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di e h c a n cro
Esercitare liberamente il proprio ingegno, ecco la vera felicità
Aristotele
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 8 DICEMBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Dopo le accuse della “Padania” all’Arcivescovo di Milano, un’alleanza trasversale per conciliare sicurezza e accoglienza
Il Patto della Cittadinanza
Fini,Casini e Pisanu lanciano insieme una nuova strategia dell’integrazione,alternativa alla Lega. Il presidente della Camera: «Via l’immigrazione dal processo breve».E tutti difendono Tettamanzi di Errico Novi
di Francesco D’Onofrio
di Giancristiano Desiderio
nche le vicende dell’ultima settimana hanno posto in evidenza il fatto che il rapporto tra la giustizia vista nel suo insieme e la politica vista altrettanto nel suo insieme, non è un rapporto che possa essere vissuto come in una partita di calcio tra due tifoserie contrapposte ma, al contrario, come una vicenda di straordinario rilievo politico e costituzionale che richiede per ciò stesso una distinzione radicale tra maggioranza di governo e maggioranza costituzionale. Il problema infatti è stabilire qualòe ambito della nostra legislazione è da considerarsi «costituzionale».
Gianfranco Fini non piace il presepe della Lega e alla Lega non piace il presepe di Fini. Ognuno faccia il presepe come più gli piace e non interferisca nel presepe altrui. Sennonché, le cose non sono così facili perché il presepe in questione non è solo quello fatto di pastori e pecorelle e Re Magi ma anche e soprattutto quello di Palazzo Chigi, il “presepe breve”. E siccome il presepe berlusconiano si regge sulle due gambe leghista e finiana, si capirà che se ognuno si mettesse a fare il proprio presepe, allora, la capanna di Palazzo Chigi non arriverebbe all’Epifania.
ROMA. La «Fatwa» lanciata dalla Lega contro il cardinale Dionigi Tettamanzi ha lasciato il segno: tutti, infatti, hanno attaccato Bossi e i suoi sodali, considerati ormai i veri estremisti del nostro paese. Al punto che Gianfranco Fini, Beppe Pisanu e Pier Ferdinando Casini hanno firmato ieri un nuovo patto per la cittadinanza inclusiva fatta di «accoglienza e integrazione», come ha chiesto loro don Vincenzo Albanese, creatore della comunità Capodarco dove si è svolto l’incontro fra i tre leader politici. In particolare, poi, il presidente della Camera ha colto l’occasione per lanciare un aut-aut alla maggioranza: «È inammissibile escludere il reato di immigrazione clandestina dall’elenco di quelli per i quali si applicherà la nuova norma sul processo breve» voluta dal presidente del Consiglio.
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PROMEMORIA PER LE RIFORME
L’“ISLAMISMO” DEL CARROCCIO
Una giustizia senza tifoserie
Il partito delle Fatwe
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LA PRIMA DELLA SCALA RILEGGE BIZET Con la regia di Emma Dante, una moderna interpretazione della libertà femminile ha aperto la stagione lirica milanese
Carmen 2009 La donna aggressiva, ma con Chanel n. 5
alle pagine 12 e 13
Via libera dalla Commissione: ora doppia fiducia alla Camera e al Senato
Il sequestro della Finanziaria La maggioranza approva il testo, le opposizioni lasciano l’aula di Francesco Pacifico
Le ragioni della protesta di Pd e Udc
ROMA. La Finanziaria non si discu-
Ieri è iniziata la Conferenza sul clima
A Copenhagen (per adesso) lavorano le lobby Incontri frenetici tra i negoziatori, in attesa dell’arrivo dei leader della politica, da lunedì prossimo.
Tremonti, superministro o supercommissario?
te, si vota e basta. La maggioranza ha fatto tutto da sola e ha approvato il maxiemendamento che integra la legge economica dello Stato direttamente in Commissione, dopo che le opposizioni unite avevano abbandonato i lavori per protesta. Ora la Finanziaria arriverà in Aula dove è già previsto il ricorso alla fiducia senza ulteriori discussioni. Tra le novità, un modesto recupero di fondi per i Comuni dopo il taglio dell’Ici e qualche sostegno al lavoro anti-disoccupazione.
ROMA. «La Finanziaria ha un grande regista che ha commissariato la sua maggioranza, che ha ritirato tutti gli emendamenti prima della discussione, e di fatto la commissione Bilancio. E con la fiducia annunciata sarà commissariato anche il Parlamento. Parlo, ovviamente, del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti». Pierpaolo Baretta, capogruppo del Pd in commissione Bilancio della Camera, non ha dubbi su quello che è accaduto l’altra notte e su che cosa succederà in Aula.
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Luisa Arezzo • pagina 8 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
di Franco Insardà
242 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 8 dicembre 2009
Immigrazione. Dopo le accuse della “Padania” al cardinal Tettamanzi, i tre leader difendono accoglienza e cittadinanza
Nasce il patto anti-Bossi
Ultimatum di Fini: «Via l’immigrazione dal processo breve». E con Casini e Pisanu nasce una strategia unitaria per un’integrazione controllata di Errico Novi
ROMA. È forse il modo migliore che la Chiesa potesse trovare per rispondere all’aggressione leghista contro il cardinale Tettamanzi. Un suo esponente, don Vinicio Albanese, approfitta di un incontro presso la Comunità Capodarco, di cui è responsabile: al dibattito intitolato “Accoglienza, integrazione, diritto alla cittadinanza: un cammino possibile” partecipano tre leader moderati, Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e Beppe Pisanu. «Facciamo un “patto di Capodarco”per sdoganare certi temi che adesso riguardano solo una piccola parte della politica e per rivolgerci all’interesse più generale del Paese». Un colpo d’ala, insomma. Semplice e risolutivo: don Vinicio coglie in una volta sola tutte le chiavi di accesso a un tema diventato quasi impraticabile. Bisogna discuterne, dice, al di là del pregiudizio, bisogna dismettere i rispettivi armamentari post-ideologici perché la materia in questione non riguarda la propaganda, nemmeno quella dei lumbàrd che sarebbero «la piccola parte» della politica, ma innanzitutto la vita di milioni di esseri umani, quindi la stessa economia del Paese.
Deve sentirsi assai sollevato, il cardinale Dionigi Tettamanzi, che negli stessi minuti in cui si consuma il confronto a Roma nella sede della Comunità Capodarco si rivolge ai fedeli assiepati nel Duomo di Milano. Nell’omelia per Sant’Ambrogio parla dei vescovi e della loro missione: «Difendere il gregge, in particolare dagli assalti delle bestie spirituali, ossia dagli errori di quei lupi rapaci che sono gli eretici». Subito dopo la cerimonia, l’arcivescovo milanese riprende la metafora, risponde ai cronisti che «se assalito continuo a fare il buon pastore» e si dice «sereno» perché «in questo momento riscopro il dono della libertà». Può forse rasserenarlo ancora di più il fatto che contemporaneamente nasca un patto non solo trasversale alla maggioranza di governo ma esteso anche all’opposizione dell’Udc su uno dei temi che gli stanno a cuore, ossia la tutela degli immigrati. I tre leader accolgono infatti immediatamente l’invito di don
La contrapposizione sempre più netta tra il capo dei “lumbàrd” e il presidente della Camera
Quant’è islamica la Lega delle Fatwe di Giancristiano Desiderio Gianfranco Fini non piace il presepe della Lega e alla Lega non piace il presepe di Fini. Ognuno faccia il presepe come più gli piace - si potrebbe dire - e non interferisca nel presepe altrui. Sennonché, le cose non sono così facili, perché il presepe in questione non è solo quello fatto di pastori e pecorelle e Re Magi - che, effettivamente, erano extra-comunitari: qui è proprio impossibile dare torto al presidente della Camera - ma anche e soprattutto quello di Palazzo Chigi che per comodità e sineddoche potremmo chiamare “presepe breve”. E siccome il presepe berlusconiano si regge proprio su queste due gambe, quella leghista e quella finiana, si capirà che se ognuno si mettesse a fare il proprio presepe, allora, la capanna di Palazzo Chigi non arriverebbe all’Epifania (che tutte le feste si porta via).
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l’immigrazione clandestina, mentre Fini è pronto a votare la legge sul “processo breve” solo se i reati dell’immigrazione clandestina sono inclusi:«È veramente inammissibile che si faccia l’elenco dei reati per cui non è prevista l’applicazione della norma sui tempi ragionevoli del processo e in quell’elenco ci sia l’immigrazione clandestina, che attualmente è sanzionata da una ammenda».
Insomma, le “due destre” della maggioranza di governo sono divise sull’immigrazione e la cittadinanza: la destra leghista vuole escludere, respingere e non teme di dichiarare la sua personale fatwa allo stesso cardinale di Milano in nome del tradizionalismo, mentre la destra finiana vuole includere, integrare e confida non solo nello spirito di accoglienza ma nella vittoria della cultura per conquistare ai costumi delle istituzioni italiane ed europee gli immigrati. Non ci si illuda: tra queste due destre non c’è una terza via da percorrere e presto o tardi le due strade si divideranno (quella strada si chiama dopo-Berlusconi). Tutto si potrebbe comporre con una soluzione pragmatica e non è escluso che lo si faccia; anzi, lo si farà perché in ballo c’è il governo. Ma trovata la pratica soluzione lo scontro ritornerà a galla perché non è vero quel che dice Berlusconi, ossia “non c’è competizione”, e la competizione vista in prospettiva riguarda proprio l’identità della Lega e la leadership di Fini. Si tratta di due culture politiche che, anche se spesso sono state accomunate nei nomi (la Bossi-Fini) sono invece diverse. Fini non è disposto a seguire la Lega sul terreno della difesa dell’identità che, con la forza del Viminale, tutto esclude, mentre ritiene che nel lungo periodo la cosa migliore da fare sia una scelta di civiltà che miri a difendere l’identità sulla base dell’integrazione. Non sarà la composizione sul “processo breve” a porre fine a questo “scontro lungo” che vede in gioco due diverse idee di Stato.
Il conflitto duro sul processo breve dimostra che ormai sono in campo due concezioni contrapposte della politica di destra
Si dirà, ma se a quel Fini là non gliene va bene una, che cosa ci sta a fare nel Pdl? Questa, in realtà, è proprio la linea “alla Scajola” e di quelli che Fini lo farebbero accomodare direttamente fuori in via del Plebiscito. Ma se si guardano le cose con più attenzione si vede che all’origine c’è una netta divergenza tra la “destra della Lega”e la “destra del Pdl”che Fini vuole tuttora impersonare, nonostante lo vogliano mettere alla porta. Nella maggioranza di governo c’è uno scontro tra due destre, nonostante si veda in Fini una sorta di “compagno Bertinotti”che sta dall’altra parte. Non a caso ieri Fini ha condiviso i suoi pensieri e le sue critiche, sia al “processo breve”, che secondo l’attuale testo non dovrebbe prevedere i reati dell’immigrazione clandestina, sia all’attacco leghista nei confronti dell’arcivescovo di Milano Tettamanzi («Quello è un imam» ha scritto la Padania), con Pier Ferdinando Casini e Beppe Pisanu nell’incontro alla Comunità di Capodarco. Il leader dell’Udc ha giustamente osservato che nel presepe ci sono non pochi extracomunitari «peraltro proprio a partire da Gesù Cristo», mentre Pisanu ha aggiunto che Gesù «dovette chiedere anche l’asilo politico». Al di là delle frasi a effetto, ciò che conta sono i fatti politici in questione e in lotta: la Lega è pronta a votare il “processo breve” purché siano esclusi i reati del-
Vinicio. Non esita un attimo Casini, preoccupato da una politica «che esaspera le paure e instilla i veleni: dobbiamo incominciare a ragionare per unire», il che equivale appunto a sottrarre il tema dell’immigrazione dal velo post-ideologico in cui è stato avvolto dalla Lega. O forse anche a rigettare proprio un’ideologia, quella cioè della chiusura, di cui il Carroccio si fa interprete e che nasce appunto dalle paure: «Non bisogna sollecitarle», avverte il leader dell’Udc, «compito della politica è guidare il Paese». Come? Secondo il presidente dell’Antimafia Beppe Pisanu non si può discutere degli immigrati facendone «oggetto di miserabili contese o speculazioni elettorali». Non è facile e Pisanu ne sa qualcosa, per aver fatto i conti con le sguaiate aggressioni leghiste quando era ministro dell’Interno: «Ma ci vuole un modello italiano, una nostra particolare via, considerata la specificità del nostro Paese, in cui il fenomeno, diversamente da Francia Inghilterra, Olanda, Portogallo o Spagna, non nasce da un’esperienza colonialistica». Ad allontanare il pregiudizio secondo cui i moderati riporterebbero danno da un impegno su questioni del genere provvede il presidente della Camera: «È una sciocchezza dire che se potessero votare gli immigrati voterebbero a sinistra. Valgono piuttosto le convinzioni di ogni singolo individuo».
È forse la prima volta dall’inizio della legislatura che la Lega finisce in minoranza sul piano della leadership politica. Finora non era mai successo che un fronte trasversale riuscisse a convergere in modo da isolare davvero l’ideologia dei respingimenti. Vale a maggior ragione l’adesione mostrata da Casini, Fini e Pisanu al patto di don Vinicio perché si tratta di esponenti assai rappresentativi persino al di là del partito di appartenenza: Fini è l’alfiere della sola opposizione interna strutturata che l’asse Berlusconi-Bossi conosca; Pisanu è l’epigono di un filone politico-culturale in teoria
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Parlano Gianfranco Rotondi, Maurizio Lupi e Isabella Bertolini
Il Pdl contro Calderoli: «Solo attacchi strumentali»
Le reazioni dei cattolici della maggioranza alle dure critiche rivolte all’Arcivescovo di Milano da parte del ministro leghista di Francesco Capozza
ROMA. Alla vera e propria aggressione della Ha lo stesso tono la reazione del vice presi-
Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini e Beppe Pisanu hanno siglato un «patto anti-Lega». A destra, Isabella Bertolini e Maurizio Lupi, due cattolici di spicco del Pdl maggioritario nel partito di maggioranza, quello dei cattolici-liberali, finora rimasto però incapace di organizzarsi in modo da rispondere alle sbracature lumbàrd; solo Casini è davvero all’opposizione, e nella convergenza di ieri trova forse la migliore conferma possibile all’affermazione fatta agli Stati generali del Centro a Chianciano: «Un’altra maggioranza può nascere in dieci minuti».
Nel corso della giornata si manifestano ulteriori insofferenze all’attacco rivolto dalla Padania contro Tettamanzi: la più significativa è forse quella del governatore uscente della Lombardia Roberto Formigoni, anche lui come Pisanu imprigionato nella consegna del silenzio sostanzialmente imposta ai cattolici del Pdl. Gianfranco Fini mostra a sua volta come il tema non abbia a che vedere solo con la civiltà del dibattito e i diritti in senso soggettivo, perché punta ancora una volta l’indice contro il testo del processo breve «che allo stato attuale esclude il reato di immigrazione dalla lista di quelli per i quali è prevista la durata obbligatoria». Il che attesta come la materia sia in
grado di far esplodere con violenza le contraddizioni interne alla maggioranza. Un equilibrio per cui le richieste sulla giustizia possono passare solo a patto di concedere una così crudele contropartita alla Lega sono evidentemente destinati a non durare all’infinito.
Potrebbero emergere in concreto, queste contraddizioni, a partire da giovedì prossimo, quando nella commissione Affari costituzionali di Montecitorio inizierà l’iter della legge sulla cittadinanza. I finiani promettono battaglia e sarà difficile immaginare argomenti che li mettano all’angolo fino a capovolgere affermazioni come quelle di Benedetto Della Vedova: «Sarebbe paradossale se le posizioni del presidente della Camera, che riecheggiano quelle proprie della tradizione popolare europea, fossero giudicate fuori della linea del Pdl e le scelte della maggioranza finissero per coincidere con quelle della Lega e di Calderoli». Posizioni che, ricorda Rocco Buttiglione, assomigliano al «cristianesimo ariano dei nazisti nella misura in cui la religione viene usata come strumento identitario contro gli altri».
Lega nei confronti del cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, ha risposto un coro di reazioni, un po’ da tutto il mondo cattolico. Il ministro Roberto Calderoli aveva detto che l’arcivescovo di Milano «non parla ai milanesi», aggiungendo che «è come mettere in Sicilia un sacerdote mafioso». E si era chiesto: «Perché Tettamanzi non è mai intervenuto in difesa del crocifisso? Perché parla solo dei rom?». Tra i cattolici del Popolo della libertà la reazione più sferzante è quella di FareFuturo, la Fondazione legata al presidente della Camera Gianfranco Fini: «I fustigatori, i tronisti e i Torquemada sono arrivati come un orologio (e un referendum) svizzero. Non sono piaciute le critiche del cardinale Tettamanzi alla recente raffica di sgomberi che ha messo sulla strada 250 rom di un accampamento abusivo alla periferia di Milano. Il quotidiano leghista, come poteva essere altrimenti, è andato giù duro» sostiene Filippo Rossi, direttore dell’omonima rivista edita dalla Fondazione finiana. «Questo succede - aggiunge Rossi - quando la politica si arroga il diritto di utilizzare la religione come carta d’identità, come facile strumento per riempire la propria vuotezza. Questo succede quando la politica prende in prestito la fede per farne uno strumento di odio e di divisione. Quando si confonde la croce con un simbolo di partito. Questo succede: si arriva a pretendere che la religione si adegui alle regole perverse della politica, perda l’universalità per occuparsi del contingente, perda l’altruismo per rifugiarsi nel più bieco individualismo».
dente della Camera, Maurizio Lupi: «Gli attacchi della Lega al cardinale Dionigi Tettamanzi, cui va tutta la mia solidarietà, sono il frutto di una posizione strumentale che non fa bene al Paese. L’identità cristiana dell’Italia non si difende attaccando chi la rappresenta». «Ma se il Carroccio sbaglia - prosegue Lupi - altrettanto fanno certi esponenti del Partito democratico e dell’Unione di centro, che colgono la palla al balzo per attaccare i cattolici del Popolo della libertà. Evidentemente è un modo per cercare di nascondere il malessere dei cattolici che continuano a fuggire dal partito democratico. Prima di dare lezioni, forse si dovrebbe guardare un po’ più in casa propria».
Meno dura, invece, la reazione di Isabella Bertolini che, pur non condividendo i toni del ministro Roberto Calderoli e del giornale di partito del Carroccio, ritiene in parte sottoscrivibile l’allarme lanciato. «Non mi pare che l’attacco di Calderoli all’arcivescovo Tettamanzi sia un fatto nuovo - dice la deputata Pdl a liberal - era già successo su temi analoghi in passato. Certo, conosciamo la Lega, spesso i suoi esponenti hanno dei toni un pò forti, ma in questo Paese lo vediamo quotidianamente: se non esci dalle righe non fai notizia e non vieni ascoltato». «Personalmente, lo scriva, personalmente, credo che certa chiesa si sia dimostrata troppo buonista nei confronti un certo Islamismo. Parlo di quello non moderato, di quello che costringe ancora le donne a coprirsi il volto. Non condivido i toni della Lega, l’ho detto e lo ripeto, ma per certi versi Bossi e i suoi hanno ragione». Bossi che, tra l’altro, proprio due giorni fa ha inaugurato assieme al sindaco di Milano il presepe di Palazzo Marino. «Condivido pienamente, per esempio - ribatte Isabella Bertolini - la proposta di Umberto Bossi di mettere il presepe nelle classi di scuola. Servirebbe a sensibilizzare di più i nostri giovani nei confonti del cristianesimo. Infondo nessuno può negare, cattolici e non, che il cristianesimo è la base della nostra cultura». «Quindi - conclude Bertolini - evitiamo i toni aspri e la demagogia, ma evitiamo pure di chinare la testa a certo relativismo che fa male alla nostra cultura».
Anche FareFuturo commenta: «Questo succede quando la politica si arroga il diritto di utilizzare la religione come carta d’identità»
All’interno della maggioranza, l’imbarazzo ieri era palpabile, anche il ministro per l’Attuazione del Programma, Gianfranco Rotondi, ha usato parole di aspra critica all’attacco di Calderoli e del quotidiano leghista: «Sono un estimatore anche entusiasta delle virtù politiche del collega Calderoli, meno, naturalmente, di quelle teologiche; per cui mi affretto ad esprimere stima a Tettamanzi, vescovo amato da tutti i cittadini della città più accogliente del mondo. Naturalmente, in questo caso parlo come accolto, operando da anni a Milano in piena sintonia coi milanesi che ci sono nati».
politica
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Conti. Alla fine ha vinto Tremonti: ci sarà un solo maxi-emendamento. Ma il Parlamento potrà solo approvarlo o bocciarlo
Il sequestro della Finanziaria La maggioranza approva da sola (e in commissione) la legge economica Le opposizioni se ne vanno: in Aula è già previsto soltanto il voto di fiducia di Francesco Pacifico
ROMA. Gioacchino Alfano, capogruppo del Pdl della commissione in Bilancio, è stato franco con i colleghi dell’opposizione: «Non possiamo votare nessun vostro emendamento perché nel governo c’è la preoccupazione che si possano aprire delle crepe in Finanziaria. Che possa passare di tutto». E così, blindatura dopo blindatura, si rischia per la prima volta nella storia repubblicana un’approvazione della manovra senza un effettivo esame del Parlamento.
Ieri sono bastati dieci minuti per blindare in commissione Bilancio la manovra. E cancellare per alzata mano tutte le 150 proposte dell’opposizione. Alla fine della settimana, poi, l’ennesimo ricorso alla fiducia dovrebbe annullare le ultime velleità di spesa della maggioranza. Il tutto, chiaramente, limitando al minimo il dibattito nelle sedi istituzionali e riducendo al lumicino la dialettica tra Parlamento e governo. Dopo aver vivacchiato una set-
Ai Comuni gli ultimi risparmi Lo scudo fiscale vale 2,2 miliardi di Alessandro D’Amato
ROMA. Il maxiemendamento del relatore Massimo Corsaro, presentato venerdì a tarda notte e approvato ieri mattina vale circa 9 miliardi sul saldo netto da finanziare. Si tratta di 3,7 miliardi di risorse derivanti dallo scudo fiscale e il resto di rimodulazioni di fondi già presenti nei diversi capitoli del bilancio. Nel maxiemendamento sono diverse le novità rispetto a quanto annunciato: ci sono il patto per la salute e i rimborsi ai Comuni per il mancato introito dell’Ici prima casa, il cedolino unico per i pubblici dipendenti, una serie di misure sul Welfare da circa 1 miliardo. Come previsto, sono entrati sia la Banca del Sud (seppur ridotta rispetto alle aspettative del Tesoro) sia il decreto che ha posticipato a giugno prossimo una quota dell’acconto Irpef di novembre mentre, a sorpresa, non compare l’agevolazione fiscale del valore complessivo di circa 50 milioni per le banche che hanno aderito alla moratoria dei crediti del 3 agosto scorso. È saltato anche il ”rimborso” ai comuni da 200 milioni (90 milioni al comune di Roma) per i mancati introiti di dividendi dalle ex municipalizzate a causa della restituzione degli incentivi fiscali bocciati dalla Ue come aiuti di Stato. Dalla parte dei finanziamenti, il Tfr che i lavoratori non hanno destinato ai fondi pensione e che viene trasferito all’Inps confluirà in un fondo del Tesoro utilizzato per finanziare il patto per la salute: vale 3,1 miliardi. È stata inserita a sorpresa anche una norma che riduce il contributo alla stampa di partito, con le proteste della timana in attesa degli emendamenti del governo, nelle ultime 24 ore la commissione Bilancio della Camera è stata spiazzata dall’accelerata di Giulio Tremonti. Prima il ministro ha imposto al relatore di maggioranza,
Fnsi che ha convocato per oggi una riunione dei cdr dei giornali interessati. Per quanto riguarda lo scudo fiscale, una tabella distribuisce 2,2 miliardi (la parte fino a 3,7 miliardi - cioè 1,5 miliardi - viene utilizzata per altri capitoli tra cui le missioni internazionali): 130 milioni per gli impegni dello Stato per la partecipazione e banche e fondi internazionali; 400 milioni al rifinanziamento del 5 per mille; 103 milioni per la gratuità dei libri scolastici nelle scuole elementari; 100 milioni al fondo di solidarietà per l’agricoltura; 400 milioni all’università; 130 milioni per il sostegno alle scuole paritarie; 400 milioni all’autotrasporto; 571 miliardi per stabilizzazione Lsu, aiuti agli enti locali danneggiati dal terremoto, funzionalità giustizia. Nella finanziaria c’è un pacchetto Welfare: complessivamente circa 1 miliardo per una serie di misure fra le quali la proroga della detassazione del salario di produttività, il potenziamento dell’indennità per il collaboratori che perdono il lavoro che sale dal 20% al 30% della retribuzione dell’ultimo anno fino ad un massimo di 4.000 euro, incentivi all’assunzione di ultracinquantenni disoccupati e dei lavoratori in mobilità con almeno 35 anni di contributi, fino alla maturazione dell’età per la pensione.
Per gli Enti locali sono previsti risparmi per 48 milioni nel 2010 e 126 nel 2011 con una riduzione del contributo ordinario a Comuni e Province che implica una riduzione del 20% del numero dei consiglieri; per gli assessori comunali e provinciali viene ridotto il numero massimo; risparmi sulle comunità. In Abruzzo ci sarà una proroga a giugno 2010 per le imposte. Ma l’importo sarà senza sconti.
Massimo Corsaro, il testo dell’emendamento che conteneva le poche misure di spesa della manovra. Quindi i membri del Pdl – dopo una nottata di discussioni spesso sfociate in liti – hanno obbligato i colleghi dell’opposizione a non discutere tutti i subemendamenti, passando direttamente al voto sul maxiemendamento. Di fronte a un atteggiamento simile Partito democratico, Udc, Italia dei Valori e Api hanno deciso di abbandonare i lavori dell’aula. Ma la scelta dell’Aventino
non ha spinto i colleghi del Popolo delle Libertà a cambiare atteggiamento: prima, in solitaria, è stato approvato il testo presentato da Corsaro, quindi, in una decina di minuti, sono state respinte per alzata di mano le 150 proposte di modifica della minoranza per passare al voto finale. Va da sé che esprimersi soltanto sul maxiemendamento – senza tra l’altro discuterne il merito – e far cadere le altre proposte di modifica equivale a un’approvazione secca, simile a quella di una fiducia. Dal punto formale il presidente della commissione Bilancio, Giancarlo Giorgetti, si è appigliato al fatto che i tempi di approva-
zione erano molto risicati. Anche perché il testo deve approdare in aula domani, se si vuole dare il tempo al Senato di dare la vidimazione definitiva. Di più, questa decisione rispetta persino le condizioni poste da Gianfranco Fini a Tremonti, quando ha spiegato che sarebbe stato sgradevole apporre la fiducia su norme non passate in commissione.
Ma quanto accaduto ieri contrasta la prassi e il bon ton parlamentare. Non a caso Pier Paolo Baretta del Pd, capogruppo del Pd alla Bilancio (vd. l’intervista nella pagina accanto, ndr), ha subito dettato una nota di fuoco alle agenzie: «Denunciamo la violenza formale con la quale il presidente della Commissione, ha avviato la votazione degli emendamenti». Il centrodestra comunque fa quadrato. Il viceministro all’Economia, Giuseppe Vegas, fa sapere che «la fiducia in aula dipenderà dagli emendamenti presentati. Se l’opposizione presenterà numerosi emendamenti è probabile; altrimenti non è detto». I capigruppo del Pdl di Camera e Senato, Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri, hanno rivendicato che «con il lavoro che si è sviluppato armonicamente tra governo, Senato e, adesso, alla Camera va in aula una legge finanziaria che rappresenta un serio strumento per lo sviluppo, che tiene conto che ancora occorrono interventi per affrontare gli effetti della crisi». Mentre il relatore Massimo Corsaro ha ricordato che «Il testo della Finanziaria 2010 che è uscito dalla commissione della Camera costituisce un significativo risultato frutto del lavoro e del confronto costruttivo tra governo e gruppi di maggioranza, che ha portato a una manovra complessiva di circa nove miliardi». In realtà, dietro queste dichiarazioni di facciata c’è molto malumore nella maggioranza. Intanto perché l’imposizione di Tremonti di scrivere l’emendamento parlamentare è l’ultimo stadio in un processo di messa sotto tutela dei gruppi parlamentari. I quali, se fino a paio di settimane fa promettevano in tutte le sedi di tagliare l’Irpef e l’Irap, ieri non hanno potuto far passare un emendamento dell’opposizione per rimettere otto comuni delle Marche nel novero delle aree depresse e rimediare a un errore fatto durante il passaggio parlamentare.
politica
8 dicembre 2009 • pagina 5
«Tremonti ha commissariato tutto» Il j’accuse al ministro di Pier Paolo Baretta, capogruppo Pd in commissione Bilancio di Franco Insardà
ROMA. «La Finanziaria ha un grande regista che ha commissariato la sua maggioranza e, di fatto, la commissione Bilancio. Con la fiducia annunciata sarà commissariato anche il Parlamento. Parlo, ovviamente, del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti». Pier Paolo Baretta, capogruppo del Pd in commissione Bilancio della Camera, non ha dubbi su quello che è accaduto l’altra notte e su che cosa succederà in Aula. È la prima volta che la maggioranza impedisce all’opposizione di discutere i suoi emendamenti? In precedenti occasioni la discussione almeno iniziava e poi se ne accelerava la conclusione. Questa volta la Finanziaria è stata approvata in commissione senza che gli emendamenti di maggioranza e opposizione venissero discussi. La maggioranza sostiene che vi appigliate a un pretesto senza guardare agli interessi del Paese. Per fortuna esistono i resoconti parlamentari. Abbiamo trascorso una notte intera durante la quale abbiamo parlato soltanto noi dell’opposizione, mentre nessuno della maggioranza è intervenuto per discutere nel merito dei problemi del Paese. A che cosa è servito? A nulla, perché la maggioranza aveva deciso a priori che non c’era bisogno di alcun confronto con l’opposizione. Infatti hanno presentato un maxiemendamento che è una sorta di fiducia anticipata. Che cosa farete in Aula? Dovremo richiamare i colleghi e la presidenza della Camera a una discussione anche politica su quello che sta accaEppoi questa Finanziaria rompe il rigido rigore imposto sui saldi da Tremonti – Vegas ha confermato «un aumento della spesa vera di 5,2 miliardi nel 2010», quindi l’impatto sull’indebitamento netto – senza mettere in campo reali misure anticicliche. Spiega Gian Luca Galletti, capogruppo dell’Udc in commissione Bilancio: «Questa manovra ha il solo“pregio”di togliere 2,4 miliardi alle famiglie, visto che non conferma il bonus del 2009. E oltre a non dare nulla alle imprese,
dendo. Presenteremo tutti gli emendamenti che non sono stati discussi in commissione e valuteremo l’atteggiamento del governo. Cioè? Se ci sarà disponibilità al confronto potremo discuterne, altrimenti se ritengono di replicare quello che è successo in commissione Bilancio saremo costretti a chiedere chiarimenti ai vertici istituzionali. Fini in testa. Proprio il presidente della Camera ha sostenuto che in commissione è stato rispettato il regolamento. Dal punto di vista formale è così, ma vorrei ricordare che, appena abbiamo abbandonato la commissione per protesta, la maggioranza ha approvato in dieci minuti centocinquanta emendamenti e il testo della Finanziaria. La conferenza stampa di Pd, Udc, Idv e Alleanza per l’Italia può rappresentare una svolta per l’opposizione? Nei lavori della commissione queste quattro forze politiche si sono mosse abbastanza all’unisono. Non ci sono significati più generali, però non bisogna sottovalutare l’intesa che si è creata per la Finanziaria. Che giudizio dà di questa Finanziaria? Doveva essere, secondo gli annunci di Tremonti, una manovra light, mentre si parla di otto miliardi, metà dei quali finanziati con gli introiti dello scudo fi-
lascia senza copertura non pochi capitoli». Il riferimento va innanzitutto a quelle voci come il fondo per l’editoria (50 milioni) o quello per il settore bieticolo saccarifero (86 milioni) che necessiteranno di provvedimenti ulteriori per avere la copertura necessaria. «Senza dimenticare», aggiunge Galletti, «che Tremonti per la spesa corrente si affida al debito e a entrate straordinarie per trovare soldi a materie private di risorse con i suoi tagli lineari del 2008».
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scale e l’altra metà con il Tfr dei lavoratori. Senza dimenticare che mancano interventi per le famiglie e le imprese. Ci sono piccoli interventi a pioggia, ma non sono questi i grandi temi del Paese. E la Banca del Sud? È stata reintrodotta, dopo che era stata dichiarata inammissibile in Senato e la prima volta anche alla Camera. Esiste,soltanto l’intelaiatura, ma non c’è il contenuto. Qualcosa di positivo ci sarà? Ad essere obiettivi le uniche due cose che hanno una valenza sono il rimborso Ici ai comuni e il patto per la salute.Vorrei ricordare che si tratta di due misure sollecitate da noi. Manca tutto il resto. Si è riusciti ad evitare l’assalto alla diligenza? Assolutamente no. Questa volta è stato il governo ad assalire la diligenza, trasformando una Finanziaria uscita da Palazzo Madama molto povera in una manovra di otto miliardi con interventi a pioggia che hanno scontentato tutti. Pure la maggioranza? Nei corridoi il malumore è evidente anche nello loro fila. È lo slogan tremontiano del rigore? Questo è il risultato dell’errore di fondo dei tagli lineari. E adesso Tremonti utilizza i soldi del Tfr dei lavoratori, un’operazione davvero singolare. Con il maxiemendamento si ha l’impressione che non si vada oltre le spese già previste per il passato,
La maggioranza in dieci minuti ha approvato centocinquanta emendamenti e il testo della manovra
”
Per il Parlamento quella di ieri è stata una nuova giornata nera: dietro la pressione del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, la maggioranza ha blindato la Finanziaria già in Commissione. A questo punto la legge con un solo «maxiemendamento» sarà sottoposta alla fiducia
ma non c’è nulla per famiglie e imprese . Avevamo prospettato di utilizzare i soldi dello scudo fiscale, voluto dal governo e osteggiato da noi, per il sostegno dei redditi aumentando le detrazioni per i lavoratori dipendenti, per i pensionati e per le famiglie con figli a carico. Ma non è stato fatto nulla di tutto questo. Tremonti è soddisfatto perché sarebbe riuscito a congelare i saldi, non c’è troppo ottimismo sulla ripresa? Più che i saldi ha congelato la sua maggioranza. Da oltre un anno Tremonti parla di ottimismo, ma i dati sono sempre più preoccupanti, soprattutto sull’occupazione. E, contrariamente alla propaganda del governo, per fronteggiare la disoccupazione sono stati stanziati soltanto duecento milioni invece di un miliardo. In Finanziaria non c’è nulla neanche per il pubblico impiego. C’è il rischio che ci sia uno scontro anche con i sindacati più collaborativi con il governo come Uil e Cisl? Cisl e Uil avevano motivato questa loro posizione con il fatto che in Finanziaria ci sarebbero stato dei fondi per gli ammortizzatori sociali. Purtroppo non ci sono nè quelli nè i soldi per il contratto per il pubblico impiego. Che impatto può avere sull’elettorato di centrodestra la mancate riduzione del peso fiscale, promesso da Berlusconi? Finora l’abilità propagandistica è sempre riuscita a vendere le promesse come realizzazioni. ma il tempo è galantuomo.
I fondi per il 5 mille o quelli per le missioni all’estero sono stati coperti con 3.790 milioni incassati con lo scudo fiscale. I soldi in più concessi al fondo sanitario nazionale come previsto dal patto della salute invece trovano garanzia nel fondo Inps per il Tfr. Tre miliardi e cento milioni che nel 2007 Prodi aveva vincolato alle opere pubbliche. I microinterventi (valore 400 milioni) invece sono possibili grazie al miliardo che il ministro ha svincolato dai finanziamenti destinati alle
Regioni a Statuto Speciale dopo le ultime intese. Eppure il ministro dell’Economia, a breve, dovrà fare di nuovi i conti con nuove richieste di spesa: a gennaio il collega Claudio Scajola vuole presentare il decreto legge per rinnovare gli incentivi alle rottamazione auto (valore un miliardo). Domani incrocia le braccia il pubblico impiego, che attende di capire dove il governo troverà i fondi per gli aumenti contrattuali del 2010. E che costano la modica cifra di 1,6 miliardi di euro.
diario
pagina 6 • 8 dicembre 2009
Piazze d’Italia. La settimana di passione del segretario si è conclusa con l’assedio mediatico di “Repubblica”
Il Pd di lotta e di salotto
Il “NoBDay” e la diaspora cattolica mettono Bersani nell’angolo ROMA. Il Pd di Bersani è affetto dalla sindrome di Colombo, il grande esploratore che era partito alla ricerca delle Indie e finì per scoprire l’America. Lo testimoniano gli avvenimenti degli ultimi giorni. In Senato il Pd di Bersani si è accordato con la maggioranza di governo per un approccio costruttivo sulle riforme costituzionali. L’esatto opposto di quanto l’ex ministro aveva scritto nella sua mozione, cioè che prima veniva l’accordo con le opposizioni e solo dopo si andava al confronto con Pdl e Lega. In piazza Bersani ha insistito per tenere fuori il suo partito dal NoBDay, con l’obiettivo di scongiurare derive piazzaiole massimaliste. Per vincere le elezioni – come ha scritto ieri Galli della Loggia sul Corriere della Sera – Bersani sa che deve conquisatre voti dal centrodestra, «un elettorato che rifiuta ogni massimalismo». Bersani sta così interpretando a suo modo quella vocazione maggioritaria tanto vituperata nella mozione congressuale di cui era stato primo firmatario. S’intenda: Bersani fa fatto due cose giuste, posizionando il suo Pd nelle istituzioni e nel paese reale sul crinale più riformista disponibile. Ma la distonia con quanto detto al congresso, finito appena un mese fa, non può non generare un gran confusione.
Bersani, certo, non è aiutato da nessuno nel suo partito: né dagli alleati, né dagli avversari. L’adesione di massa con cui le due minoranza interne (franceschiniana e mariniana) hanno deciso di fiancheggiare il NoBDay è stata, in tal senso, emble-
di Antonio Funiciello
capocorrente (D’Alema) che organizzava strutturalmente (Italianieuropei e ReD) l’opposizione interna, quella delle due mozioni sconfitte, è tutta estroversa, in direzione di un populismo “civico” volto ad assediare dall’esterno il neo segretario. Anche le uscite a cadenza regolare (ultimo, il ritorno all’Udc di Dorina Bianchi) dei cattolici dal partito, si iscrivono perfetta-
Il nuovo leader ha scelto una linea politica diversa da quella con cui ha vinto il congresso: per questo gli altri lo hanno lasciato solo matica: una vera e propria prosecuzione del congresso con altri mezzi. Operazione pugnace da tutti i punti di vista, anche sotto il profilo mediatico, con l’appassionata sposorizzazione di Repubblica a fare da potente cassa di risonanza.Tutto suggeriva alle minoranze interne maggiore cautela: dalle bufale giudiziarie alle prossime elezioni regionali. Ma la tattica è la stessa adottata da D’Alema contro Veltroni subito dopo la sconfitta del Pd alle politiche del 2008. Con la differenza sostanziale che mentre quella era una tattica organicistica, con un
mente in questa logica. Non si resta dentro a combattere, ma si va a irrobustire fuori la competion coalizionale.
Ma se dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi Iddio. Bersani s’aspettava forse qualcosa in più da chi lo ha aiutato a divenatare il capo dei democratici. Invece, anche in questo caso, ognuno nel Pd sembra giocare la propria personalissima partita. D’Alema, all’ultima riunione della Direzione nazionale, ha fatto un intervento più lungo della relazione del segretario in carica, insistendo su
Al via il congresso del Pse a Praga
Lezione agli europei PRAGA. Pierluigi Bersani per un po’ si lascia alle spalle le polemiche italiane circa la sua «sudditanza» nei confronti di Antonio Di Pietro e sugli addii degli esponenti cattolici del Pd e prende una boccata d’ossigeno in Europa. Dove pure le asperità con i colleghi del Pse abbondano, visto come è andata a finire la candidatura di D’Alema a ministro degli Esteri della Ue. Sicché, Bersani si lascia andare a qualche tirata d’orecchi anche lì: «Abbandonare la dimensione nazionale e guardare davvero ad un’integrazione europea affinché sia possibile lo sviluppo di un nuovo pensiero politico progressista» è il suo credo nazionale e internazionale. Lo ha ribadito ieri a Praga dove il Pd partecipa come «delegazione ospite» al congresso
del Pse che cerca di riflettere sul cambiamento delle forze democratiche in Europa, dopo la sconfitta delle europee e il crollo dei consensi nei 27. «Le forze progressiste, indebolite dagli effetti della mondializzazione, si sono chiuse in difesa o si sono limitate a migliorare soluzioni di altri», ha detto ancora Bersani, spiegando come da questo «le forze conservatrici hanno guadagnato in tutti i sensi. I successi dei progressisti finora hanno avuto base nazionale e ora devono trovare un respiro davvero europeo». Per il segretario del Pd, infatti, «non possiamo accettare che il mondo esca dalla crisi uguale a prima, con forze finanziarie e di mercato completamente fuori controllo e con politiche economiche fortemente squilibrate».
quei punti (alleanza privilegiata con l’Udc) su cui Bersani era stato più cauto. Una scelta che è stata molto di più di una scortesia e ha lucidato di sarcasmo i sorrisi dei convenuti. Rosy Bindi, neo nominata Presidente del Pd, tanto ha premuto su Bersani, che alla fine ha ottenuto la benedizione del Nazareno per la sua partecipazione al NoBDay. Evidenziando la difficoltà del neo segretario a tenere buona almeno colei che appariva essergli la più fedele tra gli alleati interni. Il vice segretario Letta, d’altro canto, si è spinto dove neppure il Sottosegretario Letta si sarebbe mai spinto, con la sua uscita sulla legittimità della difesa berlusconiana dai processi e non nei processi. Un gigantesco guazzabuglio che peggio smarrisce il Pd nella nebulosa confusione in cui già lo spingono i suoi evidenti paradossi. Sul NoBDay al Nazareno circolava un quiz a risposta multipla: chi ha detto «dobbiamo farla finita con lo scontro feroce e con i veleni, con le polemiche che diventano insulto, con una politica avvolta dall’odio, dove l’altro è un nemico»? Lincoln a Gettysburg, Togliatti a Salerno, Veltroni al Lingotto? La citazione – tratta dal famigerato discorso veltoniano del Lingotto – è stata tirata fuori per ricordare come l’ex segretario tenne il suo Pd lontano dalla prima manifestazione anti-Berlusconi di piazza Navona. Oggi è stato Bersani ad assumere lo stesso comportamento, ma senza essere capace di trovare un partito unito dietro di lui.
La ragione della solitudine dell’ex ministro è semplice ed è riconducibile a un vecchio vizio pi-ci-ista: vincere il congresso su una linea e poi praticarne un’altra. Talora migliore di quella annunciata, altre volte peggiore, ma con l’aggravante di essere discorde dal mandato ricevuto dal congresso. Fu il caso di D’Alema e dell’assise del Pds del ’97, con la sorpresa di conclusioni su una indecifrabile rivoluzione liberale che non c’entravano nulla con la sua relazione introduttiva e il dibattito congressuale. È il caso oggi di Bersani che, se non deve temere avversari dentro il Pd, collocati come sono su una linea di minoritarismo sociale, soffre soprattutto la sua maggioranza interna, che si mostra incerta nel seguirlo e guarda con scetticismo allo scenario post regionali.
diario
8 dicembre 2009 • pagina 7
La proposta leghista per aumentare la velocità
Il presidente incontra i parenti della vittime di Piazza Fontana
Matteoli dice sì ai 150 km/h in autostrada
Napolitano: «Sulle stragi ancora molto da chiarire»
ROMA. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Altero Matteoli, apre alla proposta avanzata dalla Lega Nord sull’aumento dei limiti di velocià sulla rete autostradale. «Sono stato sempre favorevole ad aumentare la velocità in alcune autostrade che hanno le caratteristiche adatte come le tre corsie e il tutor», ha dichiarato il ministro Matteoli, che però avverte: «L’innalzamento dei limiti di velocità dovrà riguardare soltanto le automobili con cilindrata e caratteristiche di sicurezza adatte».
MILANO. «Nelle stragi italiane
Qui, però, si apre il vero problema: stabilire quali siano le “piccole auto” diventa impossibile. Piccole per cilindrata? Non è un parametro di sicurezza. Piccole per dimensioni? Nemmeno. E poi c’è la questione che già oggi è in vigore - come pochi sanno - il limite di 150, ma solo su determinate strade e in condizioni di perfetta visibilità, come recita il codice della strada. La scelta di passare da 130 a 150 è infatti lasciata al gestore della strada che fino a oggi si è ben guardare da applicare la norma. Motivo? La Ue ha in progetto di bloccare a 170 km/h elettronicamente tutte le auto e ha un corposo studio che dimostra come una riduzione di appena 3 km/h della velocità media permetterebbe di salvare da cinquemila a seimila vite ogni anno nel Vecchio Continente.
«Ma nel Pdl c’è o no libertà di dissenso?» Lo scontro tra Fini e Berlusconi secondo Alfredo Biondi di Angela Rossi
ROMA. «A differenza del calcio, un grande partito politico non prevede l’esistenza di segnalinee. È una funzione che non compete né ai ministri né ai dirigenti. In un partito democratico sono previsti dallo Statuto organi collegiali che indicano se una linea di partito sia stata o meno superata e da chi». Alfredo Biondi fa parte della direzione nazionale del Pdl e vorrebbe che per il futuro posizioni come quella emersa nell’ormai celebre fuorionda di Gianfranco Fini su giustizia e leadership monarchica di Berlusconi fossero discusse in modo “istituzionale” e non censurate dalla guardia di ferro. La tensione tra Palazzo Chigi e Montecitorio è davvero risolta o farà di nuovo vacillare il Pdl alla prima occasione? Guardi, io credo sia un bene che un grande partito abbia all’interno diversità di valutazioni, poi l’importante è che sui grandi temi ci sia unità. Assioma che sarebbe applicabile, in questo caso, se la leadership di Berlusconi non venisse vissuta come una monarchia taumaturgica: non le pare che nel Pdl ci sia il vecchio vizio del sistema cortigiano intorno a Berlusconi, un sistema che si sostituisce alla democrazia interna? C’è uno spirito cortigiano ma su temi come quelli etici c’è libertà di coscienza. Cosa peraltro ovvia dato che la maggior parte degli iscritti sono vecchi democristiani e socialisti, poi ci sono quei pochi liberali che dicono ciò che pensano ma, appunto, sono pochi. Il fatto di ricorrere, di fronte a polemiche e contrapposizioni forti, a richiami censori, all’evocazione della lesa maestà, anziché al di battito in direzione nazionale, può essere un sintomo di debolezza? In un grande partito c’è sempre una personalità carismatica, nel Pdl c’è una visione Berlusconi-centrica, ma questo non cambia nulla. Credo che lo stesso Berlusconi disse una sacrosanta verità quando affermò che il nostro è un partito liberale, fu per questo che mi iscris-
si. E credo che il partito debba avere articolazioni non per correnti ma per opinioni, devo potermi esprimere senza essere additato. Il Popolo della libertà è nato da un’intuizione di Berlusconi sul predellino. Una volta scesi da quel predellino il partito ha una sua logica e sue strutture. In politica ci si può volere anche molto male ma vanno poi risolte le questioni generali. L’unità non sta nel dire che si è tutti d’accordo con Berlusconi ma anche nella libertà di non esserlo. A suo giudizio il Pdl è destinato a durare o, anche per questi deficit di struttura interna, è destinato a dividersi in una componente filo-leghista e in altre che andranno con magari con Fini? Può durare a lungo se si ristabilisce l’equilibrio interno e prevale la volontà di stare insieme prevale. Se si decide che è un partito liberale con una sua dialettica interna. Se si grida “dagli all’untore” a ogni difficoltà, allora…. Tirando le somme, è deluso da come vanno le cose nel Pdl? No. Sono dispiaciuto, certo: d’altronde non mi sono mai illuso che fosse facile. La misura della forza di un partito non sta nell’aderire o plaudire. Ci sono pochi critici e troppi laudatores che diventano il sale della minestra. Ritengo però che sia opportuno un discorso chiaro e collegiale e non tra pochi intimi. Un’ultima domanda: pensa che Berlusconi abbia commesso qualche errore che abbia portato poi alla situazione attuale? In Berlusconi pregi e difetti sono chiari come il sole. Le stesse doti per cui ha un’enorme popolarità possono essere difetti. Ha capacità di lavoro immense e crede che le lentezze del sistema agiscano da freno alle sue azioni. In questo può esserci qualche errore ma questo è un governo che in un anno e mezzo ha fatto un lavoro incredibile anche in un momento di congiunture negative. Berlusconi col suo modo di fare può creare correnti di simpatia e antipatia ma dovute perlopiù a tratti caratteriali.
Per il leader liberale, è «un bene che un grande partito abbia al proprio interno diversità di valutazioni»
Matteoli, insomma, è «favorevole» al limite dei 150 chilometri orari metri tratti autostradali a tre corsie e dove c’è il tutor. «Il testo del disegno di legge che azzera il livello di alcol nel sangue per i neopatentati», spiega Matteoli, «dovrà comunque tornare alla Camera, perché sono state apportate alcune modifiche. Anche alla Camera, dove c’è stata unanimità sul testo, c’era stata una proposta in tal senso. Poi era stata stralciata per licenziarlo all’unanimità. Non mi scandalizza che alcuni non siano favorevoli a questa proposta. Ma la proposta della Lega non mi sembra affatto scandalosa».
non tutto è chiaro e limpido». Lo ha detto il presidente Giorgio Napolitano, ieri a Milano per incontrare i familiari delle vittime della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, di cui sabato ricorre il quarnatesimo anniversario. «Ammiro il vostro impegno, la vostra tenacia in questi 40 anni, la passione civile, l’impegno che mostrate per alimentare la memoria collettiva e la riflessione, due cose alle quali l’Italia e la coscienza nazionale non possono abdicare - ha detto il presidente -. Quello che avete vissuto voi mi auguro diventi parte della coscienza nazionale. Ho già detto che comprendo il peso che la verità negata rappresenta per ciascuno di voi, un peso che lo Stato italiano porta su
di sé. La riflessione - ha aggiunto - è necessaria perché ciò che è avvenuto nella nostra società non è del tutto chiaro e limpido e non è del tutto stato maturato. Continuate a operare per recuperare ogni elemento di verità, io vi sarò sempre vicino e vi rinnovo solidarietà e ammirazione». La strage di piazza Fontana, ha detto ancora il presidente, ci ha consegnato «una lezione che non dobbiamo mai dimenticare, ci insegna che dobbiamo evitare che in Italia i contrasti e le legittime divergenze possano sfociare in tensioni tali da minacciare la vita civile».
In Prefettura erano presenti anche Mario Calabresi, direttore de La Stampa e figlio del commissario Luigi Calabresi e Licia Pinelli, la vedova dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Napolitano ha sottolineato che questo incontro è la continuazione ideale del suo impegno, avviato il 9 maggio al Quirinale, quando il presidente per celebrare la memoria delle vittime del terrorismo riuscì a ottenere la presenza delle vedove del commissario Calabresi e dell’anarchico Pino Pinelli, che davanti a lui si scambiarono una stretta di mano in segno di conciliazione.
mondo
pagina 8 • 8 dicembre 2009
Clima. Il summit dell’Onu è cominciato e questa settimana è nelle mani degli sherpa. Ecco chi sono e cosa vogliono
Le lobby di Hopenagen I negoziatori hanno 144 ore per chiudere tutti gli accordi prima dell’arrivo dei big di Luisa Arezzo ction Now. Sotto l’egida ottimistica di questo slogan è cominciato ieri il summit Onu sui cambiamenti climatici di Copenhagen. Un vertice che molti considerano il più importante mai organizzato dalla fine della seconda Guerra Mondiale, ma che porta su di sè lo spettro di un possibile fallimento e del climategate, ovvero lo scandalo delle mail rubate che ha messo in discussione l’attendibilità dei dati dell’Ipcc (Intergovernal panel on climate change). A corroborare le aspettative, però, ci si è messo Obama, che ha spostato la data del suo arrivo nella capitale danese al 18 dicembre, ovvero a chiusura dei giochi. Come dire: la sua firma ci sarà. Non è un mistero che la settimana più importante del vertice sarà la prossima, quando i big cominceranno ad arrivare, ma quella in corso
A
donna e Annex 1, ovvero i paesi industrializzati teoricamente pronti al taglio delle emissioni. Ne fanno parte l’Unione Europea, gli Stati Uniti, l’Australia e 14 paesi con le economie in transizione (i cosiddetti “Iet”, tra cui la Federazione russa, gli stati baltici più Croazia, Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Lichtenstein). È tuttavia chiaro, che Annex 1 al suo interno non è così compatta e che lobby distinte si devono intendere per la maggior parte di questi paesi.
C o m in c i a mo
d a ll ’ U n io n e
Europea. Oggi l’Ue, che rappresenta - non bisogna dimenticarlo - soltanto il 17% delle emissioni inquinanti mondiali, si trova in una situazione difficile. Il suo ruolo di leadership rischia di essere svuotato dall’interno se non riesce a tramutarsi in volontarismo politico
Annex 1 e Annex 2, Bric, Cacam, Asean, Egtt, G77, Umbrella Group e Ipcc: mille acronimi per interessi totalmente diversi. La vera sfida è trovare un’intesa che riesca ad accontentarli tutti non è da meno. Senza interruzione, le prossime 144 ore vedranno in azione sherpa e diplomatici, Ong ed economisti, politici ed attivisti. Si passa da un workshop all’altro, da una riunione a un briefing con la notte destinata a farla da padrone: solo chi resiste fino all’alba ha la possibilità di portare a casa qualche risultato. Il “turno di guardia”, rubando l’espressione ai militari, diventa la norma. Ci si dà il cambio in continuazione per non lasciare mai una casella vuota. Pena restar fuori da questa o quella trattativa.
È l’ora dei lobbisti e guai a sgarrare. Le basi di un accordo o di un fallimento si decidono questa settimana, non la prossima. Quindi meglio tenere d’occhio quel che accade e soprattutto chi sono i principali giocatori sul campo e cosa vogliono. Perché i partecipanti al summit sono divisi in gruppi più o meno importanti - in base ad alcuni criteri che vi andiamo a sintetizzare. La prima-
con effetto trainante sugli altri due gruppi di Paesi chiave. Da un lato gli Stati Uniti e dall’altro il gruppo Bric (Brasile, India, Cina e Russia), ossia i paesi in rapido sviluppo, che nella loro corsa alla crescita non sembrano disposti ad investire risorse al fine di diminuire il loro livello di inquinamento atmosferico. L’Unione dovrebbe stanziare tra i 22 e i 50 miliardi all’anno sui 100 previsti, quindi il ruolo di avanguardia nella lotta climatica appare intatto. Tuttavia, nelle conclusioni del Consiglio europeo di poche settimane fa, è evidente una certa apprensione. Si parla dell’esigenza di un “accordo giuridicamente vincolante” per il periodo successivo alla scadenza del protocollo di Kyoto e si prende atto che «l’intervento isolato dell’Unione non sarà sufficiente». Insomma, senza voler sottostimare l’impulso offerto dall’Unione, la Ue ha preso atto della progressiva erosione della sua leadership: l’accordo o sarà globale, o non sarà. E qui entrano in scena le altre star.
Gli Stati Uniti di Obama vogliono dare un segnale di cambiamento rispetto all’Amministrazione Bush che si è sempre rifiutata di ratificare il Protocollo di Kyoto. Ma su di loro pende la spada di Damocle del Cap and Trade. Il 26 giugno scorso il Congresso ha approvato con un voto sul filo di lana l’American Clean Energy and Security Act, pacchetto legislativo di riforme energetiche e regolamentazioni ambientali fondato su quattro punti (2020 come anno entro il quale garantire il 20% del fabbisogno energetico attraverso energie rinnovabili; interventi per migliorare la distribuzione dell’energia elettrica; miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici pubblici e privati e infine, punto più contrastato, una riduzione del 17% delle emissioni di Co2 rispetto ai livelli del 2005 per tutto il comparto produttivo Usa). Il corollario di questo ultimo punto è quello che prevede il sistema di cap and trade (già attivo in Europa) in base al quale ogni impresa può acquistare o vendere permessi di emissione in base alla propria capacità o meno di innovazione.
Il punto è che il provvidemento arriverà al Senato soltanto nel 2010. E che ad oggi Obama non può firmare accordi vincolanti su questi temi visto che non esiste norma vigente (e fondi stanziati!) in casa sua. La partita è però ancora più complessa: condizione necessaria, anche se non sufficiente, per ottenere il via libera al pacchetto clima da parte del Senato Usa è la posizione dei Paesi in via di sviluppo: saranno disposti a sottoscrivere accordi vincolanti per la riduzione delle emissioni di gas serra? Qualche cenno di apertura è giunto sia dall’India che dalla Cina, ma le dichiarazioni non sono un impegno formale e i paesi Bric (Brasile, Russia, India e Cina, lobby potentissima) cercheranno di scegliere la posizione attendista. La loro decisione ar-
Il governatore della California andrà al vertice
Non diventiamo i nuovi Terminator di Arnold Schwarzenegger Come tutti sappiamo non c’è argomento al mondo più scottante e importante di quello sui cambiamenti climatici. Copenhagen deve segnare il punto di svolta, e se così non sarà avremo perso la nostra più grande occasione. Sappiamo di dover traghettare il pianeta verso la green econmy e che questo richiederà del tempo, ma non possiamo sottrarci a questo dovere. Anche se richiederà accordi di partnership finora mai navigati, l’utilizzo di nuove tecnologie mai sperimentate pienamente, e la revisione di molti piani energetici a livello nazionale e internazionale. Ma tant’è. Dobbiamo guardare a una new balance mondiale. Città, paesi, nazioni, gruppi di pressione, lobbisti, ambientalisti ed economisti sono a Copenhagen per tentare un accordo di portata storica, perché l’azione comincia oggi, da noi. La rivoluzione parte dalla Danimarca. Non
sono ne solo convinto, ma andrò a Copenhagen a raccontare l’esperienza verde del Golden State. La California ha infatti adottato la legge che limita le emissioni di Co2 per i carburanti di auto. Siamo stati i primi al mondo a farlo e questo non solo aiuterà la riduzione del surriscaldamento globale, ma ha esteso la possibilità di scelta da parte dei consumatori e incoraggiato gli investimenti privati di cui abbiamo bisogno per trasformare le nostre infrastrutture energetiche.
Non solo: il provvedimento che stabilisce, tra l’altro, una riduzione del 10% nelle emissioni Co2 dei carburanti entro il 2020, è stato adottato da altri Stati americani ed è guardato con interesse da molte nazioni. Tagliare le emissioni di Co2 è un dovere al quale non dobbiamo sottrarci, pena un’involuzione planetaria nell’arco dei prossimi cinquant’anni. Io lo so che è difficile, ma resto otimista. Perché in Danimarca parleremo sì tante lingue, ma si dovrà sentire un’unica voce: quella che vuole salvare questo pianeta.
mondo
8 dicembre 2009 • pagina 9
Le pressioni di Ratzinger per favorire uno «sviluppo solidale»
Il Papa difende la Terra, il «capolavoro di Dio»
La vocazione «ecologista» della Chiesa non è di ieri: al vertice ci sarà anche una delegazione del Vaticano di Luigi Accattoli omenica il Papa si è appellato al vertice di Copenhagen perché decida iniziative «rispettose della creazione e promotrici di uno sviluppo solidale». La «salvaguardia del Creato – ha detto ancora con un’espressione sorta un trentennio addietro in ambienti ecumenici tedeschi – postula l’adozione di stili di vita sobri e responsabili, soprattutto verso i poveri e le generazioni future». Abbiamo un Papa ecologo che insiste sul rispetto del Creato pur nello scarso ascolto che ottiene – su questo tema – sia dentro sia fuori della Chiesa.Una volta, pur essendo egli così schivo da ogni protagonismo, arrivò a porsi come promotore di un movimento cristiano-cattolico: «Vi invito a pregare e a lavorare con me per un maggiore rispetto delle meraviglie della creazione di Dio» (5 settembre 2007). Della necessità di promuovere «un governo responsabile della natura» tratta nell’enciclica Caritas in Veritate pubblicata il luglio scorso. In essa elenca la “salvaguardia dell’ambiente” tra i motivi che dovrebbero convincere l’umanità a dare vita a una «autorità politica mondiale» dotata di poteri sovrannazionali.
D
riverà solo dopo aver osservato le reali intenzioni del blocco occidentale. L’attesa, sarà probabilmente mantenuta anche a livello di G77 (la cui presidenza, al momento, è tenuta da Hu Jintao, ed ecco spiegato perché viene a Copenhagen), all’interno del quale si muovono altri micro-gruppi tutt’altro che irrilevanti, come i Cacam (i paesi dell’Asia Centrale e del Caucaso più Albania e Moldavia) e l’Asean (acronimo per Association of South Esat Asian Nations, 10 paesi in tutto fra cui l’Indonesia e le Filippine) .
Poi ci sono i paesi membri dell’Ocse, ma non facenti parte dello “Iet”, i cosiddetti Annex II. Essi sono tenuti a fornire le ri-
dere ai cambiamenti climatici e adattarsi ai suoi effetti negativi. Sconosciuti ai più ma fondamentali, gli Egtt, il gruppo che si occupa degli investimenti e dell’innovazione tecnologica. Al momento l’unico in grado di offrire una seranza di successo all’intero Vertice (ne fanno parte 3 rappresentanti per l’Asia, l’Africa e il Pacifico, 8 membri dell’Annex 1, più altri 2 membri per le isole e Annex II).
Al fianco dei quali si trovano i grandi del Wto, World Bank e Fondo Monetario, i veri sherpa di tutto il negoziato. In più ci sono, anche se questa volta dicono di aver sotterrato l’ascia di guerra che avevano lanciato durante le contrattazioni per il
Si passa da un workshop all’altro, da una riunione a un briefing, con la notte destinata a farla da padrona: solo chi resiste fino all’alba ha la possibilità di portare a casa qualche risultato sorse finanziarie per consentire ai paesi in via di sviluppo di intraprendere attività di riduzione delle emissioni ai sensi della Convenzione e per aiutarli ad adattarsi agli effetti negativi dei cambiamenti climatici. Un altro numeroso gruppo è costituito dai paesi in via di sviluppo (No Annex I), riconosciuti dalla Convenzione come particolrmente vulnerabili. Altri 49 paesi sono invece classificati come Paesi Meno Avanzati (Pma) e vivono in una situazione per la quale le Nazioni Unite riservano una particolare considerazione proprio per la loro limitata capacità di rispon-
Protocollo di Kyoto, i paesi dell’Umbrella group, tradizionalmente composto da Australia, Canada, Islanda, Giappone, Nuova Zelanda, Norvegia, Russia e Usa. Last but not least, ci sono i rappresentanti delle Nazioni Unite come l’Undp, la Fao e l’Unep e il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc). Più le organizzazioni intergovernative (Igo), l’Ocse con la sua Agenzia internazionale dell’energia (Aie) e numerose organizzazioni non governative (Ong), due per tutte: Wwf e Greenpeace, presenti con oltre 985 associazioni del mondo ambientalista.
stenne il sottosegretario vaticano ai rapporti con gli Stati, Pietro Parolin, parlando alle Nazioni Unite il 24 settembre 2007 sulla «sfida dei cambiamenti climatici». Presentò la posizione vaticana come una terza via tra l’ecologismo radicale e la negazione del problema ecologico e sollecitò l’adozione di una «strategia politica coordinata, agile ed efficace, capace di far fronte a una tale complessa questione», facendosi carico anche dei «costi economici» che le «conseguenze negative dei cambiamenti climatici» potrebbero scaricare sulle spalle delle «nazioni povere». L’attenzione all’ecologia non è nuova nella predicazione papale: già papa Wojtyla aveva proclamato Francesco d’Assisi «patrono dell’ecologia» (1979) e più volte aveva trattato l’argomento, arrivando nella Centesimus Annus (1991) ad affermare il concetto di «ecologia umana» (paragrafo 38). Il tema dell’ecologia umana è stato sviluppato da Papa Ratzinger, che ne ha parlato anche nell’ultima enciclica. In un messaggio del 1° maggio 2007 alla Pontificia Accademia delle Scienze sociali aveva sostenuto che essa «esige una relazione responsabile non soltanto con la creazione ma anche con il nostro prossimo, vicino e lontano, nello spazio e nel tempo, e con il Creatore».
Le agenzie umanitarie cattoliche di 25 paesi hanno promesso di “assediare” pacificamente il summit
Le parole forse più forti le aveva usate parlando a un raduno di giovani a Loreto, il 2 settembre del 2007: «Prima che sia troppo tardi, occorre adottare scelte coraggiose, che sappiano ricreare una forte alleanza tra l’uomo e la terra». Sempre in quel mese, in visita a Velletri, aveva affermato che «la logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra poveri e ricchi, come pure un rovinoso sfruttamento del pianeta». L’attenzione – davvero straordinaria – del papa all’ecologia ha influenzato l’attività diplomatica della Santa Sede, che sarà presente a Copenhagen con una delegazione guidata dall’osservatore permanente presso l’Onu, arcivescovo Celestino Migliore. Ad appoggiarne il lavoro ci saranno – fuori degli ambienti della Conferenza – vescovi e rappresentanti di agenzie umanitarie cattoliche di 25 paesi, che hanno promesso di “assediare” pacificamente il summit per invocare «una giustizia climatica». C’è anche una vasta adesione, in tutto il mondo cattolico, alla campagna Bell Ringing (suono di campana) proposta dal Consiglio delle Chiese danesi e sostenuta dal Consiglio Ecumenico mondiale: domenica prossima, quando la Conferenza sarà a metà del suo calendario, alle 15 (ora di Copenhagen) le Chiese aderenti suoneranno le campane sull’intero pianeta per sollecitare decisioni concrete. Per intendere nel dettaglio la posizione del Papa, va ricordato quanto so-
Colpisce l’insistenza sull’ecologia da parte di un papa tanto schivo dal fare suoi i temi agitati nelle piazze e sui media. A fondamento della sua passione c’è sicuramente l’intenzione di dare voce al desiderio di acqua e di aria pulita da parte delle componenti più povere e semplici dell’umanità contemporanea, che non si vedono in alcun modo rappredall’ecologismo sentate ideologico. Ma credo vi siano anche ragioni culturali che lo motivano personalmente. Il movimento ecologico è nato in Germania e questo fatto già è provocante per il Papa tedesco. Si tratta inoltre di una tematica che permette un recupero di motivazioni bibliche e cristiane (si pensi al francescanesimo) capaci di rintuzzare gli attacchi dell’ecologismo radicale alla tradizione ebraico-cristiana. Egli infine avverte l’esigenza che la predicazione cristiana non ignori la questione ecologica che pone la domanda sul rapporto tra l’uomo, il cosmo e la storia. In ciò è mosso dalla preoccupazione che non si dimentichi un quarto e più alto protagonista di quel dramma: e cioè Dio. «Se Dio manca – ha detto il 9 novembre in un messaggio ai vescovi italiani – manca la bussola per trovare la strada dove andare». www.luigiaccattoli.it
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
A Napoli anche lo Stato diventa cieco Napoli, quartiere Santa Lucia, lì dove c’è la sede della Regione, sono stati arrestati 56 falsi invalidi: ciechi che ci vedono benissimo, tanto che guidano, leggono e ritirano personalmente la pensione di invalidità a cui non hanno diritto. Ritiravano, perché da ieri hanno finito di ricevere la mensilità che sottraevano allo Stato grazie a una truffa diabolica che andava avanti da anni. Qui, però, finisce la buona notizia.
A
Già, perché è evidente che una truffa di questo tipo si può organizzare e realizzare solo se c’è la fattiva collaborazione della pubblica amministrazione. Il finto cieco può fingere finché vuole, ma se dall’altra parte dello “sportello”non c’è una persona che chiude un occhio, anzi due, insomma, finge a sua volta di non vedere, beh, l’operazione non potrà mai andare in porto. E, infatti, in una nota la Procura di Napoli precisa che le persone arrestate devono rispondere solo di truffa e falso, mentre le indagini ancora in corso riguardano altri personaggi «anche eventualmente appartenenti alla Pubblica amministrazione che hanno dato luogo al sorgere dell’associazione ed al suo svilupparsi». Lo Stato truffa lo Stato. Ora si accerterà quanti impiegati facevano parte dell’organizzazione falsi ciechi. E si cercherà di capire se l’organizzazione a delinquere ai danni dello Stato e della pubblica amministrazione sia solo un episodio o se, come appare più probabile, ci siano a monte una organizzazione collaudata e una connivenza diffusa. Non è di certo la prima volta che a Napoli e in Campania si verificano casi del genere. Non a caso Napoli è la capitale del falso. Se si falsificano le borse di Fendi e le scarpe di Prada si falsificheranno anche i documenti di invalidità. O no? Solo che nel primo caso lo Stato non c’entra e al massimo gli si può imputare una leggerezza nei controlli; mentre nel secondo caso il falso invalido può essere “prodotto” solo se da qualche parte è proprio lo Stato che viene meno ai suoi compiti. I documenti sono rilasciati dagli uffici pubblici - amministrativi, sanitari - e se non c’è una connivenza è impossibile raggiungere l’obbiettivo. Perché ci sia un falso cieco che ci vede benissimo è necessario che ci sia un medico che certifichi il falso e un impiegato che accolga la richiesta di pensione pur sapendo che il cieco non ha due occhi sani ma quattro. In fondo, l’idea stessa di mettere su un’organizzazione di questo tipo, così truffaldina nei confronti dello Stato, non si può neanche concepire lì dove lo Stato non offre il fianco o non ha un tallone d’Achille scoperto. Anzi, diciamola tutta: la falsa invalidità è un malcostume politico e rientra a pieno titolo nelle operazioni di clientelismo che, sia pure con oculatezza e controllo, sono state fatte per garantire reddito a chi non ne avrebbe mai avuto uno o non se ne sarebbe mai procurato uno lecitamente. Il torto della truffa dei falsi ciechi è nella tracotanza: non si può essere ciechi e guidare l’auto o leggere il giornale mentre si ritira la pensione per cecità. La tracotanza era la convinzione di essere addirittura nel giusto.
Se la stampa americana processa l’Italia Frattini getta acqua sulle polemiche per la sentenza Knox di Riccardo Paradisi o, non è ipotizzabile un intervento da parte degli Stati Uniti a seguito della sentenza al processo per l’omicidio di Perugia». Antonio Cassese, presidente del Tribunale speciale per le Nazioni Unite per il Libano, ritiene che tra Roma e Washington non ci sarà nessun incidente diplomatico per il caso Amanda Knox, la ragazza di Seattle condannata a 26 anni dal tribunale di Perugia per omicidio l’omicidio di Meredit Kercher.
«N
Vedremo. Ma si potrebbe anche aggiungere che non si capirebbe il senso di un’intervento diplomatico che non fosse quello di una volontà di ingerenza. D’altra parte se Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha mantenuto finora un atteggiamento semplicemente interlocutorio – «Sono pronta a incontrare chiunque abbia dubbi sulla sentenza» – c’è una forte corrente d’opinione negli Stati Uniti i cui toni sono molto diversi. La senatrice democratica Maria Cantwell ha infatti chiesto di «verificare che la sentenza di Perugia non sia stata condizionata da “sentimenti antiamericani”presenti in Italia», parlando anche di sentenza viziata da «un’evidente mancanza di prove». Un’interrogazione quella della Cantwell «nata sull’ondata di antipatia che negli Stati Uniti sta montando per la giustizia italiana» come scrive il quotidiano britannico The Telegraph, raccontando che mentre americani infuriati si ripromettono di «boicottare vacanze, cibo e vino italiani, il chiassoso gruppo Amici di Amanda invita a scrivere una mail al presidente Barack Obama perché dia il suo sostegno all’appello». Sotto il titolo «Un’americana negli ingranaggi della giustizia italiana», il New York Times ha intervistato alcuni esperti giuristi sottolineando che nessuno era d’accordo con la sentenza. Del resto già prima del pronunciamento del tribunale di Perugia, il New York Times aveva criticato il processo. Di fronte a questa corrente di diffidenza e di antipatia che spira da oltreoceano il ministero degli Esteri sta tenendo
un profilo basso, sdrammatizzante. Se quello della Farnesina non è l’atteggiamento di chi sta sulla difensiva certo appare molto prudente: «Il popolo e i governi italiani sono fra i più favorevoli agli Usa, agli americani e ai loro governi – diceva a Repubblica un funzionario del ministero domenica scorsa – per il resto siamo sicuri che il consolato a Roma saprà rappresentare a chiunque negli Stati Uniti la situazione italiana, saprà riferire il modo in cui funziona il sistema giudiziario italiano, la sua indipendenza dal governo, le garanzie che i diversi livelli di giudizio offrono a qualsiasi imputato, anche straniero». Sono spiegazioni necessarie? Forse no. Tanto più che opportunamente l’ambasciata americana ha dichiarato non spettarle intervenire sulle questioni interne alla giustizia italiana. Ieri però il ministro degli Esteri Franco Frattini è voluto intervenire sulla questione: «Chi critica la sentenza? Una petizione popolare guidata dai familiari della condannata, non certo da Hillary Clinton. Non facciamo confusione...». Il fatto è che questa corrente d’opinione americana, che ha trovato ampio ascolto ai piani alti della politica Usa, è alimentata da gran parte della stampa americana. Gli amici di Amanda insomma sono decine di milioni negli Usa.
Antonio Cassese, presidente del Tribunale speciale dell’Onu, ritiene che non ci saranno incidenti diplomatici
Non si tratta di fare confusione ma di capire le dimensioni di un fenomeno. Sicché il ministro degli Esteri avrebbe potuto fare un passo di più e chiarire senza dare troppe spiegazioni che l’Italia, come ricorda ancora Antonio Cassese, ha condotto un processo equo, secondo tutti i criteri dettati dal nostro codice di procedura penale, che in Italia abbiamo altri due gradi di giurisdizione, che non c’è alcun elemento di antiamericanismo, tanto è vero che è stato condannato anche un cittadino italiano». E a proposito di cittadini italiani il senatore radicale del Pd Marco Perduca invita il ministro Frattini ad attivarsi per i quasi 3000 italiani in carcere nel mondo, «sia che abbiamo subito procedimenti problematici, siano in fase di ricorso oppure trovati colpevoli o rei confessi». Un caso su tutti è quello di Chicco Forti, condannato all’ergastolo per omicidio in Florida a seguito di un processo indiziale e sul cui caso esiste un’ampia letteratura critica compilata dalla famiglia e dagli amici. «Se l’Ambasciatore Terzi è a disposizione delle richieste Usa sul processo di Amanda Knox - dice Perduca - va anche posto il problema della reciprocità viste le dimensioni del fenomeno». Non ha torto.
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Non basta la sola maggioranza di governo per mettere mano a riforme che riguardano le regole fondamentali
Ma la giustizia non è un derby Tutti i limiti di una battaglia politica combattuta non in nome dell’interesse comune di Francesco D’Onofrio nche le vicende dell’ultima settimana hanno posto in evidenza il fatto che il rapporto tra la giustizia vista nel suo insieme e la politica vista altrettanto nel suo insieme, non è un rapporto che possa essere vissuto come in una partita di calcio tra due tifoserie contrapposte ma, al contrario, come una vicenda di straordinario rilievo politico e costituzionale che richiede per ciò stesso una distinzione radicale tra maggioranza di governo e maggioranza costituzionale.
quale alternativa di governo alla maggioranza medesima. Ma il rapporto tra giustizia e politica non si esaurisce esclusivamente nella volontà popolare, comunque necessaria per sostenere una maggioranza di governo, perché è di tutta evidenza che le questioni della giustizia – tutte, dalle
Allorché si consideri infatti la legittimazione politica e costituzionale di una maggioranza di governo, si può certamente oscillare tra il richiedere, comunque e sempre, un voto popolare di governo e una maggioranza parlamentare, trattandosi – come nel caso italiano – di un sistema di governo democratico e parlamentare ad un tempo, e l’affermare del pari comunque e sempre l’insufficienza di qualunque maggioranza parlamentare per realizzare il necessario equilibrio tra giustizia e politica. La maggioranza di governo può certamente contenere al proprio interno una specifica tifoseria, che tende a vedere le decisioni della maggioranza alla quale essa fa riferimento quali decisioni sempre e comunque giuste, sempre e comunque da sostenere, sempre e comunque contrapposte alle decisioni di un qualunque schieramento politico, che intenda porsi
indagini alle decisioni conclusive – non sono ricomprese tra le decisioni che traggono origine dalla legittimazione popolare.
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verno, ma risulta soltanto complementare per realizzare un equilibrio costituzionale basato su due valori non coincidenti: la giustizia da un lato, e la politica dall’altro. Non si tratta di valori costituzionali incompatibili l’uno con l’altro ma di valori certamente distinti l’uno dall’altro. Ed è per questa ragione che la maggioranza necessaria per costruire o modificare un equilibrio politico e costituzionale concernente il rapporto tra giustizia e politica non può coincidere con la pur necessaria maggioranza di governo, perché deve poter attingere a una diversa maggioranza parlamentare. Si tratta di una questione che non concerne soltanto o esclusivamente i poteri formali concernenti il decidere sulle questioni di giustizia aventi evidente rilievo politico, perché si tratta di questioni che richiedono ad un tempo legittimazione democratica e specifica legittimazione tecnica. Occorrono pertanto due maggioranze: l’una chiamata a decidere sulle questioni concernenti le scelte di fondo che la maggioranza popolare ritiene di voler perseguire, l’altra chiamata a ricercare il punto di equilibrio complessivo tra i valori propri della giustizia ed i valori propri della democrazia elettiva. Sono infatti due i valori costituzionali da tutelare: quello che vede nella volontà popolare il perno politico e costi-
Modificare l’equilibrio oggi esistente tra giustizia e politica è un atto di carattere costituzionale
Questa è infatti per sua natura essenziale per costruire una maggioranza di go-
tuzionale di fondo di una maggioranza di governo, e quello che a sua volta vede nel limite stesso al potere della maggioranza di governo il fondamento politico e costituzionale dell’essere orientato a rappresentare l’idea stessa di equilibrio costituzionale, senza il quale la maggioranza di governo rischia in ogni momento di sbandare nel senso di un presunto democraticismo assoluto, anche se a base elettiva e popolare. Le questioni concernenti la giustizia da questo punto di vista sono pertanto questioni complesse che attengono alla fase iniziale dell’indagine concernente un reato – se si tratta di giustizia penale – o un illecito comunque considerato – se si tratta di giustizia civile. È in questa fase che la giustizia a sua volta rischia di essere vissuta in una sorta di tifoseria considerata astrattamente giustizialista e quindi sostanzialmente antipolitica.
Lo scontro tra le due tifoserie si combatte pertanto all’insegna di un solo valore: quello della maggioranza di governo. Le due maggioranze che invece si intendono qui richiamare mettono da parte le rispettive tifoserie per ricercare un consenso più largo di quello necessario e sufficiente per governare, perché si tratta di un consenso concernente la convivenza tra giustizia e politica e non lo scontro permanente dell’una contro l’altra.
Quotazioni. La querelle sul valore delle meraviglie d’arte nascoste dall’imprenditore del crack Parmalat
Tanzi, il collezionista di «croste» di Alessandro D’Amato
ROMA. Non ha fatto nemmeno in tempo a far seccare l’inchiostro della lettera con la quale negava di possedere opere d’arte, che Calisto Tanzi è stato beccato, come dicono a Roma, con il sorcio in bocca. Al Cavaliere del lavoro protagonista del disastro Parmalat dovevano essere fischiate le orecchie quando la trasmissione Report aveva dato voce a un’esperta d’arte che raccontava di aver visto nel suo caveau dipinti e quadri di valore, sempre sfuggiti alle perquisizioni della Guardia di Finanza. Subito dopo è scattato il blitz delle Fiamme Gialle, che hanno ritrovato, opportunamente imboscate in case di amici e parenti ignari, il tesoretto: pare sia stato il cognato Stefano Strini, marito di Laura Tanzi, una delle figlie, a piazzarle. Strini è indagato per ricettazione e favoreggiamento assieme a un mercante d’arte, sul nome del quale vige il segreto istruttorio.Tra le opere sequestrate spiccano Il ritratto di ballerina, matita su carta Degas, un autoritratto di Ligabue, La scogliera di Pourville di Monet, una natura morta di Gauguin, un tronco d’albero di Van Gogh, una natura morta di
Picasso datata 1944, un acquerello di Cezanne, un pastello di Pizarro e altre meraviglie.
Un bottino non indifferente, ma a quanto pare i creditori a vario titolo non possono certo festeggiare più di tanto. Perché quello sequestrato a Tanzi è sicuramente un tesoro artistico ma non certamente del valore di
Il critico Paolo Dal Bosco valuta pochissimo i capolavori di Monet, Van Gogh e Cezanne che anni fa comprò per l’industriale cento milioni di euro, secondo Paolo Dal Bosco, già consulente d’arte a Rovereto, che negli anni ’90 ha operato per l’ex re del latte, comperando tutti i quadri di arte moderna sequestrati dalla Guardia di Finanza a Parma. La scogliera del Pourville di Monet, ad esempio, è stata pagata all’epoca dall’industriale emiliano poco più di un miliardo di li-
re (cioè 500 mila euro). «Cifre - spiega dal Bosco - che, pur tenendo conto della rivalutazione economica delle opere d’arte degli ultimi 15 anni, possono essere rivalutate per tre allo scopo di avere un loro valore reale attuale, che oggi è quindi pari a circa cinque milioni di euro». Non i cento favoleggiati dalla Finanza, insomma.
Quindi a questo punto non resta che affidarsi ancora all’annosa ricerca del vero tesoretto del patron di Parmalat. Nascosto, secondo Gerardo La Guardia procuratore della Repubblica a Parma, all’epoca del suo misterioso viaggio a Quito, in Ecuador. Ma alle rogatorie internazionali lo stato sudamericano non ha mai risposto. E intanto il tempo passa, inesorabilmente. Sulla più grande truffa di tutti i tempi ai risparmiatori italiani il sipario è ormai calato da troppo tempo.
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ommentando, in piena canicola estiva, il cartellone del Teatro alla Scala, Paolo Isotta, critico musicale del Corriere della sera, ribadiva un’opinione espressa ormai un quarto di secolo fa: non essere cioè Carmen (prescelta, oggi come allora - dirigeva Claudio Abbado, Verrett e Domingo gli interpreti principali, - per inaugurare la stagione) uno di quei capolavori assoluti in grado di «spezzare le catene della vecchia forma teatrale entro la quale erano stati generati e si inventano una nuova libera forma», per usare le parole di Massimo Mila, che sulla Stampa del 9 dicembre 1984 appoggiò la “mozione di sfiducia” presentata dal collega del quotidiano lombardo.
C
Di tutt’altro tenore il parere sulle “fatiche” di MeilhacHalévy-Bizet pronunziato dal fior fiore della storiografia musicale d’oggi e di ieri, e, fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, addirittura da Nietzsche. Il quale, la sera del 26 novembre 1881, ignaro di ciò cui stava per andare incontro, entrò al Politeama di Genova: «Ho avuto di nuovo la rivelazione di un bel lavoro, un’opera di Georges Bizet (chi è?): Carmen. Si ascolta come una novella di Mérimée, ricca di spirito, forte, a tratti commovente. Un ingegno autenticamente francese di opéra-comique, per nulla disorientato da Wagner, per contro un vero allievo di Hector Berlioz».
o Nietzsche? Occorre resistere alla tentazione di maramaldeggiare gli avversari di Carmen, appoggiandosi all’autorità dei tanti illustri fautori o alla predilezione mostrata pressoché immediatamente dai pubblici di tutto il mondo (il debutto parigino del 3 marzo 1875 si risolse in un insuccesso di scandalo, ma già nel novembre successivo, a Vienna, la vittoria fu completa, e così, in seguito, a Londra, New York, Parigi, con la ripresa all’Opéra-Comique, Napoli, Firenze, ecc.). Meglio mettere da parte giudizi di valore e classifiche, per concentrarsi su alcuni elementi distintivi della drammaturgia bizetiana, grazie ai quali forse risulterà più chiaro come la “novità” di Carmen non dipenda dallo scardinamento delle forme consuete. Il rapporto colla fonte letteraria, innanzitutto. Il mirabile racconto di Mérimée (1845), strettamente imparentato coll’Histoire de Manon Lescaut di Prévost, è ancora intriso di succhi razionalisti, set-
Il giudizio di Friedrich Nietzsche era positivo: «Si tratta di un bel lavoro che si ascolta come una novella di Mérimée, ricca di spirito, forte, a tratti commovente»
Ecco come è stata giudicata, negli anni, l’opera di Bizet da i
Carmen di tutto di Jacopo Pellegrini
Orecchio fino, quello del filosofo tedesco, e animo di filologo (la vocazione primitiva): non sa chi sia il compositore, però ne coglie la filiazione da Berlioz (centralità e autonomia del fattore timbro, allargamento dello spettro armonico in rapporto all’espressione drammatica); non individua l’origine del soggetto, ma percepisce immediatamente la vicinanza col letterato transalpino. Dieci giorni dopo l’illuminazione: «la memoria […] mi ricorda che vi è davvero una novella di Mérimée intitolata Carmen e che lo schema, l’idea e anche lo svolgimento tragico di quell’artista sussistono nell’opera. Il libretto è in effetti notevolmente buono». Chi ha ragione, dunque, Isotta
tecenteschi. Nel mentre sembra inventare l’immagine letteraria della femme fatale, lo scrittore subito ne attenua la portata eversiva, inserendo la narrazione tra due cornici: in primo luogo, il resoconto del viaggiatore francese appassionato di antichità romane e di etnologia che s’imbatte in Don José e Carmen, quindi la storia della gitana, riferita però secondo il punto di vista e le parole del disertore navarrese.
Tutt’altro, ovviamente, il caso della riduzione operistica, dove ogni episodio è in presa diretta, accade dinanzi a noi. Meilhac (estensore dei dialoghi parlati, un tratto caratteristico del genere comique, basato sull’alternanza canto/reci-
tazione) e Halévy (responsabile dei numeri musicali in versi), introducono, con Escamillo (in Mérimée, il picador Lucas, poco più di un’ombra fuggevole) e Micaëla, due contraltari dei protagonisti, e attenuano le malefatte di José, in modo da evidenziare la sua natura di uomo semplice e onesto che
una fatalità invincibile trascina fuori dalla legge; in nulla mutano, invece, l’indole di Carmen, vita elementare (nella novella è un continuo paragonarla al mondo animale) che protesta una libertà incondizionata e la difende fino alla morte. Una creatura inedita per il teatro, e sovversiva. Sul
piano musicale, questa antitesi di valori e comportamenti umani è realizzata grazie a una gamma non scontata di soluzioni canore.
I due mondi si contrappongono anche sulla base dello stile vocale: quello “convenzionale” di Micaëla (plasmato sulle eroine lyriques di Gounod) e, in parte, di Don José pone in luce l’estraneità originaria delle due figure al mondo estroverso e festante di Siviglia, al fatuo sportman Escamillo (laddove la “facilità” smaccata delle strofe sul toreador rispecchia il suo machismo), al libertinismo eroico di Carmen. La quale si esprime per mezzo di canzonette (fa eccezione la Scena delle carte) e per mostrare tutta intera la propria violenza incantatoria avrebbe davvero biso-
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Così definisce la libertà femminile 2009, Emma Dante, la regista della rappresentazione milanese
Aggressiva ma con Chanel n. 5 di Gabriella Mecucci erimèè e Bizet hanno creato con Carmen non solo un grande personaggio letterario e teatrale, ma hanno dato vita ad un mito che incarna la libertà femminile, la carnalità, l’inconstanza, la fatalità dell’amore, la verità che si erge contro l’ipocrisia, l’anticonformismo, e persino la forza ribelle delle classi subalterne. Per questo il personaggio supera il tempo ed entra in tutte le forme della creatività: prosa, poesia, teatro, opera lirica, balletto, cinema, pittura e altro. Carmen tutto tocca e tutto trapassa riuscendo a tenere insieme epoche e mondi diversi. Come ha detto proprio su Liberal la regista dello spettacolo di ieri sera, Emma Dante: «L’opera di Bizet è clamorosa, enorme, vanta legami profondi con l’antichità,e reca in sé tanti mondi diversi, non solo la Spagna, ma anche la Francia, l’Africa, il Sud America. Secondo Daniel Barenboin (il direttore che è salito sul podio per questa edizione scaligera) Carmen è una gitana che usa Chanel n.5». Donna antica e modernissima insieme.La storia della gitana-sigaraia rivela cose sulla passione e sulla sua caducità tutt’altro che esotiche, ma universali. Ognuno dei due protagonisti appare chiuso in un sistema di valori alternativo a quello dell’altro. E in questa guerra fra sessi, che si combatte in nome dell’amore, la ragione e il torto non si dislocano mai con nettezza. Carmen giganteggia perché difende la propria libertà anche di fronte alla morte: «Mi chiedi l’impossibile. Non ti amo più; tu mi ami ancora ed è per questo che vuoi uccidermi. Potrei ancora dirti qualche menzogna;ma non voglio darmene pena.Tutto è finito fra noi. Come mio rom hai diritto ad uccidere la tua rom, ma Carmen sarà sempre libera. Callì è nata, callì morirà».
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ieri in scena alla Scala
o il mondo gno di essere interpretata da un’eccelsa chansonnière. Che so, Edith Piaf. O, almeno, la Callas. Il fascino di questa sorcière passa attraverso il canto; ma, come a una sirena da cabaret (quelli malfamati di Parigi, che Bizet conosceva e ai quali si ispirò per dare voce a una “diversa”, a un soggetto pericoloso per la sua irriducibile alterità), le tocca d’intonare pezzi chiusi a carattere leggero.
Il debutto parigino di marzo fu un clamoroso insuccesso, ma già nel novembre successivo, a Vienna, la vittoria fu completa. E così a Londra, Napoli, New York e Firenze
È “musica di scena”, quella di Carmen, tale che apparirebbe rivestita di suoni anche nella vita reale, o in uno spettacolo di prosa. E lo stesso discorso vale, in larga misura, anche per gli interventi del coro. Di qui l’identità che viene a istituirsi tra il dramma dei personaggi e l’ambiente in cui si svolge (il colore locale spagno-
lo), e che ingenera un realismo più diretto e immediato di ogni precedente, Traviata inclusa. Di qui anche la necessità di ripristinare gli originari dialoghi in prosa tra un numero musicale e l’altro (un’usanza invalsa da qualche decennio e seguita anche dalla Scala), al fine di ricreare quel giuoco di pieni e di vuoti, di coinvolgimento
Così la gitana canta il legame fra eros e thanatos che sono amanti inseparabili. Con queste parole va incontro alla morte ed entra nell’olimpo dei grandi miti. E lì si affianca a Don Giovanni. Il parallelo con l’altra grande figura letteraria di seduttore viene spontaneo. Ci sono tanti punti di contatto.
Entrambi trasgrediscono in nome del piacere, della passione, dell’autonomia. Entrambi vanno incontro al loro destino senza mostrare alcun pentimento. Tutti e due davanti alla richiesta di rinnegare ciò che hanno fatto e di salvare così la vita pronunciano il loro no. Al Don Giovanni mozartiano ne basta uno all’indirizzo del convitato di pietra, Carmen va oltre, ne pronuncia tre davanti a Don Josè, un attimo prima di morire: «No, no, no». Don Giovanni di Tirso de Molina viene scagliato contro la Controriforma. Carmen contro le regole dello Stato ottocentesco. Se esistono parecchie similitudini fra Carmen e Don Giovanni, ci sono anche altrettante differenze: la più plateale è quella che riguarda la condizione sociale. Don Giovanni è nobile, ricco e colto, tanto è vero che seduce grazie al potere delle parole. Carmen è povera, fuori dal consesso sociale che conta, capace di far innamorare di sé grazie allo splendore magnetico dei suoi occhi. L’uno è tutto dentro al potere, pur contestandone alcune regole con l’insolenza del forte, l’altra ne è completamente fuori e rappresenta la ribellione a tut-
te le costrizioni, prima di ogni altra quella che impone l’ipocrisia.
Sainte-Beuve definì l’eroina di Merimèe in modo sarcastico: «Una Manon Lescaut più pepata e alla spagnola». Voleva così togliere ogni originalità al personaggio della gitana. Ma non è così. Manon non ha la grandezza di Carmen. Non difende la propria libertà, non è orgogliosa della propria condizione. Ama il giovane amante, ma tiene molto alle ricchezze del vecchio marito. Figure,insomma, solo apparentemente simili, ma nella sostanza profondamente diverse. Anche Manon ha un destino di morte nel disperato tentativo di riuscire a vivere con il giovane Des Grieux. Ma non c’è in lei nessuna capacità di accettare la propria sorte senza rimpianti, con la forza di chi sa che ribellarsi vuol dire anche saper pagare prezzi altissimi. Per tutto questo, ogni volta che riappare Carmen non si può non avvertire il brivido potente della ribellione contro ogni convenzione. Il fascino di chi sa rompere tutto in nome di se stessa. La donna che è padrona dell’amore e non schiava di esso, che non ha paura della forza e della prepotenza del maschio. È tutto ciò la sigaraia di Cordova. È anche però una piccola, grande criminale, oltre che una donna che distrugge l’amante in nome dell’amore. Eppure, questo, quando si alza il sipario, viene come per miracolo dimenticato: il pubblico si schiera con lei, la protegge. Potenza dei miti.
Il realismo in “Carmen” è psicologico. E si presta ad essere trattato in chiave simbolica, ad assumere valore universale
diretto e straniamento, presente già in Mérimée con l’espediente delle cornici narrative, e al fine di poter individuare nel canto un grado zero (il parlato), un grado medio (il linguaggio di Micaëla e Don José) e un grado forte (quello di Carmen, musica assoluta).
Esiste però un altro dato della scrittura vocale, che rompe il fronte interno delle alleanze, staccando Micaëla da Don José e appaiandola a Carmen. Costei segue gli schemi regolari e rigidi delle canzonette, colei quelli, non meno regolari e rigidi, della romanza; questa sembra non potersi emancipare da un genere basso, di consumo, quella da una cantabilità risaputa. Il tenore, al contrario, poggia il suo discorso su frasi asimmetriche e armonie deboli. Ce n’è abbastanza per considerare il dragone la figura lessicalmente più “avanzata”dello spartito, ma sarebbe una prospettiva ingannevole. In realtà, si può leggere questo frequente precipitare nel disordine formale, nell’irregolarità, come una spia della sua totale mancanza di autocontrollo; mentre le due donne,
pur da piani opposti e inconciliabili, dominano sempre e comunque le situazioni (non si dimentichi che è la zingara a scegliere di morire). Dunque, il realismo in Carmen investe soprattutto la psicologia, il sostrato emozionale dei personaggi; si presta pertanto ad essere trattato in chiave simbolica (ad assumere valore esemplare, universale), sul tipo della simbiosi festa/destino esposta nel Preludio iniziale e
replicata su larga scala nell’Atto IV (simultaneità di corrida e omicidio).
Bizet, in sostanza, non ha alcun bisogno di inventare «una nuova libera forma», in molti casi quelle vecchie, e persino vecchissime (il mirabile Quintetto dell’Atto II, Auber puro), gli vanno benissimo. È il contenuto nuovo di cui le riempie a fare di Carmen un’opera «celestialmente stregante».
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Iran. L’opposizione scende in piazza per contestare il regime degli ayatollah. E questa volta lo fa senza i suoi leader
Teheran o morte I pasdaran caricano di nuovo gli studenti E arrestano le “madri dell’Onda” di Vincenzo Faccioli Pintozzi e il popolo non ci vuole, abbiamo il dovere di andare via». Sarebbe questa, secondo alcuni testimoni, la reazione dell’ex presidente Rafsanjani alle violente proteste di piazza che ieri - per l’ennesima volta - hanno squassato la capitale persiana. E il popolo, quanto meno una considerevole parte di esso, ha dimostrato di non volere più questo regime teocratico e guerrafondaio, interessato a vincere la partita nucleare per potere, in un secondo tempo, rispondere per le rime alle grandi potenze mondiali. Lo ha dimostrato una volta di più il 7 novembre, a 56 anni dall’uccisione di tre studenti che nel 1953 contestavano per le strade di Teheran il regno dello Scià. La Giornata dello Studente, così è chiamata la ricorrenza di ieri, era uno dei punti di forza della propaganda governativa: si celebrava per ricordare i fasti e la nobiltà intrinseca di quella rivoluzione con cui l’ayatollah Khomeini prese il potere nel 1979.
«S
Combattere la perfidia di Reza Pahlavi senior, riportare la Persia alla grandezza dei tempi passati e dare il potere al popolo: erano queste le motivazioni che convinsero il mondo ad appoggiare gli ayatollah, che ben presto però si sono dimostrati peggiori
dei loro predecessori. Teheran non poteva dunque impedire manifestazioni pubbliche in memoria di quei giorni, pur sapendo che sarebbero divenute una nuova manifestazione contraria al presidente Ahmadinejad. Ed ecco perché ha schierato in forze polizia, basji e pasdaran. Questi hanno adempiuto al loro ruolo, iniziando la giornata con il lancio di gas lacrimogeni contro quei manifestanti che hanno approfittato della Giornata per intonare slogan ostili contro il presidente. Gli incidenti sono avvenuti lungo viale Enghelab, che costeg-
commemorare la morte dei tre studenti, uccisi dalla polizia dello Shah durante manifestazioni anti-americane, anche se - prosegue la Fars - «circa 50 sostenitori di Mir Hossein Moussavi hanno tentato di disturbare questo raduno cantando “Ya Hossein, Mir Hossein” (Viva Hossein)».
Moussavi, candidato sconfitto alle presidenziali del 12 giugno, ha assunto la leadership dell’opposizione dall’annuncio dei risultati. Il tono propagandistico è stato smentito poche ore dopo da Twitter, Facebook
Mousavi e Karroubi, candidati sconfitti alle presidenziali, non hanno partecipato agli scontri che hanno coinvolto la capitale. E l’ex presidente Rafsanjani apre: «Se non ci vogliono, andiamo via» gia l’università di Teheran, secondo questo testimone. Non è stato possibile ottenere conferme indipendenti a questi incidenti perché alla stampa straniera è stata vietata la partecipazione alle manifestazioni dell’opposizione. Secondo l’agenzia di stampa governativa Fars «circa duemila studenti partecipano a una protesta ufficiale all’interno dell’università, gridando slogan per sostenere la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei». Sono stati organizzati funerali simbolici per
e diversi blog dell’opposizione, che sono riusciti ad aggirare la censura governativa per raccontare una storia diversa: «Centinaia di poliziotti sono dispiegati intorno all’università di Teheran e sono bloccate alcune strade che conducono all’ateneo. La polizia ha inoltre sistemato barriere sui marciapiedi per controllare l’accesso all’università». Un gruppo studentesco ha lanciato un piano estremamente dettagliato, via internet, per dimostrare la propria forza: «Gli studenti “verdi”
(il colore di adesione dell’opposizione) delle università dell’Iran invitano gli studenti a radunarsi nell’università di Teheran alle 12 (le 9.30 italiane) e la popolazione a raggiungerli di fronte a questo ateneo alle 15 (le 12.30 italiane). Gli studenti delle università e la popolazione protesteranno contro il colpo di Stato». Il riferimento, ovviamente, riguarda la contestata rielezione del presidente Ahmadinejad. Le autorità iraniane, che hanno energicamente represso molte manifestazioni di oppositori da giugno, hanno proibito ogni raduno “illegale” intorno alle città universitarie. Hanno inoltre bloccato la maggior parte dei siti internet dell’opposizione. E, per dimostrare che non scherzano, i leader
delle milizie islamiche hanno colpito persino le madri di quei giovani morti durante le manifestazioni di protesta dell’estate scorsa, che ieri si radunavano come ogni settimana in un parco di Teheran. I pasdaran, denunciano gli oppositori, ne hanno arrestate una decina senza alcuna motivazione.
Da mesi, ormai, queste madri delle vittime nella repressione delle proteste, accompagnate da altre donne attiviste, si riuniscono ogni sabato al Parco Laleh per chiedere giustizia a un esecutivo che nega persino che i loro figli siano morti nel corso di manifestazioni di piazza. Tutto questo non ha scalfito né la propaganda interna né il balletto nucleare. Il presidente
La violenza del governo si scatena quando il resto del mondo guarda da un’altra parte
Il calendario truccato di Mahmoud di Massimo Fazzi A guardarla senza eccessiva malizia, non si può fare a meno di notare che la strategia politica di repressione attuata dal governo di Teheran coincide singolarmente con gli appuntamenti internazionali. Ieri, quando la polizia sciita si è lanciata con tutta la sua furia contro gli studenti riuniti negli atenei della capitale, si apriva la Conferenza internazionale sui cambiamenti climatici di Copenhagen. Ma lo stesso trucchetto è stato usato durante il G20 di Londra, quando i leader mondiali erano impe-
gnati a contrastare la violenza della crisi finanziaria globale. E ancora durante la bilaterale fra Barack Obama e Hu Jintao. Il sospetto, neanche troppo velato, è che il regime degli ayatollah abbia deciso di usare la diversificazione che offre il calendario degli appuntamenti internazionali per cercare di camuffare, o almeno far passare senza troppo clamore, le proprie malefatte. In occasione del già citato G20, infatti, molti si aspettavano dai leader mondialli una potente condanna dei fatti di
Teheran. Il silenzio che invece si è propagato dalla capitale britannica, spiegabile con le immutabili consuetudini diplomatiche, deve aver ringalluzzito Ahmadinejad e soci. Che, ieri, hanno arrestato una decina di madri delle vittime della repressione di luglio, che da mesi si riuniscono ogni settimana in un parco di Teheran per ricordare i propri defunti. Perché proprio ieri? Perché i governi erano impegnati a parlare di clima e non hanno avuto tempo per deplorare il gesto. Per l’ennesima volta.
mondo
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La maggior parte del potente clero sciita ormai sostiene l’Onda verde
Le bombe a orologeria di un Paese allo stremo Ahmadinejad è costretto a cercare all’estero qualcuno che ancora ne riconosca l’autorità di Michael Ledeen l presidente iraniano Ahmadinejad è partito per un viaggio, alla ricerca di qualcuno che lo riconosca come il legittimo capo di governo. La maggior parte degli iraniani certamente non lo fa e il suo sostegno è piuttosto basso nel suo Paese. Quindi è volato in Sud America, dal Brasile - dove il presidente Lula è stato molto amichevole - fino al Venezuela dove ha fatto visita al suo co-cospiratore Hugo Chávez. Al suo arrivo è stato accolto con sfarzo, ma la banda militare all’aeroporto ha suonato l’inno pre-rivoluzionario (quello risalente al periodo di regno dello Shah, Reza Pahlavi), che sicuramente non avrà fatto piacere al piccolo leader. Tuttavia l’alleanza con Chávez sta funzionando, il che infastidisce uno dei migliori uomini del continente, Alberto Nisman, il coraggioso procuratore dell’Argentina che ha condannato i leader iraniani e hezbollah per il bombardamento del Centro Sociale Ebraico di Buenos Aires nel 1994. Nisman ha partecipato a un evento sponsorizzato dalla Foundation for the Defense of Democracies (con cui collaboro) in cui ha fatto avvertimenti sulla penetrazione iraniana in America latina. Ha dichiarato che l’Iran, in particolar modo attraverso hezbollah delegati da libanesi, è sempre più presente in Venezuela, Bolivia, Ecuador e Nicaragua, usando le tecniche che avevano perfezionato in Argentina prima che il Paese prendesse misure per contrastare Teheran in seguito al bombardamento dell’Amia (Associación Mutual Israelita Argentina). Ha descritto operazioni finte in cui erano coinvolti tassisti che potevano gestire la sorveglianza senza destare sospetti; falsi studenti di medicina che potevano restare nel Paese per molti anni senza problemi; e fronti affaristici che aiutavano a canalizzare contanti. Nel frattempo gli iraniani stringevano legami nelle moschee locali per cercare persone da radicalizzare. Si tratta di un modello sviluppato in Libano, dove gli hezbollah rappresentano ora la forza politica dominante e noi avremmo fatto meglio a fare attenzione, perché senza dubbio viene applicata anche qui in America. Cellule di hezbollah erano già presenti negli Stati Uniti sin dagli anni Ottanta, quando venni a conoscenza di queste informazioni.
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iraniano, invece di occuparsi delle proteste interne, ha passato la giornata in un incontro con i familiari di alcune delle vittime del conflitto degli anni Ottanta con l’Iraq.
Parlando al suo pubblico, Ahmadinejad ha spiegato: «Gli Stati Uniti stanno provando a impedire l’avvento dell’Imam occulto, colui che nella tradizione religiosa sciita è considerato il salvatore dell’umanità, che riapparirà alla fine dei tempi per portare sulla Terra giusti-
ha impedito a Teheran di subire un duro colpo sul fronte atomico. La Russia, storico alleato, ha dichiarato di «non essere certamente interessata all’allargamento del club dei Paesi con l’atomica». E la dichiarazione non è stata affidata, come consuetudine, a un funzionario di qualche ministero minore ma viene dal presidente Dmitri Medvedev che, in una evidente allusione all’Iran, ha aggiunto: «Le tecnologie militari nucleari sono un’area separata, regolata dalle convenzioni internazio-
Un colpo pesante arriva anche da Mosca, che attraverso la voce di Medvedev blocca le aspirazioni nucleari dell’Iran: «Non siamo favorevoli all’allargamento del Club dell’atomica» zia ed equità». Ahmadinejad ha poi aggiunto, guadagnandosi così la diretta nelle televisioni nazionali di avere «prove documentate. Gli Usa stanno escogitando piani per evitare l’avvento dell’imam occulto perché sanno che la Nazione iraniana è l’unica che sta preparando la strada per la sua venuta. Gli Stati Uniti hanno in programma l’annichilimento dell’Iran, nonostante tutti gli analisti politici e gli esperti ritengano che la Repubblica islamica sia il vero vincitore in Medioriente». Una versione suggestiva per cercare di compiacere i religiosi del proprio Paese e dare nuovo slancio a un anti-americanismo che, in Iran, molto spesso ha giustificato le misure antidemocratiche prese dal governo. Ma questa religiosità non
nali». Medvedev, che oggi sottolinea come la Russia voglia che «tutti gli studi nucleari rientrino in ambito pacifico», è fautore di una linea progressivamente più rigida nei confronti del regime di Teheran.
Di recente, infatti, Mosca ha aperto alla possibilità di nuove sanzioni contro l’Iran se non farà ulteriore chiarezza sulla natura dei suoi programmi atomici. Ed è arrivata a votare a favore di una risoluzione di condanna preparata dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica nei confronti di Teheran. Ora, la nuova posizione ufficiale lascia pensare a un’amicizia interrotta: se Mosca desse questa spallata al governo, la sua permanenza al potere avrebbe i giorni contati.
te della Repubblica islamica. Quando Ahmadinejad è tornato in Iran si è recato ad Isfahan per un evento pubblico, dove però si erano radunate pochissime persone. Inoltre, mercoledì a Tehran era il “Giorno del Parlamento”, ma meno di un terzo dei Vip invitati si è presentato. Anzi, meno di un terzo dei membri Majlis ha partecipato!
Lunedì si è celebrato il giorno dello Studente ed il regime ha preparato grandi iniziative per accoglierlo degnamente. Sono stati trasmessi i soliti avvisi e internet si è ritrovato intasato già da domenica. Per una volta, l’opposizione sta facendo assaporare al regime la sua medicina elettronica, infiltrandosi nei media governativi e pubblicando messaggi ”verdi” sui loro siti web. In una sorta di dono preventivo, il regime ha annunciato una lunga vacanza, da mercoledì, incoraggiando la popolazione a festeggiare nelle campagne. Il tempo però non è invitante, ed un rapido sguardo a Twitter (#iranelection probabilmente è il migliore) vi mostrerà che i preparativi per le dimostrazioni contro il regime sono andati speditamente avanti. Sia Mousavi che Karroubi, i due leader principali dell’Onda Verde, hanno dichiarato che saranno al fianco degli studenti. Stanno ricevendo un sostegno fortissimo da parte degli ecclesiastici, fra tutti il Grande Ayatollah Montazeri, che ha dichiarato che il movimento è «la vera rappresentazione delle legittime richieste della maggioranza della nazione iraniana in molti anni». E ha reso pubblica una feroce denuncia al regime: «Ancora una volta, sottolineo e ripeto, avverto i governatori che il modo in cui stanno procedendo porterà solo danno e distruzione non solo alla religione, ma anche alle questioni “terrestri” – sia per voi stessi che per il Paese. Il modo migliore per dimostrare la buona volontà di un governatore è rispettare la legge e il diritto della nazione. L’egoismo, l’ingordigia, la supremazia e gli atti di violenza contro la nazione - i processi irreligiosi e illegali di rispettati politici e le pesanti sentenze a loro carico - avranno come esito l’isolamento del paese e del sistema dal mondo. Questo inoltre crea ancora maggiore distanza tra la popolazione e i governatori, e distrugge il volto dell’ “islam oppresso”. E alla fine provocherà la rabbia di Dio». Il che alla fine riassume tutto. L’ira di Dio. Si è abbattuta proprio lunedì?
Montazeri ha detto che il movimento è «la vera rappresentazione delle legittime richieste della maggioranza della nazione»
D’altro canto, la sveglia rivoluzionaria sta suonando dentro l’Iran, mentre le ultime gocce di legittimità scolano dal corpo moren-
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quadrante Grecia. Coinvolti negli scontri studenti e professori delle maggiori città
n Grecia la commemorazione della morte del giovane anarchico ucciso dalla polizia un anno fa, Alexandros Grigoropoulos, rischia di diventare l’esatta fotocopia degli scontri del dicembre 2008. A suo tempo, la morte del 15enne provocò un’ondata di violenze paragonabili, negli ultimi dieci anni, solo a quelle che seguirono la morte di Carlo Giuliani durante il G8 di Genova nel luglio 2001. Si era trattato di un’ondata di accesa protesta, dilatatasi oltre i confini nazionali della Grecia. In solidarietà agli anarchici di Atene, erano scesi in piazza i loro “compagni” nelle più importanti città europee. Oggi il rischio è che la protesta dai contorni globali, ma all’insegna del “no-global”, si ripeta nuovamente e che uno Stato membro dell’Unione europea torni a doversi confrontare con movimenti di protesta che fanno della violenza un proprio strumento politico. Tra domenica e ieri, le strade di Atene, Salonicco e delle altre principali città del Paese sono state nuovamente attraversate da lunghi cortei di celebrazioni e contestazione. «Remember, remember, remember the 6th of December». Questo lo slogan che si è letto sulla maggior parte degli striscioni. Un messaggio in inglese, affinché possa circolare facilmente sui canali mediatici internazionali, senza l’impedimento del poco conosciuto alfabeto greco.
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La tensione è aumentata progressivamente nel momento in cui i manifestanti hanno cominciato a chiedere la liberazione di un folto gruppo di anarchici fermati dalla polizia. Nel pomeriggio di domenica infatti quest’ultima aveva fatto irruzione in un centro sociale di Keratsini, un sobborgo della capitale, arrestando alcune decine di persone. Nel pomeriggio di ieri un commissariato di polizia ad Atene è stato fatto oggetto di un assalto da parte di un gruppo di dimostranti. L’aggressività di questi ultimi poggia sui rumor per cui gli agenti avrebbero adottato metodi particolarmente violenti nei confronti delle persone fermate. Fra questi vi sono anche cinque anarchici italiani, processati ieri per direttissima da un Tribunale di Atene e poi rilasciati in attesa della sentenza. L’accusa per tutti gli arrestati poggia sul fatto che nel centro di Keratsini sarebbero stati trovati cappucci, bastoni e il materiale occorrente per fabbricare bottiglie Molotov. In pratica, tutto sarebbe stato organizzato per mettere nuovamente a ferro e fuoco Atene. Interessante notare che ai cortei stiano prendendo parte
Atene nel caos: torna l’anarchia Attaccata la questura della capitale, si chiede il rilascio degli attivisti di Antonio Picasso
non solo gli studenti, a sostegno del loro coetaneo morto l’anno scorso, ma anche un nutrito gruppo di insegnanti e docenti universitari. Questo sarebbe indice di una spaccatura all’interno della rappresentanza scolastica e della classe dirigente nazionale. Da una parte ci sarebbe chi sta con gli anarchici, dall’altra coloro che sostengono le istituzioni governative.
I primi accusano la polizia di aver “calcato eccessivamente la mano”sia negli scontri di un anno fa, sia oggi nel fermare i manifestanti. Al di là del problema di ordine pubblico, la Grecia è tornata a essere l’epicentro di un sentimento di disagio collettivo e violento nei confronti delle istituzioni politiche. I disordini dello scorso anno avevano lasciato una cicatrice indelebile per il governo di conservatore di Kostas Karamanlis. Inizialmente il Primo ministro era stato indicato come il responsabile dei disordini di allora. Tant’è che sia alle elezioni europee di giugno sia alle legislative di ottobre il “Partito socialista panellenico” (Pasok), guidato da George Papandreu aveva
I disordini dello scorso anno avevano fatto cadere il governo conservatore di Kostas Karamanlis L’omicidio del giovane greco ha acceso le proteste di piazza
Nel nome di Alexandros Alexandros Grigoropoulos, greco, 15 anni, ucciso incidentalmente dalla polizia il 6 dicembre 2008 a Exarcheia, un quartiere centrale di Atene. Le cause effettive dello scontro a fuoco che portò alla morte del ragazzo non sono mai state chiarite. Grigoropoulos veniva da una famiglia della middleclass ateniese e frequentava da tempo i centri sociali della capitale. L’inchiesta finora ha portato alla luce che la Polizia sarebbe intervenuta per sedare una rissa in un campetto di basket, nata da screzi relativi alla partita che si stava giocando. È probabile, a quel punto, che si sia verificata una catena incontrollabile di provocazioni. Al momento sui poliziotti pesa l’accusa di omicidio, in seguito all’uso spropositato della forza. Ovviamente i genitori del ragazzo ucciso si sono costituiti come parte civile. All’apparenza si era trattato di un caso come ne avvengono in altri Paesi del mondo, in cui alcuni elementi delle autorità di pubblica sicurezza perdono loro stessi il controllo della situa-
zione e un’ingiuria verbale porta a uno spargimento di sangue. Nei giorni che immediatamente seguirono la morte di Grigoropoulos, si sviluppò un scambio incontrollabile di accuse fra le parti in causa: le istituzioni ateniesi, consapevoli della situazione imbarazzante in cui erano implicate, e gli avvocati difensori ingaggiati dai familiari della vittima. La situazione sfuggì letteralmente di mano a tutto il Paese. La morte del giovane anarchico scatenò un’ondata di violenza senza precedenti nelle principali città della Grecia. Dai semplici cortei di protesta e commemorazione, si passò a scontri di piazza e tafferugli fra dimostranti, provenienti anche da oltre confine, muniti di spranghe e bottiglie Molotov e agenti di Polizia in tenuta di anti-sommossa. Per solidarietà con gli anarchici greci, i gruppi di molte città europee scesero anch’essi in piazza. Fu l’occasione per una nuova ondata di manifestazioni no-global, dai tratti palesemente aggressivi e violenti contro qualsiasi soggetto istituzionale.
ottenuto una schiacciante maggioranza di voti. Oggi però è proprio questo governo di sinistra a essere coinvolto in un fenomeno della stessa portata. Questo indica che il problema non è relativo al colore dell’esecutivo in carica. La commemorazione di Grigoropoulos al contrario viene esplicitamente strumentalizzata per dare nuovo vigore al movimento “no-global”, il quale da lungo tempo soffre di mancanza di visibilità. Il G8 dell’Aquila, per esempio, non ha permesso alle frange più esagitate di esprimere la loro rabbia. Questo è stato dovuto agli impedimenti logistici dell’Abruzzo appena colpito dal terremoto e all’accurata organizzazione da parte delle autorità italiane affinché eventuali manifestazioni non degenerassero. Ciononostante resta il problema di una realtà sociale e politicamente impegnata che rifiuta il dialogo con le autorità. Il “no-global people” oggi si sta confortando, seguendo gli schemi della violenza di piazza, con il governo di Atene, senza che le istituzioni dell’Unione europea riescano a intervenire. A chi toccherà la prossima volta?
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L’avversario Geoana si ferma al 49,63 per cento dei voti
Le Parlamentari si terranno nei primi mesi del 2010
Romania, Basescu vince di misura le elezioni
Iraq, passa in extremis la nuova legge elettorale
BUCAREST. Fra accuse e con-
BAGHDAD. Il Parlamento iraqe-
tro-accuse di brogli, Traian Basescu ha vinto di misura al ballottaggio per le elezioni presidenziali in Romania. Il presidente uscente, che corre per il secondo mandato sostenuto dal Partito democratico-liberale, ha avuto il 50,37% dei voti. Lo sfidante socialdemocratico Mircea Geoana si è fermato al 49,63%. Dunque un margine minimo per Basescu, tanto che domenica sera, alla chiusura delle urne, entrambi i candidati avevano rivendicato la vittoria. Ma lunedì il sindaco di Sibiu Klaus Johannis, sostenuto per l’incarico di premier dai socialdemocratici e liberali, ha riconosciuto la sconfitta: «Dopo gli exit poll abbiamo avuto un risultato, dopo lo spoglio reale abbiamo un risultato diverso. Per me questo percorso si conclude qui». Il risultato sorprende dato che i sondaggi davano Geoana (che aveva promesso una svolta nella politica economica) in vantaggio dell’8%, sostenuto da molti elettori frustrati dal modo in cui il presidente in carica ha condotto l’opera per ripulire la classe politica sprofondata nella corruzione. Tanto che Cosmin Gusa, consigliere di Geoana, ha accusato gli avversari di brogli: «Basescu e la sua gente hanno fatto quello che sanno fare me-
no ha approvato pressoché all’unanimità la nuova legge elettorale, preparando il terreno per il voto in programma nel 2010. Il via libera è arrivato nel corso di una seduta fiume, conclusa poco prima della mezzanotte di due giorni fa, termine ultimo per il varo. Essa dovrebbe mettere la parola fine a un periodo di stallo politico. Con l’approvazione della legge resta da discutere la data in cui si terranno le elezioni, previste in origine per il 16 gennaio. Il vice-presidente del Parlamento annuncia che potrebbero tenersi il 27 febbraio 2010, ma non è chiaro al momento se saranno ultimati tutti i passaggi neces-
Una Corte contro la Turchia di Erdogan E intanto il Pkk torna all’attacco: 7 morti a Tokat di Marta Ottaviani
ISTANBUL. Per la Turchia di Recep Tayyip Erdogan è come il momento della verità e arriva in un Paese dove il clima è rovente, con il Pkk che dopo mesi è tornato ad abbracciare la lotta armata, uccidendo 7 militari della Mezzaluna. Oggi la Corte Costituzionale si riunirà per decidere se il Dtp, il Partito curdo per la società democratica debba essere veramente dichiarato fuori legge, e quindi chiuso, o meno. La sentenza potrebbe arrivare già domani o nei prossimi giorni, tutto dipende da quanto durerà la camera di consiglio. La formazione è stata messa in stato d’accusa nel 2007 da Abdurrahman Yalcinkaya, l’ultra laico Procuratore Capo della Yargitay, la Procura generale della Repubblica, lo stesso che nel 2008 cercò di far chiudere il Partito di maggioranza Akp per attività anti laiche. L’accusa per il Dtp è di aver attentato all’unità della nazione turca. Sotto accusa ci sono 221 persone fra cui sindaci, dirigenti di partito e 8 parlamentari. Se verrà giudicato colpevole dovrà essere chiuso per sempre e i suoi componenti radiati dalla vita politica del Paese per 5 anni. Il processo è una vera e propria bomba a orologeria anche per l’esecutivo e per due motivi. Il primo è che una condanna getterebbe un’ombra su tutto il processo di apertura alla minoranza curda che Erdogan e la sua squadra portano avanti da mesi e che dovrebbe essere per l’Unione Europea una delle maggiori credenziali sulla progressiva democratizzazione del Paese. Ma c’è una cosa che fa ancora più paura al primo ministro ed è quella del voto anticipato.
agli elettori in calo di 16 punti, dal 47% delle politiche 2007 al 31% attuale. Il mese scorso l’esecutivo in carica ha esposto i cardini principali della road map che dovrebbe garantire alla minoranza curda, 15 su circa 70 milioni di popolazione, maggiori riconoscimenti costituzionali e libertà soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo della lingua. A margine, il governo sta lavorando anche alla revisione della Costituzione turca, datata 1982 e figlia del colpo di Stato militare nel 1980, proprio per rendere il Paese più in linea con le richieste dell’Unione Europea.
Uno dei provvedimenti più importanti era proprio la modifica della legge che consente la chiusura dei partiti. Nel passato infatti sono state a decine le formazioni politiche chiuse, soprattutto di matrice curda e islamica, rei di minare la stabilità della nazione fondata da Mustafa Kemal Ataturk. Il fatto che proprio in questo momento di distensione generale, la Corte Costituzionale si prepari a deliberare sull’esistenza del Dtp crea molta preoccupazione nelle sfere governative. La Corte al momento è composta da 11 membri. Il presidente attuale, Hasim Kilic, è noto per il suo orientamento moderato, ma fra gli altri giudici restanti 8 sono stati nominati da Ahmet Necdet Sezer, predecessore dell’attuale presidente della Repubblica Abdullah Gul, e noto per il suo orientamento ultra laico e garante della Costituzione vigente. Se quello dei parlamentari è senza dubbio il problema più grosso, non va dimenticato che decine di località, soprattutto nel sud-est del Paese, dove il Dtp alle elezioni amministrative dello scorso anno ha stravinto, ci sono decine di località che rischiano di rimanere senza il sindaco o il consiglio comunale. E in molti temono che un’ipotetica chiusura del partito curdo possa avere come conseguenza anche disordini civili. Proprio settimana scorsa nelle zone a maggioranza curda alcuni cortei pro Dtp hanno provocato grandi tensioni e scontri con la polizia. E ieri con il suo attacco il Pkk ha fatto capire che il governo ha ancora buoni motivi per preoccuparsi.
Sotto accusa anche 8 dei 27 parlamentari curdi. Se il Dtp verrà dichiarato fuori legge gli altri 19 dovranno dimettersi
glio, truccare le elezioni». Il ministero degli Interni ha registrato 200 irregolarità e due persone sono state fermate per aver tentato di comprare il voto. Ma i rappresentanti di Geoana hanno denunciato brogli e tentativi di voto multiplo anche nelle tante sezioni aperte all’estero, soprattutto in Spagna, Italia e Moldova.
In ogni caso la riconferma di Basescu dovrebbe sbloccare la situazione e aprire la strada ad aiuti finanziari al Paese da parte del Fondo monetario internazionale, parte del pacchetto di 20 miliardi di euro che il Fondo ha congelato sino a quando il nuovo governo non diffonderà il bilancio 2010.
Fra le persone sotto accusa ci sono anche 8 dei 27 parlamentati curdi che siedono attualmente nel parlamento turco. Se il Dtp verrà chiuso anche gli altri si dimetteranno, mettendo così a serio rischio il numero legale per permettere le attività dell’assemblea. Se un altro deputato, e fra gli indipendenti c’è chi ha manifestato questo proposito, deciderà di lasciare il suo seggio allora verrà raggiunta quota 28 e l’unica soluzione sarà la convocazione dei comizi anticipati. Con l’Akp, islamico-moderato per la Giustizia e lo Sviluppo, attualmente di maggioranza, che secondo i sondaggi si presenterà
sari per lo svolgimento del voto. Tareq al-Hashemi, vice-presidente di etnia sunnita, si congratula «con tutto il popolo irakeno per questa storica vittoria» e aggiunge che il compromesso raggiunto «tirerà fuori il Paese dal vicolo cieco nel quale si era infilato». Egli aveva bocciato la precedente riforma della legge elettorale, perché non garantiva seggi a sufficienza all’etnia sunnita, minoranza in Iraq seppure al potere durante la dittatura di Saddam Hussein. Tra gli altri elementi di contrasto vi è Kirkuk, città nel nord del Paese, al centro di una disputa fra arabi, curdi e turcomanni per le ingenti quantità di petrolio presenti nel sottosuolo.
La nuova legge prevede un aumento nel numero dei seggi parlamentari, che passa dagli attuali 275 a 325. Ai curdi andranno 41 seggi previsti per le tre province del nord e un’ulteriore dozzina di seggi supplementari. Potranno votare anche gli irakeni all’estero, per il collegio provinciale di origine. La minoranza cristiana disporrà di otto seggi. Previste anche quote rosa: un terzo del Parlamento sarà formato da donne.Fonti di AsiaNews a Baghdad mostrano un cauto ottimismo per la firma dell’accordo: «La tensione fra i gruppi etnici resta alta».
società
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Il personaggio. Da “Striscia” a “Natale a New York”, passando per le love story con Vieri e Muccino. Fino ad approdare alla Hollywood di Clooney...
Elisabetta I, regina delle veline Parabola ascendente della ragazza “inventata” da Ricci ma che ha saputo raggiungere, da sola, la vetta del mondo di Gabriella Mecucci aleotto fu quel ramo del lago di Como. È lì che la coppia più bella del mondo si è incontrata per la prima volta, ma non fu un coup de foudre. Per piacersi si piacquero a prima vista Elisabetta Canalis e Gorge Clooney, ma ci volle un po’ di tempo prima di rivedersi. Almeno così narrano le cronache mondane che svelarono la loro storia grazie a quelle ormai famose foto in moto. Da allora per la ex velina sarda fu una rapida escalation verso il tetto del mondo: la Hollywood di Beverly Hills, la villa sulla costa messicana e quella nostrana e bellissima del lago di Como. Alba Parietti, donna intelligente e non invidiosa, ha bollato quello della Canalis come un colpo da un milione di dollari. Ma c’è anche chi ne ha dato una definizione più pruriginosa: è una favola tipo Pretty Woman (naturalmente mutatis mutandis). Sarà come sarà ma la trentunenne sassarese si è trasformata da velina di successo a velina di lusso, attrice, modella, partecipe del bel mondo intellettuale hollywoodiano. E la strada che ha imboccato potrebbe portarla molto ma molto lontano. C’è chi parla di matrimonio prossimo venturo con George e chi dà per certo che aspetti un bambino. Il gossip impazza, mentre i due risultano fra le coppie più fotografate del globo.
G
Il trionfo di Berlusconi in politica ha portato con sé un gran giro di belle donne e di volti televisivi. A cui è seguito il dibattito: prima ci si è pudicamente soffermati sulle veline. Chi fossero davvero? Se la loro esistenza non fosse di per sé un modo per svilire il ruolo della donna? Un ritorno indietro ad una condizione lontana e ormai superata? Il loro inventore e cioè Antonio Ricci è stato radiografato così come il suo
programma di maggior successo, Striscia la notizia. All’uno e all’altro è stato attribuito il ruolo di creatori di un nuovo modo di intendere la bellezza, il rapporto col femminile: per farla breve, un pezzo importante
Da donnaimmagine, la Canalis si è staccata da questo modello, costruendone pezzo a pezzo uno diverso. E ha stravinto
della filosofia della vita berlusconiana. E tutto questo facendo finta di essere alternativi. Una sofisticata discussione fra intellettuali, giornalisti e femministe promossa da Gad Lerner. Come se le veline - questo il non detto - fossero le “madri spirituali” - si fa per dire - delle “super-fiche” intorno a Berlusconi, quelle che dicono di voler fare da grandi o le attrici o le parlamentari, le fotomodelle o le ministre. La weltashaung che sta alla base dei desideri di queste ragazze verrebbe sprigionata - secondo
questa teoria - dall’idea di donna che c’è dietro la velina. Può darsi che ci sia del vero. Ed è sicuro che Striscia con le sue “gag” ha imposto un costume, un modo di atteggiarsi.
Proprio per questo la figura di Elisabetta Canalis diventa ancor più avvincente. Lei non si vuol mescolare con la politica, non ha mai fatto la ragazza pon pon del premier, né tantomeno l’escort di Palazzo Grazioli. Né ha continuato a vivere del mito di Ricci. Lei è rimasta al suo posto: ha fatto la velina e poi, lentamente, si è staccata da questa immagine, costruendone pezzo a pezzo un’altra: non alternativa, ma diver-
In questa pagina, alcune delle “vesti” di Elisabetta Canalis: quando era commentatrice a “Controcampo”; abbracciata al suo ex ragazzo Bobo Vieri; alla fine di uno stacchetto musicale nei panni di velina bruna a “Striscia la notizia”; infine a fianco al suo attuale fidanzato, l’attore hollywoodiano George Clooney
sa. E ha stravinto. C’è voluta una buona dose di fortuna, di determinazione, e anche di abilità - non c’è dubbio - per riuscire a farcela . La favola inizia Sassari nel 1978. Lì nasce una bambina davvero molto graziosa: (vedere foto del sito ufficiale della Canalis). Studia con profitto e prende una buona maturità classica a 19 anni. Subito dopo va a studiare lingue all’Università di Milano. Bella e super corteggiata finisce al concorso di selezione per le veline di Striscia. Sale nel 2002 sulla celebre pedana della trasmissione a ballare facendo scena muta . Un’immagine con la quale Antonio Ricci, che non ha mai smesso di dirsi di sinistra, vuole divertire vendendo la metafora della donna oggetto: un gioco televisivo
paradossale ed ironico. Sarà così? Come, già detto, non tutti ci credono. Anzi, sospettano. E a sospettare più di ogni altro sono alcune femministe che vorrebbero far chiudere quelle “insopportabili”selezioni di veline. Battaglia persa.
Sta di fatto che da una di queste spunta la Canalis. La sua carriera all’inizio è scontata. Lasciata la pedana di Striscia partecipa a qualche trasmissione televisiva. E fa un super calendario, nel 2003, dove appare in tutto il suo splendore, naturalmente in abiti succintissimi. All’epoca dichiarò: «Fare Striscia è una fortuna immensa. Lì per lì sembra tutto facile, la popolarità, un mare di contratti, ma è il dopo che ti fotte. Non c’è più Antonio Ricci che ti protegge, devi inventarti la vita». E lei se la saprà inventare molto bene. La sua popolarità ha una notevole impennata. Poi si fidanza con Bobone Vieri, all’epoca centravanti dell’Inter. Secondo boom della noto-
società
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berts. Ma anche se lo splendore del corpo aiuta, quasi sempre non basta. E poi quello che è singolare nella Canalis è di riuscire a crescere in maniera continua e lineare, senza scossoni, e di vincere proprio mentre le veline finiscono sotto accusa con il rischio di essere accomunate alle escort. O peggio. Piazzate insomma in un ghetto dorato di sesso per potenti, sesso da fare, ma da nascondere, con uomini danarosi e parecchio brutti.
In questo clima, la Canalis se l’è giocata veramente bene. Al momento giusto è riuscita a sbarcare in America, visto che in Italia montava un clima carico di insinuazioni e di sofisticate condanne per le belle donne in cerca di potere. Ha rietà. La storia d’amore - l’unica importante che le viene attribuita per una lunga fase - finisce senza troppi scossoni: i due sostengono di essere rimasti in buoni rapporti. Nulla di strano dunque, ma ciò che colpisce è come la Canalis la sappia ben utilizzare.
Ne esce come supertifosa interista, capace anche di dire la sua sulla qualità delle partite e sulle formazioni messe in campo. Si veste in modo sexyelegante e partecipa a Controcampo, trasmissione domenicale che racconta goal, risultati, polemiche della giornata calcistica per eccellenza. Fra il raffinato e fazioso juventino, Giampiero Mughini, il vociante Paolo Mosca, il legnoso mister Sacchi, c’è anche la giovane e bella interista nel ruolo di opinion maker. Bel colpo, la scalata è a buon punto. Partita come donna carina, che sa ballare, ma che non deve parlare; è già diventata un’elegante signora che esprime i propri giudizi pacatamente e con qualche accattivante sorriso. Poche parole, ma dette con garbo ed equilibrio: grande capacità di non andare sopra le righe tradendo magari la propria incompetenza. Per quanto riguarda la vita privata, proclama di essere single, e non disdegna la mondanità. Ogni sera c’è un nuovo accompagnatore: la sua passione sono - dicono i soliti ben informati - gli uomini di colore. Arriva anche il momento
della scalata al cinema. Parti e particine c’erano già state, ma il vero e proprio botto si verifica quando diventa una delle protagoniste di una pirotecnica pellicola natalizia, firmata Neri Parenti, che certo non ricorda l’arte dei grandi maestri della cinematografia italiana, ma che è un successone di pubblico: la più vista dell’anno: in Natale a New York del 2006 fa la parte della figlia del più titolato Christian De Sica. Insomma, è arrivato il terzo boom di popolarità. Il cinema si sa è un luogo fascinoso e lei ha subito una storia con un re-
gista bravo e tombeur de femme: Gabriele Muccino. Poi, di nuovo una puntata fra gli uomini di sport. Questa volta va di scena la moto, e alla grande: il prescelto è nientemeno che Valentino Rossi.
Intendiamoci, in tutto questo ha un ruolo importante la sua bellezza. E non è la prima volta che una donna raggiunge importanti traguardi grazie al suo essere particolarmente attraente. Non ce l’hanno forse fatta per la stessa ragione da Sofia Loren alla Cardinale, da Marilyn Monroe a Julia Ro-
fatto il colpo dell’anno conquistando l’uomo più bello di Hollywood, George Clooney. Il nuovo “fidanzato” non è solo attraentissimo, ma anche figlio di buona famiglia, colto e ben piazzato in politica: buon amico del presidente Obama che ha spalleggiato durante tutta la campagna elettorale. La Canalis è così passata da donna del calciatore bravo ma inelegante e illetterato, a compagna dell’attore splendido, ricco e intellettuale: Clooney, infatti, ha dato prova per ben due volte di essere anche un notevole regista, con tanto di
candidatura all’Oscar. Gli è successo nel 2005 per la pellicola Good Night, and Good Luck. È la storia vera di Edward R. Murrow della Cbs, che viene a conoscenza di un lista di proscrizione redatta dal senatore Joseph McCarty, in cui vengono inseriti i nominativi di tutti coloro che sono sospettati di avere simpatie filocomuniste. Murrow decide di divulgare la lista e di dedicare numerose puntate del suo show televisivo, See it now, proprio a McCarty e a quelli che giudica degli eccessi inaccettabili. Così facendo aiuta gli Stati Uniti ad uscire dal clima della “caccia alle streghe”. Un film in cui Clooney mette anche parecchi accenni alla figura del padre, giornalista e conduttore televisivo. E dove soprattutto emerge la sua “visione politica”, tipica dell’intellettuale di sinistra americano. La nostra “velina bruna”, dopo un ormai lungo cammino, partito dalla Fininvest e dal mondo dei calciatori, è passata dalla ricchezza un po’ rozza e destrozza, alla gauche caviar hollywoodiana, raffinata e supermondana.
Ancora non è tutto però. La storia con Clooney è ancora labile: lui dice di non volersi sposare né avere figli. Ed è uno che di donne ne trova quante ne vuole. Ma la nostra Elisabetta nazionale diventa sempre più la sua preferita. Con lei sbarca al Lido di Venezia per il “Festival del Cinema” e a lei fa conoscere la madre, che sembra sua sorella. Mentre diventa sempre più elegante, la Canalis è in trattativa per posare quasi nuda per Play boy: dai calendari patinati ma che tanto piacciono ai camionisti, è arrivata alla rivista più titolata nel ramo estetico-sexy. Intanto non si nega la sua antica passione per gli uomini di colore: i fotografi la beccano a cena a Londra con Clerence Seedorf, considerato un accanito “sciupafemmene”. Pettegolezzi? Rischio di precipitare nel vecchio mondo? Ma nemmeno per sogno: ormai a Elisabetta viene perdonato tutto. E così lo scivolone londinese non intacca la nuova immagine a cui corrisponde un look super elegante: grandi sarti, con netta preferenza per il nero. E mentre Lerner e i suoi pensosi amici mettono sotto accusa Antonio Ricci e le veline, la sua “primogenita” gira per le riviste e per i teatri più in voga degli States. Dicono che voglia anche salire su quei palcoscenici. Non sarà facile, ma è ancora giovane. E di strada ne ha già fatta molta. E se fosse lei la nuova Sofia Loren?
spettacoli
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Lp. In tour da San Francisco a Tokio, il musicista barese presenta “The Modern Sound”, nuovo album che spopola negli Usa
Conte, jazz formato Universal di Pierre Chiartano
mporre uno stile controcorrente. Colonizzare col jazz i suoni e le atmosfere da club. Musica e letture impegnative, bossa nova e raffinata cultura musicale, essere considerato il re dell’acid jazz e proporre citazioni, da Herbie Hancock a John Coltrane. Sono solo alcuni pezzi del quadro che compone Nicola Conte, autore, e la sua musica.
I
Insomma, la cifra è contaminare, ma dall’alto. E le citazioni potrebbero farlo definire un Quentin Tarantino della musica, a parte che i suoni di Conte sono tutt’altro che pulp. Semmai l’esatto contrario. Nato come dj e direttore artistico del Fez club di Bari, Conte ha ormai raggiunto il pieno della maturità artistica. Gran parte del suo lavoro s’ispira alla musica italiana degli anni Sessanta e Settanta. «Ai b-movie di quegli anni» come ha rivelato a liberal, in occasione del concerto per il Jazz Festival capitolino, qualche giorno fa. Il successo lo porta in tournée nei più famosi club delle città europee, ma anche a San Francisco e Tokyo, dove tra qualche settimana si esibirà al Blue Note della capitale nipponica. Dal 2001 diventa anche produttore musicale con il primo album di Rosalia De Souza, a cui seguiranno una dozzina di produzioni. Come dj ha effettuato un centinaio di remix pubblicati. Ha collaborato e collabora tuttora con jazzisti come Gianluca Petrella (trombone), Fabrizio Bosso (tromba) e Daniele Scannapieco (sax), gli ultimi due, con Gaetano Partipilo (sax) e Pietro Lussu al piano, lo hanno accompagnato anche nel concerto romano. Come definire un fenomeno musicale nato nel duemila con Jet Sounds, approdato qualche anno dopo nella mitica scuderia della Blue Note e finito nell’ammiraglia delle case di produzione Universal? Lo abbiamo chiesto direttamente a Conte, dopo il concerto che ha tenuto pochi giorni fa all’Auditorium della musica, cominciando a chiedergli di parlarci della sua ultima fatica: The Modern Sound of Nicola Conte. «L’ultimo lavoro è
un insieme di cover, uscite per diverse etichette discografiche dal 2004 al 2008. È un’attività parallela a quella d’autore di musiche originali. Essendo un dj, l’idea era quella di trasferire il jazz nella cultura musicale dei club. Allo stesso tempo cercavo di portare tutti questi brani nella mia cifra stilistica. Che è ciò che si può ascoltare negli album Rituals e Other Directions. Il metodo di lavoro mischia quello datato – analogico
– del jazz anni Sessanta, con tecniche più moderne che utilizzano tecnologie e software sofisticati. Un terzo del disco sono invece brani inediti» ci spiega Conte, sottolineando come anche i suoi remix, siano in realtà dei veri «rifacimenti» musicali. «Le collaborazioni sono importanti, sia per gli album che per l’attività live del mio gruppo». L’ampio spettro temporale che abbraccia il cd ha permesso di arrivare a quel nu-
chiave della mia vita». «John Coltrane, Miles Davis, Horace Silver, Charles Lloyd e Art Blakey sono alcune delle citazioni del mio ultimo lavoro. Nel campo dei cantanti ci sono anche riferimenti a Helen Merrill, poi contaminazioni con la musica africana, asiatica, giamaicana. Per non parlare di quella brasiliana, con Antonio Carlos Jobim o Sergio Mendes. Sono tantissimi i riferimenti, visto che l’arco temporale coperto va da-
trito elenco di nomi che si leggono nella copertina dell’ultimo cd. «Mark Murphy e Akiko hanno inciso i brani nella loro versione originale. In quel caso ho lavorato come farebbe un dj e un produttore» continua l’artista d’origine barese, che ha ormai spopolato tra i fan della club music, nu e acid jazz di mezzo mondo.
«C’è un modo di sentire il suono e l’estetica diverso dal cotè contemporaneo. Rispetto al “vuoto” di certi ambiti musicali, ho cercato la mia cifra»
Ma torniamo al ricco parterre di musica che Nicola ascoltava da sempre, che ne ha influenzato gusti e cultura musicale. In breve l’origine del suo successo. «Il jazz è la base. Ma c’è un diverso sentire la musica e l’estetica che non è quello contemporaneo. Rispetto al “vuoto”che si percepisce in certi ambiti musicali oggi, ho cercato la mia cifra». Conte non è consapevole, se questa sia la chiave del suo successo, arrivato abbastanza velocemente dopo l’uscita di Jet Sounds, ma «sicuramente è la
Nella foto grande, il jazzista italiano Nicola Conte, e i suoi modelli: John Coltrane e Miles Davis
gli anni Cinquanta ad oggi». Il jazz è la pietra angolare della costruzione musicale di Conte, cui si aggiunge una ricerca sui ritmi «abbastanza atipica». Nel 2004 il grande salto professionale con il contratto con l’americana Blue Note, oggi un marchio della Emi. Ricordiamo che la Blue Note Records è una casa discografica statunitense, specializzata in edizioni jazz, fondata nel 1939 da Alfred Lion e James Wolff, che ne furono proprietari e direttori per molti anni. Per questa etichetta hanno inciso quasi tutti i nomi più importanti della scena jazz e non solo, soprattutto tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Ha lanciato nomi come Miles Davis, Thelonius Monk e Charlie Parker, tanto per citarne qualcuno. «È stato un passaggio importante, che poi ha avuto una sua conclusione. Rituals in Italia è uscito per Schema records e a livello mondiale per Universal» che è oggi la casa discografica più importante. E – ci anticipa Conte – anche il prossimo lavoro sarà sotto l’etichetta Usa. L’anno della svolta per questo musicista atipico per il panorama italiano «è stato il duemila con l’uscita di Jet Sounds. Corrisponde a un momento particolare della mia vita, quando ho deciso di entrare in uno studio. Allora ho lavorato come poteva fare un dj: campionatore, computer, tantissimi dischi e una certa sensibilità per forma e contenuti. In quel periodo mi piacevano molto i b- movie italiani degli anni Sessanta e Settanta. È un disco che è un omaggio alla musica psichedelica di quel periodo».
Un lavoro «surrealista» che ha aperto le porte del successo. Ma l’autore Conte come lavora? L’ispirazione ha una radice «sentimentale» e le parole corrono dietro, in un processo che potremmo definire di creazione «istintiva», fatta soprattutto non pensando solo al mercato, e soprattutto ai gusti italiani. Nicola ha una certa nostalgia per il passato, per un Italia diversa, come quella raccontata nelle pagine di Alberto Arbasino. Un “altrove”che ha costruito con la sua musica, con stile e talento.
cultura a rivincita sulla crisi economica è possibile soltanto attraverso un concreto slancio verso il futuro. È quanto ha sottolineato il ministro degli Esteri nel discorso inaugurale della prima sezione della Collezione Farnesina Design. «In un mondo che, malgrado le crisi di ogni natura che si manifestano in varie aree, diventa sempre più interconnesso, il ruolo di quello che è stato definito il “soft power” diventa sempre più rilevante. Diventa sempre più indispensabile dunque che il nostro Paese accresca il suo status di leadership nel settore della cultura, un ruolo che ci viene riconosciuto dalla comunità internazionale, ma che talvolta mostriamo quasi una certa timidezza nell’interpretare. Il design da anni è oggetto di azioni di promozione da parte di vari ministeri, Regioni, enti e associazioni produttive. Noi stessi nel passato abbiamo promosso eventi relativi al design. La differenza con il passato, il salto di qualità che abbiamo deciso di compiere riguarda la portata dell’operazione e la sua continuità nel tempo. La Collezione ha l’ambizione di voler valorizzare l’aspetto culturale del design, sottolineando come le risposte che esso dà ai problemi quotidiani abbiano una matrice culturale molto forte».
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site-specific, ovvero di installazioni e ambienti che prendono forma sul luogo sulla base di un tema che ne sollecita l’unitarietà e la trama culturale. Non si tratta quindi di una collezione/archivio che raccoglie i prodotti storici del design italiano, quanto di una collana di progetti aperti sul presente del design: un contenitore mobile, capace di raccogliere le questioni estetiche e produttive vissute dal design in Italia e da proporre sulla scena internazionale, com’ è dettato dalla missione del ministero degli Affari esteri. Il primo dei
L
Ad Hoc, Artemide, Bernini, Bosa, Cerruti Baleri, Domodinamica, Ducati: il genio artistico della Penisola scende in campo contro la crisi e indica soluzioni innovative per il futuro pre-testi su cui si fonda la Collezione, “colore - calore”, è un binomio fondato su un piccolo slittamento fonematico che cuce due termini diversi per smuovere questioni di ampia portata. Il carattere più originale della Farnesina Design è certamente però il carattere ampio attraverso cui il termine “collezione” viene inCollezionare terpretato. non oggetti, ma progetti, così come specificato dai curatori (Renza Fornaroli e il sottoscritto), significa aprire il design/progetto a tutte le possibili interpretazioni che il termine progettare può intendere. Progetti culturali, così come sottolinea il ministro Frattini, che riguardano gli aspetti più ampi del design, e le fasce di partecipazione più estese: convegni, conferenze, eventi, promozione di nuovi nomi del design, interscambi con le università e le accademie. Il termine design quindi è il grimaldello capace di scardinare i vecchi sistemi propri del fare cultura secondo schemi chiusi e a compartimenti stagni, per andare incontro invece alla scena attuale della cultura, dove prevale lo scambio rapido, veloce, agevole, efficace. In altre parole, la parola d’ordine è oggi proseguire una grande tradizione attraverso le nuove possibilità offerte dalla scienza, dalla tecnologia, dalla raffinatezza della ricerca e dall’abilità a creare.
Mostre. Al ministero degli Esteri i migliori progetti delle aziende italiane
In effetti, l’iniziativa ha certamente un carattere straordinario. Soltanto otto mesi fa nasceva il progetto Collezione Farnesina Design: era nominato un Comitato Scientifico (presieduto da Sergio Pininfarina, coordinato da Rodrigo Rodriquez) e si battezzava la nascita sotto l’egida del ministero degli Esteri, della Cultura, delle Attività produttive. A pochi mesi di distanza ecco i primi lavori con alcune delle maggiori aziende produttrici di design “fatto in Italia” e conosciuto in tutto il mondo: Ad Hoc, Artemide, Bernini, Bosa, Cerruti Baleri, Domodinamica, Ducati, Elica, IFI, Knoll, Loccioni, Matteo Grassi, Metalco, Progetti, Rondine, Stone, Venini, Voltolina, attraverso i lavori di fuoriclasse del design: Cini Boeri, Gaetano Pesce, Franco Poli, Alessandro Lenarda. Questa prima mostra raccoglie una grande eredità da capitalizzare e da valorizzare. Potremmo ricordare che la mostra “Enviroments and Counter Experimental Media in Italy: The New Domestic Landscape – MoMA 1972”, inaugurata lo scorso anno alla Arthur Ross Architectural Gallery di New York aveva già proposto i segnali dell’interesse internazionale per una rinascita del design italiano: quella mostra riviveva una storia gloriosa del design italiano, consacrata al MoMA dove i grandi protagonisti di allora (e di oggi) salivano sui grattacieli del centro della cultura occidentale.Erano Mario Bellini, Alberto Rosselli, Marco Zanuso e Richard Sapper, Joe Colombo, Gae Aulenti, Ettore Sottsass, Gaetano Pesce, Archizoom Associati, Superstudio, Ugo La Pietra, il Gruppo Strum, Enzo Mari (e, tra i giovani sotto i trentacinque anni, Gian Antonio Mari e il gruppo 9999). Già nel titolo, l’evento del 2008 sottolinea il carattere sperimentale, la radicalità e la complessità
Alla Farnesina il design da collezione di Angelo Capasso delle soluzioni e la qualità visionaria del design italiano, in cui il “paesaggio domestico” in nessun caso si attestava a paesaggio di oggetti, ma come scansione di progetti e soluzioni cariche di tensioni culturali.
La ricerca nel design, le sue problematiche, la complessità delle questioni relative ai media sono alcuni dei caratteri contraddistintivi della Collezione Farnesina Design. La Collezione si propone come un contenitore di progetti
Nelle foto, in alto, “Pescecappa”, prototipo di canna aspirante ideata da Gaetano Pesce. In basso, il mobile Elica. Entrambi gli oggetti sono esposti alla collezione di design italiano della Farnesina
È quindi creare, il sinonimo più adatto che si propone davanti ad un’interpretazione così estesa del termine design. Creare in un contesto che fatica a rigenerarsi, a produrre idee nuove e a farle circolare. Il forte impulso che oggi vive il design italiano potrebbe essere sicuramente uno scatto di reni utile a far ripartire l’economia e a regalare una nuova stagione in cui l’Italia recupera protagonismo nella scena culturale globale non con i toni dimessi delle iniziative sporadiche e disperse, ma con una grande organizzazione che fa forza della rete di Istituti di cultura, ambasciate e sedi diplomatiche all’estero. Un radicamento nel presente, che si erge sulla tradizione e sulla storia e mette in moto il futuro.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Haaretz” del 07/12/09
I fantasmi di Gerusalemme di Nir Hasson l sindaco di una città carica di storia e gravida di tensioni, come Gerusalemme, non deve preoccuparsi solo della vita degli 800mila abitanti che risiedono in permanenza nella capitale d’Israele. C’è una popolazione ombra che è in cima ai pensieri del primo cittadino, sono anche circa 10mila persone che potremo definire invisibili per la maggior parte dell’anno.
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È gente che non fa spese nei negozi vicino casa, non occupa neanche un posto auto e non deve mandare i propri figli all’asilo ma, nonostante non gravi sui servizi municipali, condiziona la vita della capitale come tutti gli altri. Anzi di più. Vengono chiamati in un modo stravagante: «residenti fantasma». Sono ebrei che vengono dall’estero, la maggior parte dagli Stati Uniti e dalla Francia, e hanno comprato migliaia di appartamenti in ogni zona della città. Sono case che rimangono disabitate per gran parte dell’anno, eccetto che nel periodo delle vacanze. Il sindaco Nir Barkat ha recentemente preso carta e penna per scrivere una lettera a questi cittadini un po’ assenti. Una richiesta accorata per spingerli a spendere più tempo nella cura delle loro proprietà immobiliari, per aiutarlo a frenare il declino urbanistico di Gerusalemme. «Vorremo congratularci con voi per essere i proprietari di un’abitazione nella capitale eterna del popolo ebraico» comincia la lettera del primo cittadino che è stata imbustata e inviata a circa 9mila cittadini “latitanti”. Dei gerosolimitani assenti cui si vuole lanciare un appello che può essere definito anche una mozione dei sentimenti. «Un appartamento vuoto rimane sostanzialmente al di fuori del mer-
cato immobiliare e ha un effetto negativo sulla città» scrive Barkat nella missiva. «Un’abitazione vuota significa che ci saranno meno clienti nei negozi del quartiere, meno bambini nelle scuole, meno avventori nei caffé e, cosa più importante, meno giovani famiglie che vivranno a Gerusalemme. Novemila appartamenti così congelati, (secondo le stime degli uffici municipali competenti) causano un crescente danno all’economia cittadina e al mercato immobiliare». La richiesta del sindaco a questi proprietari residenti all’estero è semplice: è quella di affittare le loro case.
«In qualità di sindaco, ho ritenuto opportuno chiedervi di locare il vostro bene a giovani studenti o a giovani famiglie nel periodo in cui voi non siete a Gerusalemme». Il comune in stretta collaborazione con l’Università della capitale e altre istituzioni di formazione superiore, hanno lanciato una serie d’iniziative per dare una mano nel piazzare queste case sul mercato degli affitti, compreso l’utilizzo di internet. «Ogni casa che verrà abitata da una giovane famiglia o da uno studente sarà di grande aiuto al Comune per migliorare i servizi a tutta la popolazione» continua il sindaco nella sua accorata lettera. «Affittare le vostre case a studenti crea una situazione di doppio vantaggio per voi, la città di Gerusalemme e le
giovani generazioni». Funzionari del municipio organizzeranno degli incontri speciali con i «residenti fantasma» entro le prossime due settimane. Jonathan Levirer – un abitante del quartiere di Talbieh che possiede una società che fa consulenza alle circoscrizioni locali – definisce la situazione come «una tragedia per la città». «Un centro urbano è un luogo di incontro per la gente. Nel momento in cui questo incontro non avviene più, non esiste una città. Il passo successivo è quello in cui vedremo scomparire i negozi, le lavanderie e luoghi di ricreazione. Nel mio quartiere non c’è più un parco giochi, neanche uno. Le strade si sono trasformate in un paradiso per i ladri» afferma Levirer con malcelata rassegnazione.
«Alla fine il rischio è che a Gerusalemme rimangano solo gli ebrei ortodossi e la popolazione araba, gli ebrei non radicali (non Haredi – la versione ultraortodossa dell’ebraismo religioso, ndr) si trasformeranno in una semplice minoranza».
L’IMMAGINE
Particolarismo antiunitario e fuoco amico volontario del presidente Gianfranco Fini Infelice è l’artista che non compone a unità la sua opera. La forza principale del marxismo è l’unità: «proletari di tutto il mondo unitevi» (Marx e Engels). I liberali - non comunisti, né totalitaristi - amano libertà, varietà e molteplicità; ma non l’anarchia. In ogni partito politico, le diverse proposte devono giungere a sintesi unitaria: il leader è legittimato dalla maggioranza dei consensi. Opinioni d’esponenti vanno discusse all’interno del partito e poi votate: le minoranze devono adeguarsi e accettare le decisioni maggioritarie. Come presidente della Camera, Fini appare primatista d’esternazioni ed assume posizioni in frequente contrasto col programma elettorale e con la maggioranza del Pdl. Così fomenta la discordia, tradisce l’elettore e sabota la credibilità e l’unità direzionale del Pdl, che spetta a Berlusconi, detentore del massimo di consensi fra elettori e iscritti. A differenza del “fuoco amico” in guerra - che deriva da errore involontario - Fini colpisce (o non difende) Berlusconi volutamente.
Gianfranco Nìbale
RICEVIAMO DA TERNA In merito a quanto riportato venerdì scorso nella lettera dal titolo “Enel non rivuole il cliente rubatole da Sorgenia”, sull’assetto societario di Terna, si precisa quanto segue. L’azionista di maggioranza relativa di Terna è Cassa Depositi e Prestiti Spa (società per azioni partecipata al 70% dal ministero dell’Economia e delle Finanze della Repubblica italiana), che possiede una partecipazione pari al 29,986% del capitale sociale. Enel e Pictet sono azionisti dopo Cassa Depositi e Prestiti rispettivamente con il 5,1% e con il 4,94% del capitale sociale. Il rimanente 60% è suddiviso tra fondi internazionali e azionisti retail italiani e, in misura più ridotta, fondi italiani.
Gli azionisti di Terna ammontano in totale a oltre 200.000. Riteniamo questo un chiarimento doveroso, vista la rilevanza che l’assetto dell’azionariato di una società riveste.
L’Ufficio Stampa di Terna
A RISCHIO LA VITA SULLA TERRA In Italia sono in aumento i casi di patologie ambientali prodotte dall’inquinamento chimico, elettromagnetico e da emissioni di CO2. Di laghi inquinati da alga rossa e da tracce di metalli pesanti, di inceneritori, discariche abusive, di patologie legate all’esposizione di amianto e di altre problematiche di questo tipo, si è parlato nel corso del convegno “Ambiente e Salute”che si è tenuto ieri a Roma. Oltre all’on. Scili-
Ghigno assassino Le emissioni di anidride carbonica negli ultimi 20 anni sarebbero aumentate del 40% con gravi effetti sul clima globale. Si sta svolgendo in Danimarca la Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima, dove 193 nazioni discuteranno di inquinamento e cambiamenti climatici. Il summit mondiale, indetto per la prima volta nel 1995, è alla 15esima edizione
poti hanno partecipato grandi esperti nazionali dei due argomenti trattati, tra cui il prof. Stefano Lanzuolo, docente di master energia e ambiente presso La Sapienza di Roma, Il dott. Paolo Rebecchi, medico chirurgo, presidente Amo (associazione malati oncologici), Rossano Ercolini, presisente associazione Diritto al Futuro, la dott.ssa Lucia Marotta,
presidente Animass (associazione italiana malati sindrome di Sjogren), il dott. Aurelio Donzella, medico specialista in ostetricia e ginecologia, l’avv. Paola Monno, presidente Vivere Adesso, il dott. Guido Zaccarelli, docente di informatica presso la facoltà di medicina di Modena, Raffaele De Raffele del comitato No rigassificatore di Priolo; Loris
Cicero, Pegaso Ambiente, Gianni Mori comitato tutela Valdichiana; Massimiliano Cedolia, segretario nazionale associazione Valori in Movimento, Daniela Pasini dei comitati ambientalisti di Grosseto, Aldo Cucchiarini, comitato interregionale No tubo, l’ing. Adriano Mei, presidente associzione Marche Rifiuti Zero.
Domenico Scilipoti
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Ti strinsi quattro volte la mano nella carrozza Ti rammenti quando montai nella carrozza? Ti strinsi quattro volte la mano.Tu avrai pensato: «Che nojoso!...». Oh, perdonami: io ti voglio tanto bene! In vapore soffersi l’inferno, dentro quel carrozzone illuminato appena, con quel rumore monotono, lì solo solo. Non lo dire a nessuno, Elda, io piansi. E qui, qui, se dovessi raccontarti tutto! No, non voglio dirti più nulla. C’è qui la lucerna che vacilla e vuol morire. Bisogna però che duri sino alla fine del foglio: mi dispiace andare a letto, si sta tanto bene qui a chiacchierare! Penso, se ora tu venissi adagino dietro il mio sgabello e mi serrassi gli occhi con le mani, e mi domandassi: «Chi sono?». Oh, vieni! Perché non vieni? Ecco io faccio le viste di non accorgermene; ecco qui, scrivo... Tic tic tic tic... Dio! che passetto piccino! Chi sarà? Tic tic tic. Ecco, si avvicina. Mi volto d’un tratto. Ah! non sei tu; c’è buio, c’è il camerone freddo e silenzioso. Oh Elda! Elda! Se tu pensassi a me in questo momento! Se i nostri pensieri e i nostri desiderii s’incontrassero! Addio, addio; mi manca la luce. Amami, Elda, amami con tutte le forze dell’anima tua; io ti sono ai piedi soggiogato e ti prendo una mano e te la copro di baci. Addio, mia, mia, mia! Gabriele d’Annunzio a Giselda Zucconi
ACCADDE OGGI
BAYAN, MALATA DI TALASSEMIA, È FUORI PERICOLO Vengono dal Libano, dall’Iraq e dalla striscia di Gaza, hanno pochi anni, una vita già provata dalla malattia e un destino che sarebbe stato segnato se la solidarietà e la cooperazione internazionale non fossero venute in soccorso, consentendo loro l’accesso a cure mediche indispensabili ma impossibili nei loro paesi. Sono Bayan, Hiba e Mohaa’t in cura in Italia grazie al lavoro della onlus Angels (www.loveangels.it), che ha come scopo di garantire cure mediche in Italia a bambini e giovani provenienti da Paesi in guerra o dove non sono presenti centri ospedalieri idonei alla cura. La onlus Angels comunica che Bayan, la prima bimba portata in Italia, 2 anni, affetta da una grave forma di talassemia è stata dichiarata fuori pericolo dopo il trapianto di midollo avvenuto presso il Policlinico Tor Vergata. Quella di Bayan è una storia di solidarietà internazionale e di collaborazione tra pubblico e privato attraverso la sinergie di presidenza del Consiglio dei ministri, del ministero degli Esteri, della Difesa e della onlus Angels; ma è soprattutto la storia di un grande amore fraterno: a donarle il midollo, il piccolo Mohammed, di 9 anni, unico donatore compatibile della famiglia giunta a Roma il 7 ottobre scorso con un volo dell’aeronautica autorizzato dal ministro della Difesa Ignazio La Russa, il quale ha ospitato la famiglia presso una struttura militare nel corso della permanenza in Italia. Dopo l’intervento Mohammed ha chiesto di co-
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Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
8 dicembre 1941 Olocausto: I nazisti usano i camion a gas per la prima volta nel campo di Chelmno, nei pressi di Lodz 1965 Papa Paolo VI chiude ufficialmente il Concilio Ecumenico Vaticano II 1970 Fallito tentativo di colpo di Stato in Italia, capitanato dal principe Giunio Valerio Borghese 1972 Il treno sperimentale Tgv001 stabilisce il record di velocità massima per treni non elettrici: 318 km/h 1976 Gli Eagles pubblicano uno degli album più venduti di tutti i tempi, Hotel California 1980 Mark David Chapman uccide l’ex Beatle John Lennon 1987 Firma del Trattato sulle armi nucleari a medio raggio 1991 A Castelnuovo Rangone viene cotto e mangiato lo zampone Modena più grande del mondo, registrato nel Guinness dei primati 1993 Il North american free trade agreement viene trasformato in legge con la firma di Bill Clinton
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
noscere i calciatori italiani, di cui è appassionato. Così Angels ha organizzato la visita di Mohammed ai giocatori della Lazio, della Roma e al suo idolo Francesco Totti. L’impegno di Angels, attraverso la sua portavoce Benedetta Paravia, è continuo: previsto l’arrivo di altri due bambini con un tumore al fegato ed una grave cardiopatia; mentre il 28 novembre scorso dal Marocco è arrivata Fatima, una cardiopatica di 38 anni, attualmente ricoverata al Policlinico Umberto I.
Angels
SCI: CONSIGLI Tempo di neve, tempo di sci in questo primo ponte festivo.Tempo anche di incidenti sulle piste anche se sciare è uno sport sicuro. Infatti, per uno sciatore medio la possibilità di un incidente di una certa gravità si può verificare ogni 680 giornate di sport e con una “settimana bianca” all’anno si può sciare tranquillamente tutta la vita. Ovviamente ci sono le norme di sicurezza. Ne riassumiamo alcune: dare la precedenza a chi viene da destra, non fermarsi al centro della pista, in curva o nei dossi, obbligo di casco per i minori di 14 anni, adeguamento della velocità alle proprie capacità e condizioni ambientali. Si possono stipulare polizze con un’assicurazione anche per una sola giornata o per più giorni acquistando contestualmente lo skipass. Per l’acquisto dell’attrezzatura occorre preventivare una spesa complessiva di circa 300 euro.
IL VALORE DELLE PAROLE (II PARTE) Se si osserva l’evoluzione dell’uomo nella storia recente, si comprende che proprio l’uso della parola che ha costruito democrazie illuminate e ha poi portato alla costruzione di società evolute, quando invece c’è stato un controllo illimitato delle masse l’autoritarismo ha partorito periodi storici bui e tempestosi privi di luce e di futuro. Le interazioni umane tramite l’uso del linguaggio verbale sono dunque alla base del successo dei singoli e delle dinamiche di gruppo, seppur oggi apparentemente e per un periodo determinato l’uso delle nuove tecnologie, può dare un apparente ed effimero successo, come di fatti è. Ancora oggi ciò che resta e dura sono i saperi e la capacità di relazionarsi e di argomentare ragionamenti, logici, futuristici, complessi, dinamici, coinvolgenti e anche contraddittori. Tutto quanto detto, sembra alla portata di tutti ma così non è. Anche questo mio dire, potrà avere un suo valore per come verrà letto, inteso e interpretato per l’uso ed il valore che diamo al contenuto delle parole. A volte per alcuni ciò che è semplice è per altri complesso: questo ci fa capire come siamo soggetti agenti diversi e come il nostro agire viene letto in modi diversi in relazione a chi ci troviamo di fronte così come coloro che mi indicavano l’inutilità delle parole e delle relazioni sociali tra più individui. Un elemento anche questo tipico delle società chiuse e patriarcali, dove pochi devono decidere per molti e limitare così la partecipazione democratica delle scelte tramite l’uso della parola. Un elemento che contraddistingue anche le associazioni criminali, dove l’omertà altro non è che la negazione della parola, seppur tutti sono a conoscenza dei fatti e degli accadimenti. Con l’introduzione dell’uso del linguaggio scritto e parlato, si è di fatto passati dalle società chiuse e oligarchiche a quelle erudite, aperte e democratiche, dove il consenso popolare legittima la rappresentanza e non le scelte politiche, che sono sempre opinabili e suscettibili di migliorie, quando non del tutto errate. Luigi Ruberto C I R C O L I LI B E R A L MO N T I DA U N I
APPUNTAMENTI DICEMBRE 2009 VENERDÌ 11, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Consiglio nazionale dei Circoli liberal.
VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Lettera firmata
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
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