveva avuto l’appoggio di Lombardo per la sua ricandidatura a deputato regionale, tanto è vero che alla prima uscita della sua campagna elettorale, al cinema Golden di Catania, fu proprio il leader dell’Mpa a parlare per primo. Il futuro governatore. Però, mentre elogiava il suo protetto con la voce, con la testa fotografava le prime file, i grandi elettori di Amendolia: tempo due giorni furono tutti contattati dalla segreteria di Lombardo con la richiesta di appoggiare altri candidati. Risultato: l’ex calciatore non venne eletto (ma un paio d’anni dopo fu ripagato con una nomina nel servizio di controllo strategico).

la delle richieste di raccomandazione al governatore, scientificamente divisa per settori. Problemi, soluzioni, voti. Centinaia di files con brevi curriculum, le richieste più varie e, accanto, l’uomo più adatto a risolvere la faccenda: richieste di lavoro, avanzamenti di carriera, trasferimenti, consulenze, appalti, persino uno che voleva aiuto per un’audizione al Teatro Massimo e una signora che chiedeva di sveltire la trafila del suo trapianto. Quell’incrocio di vite bisognose con la sua, tutta quella gente “aiutata”, tecnicamente i suoi clientes, sono - insieme ad una certa spregiudicatezza nei rapporti con alleati e avversari - il capitale politico di Raffaele Lombardo, il materiale fisico di cui si nutre la campagna elettorale permanente che è il suo modo di stare nello spazio pubblico.

Sembra arrivata alla fine l’avventura per l’«autonomia» del politico-psichiatra che voleva «decuffarizzare» l’Isola

Il presidente della regione Sicilia a cui la maggioranza s’è “dissolta”tra le mani è un tipo così: attentissimo, accentratore, che ama il potere più degli strumenti del potere e si fida più dell’ansia che ispira nei suoi famigli che della loro eventuale riconoscenza. Forse l’avrà imparato durante gli studi in psichiatria (con una specializzazione in criminologia) o durante la precoce carriera iniziata nel Movimento giovanile democristiano – allora guidato da Marco Follini – o nel consiglio dell’Opera universitaria. Fu lì che si capì che tipo di politico sarebbe stato Raffaele Lombardo: era un l’uomo che risolveva i problemi. Borse di studio, posti letto, grane assortite: la gente andava da lui e lui risolveva il problema. Quei problemi, quella gente, diventavano così rapporti e, al momento opportuno, voti. Chi ne ha seguito la rapida ascesa giovanile dai salesiani al consiglio comunale di Catania fino all’odierna guida della regione - passando per i guai giudiziari degli anni Novanta - non s’è stupito quando è saltata fuori casualmente, nell’aprile 2008, la cartel-

Lavoratore instancabile, solito ricevere amici, questuanti e grandi elettori all’alba nella sua casa di via Pacini, il viceré della Sicilia orientale, il vero sindaco di Catania quando regnava il medico del Cavaliere Scapagnini, è un 59enne nato in provincia, a Grammichele per la precisione, paese detto degli“affucapatri”, degli strozzapadri. Ultimamente più che i padri, però, Lombardo ha avuto modo di strozzare una sorta di fratello. Ci si riferisce così al sanguinoso divorzio tra il nostro e il suo predecessore a palazzo d’Orleans,Totò Cuffaro, una sorta di suo negativo: espansivo quanto lui è distante, passionale quanto lui è glaciale, fautore del bacio l’uno, affezionato alla veloce stretta di mano l’altro. I due s’erano tenuti vicini per anni, entrambi discepoli com’erano di Calogero Mannino: era stato Lombardo, tanto per dire, a raccogliere lo sfogo dell’attuale senatore dell’Udc dopo la condanna di primo grado per favoreggiamento. «Dimettiti, fatti da parte e goditi un po’ di tranquillità. Per te ci vuole una bella candidatura alle nazionali», gli disse. Poi a fare il governatore ci andò lui, anche grazie a Cuffaro che fermò la candidatura di Gianfranco Miccichè insieme a Berlusconi. Arrivato a Palermo, però, Lombardo s’alleò con Miccichè iniziando la “decuffarizzazione” dell’isola. Adesso che, pur avendo spaccato il centrodestra e il centrosinistra, non ha più una maggioranza, partecipa a pensosi convegni sul “milazzismo”, nel senso di Silvio Milazzo, il democristiano che tra il ’58 e il ’59 guidò una rivolta contro il centralista Amintore Fanfani governando la regione col sostegno di Pci e Msi. Tentativo “arditissimo” lo definisce. E c’è da scommettere che un po’ parla pure del suo.


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«Un referendum in Italia sulla falsariga di quello svizzero non avrebbe senso: non ci sono nemmeno moschee»

«Non serve un islam carbonaro» Lo studioso Paolo Branca: «Il nodo è la trasparenza dei luoghi di culto, non i minareti» di Nicola Accardo

ROMA. «I musulmani in Italia possono sopravvivere senza i minareti: l’importante è non favorire un Islam carbonaro, con tutti i problemi di insicurezza che ne conseguono». Paolo Branca, islamologo dell’Università Cattolica di Milano ha appena partecipato al Convegno dei Giovani Musulmani d’Italia «ma si è parlato di problemi reali dei musulmani in Italia: i ragazzi nati in Italia, quando va bene, ottengono la cittadinanza a trent’anni». L’autore di Moschee Inquiete (Il Mulino) e Yalla Italia (Edizioni Lavoro) guarda ai altri problemi dell’integrazione e liquida il no svizzero ai minareti: «Un referendum in Italia sarebbe paradossale, perché non ci sono neppure le moschee da abbellire con i minareti». Insomma, bandire i minareti non turba la comunità musulmana? L’uomo è un animale simbolico ed è normale che la sensibilità dei musulmani ne risenta se viene toccato un simbolo. La torre risale al Medioevo, segna la presenza sul territorio. Però nella casa di Maometto non c’era un minareto, i primi sono stati costruiti a imitazione dei campanili cristiani quando nel VII secolo gli Arabi sono andati alla conquista del Mediterraneo. Il minareto non ha molto senso in Europa perché non serve a richiamare i fedeli, nelle città europee i musulmani non abitano intorno alle moschee. Non credo proprio che dopo il

no svizzero si sentano offesi. A Bruxelles dicono che quel referendum avrebbe lo stesso esito in tutta l’Europa occidentale. Credo proprio di sì. Un referendum è un barometro della sensibilità, e in Europa la diffidenza e il timore nei confronti dell’Islam si sentono ovunque. E in Italia? In Italia il referendum sui minareti sarebbe come una consultazione sugli optional

di un’automobile senza che ci sia l’automobile. È una cosa insensata perché non esistono luoghi di culto a forma di moschea. O meglio, ce ne sono tre ma a parte quella di Roma, gli altri due fanno ridere. A Segrate e a Catania i fedeli vanno a pregare nel capannone a fianco alla moschea, la capienza non supera le 500 persone... Lei immagina grandi moschee nelle principali città italiane? No, edifici di quelle dimensioni non se le potrebbero permettere né gli enti locali né le comunità musulmane. Figuriamoci i minareti! Ma c’è bisogno di luoghi di culto dignitosi, per dare visibilità all’Islam che diventa sempre più “carbonaro”. Le comunità religiose diventano poco trasparenti e quindi pericolose. E in questo senso, i simboli possono aiutare? In Europa come in Italia sul minareto si può negoziare, perché nessuno si sognerebbe di costruire una cattedrale gotica in Egitto. Allo stesso modo le nuove chiese cattoliche in Kuwait e negli Emirati Arabi sono prive di croci e campanili. Negli Stati Uniti esistono belle moschee vicino a chiese e templi di altre religioni. Qui in Europa invece c’è un problema di identità, strumentalizzato, ma bisogna tenerne conto ed è per questo che le moschee dovrebbero conservare un aspetto discreto. Ma dignitoso.

Per il docente della Cattolica di Milano bisogna affrontare il vero problema: quello della cittadinanza

Sì, e oltre al decoro aumenterebbe la sicurezza, si renderebbe l’Islam più trasparente. Si torna a parlare di guerra di simboli. Io al Convegno dei giovani musulmani presento un dato importante e sottovalutato: il 15% di loro non rinuncia all’ora di religione cattolica. È una delle tante belle notizie che i media non trasmettono. La guerra dei simboli esiste ma eviterei di ingigantirla: quando la Santanché ha dato del pedofilo a Maometto in Italia non c’è stata nessuna manifestazione di protesta da parte dei musulmani. Hanno altro a cui pensare? Genralmente pensano ad altro: per esempio al tema della cittadinanza. Le faccio un esempio: i ragazzi di origine nordafricana non possono andare in gita scolastica con i loro compagni. E perché? Sono nati in Italia ma non hanno la cittadinanza italiana, non sono maggiorenni e non possono circolare liberamente in Europa. Quando diventano grandi spesso sono costretti a iscriversi all’università anche se non studiano, perché è l’unico modo per rinnovare il permesso di soggiorno. Lo fanno tre, quattro volte poi a trenta anni riescono a ottenere la cittadinanza. È questo che crea rabbia e magari conduce anche a forme di fondamentalismo islamico: si sentono come figli ripudiati.

Affari. Grandi manovre per la compagnia telefonica in procinto di cambiare strategia in Sudamerica

Telecom non piange per l’Argentina di Alessandro D’Amato

ROMA. Telecom lascia l’Argentina per il Brasile; questo sembra il risultato del consiglio di amministrazione ordinario di ieri l’altro che, nelle dichiarazioni ufficiali, ha rappresentato solo un semplice aggiornamento sulle tematiche gestionali, come ha detto all’uscita Gabriele Galateri di Genola. Eppure quello di Telecom è difficile che sia sempre un cda normale: per l’importanza dei presenti, per le classiche «bocche cucite» all’uscita, e per tutti i nodi politici ed economici che un’azienda come il nostro ex monopolista delle comunicazioni si porta dietro. Di certo, è difficile che sei ore di riunione bastino per affrontare i temi scottanti sul piatto, ma certo molti hanno notato che i consiglieri spagnoli Cesar Alierta e Julio Linares sono usciti dalla sala riunioni molto prima dei loro colleghi italiani. E questo ha scatenato un piccolo giallo. È lo stesso statuto di Telecom, infatti, a prevedere che i rappresentanti di Telefònica debbano uscire quando nel cda si parla di Paesi dove sono presenti come parti correlate. Il pensiero è sorso subito al caso

di Telecom Argentina, che l’azienda, dopo i problemi con il governo della Plata, sembrava orientata a cedere, prima che arrivasse lo stop della famiglia Fossati, che ha dichiarato la propria contrarietà e chiesto di estromettere gli spagnoli da Telco. E dunque, se all’uscita del cda l’hanno fatta da padrone le solite dichiarazioni di prammatica, (Berardino Li-

Dopo il cda di martedì, è scoppiato il giallo della “fuga” dei soci spagnoli: in vista di un investimento in Brasile? bonati ha dichiarato «Abbiamo parlato di tutto»; «Ci sono regole precise - ha spiegato Jean Paul Fitoussi - quando parliamo di America Latina i membri di Telefonica devono uscire») ha colpito tutti un accenno fatto da Bernabé. Ossia, se la sorte di Telecom Argentina sembra davvero segnata, «ci concentriamo sul Brasile, crediamo nel business dell’Ameri-

ca Latina», ha detto l’amministratore delegato alla fine della riunione. Rimandata, invece, la decisione sulla controllata Ict, la Ssc.

Tutti gli altri problemi però sono rimasti sul piatto. Il nuovo piano industriale arriverà a febbraio, e in quella sede probabilmente si saprà che tipo di investimenti avrà stanziato il governo per l’ammodernamento della rete telefonica, che comunque i soci vogliono mantenere sotto l’alveo di Telecom, senza aprire agli altri operatori. Un buon segno, ma che non basta. Soprattutto mentre continuano a rincorrersi le voci che vogliono Mediaset all’attacco della rete. Tutto smentito ufficialmente dai protagonisti, come d’obbligo in questi casi. Ma se Telecom non si muove e non decide di prendere una direzione chiara, prima o poi i nodi verranno al pettine. Per tutti.


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Levon Aronian piace dormire sino a tardi. Ma quest’anno, verso le ore 11.00 di una mattinata d’agosto, i suoi sogni furono disturbati da un qualcosa simile ad un coro di persone che invocava il suo nome. In stato semicosciente si alzò, guardò fuori dalla finestra e vide un folto gruppo di persone fuori dal suo alloggio: «Devi vincere per l’Armenia!», urlava la folla. Nel suo paese natale Levon Aronian è una superstar: 27 anni, affascinante, di bell’aspetto, facoltoso ed il migliore del suo Paese nel gioco degli scacchi. I suoi connazionali prendono gli scacchi molto seriamente, ma l’ardore patriottico concentrato su di lui durante il torneo dello scorso agosto si è rivelato più intenso del solito. Se Aronian avesse giocato bene, un giorno avrebbe potuto laurearsi campione del mondo. L’Armenia è un piccolo, povero paese situato nella regione del Caucaso, con una popolazione di poco superiore ai 3 milioni. Ha alle spalle una lunga storia caratterizzata da spargimenti di sangue ed oppressione; quando compare nei telegiornali, di solito capita per via di un suo coinvolgimento in qualche disputa regionale. Il paese eccelle però nell’antico, cerebrale gioco degli scacchi. L’Armenia vanta 27 Grandi Maestri (Gm), il prestigioso riconoscimento conferito a circa 1.200 tra i migliori giocatori al mondo. Con più Grandi Maestri della Cina e molti in più della Russia in un rapporto pro capite, questa minuscola nazione si erge a superpotenza degli scacchi. Ma perché?

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L’estate scorsa mi sono recato a Jermuk per scoprirlo. Jermuk è un centro di villeggiatura a 100 miglia dalla capitale,Yerevan, e per due settimane in agosto il suo enorme sanatorio ha ospitato 14 dei più brillanti individui del pianeta, che si trovavano lì per partecipare ad un torneo organizzato dalla Fide, la federazione mondiale degli scacchi.

Lo Stato è così montagnoso che non c’è spazio per campi da calcio o piste di atletica. Per gli scacchi basta un semplice tavolo da gioco

il paginone

Con 3 milioni di abitanti, il Paese caucasico vanta 27 Grandi Maestri. U

Uno scacco davv L’Armenia in due millenni ha subito genocidi, invasioni e l’oppressione di molti imperi. Oggi cerca il suo riscatto con il gioco in cui «ogni pedone può diventare una regina» di David Edmonds Tra i 14 giocatori figuravano un francese, un bulgaro, un uzbeko, tre ucraini, uno statunitense, un ungherese, tre russi, un israeliano e due armeni, compreso Aronian. L’arbitro era un belga, e l’ospite d’onore - una leggenda degli scacchi di nome Svetozar Gligoric, un Grande Maestro sordo, cagionevole ed ottuagenario che girava in tuta da ginnastica - era serbo. L’età media dei giocatori oscillava per lo più sulla ventina, con pochi ad aver superato i trenta ed uno o due “anziani” che avevano varcato la soglia dei quaranta. I concorrenti erano civili l’uno con l’altro; ma in questo mondo è difficile che nascano solide amicizie. In quanto Grandi Maestri, le loro vite sono intrecciate; gareggiano negli stessi tornei sparsi per il globo. Tra una sfida e l’altra i giocatori si rincorrono nella sala da pranzo, in piscina o all’interno della sauna. Ma molti di loro consumano il proprio pasto in solitudine, o vengono affiancati solo dal rispettivo “secondo”, una sorta di coach-sparring partner che aiuta il giocatore nella preparazione alla gara. Era una questione di nervi, non solo perché si trattava di una competizione cruciale, il quinto di sei tornei che compongono il grand prix. In palio c’era un premio in denaro ma, cosa ancor più importante, il vincitore avrebbe guadagnato un posto in una gara ad eliminazione diretta per soli 8 giocatori che da la possibilità di sfidare il campione del mondo in carica, titolo attualmente detenuto dall’indiano Viswanathan Anand. Così Aronian ha sostenuto 13 gare in un colpo solo per di conseguire la più alta onorificenza del mondo degli scacchi.

Con le partite in corso, sono uscito dal sanatorio e, avvolto dalla frizzante aria di montagna, mi misi ad ascoltare i gruppi di giovani ed anziani commentare appassionatamente ogni mossa. Mi sono state proposte 64 diverse spiegazioni del perché gli armeni siano dei fuoriclasse nel gioco degli scacchi. Il passato del Paese quale semplice pedina nella scacchiera sovietica ha una qualche voce in capitolo, sebbene ciò non possa rendere conto appieno della superiorità armena rispetto ad altre nazioni un tempo

appartenenti al blocco orientale. Alcuni pongono l’accento sull’istruzione, con i tassi di alfabetizzazione armeni più alti di quelli statunitensi e britannici. Altri si ricollegano alla tradizionale creatività armena in molti ambiti, incluse la musica e la pittura. L’Armenia è povera e gli scacchi sono economici, commenta un altro. C’è poi - e questa è una spiegazione che

Tigran Petrosian (1929-84), anche conosciuto come “Tigran di Ferro”, si è laureato campione del mondo per sei volte a partire dal 1963 mi convince maggiormente - la natura individualistica del gioco. L’ambasciatore britannico, che ho incontrato successivamente a Yerevan, puntava su una spiegazione più fisica, meno astratta. L’Armenia è così montagnosa che non c’è spazio per campi da calcio o piste di atletica, invece per gli scacchi basta un semplice tavolo da gioco. Tuttavia il comprendere pienamente il successo dell’Armenia richiede un esame più attento del passato del Paese, e in particolare di un momento, circa una generazione fa, nel corso

del quale la maggior parte dei giochi mentali iniziarono ad incarnare lo spirito di un popolo soggiogato. Ci sono stati due Tigran il Grande nella storia armena. Il primo Tigran il Grande, un re armeno nato nel 140 A.C., fu un uomo aggressivo, intrepido e un mago della tattica. Due millenni più tardi venne il secondo Tigran il Grande, Tigran Petrosian (1929-84). Anche conosciuto come “Tigran di Ferro”, gode di una posizione di prestigio nel pantheon degli scacchi e si è laureato campione del mondo per sei volte a partire dal 1963. Nel 1972, quando il vivace Bobby Fischer sbaragliava i propri rivali nell’avvicinamento al leggendario scontro di coppa del mondo contro Boris Spassky, Petrosian fu l’unico in grado di batterlo, sebbene anch’egli dovette in seguito piegarsi allo statunitense. Il torneo di Jermuk in cui Aronian gareggiava era intitolato a Tigran di Ferro. Petrosian è un eroe nazionale inconsueto: nato non in Armenia, bensì a Tbilisi, capitale della vicina Georgia. In ogni caso, egli era di etnia armena, e mano a mano che la sua importanza cresceva, il popolo armeno lo elevò a simbolo nazionale. Nel 1963 scacchi ed orgoglio nazionale si fusero quando Petrosian sfidò il russo Mikhail Botvinnik.

L’incontro si svolse a Mosca, ma la folla si radunò nella piazza centrale di Yerevan dove era stata installata un’enorme scacchiera.“Levon” significa “leone” in armeno e lo stile di gioco di Aronian è conformemente audace ed avventuroso. Ma Tigran significa “tigre” in russo e sarebbe difficile immaginare un’associazione più inadatta a il gioco difensivo di Petrosian. Egli evitava i rischi e puntava ad anticipare qualsiasi attacco, a mascherare qualsiasi debolezza. Spesso ingannava il proprio avversario per poi sfruttare ogni minimo vantaggio. Tuttavia, nonostante tutta questa accortezza, il suo gioco risultava efficace e letale per l’avversario. Il campione armeno prevalse con un convincente 12,5 a 9,5: la resistenza di Botvinnik si sbriciolò di fronte ad un avversario che spostava e riposizionava magistralmente i propri pezzi. In breve, il gioco degli scacchi diven-


il paginone

Una “superpotenza” più forte di Russia e Cina

vero matto

forzate. Nel corso degli ultimi anni dell’Impero Ottomano si dibatteva su una soluzione per porre fine alla “questione armena”. I turchi ottomani consideravano gli armeni degli avidi; e sempre al popolo armeno veniva imputata l’accusa di essere dei nemici interni. Negli anni della dominazione comunista, gli armeni divennero noti per il loro acume per gli affari e la nazione diede i natali a molti tra i migliori ingegneri, matematici e scienziati dell’Unione Sovietica. Questi costituiscono naturalmente degli stereotipi normalmente attribuiti ad una minoranza o a quell’altra.

Le analogie tra ebrei ed armeni appaiono invece impressionanti. Entrambi i popoli hanno patito immani diaspore. Entrambi godono del sostegno di potenti lobbies a Washington. Entrambi si crogiolano in uno smisurato orgoglio per le conquiste del proprio gruppo etnico. Le storie di entrambi sono segnate da tragedie che hanno plasmato la loro identità. E sia Israele che l’Armenia sono piccole nazioni e giganti negli scacchi. Inoltre, la politica regionale dell’Armenia appare spesso tanto ingestibile quanto quella di Israele. Prima di essere assorbita all’interno dell’Unione Sovietica l’Armenia moderna ha potuto godere di un unico periodo di indipendenza a partire dalla fine della prima guerra mondiale. «Sin dalla sua nascita nel 1991» afferma Aram Hajian, «l’Armenia vaga alla ricerca di un’identità». Si aggiungerà un po’ di pepe alle Olimpiadi degli scacchi del 2012, che si terranno a Istanbul. Se l’Armenia dovesse prendervi parte, sfiderebbe il suo antico avversario, quella Turchia che può vantare solo due Grandi Maestri. In patria, Aronian viene paragonato alle grandi celebrità internazionali. «È il nostro David Beckham» affermò un uomo anziano, il volto come di cuoio, mentre il sole scintillava sulla sua nuca calva. E gli scacchi lo hanno reso ricco, anche se non al livello di

Le analogie tra ebrei ed armeni sono impressionanti: immani diaspore, potenti lobbies a Washington, smisurato orgoglio etnico

ne il passatempo preferito di tutta la nazione. In effetti, quando Tigran di Ferro divenne famoso, ed in particolar modo dopo il 1963, i “Tigran” si moltiplicarono. L’attuale primo ministro è un Tigran, così come il suo ministro delle Finanze. Un decennio fa il regista Tigran Xmalian girò Black & White, un film che utilizza gli scacchi per intessere un’allegoria della politica armena nel XX secolo. La pellicola include dei filmati di Petrosian ricurvo sulla scacchiera nei momenti di maggior concentrazione. Il trionfo di Petrosian diede il là ad un’ondata di nazionalismo ed ebbe effetti sul modo in cui gli armeni si relazionavano tanto

con i propri vicini russi quanto con l’episodio più cupo della loro storia.

Tutto ebbe inizio il 24 aprile 1915, quando i leader armeni vennero catturati ed assassinati a Costantinopoli (ora Istanbul). Rappresentò l’inizio di ciò che gli armeni chiamano il loro genocidio. Molti turchi respingono tale termine, sostenendo che il numero totale delle uccisioni sia stato gonfiato e che quella non divenne mai una politica ufficiale dello stato. Ma molti eminenti storici dissentono. Circa un milione e mezzo di persone furono massacrate nelle proprie abitazioni o perirono a causa delle deportazioni

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Levon Aronian, 27 anni, è considerato il David Beckam armeno. E nel 2012 si prepara a sfidare i “nemici” turchi ai campionati di Istanbul Beckham. L’Armenia è uno dei paesi più poveri tra quelli che facevano parte dell’ex Unione Sovietica.

Dopo alcuni anni con tassi di crescita a due cifre, quando per un breve periodo venne addirittura salutata come “la tigre caucasica”, la sua economia, dipendente dalle quotazioni mondiali dei metalli, implose. In occidente, un giocatore di scacchi che occupa, diciamo, la 200ª posizione del ranking mondiale, avrebbe qualche difficoltà a livello finanziario. Ma in Armenia un Grande Maestro può guadagnare tra i 40mila ed i 70mila dollari l’anno tra premi ed apparizioni varie. In aggiunta, ai Grandi Maestri che rimangono in Armenia (Aronian risiede ora in Germania) viene garantito uno stipendio corrispondente all’incirca al salario medio. Una sofisticata struttura è stata messa in piedi per far crescere le future generazioni di Aronian. A sovrintendere a tutto ciò è Serzh Sargsyan, un uomo con due presidenze a suo nome. È infatti il presidente della federazione armena di scacchi e, quando non è impegnato nell’educazione dei giovani Aronian, è anche presidente dell’Armenia. Capelli argentei ed occhi vispi, egli ha una voce stridula simile al suono di una mitragliatrice ed un curriculum quantomeno sinistro (il suo passato è legato ai servizi segreti). Per l’anno prossimo egli pianifica di inserire l’insegnamento degli scacchi nei programmi scolastici, liquidando così le critiche di quanti sostengono che il denaro dovrebbe essere destinato alla costruzione di infrastrutture ed ospedali. Egli ritiene che gli scacchi abbiano aiutato a far conoscere l’Armenia e che proprio tale gioco possa diventare il brand internazionale del Paese. Come spiega Tigran Xmalian, gli armeni amano il gioco in quanto per due millenni hanno subito attacchi, invasioni ed il giogo oppressivo di così tanti imperi. Gli scacchi offrono la salvezza, «poiché ogni pedone può diventare regina».


mondo

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Terrorismo. Esplosioni a Mogadiscio (57 morti, 4 ministri uccisi) e a Damasco, dove salta in aria un autobus di pellegrini iraniani

Gli attentati di serie B Di quanti morti abbiamo bisogno per capire che lo stragismo di al Qaeda sta continuando? di Antonio Picasso a Siria e la Somalia tornano nel mirino di quel terrorismo qaedista che il presidente Usa Obama ha definito recentemente la minaccia prioritaria da abbattere. Ieri mattina, a Damasco, un’esplosione ha coinvolto un pullman di pellegrini iraniani che si recava a pregare nella moschea di Sayda Zeinab, santuario di fondamentale rilevanza per la Shia. Inizialmente l’agenzia di stampa governativa, ha parlato di tre morti.Teheran li ha poi ridotti a due. Nel frattempo al-Jazeera ha detto che le vittime sarebbero almeno sei. Oltre ai numeri non è certa nemmeno la veridicità dell’attentato. Anzi, il ministro dell’Interno siriano, Said Sammur, ha escluso questa ipotesi, sostenendo che si sarebbe trattato di una banalissima esplosione di un pneumatico del pullman e che da questo sarebbe scaturito un semplice incidente stradale. Ben più grave il bilancio di Mogadiscio, dove l’esplosione ha ucciso 57 persone. Nell’attacco hanno perso la vita anche tre ministri del governo somalo: il responsabile del Dicastero della Sanità, Qamar Aden, quello dell’Università, Ibrahim Hassan Addow, e quello dell’Istruzione, Mohamed Abdullahi Waayel. In questo caso però non c’è nessun dubbio che si sia trattato di un attacco terroristico. Il corno d’Africa quindi si conferma essere un’area di estrema crisi che subisce la marginalizzazione rispetto ad altre regioni nel quadrante dilatato del Medio Oriente. L’episodio siriano al contrario resta sospeso tra le incertezze e le mezze verità che sono una caratteristica strutturale del regime di Damasco. È plausibile che non si sia trattato di un attentato. Come lo è altrettanto l’ipotesi contraria. Quest’ultima trova ragion d’essere nel precedente attacco alla stessa moschea, avvenuto il 27 settembre 2008. In quel caso si era trattato di un’autobomba fatta esplodere da un terrorista suicida e che aveva provocato 17 morti. Oltre al precedente storico va aggiunta la presenza, proprio ieri a Damasco, del Segretario generale del Supremo Consiglio iraniano per la Sicurezza nazionale, Said Jalili. L’alto esponente

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Una bomba fa esplodere un bus di pellegrini iraniani: chi è stato?

Siria: più che un giallo è un vaso di Pandora di Mario Arpino uemila anni fa sulla via di Damasco transitava San Paolo, che tra un fulmine e un tuono rimase folgorato dalla fede.Oggi sulla via di Damasco transitano camion, automobili e corriere. Una di queste, con targa iraniana e carica di pellegrini sciiti, con un tuono che si è udito in tutta la città è saltata in aria, con morti e feriti. Per colpa di una bomba, dicono le prime notizie delle agenzie e della televisione al Jazeera.Per colpa di un banale scoppio di una gomma, ribatte in un comunicato il ministro degli Interni siriano Said Sammur. Ma il veicolo non stava correndo, era fermo a una stazione di servizio. La Siria è una Repubblica presidenziale ereditaria, non proprio una dittatura, ma qualcosa di molto simile. Le dittature, si sà, non ammettono che nel loro ordine perfetto possano insorgere eventi che lo turbino, tanto che, se c’è, lo negano. Il ministro non deve quindi destare meraviglia. Ha seguito una prassi. Questo, tuttavia, non può impedire congetture, e il fatto che“l’incidente”sia accaduto in una località mediorientale apre un vero vaso di Pandora. Sono posti, quelli, dove può accadere di tutto, senza che nessuno capisca bene perché. Scartiamo per il momento lo scoppio accidentale del pneumatico a veicolo fermo - e formuliamo qualche ipotesi più seria. Se è stato un attentato con esplosivo, in tutto il mondo, e a maggior ragione in Siria, la motivazione va ricercata tra il gesto di un folle, una vendetta mafiosa, una intolleranza religiosa, un atto di lotta politica o una guerra di potere. Scartate le prime due ipotesi, soffermiamoci sulla terza. Del regime siriano si può dire di tutto, ma sotto questo profilo è tollerante e la libertà di culto è garantita

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in ciascuno dei quattordici governatorati. Più problemi potrebbero dare eventuali rivalità tra le variegate comunità musulmane. Queste sono per il 61 per cento sunnite, 20 per cento alauite, 6 per cento druse e solo meno del 3 per cento sciite. Una lente di ingrandimento andrebbe messa sugli alauiti, che, pur essendo minoranza, godono di uno status particolare. La Costituzione prevede che il presidente sia sempre musulmano, e la famiglia Assad, al potere dal 1970, è di estrazione alauita, come le alte gerarchie delle forze armate.Gli alauiti ritengono di essere musulmani sciiti, ed infatti fanno risalire la loro origine ad Alì, l’11°Imam. C’è però un problema. Anzi, due. La stragrande maggioranza dei musulmani - sunniti o sciiti che siano - tende a non riconoscere gli alauiti come veri musulmani, considerandoli per cultura, abitudini e modello di vita alla stregua degli apostati. Il che, in quel mondo, è grave. Il secondo problema è che molti alauiti, nel regime laicista siriano, stanno perdendo la loro identità, avendo studiato su testi ed in scuole sunnite. In effetti, in un guazzabuglio del genere ed in un momento di forte rinascita dell’integralismo islamico,non ci sarebbe proprio da meravigliarsi se ogni tanto per il momento raramente - ci scappa un attentato. Ma, se di attentato davvero si tratta, è più probabile che possa essere di ignota origine politica. Certo è che l’invadenza iraniana, a prescindere dal rapporto preferenziale sinora sempre tenuto dal regime, comincia ad essere indigesta a molti, e forse anche alla famiglia Assad. Forse, lo “scoppio della gomma”avvenuto proprio mentre c’è in visita a Damasco il segretario generale del Consiglio Supremo iraniano, non è un caso.

del regime di Teheran si sarebbe dovuto incontrare con il ministro degli Esteri siriano, Walid Moallem. Guarda caso però, in seguito al presunto attentato, si è deciso di cancellare il vertice bilaterale.

Seguendo il filone del terrorismo in Siria, il fatto di ieri andrebbe ricondotto alla costante tensione interna alla popolazione, tra la maggioranza sunnita (74% dei 20 milioni totali di abitanti) e l’esigua minoranza alawita al governo, a sua volta sostenuta dagli sciiti. Queste due confessioni insieme costituiscono solo il 16% della popolazione. L’incertezza dell’attentato e la fase di transizione politica che sta attraversando la Siria in questo momento

solutamente impossibili da controllare, potrebbero essere penetrati da miliziani sunniti vicini ad al-Qaeda, in fuga dalle autorità di Baghdad, oppure impegnati a destabilizzare il regime di Bashar el-Assad. In tutti i casi si tratterebbe di uno scontro tra le frange più estreme sunnite, contro gli alawiti, ma il cui vero obiettivo sono gli sciiti. È una tattica contorta che potrebbe portare a conseguenze anche controproducenti nel processo di riammissione della Siria nella diplomazia internazionale; e per ultimo nel confronto con Israele. Sentendosi attaccata, Damasco potrebbe volgere nuovamente lo sguardo a Teheran, chiedendole aiuto. Come si vede, quando si parla della Siria, le possibilità ap-

L’attenzione del mondo oggi è rivolta altrove: all’Afghanistan e all’Iran. Seguendo la logica qaedista, questa è l’occasione migliore per entrare in azione in aree dove il livello di allerta è basso lasciano in sospeso ulteriori domande su chi possa esserne stato l’autore. In occasione del caso precedente, nel settembre 2008, le autorità governative avevano paventato il timore di un’infiltrazione di gruppi vicini ad al-Qaeda, entranti in Siria dall’Iraq oppure dal Libano. Per la prima volta il regime Baath ammetteva l’eventualità di simili fenomeni nel suo Paese. Se ieri si fosse ripetuta la medesima trama - escludendo quindi l’incidente casuale - si potrebbe pensare ad alcuni elementi jihadisti-salafiti che attaccano lo sciismo nei suoi punti più deboli. Fatah alIslam, la componente terroristica e scismatica di origine palestinese che aveva tenuto sotto scacco il Libano nell’estate del 2007, sarebbe un più che valido sospetto. Altrettanto dall’Iraq, i cui confini con la Siria sono as-

paiono tutte accettabili. Quella che sembra essere più sicura, invece, è la scelta del momento in cui attaccare Damasco come pure Mogadiscio. L’attenzione del mondo oggi è rivolta altrove: all’Afghanistan e all’Iran. Seguendo la logica di al-Qaeda, questa è l’occasione migliore per entrare in azione nelle aree dove il livello di allerta è decisamente basso. Il caso della Somalia è esemplare. Lo stato fallito di Mogadiscio è precipitato in un vortice di violenze che la comunità internazionale né sa né al momento intende affrontare. Nella sua marginalità, comunque relativa, la Siria diventa a sua volta un altro facile proscenio per il terrorismo. Sono le aree dimenticate ma comunque instabili a diventare i nuovi target di al-Qaeda. Perché la concentrazione è altrove e quindi lì è facile intervenire.


mondo

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Intervista (ai limiti del surreale) con Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto Affari Internazionali

Troppi massacri non fanno audience di Luisa Arezzo innegabile. Di fronte alle decine di attenati che quotidianamente al Qaeda realizza nelle aree più instabili del pianeta, solo alcuni di essi riescono a bucare la coltre di assuefazione dei giornali e trovare la dignità di uno spazio adeguato. Come se, in un improbabile e cinico calcolo, la vita di 30 civili pachistani o algerini contasse meno di quella degli occidentali. Abbiamo chiesto al presidente dello Iai, Stefano Silvestri, se condivide questa triste percezione. «Diciamo che l’atto terroristico ha il fine di attirare l’attenzione e che sotto questo profilo, più sono le vittime e forte l’attentato, più l’obiettivo è centrato. La loro è un’azione di propaganda e in questo senso sfruttano i media, che a loro volta seguono la logica della notizia. Dunque un fatto grosso andrà sui giornali. È se gli attentati sono continui, non trova che si perda l’interesse a seguirli? Sì. Benché devastanti, se troppo ravvicinati non fanno più notizia e l’impatto terroristico è minore. Rimangono le vittime ma non la propagazione attraverso i giornali. Ma non dire che ci sono morti che fanno più notizia di altri. Perà quando in Iraq la presenza occidentale era forte, gli articoli erano continui. Adesso che ci stiamo ritirando, se ne parla di meno. Ma non per questo la situazione è meno critica. Ma questo è dovuto al fatto che buona parte delle agenzie di stampa e dei giornalisti sono occidentali. Se questi diminuiscono, c’è meno materiale. Daniel Pipes ha scritto su “liberal” che la volontà stragista di al Qaeda sta lasciando il passo a quella politica. L’azione di-

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Alcune persone cercano di soccorerre la vittima di un attentato di matrice qaedista. Soltanto ieri, in Somalia, un kamikaze si è fatto esplodere durante una festa di laurea uccidendo oltre 57 persone, fra cui 4 ministri

plomatica, isnomma, renderebbe più di un attentato. Purtuttavia i morti non cessano affatto. Indubbiamente ci sono dei gruppi terroristici che devono aver pensato (e in Iraq questo sviluppo era evidente), che continuare a massacrare la popolazione accresceva la forza dei loro avversari ed era controproducente. Ma è un ragionamento sofisticato che il terrorista rararamete fa perché pensa che anche il rifiuto della popolazione e la paura della gente è un successo. In Iraq è stta presa in considerazione perché c’era una lotta intestina al vertice di al Qaeda e le due fazioni in lotta hanno dovuto fare i conti fra loro, ma non sopravvaluterei questa teoria, perché l’idea che la strage ha più effetto dell’uccisione mirata o dell’atteggiamento più pacifico è ben sedimentata all’interno della logica terroristica. Può avvenire in alcuni momenti, è successo alle Brigate Rosse quando stavano perdendo consenso e erano sull’orlo della sconfitta, poi però sono tornate ad uccidere anche quando erano un gruppuscolo isolato. Direi che sono delle fasi in seno alle organizzazioni terroristiche che possono essere influen-

zate dal tipo di successo che stanno avendo. È una macabra calssifica, lo so. Ma a volte sembra che la vita di un africano o un cinese - in termini mediatici ovviamente abbia meno valore di quella di un occidentale. Non trova che ci sia un cinismo di questo tipo? Sì. Ma è colpa dei media non dei terroristi. Se muore un italiano in Africa tutti ne parleranno, mentre se muoiono 5 cittadini pakistani (e in genere sono di più) allora si ricorre a logiche diverse: è la guerra civile in Pakistan. Nell’ottica di chi fa un giornale, sono meno significative. È un mercato. Niente di più. C’è chi pensava che con Obama finisse il terrorismo più virulento. Non è così, ma però se ne parla di meno... Le parole di Obama, da un punto di vista ideologico, sono rivolte alle popolazioni e non certo ai terroristi. La sua è una sfida mediatica alla ricerca del consenso. Però siccome parliamo di paesi islamici, del Terzo mondo e non dell’Europa, è evidente che i suoi appelli restano confinati in Occidente mentre gli attentati incidono nella vita quotidiana delle persone. Per avere successo, dovrebbe riuscire a trasformare le sue parole in azioni concrete all’interno di quei paesi.

«Esiste un cinismo mediatico per cui la vita di venti pachistani vale meno di quella di un europeo. È aberrante, certo, ma è il mercato»

Sono centinaia di migliaia le persone che, nel silenzio, muoiono ogni anno in nome di una qualche ideologia

India, Somalia, Algeria: le stragi che non ti aspetti di Osvaldo Baldacci n mondo esplosivo, purtroppo. Il terrorismo continua a mietere centinaia di vittime e a destabilizzare intere nazioni, anche se i media occidentali hanno abbassato l’attenzione. La bomba di ieri a Mogadiscio che ha colpito il governo somalo e l’esplosione sospetta a Damasco sono solo due episodi - gravi - all’interno di un elenco quotidiano di attentati che colpiscono dall’Africa all’Asia lontano dai riflettori. L’esempio più clamoroso è l’Iraq, dove ogni episodio veniva drammatizzato quando era massiccia la presenza delle forze occidentali. Oggi sembra quasi che il Paese sia pacificato, ma purtroppo non è così. Attacchi e morti continuano ad essere quotidiani, con soprattutto nel mirino le minoranze come i cristiani. Anche di recente si sono verificati un paio di attentati maggiori che hanno conquistato qualche riga di cronaca. Basti ricordare che novembre è stato uno dei mesi con meno vittime, cioè“solo”88 civili, 12 soldati e 22 poliziotti. Nello stesso periodo, 38 insorti sono stati uccisi e 510 cattura-

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ti. È di 3.114 il bilancio delle vittime irachene nei primi undici mesi del 2009, la metà di quelle registrate nel 2008. Proprio ieri sette persone sono morte per l’esplosione di una bomba a Tikrit, fra cui il capo dell’anti-terrorismo della provincia di Salaheddin. Per restare in teatri di guerre note, un po’ di visibilità ce l’hanno gli attentati in Afghanistan e in Pakistan, ma non c’è certo la percezione di quanto sia grave la situazione soprattutto nelle aree del nord del Paki-

caso delle Filippine: nel sud operano diversi gruppi indipendentisti islamici, da quelli moderati ad Abu Sayyaf, legata ad al-Qaeda, che compiono quotidiane azioni di sangue, attentati ai mercati, bombe contro le istituzioni.

Di pochi giorni fa la strage di decine di politici e giornalisti, ma sembra che sia stato un regolamento di conti tra milizie ordinato da un politico locale. Sempre nel sud-est asiatico altra zona calda è la Thailandia del sud, anche qui con attentati dei secessionisti islamici e le reazioni degli estremisti buddisti. Resta alta la tensione nello Sri Lanka, nonostante la vittoriosa offensiva militare governativa contro i Tamil. Quotidiane poi le violenze nel Caucaso russo: Cecenia, Daghestan, Inguscezia e altre regioni senza pace. Per strano che sembri gli ultimi mesi sono stati più tranquilli in Medio Oriente: non che non si siano verificati attacchi in Israele/Palestina, Libano, Arabia Saudita, Egitto e dintorni: solo che rispetto al solito la situazione è meno pesan-

L’Africa è il continente dove si muore più spesso e nell’indifferenza. In Algeria la lotta tra governo ed estremisti vede bombe e proiettili seminare vittime ogni giorno stan. L’India è un’altra nazione di cui si parla poco: è appena trascorso un anno dai macroscopici attentati di Bombay, ma si sottovaluta lo stillicidio quotidiano di scontri e attentati che quotidianamente scuotono il subcontinente: dal Kashmir ai secessionisti di alcuni stati, dai ribelli maoisti alla criminalità organizzata, dagli estremisti indù a quelli islamici. D’altro canto sono molti i Paesi dove guerriglia e terrorismo si mescolano. In Asia si potrebbe ricordare il

te. Non così in Yemen, alle prese con un paio di grosse rivolte armate e una forte presenza qaedista che ovviamente hanno anche i loro riflessi terroristici. Ma è soprattutto l’Africa il continente dove si muore nell’indifferenza anche nel caso del terrorismo. Due esempi su tutti. La Somalia, ieri agli onori delle cronache ma totalmente dimenticata nelle continue violenze che mietono vittime quotidiane e rendono invivibile il Paese. Non a caso è recente l’allarme che leader di al Qaeda starebbero progettando di spostarsi qui. Altro caso è l’Algeria e le zone sahariane circostanti. La lotta tra governo ed estremisti islamici vede bombe e proiettili seminare morti tutti i giorni, mentre al sud, verso il Mali, negli ultimi tempi sono stati rapiti alcuni francesi e spagnoli. Infine non dimentichiamo l’Occidente: nell’ultimo paio di mesi ci sono stati allarmi terrorismo e arresti di sospetti in Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti (sono 400 mila i nomi nella famosa lista dei most wanted). E nessuno parla della Grecia, dove non c’entra la jihad quanto piuttosto gli anarchici, ma gli attentati sono quotidiani.


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Russia. Quattro ore di diretta per un milione e mezzo di domande tate tranquilli», non me ne vado. Così Vladimir Putin, ieri, ha risposto al popolo russo in diretta tv. Il premier, 57 anni, ha dichiarato che «rifletterà» sull’ipotesi di presentarsi alle presidenziali del 2010. L’ottava edizione di Una conversazione con Vladimir Putin, ha mostrato il premier in gran forma e molto fiducioso, dopo la performance dello scorso anno, sottotono a causa della crisi. In un apposito studio tv, alla presenza di invitati selezionati, il premier ha commentato a 360 gradi. Tutte le domande sono state concordate prima e l’accesso allo studio moscovita così come ad altre location in collegamento è stato riservato solo agli invitati. I giornalisti, naturalmente, non sono stati ammessi. Forse avrebbero frenato il sense of humor che Putin ama sfoggiare in queste occasioni. Più di 1,6 milioni di domande sono arrivate al call center, via email e sms. La maggior parte ha posto interrogativi sulla sicurezza sociale e le condizioni della popolazione. Molti si sono lamentati dei problemi in materia di alloggi e servizi di pubblica utilità.

«S

Lotta alla volgarità dei nuovi ricchi, entrata nel Wto, stato della crisi economica e terrorismo ceceno. Sono questi alcuni degli argomenti principali trattati dal premier durante l’intervento televisivo. Gli oligarchi che vogliono «mostrare la loro ricchezza» all’estero sono uno dei «mali» della Russia. Lo ha detto il premier russo Vladimir Putin, nel suo “botta e risposta”, rispondendo alla domanda di un telespettatore che gli chiedeva come mai i ricchi russi portano i soldi in Svizzera e sgommano con le loro Lamborghini all’estero, invece di

Il grande fratello Putin ripensa al Cremlino Il primo ministro su crisi, Wto e terrorismo in una pantomima tv senza giornalisti di Pierre Chiartano

esclude l’ingresso nell’Organizzazione «individualmente» per Mosca, ma dovranno entrare progressivamente anche Bielorussia e Kazakistan, con le quali Mosca ha appena siglato l’unione doganale. Putin ha inoltre sottolineato che esistono ancora degli ostacoli per l’ingresso che non dipendono da Mosca, come l’emendamento

Il premier ha dichiarato che gli oligarchi che vogliono «mostrare la loro ricchezza» all’estero sono uno dei «mali» della Russia investire nel loro Paese. Putin ha fatto il paragone con quelli che si mettono «i denti d’oro» per far capire che hanno fatto i soldi. Mosca ha l’impressione che l’entrata della Russia nella World Trade Organization «sia ostacolata da alcuni Paesi, compresi gli Stati Uniti». Uno dei passaggi chiave in cui Putin ha mandato messaggi espliciti alla Casa Bianca. Per la Russia «l’ingresso nel Wto resta uno degli obiettivi» ma «per noi la priorità è l’integrazione nello spazio ex sovietico» ha aggiunto Putin che non

Jackson-Vanik alla legge statunitense. «È un anacronismo» ha spiegato in riferimento al provvedimento Usa approvato nel 1974, ai tempi dell’Urss che tuttora pone delle limitazioni agli scambi russo-americani e resta in vigore «non capisco neppure io perché», ha affermato un premier stupefatto. Nel 1974 infatti, un emendamento dei senatori Jackson e Vanik alla legge 10710, riguardante le strategie commerciali statunitensi, venne approvato dal Senato: l’emendamento, stabiliva che la clausola di na-

Medvedev a Roma, siglati accordi industriali

E Finmeccanica va in Russia Il presidente russo Dmitri Medvedev, a Roma per il forum russo-italiano, ieri ha risposto al suo primo ministro Vladimir Putin, che non ha escluso una sua possibile ricandidatura alla presidenza della Federazione russa. «Neanch’io la escludo», ha affermato Medvedev rispondendo a una domanda di un giornalista italiano. «Noi lavoriamo vicini – ha poi precisato – e ci metteremo d’accordo per una soluzione ragionevole». Il premier Berlusconi ha poi testimoniato i buoni rapporti tra i due leader russi «tra di loro c’è stima, apprezzamento e grande affetto». La nota più importante del vertice è stata la firma di un agreement of intent tra Finmeccanica e Russian Technologies State Corporation che prevede la possibile costituzione di una

joint venture per la realizzazione di sistemi civili di sicurezza. L`accordo è stato siglato nell`ambito del vertice da Pier Francesco Guarguaglini, presidente e amministratore delegato di Finmeccanica e da Sergey Viktorovich Chemezov, direttore generale di Rtsc, alla presenza del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e del presidente della Federazione Russa Dmitry Medvedev. Oltre alla possibilità di produrre sistemi di sicurezza per fare fronte a eventuali minacce terroristiche (tramite una join tra l’italiana Selex e le russe Jsc e Scartel) si è firmato un analogo documento col governatorato di San Pietroburgo. Si tratterà sviluppare una collaborazione di lungo termine nel settore dei trasporti tramite il gruppo Ansaldo-Breda.

zione più favorita non poteva essere concessa a quei Paesi dai quali non era possibile emigrare liberamente. In primis l’Unione Sovietica. Già George W. Bush e successivamente Obama sembravano propensi a cancellare l’emendamento.

Dal versante economico, invece, Putin ha cercato di ridimensionare le preoccupazioni che solcano il Paese, investito dalla minaccia dei licenziamenti di massa nella grande industria. Per la Russia il calo del Pil nel 2009 sarà pari all’8,7 per cento, e la caduta della produzione fino al 13 per cento. Ma i russi «credono nello sviluppo positivo del Paese (...) e le riserve monetarie e in oro della Russia sono le terze al mondo, dopo la Cina e il Giappone». Insomma per il nuovo zar Mosca riuscirà a uscire dalla crisi economica globale, chiudendo l’anno con un’inflazione al 9 per cento. Inferiore alle previsioni. Sul crollo economico del 2009, non ha negato la botta, pur specificando che negli ultimi mesi la crescita economica media è stata del 0,5 per cento al mese. Augurandosi che «a metà dell’anno prossimo, questi indicatori di sviluppo siano più significativi». Al tempo stesso, Putin non ha escluso che nel primo e secondo trimestre dell’anno prossimo, la crisi morderà ancora. Il premier russo ha cercato di offrire un quadro più rassicurante della situazione generale, specificando che anche il problema del calo demografico ora è in controtendenza: «con tempi da record sta aumentando la natalità del 3 per cento. E la mortalità sta calando». Sull’attentato al treno Mosca-Pietroburgo, avvenuto sabato scorso ha affermato che l’episodio «dimostra che il controllo» dei servizi di intelligence e della polizia «deve essere rafforzato». Come se quello già esistente che costringe al quasi silenzio la stampa indipendente non bastasse. Putin ritiene dunque che il terrorismo nel Paese non sia stato ancora sconfitto e dichiara la necessità di «agire con fermezza» per combatterlo. «Abbiamo detto che la minaccia è sempre alta. In tutto il mondo va avanti la lotta al terrorismo. Il nostro Paese è stato una delle vittime più colpite dal terrorismo. Serve che tutta la società se ne renda conto. Bisogna condurre un ampio lavoro di prevenzione. Molto difficile soprattutto quando gli obiettivi (dei terroristi) sono le infrastrutture, difficili da proteggere soprattutto per il nostro enorme Paese».


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Domenica 5 milioni al voto per eleggere il presidente

Oggi a Bruxelles vertice degli alleati con Hillary Clinton

Il populista Evo Morales grande favorito in Bolivia

Allarme Nato: chi addestra la polizia dell’Afghanistan?

LA PAZ. Evo Morales è il grande

BRUXELLES. Venti paesi che

favorito delle elezioni presidenziali boliviane che si svolgeranno - insieme alle politiche - domenica: per il capo di Stato uscente non si esclude una vittoria al primo turno, dato che i sondaggi lo danno fra il 52 per cento e il 54 per cento delle preferenze; oltre trenta punti percentuali di vantaggio sul suo principale rivale, l’ex governatore della Cochambamba Manfred Reyes. A tre giorni dalle consultazioni - cinque milioni gli aventi diritto al voto - anche la situazione nel Paese sembra più calma rispetto ad appena un anno fa, quando i contrasti fra il governo centrale e i movimenti autonomisti delle province occidentali - le più prospere - fecero temere il rischio di una guerra civile.

partecipano alla missione internazionale di sicurezza in Afghanistan (Isaf) hanno dato ieri «una forte indicazione» sull’intenzione di aumentare le loro truppe in Afghanistan e al momento i rinforzi ipotizzati «sono oltre la cifra di 5mila soldati». Lo ha detto ieri il portavoce della Nato, James Appathurai, prima dell’avvio della ministeriale esteri dell’Alleanza, che oggi entra nel vivo con la riunione dei 28 ministri degli Esteri della Nato, alla presenza del segretario di Stato Usa Hillary Clinton. Da parte degli alleati e

Da allora Morales è riuscito a far approvare un referendum di riforma costituzionale (con il 62 per cento dei voti) ancora in attesa di ratifica parlamentare ed a resistere all’impatto della crisi finanziaria globale; anzi, nonostante le sue credenziali decisamente antiliberiste, il Presidente ha ricevuto gli elogi del Fondo Monetario Internazionale per una «politica macro-economica giudiziosa e ortodossa» di controllo della spesa pubblica. Nonostante l’abbondanza di risorse e il tasso di crescita maggiore del

Svolta democristiana di Cameron e Tories? Ispiratore del modello “centrista” è il teologo Phillip Blond di Lorenzo Biondi ino a pochi mesi fa Phillip Blond era uno sconosciuto docente di teologia all’Università di Nottingham. Oggi c’è chi lo considera stretto collaboratore di David Cameron, e ispiratore della svolta «centrista» dei Tories. Magari è solo un fuoco di paglia e il suo «Red Torism» avrà vita breve. Ma in un momento in cui tutti cercano di capire che faccia avrà il prossimo governo di Sua Maestà, sembra che Blond possa essere il contrappeso «moderato» per quell’ala dei conservatori che sogna un ritorno all’austerità thatcheriana. La strada che porta dalla cattedra di teologia di un’università di provincia al palcoscenico londinese della politica, a quanto pare, è piuttosto breve. Poco meno di un anno fa il think-tank Demos, in passato schierato col New Labour di Tony Blair, convocava il cattedratico a presiedere un progetto sul «Conserservatorismo progressista». In breve il professore seduce la platea politica della capitale, racimola un milione e mezzo di sterline per finanziare il progetto e lancia un nuovo «pensatoio», ResPublica, presentato pochi giorni fa da Cameron in persona. In realtà le idee di Blond non sono particolarmente nuove, anzi guardano al passato. Cattolico convertito alla corrente «filo-romana» della Chiesa anglicana, il Red Tory – come lo stesso Blond definisce se stesso – propone un misto di anti-statalismo e dottrina sociale dei Papi.

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be retto agli scontri della campagna elettorale. Adesso Blond regala al 44enne leader tory la possibilità di darsi un tono, appoggiandosi a grandi nomi del passato – da sant’Agostino a Gilbert Chesterton.

La società britannica è in crisi, spiega Blond, perché è stata schiacciata tra uno Stato troppo invasivo e un mercato senza regole. Il welfare sovradimensionato ha distrutto la vitalità dei «corpi intermedi»: le associazioni benefiche, le Chiese, le scuole private, le cooperative. Lo stesso effetto è stato prodotto però anche dal capitalismo incontrollato degli anni della Thatcher, con la crescita dei grandi monopoli privati che hanno soffocato le piccole imprese. Sono mesi che David Cameron si appoggia, qua e là nei suoi discorsi, alle idee del Red Tory. L’aspirante premier aveva bisogno di un «filosofo di corte». La sua retorica del conservatorismo «compassionevole» rischiava di rimanere una bella trovata pubblicitaria, che però non avreb-

Al congresso conservatore di Manchester, in ottobre, Cameron aveva annunciato la linea: meno Stato, più responsabilità. Poche settimane dopo era arrivata la seconda parte della dottrina cameroniana: al big State laburista bisogna contrapporre l’idea di una big Society. Ma per ricostruire la struttura sociale in crisi dopo l’era del Labour – ammetteva Cameron – è necessario l’azione del governo. In caso di vittoria conservatrice Cameron promette di riavvicinare il potere alle persone, attraverso le comunità locali, i gruppi di quartiere, le associazioni dei genitori nelle scuole. Nella patria del laissez-faire economico le parole di Cameron hanno destato qualche perplessità. Qualcuno ha fatto notare che, più che un conservatore britannico, sembrava di ascoltare un democristiano dell’Europa continentale. Quasi un insulto qui nel Regno Unito. Cameron vuole evitare che il ritorno al potere dei conservatori possa essere presentato – dai laburisti in campagna elettorale – come il ritorno della Lady di Ferro. Il ricordo degli scioperi e dell’austerità è ancora troppo vivo nel pubblico britannico. Ma con la crisi economica e il debito pubblico ai suoi massimi storici, il cancelliere ombra George Osborne ha dovuto ribadire più volte che sarà necessaria una politica di tagli e di rigore. Che il debito pubblico non risolva la crisi, a Londra, è opinione comune per l’uomo della strada. Ma in molti temono di perdere i sussidi di Stato o di dover pagare di più per la scuola dei figli. Forse è anche per questo che le percentuali dei Tories nei sondaggi sono in lieve calo, e sembrano non riuscire più a sfondare la soglia del 40 per cento. Rischiando di non ottenere la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Cameron allora ha bisogno di rassicurare i ceti più deboli. Tra thatcheriani e moderati, la fisionomia dei New Conservatives è ancora tutta di disegnare.

Cattolico convertito alla corrente romana della Chiesa anglicana, Blond è un misto di anti-statalismo e dottrina sociale

continente (il 3,2 per cento stimato per il 2009), la Bolivia rimane uno dei Paesi dove le disuguaglianze sociali sono più profonde (con oltre il 60% della popolazione sotto la soglia della povertà) e maggiormente dipendenti dagli investimenti esteri, soprattutto dell’alleato venezuelano. Per poter sperare in un mandato senza sofferenze parlamentari e poter dunque far ratificare la nuova Costituzione indigenista e laica Morales deve tuttavia sperare che il suo ”Movimento per il socialismo” (Mas) conquisti anche il controllo del Senato, attualmente nelle mani dell’opposizione: stando ai sondaggi, si troverebbe a soli due seggi dalla maggioranza necessaria di due terzi.

dei partner «c’è una sostanziale dimostrazione di unità e di volontà a sostenere la richiesta del presidente Usa, Barack Obama», ha affermato Appathurai. Tra i paesi che hanno annunciato, o stanno per farlo, rinforzi, figurano la Gran Bretagna con 500 uomini, la Polonia con 600, la Spagna con 220, la Repubblica Ceca con 100, la Slovacchia con 250, e, tra i Paesi non Nato, la Georgia con mille. L’Italia dovrebbe partecipare con mille uomini, ma non vi sono certezze. Il portavoce, tuttavia, ha avvertito che «abbiamo ancora importanti lacune quando per quanto riguarda gli addestratori per l’esercito e quelli per la polizia».

Come ha spiegato il portavoce di Isaf a Bruxelles, il generale Eric Tremblay, al momento l’Isaf, la missione a guida Nato, dispone di 62 squadre di addestramento militare sulle 103 necessarie, e soltanto 16 squadre di addestramento della polizia sulle 180 richieste. «Se non riusciremo a fornire le necessarie risorse alla missione di addestramento in Afghanistan – ha avvertito Tremblay – sarà più difficile trasformare in realtà la transizione nei tempi che abbiamo previsto». L’obiettivo della Nato e degli Usa in Afghanistan, in effetti, è di riuscire a trasferire progressivamente le responsabilità della sicurezza dalle forze internazionali a quelle locale.


cultura

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Tra gli scaffali. Lo storico americano David Clay Large ricostruisce in un saggio l’enorme peso politico che quella manifestazione sportiva ebbe per il mondo

Le Olimpiadi della viltà Berlino, anno 1936: tutte le colpe di un Occidente miope che ignorò il pericolo nazista partecipando ai Giochi di Massimo Tosti distanza di oltre settant’anni, di quella Olimpiade sono rimasti impressi nella memoria soltanto alcuni fotogrammi: i trionfi di Jesse Owens, l’atleta di colore che mortificò le teorie di Hitler sulla superiorità della razza ariana; le bandiere con le svastiche alternate a quelle con i cinque cerchi; il fllm di Leni Riefenstahl, la regista amica del Fuhrer; lo spettacolo e le scenografie “militarizzate” dello stadio di Berlino. E - per noi italiani - la medaglia d’oro di Ondina (all’anagrafe Trebisonda) Valla negli ottanta metri ostacoli: la prima conquistata da un’atleta azzurra ai Giochi Olimpici. Berlino non fu soltanto questo: fu molto di più. Fu l’occasione persa dalle democrazie occidentali per mostrare i muscoli con il neonato regime nazista, che si stava già macchiando di reati contro l’umanità. Nei due o tre anni precedenti, si erano levate molte voci autorevoli che proponevano di boicottare i Giochi, ma alla fine prevalse la scelta di chi riteneva (erroneamente) che la partecipazione avrebbe finito per indurre Hitler alla moderazione. Lo stesso errore commesso (due anni dopo) da Daladier e Chamberlain alla Conferenza di Monaco. I continui cedimenti (l’appeasement, per ricordare il vocabolo coniato nell’occasione) delle Potenze Occidentali ottennero - come unico risultato di convincere il dittatore della debolezza altrui, e della propria forza.

A

«La dittatura nazista era ancora in fase di formazione», sottolinea lo storico David Clay Large, «nonostante i poteri dittatoriali conferiti a Hitler e le purghe degli oppositori politici». Il ragionamento si fonda su dati di fatto: «Nelle ultime elezioni parlamentari del 1933, i nazisti non erano riusciti, anche con tutte le intimidazioni

nei confronti dei votanti, a ottenere la maggioranza assoluta, e la percentuale con la quale avevano vinto era stata del 49,6 per cento su tutto il Paese, e a Berlino solo del 34,6 per cento. Gli effetti della Grande depres-

Fu l’occasione persa dalle democrazie per mostrare i muscoli con il neonato regime, già al tempo macchiato di reati contro l’umanità

sione erano tuttora evidenti, e la disoccupazione si manteneva ancora su livelli alti. I rapporti segreti compilati dal partito nazista e dalla polizia regionale documentavano una notevole insoddisfazione tra la popolazione a causa della disoccupazione e della carenza di beni di consumo. Molta gente comune temeva anche che il programma di riarmo di Hitler avrebbe trascinato il Paese in una nuova guerra». E conduce a una doppia conclusione: «I Giochi olimpici erano importanti per i nazisti perché, se avesse avuto successo nell’organizzare la manifestazione, il Reich avrebbe dimostrato di

essere una nazione pacifica, sulla strada del progresso economico in patria e degna de rispetto delle altre nazioni. Decidendo di intervenire a Berlino nonostante tutte le riserve sulle decisioni politiche di Hitler, le democrazie del mondo persero una preziosa occasione per minare il prestigio del regime non solo agli occhi del mondo, ma anche - e fatto in ultima analisi assai più importante - agli occhi degli stessi tedeschi».

Questa lunga citazione è tratta da Le Olimpiadi dei nazisti Berlino 1936, un ponderoso saggio dello storico americano (Corbaccio editore, euro 26, 496 pagine) che ha il merito di sottolineare l’enorme peso politico che quella manifestazione sportiva ebbe. Tutto quel che accadde negli anni seguenti (dall’invasione della Cecoslovacchia e della Polonia alla immane tragedia della guerra e allo sterminio degli ebrei) fu determinato - o, quanto meno, agevolato - dalla colpevole manifestazione di debolezza delle democrazie occidentali. Il Comitato Olimpico Internazionale si orientò sulla scelta di Berlino quando Hitler non aveva ancora preso il potere. La città era stata già designata ad ospitare le Olimpiadi nel 1916, ma la Grande guerra cancellò quell’appuntamento. Dopo la sconfitta, la Germania fu esclusa dai Giochi del 1920 ad Anversa e del 1924 a Parigi. I padri tutelari dello sport internazionale avevano accumulato un complesso di colpa nei confronti dei tedeschi, e l’avvento di Hitler al potere non fu sufficiente a modificare il loro stato d’animo. Alcuni dei dirigenti del Cio, oltretutto, non riuscivano a nascondere la loro simpatia per il nazismo e la loro indifferenza riguardo al problema del razzismo. Un esempio per tutti: Avery Brundage (che fu presidente del Comitato Olim-

A fianco, un’immagine dell’inaugurazione delle Olimpiadi di Berlino 1936. In basso, la locandina dei Giochi e uno scatto della regista tedesca amica del Fuhrer, Leni Riefenstahl. Nella pagina a fianco, dall’alto: la copertina del libro “Le Olimpiadi dei nazisti – Berlino 1936” di David Clay Large; l’atleta italiana Ondina Valla; l’atleta americano Jesse Owens

no. Sulla posizione finale del governo degli Stati Uniti incise probabilmente anche la cattiva coscienza: i neri americani non venivano avviati nei campi di concentramento, ma non godevano certo di condizioni di uguaglianza rispetto ai bianchi, soprattutto negli Stati del Sud.

pico Internazionale fra il 1952 e il 1972) mantenne fede al proprio atteggiamento persino nei giorni drammatici dell’attentato contro gli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco di Baviera, al punto da giudicare «crimini di uguale gravità» il massacro degli undici israeliani ad opera degli estremisti di Settembre Nero e l’esclusione dai Giochi (contro il suo parere) della Rhodesia (l’attuale Zimbabwe), a causa della sua politica di apartheid. Brundage era americano (è stato, fino ad oggi, l’unico presidente ameri-

Al ritorno da una missione in Germania (per verificare la reale condizione degli ebrei sotto il Rech), Charles Sherrill (membro del Cio dal 1922) convocò una conferenza stampa nella quale, annunciando di

cano del Cio, e non ha lasciato particolari rimpianti) e il suo ruolo fu decisivo per convincere il riluttante Roosevelt a non boicottare le Olimpiadi di Berli-

aver concordato con i dirigenti sportivi tedeschi la presenza di un ebreo nella loro squadra olimpica, pose la questione in termini espliciti: «Quanto agli


cultura

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la striatura dei muscoli», oltre che al fatto che gli atleti neri disposti a prendere «docilmente» ordini dagli allenatori bianchi. Owens (che non era uno stupido) si rese perfettamente conto di essere stato “usato” dal suo Paese, che non lo amava. Rientrando negli Stati Uniti dalla Germania - davanti a un pubblico di mille spettatori neri a Kansas City - non dimostrò alcuna animosità nei confronti di Hitler, sostenendo che era stato Roosevelt a mancargli di rspetto: «Hitler non mi ignorò; fu il nostro presidente a ignorarmi, non mandandomi neppure un telegramma».

razzisti. L’allenatore della squadra di atletica dell’Università di Yale, Albert McGall sostenne che il calcagno sporgente, comunemente diffuso fra i neri, dava loro un vantaggio sui velocisti bianchi. E l’allenatore in seconda della quadra olimpica americana, Dean Cromwell - a Olimpiadi appena concluse - sostenne che «il negro eccelle nelle gare perché è più vicino all’uomo primitivo rispetto al bianco: non è

ostacoli posti sulla strada degli atleti ebrei o di chiunque altro che tentasse di raggiungere un risultato utile alla convocazione, io non avrei più alcun motivo per discuterne in Germania di quanto non ne abbiano i tedeschi che volessero discutere la condizione dei negri nei nostri

Stati del Sud o il trattamento dei giapponesi in California». Nelle associazioni dei neri americani si aprì un grosso dibattito riguardo all’opportunità di partecipare ai Giochi. Molti temevano di essere discriminati nel corso dell’eventuale soggiorno in Germania, altri sottolineavano i possibili vantaggi del viaggio. Roy Wilkins, vicesegretario della National Association for the Advancement of Colored People, sostenne che «il fatto che la squadra olimpica degli Stati Uniti sarà decisamente bruna (un aggettivo che sarebbe piaciuto a Berlusconi) nella sua composizione, ci offre una grandiosa opportunità di impartire un bel colpo a tutto quello che Hitler rappresenta e di farlo sul piano elevato della competizione sportiva».

È interessante notare come all’indomani dei trionfi degli atleti di colore (e in primo luogo di Owens) - non soltanto i nazisti trovarono una giustificazione ignobile per quanto era accaduto. Hitler sostenne che i neri erano avvantaggiati dalla loro «eredità della giungla», che li aveva dotati di fisici particolarmente forti. Goebbels, nel suo diario, scrisse che la vittoria di Owens nei cento metri aveva segnato «un giorno vergognoso per la razza bianca», aggiungendo che la squadra ame-

ricana avrebbe dovuto esserne «imbarazzata». Himmler attribuì i successi degli afroamericani alla loro «fisicità primitiva» e alla potente motivazione di poter combattere una guerra di razza contro i bianchi. Ma anche al di là dell’Oceano, fra i bianchi, furono espressi giudizi che poggiavano su improbabili teorie scientifiche risolvendosi in banali e vergognosi giudizi

passato molto tempo da quando l’abilità nella corsa veloce e nel salto era per lui una questione di vita o di morte».

E perfino l’allenatore di Owens, Larry Snyder, ridimensionò il valore delle imprese compiute dal suo atleta, sostenendo che le sue vittorie erano da attribuire «alla struttura cellulare del sistema nervoso e al-

Nel 1951, a guerra finita, il grande campione tornò a Berlino (mentre era impegnato in un tour europeo con gli Harlem Globetrotter). Oltre 75mila spettatori lo applaudirono nello stadio olimpico, e il borgomastro reggente di Berlino Ovest gli strinse la mano che il Fuhrer non gli aveva stretto dopo la sua vittoria. In Germania Owens ritrovò l’affetto del pubblico che gli era mancato in patria. Dopo le Olimpiadi, essendosi rifiutato di gareggiare in una serie di esibizioni in Europa, fu espulso dalla Amateur Athletic Union. Finì così mestamente la sua carriera di dilettante. Si dette al professionismo, con esibizioni che ricordavano quelle di Buffalo Bill alla fine del secolo precedente. Si misurava con cavalli purosangue, levrieri, automobili. Il governo federale lo accusò d evasione fiscale e congelò i suoi guadagni. Montava negli Usa il pregiudizio razziale, che si sarebbe attenuato soltanto negli anni Sessanta (malgrado l’assassinio di Martin Luther King, che forse contribuì a far cadere molte barriere). Nel 1980 (probabilmente mossi anche dal ricordo degli errori commessi nel 1936) gli Stati Uniti decisero di boicottare le Olimpiadi di Mosca. Ma l’anno scorso, la squadra a stelle e strisce era al gran completo a Pechino, nonostante le molte denunce riguardanti la scarsa attenzione per i diritti civili del governo cinese. Nel grande business dello sport mondiale, gli ideali hanno scarso diritto di cittadinanza. Ma quel che accadde a Berlino settantatre anni fa fu il prologo di una tragedia universale. Della quale i signori dello sport furono responsabili sotto la bandiera di Olimpia che, nell’antica Grecia, aveva il potere di interrompere le guerre, non certo di provocarle.



cultura

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Esposizioni. Fino al 17 gennaio 2010, alla Fondazione Roma Museo, in mostra le stravaganti opere della de Saint Phalle

Il favoloso mondo di Niki di Stefano Bianchi

ROMA. «Sono condannata a rivelare tutto. È quello il mio compito. Ogni pensiero, ogni emozione che sento e che penso, sono resi visibili e diventano colore, trama, soggetto, forma». L’arte metamorfica di Niki de Saint Phalle (19302002), fatta di bersagli “kitsch”, donne dalle forme esagerate e idoli propiziatori, è protagonista della mostra alla Fondazione Roma Museo (catalogo Skira, 39 Euro) che raccoglie fino al 17 gennaio più di cento opere testimoni di sogni e incubi, tumulti e fascinazioni. Francese di Neuilly-sur-Seine, secondogenita d’una famiglia di banchieri, Catherine Marie-Agnès de Saint Phalle cresce a New York. È bella. Bellissima. Eppure c’è un velo di malinconia, in quello sguardo da modella che posa per Vogue, Harper’s Bazaar, Life Magazine. S’insinua sottopelle, inesorabile, il male di vivere. Dal 1952 è in Europa, infatuata dei musei francesi e spagnoli, affascinata dalle visionarie architetture di Antoni Gaudì. L’anno successivo viene ricoverata in una clinica di Nizza per un grave esaurimento nervoso. L’arte, d’ora in avanti, sarà la sua terapia. Nel ’61, dopo aver divorziato dal musicista americano Harry Mathews, entra in contatto a Parigi col Nouveau Réalisme. L’ideologo del movimento, Pierre Restany, la invita a unirsi al gruppo che fra gli altri comprende lo scultore cinetico Jean Tinguely, che lei sposerà nel ’71. Snodandosi nelle “Stanze della memoria”divise in quattro “isole” tematiche (Le origini, Nana Power, Il Giardino dei Tarocchi, Spiritual Path), l’esposizione segue passo dopo passo l’“odissea” di Niki. Nell’avvicendarsi di dannazione e redenzione, si innescano giochi fatti di spirito e materia, realtà e ”mise-en-scène”, soggetto e oggetto. «Lavoro sul rosso, blu, giallo, verde, viola», ebbe modo di spiegare l’artista. «Sulle variazioni cromatiche nei sogni e nelle emozioni. E anche sulla rotondità e le curve della natura. Il mio lavoro mi dà speranza, entusiasmo, struttura. È il mio vero In questa pagina, un’immagine diario». Le origini, tuttadell’artista francese via, non concedono vie Niki de Saint Phalle e alcune di scampo percorse codelle sue opere in mostra, me sono da febbrili torfino al 17 gennaio 2010, menti che sfoceranno, alla Fondazione Roma Museo tra fede e ateismo, nelle

La personale raccoglie oltre cento creazioni, testimoni di sogni e incubi, tumulti e fascinazioni della bella e malinconica artista francese

materiche Cattedrali e negli Altari, come quello destinato agli innocenti, con teste e moncherini di bambole incrostati nel gesso quasi a voler replicare le “accumulazioni”di Arman. I dipinti di fine anni Cinquanta, che coagulano colori sfiorati dalla “naïveté”, colgono invece il surrealismo di Joan Miró e la solitudine d’un esordiente Max Ernst. E si ritrae, la Saint Phalle, ipotizzandosi “collage” di ciottoli, chicchi di caffè e schegge di vasellame, per poi ritrarre con pezzi di giornale pressato una Marilyn sfatta e

orrorifica. Ma per esorcizzare i demoni bisogna agire alla maniera dei nouveaux réalistes. Niki, allora, all’inizio degli anni Sessanta prepara “rilievi bersaglio” di gesso, vi appoggia sopra sacchetti o vasetti di vernice, si allontana imbracciando un fucile calibro 22, prende la mira e spara facendo esplodere macchie di colore. I Tiri, sono “performance”liberatorie. Colpendo il bersaglio, facendolo “sanguinare”, si azzera la rabbia accumulata e si denunciano le violenze subite. E nello sparo più deflagrante, il bersaglio equivale alla figura paterna. Superata la depressione, via libera al Nana Power col sorriso sulle labbra. Con Les Nanas, icone del movimento di liberazione femminile, Niki de Saint Phalle si ritaglia un posto accanto alla nostra Giosetta Fioroni, all’inglese Pauline Boty e all’americana Jann Haworth. Quattro Pop-artiste al potere. Sono sculture fuori dall’ordinario, Les Nanas. Ciccione sull’orlo di una crisi di felicità strizzate in costumi da bagno stile “flower power”. Ci sono Gwendolyn, Big Lady, Mini Nana maison e perfino Les trois Grâces: «Le prime erano fatte di lana e stoffa. Alcune correvano, altre erano a testa in giù… Dicevano che fossero le madri del “pattern painting”. Io non sono d’accordo. La superficie da sola è noiosa. Le mie Nana sono una sintesi di forma e contenuto». La più grande di tutte, Hon (Lei), la realizza nel ‘66 con Jean Tinguely e Per Olof Ultvedt per il Moderna Museet di

Stoccolma, traendo spunto dall’Origine du monde di Gustave Courbet. Incinta, sdraiata sulla schiena, lunga ventotto metri, alta sei e larga nove, “partorisce” i visitatori che entrano ed escono dal suo sesso. Nel ’79 (è la terza “isola” ad illustrarcelo) Niki individua un terreno nella tenuta toscana della famiglia Caracciolo. A Garavicchio, vicino a Capalbio, immagina un percorso che scandisca le ventidue carte dei tarocchi, gli Arcani Maggiori: «Come in tutte le favole, prima di trovare il tesoro ho incontrato lungo il cammino draghi, streghe, maghi e l’Angelo della Temperanza». Dà vita al Giardino dei Tarocchi, liberamente ispirato al Parc Güell di Gaudí, a Barcellona, disseminandolo di ciclopiche sculture ricoperte di smalti, mosaici, vetri, ceramiche. È il suo giardino dell’Eden, inventario di miti consci e inconsci (La Sacerdotessa, La Sfinge, Il Mago, La Morte, Il Diavolo…), surreale intreccio di sogni e ancestrali paure. Sono i colori sgargianti, ad azzerare gli spettri del passato.

L’arte iconoclasta delle origini, cede il passo alla felice consapevolezza del “percorso”, del metamorfico sentiero della fantasia. Niki, allora, si sente pronta per lo Spiritual Path, il patto spirituale che la legherà al genio creativo di Jean Tinguely. Insieme, nel nome dell’amore che da particolare si fa universale, concepiscono forme e figure sempre più imprevedibili e visionarie che sprigionano vitalità, fermenti, passione dei sensi. Sono idoli, serpenti, teste e totem baciati da titoli inequivocabilmente romantici: Could We Have Loved? (Avremmo potuto amare?), I Rather Like You a Lot You Fool (Mi piaci proprio, stupido che non sei altro), Jean in My Heart (Jean nel mio cuore)… E nella leggerezza d’un gioco che si trasforma in arte, è racchiusa la resurrezione della donna e dell’artista: «Forse con le mie sculture vivaci e gioiose voglio dire: il mondo è terribile, ma anche meraviglioso. Allora, godiamocela questa meraviglia!».


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal ”The Daily Star - Lebanon” del 03/12/09

Nasrallah non convice più di Michael Young l discorso tenuto lunedì da Sayyed Hassan Nasrallah con cui ha tratteggiato la piattaforma politica di Hezbollah non aggiunge nulla di nuovo a ciò che ha sempre affermato il Partito di Dio negli ultimi anni. Oltre a riconoscere i grandi cambiamenti avvenuti in Libano dal 2005, anno in cui le truppe siriane si sono ritirate dal Paese. È stato soprattutto Hezbollah ad approfittare del clima seguito al collasso dei vecchi equilibri di potere. Niente, nel nuovo documento politico, indica un cambiamento di rotta del movimento sciita, da quando è diventata una forza politica all’interno dello Stato libanese. Continua a difendere l’autonomia della sua forza militare; continua a spingere il governo ad assumere posizioni ostili agli Usa all’Occidente in genere; una delle sue principali preoccupazioni rimane la causa palestinese e il ritorno di Gerusalemme sotto il controllo musulmano, fatto che getta seri dubbi sul fatto che Hezbollah voglia limitare le sue ambizioni politiche e militari alla semplice riconquiste di alcune zone di confine con Israele, come le fattorie di Ghajar e Shebaa.

I

Hezbollah rimane fedele ai suoi legami con l’Iran, così da essere sempre un elemento di contraddizione per qualsiasi azione che preveda l’unità del mondo arabo (e sunnita, ndr). Eppure qualcosa deve essere cambiata visto che Nasrallah ha sentito il bisogno di emettere un secondo documento sulla «visione del mondo» secondo Hezbollah per il pubblico libanese. Il primo è la Lettera aperta del 1985, con cui annunciava il programma politico e la nascita di un partito. «Il partito della libanizzazione» non crescerà mai per tutto il tempo in cui Hezbollah continuerà a rifiu-

tare le prerogative di uno Stato sovrano libanese. Tuttavia, non vi può essere alcun dubbio sul fatto che, dopo il 2005, Hezbollah sia stato costretto a lottare molto di più all’interno del Libano. Mentre in passato era riuscito a concentrarsi principalmente nella lotta contro Israele, avendo le spalle coperte dalla presenza militare di Damasco. I risultati di Hezbollah, quando si è trattato di curare le vicende libanesi, sono stati assai mediocri, come lo stesso Nasrallah ha dovuto ammettere. È stato divertente sentire il segretario generale del Partito di Dio che citava la necessità di rispettare il sistema ”consociativo”, subito dopo la sua denuncia contro il settarismo. Forse perché Hezbollah ha sistematicamente violato le regole del consociativismo, rimanendo la più settaria delle organizzazioni. Un’incoerenza che aiuta meglio a spiegare perché Hezbollah e la «riscoperta» degli interessi interni al Paese, dopo il 2005, si sia rivelata un fallimento. L’attacco militare alla capitale del maggio 2008, viene rappresentato come una sorta di vittoria del movimento sciita. È un’analisi semplicistica. L’offensiva è stata la prova che il partito sarebbe ricorso alle armi, quando i suoi interessi fossero stati messi a rischio. Ma i costi a lungo termine sarebbero proibitivi e continuano ad aumentare. Hezbollah ha guadagnato un terzo del blocco parlamentare, e lo ha fatto per ottenere la legge elettorale che voleva.Tuttavia non ci sono stati i risultati sperati. L’impatto del terzo partito libanese è stato significativo solo simbolicamente, ma per il resto le sue riper-

cussioni sono state contenute. Mentre la legge elettorale non ha prodotto una vittoria dell’opposizione nel giugno scorso, come Hezbollah aveva sperato. La conquista di Beirut ovest ha evidenziato i suoi limiti. Ha dimostrato che il partito di Nasrallah non può permettersi di agire contro le aree cristiane, e che la sua capacità di tenere in ostaggio i quartieri sunniti è stata limitata nel tempo.

Per il suo impegno, Hezbollah ha guadagnato una imperitura ostilità dei sunniti. Ecco cosa ha ottenuto usando le armi. Peggio ancora, la rabbia sunnita e l’aumento dei dubbi nella comunità cristiana, espressa nelle elezioni parlamentari, ha stabilito che non c’è più un consenso nazionale dietro la “resistenza”. La credibilità Nasrallah è buona solo quanto le sue minacce. Nasrallah invece avrebbe dovuto comunicare obiettivi più trasparenti, rivolgersi alla società libanese da pari a pari, superando la violenza del passato.

L’IMMAGINE

Moralisti immorali, per contrasto fra parole nobilissime e azioni turpi Attenzione a opportunismo, ipocrisia e ricerca di popolarità. Imperversano sogno, utopia, velleità e buonismo: “donate, senza pretendere contropartita”; “c’è spazio per tutti sulla Terra”; “avanti con diritti, solidarietà, assistenza, accoglienza”. Si sviluppano la correttezza politica e le discriminazioni positive, per favorire e privilegiare gruppi deboli o ritenuti tali. Viene sanzionato il negoziante italiano irregolare; ma si chiude un occhio sull’ambulante straniero abusivo. La gratuità esiste nelle esortazioni di contemplativi, ma non nella realtà: «nessun pasto è gratis». L’agricoltore benefica l’umanità e contrasta la penuria alimentare, forse più dei solidaristi parolai. L’eccessiva redistribuzione di risorse rischia d’incentivare pigrizia e dipendenza; nonché di frenare e punire la produzione della ricchezza, mediante il fiscalismo. Alcuni moralisti sono immorali, per antinomia tra parole nobili e azioni turpi. La sollecitazione all’altruismo può essere smentita da pratica egoistica, fondata su favoritismi, raccomandazioni, trucchi.

Gianfranco Nìbale

PROFUMO DI MAFIA La mafia ha un’antica tradizione e terminologia, che non sempre si può ricomporre e adeguare alle realtà dei giorni nostri. Da un vecchissimo vocabolario emerge la definizione: « associazione di prepotenti e criminali in Sicilia di visibile e affettata eleganza, che usa metodi di repressione, di intimidazione e giustizia sommaria senza rispetto alla legge né alla morale». Risulta evidente che la questione dell’ultima accusa contro il premier è direttamente proporzionale ai suoi rapporti con la terra di Trinacria, perché lì esiste una classe imprenditoriale che da tempo cerca di emergere lontano dai tentacoli e dalle minime appartenenze alla mafia. Contrastarla significa anche diminuire lo

spazio delle nuova impresa e mantenere intatte quelle prevalenze e potenze che da sempre sono espresse dalle classi imprenditoriali maggiori. Il ponte di Messina, ad esempio, è una chiara dimostrazione dell’asserto, perché solo il premier lo vorrebbe, trovando una grande opposizione proprio da parte di una grande fetta di siciliani. C’è molto da riflettere su questo fatto, ma poco se ne può trarre per immaginare un premier colluso con coloro che da anni mantengono il controllo e l’arretratezza di tutta la Sicilia.

Bruna Rosso

AIDS, MINISTERO E VATICANO Il 1 dicembre si è “celebratà”in tutto il mondo la Giornata mondiale per la lotta contro l’Aids, istituita

Sulla luna, al Polo Sud Quella che vedete è la superficie del polo sud lunare, in un’immagine composita elaborata dagli scienziati della Nasa. Questa regione è ormai da tempo allo studio dell’agenzia spaziale statunitense come possibile location per la costruzione di una base lunare permanente, nel caso di future missioni sul nostro satellite

nel 1998 dall’Organizzazione mondiale della sanità e dall’Organizzazione delle nazioni unite, allo scopo di sensibilizzare la comunità internazionale e i singoli individui al necessario impegno per la prevenzione e la cura della malattia. Il ministero della Salute lancia una campagna per invitare i citta-

dini a fare il test. Meglio ancora sarebbe prevenire, cioè utilizzare un semplice accorgimento: il profilattico. Costa meno delle cure e può essere diffuso con una certa facilità. All’uso del profilattico, però, si oppone il Vaticano cioè le gerarchie ecclesiastiche. Castità e fedeltà, sono le vie per sconfiggere il

virus, dichiara la Chiesa cattolica e prontamente le numerose guardie papaline presenti in questo governo si adeguano. Insomma meglio fare il test, con i relativi costi, che distribuire i profilattici. Della serie: quando la salute si piega alla pura dottrina vaticana.

Primo Mastrantoni


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Vuole farmi la cortesia di tornare a casa? Caro amico, lei sta partendo, e là dove lei va non ci sarà dato di venire, ma i mesi hanno dei nomi e vengono tutti una sola volta all’anno, e sebbene sembri il contrario, a volte passano. Ci auguriamo che lei stia meglio di quando era qui, in America, e che quegli stranieri siano con lei gentili e sinceri. Ci auguriamo che si ricordi, una per una, le vite che si è lasciato alle spalle, anche la nostra, la meno rilevante. Vorremmo vedere Amherst attraverso i suoi occhi, così come lei la ricorda. Più piccola di com’era, forse, nondimeno le cose ingigantiscono, quando si parte, se erano già di per sé grandi, noi speriamo che lei non cambierà e sarà così com’era il giorno in cui il Cina salpò e noi soffrimmo per causa sua. Se le fa piacere ricevere notizie da qui, bene, non siamo morti né cambiati. Abbiamo gli ospiti di sempre tranne lei, e anche le rose sono sugli stessi steli, quelli di prima che lei partisse.Vinnie lega i tralci del caprifoglio e i pettirossi le rubano il filo per i nidi, proprio come un tempo. Devo farle una commissione da parte del mio cuore: vuole farmi la cortesia di tornare a casa? Buona notte, caro amico. Lei dorme così lontano, come faccio a sapere se lei mi sta sentendo? Tutti le mandano saluti affettuosi e auguri sinceri. Emily Dickinson a Samuel Bowles

ACCADDE OGGI

ENEL NON RIVUOLE IL CLIENTE RUBATOLE DA SORGENIA Serena è un’utente Enel di un paese in provincia di Genova, ma nella scorsa estate apprende che è diventata cliente di un altro gestore elettrico: Sorgenia. Lo scopre quando riceve dal nuovo fornitore due bollette, con consumi mensili più alti del 17% rispetto alla media. Serena non aveva nessun interesse al cambio gestore, infatti, aveva appena completato l’iter burocratico per autoprodurre energia elettrica da scambiare proprio con Enel, dotandosi di un impianto fotovoltaico e investendo 20mila euro. E infatti Serena non aveva richiesto nulla a Sorgenia, come riconosciuto in una comunicazione dallo stesso gestore. Prendendo spunto dalla disavventura di Serena, la nostra associazione denuncia all’Antitrust le ripetute pratiche commerciali scorrette della società. Pochi giorni dopo, però, arriva la sanzione dell’Antitrust che condanna il gestore elettrico a pagare 350mila euro. Serena pensava di aver risolto il problema. È una mera illusione. Sorgenia invia due nuove fatture, ovviamente con consumi sovrastimati, non del 17%, ma del 600%. Proprio così, quasi 1.200 chilowattora mensili rispetto alla media di 170.Ma non è tutto. Enel non se la riprende come cliente, ha bisogno della compilazione di un modulo in cui recede dal contratto da Sorgenia. Cosa che Serena si rifiuta di fare: perché devo recedere da un contratto che non ho mai richiesto? Per ottenere il modello, Enel usa tutti i mezzi, anche quelli del call center. Telefonata: «pronto sono Enel,

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

4 dicembre 1968 Viene fondato il quotidiano Avvenire dalla fusione di 2 giornali cattolici italiani 1969 I membri delle Pantere Nere, Fred Hampton e Mark Clark, vengono uccisi nel sonno durante un’incursione compiuta da 14 poliziotti di Chicago 1977 Jean-Bédel Bokassa, presidente della Repubblica centro africana, si incorona Imperatore Bokassa I dell’Impero centro africano 1978 La sonda Pioneer Venus entra in orbita attorno a Venere 1980 I Led Zeppelin si sciolgono 1981 Il Sudafrica concede l’indipendenza all’“homeland” del Ciskei 1982 - La Repubblica popolare cinese adotta la sua attuale Costituzione 1991 Il giornalista Terry Anderson viene rilasciato dopo sette anni di prigionia a Beirut 1992 Il presidente George H. W. Bush invia 28.000 soldati in Somalia 1993 Si conclude una tregua tra il governo dell’Angola e i ribelli dell’Unita

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

per tornare con noi deve inviarci il modulo di recesso da Sorgenia»; «no, io non compilo un modulo in cui dichiaro di recedere da un contratto che non ho firmato»; «non occorre compilarlo, basta che ce lo invia firmato». La storia di Serena è emblematica. Dimostra che furbizia e cialtroneria gestionale sopravanzano tutte le buone intenzioni. Ma c’è di più. Leggendo la lettera di Enel, si capisce come la regolamentazione pensata dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas a tutela dei consumatori, raggiunge l’obiettivo contrario. Il tutto nasce da un vizio originario, quello di liberalizzare un mercato senza liberalizzarlo, visto che il sistema Italia mantiene Enel come operatore dominante con la libertà di agire sotto diverse vesti: Enel servizio elettrico, per clienti con tariffe prefissate dall’Autorità; Enel energia, per clienti che scelgono il libero mercato; Enel distribuzione, che assicura il servizio di trasporto dell’energia elettrica. Inoltre, insieme alla Cassa depositi e prestiti è azionista di riferimento di Terna, il principale proprietario della rete di trasmissione nazionale di energia elettrica ad alta tensione. Nella lettera che Enel servizio elettrico scrive a Serena c’è scritto che i passaggi dal servizio a maggior tutela al mercato libero e viceversa sono gestiti da Enel distribuzione, che ha fatto tutti i controlli del caso prima di procedere al passaggio a Sorgenia. Quindi Enel1 dice che Enel 2 non può aver sbagliato, ergo se vuoi tornare con noi, invia il modulo di recesso da Sorgenia.

I TAGLI E LA VIRTÙ I tagli nella scuola dovrebbero essere molto più accentuati. La Gelmini ha sicuramente dato la traccia per un percorso di miglioramento rispetto a una scuola che costa tanto e dà poco in termini di formazione. Ma se l’atteggiamento non è più radicale, difficilmente se ne vedranno gli effetti in tempo, viste le necessità del Paese. La scuola ora si è trasformata in elemento classista. Il livello medio dell’università è così basso, per il proliferare di sedi e di corsi per aumentare docenti e personale, che solo i figli dei ricchi se ne avvantaggiano. Senza costosissimi master e specializzazioni, infatti, la laurea o il diploma non hanno nessun valore. Per Thomas Jefferson i meritevoli sono una ricchezza per il progresso della società e pertanto da una parte la società si deve accollare l’onere della formazione e dall’altra, chi ha doti deve essere educato, una volta adulto, all’impegno per la comunità. C’è chi accusa Jefferson di voler formare un’aristocrazia nuova, pur di meritevoli. A parte il fatto del paradosso della questione, classe dirigente è per forza aristocrazia numerica; ciò che conta e l’uso che se ne fa del proprio ruolo aristocratico, l’Illuminismo, sia del filone scozzese e angloamericano che quello francese e continentale, ha avuto in comune il valore della diffusione dell’educazione del popolo e l’obbligo di un livello culturale di base minimo per affrancarlo dall’ignoranza, dai pregiudizi e dalle superstizioni. E per questo motivo, man mano che si svilupparono le democrazie liberali, si diffuse e si alzò il livello di istruzione popolare. Anche la Chiesa trasse vantaggio da questa concezione illuminista dell’istruzione e aggiornò la sua visione educativa, moltiplicando iniziative di acculturamento soprattutto per i meno abbienti, colmando molte volte lacune dello Stato, Ora invece la scuola è diventata uno strumento di diffusione dell’ignoranza. Alle elementari molte volte i bambini hanno 9 maestre e confondono i quaderni. E soprattutto manca l’aspetto educativo. Mazzini scrisse: «Dio vi ha fatti educabili. Voi dunque avete il dovere di educarvi per quanto è in voi, e diritto a che la società alla quale appartenete non vi impedisca nella vostra opera educatrice, vi aiuti in essa e vi supplisca quando i mezzi di educazione vi manchino». L’“educazione” s’indirizza alle facoltà morali; l’“istruzione” a quelle intellettuali. La prima sviluppa nell’uomo la conoscenza dei suoi doveri; la seconda rende l’uomo capace di praticarli. Senza istruzione, l’educazione sarebbe troppo sovente inefficace; senza educazione, l’istruzione sarebbe come una leva mancante d’un punto di appoggio. L’educazione insegna quale sia il bene sociale. L’ istruzione assicura all’ individuo la libera scelta dei mezzi per ottenere un progresso successivo nel concetto del bene. Leri Pegolo C I R C O L O LI B E R A L PO R D E N O N E

APPUNTAMENTI DICEMBRE 2009 VENERDÌ 11, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Consiglio nazionale dei Circoli liberal.

VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Domenico Murrone

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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PAGINAVENTIQUATTRO Libri. Il ritratto di Fortebraccio in un volume curato da Battaglia e Benvenuto

La penna che inventò di Pier Mario Fasanotti criveva spesso «Lorsignori», con un distacco che a volte era ironico, a volte sprezzante. In ogni caso usava questa nobiliare parolina per indicare che loro, i politici, erano pure sul palco e sotto i riflettori, ma lui era in prima fila, foglio e matita in mano. Il bello arrivava il giorno dopo, sull’Unità. E molti compravano il foglio ufficiale del Partito comunista solo per leggere la sua rubrica quotidiana. Un po’ come capita oggi con Gramellini de La Stampa o con Serra de La Repubblica: i quali devono essere, assieme a tanti altri, debitori di quel giornalista che inventò il raccontino satirico, un volo radente di zanzare che beccavano il tallone d’Achille di chiunque (be’ quasi: l’“apparat” comunista non era bersaglio consentito).

scriveva già allora corsivi polemici. Per nulla integralista, amante della prosa stringata. Prendeva di mira “il nemico” insistendo sui loro diffettucci. Mai con spocchia cattiva.Tanto è vero che il direttore dell’Avanti! disse: «Melloni scrive con la penna intinta in un barattolo di brillantina». Il Fortebraccio in nuce, sul Popolo, disegnava con l’inchiostro della verità l’identikit dei comunisti: «…chiusi al sorriso, immusoniti e gravi, assorti, aggrottati e remoti... non crediate che soffrano o meditino o sognino. Niente affatto. Lottano, i compagni lottano contro la tentazione dell’umorismo,

Parlo di Fortebraccio, il cui vero nome era Mario Melloni, emiliano, un signore «alto, imponente e fragile» come ebbe a dire Natalia Ginzburg, dotato di un profilo non privo di «durezza, di beffarda severità», tuttavia dotato di «modi cortesi e cerimoniosi, di qualità ottocentesca». Così si legge nella prefazione della raccolta dei pezzi più argutamente urticanti, intitolata Fortebraccio-Facce da schiaffi (Rizzoli-Bur), a cura di Filippo Maria Battaglia e Beppe Benvenuto). L’umorismo e la satira, a quei tempi, non erano di gradimento ai gerarchi delle Botteghe Oscure, per lo più ingessati nel moralismo disciplinare. Tuttavia Enrico Berlinguer, che intelligente lo era davvero, riconobbe ed elogiò il talento di Fortebraccio (nome non di sua invenzione ma da lui subito gradito): «Il nostro partito gli deve molto... un’immagine fresca, pulita e non conformistica che ci piace avere, che lui ha contribuito a farci mantenere». Però sotto sotto c’era una soddisfazione mal celata, anche se chiara a tutti: quel Melloni non era nato col marchio della falce e martello sulla fronte. Anzi. Era stato per molti anni democristiano doc, già partigiano “bianco”. E non uno dei peones della Balena Bianca. Compie i primi passi al Corriere Mercantile di Genova, poi diventa condirettore de Il Popolo dopo il 25 aprile del ’45, affiancando Guido Gonnella. Ricorda Gianpaolo Pansa: «Coltivava un sogno: creare un grande quotidiano cattolico, di larga diffusione, capace di competere con i giornali di informazione. Ma era un proposito difficile da realizzare. I cattolici italiani e la stessa Dc non s’erano ancora abituati alla libertà di stampa. La confondevano con il pensiero liberale e talvolta con il libero pensiero». Fatto sta che quel giornale somigliava a un Corriere della Sera progressista «ma denutrito e timbrato Dc». Melloni, con la firma “Emme”

contro il rischio della facezia, contro il repentaglio del buonumore, che essi considerano, avvertiti da un istinto profondo, le più pericolose quinte colonne dalle quali debbono ad ogni costo difendersi». Gli uomini-maggiordomi di Palmiro Togliatti erano per Melloni ottusamente manichei. Quando diventò parlamentare, nelle file della Dc, qualcuno

S

e soprattutto capito, sia dal metalmeccanico sia dall’intellettuale. E giù fendenti a forma di parole, di immagini, di paragoni. Spiegava: «I miei bersagli li scelgo sempre dall’attualità e in genere preferisco coglierli nei loro discorsi piuttosto che nei loro scritti». Melloni leggeva ogni mattina una ventina di giornali, poi sceglieva dove indirizzare le sue frecce. Risparmiò sempre tre democristiani: Giulio Andreotti («Lui aveva capito tutto»), Aldo Moro e Benigno Zaccagnini. Coloro che gli stavano proprio in uggia erano i socialdemocratici. Dell’allora leader Psdi, Mario Tanassi, scrisse:

la SATIRA «Per me è come il cavaliere inesistente Agilulfo, il personaggio creato da Italo Calvino.Tanassi non esiste, non c’è». In un altro passo si stupisce di quella sua «fronte inutilmente ampia». Bettino Craxi gli stava antipatico. Verso Marco Pannella mostrava insofferenza, criticandone la «mancanza di anima popolare e la sua irrefrenabile albagia aristocratica... è un marchese che va alla ghigliottina, sulla charrette, cantando». Di Spadolini fece questo velenoso sunto: «Un uomo che viaggia con 50 anni di ritardo. No, non mi piace, non sa governare... non è un Presidente del Consiglio, è un punching-ball». Ovviamente non risparmiò, del leader repubblicano, la smania di comparire sui giornali. E disse che era un vero «coverboy», un giovanotto da copertina. Melloni era uomo di ottime letture.

Il suo vero nome era Mario Melloni, emiliano, un signore «alto, imponente e fragile» come ebbe a dire Natalia Ginzburg. Per nulla integralista, amante della prosa stringata, prendeva di mira “il nemico” insistendo sui “diffettucci”. Mai con spocchia cattiva annotò che era il solo democristiano spiritoso sulla faccia della terra. E che fosse l’unico ad avere le munizioni concettuali e umoristiche adatte a replicare alle sferzanti battute di Giancarlo Paletta. Poi la svolta, nel 1954, in occasione di un dissenso col suo stesso partito in materia di politica internazionale. Nel 1973 spiegherà al collega Marco Nozza: «Mi ci sono voluti anni per convincermi che la Dc è un partito organicamente conservatore e in certi suoi settori non secondari addirittura reazionario». Nel 1963 torna alla Camera, ma da comunista. Quattro anni dopo comincia a punzecchiare qua e là con il nome di Fortebraccio, nell’Unità diretta da Maurizio Ferrara. La sua rubrica, nella parte bassa della prima pagina, era qualcosa che si piazzava a metà tra il popolare e il sofisticato. Aveva l’ambizione di essere letto,

In alto, un disegno di Michelangelo Pace e uno scatto di Mario Melloni (in arte Fortebraccio). Sopra: Giulio Andreotti, Aldo Moro, Enrico Berlinguer, Mario Tanassi, Giovanni Spadolini, Benigno Zaccagnini e la copertina del libro “Fortebraccio-Facce da schiaffi”

Amava soprattutto i francesi, in primis André Gide e Anatole France. Chi lo conosceva bene assicurava che era galante e auto-ironico. Una sua confidenza: «Cicisbeo e vagheggino non sono stato mai. Da giovane mi piacevano le belle donne, più tardi e ancora oggi mi piacciono le donne belle». Nella postfazione della raccolta, Francesco Merlo scrive: «Melloni provò l’eguaglianza degli opposti schieramenti e inaugurò un costume in politica: la dissoluzione del democristiano nel comunista. Al contrario oggi abbiamo assistito alla dissoluzione dei comunisti nei democristiani». È un peccato, dice sempre Merlo, che in Italia non ci sia un “premio Fortebraccio” «che laurei la faziosità delle buone maniere». Più che giusto.


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