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Il male non è che fuori si invecchia, è che molti rimangono giovani dentro Oscar Wilde
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 10 DICEMBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
In Aula il testo già blindato in Commissione. Tremonti promette dialogo con le opposizioni. Bersani: «È un cazzotto»
Berlusconi, pardon Prodi Destra o sinistra,per l’Italia la musica non cambia: le Finanziarie degli ultimi anni sono tutte uguali. I governi arrancano tra “espropri”del Tfr,strette ai Comuni e voti di fiducia.Ma niente riforme LA PIGRIZIA DELLE LEADERSHIP
di Francesco Pacifico
Il bipartitismo del “non fare”
La Finanziaria inizia il suo breve e inutile corso in Parlamento. Dopo l’approvazione in Commissione del maxi-emendamento che raccoglie tutti i desiderata della maggioranza, non resta spazio per il dibattito in Aula.Tuttavia, un dato è evidente: tra tagli, giochi sulle tasse e interventi sul Tfr, la legge economica dei governi Berlusconi sono uguali a quelle dei governi Prodi. Quel che manca è sempre un progetto per lo sviluppo del Paese. a pagina 2
di Carlo Lottieri he antiche categorie come “destra” e “sinistra” ormai dicano poco emerge anche da un confronto delle ultime finanziarie di Tremonti o PadoaSchioppa, poiché nella sostanza esse non si discostano l’una dall’altra. a pagina 2
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ALFANO AI MAGISTRATI
Una Casa comune “oltre il Centro”
di Errico Novi
di Luigi Accattoli Il convegno su «Dio oggi, con lui o senza di Lui cambia tutto» è una nuova uscita in campo aperto del cardinale Ruini.
di Giancristiano Desiderio
ngelino Alfano, il ministro della Giustizia, sbeffeggia i magistrati e li invita a stare più in Procura e meno in televisione. Con questa battuta, il Guardasigilli apre l’iter del nuovo disegno di legge sul «legittimo impedimento».
hi sa leggere il libro della politica sa che nel futuro ci sarà bisogno di un partito che unisca le forze dei moderati. Ieri, Pier Ferdinando Casini l’ha definito il partito della Nazione, per andare «oltre il Centro».
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Indagine su Dio Oggi a Roma il confronto tra credenti e non credenti sulla modernità della religione
LA SVOLTA DI CASINI
«Andate in Procura non in televisione»
Un meeting voluto dal cardinal Ruini
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Inseguendo il Novecento riscritto da De Rosa Rocco Buttiglione • pagina 19
UN’OBIEZIONE AGLI OBIETTORI
Oggi il presidente riceve a Oslo il riconoscimento «inaspettato»
Non c’è scandalo: quei soldati a Kabul difendono la pace
Generale Obama, meriti il Nobel? Il mondo diviso sul Premio dopo la surge in Afghanistan Al momento dell’assegnazione del premio Nobel a Barack Obama, l’opinione pubblica si era divisa. Abbiamo chiesto a sette analisti come il presidente può “rimediare”nel suo discorso d’accettazione.
Arpino: «È un ostacolo che rischia di nuocergli»
Pletka: «Una bandiera per l’esercito americano»
Per l’ex capo di Stato maggiore della Difesa, Mario Arpino, «il premio potrebbe divenire un pesante handicap politico in uno scenario internazionale dove le decisioni che Obama deve prendere sono tutt’altro che popolari».
Il vicepresidente del dipartimento Esteri e Difesa dell’Aei non ha dubbi: «Obama dovrebbe accettare il premio Nobel per conto degli uomini e delle donne dell’esercito statunitense, che combattono per la pace».
Ottolenghi: «La medaglia la dedichi a Shirin Ebadi»
Maathai: «Un simbolo che alimenta la speranza»
Il consiglio del direttore del Translatlantic Institute è quello di «dedicare il premio a Shirin Ebadi, avvocato iraniano per i diritti umani a cui recentemente è stata sequestrata la medaglia del Nobel dal regime».
Secondo il Nobel per la pace del 2004, Wangari Maathai, «al mondo serve disperatamente una visione comune e una nuova definizione di termini come pace e sicurezza». a pagina 14
gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
244 •
WWW.LIBERAL.IT
di Andrea Mancia ggi il presidente Barack Obama è a Oslo - insieme alla moglie Michelle - per ritirare il premio Nobel per la Pace vinto a ottobre per i suoi «sforzi straordinari nel rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli». La decisione, a suo tempo accolta favorevolmente dall’opinione pubblica mondiale, anche se con comprensibile stupore, ha assunto con il passare delle settimane un significato del tutto particolare. Soprattutto dopo la decisione (a lungo rinviata) di accettare il piano dei generali McChrystal e Petraeus per la cosiddetta “surge” in Afghanistan. segue a pagina 15
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 10 dicembre 2009
Ricorsi. Polemica sulla manovra. «Dialogo», dice il superministro. «Questo è un cazzotto» risponde Bersani
Tremonti Padoa-Schioppa
Tagli, Tfr dei lavoratori e nessuna riforma per lo sviluppo: i governi passano ma le Finanziarie sono sempre uguali di Francesco Pacifico
ROMA. «Confindustria non vuole dare il Tfr all’Inps? Allora niente aiuti». Chi l’ha detto? Tommaso Padoa-Schioppa nel 2006 o Giulio Tremonti nel 2008? Entrambi. «Eh no, qui si dimentica che il contestato maxiemendamento ha rappresentato una costante delle Finanziarie di chi ci ha preceduto: non è una nostra invenzione...». Chi l’ha detto? Romano Prodi nel 2006 o Silvio Berlusconi nel 2009? Entrambi. Corsi e ricorsi della finanza pubblica, i successori di Quintino Sella si ritrovano ad avere che fare con identiche priorità, scadenze, se non emergenze. E se l’agenda è simile, spesso lo sono anche le soluzioni.
E così, vedendo Tremonti che la scorsa settimana ha coperto i fondi in più dati alle Regioni sulla sanità con il fondo Inps per il Tfr, la mente corre al 2006 quando Tommaso PadoaSchioppa usò la stesso strumento per trovare i soldi necessari alle Ferrovie per far ripartire i lavori dell’Alta velocità. Si dirà che la cosa non deve sorprendere visto che le criticità italiane sono talmente strutturali e strutturate. Che con debito biblico di proporzioni, deficit infrastrutturale o alto costo del lavoro prima o poi tutti i ministri sono costretti a convivere. Eppure più passa il tempo è più il parallelo tra Giulio Tremonti e Tommaso PadoaSchioppa (anche guardando alle loro manovre) si regge su una semplice considerazione: al netto di mirabolanti progetti entrambi non sono potuti andare oltre la gestione della normale amministrazione. Che vuol dire innanzitutto rifinanziare e pagare gli oneri su un debito pubblico di quasi 1.800 miliardi di euro. C’è un imperativo comune che accompagna il Padoa-Schioppa che nel 2006 lascia le ovattate stanze della Bce per trasferirsi a Roma o il Tremonti che nel 2008 si rimpossessa degli uffici di via XX settembre: sistemare i conti. Tps trova una procedura di infrazione aperta dalla Ue “contro” il suo predecessore e un deficit al 4,4 per cento sul Pil. Per portarlo al 2,2 prima scrive una manovra finanziaria da 34 miliardi, alla quale ne seguirà una
Destra e sinistra non esistono più. Neanche in economia
Eppure un’alternativa c’è: mercato e privatizzazioni di Carlo Lottieri he antiche categorie come “destra” e “sinistra” ormai dicano poco emerge anche da un confronto sommario delle ultime finanziarie, poiché nella sostanza – a parte qualche dettaglio e talune enfasi propagandistiche – esse non si discostano l’una dall’altra. Che si tratti di Giulio Tremonti, di Domenico Siniscalco, di Tomaso Padoa Schioppa e, infine, ancora di Giulio Tremonti, è difficile vedere cambiamenti significativi o anche solo rilevanti. Eppure da anni l’Italia ha tanti di quei problemi da affrontare che avrebbe bisogno di una svolta nella propria politica economica, liberando quelle energie che possono ridare slancio alla vita sociale. La forte continuità tra l’azione di un governo e di un altro si spiega, ad ogni modo, se si considera in che modo nel corso degli ultimi anni si sono ristretti i margini di manovra dell’esecutivo. Innanzi tutto, in virtù di Maastricht e quindi dei vincoli imposti dall’appartenenza all’Unione europea, una serie di operazioni di spesa oggi non sono più nel novero delle opzioni possibili. Per un Paese come l’Italia, in linea di massima questo è positivo, ma senza dubbio contribuisce a portarci in quella notte oscura in cui tutte le mucche sono nere.
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C’è di più. Bisogna infatti tenere in considerazione che da tempo l’Italia è ingessata da un sistema corporativo e da un intreccio di interessi che finiscono per predefinire, a ogni scadenza di fine anno, una larga parte dei conti pubblici. Quando un ministro del Tesoro si appresta a disegnare il bilancio a venire, un’ampia parte delle scelte è già stata assunta da altri e non c’è alcun modo di introdurre modifiche. Questo si deve, in primo luogo, all’inerzia della spesa clientelare e al fatto che – dopo le privatizzazioni degli anni Novanta (contestabi-
li nella forma, ma che almeno sono state fatte) – nessuno ha più avuto il coraggio di intervenire per ridurre l’area dello Stato. In fondo, se nelle sue “lenzuolata” il centro-sinistra avesse introdotto la cessione delle Poste, dell’Enel e delle Ferrovie (solo per citare alcune imprese che dovrebbero essere al più presto privatizzate), e in tal modo avesse ottenuto risorse grazie alla compressione del debito, avrebbe avuto più denaro da impiegare nel welfare. Facendosi liberale, sarebbe riuscito ad essere più coerente con se stesso. A sua volta, lo stesso centro-destra potrebbe avviare un’ampia dismissione di aziende di Stato per soddisfare la richiesta di una minore pressione fiscale, trovando anche le risorse per una riforma radicale del sistema tributario: adottando un’aliquota unica (la flat-tax) o al massimo le due aliquote già annunciate, anni fa, da Tremonti.
Sul piano contabile, le possibilità di incidere significativamente su un sistema economico ingessato, largamente inefficiente e bisognoso di allargare gli spazi di mercato, ci sarebbero. Ma bisognerebbe vincere le pigrizie di un’economia pubblico-privata in cui i dipendenti di Stato si accontentano del posto a vita e gli imprenditori sono ben contenti di una crescita quasi nulla, se ciò è accompagnato dalla costante possibilità di privatizzare i profitti e socializzare le perdite. In questo senso, tra vecchio e nuovo governo c’è una continuità impressionante perfino nei dettagli: come attesta la vicenda del ricorso ai fondi del Tfr. Ma più che quanto viene fatto, pesa sul futuro del Paese la tendenza a “non fare”: una propensione a galleggiare (inventandosi, al massimo, qualche rovinosa occasione di protagonismo: come nel caso della Banca del Sud) che però fa assomigliare sempre più l’Italia a quel povero Titanic che non giunse mai a New York.
da quasi 16 miliardi. Se non bastasse, aumenta la pressione fiscale ai redditi medio alti, portando il picco complessivo al record del 43,3 per cento. «Dovremmo avere il coraggio di dire che le tasse sono una cosa bellissima», disse in Tv ospite di Lucia Annunziata. Con il senno di poi quella decisione si dimostrò deleterea: vuoi perché quel biennio fu l’ultimo di crescita, vuoi perché Tps trovò in eredità un tesoretto fiscale lasciato dal suo predecessore di quasi 8 miliardi che potevano evitare l’intervento fiscale. Se non bastasse, si scoprì che dietro tanto rigore si celava una strategia taglia e spendi, con la maggioranza che voleva usare questi soldi per sistemare precari o dare sussidi ai disoccupati Nel 2008 Tremonti, ritornando in sella, introduce la programmazione triennale per il bilancio. Nella quale inserisce tagli draconiani alla spesa dei ministeri: 8,4 miliardi in meno per quell’anno, quasi 9 per il 2009 e 15,6 per il 2010. Soprattutto strappa un cavallo di battaglia dei suoi predecessori: quello della lotta all’evasione fiscale. Se Vincenzo Visco aveva aumentato la tracciabilità sui conti bancari, l’attuale ministro permette agli 007 della Finanzia di mettere il naso persino nei database della Banca d’Italia. E se nel 2001 aveva conquistato le partite Iva parlando di Stato criminogeno e tre aliquote fiscali (0, 23 e 33 per cento), nel 2008 sorprende amici e detrattori spiegando che le tasse potrà tagliarle soltanto con il recupero del nero. Qualche mese fa avrebbe persino minacciato il presidente della Confederazione elvetica Merz: «Se fosse per me manderei l’esercito in Svizzera». In questa logica lo stesso scudo fiscale, la sanatoria per chi ha portato capitali all’estero, si trasforma in un incentivo a far saltare «la caverna di Ali Babà». Ma Padoa-Schioppa e Tremonti sembrano addirittura gemelli nella loro lotta alla spesa pubblica e agli sprechi degli enti locali. Tps si conquista il rispetto di ogni liberale del globo quando, nel suo primo Dpef, esordisce
promettendo tagli drastici a sanità, pensioni, statali ed enti locali. Finirà che nel 2008, dopo aver dato fiducia ai governatori eliminando i commissariamenti, tra sprechi e fondi non utilizzati la pubblica amministrazione segnerà un saldo negativo di 22 miliardi.
prima pagina Anche Giulio Tremonti ha sempre provato a stringere la cinghia agli enti locali. Nella Finanziaria triennale inserisce una sforbiciata di 3 miliardi nel 2008, oltre 5 nel 2009 e 9 nel 2010. Non contento mette le mani su Fase Fondi per la coesione che una consuetudine vuole patrimonio dei governatori. Risultato? Due settimane fa è costretto a riconoscere 3 miliardi in più per la sanità, mentre nell’ultimo passaggio alla Camera la sua ultima manovra lievita fino a 9 miliardi proprio per restituire alcuni dei vecchi tagli.
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Secondo l’economista Mario Deaglio, le scelte sono dettate dalla Ue
«Dobbiamo ringraziare Ciampi e Reviglio» «Le riforme strutturali sulle pensioni e per l’ingresso nell’euro sono state fondamentali per i nostri conti» di Franco Insardà
A ben guardare nelle esperienze di PadoaSchioppa e Tremonti ci sono somiglianze anche nelle loro strategie politiche: non fanno squadra con i colleghi di governo (altrimenti come fare a dirgli sempre di no?), scelgono un sindacato di riferimento per rompere il fronte complessivo (la Cgil uno, la Cisl l’altro), lesinano su opere pubbliche e investimenti per non toccare i saldi di bilancio, arrivando al punto di allungare all’infinito le trattative sul rinnovo dei contratti degli statali non inserendo le poste necessarie in Finanziaria. Eppoi (soprattutto l’ex tributarista pavese) sono molto sensibili ai richiami di Bruxelles. Emblematico al riguardo la vicenda dello scalone: quando Berlusconi e i suoi colleghi si dissero contrari a un alzamento così netto dell’età pensionistica (da 57 a 60 anni), Tremonti rispose che glielo aveva imposto la Ue. Racconta un funzionario del Tesoro che ha lavorato con entrambi: «Il loro limite è quello di guardare soltanto al breve termine. Infatti sono stati bravissimi sulle aste del debito, ma totalmente incapaci di gestire le grandi riforme, in primis quella delle pensioni». Facile concordare con quest’analisi. Anche se a loro discapito va detto che, come ha spiegato l’economista Giacomo Vaciago, che è difficile fare programmazione economica in un’epoca in cui «la politica monetaria la fa Francoforte, la politica fiscale la fa Bruxelles e la spesa pubblica la fanno le Regioni». Di fronte a tutto questo bagattelle vedere, come è successo ieri alla Camera, Tremonti dire: «Non dobbiamo discutere sul metodo, ma avviare l’esame della manovra» e Bersani replicargli: «Nella sostanza è un cazzotto in faccia alla discussione».
ROMA. «La politica economica di Giulio Tremonti è, per forza di cose, simile a quella del suo predecessore Tommaso Padoa-Schioppa. Chi siede a via XX Settembre non può fare altrimenti». Mario Deaglio, professore di Economia internazionale dell’Università di Torino non ha dubbi che le scelte da fare per i ministri dell’Economia siano obbligate. Perché? Abbiamo degli impegni internazionali, siamo dentro a un accordo che si chiama patto di stabilità, per quanto modificato, e in un sistema monetario che non controlliamo. In questo scenario non abbiamo grossi margini di manovra. La nostra agenda economica viene, quindi, dettata dall’Europa? Con il debito pubblico che abbiamo e con gli interessi che il mercato ci chiede ci sono davvero pochi margini a qualsiasi manovra. Praticamente il bilancio è già fatto, restano delle briciole da distribuire e l’azione di stimolo è limitata. Altrimenti il rischio è di finire come la Grecia. Padoa-Schioppa era più autonomo rispetto alla Ue? Credo che avesse migliori rapporti con i vertici per i suoi trascorsi europei. Tremonti si attiene molto più scrupolosamente alle direttive europee. Come siamo messi rispetto agli altri Paesi della Ue? La sigla “Pigs”la dice lunga. Vuol dire Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna che sono i Paesi messi peggio. Qualcuno dice che la seconda “I”potrebbe essere quella dell’Italia, ma al momento ci va meglio di questi quattro. Abbiamo rispettato, nonostante le diffidenze, gli accordi, ora Francia e Germania con le massicce emissioni di debito, rischiano di arrivare al nostro livello. Solo Olanda e Finlandia sono al vertice. Tutto questo grazie al rigore di PadoaSchioppa e Tremonti? I meriti sono delle riforme strutturali di Reviglio del 1993 e agli aggiustamenti fatti da Ciampi che ci hanno consentito di entrare nell’euro, riducendo in maniera fantastica l’interesse sul debito pubblico. Ciampi ha compiuto un vero e proprio miracolo di credibilità. E dopo? Abbiamo galleggiato, tamponando le piccole falle e tenendo accuratamente nascosti i grossi problemi strutturali. La spesa pubblica affrontata da una parte con i tagli lineari e prima con il libro bianco: strumenti diversi, ma obiettivi simili. Ridurre la spesa pubblica vuol dire tagliare molti posti di lavoro, senza contare l’odiosità di chiude-
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re scuole e ospedali. Un ministro dell’Economia non ha un mandato politico per fare queste cose. Allora che cosa bisogna fare? Tagliare una struttura pubblica che dà lavoro a quattro milioni di persone è molto peggio che chiudere gli stabilimenti di Termini Imerese. Le Regioni e soprattutto la spesa sanitaria sono delle vera zavorre. In molto regioni del Sud il settore sanitario pubblico è quello che dà maggiore occupazione, senza dimenticare gli interessi locali, più o meno legittimi, delle convenzioni con i privati. In assenza di alternative è comprensibile che si tenda a non cambiare. Un altro punto di contatto tra i due ministri è il rapporto con le banche. Esistono alcuni casi macroscopici di finanziamenti preferenziali con le banche diventate vere e proprie finanziarie per alcuni gruppi. Negli altri casi è sbagliato chiedere al banchiere di essere buono con i soldi dei depositi. Che cosa bisogna fare? O lo Stato fornisce le garanzie, oppure le banche hanno due possibilità: ridurre i crediti o concederli aumentando l’accantonamento di rischio. Tra l’altro diffido dai banchieri troppo bravi e intraprendenti che hanno causato i ben noti crack. Tremonti è stata criticata per non aver tenuto presente le imprese, Padoa-Schioppa aveva introdotto il cuneo fiscale che è servito in buona parte alle grandi imprese? Però a forza di dire che le grandi imprese fanno la parte del leone ne abbiamo sempre meno. Per tentare di rimanere una potenza economica non ci si può affidare soltanto ai distretti industriali e all’artigiano geniale. Invece? Dobbiamo ricrearci una struttura industriale moderna delle stesse dimensioni degli altri Paesi. Siamo usciti dalla chimica, dalla farmaceutica e dall’elettronica, ci è rimasto il “made in Italy”. Ma non basta. Altra polemica riguarda il Tfr e l’utilizzo che Tremonti ne fa per la spesa corrente, mentre Padoa-Schioppa l’aveva destinato agli investimenti delle Ferrovie. Se l’obiettivo è quello di rilanciare l’economia in tempi brevi va privilegiata la spesa corrente. Purtroppo. Tremonti e Padoa-Schioppa: due superministri isolati? La classe politica degli ultimi quindici anni manca del tipo di preparazione tecnica che quelli della Prima Repubblica avevano per le esperienze amministrative negli enti locali. Occorre quindi un tecnico-manovratore come Tremonti e Padoa-Schioppa.
La classe politica degli ultimi quindici anni manca di preparazione tecnica, occorrono dei buoni manovratori per gestire i cordoni della borsa
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politica
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Prospettive. L’intervento del leader Udc sul superamento delle vecchie categorie ideologiche apre nuovi scenari
Cosa c’è oltre il Centro «Unire i moderni e i moderati»: la strategia di Casini nelle valutazioni di Cacciari, La Malfa, Bondi e Sabbatucci di Riccardo Paradisi
on vorrei più usare la parola Centro...È il momento per ciascuno di noi di liberarci del retaggio ideologico del ventesimo secolo e di sfidarci sui contenuti nuovi, senza nostalgie. Per questo ho parlato del nostro progetto come di un Partito della Nazione». Così Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, in un’intervista al Messaggero immagina il suo futuro politico dell’Udc. «Forse il nome sarà diverso – continua Casini – ma spero di aver chiarito il senso: politica per noi oggi è ridare slancio ad un paese in difficoltà, suscitare un nuovo orgoglio di essere italiani, premiare merito, giovani, innovazione, ricerca, declinare in chiave di modernità l’interesse nazionale».
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Le affermazioni di Casini costituiscono giornalisticamente una notizia: l’Udc porta nella sua stessa sigla la parola centro e l’investimento politico del suo leader Casini sulla collocazione centrista del partito nell’attuale geografia politica italiana è stato notevole. Sicché l’elemento di novità c’è ed è forte. Ma anche dal punto di vista politologico la riflessione del leader dell’Udc si presta a una valutazione di prospettiva, perché l’idea di lasciarsi alle spalle il centro, la destra e la sinistra – le categorie ideologiche e classificatore del Novecento cioè – può davvero mettere in moto processi di accelerazione del quadro politico culturale complessivo. Del resto che quella MASSIMO CACCIARI «Negli anni Ottanta eravamo in pochi a dire che destra e sinistra erano ormai ferrivecchi inservibili, strumenti di interpretazione superati. Casini fa bene a tradurre politicamente questa intuizione»
di Casini sia una sortita forte lo dimostra il fatto che a stretto giro uno degli esponenti di punta del Pdl, il ministro dei
La svolta dell’ex presidente della Camera guarda direttamente al futuro del Paese
L’era Berlusconi è finita Ora serve una nuova Casa di Giancristiano Desiderio hi sa leggere il libro della politica che per certi versi è un libro non scritto - sa che nel futuro prossimo ci sarà bisogno di un partito che unisca le forze dei moderati. Ieri Pier Ferdinando Casini in un’intervista a Il Messaggero l’ha definito il partito della nazione e noi lo chiamiamo la Casa dei moderati. I nomi possibili contano poco, mentre ciò che serve - per usare una bella espressione dell’ultimo Matteucci - è usare concetti, non parole. Il concetto fondamentale è quello di “centro” ma - ecco la importante novità di Casini - si può anche fare a meno di ricorrere alla parola “centro” perché ciò che effettivamente va pensato è la cosa stessa, ossia: i limiti dell’alleanza tra il Pdl e la Lega. L’alleanza tiene fino a quando è tarata sulla figura di Silvio Berlusconi, ma una volta che il baricentro muta o, come è già accaduto in modo chiaro in questi mesi, non riesce più a mediare tra le diverse esigenze politico-culturali del leghismo da una parte e del popolarismo mai veramente affermatosi dall’altra, allora, tutta l’area del centrodestra è destinata a subire una profonda trasformazione o, meglio, evoluzione. Una volta che si esce dallo schema ormai quasi ventennale del Berlusconismo e dell’Antiberlusconismo ciò che effettivamente conta è ridefinire culturalmente e politicamente l’area moderata con il Partito della Nazione o con la Casa dei moderati.
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giustizia, l’integrazione e l’immigrazione, la fine del giacobinismo sono tutti elementi di una politica che, non a caso, oggi trovano una loro dimensione e un ragionevole equilibrio proprio con la “sponda” che l’Udc offre alla due casematte del Pdl e del Pd in cui è rinchiusa come nei due padiglioni dello stesso nosocomio la ragione politica; ma una volta che le ragioni della politica vengono liberate dalla forzata quarantena, ecco che il ”centro” diventa il sistema e la cultura moderata - il cattolicesimo liberale - è in grado di dare una Nuova Casa ai centristi non più centristi, ai berlusconiani non più berlusconiani, ai finiani non più finiani.
Rapporto tra Stato e Chiesa, nuova giustizia, immigrazione e integrazione: sono i temi di una politica che vuole cambiare
Fino a quando ci troviamo nel paradigma berlusconiano, il concetto di “centro” va pensato alla vecchia maniera parlamentare, ossia come centrismo. Ma una volta che il paradigma del bipolarismo della guerra mentale permanente si esaurisce storicamente, il concetto di centro non coincide più con una parte del Parlamento, bensì con il governo stesso e la cultura delle istituzioni. I rapporti tra Stato e Chiesa, la riforma della
Davvero non crediamo di volare troppo sulle ali della fantasia perché ci limitiamo soltanto a fare due cose: a guardare in prospettiva l’area del centrodestra senza la leadership di Berlusconi ma con un’impossibile primato populista del leghismo nordista e, inoltre, a riconsiderare il destino della Casa delle libertà che lo stesso Berlusconi non ha saputo elevare a partito della nazione assumendone il ruolo storico del Fondatore. La forza del Partito della Nazione evocato da Casini è proprio questa: non è un progetto velleitario perché affonda le sue radici in ciò che il centrodestra è già stato e che dovrà, per la forza stessa delle cose che in politica è più forte delle singole volontà, sia pure per poco ritornare ad essere se vuole evolvere ed elevarsi verso il suo assetto più compiuto dei Popolari d’Europa. Se lo vogliamo dire con una formula possiamo dire che la Casa nazionale a cui si è richiamato Casini per dare rappresentanza all’Italia moderna e moderata è la sintesi tra la Prima e la Seconda repubblica per mettere a sistema attraverso l’affermazione stabile della democrazia dell’alternanza il senso della Patria condivisa.
Beni culturali Sandro Bondi sente la necessità di intervenire sul nuovo scenario aperto dall’intervista. «Se il Partito della Nazione lanciato da Pierferdinando Casini non è l`ennesima variazione linguistica della politica italiana se non è una nuova definizione in movimento di un centro stagnante e immobile, se non è la solita concezione della politica come scacchiera delle alleanze e dei balletti piuttosto che dei contenuti della necessaria modernizzazione del Paese, se non è tutto questo GIORGIO LA MALFA «Serve un partito modulare e l’idea del partito della nazione non è male. Si comincia a vedere l’idea di uno schieramento comprensivo del mondo cattolico e laico»
allora il progetto di Casini non potrà non incontrarsi prima o poi con il piú grande partito degli elettori moderati, riconoscendo prima di tutto l`opera positiva svolta dal governo presieduto da Silvio Berlusconi, con il contributo essenziale della Lega Nord, nel rinnovamento dell’Italia». Sarà difficile un riconoscimento del contributo essenziale della Lega nord da parte di Casini – sono note le posizioni critiche dell’Udc nei confronti delle politiche del Carroccio e la valutazione negativa rispetto al condizionamento che l’attuale maggioranza subisce dai diktat di Bossi – ma probabilmente nell’offerta politica di Casini non ci sono pregiudiziali né a destra né a sinistra: l’unico criterio discriminatorio dovrebbero essere i programmi e le scelte sul merito delle cose. Il fatto è che Casini non ha fretta: indica una prospettiva, disegna un vettore di marcia che guarda l’orizzonte della politica di media durata. «Non bisogna bruciare i tempi» dice infatti Casini a proposito dell’appello di Francesco Rutelli a Gianfranco Fini per rompe-
politica
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Pier Ferdinando Casini, ieri, in un’intervista al quotidiano di Roma «Il Messaggero» ha lanciato una provocazione politica per il futuro: non solo l’idea del Partito della Nazione, ma un vero e proprio superamento del vecchio concetto di Centro in politica
re con il Pdl e partecipare alla costruzione del centro. «Sono convinto - spiega Casini- che ognuno debba tessere la propria tela, poi chi avrà più filo prevarrà». Tessere la tela appunto e di filo da tessere ce n’è già molto a disposizione anche secondo il sindaco di Venezia Massimo Cacciari. «È chiaro che durante le ultime fasi politiche si è aperta una prospettiva che può progressiGIOVANNI SABBATUCCI «Non vorrei che dietro il progetto di Partito della Nazione e di superamento nominalistico del centro si profilasse il progetto di archiviare il bipolarismo» vamente modificare gli equilibri attuali. Non so quanto durerà ancora l’egemonia di fatto di Berlusconi all’interno di questa maggioranza. Forse arriverà alla sua scadenza naturale, ma tutti i segnali che ci arrivano quotidianamente ci dicono che nel prossimo orizzonte è iscritto il passaggio, magari soft, dal berlusconismo al post berlusconismo. Ecco, in questa prospettiva esistono tutte le condizioni per creare un’area di centro che non sia la ex Dc. Il partito democratico – ragiona ancora Cacciari – ha fatto una scelta inequivoca che si regge sull’asse della tradizione socialdemocratica e dunque ha deciso di rivolgersi a una platea precisa che è quella della sinistra tradizionale. Una volta uscito di scena Ber-
lusconi, che per ora fa da grande federatore delle contraddizioni del centrodestra, i nodi verranno al pettine anche lì e il Pdl dovrà decidere la sua prospettiva. E nella prospettiva postberlusconiana del Pdl non ci sono insieme Fini e la Lega. Un ambito politico nuovo che faccia dunque incontrare Casini, Fini e Rutelli è del tutto realistica e potrebbe segnare la nascita di una forza molto consistente. Certo molto dipenderà anche da come Berlusconi vorrà gestire la transizione successiva alla sua uscita di scena». Ma oltre al dato immediatamente politico c’è da valutare quello politologico. Il superamento delle vecchie categorie politiche di centro, destra e sinistra è un dato che la politologia affronta da anni ma che la politica non aveva
mai ancora messo a tema così chiaramente. «Negli anni Ottanta – ricorda Cacciari – eravamo in pochi a dire che destra e sinistra erano ormai ferrivecchi inservibili, strumenti di interpretazione superati per quello che si muoveva in società complesse e moderne come le nostre. Chi faceva questi discorsi, io a sinistra e il mio amico Marco Tarchi a destra, subiva anche gli strali del fuoco amico che ci accusava di intelligenza col nemico. Era invece quello un discorso pienamente ragionevole anche se ancora molto teorico. Oggi è lo stesso sistema politico a mostrare chiaramente l’insignificanza di destra, sinistra e centro. Che siano concetti ormai vuoti, astrazioni lo si capisce dal fatto che queste categorie devono essere declinate in modo sempre più analitico: destra istituzionale, populista, destra economica, destra d’ordine. Sinistra antagonista, riformista, istituzionale...Quando le categorie si declinano significa che hanno perso il loro carattere definitorio. I termini politici del futuro saranno speriamo più nei termini delle cose». Un passo avanti insomma quello di Casini, rispetto alla segnaletica orizzontale di destra, centro, sinistra: ora però si tratta di entrare nel merito. Il leader repubblicano Giorgio La Malfa tenta di farlo con liberal: «È un segnale importante quello di Casini: si tratta di infittire un luogo politico che raccolga intanto Casini, Rutelli e se riescono anche i repubblicani nelle loro diverse componenti. Ci vuole vuole un partito modulare e l’idea del partito della nazione non è male. Mi pare che Casini stia cominciando a vedere l’idea di uno schieramento com-
prensivo del mondo cattolico e del mondo laico.
Si tratta di una prospettiva nuova nel blocco della politica italiana in questo momento, una prospettiva che è importante aprire già ora in attesa che disgeli il grande blocco di Berlusconi. Un passo avanti progettuale anche se Casini rimanda la sua più precisa declinazione politica dopo le elezioni regionali.Una prospettiva che però potrebbe già riguardare le prossime politiche». A manifestare alcune riserve verso il progetto di Casini è invece Giovanni Sabbatucci, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma. Sabbatucci teme infatti che la prospettiva di Casini passi per l’archiviazione del bipolarismo, di cui lui è sostenitore: «Certo Casini parla del superamento
del centro, però non mi è molto chiaro che cosa questo voglia dire. A meno che non si intenda liquidare l’impalcatura bipolarista e tornare alle coalizioni centriste se non di nome di fatSANDRO BONDI «Se il Partito della Nazione non è la solita concezione della politica come scacchiera di alleanze questo progetto si incontrerà con il piú grande partito degli moderati»
to che tenderebbero a eternizzarsi». A Sabbatucci non piace nemmeno la dizione Partito della nazione: «Ha la stessa tendenza olistica di Forza Italia, come se fosse nemico della nazione chi non ne fa parte. Meglio la dizione di partito moderato. Dare voce oggi all’Italia moderata del resto è oggi un nobile impegno di cui però sono convinti di essere i rappresentanti anche Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Se Casini ha in mente uno scenario postberlusconiano gli resterebbe comunque da fare i conti con Fini, che tenta da oggi di ereditare i moderati del Pdl con il vantaggio di farlo dall’interno di quel partito. Che anche se non accetterà la leadership finiana non si scioglierà come neve al sole solo perché il Cavaliere avrà passato la mano».
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pagina 6 • 10 dicembre 2009
Giustizia. Resta rovente il clima tra il governo e il Csm, attacco del Guardasigilli anche sui pm che disertano le sedi disagiate
Alfano ai magistrati: basta tv!
Il ministro contro le Procure. E parte l’iter del “legittimo impedimento” ROMA. È una tentazione troppo forte per il governo, irresistibile anche quando il passo sembra procedere verso la distensione: non appena si intravede un cenno di ragionevolezza rispetto al tema della giustizia, ecco pronta che arriva la stilettata al curaro. Ci casca anche il Guardasigilli Angelino Alfano: nel corso di una articolata audizione davanti alla commissione Giustizia di Montecitorio parla del legittimo impedimento («il governo esprimerà il proprio giudizio»), conforta le attese sul piano carceri («è in arrivo il primo step con 500 milioni già stanziati in Finanziaria, assumeremo anche 2000 nuove guardie penitenziarie») fino all’annuncio più importante, quello sulla riforma dell’ordinamento giudiziario: «Già domani (oggi per chi legge, nda) comincerò un giro di consultazioni all’interno della maggioranza: una volta individuata una proposta unitaria su separazione delle carriere, composizione del Csm e in generale sul modo di equilibrare il rapporto accusa-difesa, la sottoporrò all’opposizione». Sarebbe la mossa utile e necessaria per trascinare la legislatura fuori dalla palude, ma viene vanificata dall’altra affermazione notevole fatta dal ministro della Giustizia alla Camera: «I magistrati lavorino di più in Procura e senza le luci delle telecamere, così
nistro, «dove c’è uno splendido tribunale con vista sul mare?». Al di là dei risultati comunque ottenuti «grazie al solo impegno del ministero» con cinquanta posti vacanti su cento già coperti, Alfano non si fa scrupolo di aprire un altro fronte con la magistratura. Il vi-
Il sottosegretario Alberti Casellati: «Presto il testo unificato per definire gli impegni istituzionali rispetto alle udienze. Bisogna svelenire il clima» si arresta qualche latitante in più. Con qualche convegno in meno e qualche latitante in più si fa il bene del Paese».
Difficile allontanare il sospetto che il governo voglia giocare d’anticipo rispetto alle critiche sul processo breve: il punto non è la tagliola sui procedimenti in corso, sarà il refraian delle prossime settimane, ma l’inefficienza delle toghe che lavorano troppo lentamente. A irrobustire la tesi sui magistrati fannulloni o scansafatiche intervengono anche le recriminazioni rivolte da Alfano sulle «sedi giudiziarie disagiate», emergenza per la quale «non è arrivato nessuna particolare collaborazione dall’Anm o dalle mailing list dei magistrati». Come si fa d’altronde a rifiutare una destinazione come Sciacca, dice il mi-
Alberti Casellati al termine della prima sessione mattutina a Montecitorio. Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia, pronostica l’arrivo in aula della legge per precisare gli impegni del premier «per dopo Natale», quindi a gennaio. Il firmatario della proposta di partenza della maggioranza, il deputato Pdl Enrico Costa, apre ai contributi esterni. Non solo a quelli della sua parte (già sono stati depositati i testi di Micaela Biancofiore e Isabella Bertolini, di Giuseppe Consolo e di Enrico La Loggia) ma anche quelli dell’opposizione, a cominciare dalla proposta dell’Udc Michele Vietti. E quella del vicecapogruppo centrista è l’unica ipotesi che prevede la clausola ritenuta indispensabile dal Pd, ossia il blocco dei tempi di prescrizione durante i rinvii per legittimo impedimento.
di Errico Novi
cepresidente del Csm annuncia «un plenum con il ministro per discutere del problema». Certo la vicenda Spatuzza non favorisce un dialogo misurato, ma è dubbio che all’Esecutivo una simile svolta interessi davvero.
Con l’opposizione però il confronto è indispensabile, né i parlamentari della maggioranza pensano di poterne fare a meno. Appurato che il processo breve navigherà per conto suo e senza alcun appoggio esterno (i lavori della commissione Giustizia di Palazzo Madama sono sospesi fino a lunedì prossimo, data limite per gli emendamenti) la Consulta giustizia del Pdl è in piena attività per individuare un testo comune sul legittimo impedimento. «Penso che ci arriveremo rapidamente», dice a liberal il sottosegretario Elisabetta
Accordo Tremonti-Fini, sì al diritto soggettivo
Editoria, fondi sbloccati ROMA. Deve intervenire il presidente della Camera Gianfranco Fini, che nel proprio ufficio di Montecitorio mette in vivavoce Giulio Tremonti, per rimediare al blitz sui finanziamenti all’editoria. In diretta telefonica il ministro dell’Economia assicura che sarà «ripristinato il diritto soggettivo per quelle testate con una precisa funzione storico-culturalepolitica». Lo fa mentre ad ascoltare la sua voce nello studio di Fini ci sono i direttori di alcuni quotidiani di partito: Concita De Gregorio dell’Unità, Flavia Perina del Secolo d’Italia, Dino Greco di Liberazione e Stefano Menichini di Europa. «Il ministro era molto in palla, ha citato tre volte Gramsci e la cultura gramsciana», racconta poco dopo la De Gregorio nella conferenza convocata dalla Federazione nazionale della stampa a Montecitorio. In pratica l’intervento correttivo sarà inserito non in Finanziaria – come Pierpaolo Baretta del Pd
chiederà comunque fino all’ultimo, considerato anche che «una volta creata l’anomalia del maxi-emendamento nessuno di noi si solleverà se rispetto ai fondi per la stampa ci fosse una difformità dal testo della commissione Bilancio – ma in un provvedimento successivo: con il decreto milleproroghe di fine dicembre o con quello sullo sviluppo di inizio gennaio. Verrà ripristinato il diritto soggettivo di ciascuna testata a ricevere i finanziamenti anche per l’anno prossimo, in modo che i giornali possano ottenere dalle banche il consueto anticipo, ma si tenderà ad escludere dai benefici tutte le pubblicazioni «che non hanno ragion d’essere se non quella di prendere i soldi», per dirla con Tremonti. Nel frattempo la Fnsi continuerà a battersi perché il criterio distintivo sia quello delle «iniziative editoriali vere con giornalisti veri», avverte il presidente Roberto Natale. (e.n.)
Elementi per trovare un punto di incontro ce ne sarebbero, dunque. Alberti Casellati ne aggiunge altri: «Che sia una norma non destinata a suscitare contrapposizione lo dimostra il fatto che la stessa Corte costituzionale, nel bocciare il Lodo Alfano, ha evidenziato l’opportunità di tutelare chi ricopre ruoli costituzionali secondo il principio del legittimo impedimento». Sotto questo aspetto, spiega ancora a liberal il sottosegretario alla Giustizia, «una norma più specifica non presenterebbe profili di incostituzionalità: sempre nella sentenza dell’ottobre scorso la Consulta ha risposto che l’articolo 3 della Costituzione non ne verrebbe calpestato, perché l’uguaglianza di fronte alla legge può conciliarsi con il sereno svolgimento delle funzioni istituzionali». Di un simile discorso c’era traccia già nella sentenza del 2004 sul Lodo Schifani, ricorda ancora l’esponente del governo: «Vale la pena di trovare un’intesa su questa materia, è assolutamente indispensabile liberare il terreno del confronto sulle riforme dagli elementi che lo avvelenano». Sarebbe forse più semplice se non permanesse un atteggiamento di contrapposizione quasi assoluta, con la maggioranza che organizza conferenze stampa sui risultati ottenuti contro la mafia e l’opposizione che, a partire dall’Udc Gianpiero D’Alia, fa notare come forse il Senato non era la sede più opportuna per fare propaganda.
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10 dicembre 2009 • pagina 7
È un albanese di 23 anni: «Ho sentito pianti e lamenti. E ora ho paura»
Lo Stato ha deciso di venderli per fare cassa
Caso-Cucchi, ascoltato ieri un altro testimone
Maroni: un’agenzia per i beni della mafia
ROMA. Nuove testimonianze
ROMA. «Credo che sarebbe utile la creazione di una vera e propria agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata». Lo ha affermato il ministro dell’Interno Roberto Maroni alla conferenza stampa del Pdl sui risultati ottenuti dal Governo sulla lotta alla mafia. «L’agenzia ha spiegato Maroni - potrebbe velocizzare le procedure di confisca e utilizzare meglio i beni confiscati, prendendo tutte le precauzioni perché non possano tornare nelle mani dei boss». Nei 19 mesi del Governo Berlusconi, ha detto ancora il responsabile del Viminale, «i beni confiscati alla criminalità organizzata sono stati 2842, per un valore di 1,8 miliardi». Come si ricorderà, la maggioran-
nell’ambito dell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi. Un albanese di 23 anni ha infatti confermato che la mattina del 16 ottobre scorso nelle celle del palazzo di giustizia, verso le 8 e 30, ha sentito pianti e lamenti ricollegando questo con il pestaggio subito dal giovane. Ma non avrebbe visto nulla, ha sentito solo pianti e lamenti. Durante la deposizione il testimone è apparso anche titubante e timoroso, tanto da affermare: «Ho paura per quando esco... loro hanno le pistole». Il testimone, ascoltato in incidente probatorio dal giudice per le indagini preliminari Luigi Fiasconaro (presenti il padre e la sorella di Cucchi, e i difensori dei sei indagati, tre agenti di custodia per omicidio preterintenzionale e tre medici dell’ospedale Sandro Pertini per omicidio colposo), lo ha detto riferendosi a un episodio accaduto il 12 novembre scorso, nel carcere di Velletri, dove è detenuto per furto.
Il giorno prima era stato interrogato sulla sua testimonianza dai pubblici ministeri Barba e Loi. Tornato in carcere ha detto di essere stato avvicinato da un appuntato e poi anche dal direttore del carcere i quali gli avevano chiesto che
Costruttori ritardatari, mezza Aquila senza casa Bertolaso: la lista dei “cattivi” sul sito della Protezione civile di Marco Palombi
ROMA. Il 25 novembre cinque righe d’agenzia avevano innescato una secca smentita della Protezione civile: nessun ritardo nella consegna delle abitazioni per gli sfollati abruzzesi. A leggere la nota col senno di poi l’agenzia specifica che è il Progetto c.a.s.e. a non subire ritardi e non si fa cenno ad altro. Poi l’altro ieri Guido Bertolaso, capo della Protezione civile, convoca per uno storico cazziatone un centinaio di imprenditori che stanno lavorando alla ricostruzione: «Mi state facendo fare una figuraccia davanti a tutta l’Italia, ma io strappo i contratti e domani convoco una conferenza stampa e faccio i nomi di chi non ha rispettato i patti». Detto fatto: ieri la lista dei cattivi è finita sul sito della Protezione civile, mentre Bertolaso annunciava che non tutti i Map - i moduli abitativi provvisori - saranno consegnati in tempo: contrariamente a quanto annunciato, 3mila persone saranno senza casa ancora a gennaio. La colpa? «Una serie di gravi inadempienze da parte dei sindaci ma anche delle ditte chiamate a realizzarli», che «hanno pensato che potevano fare i loro comodi e prendersi gli appalti anche se non avevano la forza di farlo». Per non parlare dei fornitori di servizi, tipo l’Enel, «che ha fatto il ponte dell’Immacolata». Queste persone, ha detto il capo, «si devono vergognare. Non voglio subire ricatti da chi è strapagato».
struire le case provvisorie, ma a farlo «a tempo di record». Parliamo intanto dei Map: dovevano essere consegnati“chiavi in mano”a chi ha la casa distrutta o inagibile al massimo entro 60 giorni dall’assegnazione dei lavori, ma invece «dei circa 2mila alloggi provvisori che dovevano essere consegnati entro dicembre, solo la metà verrà consegnata», dice il commissario. Tradotto: «Invece di dare sistemazione a 5.500 persone solo 2.400 potranno entrarci».
Anche sul Progetto c.a.s.e. però - le costruzioni anti-sismiche che si stanno realizzando a L’Aquila - bisogna intendersi: per Bertolaso lì va tutto bene, «le imprese stanno lavorando bene, giorno e notte». Numeri: ad oggi sono stati consegnati 2.737 alloggi, che ospitano 8.300 persone; mentre entro la fine dell’anno saranno 3.800 le case pronte e 12mila gli aquilani che vi abiteranno. Questa era «la stima iniziale», ha voluto sottolineare il sottosegretario. A fine gennaio poi, ha concluso, saranno consegnate altre 700 abitazioni che daranno un tetto ad altri seimila cittadini. Significa che - contrariamente a quanto detto più volte dal premier - saranno almeno 9mila le persone a non avere un tetto proprio a capodanno. A questo si aggiunga che tra gli sfollati - ancora ventimila: 14mila sulla costa e 6mila a L’Aquila, sparsi tra alberghi, case private e caserme - non tutti avranno un alloggio Map o c.a.s.e., perché hanno la casa solo lievemente danneggiata o comunque riparabile a breve. Queste persone hanno diritto invece al rimborso dei lavori di ristrutturazione, solo che le domande sono spesso impantanate nella burocrazia comunale: delle 8mila circa domande presentate finora neanche mille sono le pratiche evase, mentre per altre 1.400 servono integrazioni che allungheranno i tempi (ma spesso la richiesta è arrivata dopo 60 giorni, limite per il silenzio-assenso). Quanto alla sospensione di tasse e tributi, il governo ha promesso una proroga nel decreto sulla Campania. Gli aquilani si fidano e non si fidano: oggi intanto protesteranno davanti alla Camera.
La colpa? «Gravi inadempienze da parte dei sindaci ma anche delle ditte chiamate a realizzare le abitazioni di legno»
cosa avesse riferito ai magistrati. Ma lui ha risposto «non parlo se non c’è il mio avvocato». Dalla ricostruzione della vicenda comunque è emerso che a quell’ora Cucchi ancora non era arrivato al palazzo di Giustizia. Sarà ora compito dei magistrati cercare di ricostruire gli orari per stabilire quanto credito debba essere dato a questa testimonianza. Sempre nell’udienza di ieri il giudice ha deciso di non accogliere la richiesta di incidente probatorio fatta per un altro testimone, il tunisino Tarek, che in una lettera fatta giungere al magistrato attraverso il senatore Pedica dell’Idv in sostanza accusa i carabinieri che avevano arrestato Cucchi di averlo percosso.
Bertolaso, che è un po’ il mister Wolf del governo (quello che in Pulp fiction risolve i problemi), è amareggiato anche perché ha già annunciato che a fine anno se ne andrà in pensione e voleva legittimamente lasciare il posto tra gli applausi e, per sovrammercato, avendo incassato una riforma della Protezione civile che però venerdì scorso è sparita dall’agenda del Cdm. E la situazione in Abruzzo - per uno straordinario concorso di colpa tra aziende avide, sindaci inadempienti, burocrazia e una certa iniziale sottostima numerica del problema - è meno lusinghiera di quella che il sottosegretario avrebbe voluto a questo punto. Tanto più che il decreto iniziale autorizzava non solo Bertolaso a co-
za ha inserito nella legge Finanziaria in discussione alla Camera – ma di fatto senza possibilità alcuna di modifiche, dato che il cosiddetto maxiemendamento è stato già approvato in Commissione – una norma che pur far cassa prevede che i beni confiscati alla mafia possano essere venduti. Fino ad oggi, quei beni potevano solo essere trasformati in qualcosa di sociale utile (scuole, ospedali, biblioteche o simili): la preoccupazione diffusa, infatti, è che una volta rimessi in vendita, i beni confiscati alla criminalità organizzata possano essere ricomprati dalle medesime cosche, grazie all’aiuto di qualche prestanome.
Proprio per evitare questa palese sconfitta per lo Stato, nelle scorse settimane in Parlamento era stato presentato un emendamento bipartisan (firmato da esponenti della maggioranza, dell’opposizione di centro e di centrosinistra) che chiedeva al governo di evitare la possibilità che quei beni fossero rivenduti. Bocciato quell’emendamento, adesso il ministro Maroni (che evidentemente percepisce la gravità del problema pur senza riconoscerlo) propone la macchinosa soluzione di una agenzia ad hoc.
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pagina 8 • 10 dicembre 2009
Opinioni. Il professor Sergio Belardinelli spiega gli obiettivi del convegno sul Creatore che si apre oggi a Roma
Il Dio dei moderni «La Chiesa non vuole tornare al passato. Vuole ridare fiducia alla ragione umana» di Vincenzo Faccioli Pintozzi
ROMA. La priorità del nostro tempo «viene individuata nel rendere Dio presente in questo mondo, e nell’aprire agli uomini l’accesso a Dio». Il professor Sergio Belardinelli, docente di Sociologia politica nell’Università di Bologna e coordinatore scientifico del Progetto culturale della Cei, inizia citando Benedetto XVI l’intervista con cui spiega a liberal gli intenti con cui è stato organizzato il convegno Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto che si apre oggi a Roma. Professore, oggi si apre un convegno importante e imponente per la Chiesa e per i cattolici italiani. Qual è il senso di un’operazione di questa portata? Direi che il senso dell’operazione è stata spiegata molto bene dal presidente del Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Camillo Ruini, il quale ha ripreso la Lettera scritta da Benedetto XVI ai vescovi italiani nel marzo del 2009. Nel testo, il Papa dice: «La priorità del nostro tempo viene individuata nel rendere Dio presente in questo mondo, e nell’aprire agli uomini l’accesso a Dio». Quindi, l’ispirazione di fondo del convegno è questa. E il cardinale Ruini si è fatto portavoce di un’istanza forte del magistero papale. Questo è il motivo ispiratore: credo poi che ci siano parecchie motivazioni di tipo culturale che rendono questo evento molto importante. Il fatto che il convegno punti su Dio è un segnale, dal punto di vista culturale, molto importante. Perché, intanto, va interpretato bene: non c’è dietro la volontà di un ritorno a chissà quali tradizionalismi. La cosa che mi sembra importante è capire che è il moderno, ciò che oggi vogliamo salvare. In effetti il tema, incentrato su Dio, è talmente enorme che sembra impossibile imbrigliarlo. Quello scelto è un tema sicuramente bello da affrontare, anche perché si è praticamente sicuri che qualsiasi cosa si dica sarà sempre povera rispetto a ciò che si potrebbe dire. Per esempio, da cattolico, ritengo chiaro che le diverse sezioni in
L’intervento dello storico che appare oggi su “L’Osservatore Romano”
I limiti morali del nostro tempo di Andrea Riccardi on si tratta di una manifestazione religiosa, ma di un convegno che vuol essere culturale prima di tutto. Per tre giorni si discuterà del Dio della fede e della filosofia, del Dio della cultura e della bellezza, del Dio delle religioni e di quello delle scienze. In connessione, però, con i temi dell’anima, della vita, della violenza, della musica, del libro su Dio. Quasi un festival su Dio, un evento culturale di dialogo e di pensiero. Trent’anni fa non sarebbe stato possibile un evento simile. Non perché allora qualcuno lo impedisse, ma per la struttura stessa della cultura pubblica. Allora, a molti, sembrava che i credenti fossero una razza in estinzione: la secolarizzazione, intrecciata con l’avanzata irresistibile della modernità, avrebbe ridotto le religioni a retaggio del passato o al massimo a fatto interiore e privato di taluni. La storia correva verso l’irrilevanza di Dio. Freud lo spiega bene in Avvenire di un’illusione del 1927: «Dobbiamo credere perché i nostri antenati remoti hanno creduto. Ma questi nostri avi erano di gran lunga più ignoranti di noi, hanno creduto cose che oggi ci sarebbe impossibile accettare». La fine della fede era la vittoria sull’ignoranza. Così, se le religioni si presentavano in un dibattito pubblico e culturale, erano protese a dimostrare la loro utilità sociale, politica, più che a parlare di Dio. Si poteva accettare di parlare del fatto che i cristiani fossero utili, ma Dio era un affare strettamente privato. Oggi invece si tiene un grande evento culturale per discutere di Dio e l’interesse del pubblico sembra forte. Il mondo non è divenuto «devoto», ma si sono aperte crepe profonde nella sicurezza che la storia scorre verso il futuro che gli è promesso. Sono scomparse le mappe ideologiche della storia, che davano il senso di dove si era e che indicavano o promettevano il futuro.
N
L’uomo si sente - come dice Todorov spaesato in un mondo dalle frontiere infinite come quelle della globalizzazione. L’uomo spaesato, abbagliato dalla vastità degli orizzonti del nostro mondo, non più protetto dal suo angolo di visuale o da un’ideologia, soffre l’irrilevanza. Si sono corrose le certezze dell’ateismo, che si presentavano come profezia di una umanità emancipata. L’uomo spaesato soffre: «L’uomo - diceva il poeta Wojtyla soffre per mancanza di visione». Il problema e la presenza di Dio ritornano nella storia. Certo talvolta il problema di Dio è ridotto a una o più spiritualità, considerate necessarie
per trovare equilibrio in un’esistenza difficile e senza riferimenti. Ma si manifesta sempre più la diffusa convinzione che sia necessario interrogarsi se questo nostro mondo non abbia bisogno di Dio. E, d’altra parte, in modo complesso, vivo e chiaro ma anche impalpabile, si sente scorrere una storia di Dio, attraverso la testimonianza di una comunità credente. Il problema di Dio ritorna perché i credenti lo pongono, ma anche perché se lo pongono, più o meno esplicitamente, uomini e donne che soffrono per mancanza di visione.
E forse perché obbiettivamente il problema c’è ed è stato rimosso. Con molto acume Olivier Clément si interrogava su «come assumere e capovolgere... il nichilismo, il cinismo, più semplicemente la grande prostrazione che determina oggi il nostro mondo e che pervade noi che siamo prigionieri del nulla». La grande prostrazione è quella del nostro Occidente, che ha molte risorse materiali, ma che sembra aver perso energie e voglia di vivere, spaesato in una storia divenuta troppo grande. È la fine della storia, come scriveva Fukuyama, oppure il disperdersi della storia in mille insensati rivoli di storie? Il non senso della storia interroga sulla connessione tra la storia di Dio e la storia dell’uomo e dei popoli. E, parlando di Dio, si torna al Dio della nostra storia, della rivelazione biblica, che connette la storia dei popoli, degli uomini con quella di Dio, fino a Gesù. Per Clément, Dio è la risposta alla grande prostrazione di un mondo che ha rinunciato a cambiare, di un uomo che ha rinunciato a orientare la storia. Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto: il dibattito di questi tre giorni è percorso dalla convinzione che parlare di Dio e credere in Dio cambia in profondità l’esistenza umana e la storia. Sul filo di questa convinzione, interverranno molti che, in prospettive e con conclusioni diverse, si sono posti il problema di Dio. I risultati del convegno saranno importanti, ma fin da ora è già notevole convergere su questo tema. Anche perché non si tratta solo di un convegno di addetti ai lavori, ma di un evento a molte dimensioni, che ha già registrato l’interesse di tanti. È il segno di una ricerca e di un movimento profondo nel nostro tempo. Pasternak fa dire a un personaggio del Dottor Zivago. «Qualcosa si è messo in movimento... la persona, la predicazione della libertà... La vita umana personale è diventata la storia di Dio». Che sia possibile dire qualcosa di simile anche per questo nostro tempo?
cui è articolato l’evento parlano del Dio di Gesù Cristo. E questo per dire che, nei secoli, è stata la fede umile, ma forte, dei popoli, che ha reso possibile che Dio resistesse in questo mondo. Sono convintissimo che sia stata una scelta estremamente lungimirante. Mi viene da citare Andrei Sinyavsky, il matematico che ha trascorso diversi anni in un gulag sovietico; in uno dei suoi scritti aveva detto: «Dell’uomo abbiamo già parlato abbastanza. È tempo che ricominciamo a parlare di Dio». Potremmo parafrasare questa citazione anche in un altro modo: se vogliamo parlare veramente degli uomini, è ora che iniziamo a parlare di Dio. Questo è il senso profondo, e il lato positivo, che io vedo nel convegno: un incontro tutto orientato sulla libertà, sull’autonomia, sui grandi valori dell’umanità. Con la speranza di riuscire a salvarli da quelle secche relativiste su cui quasi tutti si sono arenati. E questa è una cosa molto seria, un motivo per cui il discorso su Dio diventa serio: perché a questi uomini spaesati, riproporre un tema forte significa in un certo senso ripianare, anche indirettamente, la grande dignità della ragione degli uomini. Alla fine, il comitato per il Progetto culturale della Chiesa italiana – sia nella pubblicazione sulla sfida educativa che nell’impegno su questo evento – lavora (citando ancora Benedetto XVI) «per un ampliamento della ragione». Una ragione in cui forse, negli ultimi anni, abbiamo confidato troppo poco. Questo evento è seguito con estrema attenzione, anche dalla stampa. Alcuni giornali lo hanno dipinto come un grande ritorno del cardinale Ruini sulla scena, culturale ma anche politica, dell’Italia. Un’interpretazione limitata?
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10 dicembre 2009 • pagina 9
La tavola rotonda di oggi e le nuove sfide alla secolarizzazione
La rivoluzione culturale di Camillo Ruini
Condurre l’universo cattolico dall’«autoreferenzialità» al confronto con «altri mondi»: ecco l’idea del cardinale di Luigi Accattoli
Q
Non mi azzardo ad interpretare il pensiero del cardinale Ruini. L’unica cosa che mi sentirei di dire è che ciò che muove il cardinale è il desiderio di rendere Dio non irrilevante in questo mondo. Poi, che questo possa dare fastidio a qualcuno, che possa divenire un pretesto, rientra nella dialettica delle idee e del pettegolezzo che a volte ne nasce. Ma io mi sentirei di dire che ciò che muove il Progetto culturale, come vogliono tutti i vescovi italiani e non soltanto il cardinale, è far entrare la dimensione della nostra fede in quel mondo difficile che è il mondo della cultura. Io penso che sia questo lo spirito con il quale guardare a queste cose.
“
Spero che questo convegno possa aiutare a riportare il dibattito su un piano più sereno: in ogni caso, è stata una scelta molto importante. In effetti, i dibattiti in cui entra la Chiesa vengono spesso esacerbati. Come mai? Io penso che una certa cultura laica ha forse esagerato, ha alzato troppo la voce, specialmente sui temi bioetici. Qualcuno può aver pensato di rendere la Chiesa irrilevante, e questo ha suscitato una reazione. La cosa che invece dovrebbe essere nell’interesse di tutti è aprire un dibattito serio, su questioni sostanziali. Noi parliamo di Dio; altri parlino di altro, ma prendano un argomento serio e
Se vogliamo parlare degli uomini è ora che iniziamo a parlare di Dio. Questo è il senso profondo del convegno: un incontro tutto orientato sulla libertà, sull’autonomia, sui grandi valori dell’umanità Guardando il programma, si nota un ritrovato interesse della Chiesa per l’arte e per la scienza… Sono i fronti sui quali, a mio modo di vedere, oggi bisogna tornare a operare. La speranza che ci ha mosso è stata quella di far vedere come Dio entri dappertutto, e che forse è stata anche una nostra trascuratezza non aver parlato abbastanza di Dio in questi mondi. Quanto alla scienza, sappiamo tutti che è in corso un dibattito molto intenso, direi decisivo, sulla questione: era inevitabile occuparsi di questo. Oggi molti vorrebbero appellarsi alla scienza per negare Dio: ci sono stati tempi in cui anche la Chiesa ha esagerato nel dichiarare gli eretici in un certo modo, ma sembra che oggi un certo atteggiamento lo stia adottando la scienza.
”
lo sviluppino in maniera seria. La cultura del nostro Paese ha bisogno di questo, non di buttare sempre gli argomenti su piani diversi, come quello politico. Perché sovrapporre i due mondi potrebbe essere molto pericoloso, per tutti. Un ultima domanda. Quanto è impegnativo organizzare un evento del genere? Il Progetto culturale della Cei è una realtà importante: un gruppo di persone che lavora molto, coordinate da un comitato di 13 persone. Questo convegno è il prodotto di un lavoro collegiale, che nasce da discussioni e da un impegno poderoso da parte della struttura. Che esiste ed è incorporata nella Conferenza episcopale. Si tratta di un gruppo di persone in cui sono fiero di essere annoverato.
uesto convegno è la seconda e maggiore uscita del cardinale Ruini in campo aperto, a diretto confronto con la cultura secolare: come già in ottobre la pubblicazione di un volume intitolato La sfida educativa presso Laterza, così ora il dibattito su Dio non è offerto solo a chi già è motivato ad affrontare questi argomenti. Il segno dell’uscita in campo aperto nel caso del volume - di cui Ruini era il coordinatore, proprio come per il convegno, in quanto presidente del Comitato della Cei per il“Progetto culturale”- era nella scelta dell’editore: mai il nostro episcopato si era appoggiato a una casa laica per eccellenza come quella di Bari che ebbe in Benedetto Croce il nome e il nume tutelare.
Con il convegno che si apre oggi non abbiamo solo un’intenzione e dei segni di uscita da ogni campo trincerato, ma è il fatto stesso della proposta di un tale argomento a costituire un’interpellanza alla cultura secolare. Siamo infatti da tempo abituati in Italia, sul tema di Dio, a scelte speculari che si condizionano a vicenda, a seconda che il moderatore sia laico o cattolico. Se è cattolico - metti l’Università del Sacro Cuore o quella della Santa Croce - la formulazione del tema, il taglio, i relatori saranno tutti ufficiali e/o ufficiosi, apologetici, pedagogici e “ad intra”. Se invece il promotore è laico - poniamo il “Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo”; o “Torino Spiritualità”- tutto dovrà essere equidistante se non avverso rispetto a una scelta di fede, e più ebraico che cristiano, più protestante che cattolico.Va dato atto al cardinale Ruini di essere riuscito a porre, con il volume Laterza e con questo convegno, un fatto nuovo: dei cattolici, anzi la cattolicità che parla a tutti. Magari non ci riesce, di sicuro la riuscita sarà per ora parziale, ma avvia un dibattito che vuole destinato a ogni possibile interlocutore. Lo si vede già dal titolo:“Dio Oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto”. È un linguaggio comprensibile a tutti ed è la prima volta che la nostra ufficialità cattolica parla“laico”. Ne è venuto un titolo diretto e vivo, formulato in lingua comune, imparagonabile alla tonalità ad intra delle titolazioni tradizionali, comprese quelle dei ventuno anni in cui il vescovo e poi cardinale Ruini hanno guidato la Cei. “Evangelizzazione e promozione umana” era il motto del primo convegno della Chiesa italiana che si fece a Roma nel 1976 e “Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo” quello del quarto convegno,Verona 2006. In quei titoli sentivi subito che la materia era per addetti ai lavori, convocati d’ufficio o vocazionali, tutti ultramotivati. Stavolta invece ci si rivolge a tutti e
almeno con il linguaggio un passo è stato fatto. Ma anche l’elenco dei relatori è ispirato a questa apertura: accanto ai teologi e ai filosofi figurano storici, artisti e scienziati delle più varie provenienze. Da dove viene al Cardinale Ruini la spinta a giostrare in campo aperto? Da un convincimento autocritico e da una decisione. La decisione la segnalo con le parole «è preferibile essere contestati che essere irrilevanti» che adottò come bandiera nella primavera del 2007, lasciando la presidenza della Cei. L’autocritica l’ha espressa in recenti interviste in cui ha denunciato la tendenza del mondo cattolico italiano all’“auto-occultamento” e all’“autoreferenzialità”, nonché la sua scarsa inclinazione a “confrontarsi sul serio” con altri “mondi”. Negli ultimi mesi si è sviluppato un dibattito - che io ritengo malposto e fuorviante - sul destino personale dell’uomo Ruini che, lasciando le responsabilità di governo, è tornato agli studi e alle pubblicazioni.
Già il titolo del dibattito, a differenza di precedenti incontri, usa un linguaggio comprensibile a tutti. Ed è la prima volta che la nostra ufficialità cattolica parla “laico”
Si è anche discusso di un presunto contrasto con il Segretario di Stato vaticano cardinale Bertone e con il cardinale Bagnasco che ha preso il suo posto alla Cei. Non credo a un contrasto paralizzante né alla prospettiva di una vera emarginazione, almeno finché l’uomo avrà salute.Vedo invece - in prospettiva - una stagione feconda per lui e per l’insieme di cui fa parte. Il nuovo vertice episcopale - impersonato dal cardinale Bagnasco e dall’arcivescovo Crociata - ritengo che sia seriamente intenzionato a compiere un passo indietro rispetto al fronte politico e legislativo su cui amavano attestarsi il cardinale Ruini e l’arcivescovo Betori. Ma insieme a questo alleggerimento, vedo prendere piede un maggiore impegno di tutti sul fronte culturale, che ha la sua punta in Ruini quale pilota del “Progetto culturale”. www.luigiaccattoli.it
panorama
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Don Benedetto e la pizza euro-napoletana il babà? E la sfogliatella? E la pastiera? E gli struffoli? Ora come si farà? Ora che l’Europa ha riconosciuto ufficialmente la pizza con il marchio di specialità di garanzia come si farà con le altre specialità napoletane? Perché la pizza sì e il babà no? Cosa ha di meno la sfogliatella? Scusate, e il classico dei classici: gli spaghetti con pomodoro e basilico? Mi rendo conto: non si può dare il riconoscimento a tutte le specialità, ma proprio questo è il limite in sé del “bollino blu” europeo detto Sgt: riconosce ciò che è già arci-riconosciuto dall’universo mondo. Chi volete che non sappia fare la differenza tra la vera pizza napoletana e le sue infinite imitazioni? Ma davvero c’è bisogno di un marchio europeo per sapere che la pizza margherita preconfezionata che si vende al supermercato non è pizza napoletana? Allora, e mi perdoneranno gli interessati e Antonio Pace, presidente dell’Associazione verace piazza napoletana, la «pizza napoletana europea» è veramente una fesseria.
E
Intanto, c’è già un grave problema ermeneutico e storico: l’Europa, cioè l’Ue, riconosce la Pizza Margherita, ma la Pizza Margherita non è la vera pizza napoletana. Proprio così. Giustamente lo faceva notare ieri sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno un “pizzologo”come Antonio Fiore che a sua volta si rifaceva ad un maestro della cucina italiana come Luigi Carnacina: «La vera, classica pizza napoletana è indiscutibilmente “la Marinara”. Classica napoletana può essere considerata anche la pizza “con le alici fresche”; le altre pizze, inclusa quella con la mozzarella, sono napoletane, sì, ma di fantasia, non classiche». Dunque, il paradosso dei paradossi è che proprio il riconoscimento ufficiale europeo non riconosce la vera pizza napoletana e così innalzando unicamente la Pizza Margherita a modello platonico a cui ispirarsi per dire ciò che è pizza e ciò che non è pizza finisce per tirare un brutto tiro mancino alla pizza napoletana. Anzi, addirittura si può cadere in un imbroglio degno della peggiore sofistica perché l’Europa utilizza la formula «pizza napoletana prodotta secondo la tradizione napoletana» ma serve in tavola la Pizza Margherita.
Un filosofo napoletano come Raffaello Franchini, parafrasando un po’ un celebre detto di Pascal, diceva che saper mangiare e gustare la pizza è veramente filosofare. Benedetto Croce ogni mattina, verso le 10,30-11 scendeva di casa e faceva quattro passi per ritirare i libri antiquari dai suoi amici librai, ma questa era la scusa, perché in verità il filosofo, che era mattiniero, a quell’ora della giornata avvertiva un certo languore e si andava a fare un bella pizza. Che pizza mangiava Croce? Un classico come Croce non poteva mangiare altra pizza che quella superclassica: aglio, olio, pomodoro e un po’ di origano. L’Europa, invece che al marchio di garanzia, si sarebbe dovuta ispirare a uno dei suoi più nobili padri.
Socialisti, è arrivato il congresso dell’addio A Praga «fallisce» il summit del Pse (con ospiti italiani) di Antonio Funciello mmaginarsi, dopo la più cocente sconfitta elettorale degli ultimi decenni (europee 2009), i socialisti europei riuniti a Praga a parlare di cambiamenti climatici, fa davvero sorridere. Ci si può anche figurare il duo formato da Puol Nyrup Rasmussen (presidente del Pse) e Martin Schultz (capogruppo a Strasburgo) a capo del Titanic socialista, mentre l’equipaggio balla e si diverte. Tuttavia si fa fatica a leggere il naufragio socialista sotto un registro tragico, che non regge alle incongruenze umoristiche dell’ultima assise europea. Non a caso i pochissimi capi di stato socialisti rimasti in Europa si sono guardati bene dal partecipare ai ”lavori” dell’ottavo congresso del Pse. Più di tutte si è notata l’assenza di José Louis Zapatero, ultimo eroe rosso d’Europa, per quanto in caduta libera di consensi nei patri confini. Con le elezioni tra due anni, Zapatero si è guardato bene dal partecipare al congresso dei perdenti socialisti, preferendo incontrare nella sua residenza ufficiale della Moncloa la squadra spagnola vincitrice della Coppa Davis di tennis.
I
sperare di avere in un luogo di potenziale prestigio un big delle loro file, a cui i conservatori non avrebbero potuto dire di no. Ciononostante, al netto delle diverse opinioni che pure si possono avere sull’europeismo dell’ex premier inglese, hanno preferito non avere un loro nome in una delle poche postazioni che contano, purché Blair non tornasse in auge. Un suicidio politico in piena regola di cui a Praga non si è discusso, come d’altronde non si è discusso di null’altro che avesse un benché minimo rilievo politico.
Non poteva, d’altro canto, arrivare dalla delegazione ospite del Pd un’uscita dal circolo vizioso in cui i socialisti europei si sono cacciati ormai da tempo. Anzitutto, per la natura ibrida della partecipazione dei democratici italiani all’assise; quindi, per la cautela che, in termini di proposta ideale e politica, sta mostrando il neo segretario Bersani in questa fase. E allora sono riemerse le recenti ruggini tra Schultz e D’Alema, con il primo a proporre al secondo di associare al ruolo di capo della principale fondazione del campo progressista italiano, quello di capo del coordinamento delle fondazioni che fanno riferimento al Pse. Un po’ poco per un leader come D’Alema, che a casa sua è già stato segretario del maggior partito di governo, presidente della commissione bicamerale che doveva cambiare la Costituzione, capo di Governo per due volte consecutive, vicinissimo a salire al Quirinale, vicinissimo a diventare presidente della Camera, vicinissimo alla nomina di Mr Pesc. Pensare, come fa Schultz, che la guida della fondazione del Pse possa essere all’altezza di un curriculum del genere è, francamente, almeno inopportuno.
Il segno definitivo del flop è stato l’assenza di Zapatero, unico leader vincente, che è rimasto a festeggiare la Davis di tennis
Che il congresso socialista di Praga fosse un flop annunciato era chiaro a tutti. Non tanto per la miseria della confezione complessiva dell’evento, quanto per l’incredibile scelta di non cominciare ad affrontare le motivazioni di un ridimensionamento che, dopo le elezioni europee e la debacle dell’Spd in Germania, ha ormai assunto proporzioni gigantesche. Il socialismo continentale e il suo succedaneo scandinavo non esistono praticamente più: sono ancora in attività i partiti protagonisti di quelle importanti esperienze del passato, ma ormai in uno scialbo contesto identitario che ne riduce le ambizioni e ne contrasta le fondamenta. Degli unici, Blair e Schröder, che avevano provato a discutere di una rivisitazione dell’identità socialista, magari cercando pure di praticarla, nel giro dei rossi è vietato addirittura parlare. Il siluramento di Blair da presidente del Consiglio europeo è stato un autogol clamoroso: i socialisti potevano
Un Pse che versa in una tale crisi finisce per offrire a Bersani il destro per rilanciare il progetto democratico. Quello stesso Pse che secondo molti (quasi tutti) sostenitori di Bersani doveva essere il maggior impedimento alla definizione del profilo politico del Pd, è oggi l’occasione migliore per riproporre il superamento dell’identità socialista verso quella democratica. Che poi questo non sia proprio un cavallo di battaglia di Bersani e di D’Alema, in Europa neppure lo sanno. E qualora facessero soltanto finta di non saperlo, non è certo un problema che, con le elezioni regionali alle porte, può interessare in alcun modo il Nazareno.
panorama
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Le mancate nomine nella Ue hanno messo in luce un difetto tutto italiano: non tener conto del mercato internazionale
Se l’Italia dimentica l’Europa Il governo continua a fare operazioni economiche ignorando i vincoli di Bruxelles di Giampaolo Rossi e vicende delle ultime nomine a livello europeo hanno reso evidente lo scarso peso dell’Italia in sede comunitaria e hanno mostrato come l’asse franco-tedesco svolga un ruolo preminente. Se ciò fosse limitato alle cariche sarebbe un problema tutto sommato limitato: non tutti i paesi le possono avere e c’è da attendersi che funzionerà un sistema di turn over. Ciò che colpisce non è tanto che non siano passate candidature italiane ma che siano state scelte persone di non alto profilo a vantaggio,ovviamente, degli stati forti.
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Il problema è, infatti, molto più di fondo. L’attuale assetto delle istituzioni comunitarie unisce totali aperture fra gli Stati sul piano economico (moneta unica e piena legittimazione delle imprese pubbliche e private a operare nel mercato comune senza discriminazioni di nazionalità) con la sopravvivenza di sistemi politici e istituzionali in concorrenza fra loro. La naturale tendenza all’espansione dei paesi europei a discapito degli altri ha provocato nello scorso secolo due guerre mondiali. Ora, per fortuna, ci si espande solo con l’economia, ma non si creda che l’effetto sia indolore. La penetrazione economica è più incisiva e duratura di quella militare. La Germania sta ottenendo risultati nell’Est europeo ben maggiori di quelli che
sperava di avere in passato. L’Italia è piena di Rocche di Albornoz delle quali sono rimasti ora solo i bei monumenti.
Ciascuno dei sistemi che compongono l’Unione ha la possibilità di porre in essere una politica espansiva nei con-
diverso da come farebbe un imprenditore privato. Le imprese di gestione dei servizi di interesse generale sono, però, sottoposte alle regole della concorrenza solo nei limiti in cui ciò non contrasti con il perseguimento della missione loro affidata. Inoltre non esiste nessun vincolo comunitario al grado di espansione della sfera pubblica. In realtà il sistema presenta squilibri evidenti: gli Stati non possono, ad esempio, acquistare un pacchetto azionario di una impresa con lo scopo di capitalizzarla ma nulla ne impedisce l’acquisto totale delle azioni. Gli stati possono stabilire una politica di favore per le proprie imprese pubbliche, liberandole da vincoli e controlli amministrativi, oppure renderne difficile l’operatività e limitarne la possibilità di espansione.
Fa scuola il caso della “Societè général d’eau” che vende da noi l’acqua a prezzi più alti che in Francia fronti degli altri e ha le leve di potere per farlo. In termini formali nessuno Stato può aiutare le proprie imprese con modalità che danneggino la concorrenza fra gli Stati, né può comportarsi con le imprese pubbliche in modo
Negli ultimi tempi la politica italiana e gli orientamenti delle autorità amministrative non hanno avuto consapevolezza di questi profili; hanno assunto decisioni in ordine alle nostre imprese come se il mercato fosse solamente nazionale anziché molto più ampio, con il risultato paradossale che le imprese italiane risultano sfavorite rispetto a quelle di altri paesi nei quali hanno condizioni di favore che
le rendono più competitive delle nostre anche nel territorio italiano. Il confronto fra le normative e le condizioni di operatività mostra ad esempio uno sfavore per Enel rispetto a Edf, di Poste italiane rispetto a La Poste, delle società ferroviarie italiane rispetto a quelle di altri paesi, che possono ora operare anche in Italia. Il problema è particolarmente delicato in materia di servizi pubblici (elettricità, trasporti, poste, acqua) perché non incidono solo sul Pil ma influiscono direttamente sulle condizioni di vita delle popolazioni. La risposta da dare non sta nel ritorno a un improponibile protezionismo e nell’attuazione di pratiche solo difensive ma nell’acquisire questa consapevolezza per integrare ancora di più l’Europa e, intanto, non continuare ad adottare impostazioni autolesionistiche. È chiaro a tutti, ad esempio, che a seguito della privatizzazione della gestione dell’acqua si espanderà in Italia la Societè général d’eau francese? Finiremo per pagare l’acqua più dei francesi come per l’energia, che Edf vende a prezzi diversi in Italia e in Francia?
Ben venga quindi la vicenda delle nomine se serve a far acquisire al nostro paese questa consapevolezza.
Imam. Bossi: «Vedrò l’Arcivescovo». La Curia: «Non ci risulta». «Lo vedrò lo stesso», insiste il senatùr
La Lega detta l’agenda a Tettamanzi di Valentina Sisti
MILANO. Continua il tira-e-molla della Lega con la Curia di Milano: quando qualche leghista lancia i sassi, ce n’è sempre un altro che prova a lanciare carezze. È accaduto anche questa volta, con l’annuncio - dato dal Carroccio in pompa magna - di un incontro tra Umberto Bossi e il cardinal Tettamanzi, l’Arcivescovo di Milano insultato via Padania, per giorni, dalla Lega. Nel tentativo di smorzare le polemiche Bossi ha dichiarato: «Chiederò un incontro all’arcivescovo di Milano e nei prossimi giorni vado a trovare Tettamanzi. Gli parlerò io». Solo che il portavoce dell’arcivescovo ha specificato che al momento alla Curia di Milano non è giunta alcuna richiesta per un incontro tra Bossi e l’arcivescovo. Come se nulla fosse, alla Lega confermano: «Salvo colpi di scena o imprevisti dell’ultima ora, l’incontro tra Bossi e Tettamanzi si svolgerà domani, venerdì, nelle sede della Curia di Milano. All’incontro dovrebbero partecipare anche Calderoli e probabilmente il segretario milanese della Lega, Matteo Salvini». Insomma, non solo la Lega ritiene di comandare in Italia, ma pensa di poterlo fare anche
nella Curia di Milano: l’agenda dell’Arcivescovo di Milano la decidono direttamente nella sede leghista.
Giuseppe Leoni, tra i fondatori della Lega, di cui fu il primo deputato (con Umberto Bossi senatore) e da quindici anni alla guida dei Cattolici padani, vive con un certo imbarazzo
Il cattolico Giuseppe Leoni: «Per noi leghisti, Il paganesimo e i riti celtici sono solo un gioco, una nota di colore» questa polemica. «Il ministro Calderoli era stato un po’ indispettito per il discorso che l’arcivescovo di Milano ha rivolto in difesa degli extracomunitari. C’è un forte senso di disagio anche nella diocesi di Milano, che ha tre milioni di abitanti, molti dei quali con problemi e sofferenze. È gente con una forte fede, dignità, ma che magari si sarebbe aspetta-
ta maggiore attenzione da parte di Tettamanzi. Non ci sono solo gli immigrati», ci dice. Anche se alla domanda se si farà l’incontro Bossi-Tettamanzi dice: «Francamente non lo so, ma non vedo perché la Curia non dovrebbe concedere l’appuntamento, sono due ministri della Repubblica. Anch’io sto aspettando d’incontrare l’Arcivescovo per gli auguri di Natale e con l’occasione spero di portare dei chiarimenti». Ma, insomma, non c’è contraddizione tra la Lega che difende ad oltranza il crocifisso e la Lega dei riti celtici che tuona contro i «vescovoni»? «Il paganesimo e i riti celtici - ci risponde - sono tutta un’invenzione dei media. Per la Lega sono solo un gioco, una nota di colore. Il popolo padano è un popolo battezzato, profondamente credente e che frequenta la Chiesa».
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rriva Natale, e il dono dei giocattoli dovrebbe essere pegno di pace per gli uomini di buona volontà Invece, attorno ai giocattoli si scatenano guerre commerciali, guerre politiche, guerre ideologiche. E anche guerre di corsa: un anno fa c’era in Inghilterra il timore che i pirati somali in agguato lungo la rotta del Mar Rosso avrebbero potuto rallentare le rotte delle navi cariche di balocchi e videogame made in China e in Hong Kong, al rischio di non farli arrivare in tempo per il 25 dicembre. Un allarme, per fortuna, poi in gran parte rientrato, anche se i pirati somali sulle rotte tra Estremo Oriente ed Europa stanno in agguato più che mai. Tra Cina e India, però, i giocattoli hanno aizzato nel frattempo una guerra doganale. In particolare, a un certo punto gli indiani si sono accorti che il 60% del mercato dei giocattoli nazionali
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era in mano ai cinesi: compresi oggetti chiaramente indirizzati a essere venduti nel Subcontinente e in nessun altro posto, come i pupazzetti del dio elefante Ganesh. Spinto dall’ira dei propri commercianti e produttori, che non possono reggere ai prezzi stracciati di quella concorrenza forse calmierata dalla manodopera forzata nei laogai, il governo di New Delhi a gennaio ha imposto un embargo di sei mesi all’import di giocattoli cinesi, e Pechino ha allora minacciato un ricorso al Wto per restrizioni illegali.
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l’India ha allora da un versante alleggerito il bando, permettendo l’entrata di giocattoli la cui sicurezza sia certificata da agenzie internazionali. Ma dall’altro lo ha invece rafforzato, rendendolo permanente per la merce non certificata. E non solo per quella cinese: ma è la Cina a soffrire di
più per la decisione. Ovviamente, i fabbricanti indiani hanno invece festeggiato, con incrementi nelle vendite fino al 30%. Santi Toys è una fabbrica locale di automobiline che ha dovuto far funzionare le linee di produzione sette giorni a settimana, per far fronte all’aumento della domanda. Ma i negozianti si sono trovati a mal partito, anche perché i prezzi hanno dovuto necessariamente essere aumentati. E qualcuno osserva che la certificazione di sicurezza è imposta per i giocattoli importati, ma non per quelli di produzione nazionale. Insomma, non è stata che una
Tra Cina e India lo scontro è doganale. Nuova Delhi si è accorta che il 60% del mercato nazionale era in mano a Pechino. E ha deciso un embargo di sei mesi alle importazioni scusa per imporre un protezionismo bello e buono. Quello di preoccupazioni per la sicurezza che servono in realtà a coprire banali questioni di nazionalismo economico è d’altronde anche il problema all’origine dell’altra guerra commerciale per i giocattoli che sta dividendo il Brasile dall’Argentina. Malgrado i due Paesi stiano entrambi nella zona di integrazione del Mercosur, ed i governi di Lula e Cristina Kirchner affermino anche di condividere una simile impostazione ideologica progressista. Ma Débora Giorgi, ministro della Produzione, ha appena stabilito che, malgrado il Mercosur, anche gli esportatori brasiliani debbono avere la certificazione tecnica rilasciata dall’Anmat: l’Amministrazione Nazionale di Medicamenti, Alimenti e Tecnologia Medica del Ministero della Salute di Buenos Aires.
In questo caso, a dire la verità, il principio è opposto a quello indiano: gli argentini non hanno infatti imposto ai prodotti importati standard superiori a quelli nazionali, ma si sono limitati a equiparare i requisiti. Il risultato, dal punto di vista del blocco dell’ex-
Come ogni anno, a Natale, in nome dei “balocchi” vengono comb
La guerra de
di Maurizio port, è stato lo stesso. Mentre però l’India non vende giocattoli in Cina, l’Argentina ha invece un certo mercato in Brasile. Piuttosto che rivolgersi al Wto, il Ministero dello Sviluppo brasiliano ha annunciato il principio dell’“occhio per occhio”. Dunque, su tutti 40 tipi diversi di giocattoli importati dall’Argentina è stato applicato un regime di licenze non automatiche: ogni permesso dovrà essere ottenuto caso per caso, e con i 60 giorni in media che ci vorranno il risultato è che il business natalizio salterà completamente. «Il principio fondamentale delle relazioni internazionali è la reciprocità e il Brasile adotterà questa regola nei confronti di qualsiasi socio commerciale», ha minacciato il segretario brasiliano al Commercio Estero Walter Bernal. Un personaggio che, avverte la stampa, non ha mai celato la propria avversione per il governo di Cristina Kirchner. «Chi vuole avere accesso al mercato brasiliano dovrà garantire accesso al suo mercato». E ancora: «a qualunque restrizione che imponga l’Argentina sarà risposto con la stessa moneta». Il bello è che appena a novembre durante il viaggio della stessa Kirchner in Brasile era stato deciso con Lula di riunire i ministri economici dei due Paesi ogni 45
giorni, per valutare l’evoluzione del commercio.
Si dirà che questo avviene quando ci sono i soldi di mezzo. Errore. Attorno ai giocattoli, sembra, si stanno scatenando conflitti anche quando vengono solamente regalati. È quanto è successo mercoledì scorso a Los Angeles con l’Esercito della Salvezza, che ha dovuto modificare d’urgenza le procedure con cui stava distribuendo giocattoli ai poveri, dopo che la richiesta ai genitori dei beneficiati di fornire il numero della Sicurezza Sociale aveva scatenato una raffica di denuncie per discriminazione. Negli Stati Uniti, in base a una radicata tradizione di tutto il mondo anglo-sassone, non c’è infatti l’obbligo di avere una carta di identità, ma al suo posto è altrettanto tradizionale usare l’equivalente della nostra tessera sanitaria.
E non averla significa quindi dover confessare di essere clandestini.
Ci sono state perfino proteste di piazza da parte di organizzazioni ispaniche, con alcune decine di padri e madri che davanti alle tende in cui stavano distribuendo i doni a Los Angeles hanno alzato cartelli: «un regalo è con il cuore, non esigendo documenti». «Siamo indignati», ha dichiarato Juan José Gutiérrez della Coalizione per i Diritti Pieni degli Immigranti. «Questa pratica deve fermarsi immediatamente». Juan Alanís, portavoce dell’Esercito della Salvezza, ha allora detto che si rinunciava a chiedere il numero, «vista la controversia che questo argomento aveva creato». «Anche se non era stata nostra intenzione danneggiare, umiliare o offendere nessuno». I responsabili dell’Esercito della Salvezza
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oggetti destinati al divertimento infantile, siano repliche di armi da fuoco, armi bianche, contundenti, tirapugni».
battute battaglie commerciali, politiche e addirittura ideologiche
ei giocattoli
o Stefanini hanno infatti insistito di non essere «l’ufficio immigrazione». Lo scopo della registrazione era infatti semplicemente quello di contare quali e quante persone ricevono regali e servizi, e che al posto del numero della Sicurezza Sociale “la gente avrebbe potuto dare ogni altro tipo di documento”.
E per una serie di giocattoli, d’altronde, a Cuba il noto dissidente Roberto de Jesús Guerra Pérez, è stato appena condannato a sei mesi di arresti domiciliari per un episodio avvenuto nel 31 dicembre del 2007. Noto blogger non conformista, all’epoca stava infatti distribuendo giocattoli assieme a un gruppo di oppositori a casa di sua sorella, alcuni uomini in borghese armati di coltello avevano fatto irruzione, e lui si era difeso. «Colpevole di lesioni». È infatti dal 1992 che la Corriente Martia-
na, gruppo di opposizione all’interno dell’isola che si dichiara ispirato all’eroe nazionale José Martí, ha iniziato un Proyecto Reyes Magos , qualcosa come in italiano “Progetto Epifania”, che consiste appunto nella distribuzione di giocattoli ai bambini poveri che non se li potrebbero permettere. Che sono poi quasi tutti: nei negozi di Stato i 12 dollari che costa una bambola equivalgono a un mese intero di salario medio.
I giocattoli sono però raccolti dall’esilio e poi inviati a Cuba grazie alla Chiesa Evangelica Pentecostale. E il risultato è che ci sono costanti intimidazioni da parte della polizia e delle milizie del regime. Quella volta scherani del regime armati di coltello entrarono a forza per interrompere la distribuzione e iniziarono a picchiare selvaggiamente la sorella e il cognato di Guerra Pérez: al cognato, amputandogli quasi un padiglione auricolare. Il blogger intervenne in loro difesa, e ora sia lui che il cognato sono stati condannati per le lesioni inferte agli aggressori. Probkemi ideologici attorno ai giocattoli anche in Venezuela,
dove l’alleato dei fratelli Castro Hugo Chávez ha appena fatto mettere al bando per legge sia i videogiochi di guerra che i giocattoli bellici: «i videogiochi di natura bellica, che implichino l’utilizzazione di armi o dive la distruzione e la violenza costituiscano gli elementi essenziali per ottenere il trionfo»; e «tutti gli
Il paradosso è che mentre vengono votate legge di questo tipo Chávez è protagonista di una escalation bellica verbale con la Colombia; compra dalla Russia 300 carri armati, 24 caccia, 50 elicotteri da combattimento e 100mila fucili d’assalto kalashnikov; e incita i giovani venezuelani ad arruolarsi il più presto possibile nelle milizie bolivariane, a imparare a fare la guerra sul serio. Contraddizioni a parte, viene il dubbio che anche in questo caso l’offensiva non sia tanto contro i giocattoli “pericolosi” in sé, quanto piuttosto contro i giocattoli di importazione straniera. Assieme ai giocattoli di guerra Chávez ha attaccato anche i pupazzi dei supereroi, ma in compenso ha promosso la diffusione di quelli degli eroi nazionali: da Simón Bolívar a Francisco de Miranda. E, soprattutto, è stato lanciato Chavecito, il pupazzo alto 60 centimetri con la faccia del presidente: completo di vestitini alla Ken, Barbie o Big Jim in due versioni, camicia rossa o divisa da colonnello; e con disco interno che gli fa cantare l’inno nazionale e ripetere alcuni dei suoi slogan più noti. «Convoco il mio popolo, il popolo bolivariano, a tutti voi, a lavorare senza riposo», è la frase più gettonata: probabilmente, col sottinteso che non verrà presa alla lettera. Prezzo, pari a 10-20 euro. Al di là di ideologie,
Chávez vieta i videogiochi di guerra, soprattutto se provenienti dagli odiati Stati Uniti, ma promuove “Chavecito”, un pupazzo alto 60 centimetri a sua immagine protezionismi o dumping, però, è vero che quello della sicurezza dei giocattoli è un problema aperto. L’Ecology Center, noto centro studi consumieristico statunitense, ha appena pubblicato sul suo sito Internet HealthySuff.org uno studio su 700 giocattoli, dal quale risulta che il 32% di essi conterrebbe metalli pesanti o prodotti chimici pericolosi per la salute: piombo, cadmio, arsenico, mercurio... E il bello è che dopo la campagna
Il centro di ricerca “Ecology Center” ha pubblicato uno studio dal quale risulta che il 32% dei giocattoli contiene prodotti pericolosi
del 2007 anche qui contro i giocattoli pericolosi provenienti dalla Cina la proporzione di giocattoli contenente piombo è comunque calata dei due terzi.
Tuttavia, ancora oggi almeno il 18% dei giocattoli provati conteneva una proporzione superiore al limite massimo ammesso dalle autorità federali: 300 particole per milligrammo. E tra questi ci sono anche prodotti tra i più popolari: dai kit di bicicletta per Barbie alle mantelline per bambini della Wal-Mart fino alle borse di plastica con l’immagine del popolare cartone animato “Dora L’Esploratrice”. Un 3,3% dei giocattoli avevano invece oltre le 100 ppm di cadmio, che pone a rischio reni e fegato. L’1,3% conteneva arsenico. E il 42% Pvc, definita dal centro «la peggior forma di plastica per la sua fabbricazione, per il suo ciclo di vita, per additivi che possono essere pericolosi alla salute umana».
mondo
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MARIO ARPINO
Un ostacolo che rischia di nuocergli
«Il premio potrebbe essere un handicap politico» er essere onesto, non credo di meritare di essere in compagnia di tante figure che hanno cambiato il mondo e che mi hanno ispirato!». Questo è stato il commento a caldo di un meravigliato Barack Obama all’annuncio della giuria. Giudizio condiviso da larga parte della stampa anglo-sassone e dalla stessa opinione pubblica americana, che - qui non lo si sente dire spesso - è molto meno favorevole al presidente di quanto lo sia quella europea. I sondaggi di metà ottobre parlavano di un buon 60 per cento di opinioni contrarie. Non credo che il premio, consegnato in concomitanza con la conferenza sul clima di Copenhagen, dove Obama pronuncerà parole altrettanto belle e suggestive di quelle a suo tempo pronunciate all’Onu per auspicare un mondo libero dalle armi nucleari e seconde solo a quelle del “collega” Al Gore, alla fine dei conti tornerà a vantaggio né del beneficiario, né dell’America, né di questa Europa plaudente. Il premio potrebbe divenire un pesante handicap politico in uno scenario internazionale dove le decisioni che Obama potrebbe dover prendere sono, purtroppo, decisioni tutt’altro che popolari. Come stà succedendo per l’Afghanistan, e prima o poi accadrà anche per l’Iran. Il ricatto sta già iniziando, e il via lo ha dato Michael Moore che, seguito entusiasticamente dalle nostre sinistre, condividono la decisione della giuria, ma ora esigono a gran voce che “Barack se lo guadagni”. E siccome Obama non solo segue l’opinione pubblica, ma a volte addirittura la precede, ciò può portare, se non al disastro, certamente a inconvenienti assai seri. E allora? Premio alla retorica, o premio alle buone intenzioni? Gli auguri in questi casi sono di prammatica, e Barack Obama ne avrà molto bisogno. Un Nobel ormai non si nega a nessuno, e noi italiani in particolare è meglio che ci asteniamo da ogni giudizio. In fondo, un bel Nobel è stato assegnato anche al compagno Dario Fò. (ex capo di Stato maggiore della Difesa Italiana)
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EMANUELE OTTOLENGHI
Ora dedichi la medaglia a Shirin Ebadi
«Un’idea: donare l’onorificenza all’avvocato iraniano» n ottobre, all’annuncio del premio, Obama umilmente disse: Non credo di meritare l’onore di stare in compagnia di quelle persone eccezionali che, ben più di me, hanno meritato il nobel per la pace». Probabilmente aveva ragione. Ma oggi ha la possibilità, con un semplice gesto, di mostrarsi degno dei suoi compagni. Una delle più straordinarie persone ad aver vin-
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to quel premio è oggi vittima di un intollerabile oltraggio. Parlo di Shirin Ebadi, avvocato iraniano per i diritti umani a cui recentemente è stata sequestrata la medaglia del Nobel, assieme ad altre onorificenze (fra cui la legione d’onore francese) per ordine della Corte Rivoluzionaria di Teheran. La Repubblica islamica ha anche bloccato sia il suo conto in banca che quello di suo marito. Il suo Centro per i diritti Umani è stato chiuso e tre suoi colleghi sono stati arrestati. La Ebadi gode ancora della sua libertà personale, ma solo perché al momento è fuori dall’Iran. Se tornasse, l’attenderebbe la galera. La sua lotta, però, è quella del suo Paese, un Paese il cui regime tirannico Obama ha cercato, al momento con insuccesso, di mitigare. Obama è il leader del mondo libero, al netto del suo tiepido supporto all’Onda verde iraniana che forse mostra il suo disagio a ricoprire questo ruolo. La signora Ebadi è il simbolo della strenua resistenza a un regime liberticida che, usando le parole del presidente, rappresenta «la sfida comune del 21esimo secolo». Entrambi condividono un premio Nobel capace di trasformarsi in un formidabile ponte atto a unire i vani sforzi del presidente alla battaglia della Ebadi. E di trasformare la scelta della Commissione di Oslo in uno straordinario messaggio al servizio della pace. La strategia di Obama verso la Repubblica islamica non ha ancora raccolto dei frutti, come testimonia la questione nucleare. Certo, la repressione del regime non è certo colpa di Obama, ma questa prematura onorificenza gli offre l’occasione di far capire a quei milioni di iraniani che lottano per la libertà, da che parte sta veramente. Ad Oslo, il presidente dopo aver accettato il premio, dovrebbe donare la sua medaglia a Shirin Ebadi e invitarla alla Casa Bianca per dargliela. (Scrittore e saggista, ha insegnato Storia d’Israele all’Università di Oxford. Dirige think tank Transatlantic Institute)
DANIELLE PLETKA
Una bandiera per l’esercito americano
«Agli uomini e alle donne che combattono per pace e libertà» eccato per il presidente Obama il quale, malgrado gli impressionanti successi in giovane età ed un’apparente serenità di fronte al culto della personalità che lo circonda, sarà sicuramente consapevole di aver fatto ben poco per guadagnarsi un Nobel per la pace. Cerchiamo però di non emettere giudizi avventati sulla sua persona; un giorno Obama potrebbe effettivamente meritarsi tale onorificenza, ma quel giorno non farà sicuramente parte del 2009. Egli dovrebbe quindi ringraziare il Comitato del Nobel per l’onore che questi ha voluto concedergli e al tempo stesso riconoscere di non esserne degno, dedicando piuttosto il premio a coloro che in quest’anno tanto hanno fatto per promuovere la causa della pace. Non vi è penuria di candidati meritevoli: il popolo iraniano, che ha fatto tutto quanto era in suo potere al fine di riappropriarsi della sua nazione; nello specifico Neda Agha-Soltan, la giovane donna che ha sacrificato la propria vita pur di esprimere il proprio pensiero ed il cui assassinio ha infine scosso le coscienze dei membri dell’amministrazione Oba-
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Sette consigli d’autore per Barack, il Nobel Il mondo si è diviso sulla scelta di Oslo Come può rimediare il presidente? ma; o Rebiya Kadeer, presidente del Congresso Mondiale degli Uiguri, una tribuna di pacifica resistenza e speranza per i musulmani della Cina comunista, e vittima della Rivoluzione Culturale di Mao. In ogni caso, alla luce della coraggiosa decisione presidenziale di inviare altri 30mila effettivi per implementare la strategia bellica in Afghanistan, Obama dovrebbe accettare il premio affermando di farlo per conto degli uomini e delle donne dell’esercito statunitense, i quali hanno operato più di ogni altro contingente per la difesa della pace, e che quotidianamente si sacrificano, non certo per accrescere la propria gloria personale o per riceverne in cambio vantaggi pecuniari, bensì in nome di quella bandiera a stelle e strisce che si erge a fulgido e perenne baluardo di pace e libertà, a prescindere da ciò che pensino gli sciocchi di Oslo. (vice presidente del dipartimento di studi esteri e di difesa presso l’AEI)
STROBE TALBOTT
Deve spiegare le ragioni della “surge”
«Il presidente usi quella tribuna per difendere la sua strategia» l Presidente Barack Obama verrà insignito oggi a Oslo della più prestigiosa onorificenza per la pace a soli nove giorni dal suo annuncio di voler intensificare gli sforzi per un conflitto sempre più impopolare, quello che coinvolge le forze armate statunitensi (e i loro alleati) nel teatro di guerra afgano. In tal senso, egli potrebbe o
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mondo La decisione più controversa è la sua credenziale migliore
Il generale Obama (ora) merita il Premio segue dalla prima L’escalation militare che aumenterà di almeno 30mila soldati il contingente statunitense che combatte la war on terror in Asia centrale non è piaciuta soprattutto alla sinistra del partito democratico e ai suoi fan più accesi nel Vecchio Continente. Gli stessi che avevano applaudito con più convinzione alla sua vittoria del premio Nobel, insomma, sono gli stessi che oggi sollevano le obiezioni più accese alla “svolta neocon” del presidente. Affermando una presunta incompatibilità tra gli sforzi per ottenere una pace stabile e la decisione di utilizzare mezzi militari per combattere il terrorismo. In crisi nei sondaggi americani (che registrano ormai stabilmente un job approval inferiore al 50 per cento), Obama sembra dunque in difficoltà anche nei confronti della sua constituency naturale, quel vasto fronte della sinistra (e non solo sinistra) mondiale che ha sempre preferito i bizantinismi diplomatici al realismo muscolare reaganiano e all’idealismo neoconservatore bushiano. E che, dopo l’11 settembre 2001, non ha affatto cambiato idea. Ieri, un sondaggio ha addirittura svelato che la maggioranza dei cittadini norvegesi (il 53 per cento) giudica «scortese» la decisione del presidente di snobbare la colazione ufficiale con il re Harald V dopo la cerimonia di consegna del premio. Non c’è dubbio che il risultato sarebbe stato sensibilmente diverso, se per esempio Obama non avesse accettato la “surge” in Afghanistan. O se addirittura avesse annunciato il ritiro delle truppe americane dall’area. Sondaggi a parte, comunque, l’immagine “multilateralista” del presidente - la stessa che gli ha fruttato la vittoria del premio Nobel per la Pace - è stata messa fortemente in discussione dalle sue ultime scelte strategiche. E questo è frutto di una gigantesca incomprensione di fondo. Si dà per scontato che un commander-in-chief che utilizza la forza per sradicare un network terroristico e i suoi alleati non possa essere considerato come “qualcuno che lavora per la pace”. Eppure la guerra in Aghanistan, iniziata con il consenso di tutta la comunità internazionale, è proprio l’esempio “perfetto” per dimostrare come, a volte, la forza militare possa essere utilizzata a scopi “di pace”. O forse combattere al-Qaeda per tentare di liberare Kabul dal gioco talebano e dal traffico internazionale di droga è qualcosa di ostile al concetto stesso di pace? Restano molti dubbi, insomma, sui criteri con cui il premio è stato assegnato al presidente, ma di certo la scelta della “surge” non scalfisce in alcun modo le sue presunte credenziali. Anzi, forse è proprio con la “surge” che Obama ha iniziato, in qualche modo, a meritarsi il premio. Andrea Mancia
evitare in toto tale sconveniente argomento, menzionandolo succintamente nell’ambito di una riflessione su tematiche più consone alla platea del Nobel, oppure affrontare di petto l’imbarazzante situazione. A mio parere, risulterebbe più consono per il Presidente utilizzare il “magnifico pulpito” al fine di spiegare le ragioni che lo costringeranno ad adottare la strategia del “grosso bastone” – due termini resi celebri dal primo presidente statunitense a vincere il premio,Teddy Roosevelt. Il messaggio di Obama insisterà su quanto la violenza generata nelle rinnegate regioni dell’Afghanistan e del Pakistan costituisca una minaccia per la pace dell’intero pianeta, ad un livello che giustifica - e, nella sua visione, richiede - il ricorso ad un’azione militare coordinata a livello internazionale. Non è ciò che il Comitato per il Nobel si sarebbe aspettato di o avrebbe voluto - sentire da Obama
quando, lo scorso ottobre, decise di conferirgli il premio. In effetti, le parole del Presidente assomigliano a quanto George W. Bush avrebbe affermato nella remota ipotesi in cui si fosse recato ad Oslo dopo l’invasione dell’Iraq. In realtà, Obama riceverà il Nobel per lo più in quanto incarna l’antitesi a Bush. Ma nonostante egli abbia ereditato il pantano afgano dal proprio predecessore, ora quel pantano è un suo affare. Obama, come Bush prima di lui, ha scommesso la propria presidenza su una guerra. Deve cogliere ogni opportunità, inclusa quella di giovedì, per guadagnarsi la fiducia del mondo e per convincere gli scettici del fatto che egli trionferà dove chi lo ha preceduto ha fallito – e sul fatto che egli disponga di motivazioni convincenti per ottenere il sostegno di altre nazioni. (presidente della Brookings Institution, vice Segretario di Stato dal 1994 al 2001)
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WANGARI MAATHAI
È un simbolo che infonde speranza
«Serve una visione comune che coinvolga tutto il mondo» cco ciò che a mio parere il Presidente Obama dovrebbe dire: «Il mondo ha bisogno di pervenire ad una nuova definizione di termini quali pace e sicurezza, concetti che non debbono più essere imperniati sugli interessi e sulla sicurezza nazionali, ma piuttosto sulla compassione e sull’empatia. Solo in tal modo gli individui si dimostreranno in grado di soddisfare i propri bisogni primari, di godere delle libertà fondamentali e di vivere in un contesto ambientale sostenibile e sano». «Da un capo all’altro del mondo, uomini e donne mettono a repentaglio le proprie vite per questi valori, tutelandoli da qualsivoglia forma di aggressione, spesso invano. Questo premio infonde speranza a milioni di persone, ed è per me un onore riceverlo in tale momento storico. Prometto di porre la ricerca della sicurezza umana all’apice delle politiche della mia amministrazione. Per realizzare questa nostra visione comune della pace nel mondo, avrò bisogno del sostegno e della cooperazione di amici, alleati e concittadini». (premio Nobel per la Pace nel 2004, fondatrice del Green Belt Movement)
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JESSICA MATHEWS
Parli a Oslo, ma pensi a Washington «Il suo problema primario è convincere gli Stati Uniti»
l messagio del Presidente Obama ad Oslo dovrebbe rappresentare ciò che gli Stati Uniti si attendono da loro stessi, e dagli altri. Le durissime sfide di politica estera che Obama dovrà affrontare nel 2010 nascono in patria. Il Presidente dovrà infatti far accettare e sostenere un rinnovato impegno nella guerra in Afghanistan, indurre il Congresso a compiere passi significativi per affrontare la questione del cambiamento climatico e spingere il Senato all’approvazione dei critici trattati sul controllo degli armamenti e sul divieto dei test nucleari. Pertanto, quantunque la consegna di un Premio Nobel per la Pace appaia come l’occasione più propizia per rivolgersi ad una platea internazionale, Obama dovrà sfruttare tale opportunità per argomentare al proprio elettorato in patria ciò che gli Stati Uniti dovranno fare al fine di misurarsi adeguatamente con le tre grandi sfide alla pace mondiale: la proliferazione nucleare, il cambiamento climatico e la minaccia insita nell’Islam radicale. Per essere convincente in patria, egli dovrà altresì essere chiaro su ciò che il mondo deve attendersi da noi. Una leadership statunitense appare assolutamente necessa-
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ria, ma stiamo parlando in ogni caso di sfide globali. Gli Stati Uniti dovranno agire per contenere le emissioni di carbonio, e altrettanto deve fare l’India. A Washington spetterà l’arduo compito di ridefinire le proprie direttrici politiche per contribuire a porre fine al conflitto israelo-palestinese, ma i leader arabi dovranno allo stesso modo rivedere le proprie. L’impegno statunitense atto a spegnere i focolai in Pakistan ed Afghanistan, i quali minacciano di riflesso il mondo, riporterà un successo solo grazie al sostegno dei partner Nato e con la disponibilità cinese di sobbarcarsi un eguale fardello di responsabilità in quella regione. E, al fine di impedire all’Iran di dotarsi di un arsenale nucleare, agli sforzi degli Stati Uniti dovranno sommarsi quelli della Russia. (presidente del Carnegie Endowment for International Peace)
SCOTT KEETER
Per ora ha perso la guerra dei sondaggi
«I cittadini americani restano divisi sulla guerra in Afghanistan» d aleggiare sul viaggio ad Oslo del presidente Obama vi sarà l’eco della maggioranza dell’opinione pubblica statunitense, la quale ritiene che egli non meriti il Nobel, così come l’ironia insita nel ricevere un premio di pace alcuni giorni dopo aver annunciato un incremento degli sforzi bellici del proprio paese in Afghanistan. Ma la sfida più impervia per il Presidente - durante il suo discorso e nelle settimane a venire - sarà persuadere gli scettici cittadini statunitensi del fatto che il mondo abbia ancora bisogno di una solida leadership da parte di Washington. Sebbene il comitato per il Nobel abbia motivato la propria decisione adducendo gli sforzi compiuti da Obama su temi quali il disarmo ed il dialogo internazionale, molti osservatori hanno interpretato il conferimento del premio come uno sprone a condurre la politica estera del proprio Paese nel modo più adeguato possibile. E, a riprova di tale visione, l’opinione pubblica di molti dei nostri alleati si attende da Obama un approccio più multilaterale, un rapporto con il Medio Oriente improntato alla correttezza e significativi passi in avanti nella lotta ai cambiamenti climatici. Tuttavia, l’abilità presidenziale nel soddisfare tali aspettative globali si scontra con una realtà americana molto più concentrata sulle problematiche interne. Un recente sondaggio del Pew Research individua un aumento di quanti si dichiarano favorevoli ad una politica isolazionista, e crescono inoltre tra gli intervistati le tendenze unilateralistiche. Al tempo stesso, rispetto agli anni passati si registra un consistente declino della percentuale di cittadini americani convinti del fatto che sussistano prove inconfutabili a sostegno della tesi del surriscaldamento globale. E, nella migliore delle ipotesi, gli americani rimangono quantomeno divisi sulla politica afgana di Obama, con maggiori resistenze tra la sua base politica. (direttore ricerche ed indagini presso il Pew Research Center)
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Clima. Al vertice danese monta la protesta dei Paesi poveri contro la bozza eri a Roma gli occhi dei turisti e gli obiettivi dei fotografi erano puntati sullo striscione di protesta affisso da Greepeace sul Colosseo. Un gesto per sensibilizzare l’opinione pubblica, non solo quella italiana, sul summit di Copenaghen in corso in queste settimane. Al di là delle provocazioni, la vera attenzione si concentra sulla conduzione del vertice e sull’eventualità che, stavolta, da un consesso internazionale possa nascere una proposta realizzabile sul clima e su una distribuzione più equa delle risorse energetiche. È la cosiddetta “bozza danese” in particolare a essere al centro delle discussioni e che ha suscitato numerose polemiche. Dalle indiscrezioni pubblicate in anteprima dal Guardian, il documento attribuirebbe in favore dei “Paesi ricchi” il doppio delle quote pro capite di Co2 di quelle a disposizione dei “Paesi poveri”.
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Se così fosse, da qui al 2050, le aree più industrializzate del pianeta gioverebbero di una facilitazione, nell’ambito delle emissioni di anidride carbonica, che invece sarebbe negata alle economie emergenti. Oltre a questi problemi tecnici, che da soli rischiano di incagliare il summit, lo scenario politico non permette ancora di esporsi in previsioni ottimistiche. La “bozza danese” infatti perde totalmente di valore di fronte alla proposta della Commissione europea di concedere 2 miliardi di dollari l’anno nel triennio 2010-2012 ai Paesi in via di sviluppo. Oggi e domani sono attesi a Bruxelles i Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri Ue, ai quali la Commissione intende sottoporre il suo documento per averne il nulla osta. L’Ue vuole anche arri-
La sfida di Pechino è contro gli Usa La Cina rilancia: «Pronti a nuovi tagli, se le nazioni sviluppate faranno lo stesso» di Antonio Picasso
ne - si passi il gioco di parole - si sta dimostrando anche questa volta un sogno. Il progetto di Bruxelles ha già ottenuto l’ok da parte dei governi come quello britannico e quello danese, che hanno avviato da anni una politica energetica fatta di fonti rinnovabili ed energie alternative. Nella sola Danimarca, per esempio, il 23
L’Unione europea, come al solito, si spacca sugli obiettivi comuni da presentare al tavolo. Berlino prepara una strategia con i Paesi dell’Est vare a Copenaghen con una proposta di taglio delle emissioni di anidride carbonica dal 20 al 30 per cento. Quelle comunitarie sono tutte buone intenzioni, che perdono di valore se si osservano le dinamiche retrostanti. È naturale che l’Unione Europea, con la Presidenza van Rompuy fresca di nomina, desideri arrivare nella capitale danese con un pacchetto di proposte favorevoli ai Paesi emergenti supportate dall’unanimità dei suoi membri. Tuttavia quello dell’unità nell’Unio-
per cento del fabbisogno energetico nazionale è prodotto da fonte eolica. Londra, a sua volta, grazie al progetto “Wave hub” ambisce ad arrivare al 40 per cento della produzione della sua energia da fonti a bassa emissione.
Tempo stimato del piano: entro il 2020. Logico che sistemi Paese tanto all’avanguardia non abbiano avuto problemi ad avvallare il documento Ue. Le rimostranze di Parigi hanno invece tutt’altra origine. La Francia
Sempre più probabile la presenza di Ahmadinejad
Anche Teheran al vertice Il summit di Copenaghen rischia di diventare la nuova passerella per un’uscita all’estero del Presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad. La notizia non è ancora certa, tuttavia il fatto che ieri sia stata la televisione di Teheran a parlarne è sufficiente per far pensare che anche Ahmadinejad andrà a Copenhagen. La sua partecipazione non è certo un problema. Anzi, è indice dell’esistenza effettiva di un rapporto diplomatico fra l’Iran e la comunità internazionale, che travalica la questione nucleare. Bensì è sui contenuti di un suo eventuale intervento che si può storcere il naso. In occasione del summit della Fao a Roma nel 2008, Ahmadinejad, invece di parlare degli squilibri della distribuzione delle risorse alimentari fra i Paesi
ricchi e poveri, si accanì contro gli Stati Uniti e Israele, rispolverando le vecchie metafore del “Grande e Piccolo Satana”che dominano il mondo e delle loro lobby che impediscono lo sviluppo della maggioranza della popolazione mondiale. Il rischio è, come a Roma lo scorso anno, che si ripeta un incidente diplomatico di questo genere. Del resto si può negare a un Capo di Stato di presenziare a un summit internazionale come quello di Copenaghen? Evidentemente no. A questo punto gli altri governi coinvolti potrebbero approfittare dell’occasione e decidere, una volta per tutte, come approcciarsi con il regime iraniano. La presenza del suo leader non va impedita, ma sfruttata per procedere sul nucleare.
è il secondo Paese al mondo per energia nucleare dopo gli Stati Uniti. Su questo comparto però gravano le critiche, palesemente pregiudiziali degli ambientalisti. Arrivare a Copenaghen con un piano di energia alternativa impostata sul nucleare sarebbe quindi solo controproducente. Da qui la reticenza nelle dichiarazioni transalpine: «La Francia sarà generosa nell’aiutare le economie in crescita». Questo il commento reso pubblico dal governo Fillon. Stessa posizione di cautela da parte italiana. Il Ministro degli Esteri, Franco Frattini, si è limitato a dichiarare: «L’Italia deciderà quello che deciderà l’Ue». L’aperta contrarietà alla proposta di Bruxelles invece è venuta dalla Germania, la quale «non intende staccare un assegno in bianco senza sapere la destinazione dei fondi».
Berlino è stata seguita a ruota dai nuovi membri dell’Ue, Polonia in testa, le cui economie non possono permettersi un impegno così gravoso e immediato. Le tattiche interne all’Ue infine si scontrano con le posizioni di Cina e Stati Uniti, veri decisori del problema. In un complicato ragionamento che solo il governo di Pechino riesce a far apparire come sostenibile, il vice Direttore della Commissione statale per lo sviluppo e la riforma, Xie Zhenhua, ha fatto capire che il suo Paese potrebbe accettare di ridurre del 50 per cento delle emissioni di Co2 entro il 2050 solo a condizione che le nazioni sviluppate aumentino il loro target entro il 2020. In questo modo ha fatto capire che i Paesi occidentali dovrebbero accelerare sul controllo delle emissioni sul medio periodo, lasciando che la Cina lo faccia sul lungo. Questo significa che i trent’anni di gap sarebbero per Pechino un’occasione per mantenere un livello di produttività svincolato dal controllo dell’inquinamento emesso. Peraltro non si capisce per quale motivo improvvisamente la Cina si sia sfilata dalla categoria delle nazioni sviluppate, declassandosi a quella di economia emergente. Forse perché così spera di ottenere l’appoggio di quei Paesi che sono davvero poveri. Nel frattempo gli Stati Uniti non hanno ancora sciolto la riserva. Forse non lo faranno nemmeno oggi, visto che Obama è a Oslo a ritirare il Nobel per la pace. Lapidaria e inequivocabile la dichiarazione dell’India: “Nessun accordo a tutti costi”.
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A Parigi parte la raccolta firme per una giornata anti Sarkozy
Il noto dissidente è autore e organizzatore di Charta ’08
I francesi copiano la protesta del “No-B Day”
A un anno dall’arresto, Liu Xiaobo in tribunale
PARIGI. Difficile dire se ci riusciranno, ma loro ci provano lo stesso: i blogueurs dell’estrema sinistra vogliono organizzare il loro “No-Sarkozy Day”. Impressionati dalla mobilitazione italiana contro il presidente del Consiglio, sognano un successo equivalente per il 20 marzo prossimo, alla vigilia del secondo turno delle elezioni regionali. Per mobilitare la rete, i promotori hanno creato un gruppo su Facebook: obiettivo un milione di membri. Ce ne sono già più di 400 mila, più o meno gli stessi iscritti a un altro gruppo creato dalle stesse persone: “Sarkò il popolo vuole le tue dimissioni”. Il tentativo di organizzare una manifestazione anti-Sarkozy non ha finora attirato l’attenzione della stampa. Unica eccezione il sito di Marianne2, settimanale particolarmente impegnato contro il presidente della Repubblica. Ma il pezzo dedicato all’iniziativa è molto cauto: «Un No Berlusconi Day alla francese?
PECHINO. A un anno dal suo arresto, le autorità cinesi sarebbero pronte a incriminare formalmente il noto dissidente cinese Liu Xiaobo. L’arrestato, noto professore universitario, un anno fa ha presentato al governo, insieme ad altre 300 firme, una petizione pubblica – nota come “Carta 08” – con cui si chiede al Paese di realizzare i desideri di democrazia e libertà presenti nella storia recente della Cina. Il rispetto dei diritti umani – fra cui la libertà religiosa - è mostrata come l’unica via per salvaguardare il progresso economico raggiunto da Pechino e per correggere le devianze dittatoriali, di corruzione e di squilibrio sociale ed ecologico. Mo Shaoping, il
Molti blogger impegnati ci credono, ma tra la frammentazione degli Ego e la mancanza di parola d’ordine dubitano di poter mobilitare le folle contro un Sarkozy meno demoniaco del suo collega italiano». Secondo molti commenti apparsi sulla rete, il problema è l’incapacità dei vari blogueurs a darsi un’organizzazione e a creare un vero movimento capace di esprimersi in
Londra annuncia nuove tasse sui bonus I banchieri sono nel mirino della finanziaria 2010 di Lorenzo Biondi
LONDRA. Gordon Brown paladino dei poveri lascia ad Alistair Darling il lavoro sporco. Per due settimane il primo ministro ha rispolverato, con un certo successo, l’immagine dei Tories come «partito dei ricchi». Ora il suo cancelliere ha reso pubblico il rapporto preliminare sul bilancio 2010, che presenta un quadro più complesso: nasce una nuova super-tassa sui bonus ai banchieri, ma salgono le imposte anche per i ceti medio-bassi. Sono buone notizie per i conservatori, che attraversavano una fase di stanca nei sondaggi. Già da qualche giorno si preannunciava un nuovo giro di vite del governo contro la City. Darling ha spiegato: non c’è banca che non abbia «beneficiato dell’aiuto dei contribuenti». Ora però è necessario che le banche «ricostruiscano il loro capitale di base». Una tassa diretta sui capitali sarebbe controproducente, e così l’ascia del cancelliere si abbatte sui bonus dei top manager. Per tutti i premi superiori a 25 mila sterline l’imposta è fissata ad un portentoso 50%. Brown si sfrega le mani, pronto a giocare la parte del Robin Hood. Tanto più che il suo rivale David Cameron, in un tentativo di rassicurare l’alta finanza sulle proprie credenziali, ha ricordato: «La City ce l’ho nel sangue», essendo figlio, nipote e pronipote di broker. Un’affermazione che gli spin-doctor laburisti non mancheranno di riutilizzare contro di lui. Era cosa nota anche che il bilancio 2010 sarebbe stato dedicato, almeno in parte, a contenere il deficit dopo l’annata dei pacchetti di stimolo. Più tagli e più tasse: il difficile compito di Darling era quello di indorare la pillola. Alcune misure «popolari» - come lo sconto di 300 sterline per la sostituzione di ogni vecchia caldaia - non sono riuscite a nascondere l’intervento più consistente: un aumento dello 0,5% sui contributi previdenziali per i redditi superiori alle 20 mila sterline (22 mila euro circa). Non certo uno stipendio da «ricchi». La misura frutterà alle casse di Sua Maestà due miliardi di sterline l’anno; la tassa sui bonus «solo» mezzo miliardo. Alla notizia i conservatori hanno festeggiato. Il cancelliere ombra George Osborne ha subito accu-
sato Brown e Darling di un doppio fallimento: mentre alzano le tasse (anche per i redditi medio-bassi) si rifiutano di affrontare il problema dei tagli alla spesa.
Il governo «non è onesto con gli inglesi sul vero costo delle proprie incompetenze», ha accusato Osborne riferendosi ai presunti sprechi dell’amministrazione centrale. Per Cameron l’aumento dei contributi previdenziali è manna dal cielo. Dopo un periodo nero, Gordon Brown era riuscito ad uscire dall’angolo con un attacco frontale contro lo status sociale dei conservatori. Un partito di ricchi, educati a Eton nelle scuole private più costose del Paese, potrà solo fare politiche per difendere i ricchi. La proposta tory di alzare la soglia per la tassa di successione da 325 mila a 1 milione di sterline era stata bollata da Brown come «l’unico caso di legge in cui chi la propone conosce per nome tutti i beneficiari». La linea del premier si è rivelata efficace. Non tanto, come qualcuno ha scritto, perché istiga alla «lotta di classe»; ma perché tra i ceti più bassi la paura dei Tories è ancora forte. Nonostante il radicale cambio di immagine che Cameron ha portato ai conservatori, c’è ancora chi teme che il 44enne leader sia solo la «faccia pulita» di un partito ancora thatcheriano. Un sondaggio di Populus sul Times di martedì segnava i conservatori al 38%, col Labour in ripresa al 30%. In un sistema maggioritario uninominale - che premia i laburisti, il cui voto è concentrato nel nord dell’Inghilterra e in Scozia - questi dati potrebbero portare ad un parlamento senza un partito di maggioranza assoluta. I conservatori dovrebbero allora cercare la coalizione coi liberali o accettare di formare un governo di minoranza. Forse Cameron nei giorni scorsi avrà pensato che i sondaggi sono una scienza inesatta e che in fondo non c’è troppo da preoccuparsi. Paradossalmente la scelta di Darling di una finanziaria «responsabile», anche a costo di introdurre qualche misura impopolare, allevia la tensione sul leader dell’opposizione. Per i Tories si preannunciano vacanze di Natale tranquille.
Per i premi superiori a 25mila sterline l’imposta è fissata ad un portentoso 50%. La misura porterà in cassa due miliardi
piazza e per poter organizzare qualcosa bisognerebbe avere l’aiuto di gruppi strutturati. Ma anche i trotzkisti e tutti i vari partitini di estrema sinistra guardano con sospetto la rete.Tutto inutile, dunque ? Non è detto, ma la storia recente insegna che il malumore generico contro un governo o un presidente non bastano per mobilitare le folle. Ci vuole un obiettivo preciso, capace di riassumere in sé il malcontento accumulato dal paese. E in generale si è sempre trattato di avvenimenti inattesi, come quando Villepin riuscì a far scendere in piazza centinaia di migliaia di giovani contro un nuovo contratto di lavoro flessibile destinato a loro.
legale di Liu, sostiene che la polizia ha finito le sue indagini e sta per presentarle al procuratore generale. La mossa riaccenderà l’attenzione su un caso che ha attivato una nuova serie di controlli e arresti verso le voci critiche del Partito unico cinese. Anche alcuni politici occidentali hanno espresso la loro preoccupazione sull’arresto di Liu, 53 anni, noto al regime cinese sin dal 1989: in quell’anno, per sostenere il movimento democratico di piazza Tiananmen, lanciò infatti un lungo sciopero della fame.
Per quell’azione egli è stato incarcerato per venti mesi, poi condannato a tre anni di reclusione in un campo di “rieducazione attraverso il lavoro”. Nel giugno del 2009 la polizia lo ha arrestato con l’accusa di incitamento alla sovversione, un’accusa generica che il Partito usa per bloccare chi critica l’apparato governativo e le sue politiche. “Carta 08” ha ottenuto una vasta eco ed è stata adottata da centinaia di migliaia di persone in Cina e nel mondo. Ieri Mo ha contattato la stampa per spiegare: «Se il procuratorato conclude che le accuse sono sostenute da delle prove, potrà iniziare la procedura legale». Ma questo, spiega, «non avviene nei casi contro i dissidenti».
cultura
pagina 18 • 10 dicembre 2009
Il personaggio. Ritratto del “discepolo” di Sturzo che ha vissuto e raccontato la nascita e la morte dei grandi partiti italiani
Il nome di De Rosa Ingegno, pietà, lungimiranza e ansia di verità: l’eredità del grande storico del cattolicesimo di Gabriella Mecucci
abriele De Rosa è uno dei più grandi storici italiani. Nel suo lungo percorso di ricerca c’è iscritto un intenso lavoro per ricostruire la storia del movimento cattolico italiano in tutte le sue molteplici (e sono davvero tante) sfaccettature. E questo impegno nasce non solo dall’interesse dello studioso, ma anche dalla profondità con cui ha vissuto la scelta cristiana. Nonostante questo le sue analisi non hanno mai peccato di ideologia né tantomeno di ortodossia bacchettona. Scoprì la sua vocazione politica e civile durante la seconda guerra mondiale e durante la Resistenza. La parte iniziale della sua educazione culturale era stata - come per quasi tutti i suoi coetanei - segnata dal fascismo. Uscì dalle terribili vicende belliche con una forte identità antifascista che lo portò per una breve fase ad essere fra coloro che all’epoca venivano definiti i cattocomunisti. Fu questa un’esperienza rapida, poi, la fascinazione di figure straordinarie quali Don Sturzo e De Gasperi, lo convinse a militare nella Dc, dalla quale non si staccherà mai. Fu parlamentare democristiano e poi del partito popolare sino al 1996.
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Nelle sue mani questo concetto diventò concreto e venne ricercato in tutte le sue manifestazioni fattuali. Quella di De Rosa diventò così una storiografia che s’impegnò molto nella ricostruzione della storia sociale, nella quale appunto s’inverava la pietà. Ne scaturì uno dei suoi libri più importanti, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana. Un lavoro in cui De Rosa mise a frutto il suo intenso confronto con Don Luigi Sturzo, che lo aveva
quasi profetico quando osservava il presente politico. E in effetti di politica - come già accennato - si occupò a lungo (senatore della Dc dal 1987 e deputato del Partito popolare dal ’92 al ’96).Visse e raccontò la fine dei grandi partiti (Dc, Psi e, per altre ragioni, il Pci) e con particolare lucida intensità di quello in cui aveva militato per decenni. Capì che la potente destabilizzazione a cui veniva sottoposta l’Italia, sarebbe stata molto difficilmente ricomposta.
Se sono molti i meriti di Gabriele De Rosa come storico, non meno grandi furono quelli dell’organizzatore di cultura. Diresse l’istituto Sturzo a partire dal 1979 e per trent’anni il suo lavoro fu molto importante sia nel promuovere e organizzare la discussione, sia nell’ordinare gli archivi, sia nel recuperare e pubblicare
Tra gli altri meriti, quello di essersi battuto affinché la carestia dell’Ucraina non fosse considerata solo un terribile accidente, ma un vero e proprio crimine di Stalin
Pur avendo un’autentica passione politica, De Rosa non ha mai fatto lo storico di partito: era ed è sempre rimasto un grande studioso autonomo, capace anche di guardare fuori d’Italia e di imparare dalle storiografiche innovazioni d’Oltralpe, senza importare però pedestremente scuole e modelli francesi nel nostro Paese. Di lui va infatti segnalata la profonda originalità nello studiare il movimento cattolico, cogliendo l’importanza della spiritualità nella storia e facendo i conti non solo con la politica, ma anche, e forse soprattutto, con la società nelle sue articolazioni. De Rosa aveva imparato da un intellettuale come Giuseppe De Luca a ricostruire le vicende del cattolicesimo mettendo al centro il concetto di pietà.
avvicinato al concetto di cattolicesimo popolare. Del grande prete siciliano fu biografo attento: scrisse libri quali Sturzo mi disse, Il partito popolare italiano, Da Luigi Sturzo a Aldo Moro ed altri. Durante la sua presidenza dell’istituto Sturzo, lunga trent’anni, mise in cantiere la pubblicazione dell’Opera omnia sturziana. De Rosa insomma è particolarmente conosciuto per i suoi orginali studi di storia del movimento cattolico, dove rielaborava e mescolava la lezione degli storici francesi, quella di Ernesto De Martino, e quella del grande maestro siciliano, di cui - e questo è il suo secondo notevole merito - ha ricostruito vita politica e idee. Ma sono indimenticabili anche alcuni suoi saggi su De Gasperi e sulla Dc. Di cui l’ultimo, scritto nel 1996, che porta in copertina lo scudocrociato, aveva un titolo che anticipava un problema politico tuttora attuale: La transizione infinita. Quella transizione iniziata con la fine dei grandi partiti (Dc, Psi e per altre ragioni il Pci) non è, infatti, a 14 anni dall’anno di pubblicazione del saggio, ancora terminata. E non se ne intravede una conclusione accettabile. De Rosa fu originale quando guardava lontano nel tempo, e
documenti di grande utilità per gli studi storici. Nel portare avanti questo lungo impegno, dette vita a collane editoriali e a riviste. Lavorò anche alla nascita di due istituti di studi socio-religiosi: in Veneto e in Lucania. Fu professore universitario appassionato e, anche qui, oltre ad insegnare, si sobbarcò con entusiasmo anche di un ruolo di promozione e organizzazione: fu infatti rettore dell’Università di Salerno. L’ultima cattedra la ebbe a Roma.
Forse per essere stato in una breve parentesi della sua vita comunista, o forse perché appassionato dello studio anche del cattolicesimo ucraino, si batté a lungo perché la carestia che investì l’Ucraina non fosse considerata un terribile accidente, ma un vero e proprio crimine di Stalin. A noi di liberal fa molto piacere raccontare questa storia anche perché la battaglia di De Rosa fu anche la nostra battaglia. La “grande carestia” del 193233, che uccise milioni e milio-
cultura
10 dicembre 2009 • pagina 19
Il contributo dell’intellettuale campano nei ricordi di un compagno d’armi
Quando Gabriele “rovesciò” Gramsci... di Rocco Buttiglione on Gabriele De Rosa ci siamo conosciuti e incontrati all’Istituto di Storia Politica della facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza di Roma, negli anni Settanta. Lì De Rosa ha lavorato gomito a gomito con Augusto Del Noce, Pietro Scoppola e Renzo De Felice creando un ambiente culturale di altissimo livello, nel quale ha potentemente rinnovato anche la metodologia degli studi storici. Anche lui come poi io Granatiere di Sardegna, si trovò a combattere in Nord Africa e a El Alamein su cui scrisse un libro. In seguito prese parte attiva al movimento della Resistenza a Roma.
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A sinistra, Luigi Sturzo. In alto, Alcide De Gasperi durante un comizio della Dc. A destra, Gabriele De Rosa ni di persone, fu uno sterminio deliberato, voluto da Stalin per piegare i contadini che erano contrari alla collettivizzazione. Questa terribile realtà fu lungamente negata anche dall’Occidente, persino nei momenti in cui prendeva coscienza, pezzo a pezzo, episodio dopo episodio, delle mostruosità del comunismo. Finalmente, dopo lunghi studi, voluti dalla comunità ucraina americana e favoriti da Ronald Reagan, nel 1986 uscì negli Stati Uniti The harvest of Sorrow, il primo completo sconvolgente atto d’accusa sulle responsabilità del gruppo dirigente sovietico nella tragedia ucraina. Il drammatico saggio era di Robert Conquest e nel 1989, l’apertura degli archivi russi, confermò tutte le tesi che vi erano contenute. Nonostante tutte le ricerche dessero ragione alla tesi che anche De Rosa, in Italia, aveva sostenuto, come al solito
nel nostro Paese il libro tardò ad arrivare. Nessuno si prendeva la briga di tradurre un testo che raccontava la terribile vicenda. Fu “liberal edizioni” a farlo. E nel 2003 usci per la nostra casa editrice Raccolto di dolore. Collettivizzazione sovietica e carestia terroristica. Da quell’anno anche gli italiani hanno potuto leggere a quale allucinante abominio fosse arrivato il comunismo.
Ci onora aver reso compiuta una battaglia che aveva condotto anche Gabriele De Rosa. Di lui non potevano non affascinare, oltre all’ingegno e all’umanità, l’ansia di verità che aveva portato sia nel suo impegno di studioso sia in quello di politico. Un’ansia di verità che nasceva in lui anche - e forse soprattutto - da un cristianesimo vissuto con profondità, da una fede che ha guidato tutte le scelte più importanti della sua vita.
All’inizio era nel giro dei cattolici comunisti, ed era molto vicino a Palmiro Togliatti. Poi la sua evoluzione personale e l’incontro con don Luigi Sturzo lo hanno profondamente trasformato e gli hanno mostrato i limiti della possibilità di incontro tra cattolici e comunisti. Nell’epoca della prima metà del secolo regnava una certa temperie culturale per la quale si riteneva che le democrazie occidentali fossero destinate a finire e che la storia appartenesse al grande scontro tra i due totalitarismi, quello fascista e quello comunista. In quest’ottica i cattolici potevano stare solo dalla parte dei comunisti e in particolare dopo la sconfitta del fascismo avevano il compito di moderare il comunismo depurandolo dagli eccessi che erano stati “necessari” per rispondere agli eccessi del nazi-fascismo. L’incontro con don Sturzo modificò radicalmente questa visione in cui agli inizi si era formato De Rosa e gli mostrò un’alternativa che poi lo storico abbracciò ed elaborò per il resto della sua vita: si trattava della conciliazione fra il cattolicesimo e la libertà, conciliazione compiuta e anche da compiersi. Questa era l’originalità del pensiero sturziano che finisce per opporre De Rosa ai cattolici comunisti e che lo porta a scrivere una storia del movimento politico cattolico con modalità del tutto differenti da quelle applicate fino ad allora. Il primo a scrivere una storia del movimento cristiano era stato Giorgio Candeloro, l’aveva inquadrata nell’ambito delle lotte sociali in parallelo alla storia del movimento operaio. De Rosa invece va a monte di questa situazione e colloca il movimento politico cattolico in continuità con il Risorgimento cattolico che fallisce nel 1848-49, rivendicando il carattere nazionale del movimento e anche le sue spinte verso l’unità d’Italia pensata in maniera diversa da come poi si realizzò. In questo senso il valore nazionale del movimento cattolico prevaleva e prevale storicamente sui pur esistiti sussulti antiunitari che vanno compresi come manifestazioni estreme contro una specifica forma storica di unità nazionale. In questo contesto De Rosa più o meno consapevolmente si contrappone alla visione di Antonio Gramsci a proposito dei
cattolici politici che partiva dal presupposto che cattolicesimo e politica fossero incompatibili. Per questo nell’idea gramsciana la collaborazione con i cattolici doveva servire ad educarli alla democrazia e in questo modo inevitabilmente i cattolici politici erano destinati al suicidio e alla scomparsa quando la politica e la “democrazia” avessero prevalso in loro sul cattolicesimo. Gabriele De Rosa rovescia completamente questo ragionamento: per lui infatti le democrazie hanno la tendenza all’autodissolvimento se non sono ancorate a dei valori forti che le possano tenere in piedi con la loro tensione. Il cristianesimo è il portatore di quei valori e come tale è tutt’altro che incompatibile con la democrazia: i valori specialmente della dottrina sociale cristiana sono anzi l’elemento che garantisce la sopravvivenza della democrazia. Un’altra direzione scientifica percorsa con grande fecondità e capacità innovativa da Gabriele De Rosa è quella che gli venne dall’amicizia con don Giuseppe De Luca, e non a caso De Rosa fu il successore di don De Luca nella direzione delle Edizioni di Storia e Letteratura. Insieme con De Luca infatti entra in dialogo con la grande tradizione francese, in particolare quella degli studi sulla evoluzione della mentalità sociale. Di qui elabora il suo pensiero arrivando a studiare, comprendere e spiegare il modo in cui la fede diventa cultura popolare e diventa storia, ed elabora le categorie culturali relative agli uomini comuni e alla loro quotidianità, dando il giusto peso anche all’aspetto religioso. Anche in questo si contrappone alla visione di Gramsci per il quale il cristianesimo era inevitabilmente destinato a diventare solo folklore, mentre per De Rosa è cultura viva.
Per il pensatore, non poteva che essere il cristianesimo a farsi portatore dei valori fondanti di una democrazia
Infine rendendo omaggio anche al suo importante impegno politico come senatore e deputato della Democrazia cristiana, impegno prima di tutto da intellettuale e di testimonianza in una fase difficile della storia di quel movimento di cui lui aveva scritto, ricordo solo per dovere d’onestà lo scontro che ci oppose al tempo della scissione del Ppi, quando lui ritenne di stare nell’altra parte. Ma credo si trattò più che altro di una incomprensione come ne accadono nelle contingenze specifiche, mentre sempre alta rimane la condivisone della sua visione d’insieme. Grandiosa, viva e determinante è l’eredità che ci lascia Gabriele De Rosa, una interpretazione che ci fa meglio comprendere la storia del Novecento e quindi come tale insieme a quella di Del Noce ci permette di capire l’oggi. In particolare i suoi studi sono determinanti per l’identità e l’autocoscienza del movimento politico cattolico italiano, e non a caso egli ha diretto per trent’anni l’Istituto Sturzo e ha scritto molto e bene delle vite e del pensiero di Sturzo e De Gasperi.
cultura
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Ritratti. Un’immagine del tutto nuova dell’accademico futurista attraverso il suo scritto “Il Fascino dell’Egitto” del 1933
Il Marinetti che non ti aspetti di Rossella Fabiani avanti alle numerose piccole mostre calibrate o, più spesso, d’impianto maestosamente celebrativo che, in occasione del centenario del Manifesto futurista, hanno imposto allo spettatore una non economica rincorsa tra Parigi, le Scuderie del Quirinale a Roma, Rovereto o il Palazzo Reale di Milano, sembrerebbe necessaria, per dirla con le parole di Benedetto Croce, una cautela di pensiero o, quanto meno, l’eventualità di una sosta. Se non altro per porre l’attenzione su di un’opera letteraria, Il Fascino dell’Egitto, scritta dall’ideatore del Manifesto futurista, Filippo Tommaso Marinetti, del tutto dimenticata dal “concerto grosso”di eventi, mostre e manifestazioni dedicate alla celebrazione del centenario dell’avanguardia che sta per concludersi. E che, per una sorte felice, oggi a Roma (alla Biblioteca Rispoli, al numero 4 di piazza Grazioli alle 18.30), verrà ricordata con una lettura pubblica accompagnata da un’esposizione di opere fotografiche di Rosetta Messori ispirate alla antica cultura orientale. Il Fascino dell’Egitto venne pubblicato da Mondadori nel 1933 e poi rieditato sempre da Mondadori nel 1982. Di questa edizione vennero tirati soltanto trecento esemplari rilegati in piena pelle, numerati in macchina da 1 a 300 mentre 21 esemplari vennero contraddistinti alfabeticamente dalla lettera A alla Z. Altra chicca. Il libro aveva la preziosa introduzione di Luciano De Maria, importante critico, saggista ed editore, studioso del Futurismo e direttore della collana di classici “I Meridiani”, scomparso nel ’93.
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L’immagine di Marinetti che scaturisce dalle pagine del Fascino dell’Egitto non è certo quella vulgata e stereotipa del caposcuola invadente e rumoroso, attivista e iconoclasta, perennemente agitato dall’affermazione os-
sessiva del verbo futurista. Qui ci viene incontro un letterato tradizionale, un prosatore affabile, garbato ed elegante che sa fare buon uso della sintassi e che soltanto per cenni allusivi e in modo discreto ricorre ancora al noto stile “parolibero” futurista. In questo senso Il fascino dell’Egitto sarà sicuramente una piacevole sorpresa per i lettori non particolarmente addentrati nelle cose del futurismo, e in generale per gli amanti della buona letteratura.
L’occasione del libro è un viaggio che Marinetti compie nel 1930, con la moglie Benedetta, nel suo Paese natale. Era nato infatti ad Alessandria d’Egitto il 22 dicembre di 54 anni prima. E in questi suoi ricordi di viaggio l’intenzione dell’arte è prevalentemente lirica, poetica. Nei piccoli
telligenza, lavoro, velocità», e la delusione provata quando «tentacolato dai ricordi, il primo a spezzarsi nelle mie mani, come un vecchio giocattolo fragile, fu il collegio dei gesuiti francesi St. Francois Xavier, ora trasformato in Corpo di guardia del Governatorato». In quel collegio Marinetti aveva studiato e a diciassette anni Due immagini vi aveva fondato la sua prima dell’intellettuale rivista scolastica, Papyrus, futurista Filippo poi i gesuiti lo avevano ma Tommaso minacciato di espulsione per Marinetti. Oggi, avere introdotto a scuola i roalla Biblioteca manzi considerati scandalosi Rispoli di Roma, di Emile Zola. il Futurismo verrà
Piramidi e le palme serene che benedicono il grasso padre Nilo allungato nel suo letto di terra e di erba verde». Non manca, nel libro, una vena di palese umorismo. Uomini e cose sono posti pariteticamente sullo stesso piano, e quanto alle “interviste”, Marinetti
ricordato attraverso una lettura pubblica del suo scritto del 1933, “Il Fascino dell’Egitto”, accompagnata da un’esposizione di opere fotografiche di Rosetta Messori ispirate alla cultura orientale
Qui ci viene incontro un prosatore affabile, garbato, elegante, che sa fare buon uso della sintassi e che soltanto per cenni allusivi e in modo discreto ricorre ancora al noto stile “parolibero” capitoli del Fascino dell’Egitto il tono memorialistico si alterna ai modi di un personalissimo reportage. E per la prima volta in questa opera, la dialettica tra passato e presente, sempre drammaticamente vissuta da Marinetti ossessionato dal passato, si risolve e si placa sulla pagina con un equilibrio forse mai così raggiunto dallo scrittore. In questo senso è esemplare l’attacco del libro: «Ritornavo dopo molti anni dinamici e creativi verso un punto fermo di contemplazione: il mio Egitto natale. Da tempo mi chiamavano i suoi cieli imbottiti di placida polvere d’oro, l’immobile andare delle dune gialle, gli alti triangoli imperativi delle
non fa nessuna distinzione di registri tra le parole di Re Fouad, del poeta greco-egiziano Kavafis, di una bufala o del padre Nilo.
Non mancano, poi, momenti privati, come quando ricorda «la lenza di mio fratello Leone calata nell’acqua carica di tenebre del porto di Alessandria sotto la naufragante raggera bianca del sole già tramontato. Mio fratello pescava, io sognavo odiando la pesca, il servo sudanese in galabieh bianca preparava la pesca», o quando ripensa «alla vita ferrea di mio padre, uno dei primi avvocati sbarcati 60 anni fa in una Alessandria fangosa senza gas né acqua potabile, attraversata ogni notte da lui colla lanterna, per sbrigare gli intricatissimi processi dei panciuti pacha che lo chiamavano felfel, cioè pepe di in-
Memorialismo e reportage sono indissolubilmente legati in questo libro. E certo dalla sua lettura si possono anche trarre informazioni sull’Egitto degli anni Trenta. Il carico di dati storico-sociali, geografico e religioso non è evidente, come avviene in altre opere di viaggio, ma non per questo è meno prezioso. Memorabile il capitolo intitolato “Il Sacro meccanismo dei dervisci” dove Marinetti ricorda come «Di furia rasentiamo i muraglioni della Cittadella… ai piedi della Mokatam, una scala ci fa passare sotto la camera-osservatorio del Capo dei Dervisci. Un cortiletto di pinastri e di cipressi polverosi. Coi piedi fasciati di tela entriamo nell’ampia caverna scavata nel calcare. Tombe a destra e a sinistra. In fondo, in un quadrato di stuoie chiuso da griglie di ferro, tre arabe tutte fasciate di nero, coricate coi piedi volti all’entrata, rotolano come rulli tipografici per inchiostrarsi di fecondità… Un rumore di officina mi richiama nella caverna sacra. Come trottole i Dervisci girano, le braccia aperte. La casacca e la gonna bianche si svasano nel movimento rotatorio. Una mistica ingenuità implorante immalinconisce il viso emaciato che guarda la volta. Lassù vibra e ronza il santo motore». E che finezza di conoscenza rivela dell’antico mondo dei faraoni quando scrive «i Greci e i Romani poco si curavano di questo problema e spesso abbandonavano i bambini, gli Egiziani, invece disprezzavano e odiavano le donne sterili. È ormai stabilito che le Sfingi furono molto grattate per nutrire le donne con un pasta di sicura fecondità. Questo amore per la vita schiantava la morte stessa, sotto il peso del sarcofago completo e indistruttibile. L’orgoglio dei Re continuava a governare popoli di mummie o vite bloccate, nelle cavità fastose delle piramidi».
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
dal ”New York Times” del 09/12/09
United per due a United Airlines una delle maggiori compagnie aeree americane non sapeva decidersi se acquistare il nuovo superjumbo della Boeing, oppure il gigante dell’aria made in Europe. Martedì, ha rotto gli indugi a favore di una decisione salomonica. Gli ordini per i nuovi airliner saranno divisi tra la casa aeronautica americana e il consorzio Airbus.
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La compagnia aveva necessità di pianificare la sostituzione degli ormai anziani Boeing 747 e dei meno provati 767. Un rinnovo della flotta che dovrebbe essere previsto tra il 2016 e il 2019. Si tratta di un ordine considerevole per 50 aeroplani nuovi. Un affare da diversi miliardi di dollari per dei gioielli tecnologici come il B787 e l’A350. All’attuale valore di mercato, l’acquisto dei due modelli d’aeromobile ammonterebbe a circa 10 miliardi di dollari. La divisione dell’investimento vedrebbe quattro miliardi spesi per assicurarsi il superjumbo della Boeing e sei miliardi per il gigante dell’aria di Airbus. John Tague, presidente di United airlines, ha assicurato che la compagnia è riuscita a spuntare uno sconto sul prezzo di listino – una prassi comune per acquisti di un certo peso – ma non ha specificato l’ammontare del taglio. «Pensiamo che aver fatto questo genere di ordinativo, così in anticipo, ci dia dei vantaggi visto il clima economico generale che stiamo ancora attraversando» ha affermato il capo della compagnia. La United non ha ancora elaborato un piano finanziario a supporto dell’operazione, anche se Tague ha spiegato che le industrie aeronautiche si sono dette disponibili a eventuali operazioni di credito, se si dovessero rendere necessarie. La transazione commerciale prevede che United metta da parte 152 milioni di dollari per i prossimi cinque anni. A ottobre la
compagnia aveva già rastrellato 424 milioni, con la vendita di azioni e obbligazioni e sta ipotecando un’altra serie di beni e attività, come il magazzino dei pezzi di ricambio. Nel tentativo di riuscire a ripianare le perdite per il calo di passeggeri a causa della recessione. La società ha affermato di aver già firmato una lettera d’intenti per l’acquisto di entrambi i modelli di airliner. John Leahy, direttore operativo del consorzio europeo, ha spiegato che la società si aspetta che il contratto d’ordine verrà firmato entro uno o due mesi. Un fatto che dovrebbe portare il monte ordine per l’Airbus 350 alla rispettabile cifra di 530 aeromobili, da parte di numerose compagnie aeree di mezzo mondo, afferma sempre Leahy.
«Non siamo per niente sorpresi della decisione di dividere gli ordini d’acquisto» la considerazione espressa dal responsabile europeo che ha affermato che il passo è comunque importante, perché è la prima volta che United airlines decide di inserire nella sua flotta macchine wide-body che non siano della Boeing. Entrambi gli aerei hanno una fusoliera a doppia cellula e vengono di solito utilizzati sulle rotte internazionali. Il B-787 ha una configurazione da 210 fino a 250 passeggeri. L’Airbus 350 ha 314 posti a sedere nella versione più comune. Tutti e due gli aeromobili possono volare con un’autonomia di 9mila miglia (circa 14mila chilometri) suffi-
ciente per viaggiare dalla base d’armamento della United, a Chicago, fino a Shangai senza scalo. Un balzo unico che taglia i costi e attira i clienti. «Questi nuovi mezzi ci darebbero virtualmente un accesso diretto a qualsiasi regione del mondo dai nostri hub» ha affermato il presidente Tague. Entrambi i mezzi sono costruiti con materiali compositi molto sofisticati, che gli danno caratteristiche di maggior leggerezza e minori consumi, rispetto alle più tradizionali strutture in alluminio (con le più pesanti centine e longheroni, ndr). Nessuno dei due modelli ha ancora volato.
Alla Boeing di Seattle (che ha sede anche a Chicago) sperano che il 787 possa fare il suo volo inaugurale alla fine dell’anno. Mentre gli europei hanno pianificato di poter consegnare i primi 350 per il 2013. Il fatto curioso che mentre le azioni della Boeing sono scese del 16 per cento – nelle more dell’’accordo – quelle della United hanno guadagnato il quattro per cento.
L’IMMAGINE
Caso Cucchi. Ci voleva il morto per modificare una disposizione disumana È stata modificata la disposizione che impedisce ai familiari di incontrare, senza autorizzazione del magistrato, i medici che in ospedale hanno in cura un proprio congiunto quando lo stesso è detenuto-paziente. Per farlo c’è voluto un morto: Stefano Cucchi, e un caso finito su tutte le cronache dei media. Un provvedimento che non aveva senso da un punto di vista della sicurezza, mentre da quello sanitario non permetteva al medico di acquisire dai familiari informazioni utili sul paziente. Un provvedimento che da un punto di vista umanitario lasciava molto a desiderare, abbandonando i familiari all’arbitrarietà della decisione di medici e agenti penitenziari di turno. I medici solitamente non rifiutano i colloqui con i parenti, ma nel caso Cucchi l’applicazione rigorosa del regolamento ha suscitato quelle critiche che hanno poi portato alla modifica.C’è voluto un morto per modificare un regolamento che tutti dichiaravano sbagliato tanto da disattenderlo!
Donatella Poretti
NESSUNA TREGUA! L’annuncio dell’assessore municipale all’ambiente Alessandro Zan sul nuovo regolamento per la tutela degli animali a Padova di questi giorni, non ci stupisce più di tanto. Il suo predecessore Bicciato, quel regolamento, lo aveva accantonato, grazie alle nostre proteste. Questi “animalisti” locali vogliono far approvare quel regolamento, che di fatto non tutelerà gli animali, ma solo le loro tasche. I circhi potranno arrivare a Padova come prima più di prima, i topi da dare in pasto vivi ai serpenti potranno essere venduti senza problemi nei negozi, le eventuali “mancanze” da parte dei cittadini nei confronti degli animali d’affezione potranno essere risolte dagli “animalisti” che vigileranno sui malcapi-
tati, rilasciando “permessi” scritti da veterinari compiacenti. Non permetteremo che l’assessore Zan dia la possibilità ai suoi soci animalisti di poter speculare sulla pelle dei poveri animali! Nessuna tregua a quel regolamento farsa! Nessun rispetto per chi si bea di “tutelare” gli animali e nello stesso tempo se li mangia a tavola. 100%animalisti, in questo periodo, ha la media di due presidi settimanali, ma sono imminenti presidi di protesta per informare i cittadini padovani sulla vergogna di quel regolamento e se non basteranno i presidi in strada tappezzeremo tutta la città con dei manifesti informativi.
100%animalsiti
LA SPACE VISION ITALIANA Salvare la flotta di navette spa-
Voli impossibili Un nuovo modo per evitare il traffico? No, questa non è l’invenzione del secolo, ma l’impresa sportiva di un uomo-volante che partecipa all’International Birdman Competition, a Worthing, in Inghilterra. Armati solo di ali, senza motore, gli aspiranti “pennuti” si lanciano da un pontile, tentando di volare per 100 metri. Nell’ultima edizione l’inglese Steve Elkins ha percorso 99,86 metri
ziali shuttle della Nasa. “Save space shuttle program”, perché gli Stati Uniti stanno sbagliando di grosso sullo spazio. L’astronauta dell’Apollo 11, Buzz Aldrin, riflette sul nuovo programma di sviluppo spaziale americano. L’epoca post shuttle, non è una buona notizia. Diamo una
mano alla Nasa, rileviamo gli shuttle e modifichiamoli per farli diventare vere astronavi. Abbiamo la tecnologia per farlo e la Sicilia come ottimo sito di lancio ed atterraggio. L’unico modo di avere voli spaziali sicuri e a basso costo, è di farli fare ai privati. Le ricadute tecnologiche per risol-
vere le gravi emergenze planetarie, sarebbero incalcolabili. Che siano i privati ad accollarsi il rischio e ad assumersi il profitto della conquista umana del sistema solare. È il sogno di tutti i cittadini che credono nella libertà dell’impresa.
Nicola Facciolini
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Possa Dio illuminare il tuo lavoro Caro Theo, è tempo che ti scriva di nuovo, soprattutto per inviarti i miei migliori auguri per l’anno nuovo. Possa tu partecipare a tutto ciò che è buono e possa la benedizione di Dio illuminare il tuo lavoro nell’anno che stiamo per iniziare. Sono ansioso di ricevere una tua lettera, di sapere come stai e cosa fai e anche di sentire se hai visto cose particolarmente belle, in questi ultimi tempi. Quanto a me è inutile che ti dica che qui a Borinage non vi sono quadri: probabilmente, questa gente non sa neanche che cosa sia un quadro. Non ho quindi visto più nulla in campo artistico da quando lasciai Bruxelles. Ciò nonostante il paese è assai pittoresco e caratteristico: tutto sembra parlare ed è pieno di significato. In questi ultimi tempi, nei giorni oscuri prima di Natale, la terra era coperta di neve, e allora tutto faceva pensare ai quadri medioevali del vecchio Bruegel e a quelli di coloro che seppero rendere così bene tale particolare effetto di rosso e verde, bianco e nero. L’opera di Thijs Maris e di Albrecht Durer è ovunque presente. Vi sono stradine malconce, invase da cespugli di rovi e vecchi alberi contorti dalle radici fantastiche che fanno pensare alla strada incisa da Durer in La morte e il cavaliere. Vincent Van Gogh a Theo
ACCADDE OGGI
RITARDI NELLA CONSEGNA DELLA CORRISPONDENZA Molte le segnalazioni giunte presso il nostro sportello di Lecce relativamente ai disservizi di Poste italiane nella consegna della corrispondenza ordinaria. La situazione più grave è quella che ha interessato, in questo periodo, decine di persone nel quartiere Leuca. Negli ultimi 20 giorni la consegna della posta ordinaria è stata praticamente assente. Tanti i cittadini che, insospettiti dai ritardi, hanno protestato presso gli uffici postali. La risposta si è limitata al classico «abbiamo una momentanea carenza del personale che ha rallentato le normali operazioni di consegna». Al fatto, già di per sé deprecabile tenendo presente che stiamo parlando di Poste italiane e non di uno sconosciuto vettore di provincia, si aggiunge il danno economico che i cittadini di questa zona della città stanno subendo. Molte delle lettere da consegnare, infatti, sono bollette per le utenze domestiche o per altri tipi di pagamenti che saranno effettuati in ritardo con la conseguente applicazione di more e sanzioni. Poste italiane, sulla base della normativa vigente e fatte salve le ipotesi in cui si è nella possibilità di dimostrare il torto subito, non risponde dei danni causati dalla ritardata consegna di corrispondenza ordinaria. Proprio per questo, la procedura di reclamo contenuta nella carta dalla qualità dei servizi postali ha più il sapore della beffa! Alle persone, danneggiate dal pessimo servizio postale non resta che diffidare Poste italiane ad adempiere correttamente, con
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
10 dicembre 1901 Vengono assegnati i primi Premi Nobel
1902 La Tasmania concede il diritto di voto alle donne 1906 Il presidente degli Stati Uniti d’America Theodore Roosevelt ottiene il Premio Nobel per la Pace, diventando il primo americano a vincere un Premio Nobel di qualsiasi tipo 1920 Canneto Sabino (RI): durante uno sciopero per la ridiscussione dei patti colonici e l’aumento della paga giornaliera, i Reali carabinieri sparano e muoiono 11 braccianti 1927 A Stoccolma la scrittrice Grazia Deledda riceve il Nobel per la letteratura 1932 La Thailandia adotta la Costituzione e diventa una Monarchia costituzionale 1936 Edoardo VIII del Regno Unito firma l’atto di abdicazione al trono britannico 1941 Le forze giapponesi sbarcano nelle Filippine, catturano Guam e affondano due navi britanniche 1948 Approvazione della Dichiarazione universale dei Diritti Umani
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
raccomandata a/r da inviare alla sede centrale della propria città, oltre che alla sede legale, e per conoscenza al ministero delle Attività Produttive - Dipartimento per le comunicazioni. Nei casi più gravi, per i quali si è in possesso di elementi utili a dimostrare un comportamento illecito del fornitore del servizio, è possibile presentare un esposto all’autorità giudiziaria per interruzione di pubblico servizio. Nel frattempo chiediamo alla sede di Lecce di Poste italiane di ripristinare, nel più breve tempo possibile e definitivamente, il normale funzionamento del servizio al fine di evitare ulteriori danni all’utenza.
Alessandro Gallucci
DAL PSE UNA SPINTA AL CAMBIAMENTO Rispetto al congresso di Madrid, questa volta dal Congresso del Pse si sono ascoltati discorsi diversi, con una consapevolezza più forte e una spinta più decisa al cambiamento, per rappresentare meglio le differenti e mutate sensibilità sociali degli europei. Il socialismo europeo ha oggi idee più chiare per tornare a governare là dove ha dovuto cedere il passo ai partiti conservatori. Particolare attenzione meritano due temi chiave che incidono fortemente nel dibattito politico generale. Quello della sicurezza, intesa non solo come questione di piccola e grande criminalità ma anche di immigrazione clandestina, e poiquello di un nuovo welfare, in grado di contrastare gli effetti socialmente più deteriori della crisi economica e finanziaria mondiale. Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
BERLUSCONI E LA MATEMATICA Con la matematica e la geometria forse si può rappresentare tutto lo scibile umano. E per ciò che non è possibile, ci pensa l’arte nella sue varie forme. Credo che valga anche per la politica. E non solo per le statistiche dei dati elettorali. Forse vi possono essere sistemi di rilevazione che in qualche modo rappresentino, attraverso grafici e curve, non solo il livello di popolarità di un leader politico, ma anche fenomeni come le aggressioni mediatiche. Aggressioni di carattere politico tipiche della competizione per la conquista o per la conservazione del potere. Poi vi potrebbe essere il modo di rilevare l’attività del governo nei vari settori. Come l’economia con leggi che possono disturbare alcuni settori della società, come la mafia, la grande industria, gli operai. Ovvio che chi è danneggiato dall’attività di governo, reagisce come può a seconda delle circostanze. Attentati e stragi, ricatti, titoloni sui giornali, scioperi e manifestazioni. L’arma usata identifica il carattere del danneggiato e il suo movente. Così potrebbe essere per gli attacchi denigratori, magari in parte basati su elementi reali da usare al momento giusto, filmati, foto. Noi cittadini vediamo queste cose sempre in superficie, la buccia, con pregiudizi ideologici ed etici. Nella notizia cerchiamo conforto a giudizi già precostituiti. Tuttavia, affrontando scientificamente i fenomeni, sovrapponendo, come nell’analisi in borsa le varie curve, c’è da stupirsi. Con questo gioco puramente accademico, immaginate di disegnare la curva degli attacchi al primo ministro di questo ultimo anno e in particolare quelli che hanno avuto riverbero nei media esteri o addirittura sono stati amplificati prima all’estero e poi in Italia. E come per ogni fenomeno individuiamo il periodo di avvio, di crescita, di vertice della curva e poi di “sgonfiamento” con la linea che si attesta sempre in basso. Le foto delle “festicciole” a villa Certosa e la vicenda dell’ipotesi di collusione con la mafia, nel loro punto massimo coincidono con la firma di importanti accordi commerciali, prima con il governo libico e poi con il governo della Russia. Accordi sul piano dell’approvvigionamento energetico, di infrastrutture di forniture. Accordi fatti con l’appoggio del governo italiano per imprese italiane (Eni, Finmeccanica, Alitalia) che altrimenti sarebbero stati siglati con altre aziende europee. Quello che ho scritto è una domanda, non una risposta. La matematica non è un’opinione anche se si tratta di Berlusconi. Però tutto il resto sì. Leri Pegolo C I R C O L I LI B E R A L PO R D E N O N E
APPUNTAMENTI DICEMBRE 2009 DOMANI, ORE 11, ROMA PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Consiglio nazionale dei Circoli liberal.
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PAGINAVENTIQUATTRO Il ritratto. Il numero uno della Banca d’Italia traccia il profilo del suo predecessore in Via Nazionale
Paolo Baffi, il governatore di Mario Draghi Pubblichiamo l’intervento del governatore Mario Draghi, che ha aperto ieri a Roma il convegno «L’eredità di Paolo Baffi», in occasione del ventennale della scomparsa dell’ex Governatore della Banca d’Italia. n questa sala per quattro volte, fra il 1976 e il 1979, Paolo Baffi ha pronunciato le sue Considerazioni finali, in dialogo serrato, a volte drammatico, con le forze economiche e le istituzioni, in un momento storico segnato da aspri conflitti. Alle spalle di quella breve esperienza al vertice della Banca d’Italia stava una carriera iniziata in un tempo remoto, quando ai principi del libero commercio si stavano sostituendo i dettami del protezionismo e dell’autarchia, contro i quali Baffi ingaggiò subito una tenace, meticolosa battaglia. Se includiamo, come è giusto, il periodo in cui fu assistente all’Università Bocconi, sono quarantatre anni di studio e di azione – fra il 1932 e il 1975 – intorno ai nodi principali della vita economica italiana: moneta e prezzi, relazioni intersettoriali, competitività internazionale, finanza pubblica, stabilità.
I
Al centro dell’attenzione, nella giornata di oggi, non sarà tanto il governatore, quanto l’economista, organizzatore e animatore del Servizio Studi della Banca fin dalle origini, promotore di relazioni con il mondo accademico nazionale e internazionale. Molti di coloro che partecipano a questa giornata hanno letto il bel saggio Via Nazionale e gli economisti stranieri, nel quale Baffi ricostruisce, per gli anni del dopoguerra, il denso intreccio dei rapporti fra il Servizio Studi, gli economisti accademici europei e americani, gli economistifunzionari appartenenti alle organizzazioni internazionali come l’Eca, l’Oece, la Banca Mondiale: impegnati a tracciare o a suggerire, fra spinte intellettuali ed esigenze politiche, il sentiero di sviluppo dell’Italia nella ricostruzione. È un saggio che spiega perfettamente il ruolo decisivo che un centro di ricerca di alto livello può svolgere in momenti cruciali per la vita economica di un paese. Baffi ha rappresentato il fulcro di questa attività per molti anni. Ha costruito, insieme con i suoi colleghi (voglio ricordare qualche nome: Federico Caffé, Salvatore Guidotti, Francesco Masera, Antonino Occhiuto, Mario Ercolani; non nomino quelli a noi più vicini nel tempo, molti dei quali sono qui presenti), una reputazione fondata su tre pilastri: aggiornamento metodologico, precisa e ampia documentazione statistica, indipendenza da istruzioni politiche ma profondo interesse per la cosa pubblica. Questa impresa non è priva di radici: è stata promossa in una istituzione che, anche ai
dell’AUTONOMIA
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dei miei predecessori. Di Luigi Einaudi a Londra, nel 2006, in occasione della presentazione di un suo volume di scritti, tradotti in inglese per iniziativa della Banca; di Guido Carli all’inizio di quest’anno, all’Accademia dei Lincei. Su Baffi ho fatto forse la riflessione più approfondita, in un discorso intitolato La politica monetaria del Governatore Baffi, che ho tenuto all’Università Bocconi nel 2007. All’avvicinarsi del ventennale della morte di Baffi, i miei collaboratori e io abbiamo pensato che si dovesse fare qualcosa di più di un discorso. Abbiamo voluto mettere a disposizione degli studiosi e del pubblico strumenti di lavoro che abbiano una utilità permanente: una bibliografia e una guida alle carte d’archivio.
Una delle maggiori imprese dello studioso, è stata sostenere il Servizio Studi. Sempre nel contesto di istituzione che, anche ai tempi della dittatura, ha mantenuto, in complesso, un abito di rigore e uno spiccato senso dello Stato
tempi della dittatura, ha mantenuto, in complesso, un abito di rigore e uno spiccato senso dello Stato.
All a Banca non vige l’usanza che il governatore, una volta nominato, porti con sé una squadra di persone di fiducia, sulle quali fare affidamento nei momenti decisivi. Vige la regola di basarsi sulla struttura dell’Istituto, fatti gli aggiustamenti che sono ritenuti opportuni. La sedimentazione di saperi, di cultura, di metodi, ha sempre avuto grande valore, ma non siamo perciò conservatori: anzi, in Banca d’Italia la curiosità per l’innovazione è forte, perché tale è lo spirito critico. In questa giornata ci volgiamo verso il passato non alla ricerca di conferme, ma di ispirazione per la comprensione del presente, per l’azione che ne consegue. Da quando sono governatore della Banca d’Italia ho avuto occasione di parlare più volte
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Credo che tutti coloro che vorranno approfondire l’esame di questa figura, il suo ruolo così importante per l’analisi e per la politica economica, trarranno beneficio dai contributi offerti oggi. Paolo Baffi, così alieno dalle formalità e dalle lungaggini, avrebbe apprezzato questa scelta di sostanza. Essa è segno della sua eredità, è riaffermazione dei valori che ci ha trasmesso.