91217
di e h c a n cro
La famiglia è il test della libertà, perché è l’unica cosa che l’uomo libero fa da sé e per sé
Gilbert Keith Chesterton
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 17 DICEMBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Dopo il sì della Camera alla fiducia, un eccitato Tremonti annuncia: «Grazie allo scudo fiscale questa è la miglior legge mai fatta»
Attacco alle famiglie Allarme di Bankitalia: in due anni la loro ricchezza si è ridotta dell’1.9%. E l’Italia torna ad essere una società classista. Ma il governo vara una Finanziaria senza neanche una misura di sostegno PARLA SAVINO PEZZOTTA
RIUNITI GLI EX-AN
«Una manovra che non vede il Paese reale»
Fini comincia prove tecniche di autonomia
di Franco Insardà
di Riccardo Paradisi
ROMA. «Dopo tutte le pro-
mera approva la fiducia alla Finanziaria senza poterla discutere, la Banca d’Italia a lancia l’allarme: «La ricchezza delle famiglie italiane si è ridotta dell’1,9% in due anni», perché il peso della crisi ha gravato soprattutto sulle spalle delle famiglie senza che il governo facesse nulla per aiutarle. Di tono opposto il commento di Tremonti: «Lo scudo fiscale ci ha permesso di fare la manovra migliore di sempre»: quando si dice la finanza creativa...
ROMA. Prove di autonomia per Gianfranco Fini. Ieri è stata la giornata delle voci: si dava per prossima la costituzione di una componente parlamentare degli ex-An dentro al Pdl. L’ipotesi è stata smentita un po’ da tutti, anche se di certo c’è stato un pranzo di Fini con gli ex-colonnelli di An (da La Russa a Gasparri, da Alemanno a Matteoli), nel quale il presidente della Camera avrebbe esortato i suoi a «ritorvare unità di intenti per combattere la politica leghista nella maggioranza». Nel pomeriggio, poi, Fini ha tenuto la consueta conferenza stampa di fine anno, nel corso della quale ha annunciato: «Nella politica italiana si è superato il limite di guardia: è sbagliato distribuire colpe. Le parole del presidente Napolitano sono l’unica stella polare».
a pagina 2
a pagina 5
messe fatte, dopo la partecipazione di molti esponenti della maggioranza al Family day, la famiglia esce da questa Finanziaria non soltanto indebolita, ma quasi inesistente. E pensare che in campagna elettorale si era addirittura parlato di quoziente familiare. Con questa manovra il ministro Tremonti si è assunto il compito di fare il custode del tesoro e del debito. Non si può pensare di fare soltanto dei tagli lineari, bisogna prevedere delle riforme serie delle pensioni, del welfare e della pubblica amministrazione per trovare le risorse da destinare a giovani, famiglie e imprese». Savino Pezzotta ci spiega perché l’Udc ha votato no alla fiducia posta dal governo alla manovra.
di Alessandro D’Amato
ROMA. Nel giorno in cui la Ca-
«Il premier prova ancora dolore e ha difficoltà a mangiare»
Berlusconi resta in ospedale I medici scelgono la prudenza. Il clima politico resta infuocato: il garante della comunicazione valuterà l’obiettività dei servizi della Rai sull’aggressione Allarme per un pacco bomba alla Bocconi di Errico Novi
ROMA. Silvio Berlusconi resta in ospedale ancora un giorno. Lo hanno deciso i medici del San Raffaele di Milano in considerazione del fatto che il premier sente ancora dolore e ha difficoltà a mangiare». nel frattempo, non si placa la polemica politica. Il garante per le comunicazioni apre un’inchiesta sull’obiettività della Rai nei servizi sull’aggressione di Milano. a pagina 6
a pagina 4
Il più noto dissidente cinese accusa: abbiamo perso lo slancio degli anni ’80
È la Rete il teatro di scontro delle superpotenze (e dei loro hacker)
Se l’Occidente perde l’amore per la democrazia
Lampi di guerra (fredda) nel cyberspazio
di Wei Jingsheng
di Maurizio Stefanini
n leader democratico dell’Europa orientale è venuto di recente a trovarmi. La nostra conversazione è stata sulle nuove generazioni, che non sembrano più interessate alla questione “democrazia”: non sono più entusiasti, come lo erano coloro che firmarono Charta ’77. Questo amico pensava infatti a come propagare l’ideologia democratica dalle università, per resistere alla mano nera del comunismo russo che si stringeva sull’Europa dell’Est. Questa mano ha aiutato la Russia a rimettere in pista un governo semi-comunista, simile a quello cinese.
stata la Cina a creare allarme, quando per la prima volta una decina di anni fa si era iniziato a agitare il concetto di guerra nel cyberspazio. Anzi, tecnicamente l’interferenza tra uso delle armi e rete risale a prima ancora. Durante la Guerra del Kuwait ci fu un clamoroso furto di informazioni sui movimenti di truppe Usa da parte di hacker olandesi. Ma l’iniziativa era talmente in anticipo che quando Saddam fu contattato per acquistare i segreti rubati non capì di che cosa si trattava e lasciò cadere l’offerta.
a pagina 16
a pagina 12
U
gue a(10,00 pagina 9CON EUROse1,00
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
È
249 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 17 dicembre 2009
prima pagina
Conti/1. Per Via Nazionale, siamo ancora un Paese di formiche che non fanno il passo più lungo della propria gamba
La famiglia ristretta
Bankitalia lancia l’allarme: la ricchezza in due anni è scesa dell’1,9%. Il risparmio continua a essere il nostro unico baluardo contro la crisi di Gianfranco Polillo onostante il piccolo calo – meno 1,9 per cento nel 2008 – la ricchezza finanziaria – secondo la recentissima radiografia della Banca d’Italia – continua ad essere il vero punto di forza dell’Italia.Tanto per avere un termine di paragone, essa è risultata pari a 7,6 volte il reddito disponibile. Un valore simile a quella detenuta da Francia e Inghilterra, ma del 50 per cento superiore a Canada e Stati Uniti. Tuttavia il confronto europeo non deve, tuttavia, ingannare. Il patrimonio accumulato da paesi come la Francia e l’Inghilterra, ricchi di un retroterra coloniale, ha un origine diversa. Più che effetto di un’antica parsimonia e sobrietà dei consumi, essa è il riflesso di strutture produttive più consolidate nell’arena internazionale. Grandi aziende che non hanno confini e che continuano a produrre ricchezza ad una scala superiore. Ma che sono anche più vulnerabili di fronte ad una crisi di carattere sistemico, quale quella che stiamo vivendo. Lo dimostra il confronto delle perdite subite. In Italia la diminuzione del rapporto tra ricchezza netta e reddito disponibile è stata del 4,6 per cento, contro il 6,7 per cento della Francia ed il 21,1 per cento degli Stati Uniti. Dati che risentono, ovviamente, del diverso tasso di crescita del reddito pro-capite. In compenso, il debito non rientra nelle abitudini nazionali. In media esso è risultato pari al 74 per cento del reddito disponibile, contro valori doppi fatti registrare da quasi tutti i paesi, secondo una classifica che vede in testa gli Stati Uniti (180 per cento), seguiti da Canada (140 per cento), Regno Unito (130 per cento), Francia e Germania (100 per cento).
N
Continuiamo a essere un paese di formiche. Gente che non fa il passo più lungo della propria gamba. Che acquista soprattutto abitazioni (circa il 57 per cento della ricchezza complessiva). Che ricorre al muto bancario solo nei limiti strettamente necessari. Grande senso di responsabilità e piedi per terra. Peccato solo che il sistema politico italiano sembri rispondere sempre meno a queste caratteristiche sociologiche. Del resto se stiamo affrontando la crisi, come dimostrano i dati che abbiamo citato, in condizioni di relativo vantaggio, questo si deve, soprattutto, a queste caratteristiche. Non abbiamo ceduto alle lusinghe del credito al consumo, all’opulenza un po’ cafona delle immagini televisive,
Ma Tremonti esulta: «Lo scudo fiscale ha reso possibile la miglior manovra di sempre»
L’appello del Governatore nel giorno della Finanziaria di Alessandro D’Amato
ROMA. Siamo sempre più poveri, e i divari tra ricchi e meno abbienti continuano ad aumentare. Secondo l’indagine di Bankitalia, nel 2008 la ricchezza netta delle famiglie italiane, cioè la somma di attività reali (abitazioni, terreni, ecc.) e attività finanziarie (depositi, titoli, azioni, ecc.), al netto delle passività finanziarie (mutui, prestiti personali, ecc.), risultava pari a circa 8.284 miliardi di euro. La ricchezza netta complessiva, a prezzi correnti, è diminuita tra il 2007 e il 2008 di circa l’1,9% (161 miliardi di euro), risentendo di una rilevante riduzione delle attività finanziarie (-8,2%) e di un aumento delle passività (3%), mentre la dinamica delle attività reali è risultata positiva benché meno sostenuta di quella degli anni precedenti. A prezzi costanti, la riduzione della ricchezza complessiva rispetto al 2007 è risultata pari al 5 % (circa 433 miliardi di euro del 2008). Nel primo semestre 2009, invece, la ricchezza netta delle famiglie è rimasta sostanzialmente invariata in termini nominali per effetto della stabilità delle sue componenti sia dal lato dell’attivo sia da quello del passivo. La ricchezza netta per famiglia ora ammonta a circa 348mila euro.
za di una società fondamentalmente bloccata, nella quale è difficile sia fare meglio che fare peggio con il passare delle generazioni. In ogni caso, quella nostrana non è la condizione peggiore, in rapporto agli altri paesi. Alla fine del 2008 il rapporto tra ricchezza netta e reddito disponibile lordo per le famiglie italiane era pari a 7,6, in linea con quello della Francia (7,5) e del Regno Unito (7,6) e superiore a quello del Canada (5,4) e degli Stati Uniti (4,9). La diminuzione in Italia del rapporto tra ricchezza netta e reddito disponibile tra il 2007 e il 2008 è stata inferiore a quella della Francia e degli Stati Uniti (rispettivamente 4,6, 6,7 e 21,1%), ma superiore a quello del Canada (1%). Mentre per l’Italia all’aumento in termini nominali del reddito disponibile delle famiglie, pari al 2,8%, ha corrisposto un lieve calo del valore della ricchezza netta (1,9%), per la Francia l’aumento del reddito disponibile (+3,4%) si è accompagnato a un calo della ricchezza di analoga entità.
Capital gains e flusso del risparmio: secondo Palazzo Koch la colpa risiede innanzitutto nel crollo dei mercati azionari
La colpa, secondo Palazzo Koch, risiede innanzitutto nel crollo dei mercati azionari. La variazione della ricchezza in termini reali può essere attribuita a due componenti: i capital gains, che esprimono le variazioni dei prezzi delle attività reali e finanziarie, al netto di quella parte attribuibile al deflatore dei consumi, e il flusso di risparmio. I capital gains nel 2008 sono stati negativi per circa 521 miliardi di euro, principalmente per effetto della forte contrazione dei corsi azionari avvenuta nel corso dell’anno; il risparmio netto delle famiglie è risultato invece positivo e pari a circa 88 miliardi di euro. Nel 2008 la metà più povera delle famiglie italiane deteneva il 10% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco deteneva il 44% della ricchezza complessiva. Una situazione che rimane più o meno invariata da molti anni, a testimonian-
Di tenore completamente diverso, il commento di Tremonti alla giornata economica di ieri. «La riuscita dello scudo fiscale ci ha permesso di fare la manovra migliore di sempre». In un certo senso, il superministro si è smascherato, dal momento che è chiaro a tutti che la sanatoria per gli evasori che avevano portato all’estero surrettiziamente i propri capitali, non è certo rivolta alle famiglie. Che, come le opposizioni hanno ripetuto in aula e come Bankitalia ha testimoniato “scientificamente”, questo governo non tene in gran conto.
alla modernità del debito spensierato. Ed oggi stiamo forse meglio degli altri, nonostante le incertezze della prospettiva.
Il nostro problema principale è come trasformare questa ricchezza in investimenti produttivi per accrescere il potenziale economico del Paese. Esigenza ineludibile. Se non vogliamo continuare a vivere nel ristagno che, a lungo andare, prosciuga i canali del benessere futuro. Sotto questo profilo le valutazioni di Banca d’Italia rappresentano un invito alla riflessione. Secondo i primi dati in quest’annus horribilis, fatto di cadute del reddito e di disoccupazione, le famiglie italiane avrebbero ulteriormente tirato i remi in barca. Nel primo semestre del 2009 la ricchezza delle famiglie italiane è rimasta invariata, arrestando la caduta dell’anno precedente. Questo dato trova conferma indiretta nelle valutazioni dell’ISTAT. Durante il periodo considerato i consumi delle famiglie si sarebbero contratti di quasi il 5 per cento, rispetto all’anno precedente; per poi aumentare leggermente nel terzo trimestre. Insomma: di fronte al grande gelo, le famiglie italiane hanno fatto quello che sanno fare meglio. Si sono ulteriormente sacrificate. Hanno razionalizzato la spesa, rinunciando al superfluo. Per poi riprendere con cautela, nel momento in cui l’orizzonte ha iniziato a mostrare una qualche schiarita. Ma il nodo di fondo – quello di un maggior tasso di crescita complessiva – rimane immutato. Come se ne esce? Le ricette sono difficili da individuare. Un dato confortante è fornito dall’avvio di un processo spontaneo di riconversione produttiva. Non siamo fermi. Le aziende si industriano per cercare nuovi mercati di sbocco. Se la domanda interna non ha un’adeguata forza di attrazione, ecco allora tentare di forzare le frontiere delle esportazioni. Per la prima volta dopo tanto tempo il loro peso sul Pil è risulta-
prima pagina
17 dicembre 2009 • pagina 3
L’esponente Pdl fa una proposta al ministro dell’Economia
E adesso giù le tasse per i dipendenti Lo scudo fiscale farà incassare quasi 2 milioni in più Il governo dovrà usarli per diminuire le imposte di Giuliano Cazzola sempre possibile fare meglio e di più, soprattutto quando i partiti che lo propongono stanno all’opposizione. Ma questa volta bisogna riconoscere che Giulio Tremonti non ha sbagliato una sola mossa. Certo, il ministro dell’Economia persegue dall’inizio della XVI Legislatura e ancor più da quando è scoppiata la crisi un suo preciso disegno strategico basato su un moderato «interventismo» del Governo purché sia compatibile con una relativa tenuta (si potrebbe parlare di «squilibrio sostenibile») dei conti pubblici. Questa linea di condotta è stata criticata dalle opposizioni, le quali avrebbero preferito ampi programmi di spesa pubblica in funzione anticiclica, simili a quelli adottati in altri Paesi e risultati, alla prova dei fatti, piuttosto deludenti. Anche le opposizioni, però, dovrebbero avere l’onestà intellettuale per riconoscere che, all’interno di quella strategia generale da loro contestata, il superministro dell’Economia ha compiuto atto e scelte non solo coerenti, ma anche centrate.
È
“
Il che significa – se non altro – che sono cambiate le scale di priorità delle famiglie, le quali magari «tirano la cinghia» per altri generi di consumo, ma non rinunciano a certi stili di vita, divenuti correnti nei tempi delle «vacche grasse» (tutto ciò dovrebbe far riflettere sulla retorica della «quarta settimana»). Tornando allo «scudo fiscale», i dati sono confortanti, al punto da suggerire una proroga dei termini di scadenza. Sembra che siano rientrati almeno 110 miliardi di euro in capitali sottratti al fisco. A questo ammontare corrisponde un gettito di 5,5 miliardi, poco meno di 2 miliardi in più di quelli ipotizzati, in Finanziaria, a copertura degli interventi previsti. Si determineranno, a breve, delle disponibilità ulteriori, per la cui utilizzazione si muoveranno interessi potenti. Il Governo dovrà tener fede a quanto non solo ha promesso, ma inserito anche nella Finanziaria. In sostanza, la destinazione delle maggiori risorse è già scolpita nella legge, laddove, al secondo comma dell’articolo 1 è scritto che le maggiori disponibilità di finanza pubblica che si realizzassero nel 2010 rispetto alle previsioni del Dpef 2010-2013, «sono destinate alla riduzione della pressione fiscale nei confronti delle famiglie con figli e dei percettori di reddito medio-basso, con priorità per i lavoratori dipendenti e i pensionati».
A questo proposito la Finanziaria è chiara: per la detassazione vengono individuati soggetti molto precisi, mentre ne sono esclusi altri: le imprese, per esempio
La Banca d’Italia, proprio nel giorno dell’approvazione della Finanziaria alla Camera, ha descritto la perdeta di ricchezza delle famiglie to maggiore, sempre nel terzo trimestre dell’anno, a quello delle importazioni. Ma la somma degli sforzi individuali non può sostituirsi alla mancanza di una politica nazionale. Dopo il contenimento degli effetti più devastanti della crisi – operazione che ha ottenuto un discreto successo – occorre ora pensare al dopo. È necessaria una regia che sia condivisa. Ma è proprio questo l’anello mancante di una lunga catena. La fibrillazione del sistema politico, con le sue contrapposizioni al tempo stesso ideologiche e strumentali, ha desertificato il luogo delle possibili strategie. Nessuna discussione seria. Nessun tentativo di mettere un freno ad uno scontro che non è solo politico, ma istituzionale. Una rissa permanente che si nutre di episodi dolorosi – si veda la recente aggressione contro Silvio Berlusconi – in forte e netta controtendenza con i comportamenti responsabili di migliaia di famiglie che badano al sodo, cercando di proteggersi come meglio riesce loro. Nonostante le incertezze; una disoccupazione ben più alta delle cifre ufficiali, visto il grande serbatoio della cassa integrazione; una
pubblica amministrazione che non è ancora entrata del terzo millennio, ma vive ripiegata su se stessa, con i suoi riti e le sue fobie. Non abbiamo molto tempo per rimettere in fila le cose. Per questo occorre una tregua, almeno tra le forze politiche – di maggioranza e di opposizione – responsabili.
Questa è l’indicazione che proviene dai comportamenti della maggior parte delle famiglie italiane. E a questi comportamenti occorre rifarci. Poi le frange di ribellismo, che da sempre hanno caratterizzato la storia nazionale, continueranno a dire la loro. Ma sarà come parlare nel deserto, sempre che non si abbandoni il terreno della protesta pacifica. Problema d’ordine pubblico, più che di carattere politico. Possono sembrare discorsi estranei, ma non lo sono. Le componenti vere della Nazione hanno reagito con coraggio ad una crisi che viene da lontano. È giunto forse il momento che la politica ne sappia leggere i comportamenti ed interpretare le aspirazioni. C’è una grande forza in campo. Non lasciamola deperire.
Così, il disegno di legge finanziaria per il 2010 – leggero come una piuma all’avvio – oggi mobilita nove miliardi di euro, grazie a coperture aggiuntive che evitano accuratamente il ricorso a nuove tasse, che si avvalgono di un’operazione di finanza creativa sui tfr depositati nel Fondo Tesoro (un’istituzione voluta dal governo Prodi a scapito dell’autofinanziamento delle imprese da 50 dipendenti in su) e che, soprattutto, possono utilizzare le entrate derivanti dal rientro dei capitali (dal cosiddetto scudo fiscale), in un contesto complessivo in cui il gettito tiene, grazie anche alla lotta all’evasione e l’economia dà segni sempre più netti di ripresa, pur tra mille difficoltà. L’Italia è veramente uno strano Paese: le difficoltà delle famiglie sono state gravi e non sono ancora finite; eppure si è registrato un vero e proprio boom nell’immatricolazione delle auto e nelle prenotazioni turistiche durante il periodo natalizio.
”
La norma è chiara: vengono individuati dei soggetti molto precisi, mentre ne sono esclusi altri: le imprese, per esempio. Ed è giusto così, dal momento che le associazioni rappresentative, a partire dalla Confindustria, si sono concentrate sul taglio dell’Irap, una misura che, una volta attuata, creerebbe ben più problemi di quanti consentirebbe di risolvere. Dovranno essere, dunque, i lavoratori dipendenti e i pensionati, nell’ambito dei nuclei familiari con reddito medio –basso e con figli, i prossimi destinatari della riduzione della pressione fiscale (è questo, non i trasferimenti, lo strumento individuato per migliorare il reddito di una parte consistente della popolazione).
prima pagina
pagina 4 • 17 dicembre 2009
Conti/2. Savino Pezzotta critica la manovra ed elogia il presidente della Camera, garante delle regole parlamentari
Finanziaria con il fiato corto «Non si possono fare solo dei tagli lineari, occorrono riforme serie per trovare le risorse da destinare a giovani, famiglie e imprese» di Franco Insardà
Resta invece la Social card. È una misura molto flebile. Non dico che bisognava introdurre subito tutto il quoziente familiare, però si poteva incominciare con dei segnali in questa direzione. Non si può dire: lo faremo alla fine della legislatura, perché un governo si misura anche per la capacità che ha di mettere all’interno di un processo legislativo obiettivi di lungo periodo. Altro tema importante è quello del lavoro. Insisto: nel nostro Paese c’è una sottovalutazione della questione. Da settimane sentiamo parlare di ripresa, ne sarei felice, ma le cifre dimostrano il contra-
ROMA. «Dopo tutte le promesse fatte, dopo la partecipazione di molti esponenti della maggioranza al Family day, la famiglia esce da questa Finanziaria non soltanto indebolita, ma quasi inesistente. E pensare che in campagna elettorale si era addirittura parlato di quoziente familiare. Con questa manovra il ministro Tremonti si è assunto il compito di fare il custode del tesoro e del debito. Non si può pensare di fare soltanto dei tagli lineari, bisogna prevedere delle riforme serie delle pensioni, del welfare e della pubblica amministrazione per trovare le risorse da destinare a giovani, famiglie e imprese. Questi sono i punti centrali di una politica economica e industriale che guarda al futuro. Non si può competere in un’economia globale che ripartirà, senza cambiare il paradigma tecnologico e spostandoci su livelli più avanzati. È necessario pensare in grande per stimolare la fiducia, invece la Finanziaria crea corporativismo, frammentazione a scapito di una progettualità di largo respiro». Savino Pezzotta, dichiarando il voto contrario dell’Udc alla fiducia posta dal governo alla manovra, ha sottolineato soprattutto la mancanza di fondi per sostenere i bisogni delle famiglie italiane in un momento così difficile. Onorevole Pezzotta, il ministro Tremonti ha promesso un nuovo sistema fiscale con bonus alle famiglie che nella Finanziaria, però, ha tagliato. Non ci si rende conto di quale è lo stress che si è accumulato sulle famiglie e gli ultimi dati Censis sono molto eloquenti. Quest’anno le famiglie hanno beneficiato del calo del petrolio e di una bassa inflazione. Ma cosa succederà nel 2010 quando queste condizioni spariranno? La “fortuna”che le famiglie hanno avuto quest’anno è stata quello di cambiare il loro stile di vita, modificando il modo di fare la spesa anche nel settore alimentare. Nelle case ci sono sempre più persone in cassa integrazione, o disoccupati, soprattutto giovani. Non ci si rende conto dei danni causati dalla crisi sul tessuto sociale e sulle condizioni di vita. Se l’inflazione aumenta o diminuisce a un disoccupato non gli cambia molto. In che senso? Continuando a utilizzare soltanto gli strumenti degli indicatori dell’analisi economica, indubbiamente utili, si perde di vista la concretezza della realtà. La politica ha bisogno di un rapporto diretto con la vita quotidiana, non si può vivere di percentuali sull’inflazione e sul Pil, altrimenti si finisce per arrivare alla famosa media di Trilussa. Qual è, allora, la situazione reale? La povertà nelle famiglie aumenta, le difficoltà nel lavoro sono in aumento, la cassa integrazione si espande. Que-
“
La gente non ne più di questo bipartitismo e del bipolarismo stravolto che sembra fondarsi soltanto sullo scontro
”
sta è la realtà e bisogna guardare alle necessità dell’economia partendo dai bisogni e dalle sofferenze che oggi le persone vivono. Senza dimenticare i tagli previsti per i Comuni. Saranno un ulteriore problema per le famiglie, perché gli enti locali dovranno per forza ridurre i servizi erogati. Tremonti nel 2005 prometteva soldi ai bambini appena nati oppure risorse per gli asili, e oggi? Sono scomparsi una serie di finanziamenti come, per esempio, quello per l’inclusione sociale degli immigrati, per il servizio civile, per le pari opportunità e per le politiche giovanili. Per non parlare appunto del fondo per l’infanzia e l’adolescenza, ma per le stesse politiche familiari si sono verificate sostanziali riduzioni.
rio. Il ricorso alla cassa integrazione è molto alto e segnala un passaggio da quella ordinaria alla straordinaria. E questo che cosa significa? Una cosa molto evidente: le imprese hanno spostato in avanti la prospettiva di ripresa. Se poi aggiungiamo le molte persone in mobilità, che altro non è che l’anticamera del licenziamento, e i giovani che hanno perso anche i lavori precari la situazione diventa davvero drammatica. I disoccupati stanno raggiungendo i due milioni, ai quali vanno aggiunti i senza lavoro. Con questi numeri siamo oltre la soglia dell’otto per cento. Siamo nei livelli europei. Questo è l’errore di qualche ministro, perché il tasso di disoccupazione va collegato a quello di occupabilità che resta al di sotto degli stessi indicatori assegnati da Lisbona. Ma in questa Finanziaria il governo ha messo dei soldi veri? Tranne il fondo per la nonsufficienza, per il resto c’è ben poco. Anche del miliardo e 125 milioni per gli ammortizzatori sociali ben 860 milioni saranno assorbiti dalla proroga alla detassazione dei salari di secondo livello. Il dubbio è capire quanti saranno usati per questa
misura, con tutte le aziende in ristrutturazione e in cassa integrazione che , purtroppo, non potranno prevedere il secondo livello. E i sindacati? Non sarebbe male se il fronte sindacale facesse sentire la sua voce e si ricompattasse per portare al primo posto dell’agenda politica del Paese il tema dell’occupazione. Ma questa Finanziaria chi ha accontentato? I lavoratori sicuramente no, forse qualche imprenditore, anche se non mi sempre che il presidente di Confindustria stia facendo i salti di gioia. Lo scudo fiscale ha incassato più del previsto. Scatterà un nuovo assalto alla diligenza? Tremonti come dovrebbe usare queste risorse? Bisognerebbe investirle sul lavoro e sul sistema formativo e produttivo. È necessaria una scelta drastica per sostenere i primi segnali di ripresa. Il dibattito sulla Finanziaria è capitato in un momento particolare e poteva esser l’occasione per una vera svolta, invece? Abbiamo condannato e condanniamo gli episodi di violenza. Avendo vissuto le contestazioni della piazza capisco gli stati d’animo, ma credo, come ho detto anche nel mio intervento, che il presidente del Consiglio debba chiudere i falchi nelle gabbie e aprire le porte alle colombe. La fiducia alla Finanziaria non ha alcuna spiegazione. Tra le altre cose buona parte degli emendamenti dell’opposizione correggevano alcune contraddizioni presenti nella manovra. L’assenza fisica di Berlusconi dalla scena politica ha, però, incoraggiato più i falchi che le colombe. Il premier sa benissimo come trattenere i falchi. È compito suo. Come giudica la posizione del presidente Fini, in dissenso con la sua maggioranza? Ha difeso il Parlamento e più che dissenso parlerei di una posizione connaturale al suo ruolo istituzionale. Anche quelli della maggioranza dovrebbero ringraziarlo, perché difende una istituzione che appartiene a tutti, maggioranza e minoranza, ed è una garanzia della democrazia. Una posizione che raccoglie consensi nell’opinione pubblica, come accade per il presidente della Repubblica. Credo che la gente non ne possa più del bipartitismo e del bipolarismo stravolto che sembra fondarsi solo sullo scontro. Si ha l’impressione che, messo in biblioteca Carl Marx, sia stato tirato fuori Carl Schmitt e la sua tesi dell’ “amiconemico”che alla fine porta a disgregare. Vede la possibilità di una sfida tra Fini e Berlusconi? Fini è nel Pdl, ma non accetta che sia una struttura padronale, vorrebbe un partito di dibattito e di confronto. Ho dei
prima pagina
17 dicembre 2009 • pagina 5
Duro attacco del presidente della Camera: «La politica ha superato il livello di guardia»
Prove tecniche di autonomia Fini riunisce gli ex An di Riccardo Paradisi l presidente della Camera Gianfranco Fini è pronto a fondare un nuovo gruppo parlamentare con i suoi fedelissimi». La voce prende a girare alla Camera dei deputati da metà mattinata e viene confermata da ambienti del Pdl provenienti da Forza Italia. A far sciogliere le riserve di Fini e sancire di fatto la rottura con il Pdl sarebbero state le tensioni di martedì sulla finanziaria suscitate dalla decisione del governo di porre la questione di fiducia. In particolare il durissimo discorso del capogruppo Pdl Fabrizio Cicchitto non sarebbe stato gradito per i toni usati, in un giorno che poteva rappresentare un ”nuovo inizio” nei rapporti tra maggioranza e opposizione. In Transatlantico le voci sull’ipotesi di costituire un gruppo parlamentare autonomo formato dagli ex di An –
«I
lonnelli – secondo i retroscenisti più arditi – testimonierebbe della veridicità di quanto si sta ipotizzando. Il presidente della Camera – dopo una riunione infuocata di ex An il giorno precedente – avrebbe riunito i suoi per sondare la disponibilità di quanti tra loro sarebbero disposti a seguirlo. La collocazione sarebbe sempre nel centrodestra, ma offrendo al governo un appoggio esterno e contrattando di volta in volta il sostegno ai vari provvedimenti. Come l’Mpa di Lombardo. Senonchè contattati gli ex An più dichiaratamente finiani ti senti rispondere che non ne sanno nulla di nuovi gruppi parlamentari, che probabilmente si tratta di voci messe in giro ad arte dai falchi del Pdl per tentare di isolare di nuovo Fini che ha finalmente ristabilito un contatto diretto con il premier. Andandolo a trovare in ospedale lunedì mattina e deplorando con lui martedì, in una cordiale telefonata, l’atteggiamento di Tremonti e gli at-
dell’imminente rottura di Fini si aggiungono l’incontro mattutino nello studio di Fini con il segretario del Pd Pierluigi Bersani e il colloquio con Pier Ferdinando Casini con il quale Fini si è fermato a chiacchierare per una decina di minuti.
Senonché come acqua sul fuoco arrivano puntuali le secche smentite. Tra tutte quella di Ignazio La Russa: «Nessuna ipotesi di un gruppo parlamentare finiano è stata fatta nel pranzo con Fini, una leggenda metropolitana, ma la convinzione condivisa di non dover sprecare l’occasione che arriva da un fatto negativo, l’aggressione a Berlusconi, per instaurare un clima nuovo. Cosa c’è di strano nel fatto che prima di Natale Fini incontri un gruppo di ex aennini?». Le cose si ridiminesionando dunque. Si sgonfia l’ennesima bolla politico-giornalistica: nessun nuovo gruppo parlamentare, nessuna scissione. Però insomma anche la versione di La Russa è troppo minimal. Il pranzo offerto dal presidente della Camera per gli auguri natalizi è durato circa due ore, presenti tra gli altri i ministri Ignazio La Russa, Altero Matteoli, Andrea Ronchi, il viceministro Adolfo Urso, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, i vertici parlamentari Maurizio Gasparri e Italo Bocchino, Donato Lamorte. A loro Fini avrebbe chiesto di appoggiare e dare peso alle sue posizioni. Il presidente della Camera ha puntato il dito contro i «tanti problemi che ci sono all’interno del Pdl nel rapporto il partito e la Lega» ed espresso ai suo interlocutori l’auspicio di«affrontare i poblemi in modo unitario da chi era in An fino a ieri. Sarà il tempo - ha chiosato Fini- a dare risposte». Non nasce un nuovo gruppo parlamentare di ex An, non c’è nessuna scissione in corso, ma quello di Fini ai suoi ex è un messaggio da capo politico di un partito che più che sciolto sembra essere in sonno. Sarà il tempo a dirci se e quando An verrà richiamata in vita. In serata nella conferenza di fine anno con la stampa Fini riacquista il suo ruolo istituzionale e indica il presidente Napolitano come stella polare per riportare la politica al di qua della soglia d’allarme cui è arrivata.
Non nasce un nuovo gruppo parlamentare, ma arriva un messaggio da capo politico di un partito “in sonno”. Asse di ferro con Napolitano: «Le sue parole stella polare» una ventina di deputati, in prima battuta – si ingigantiscono, fino al punto che di questa ipotesi se ne comincia a costruire una genealogia. Fini sarebbe stato pronto da tempo a questo passo, la risposta del Pdl all’aggressione subita da Berlusconi costituirebbe il pretesto.
E poi sarebbe pronto da tempo per Fini anche un provvedimento di espulsione – anche questa voce si aggiunge ai rumors ormai incontrollati che percorrono la cittadella politica – provvedimento che starebbe per diventare operativo. Il presidente della Camera ne è a conoscenza e avrebbe deciso di andarsene con le sue gambe. E del resto il pranzo natalizio di Fini dei suoi ex codubbi che si riesca a farlo, perché i partiti non si costruiscono mettendo insieme cose diverse, ma nascono da un sentire, dalle culture che si uniscono attorno a un progetto. Oggi tocca al centrodestra, ieri è toccato al centrosinistra con Il Pd. Che cosa bisognerebbe fare? Non credo che per il nostro Paese il sistema bipolare sia congeniale e ci ha preci-
pitato in una spirale violenta, che potrebbe essere non più controllabile. Non sono d’accordo con Veltroni che il proporzionalismo sia la causa dei mali, i fatti dimostrano che lo sia il bipolarismo. Sulla Finanziaria c’è stata tensione soprattutto tra Fini e Tremonti. Dissidi antichi mai sopiti? C’è, evidentemente, una visione diversa delle politiche economiche
tacchi ”violenti e incendiari” di Cicchitto. Il circolo più prossimo al Principe avrebbe vissuto come una minaccia per il proprio potere di prossimità il riavvicinamento del presidente della Camera con il Cavaliere e si sarebbe subito messo al lavoro per ricacciarlo nella caricatura dell’infido alleato, pronto a tradire il premier proprio nel momento della debolezza. A veder bene si tratta della linea tracciata proprio ieri dal Giornale: «Schiaffo di Fini al premier ferito», titolava Vittorio Feltri riferendosi alla censura del presidente della Camera alla scelta del governo di porre la fiducia sulla finanziaria definita ”deprecabile”. Insomma lo stato di tensione induce non pochi a pensare che qualcosa potrebbe succedere, che Fini annuncerà la sua decisione. La voce arriva anche all’esponenete rutelliano bruno Tabacci che mostra di crederci: «Rutelli era uno dei soci fondatori del Pd e ne è uscito. Fini è stato uno dei soci fondatori del Pdl ed è in sofferenza, se non già in uscita». Come indizi a carico
Da più parti si invita ad abbassare i toni, ma si ha l’impressione che nessuno voglia fare il primo passo? Non è proprio così. L’Udc, in tempi non sospetti, per stemperare le tensioni ha proposto un disegno di legge sul legittimo impedimento. Siamo stati criticati da tutti, oggi i fatti dimostrano che avevamo visto giusto per consentire di governare il Paese.
Si arriverà a una mediazione? Noi insistiamo. La politica deve tornare ad avere un ruolo pedagogico e non può essere intesa come una lotta tra guelfi e ghibellini, altrimenti alla fine qualcuno va oltre. Si è persa una delle caratteristiche principali della politica: la mediazione che consente di costruire delle prospettive e di indicare dei percorsi verso il bene comune.
diario
pagina 6 • 17 dicembre 2009
Tensioni. Resta rovente il clima politico. Il premier ricoverato ancora per un giorno: «Ha difficoltà a mangiare»
Berlusconi resta in ospedale Allarme per un pacco bomba esploso nella notte alla Bocconi ROMA. Silvio Berlusconi resterà immerso fino a oggi pomeriggio nell’oasi di tranquillità del San Raffaele.Tale è da definirsi, l’ospedale milanese, rispetto al tellurico contesto esterno: quello politico, in cui le accuse rivolte da una parte a Marco Travaglio, Repubblica e Paolo Flores D’Arcais («avvelenato e sconvolto», secondo il sempre più estremo Giancarlo Lehner del Pdl), dall’altra a Fabrizio Cicchitto, allontano sempre più il Paese dagli auspici di Napolitano; ma anche quello di una coltre rabbiosa e inquietante che fa da detonatore a una bomba vera e propria, con tanto di timer puntato sulle 3 della notte tra martedì e mercoledì, rinvenuta all’università Bocconi di Milano. Due chili di dinamite mai esplosi (solo per un difetto di “fabbricazione”) e contenuti in un plico, nascosto nell’intercapedine tra uno sgabuzzino e un corridoio sotterraneo che collega due edifici dell’ateneo. C’è anche un volantino di rivendicazione a completare il quadro da incubo: oltre alla descrizione dell’ordigno, trascritta con paranoico scrupolo dagli attentatori, la lettera fatta recapitare alla redazione di Libero è firmata dalla “Federazione anarchica informale”, la stessa che ha messo la propria firma sul paccobomba lasciato al Cie di Gradisca d’Isonzo. Nella lettera riferita all’ordigno della Bocconi c’è anche una citazione delle “Sorelle della libertà”. Che l’atmosfera si fosse fatta molto pesante, dopo l’ag-
di Errico Novi
che Berlusconi potesse essere ricoverato per altre ventiquattr’ore, anche se nel bollettino si assicura che le dimissioni avverrano «non oltre le prime ore del pomeriggio di domani (oggi per chi legge, ndr)»), circola già dalla mattina. È il sottosegretario e portavoce del capo del governo, Paolo Bonaiuti, a spiegare che «non sarà facile» per Silvio tenere la consueta conferenza stampa di fine anno a Villa Madama. Le notizie diffuse qualche ora più tardi dal dottor Zangrillo non fanno che confer-
Ancora poco chiara la dinamica dell’esplosione rivendicata da un ignoto gruppo anarchico con un volantino al quotidiano “Libero” gressione di piazza Duomo, era evidente. Ma nessuno immaginava che subito gli eventi potessero precipitare a questo punto. Non possono passare in secondo piano, d’altronde, le condizioni del premier. «Contrariamente a quanto comunicato nella giornata di ieri (martedì per chi legge, ndr), abbiamo dovuto prolungare di un giorno la permanenza del premier in ospedale». Alberto Zangrillo, primario anestesista del San Raffaele di Milano e medico di fiducia del presidente del Consiglio, non sorprende nessuno. La previsione
mare queste riserve, e anzi impongono «un periodo di tutela, confermato e indicato da strette ragioni cliniche»: in pratica Berlusconi non potrà partecipare ad impegni pubblici «almeno per i prossimi 10-15 giorni». Oltre all’incontro con i giornalisti è dunque in fortissimo dubbio anche la notte di Natale con i terremotati dell’Aquila, a cui il premier teneva moltissimo.
È vero che, come dice Bonaiuti, «il presidente è una macchina da lavoro», che «si alza alle 7 del mattino e va
L’Agcom e l’obiettività dei servizi sull’aggressione
Inchiesta sulla Rai MILANO. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, presieduta da Corrado Calabrò, relatori Mannoni e Lauria, ha deciso all’unanimità dei presenti di aprire un’istruttoria per verificare il rispetto da parte della Rai degli obblighi di obiettività, di equilibrio dell’informazione, di non incitazione alla violenza e di effettiva osservanza del contraddittorio nelle trasmissioni di informazione. Su questo tema saranno anche auditi prossimamente dal Consiglio dell’Autorità i vertici della Rai. Lo riferisce la stessa Agcom in una nota. «Al riguardo, com’è noto, autorevoli appelli sono stati rivolti nei giorni scorsi dal Papa per un’informazione scevra dall’odio politico e dal Presidente della Repubblica per ricondurre ogni contrasto politico ed istituzionale entro i limiti di responsabile autocontrollo e civile confronto. Appello unanimemente accolto e rilanciato - aggiunge l’Agcom-
nel documento del Presidente Zavoli approvato dall’Ufficio di presidenza della Commissione parlamentare di vigilanza, che ha chiesto alla Rai e ai media che si dica tutto, nel rispetto della verità e della completezza, ma senza cadere in “tonalità apocalittiche” o nella “pratica dell’ammorbidimento”, tenendo presente che la politica ha i suoi linguaggi, ma che chi la interpreta non può dimenticare di essere al servizio di tutto il Paese». Intanto, resta a San Vittore, Massimo Tartaglia, l’uomo di 42 anni di Cesano Boscone che domenica sera si è reso responsabile dell’aggressione nei confronti del premier Silvio Berlusconi. Lo ha deciso ieri il Gip di Milano, Cristina Di Censo, bocciando la richiesta dei difensori di Tartaglia che, in occasione dell’udienza di convalida del fermo, avevano chiesto per il loro assistito il ricovero in una comunità terapeutica.
avanti fino alle 2 di notte». Assolutamente plausibile il ritratto secondo cui «colpirlo è come cercare di fermare un panzer, un carro armato dicendo “fermati fermati”, con il rischio di essere travolti». Ma è vero anche che «il colpo è stato durissimo», tanto da ravvivare il solito dolore al collo, come racconta lo stesso sottosegretario. Non a caso le prime notizie che in mattinata filtrano dal San Raffaele non possono minimizzare le sofferenze notturne del presidente del Consiglio: come minimo c’è un forte mal di testa, e qualche ora più tardi Zangrillo parlerà di una «sintomatologia dolorosa non sempre controllabile» e del perdurare di «difficoltà ad alimentarsi spontamente», tanto che le flebo sono ancora indispensabili. Insomma: il premier non è messo benissimo, com’è ovvio che sia dopo il colpo terribile di domenica sera, e questo un po’ dovrebbe far riflettere la politica, impegnata invece per tutta la giornata a rinfacciarsi accuse pesantissime.
Consapevoli di poter fare poco per influire sul clima, i magistrati della Procura di Milano coordinati da Armando Spataro riescono almeno a gestire correttamente le informazioni su Massimo Tartaglia e sulle indagini che riguardano l’aggressore di piazza Duomo. Non si esclude, fanno filtrare gli inquirenti, di ricorrere a una perizia psichiatrica: elemento utile a intendere come l’inchiesta converga sempre più sull’ipotesi del gesto sconsiderato e, soprattutto, isolato, al di là del grado di premeditazione. Non ha avuto dubbi il gip milanese Cristina Di Censo nel bocciare la richiesta dei difensori di Tartaglia: secondo gli avvocati, il 42enne di Cesano Boscone avrebbe dovuto essere trasferito in una comunità terapeutica, resterà invece a San Vittore, comunque in una cella singola all’interno del reparto psichiatrico del penitenziario, costantemente monitorato da un pool di medici.Viene così in qualche modo accolta anche la preoccupazione del padre di Tartaglia: a suo giudizio, il figlio potrebbe «abbandonarsi a un gesto sconsiderato». Tanto che per alleviarne il senso di colpa viene rivolta anche la preghiera, a Berlusconi, di «perdonarlo».
diario
17 dicembre 2009 • pagina 7
Un intervento su eutanasia e aborto all’udienza generale
Storico accordo con la Commissione sulla libera navigazione web
Papa Ratzinger contro la dittatura del relativismo
Microsoft-Ue, è finita la guerra dei browser
CITTÀ
DEL VATICANO. Sono «ispirate alla legge naturale», e per questo «non possono essere abrogate» le norme che «tutelano la sacralità della vita umana e respingono la liceità dell’aborto, dell’eutanasia e delle spericolate sperimentazioni genetiche». Lo ha ribadito Benedetto XVI nell’udienza generale di ieri in Vaticano. Il Pontefice ha denunciato uno «scollamento preoccupante tra la ragione che ha insiti i principi della legge naturale - e la libertà che ha la responsabilità di accoglierli e promuoverli». Poi ha sottolineato che «le leggi che si ispirano a una corretta laicità dello Stato comportano la salvaguardia della libertà religiosa e perseguono la sussidiarietà e la solidarietà, nazionale e internazionale». Seguendo questo ragionamento, ha condannato la «dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e lascia come unica misura solo l’io e le sue voglie. Nel nostro tempo, soprattutto in alcuni Paesi, assistiamo a uno scollamento preoccupante tra la ragione, che ha il compito di scoprire i valori etici legati alla dignità della persona umana, e la libertà, che ha la responsabilità di accoglierli e promuoverli». Il Papa ha citato la sua ultima enciclica Caritas in veritate, in cui ha scritto che «la verità e l’amore che essa dischiude non si possono produrre, si possono solo accogliere. La loro fonte ultima non è, né può essere, l’uomo, ma Dio, ossia Colui che è Verità e Amore».
Partendo da qui, il Papa ha rivolto il suo monito: «L’azione sociale e politica non sia mai sganciata dalla verità sull’uomo. Esiste una verità oggettiva e immutabile, accessibile alla ragione umana e che riguarda l’agire pratico. Le autorità politiche e religiose debbono ispirarsi ad essa per promuovere il bene comune». Il riferimento del Pontefice, dunque, è alla ”legge naturale”, costituita, ha detto, da «norme che non possono essere abrogate».
Sanità, troppo rischioso congelare i debiti delle Asl Jannotti Pecci (Federterme): difficile ottenere liquidità di Francesco Pacifico
ROMA. Con poche righe della sua Finanziaria Giulio Tremonti ha difatto “congelato” i debiti della sanità verso i privati. Ma se il proposito è quello di rimpinguare le casse delle Asl delle Regioni commissariate, l’effetto rischia di essere dirompente: far subire al settore un’ulteriore stretta del credito, spingendolo in estrema ratio a chiedere soldi a condizioni onerosissime e a realtà borderline. L’ultimo patto sulla salute ha portato l’entità del fondo sanitario nazionale a 106,3 miliardi. Le Regioni commissariate e con i conti più in rosso sono cinque (Campania, Lazio, Puglia, Calabria e Molise). Il Sud povero impegna il doppio del suo Pil rispetto il Nord ricco (9 per cento contro 4,5). E in questo mare magnum di sprechi e pessima programmazione i privati accrediti non sempre si mostrano virtuosi. Eppure rischia di rivelarsi un boomerang l’articolo 79 della manovra che prevede dal primo gennaio 2010, e per dodici mesi, «non possono essere intraprese o proseguite azioni esecutive nei confronti delle aziende sanitarie locali e ospedaliere delle Regioni (commissariate, ndr) e i pignoramenti eventualmente eseguiti non vincolano gli enti debitori e i tesorieri». Il perché lo spiega senza giri di parole Costanzo Jannotti Pecci, presidente di Federterme, tra i cui associati ci sono 380 aziende che “vivono”grazie ai Drg. E si collega direttamente al principale strumento di rientro delle aziende del Sud che hanno rapporti con la pubblica amministrazione: la cartolarizzazione. «Con l’impignorabilità per 12 mesi sarà quasi impossibile cedere alle società di factoring. Queste, forti del fatto che nel migliore dei casi l’adempimento non potrà essere attivato con le procedure esistenti come l’esecutivà del pignoramento, o rifiutano l’operazione perché il credito non è monetizzabile oppure accettano il rischio a condizioni favorelissimi per loro». Va da sé che l’offerta si restringe. E di molto. «Non dico che per forza di cose deve andare così», aggiunge il presidente di Federterme,
«ma c’è il rischio che la cosa avvantaggi sistemi finaziari paralleli, che come tutti sappiamo sono nella maggior parte dei casi riconducibili a personaggi che operano al limite della legalità o fuori da essa». Se i primi effetti dovuti ai ritardi dei rimborsi sono una riduzione del personale se non la chiusura dell’attività, in estrema ratio e complice i bassi tassi d’interessi la norma può spingere gli imprenditori a cedere i crediti a finanziarie fittizze, che in questo modo potrebbero fare attività di reciclaggio con la garanzia statale. Questo rischio almeno si legge nelle parole di Jannotti Pecci. Hanno protestato anche tutte le aziende del settore, che almeno a livello parlamentare avrebbero avuto rassicurazioni su una correzione. Nota il professor Gabriele Pelissero, vice presidente dell’associazione italiana ospedali privati (Aiop): «Se l’obiettivo è quello di aumentare il livello di efficienza delle Regioni sotto accompagnamento ed evitare gli sprechi, tutto questo non lo si raggiunge minimamente evitando agli enti di pagare per un anno i loro debiti». E aggiunge: «Queste operazioni di maquillage colpiscono le aziende. Senza contare che il ricorso al factoring è già un’anomalia, visto che la pubblica amministrazione dovrebbe pagare in tempo».
Rinviati di un anno i pagamenti ai privati. Aziende costrette a operazioni di factoring con realtà borderline?
Dal Tesoro fanno sapere che sono state le Regioni a imporre quest’articolo, mentre il titolare del Lavoro (e fino a 48 ore titolare della Sanità) Sacconi avrebbe giurato di non essere a conoscenza della cosa. Smentisce ogni addebito uno degli “interessati”, l’assessore al Bilancio della Campania, Mariano D’Antonio: «Intanto è il governo che fa la Finanziaria. Eppoi questa norma, che pure nasce su buone intenzioni, non sarà un flop». Un flop? «Sì, perché al primo ricorso in Consulta, i giudici non potranno che rilevarne l’anticostituzionalità. E per quanto sarebbe stato un freno alla bramosia degli avvocati. Gente che quando deve occuparsi di un risarcimento da 50mila euro, presenta cinque istanze da 10mila l’una per poi chiedere altrettante parcelle».
ROMA. Il lungo braccio di ferro fra Microsoft e Commissione europea è finalmente finito: d’ora in poi gli utenti di Windows europei potranno scegliere con quale browser navigare su internet, senza più essere obbligati ad utilizzare esclusivamente Internet Explorer (Ie). Lo ha annunciato nella giornata di ieri la Commissione Europea stessa, che ha accettato l’impegno preso dalla Microsoft di Bill Gate di permettere ai produttori di personal computer e ai loro utenti di disinstallare Ie e sostituirlo con un altro browser di loro scelta. Il gigante degli Stati Uniti d’America ha in questo modo evitato una pesante multa da parte dell’antitrust europea, accettando dunque alcune delle modifiche al proprio sistema operativo richieste dall’Ue. Nel dettaglio, come detto il colosso americano ha accettato, nei prossimi cinque anni, di sottoporre a tutti gli utenti Windows la scelta del browser anche fra quelli della concorrenza, come Firefox di Mozilla), Chrome di Google e Opera, realizzato dalla societa’ norvegese Opera software. I costruttori di computer equipaggiati con Windows avranno la possibilità di disinstallare completamente Explorer. La Commissione ha reso obbligatorie queste modifiche e il gruppo Usa dovrà presentare regolari rapporti a Bruxelles, che riesaminerà il caso entro due anni. «Dieci milioni di consumatori europei avranno la possibilità di scegliere liberamente il navigatore Internet che preferiscono», ha commentato soddisfatta il Commissario alla Concorrenza, Neelie Kroes. Microsoft rischiava una multa pari al 10 per cento del suo giro d’affari mondiale (che dovrebbe raggiungere i 58,4 miliardi di euro nell’esercizio che si chiudera’ il prossimo mese di giugno). Bruxelles, che ha dichiarato guerra alla società di Bill Gates da molti anni, ha già multato Microsoft per 1,6 miliardi di euro per aver mantenuto segrete le informazioni relative ai propri software negandone la interoperabilità con i programmi di altri produttori.
mondo
pagina 8 • 17 dicembre 2009
Clima. Cina, Usa, Russia e Ue presentano posizioni diverse e inconciliabili, mentre Chávez accusa l’imperialismo occidentale
L’arresto di Copenhagen Tra black bloc fermati e negoziati interrotti, il summit aspetta l’arrivo dei leader mondiali di Vincenzo Faccioli Pintozzi questo punto, è lecito aspettarsi un colpo di scena. Senza un asso nella manica dei leader mondiali, che arrivano alla spicciolata da ieri sera nella capitale danese, saremmo infatti davanti a uno dei summit meno riusciti nella storia delle Nazioni Unite. Mentre il mondo continua a interrogarsi - e a chiedere risposte - sul riscaldamento globale, le delegazioni riunite nel Bella Center non fanno altro che litigare.
A
Come avviene anche all’esterno, dove gli arresti - fra manifestanti e black bloc - sono arrivati nella sola giornata di ieri a 250. E fra bozze vere, presunte o falsificate si ha l’impressione che, sul fronte delle trattative, si sia fermato tutto. L’attesa è per i capi di Stato e di governo, che devono rendere esplicite le loro intenzioni sugli impegni di riduzione dei gas serra e sugli aiuti ai Paesi in via di sviluppo da assumere di qui al 2020. I rappresentanti del governo cinese continuano a ripetere che, pur impegnandosi a consistenti tagli alle emissioni, non possono adottare riduzioni di quote
di gas serra analoghe a quelle cui dovrebbero tendere i Paesi industrializzati (20-30% entro il 2020), e sottolineano di essere ormai in prima linea nel mondo nell’impiego delle energie rinnovabili. L’India offre, come gesto di cortesia, una riduzione pari alla media della crescita del Prodotto interno lordo, ma sottolinea che si tratta di un’ipotesi non vincolante. Da parte sua, l’Unione europea punterebbe a superare il parametro
drà dopo il 2020», ha detto ai giornalisti a Strasburgo prima di volare a Copenaghen con il capo della Commissione europea José Manuel Barroso. L’Unione europea - finora - si è impegnata a ridurre le emissioni di anidride carbonica del 20 per cento entro il 2020, rispetto ai livelli del 1990. Reinfeldt ha ammesso che l’Unione Europea potrebbe passare al 30 per cento, se gli altri grandi inquinatori decideranno di unirsi al-
La polizia effettua 250 fermi nei pressi del Bella Center, il caotico centro in cui si riuniscono le delegazioni per discutere di cambiamenti climatici fra le proteste dei no-global e delle Ong occidentali del 2020, fissato per la riduzione delle proprie emissioni di Co2, per mantenere l’impulso della lotta al surriscaldamento globale anche dopo quella data. «Gli sforzi sul clima non si fermeranno al 2020», ha affermato il premier svedese Fredrik Reinfeldt, il cui Paese detiene la presidenza di turno dell’Ue fino alla fine dell’anno. «È giusto avere delle idee e dei colloqui anche su quello che acca-
lo sforzo. I Paesi industrializzati no stanno invece valutando quanta parte delle loro quote di riduzione dovrà essere realizzata attraverso «impegni domestici» (cioè rinnovabili, risparmio ed efficienza in campo nazionale) e quanta attraverso meccanismi flessibili (riforestazioni, tecnologie verdi per i Paesi in via di sviluppo e commerci di quote di emissione). Ma a questo proposito diverse
organizzazioni non governative puntano il dito accusatore: «Stanno elaborando una serie di trucchi e scappatoie che potrebbero trasformare l’accordo in un colabrodo in cui, alla fine, le emissioni, invece di essere ridotte del 20-30 per cento entro il 2020, saranno aumentate del 4-10 per cento», afferma Maria Grazia Midulla, uno dei rappresentanti del Wwf presenti alla conferenza, al Corriere della Sera. Rimane ancora definire anche la forma che prenderà il trattato che uscirà dalla conferenza di Copenaghen: un prolungamento dell’attuale Protocollo di Kyoto e quindi un patto già ratificato e vincolante per la
maggior parte dei Paesi del mondo, tranne gli Usa che ci dovrebbero rientrare; oppure un nuovo Protocollo da sottoporre poi all’approvazione dei parlamenti nazionali.
Come pure rimane sospesa l’ipotesi che Copenaghen si risolva in una tappa intermedia di un futuro accordo da assumere l’anno prossimo a Città del Messico. Ipotesi ventilata ieri da Al Gore, dopo la brutta figura rimediata con la smentita sui suoi dati relativi al catastrofico, prossimo scioglimento del Polo Nord. Da registrare un avvicendamento alla guida di questa Conferenza: Connie He-
Il ministro per l’Ambiente di Delhi annuncia una mossa unilaterale, con una riduzione inferiore al dieci per cento
La “stretta” degli indiani: niente tagli airam Ramesh, ministro dell’Ambiente indiano presente in questi giorni alla Conferenza sui cambiamenti climatici di Copenhagen, è convinto che i colloqui in corso servano per ridurre la povertà nella sua nazione, e non per bloccare il riscaldamento globale. L’India - con 1,2 miliardi di abitanti – è il quarto inquinatore al mondo: il governo ha lanciato un’aggressiva politica industriale basata sul carbone per cercare di creare ricchezza, ad ogni costo. Ma dato che questa è una situazione relativamente nuova, l’inviato di Delhi è convinto che non sia l’India a dover pagare per gli errori degli altri. Ramesh, parlando nel corso di una conferenza stampa, ha chiarito ieri: «La prima priorità per tutti è quella di alleviare la povertà e trovare una strada per lo sviluppo sostenibile. Non possiamo accettare, in alcun modo, il concetto di ‘picco di inquinamento’ annuale per le nazioni in via di sviluppo».
J
di Massimo Fazzi Stati Uniti ed Europa, quelli che hanno più contribuito alle emissioni di diossido di carbonio». Il governo asiatico ha offerto una riduzione volontaria delle emissioni di carbonio pari a un punto per ogni punto percentuale di Prodotto interno lordo; gli Usa, invece «dovrebbero ridurre del 40 per cento le loro emissioni entro il 2020. Altrimenti non c’è giustizia». Nonostante la crescita del
India e Cina, nell’insolita veste di partner commerciali sul palcoscenico internazionale, hanno chiesto insieme alla Conferenza delle Nazioni Unite un contributo annuo pari a 200 miliardi di dollari: soltanto così, dicono i capi-delegazioni, «si potrà continuare a far crescere le nostre economie tagliando le emissioni. Senza questo contributo, non possiamo che continuare così». Fino ad oggi, gli Stati Uniti – che dovrebbero in gran parte contribuire a questo emolumento – hanno fatto orecchie da mercante. La posizione di Ramesh, non inaspettata ma comunque abbastanza dura, ha riscosso l’approvazione dei connazionali. Rajendra K. Pachauri, indiano e presidente del Pannello inter-governativo sul cambiamento climatico, spiega: «Ramesh ha un’ottima visione e un’eccezionale comprensione delle realtà commerciali ed economiche mondiali. Non avrebbe mai adottato una posizione rigida, se non avesse una buona soluzione per il problema». Ramesh ha inoltre costruito una serie di accordi regionali, prima di recarsi al vertice, che hanno dimostrato la fattibilità di un fronte comune per le
Secondo Jairam Ramesh, la vera priorità dell’incontro danese è quello di alleviare la povertà dilagante nei Paesi in via di sviluppo. E questo non si può fare senza industrie
Tuttavia, ha aggiunto il ministro, «l’India è d’accordo con l’idea di cercare di ridurre l’aumento delle temperature. Soltanto, questo scopo deve essere raggiunto da
Paese si aggiri intorno ai 6/7 punti percentuali l’anno, il Parlamento indiano – che ha dovuto approvare la proposta prima della partenza della propria delegazione – ha dato battaglia. Ramesh li ha convinti così: «Si tratta di un’offerta unilaterale, non negoziabile e non legalmente vincolante. Ma se non offriamo nulla, non possiamo chiedere nulla ai Paesi sviluppati».
mondo
17 dicembre 2009 • pagina 9
Sono tre le questioni chiave, che molto probabilmente slitteranno al 2010
Punto per punto, tutti gli scogli del clima di Alvise Armellini
degaard, l’ex ministro dell’ambiente danese che è stata per giorni presidente del summit, è stata sostiuita alla guida del summit dal premier danese, Lars Loekke Rasmussen. È stata la stessa “lady clima” ad annunciare il cambio della guardia ai delegati dei 193 Paesi presenti al meeting, spiegando che la decisione «ha ragioni di protocollo, stante la presenza al summit di decine di capi di Stato e di governo».
La Hedegaard era stata però pesantemente criticata dalle nazioni africane perché avrebbe favorito nei negoziati i Paesi ricchi. Immancabile la nota di
colore, rappresentata dal solito Hugo Chávez, che ha accusato: «I processi ingiusti del vertice di Copenhagen sono un riflesso della dittatura imperialista. I Paesi ricchi sono irresponsabili e mancano di volontà politica per arrivare ad un accordo. Va fermato il modello distruttivo capitalista, che ha prodotto un vertice come quello di Copenaghen, antidemocratico e esclusivo come la dittatura imperialista che guida il mondo». E oggi sale sul palco Ahmadinejad, mentre il mondo attende con ansia le parole di Barack Obama. Secondo un sondaggio fatto fra i partecipanti, infatti, «lui può salvare il vertice».
Sopra, la baia di Copenhagen nazioni in via di svilupcon la scultura di Jens Galschiot: po. Oltre al già citato una donna obesa (simbolo accordo con la Cina del mondo industrializzato) sulla posizione da tenesulle spalle di un esile uomo re ai colloqui di Copenhaafricano. A destra, geh, il ministro è riuscito un momento della conferenza nella capitale a convincere Delhi e Pedanese. Qui sotto, chino – rivali storiche in Gordon Brown campo economico, politico e culturale – a collaborare su progetti energetici, sia tradizionali che relativi alle fonti rinnovabili.
Entrambe le nazioni, inoltre, rifiutano le richieste dei Paesi sviluppati forti del loro nuovo ruolo di super-potenze mondiali in campo economico. Parlando alla televisione di Stato cinese nel corso dell’ultimo incontro bilaterale, avvenuto il 30 novembre, Ramesh ha infiammato le folle dichiarando: «Se le nazioni sviluppate continuano con queste richieste, dobbiamo dire con più durezza che non siamo disponibili. Vogliamo sfidare il mondo: siamo iper-attivi in tanti campi, ma c’è un limite a quello che possono fare di noi».
COPENHAGEN. Il vertice Onu di Copenaghen entra nelle sue battute finali, ma l’accordo globale sul clima non è ancora in vista. Lo stallo ruota principalmente intorno a tre grandi questioni, su cui si stanno dividendo i Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo. Emissioni.L’obiettivo è di limitare l’aumento della temperatura globale di due gradi rispetto ai livelli pre-industriali. Per arrivarci, gli scienziati sostengono sia necessario un taglio delle emissioni di CO2 tra il 25 e il 40%, a cui dovranno contribuire sia le nazioni industrializzate - riducendo complessivamente i loro gas serra - sia quelle in via di sviluppo - limitandone la crescita. Tra i Paesi ricchi, la Norvegia si è distinta per l’offerta più generosa, con una promessa del –40% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2020. L’Unione europea offre il 20% in meno ma è pronta a passare al 30% se le altre potenze economiche faranno sforzi “comparabili”. Gli Usa hanno risposto con il –17% entro il 2020 e il –34% entro il 2025 rispetto ai livelli del 1990, pari al 3-4% e al 18% in meno se l’anno di riferimento diventa il 1990. Il Giappone e la Russia si sono impegnati a ridurre del 25% entro il 2020, la Nuova Zelanda del 10-20%. Il Canada si è prefissato un taglio del 20% rispetto al 2006, pari al – 3% rispetto al 1990. Tra i Paesi in via di sviluppo, la Cina e l’India hanno promesso di ridurre entro il 2020 la quantità di CO2 emessa per ogni punto di Pil, rispettivamente del 40-45% e del 20-25% rispetto ai livelli del 2005. Allo stesso modo, le altre potenze emergenti hanno promesso riduzioni rispetto ai cosiddetti “scenari di politiche invariate”: il Sudafrica del 34%, il Brasile del 40% circa, l’Indonesia del 20%, la Corea del Sud del 30%, il Messico del 30%. Finanziamenti.Ai Paesi industrializzati si chiede di aiutare i Paesi poveri ad affrontare la crisi climatica, sia perché sono più ricchi sia perché sono responsabili delle emissioni emesse finora. I finanziamenti dovrebbero arrivare in due tranche: prima un pacchetto fast track fino al 2012, per il periodo restante di applicazione del Protocollo di Kyoto; poi un intervento molto più corposo per il 2013-2020, quando dovrebbe arrivare il nuovo Trattato globale sul clima. Per gli aiuti immediati i Paesi ricchi hanno offerto circa 7 miliardi di euro l’anno, mentre per quelli a lungo termine l’Ue ha proposto 100 miliardi di euro annui. Cifre che apparivano molto lontane dalle richieste dei Paesi po-
veri fino a ieri sera, quando il premier etiope Meles Zenawi, a nome dei Paesi africani, le ha sostanzialmente accettate. Resta ora da vedere se gli Usa sono disposti a mettere mano al portafogli, come l’Ue e il Giappone hanno fatto per gli aiuti 2010-2012, ma non per quelli a lungo termine. Monitoraggio.L’Unione europea e gli Stati Uniti vogliono che gli impegni sottoscritti a Copenaghen vengano sottoposti ad un meccanismo di monitoraggio internazionale che valga per tutti. Cina, India e le altre potenze emergenti offrono solo impegni volontari, e inoltre chiedono la continuazione degli impegni vincolanti di Kyoto, validi ovviamente per i Paesi che hanno applicato il Trattato. Gli Usa e le potenze emergenti come Cina, India e Brasile ne resterebbero fuori, e per questo l’Ue è contraria.
Emissioni, finanziamenti e monitoraggio: i Paesi presenti in Danimarca hanno decine di posizioni diverse per ognuna delle questioni. E l’Unione europea, come al solito, si divide I compromessi possibili.Sulle emissioni, l’Ue potrebbe dare ancora una volta il buon esempio, offrendo un taglio del 25-30% spalmato oltre il 2020, nella speranza di innescare reazioni positive da Usa e Cina. Anche se per l’Italia sarebbe una tattica suicida. «Il negoziato è bloccato dalle rigidità della Cina, degli Stati Uniti e dei Paesi in via di sviluppo, e l’Ue rischia di doversi prendere le responsabilità anche per gli altri», ha ammonito il direttore generale del ministero dell’Ambiente Corrado Clini, ricordando che i Ventisette rappresentano solo il 13% delle emissioni mondiali di CO2, contro il 50% di Washington e Pechino. I Paesi emergenti potrebbero a loro volta offrire riduzioni più ambiziose, se venisse loro offerta la “carota” di finanziamenti sul trasferimento di tecnologia “verde”. Altrimenti c’è il “bastone” dei dazi minacciati dagli Usa sui prodotti dei Paesi che non rispettano gli standard ambientali previsti per i Paesi industrializzati. Infine la presidenza danese potrebbe tirarsi fuori dalle secche riducendo le ambizioni del summit: nelle bozze che circolano, per esempio, sono spariti gli obiettivi sulla deforestazione. Da Copenaghen potrebbe uscire così una dichiarazione politica molto generica, che rinvierebbe al 2010 molte questioni di sostanza sulla spinosa questione.
pagina 10 • 17 dicembre 2009
panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Fermate Povia, il cantautore non fa più “oh” e canzoni con la rima amore e cuore, quelle un po’ stupidotte, ma orecchiabili, con una loro melodia di fondo, leggere, che ti fanno compagnia nella gioia e nella malinconia di qualche pomeriggio trascorso in automobile. Ecco, sono queste le canzoncine che hanno un loro senso: non hanno grandi pretese, anzi non hanno proprio pretese e l’unica cosa che vogliono essere è solo una canzonetta, come diceva Eduardo Bennato. Però, ci sono i cantautori che quando scrivono una canzone sanno che stanno interpretando lo spirito dei tempi e del mondo, che danno un senso alla vita e che, insomma, non dicono cose banali, ma cose intelligenti e serie. Prendete Povia: scrisse quella bella canzone - bella perché leggera, orecchiabile, nata da un’esperienza comunissima: la meraviglia del bimbo che fa oh - che ebbe un gran successo e perciò divenne famoso e apprezzato. Sfortunatamente per noi e per lui qualcuno scrisse che quella canzone era di destra e qualcun altro ribatté che invece era di sinistra e ci fu tutta una discussione da ubriachi per stabilire se i bambini che fanno oh sono di destra o di sinistra.
L
Chissà, sarà stato per questo perverso dibattito che Povia ha poi sfornato altri brani su temi sociali ed esistenziali come la fedeltà coniugale e la omosessualità che però ritorna eterosessualità. Ogni canzone, un dramma. Ogni canzone una discussione. Ogni canzone una visione del mondo. Tanto che della canzone non frega più niente a nessuno. Le canzoni di Povia ormai non si ascoltano per ascoltarle e canticchiarle, bensì per discutere e dire «come la si pensa»: una frase che più scema non potrebbe essere perché tratta il pensiero come fosse un pezzo di ricambio. Ora pare che Povia andrà al Festival di Sanremo, questa sciagura nazionale che ci tocca sorbirci ogni anno con la scusa della storia della canzone italiana e baggianate del genere. Naturalmente, Povia ha scritto per l’occasione un brano speciale. Poteva scrivere una canzoncina semplice semplice con la rima “cuore e amore”? No di certo. Ha scritto dei versi sul caso di Eluana Englaro. Così, tanto per tenersi leggero. La canzone non si conosce - ma vedrete che uscirà tra breve qualche indiscrezione - e quindi già è iniziato il gioco «ma cosa sosterrà Povia?», «è per l’eutanasia, è contro l’eutanasia?». Povia avrà anche un animo molto sensibile, ma non è facile allontanare il sospetto che vada in cerca del “caso” per avere successo. Ormai non ci sono quasi più le canzoni che sono solo canzoni e ogni artista va alla ricerca di una “trovata” per mettersi in mostra. A Sanremo ci dovrebbe essere anche Simone Cristicchi e sembra che la sua canzone prenda in giro Carla Bruni. Per carità, si può prendere in giro chiunquem, ma c’è qualcuno disposto a questi cantautori tutti così delicati, così buoni, così intelligenti, così colti, così civili, che devono solo cantare?
Il Pd “brucia” Penati nella corsa in Lombardia Non servono le primarie per la candidatura al Pirellone di Antonio Funiciello
ROMA. Perché Penati? Perché il PD manda proprio Penati contro Superman Formigoni? Perché quel Penati che ha già dato tanto alla causa e ha fatto un così bel lavoro come coordinatore della mozione Bersani ed è l’unica vera novità del gruppo dirigente ”romanocentrico”del Nazareno? È vero che lo stesso ha dato buona prova di sé alle provinciali dello scorso giugno, sfiorando la conferma a Palazzo Isimbardi; ma la sinistra, si sa, è da sempre forte a Milano. I dati delle politiche del 2008 parlano chiaro, rilevando che il primo collegio camerale della regione, che corrisponde alle province di Milano e Monza, è il migliore per il Pd indipendentemente da Penati. Anche se la tenuta milanese è appesantita dai ventuno punti di distacco dati dal centrodestra al centrosinistra alle recenti elezioni provinciali di Monza e Brianza. Nel resto della Lombardia, le cose vanno, invece, assai peggio. Alle politiche dell’anno scorso Pdl e Lega nel secondo collegio camerale doppiarono ampiamente Pd e alleati (59% a 28%). Insomma Penati è sì forte a Milano, come d’altronde il Pd, ma non tocca palla nel resto della regione. Sarebbe allora stato più ragionevole preservarlo dalla sfida regionale per schierarlo contro la Moratti nel 2001. Anche l’interessato era d’accordo; difatti, preferiva fare il capolista per le regionali a Milano, catalizzando su di sé i consensi del partito. Apriti cielo: sull’opzione preferita da Penati nel Pd meneghino è scoppiato un caso. Il sistema delle preferenza unica avrebbe, concentrando il grosso dei consensi sicuri su di lui, scatenato una guerra fratricida tra gli altri candidati consiglieri (penatiani e anti-penatiani). Penati ha alla fine accettato di fare il candidato presidente per affermare comunque, anche da sconfitto ma con un buon risultato nel capoluogo, la sua leadership, investendo nel medio termine su una futura candidatura sindacale. Ma solo in Italia - e solo nel Pd - si può credere che un candidato sconfitto due volte in nove mesi possa risultare una terza volta credibile per qualsiasi elettorato di qualsiasi elezione.
nesima sconfitta, definitivamente fuori dai giochi; i suoi sodali, invece, puntano sul consolidamento della sua leadership. Manca così soltanto il disegno strategico complessivo che il Pd dovrebbe avere ripresentando Penati. Si finisce per cadere in quelle contraddizioni in cui piombò il Pd romano, quando rivolle Rutelli candidato per il Campidoglio dopo l’abbandono di Veltroni. Ma se a Roma quell’approccio “privatistico” alla gestione della cosa pubblica fu sanzionato dagli elettori tanto duramente, figurarsi a cosa il Pd va incontro dando ai lombardi la stessa sensazione.
I democratici non riescono a distrarsi dai loro equilibri interni e dalle logiche che li presidiano e che affaticano anche le loro migliori energie in un circolo vizioso fine a sé. L’incertezza dei passi del Pd in Lombardia è confermata altrove. Si sa che Bersani e D’Alema sono scettici sull’utilizzo di primarie. Tuttavia la grande affermazione avuta da Bersani alle primarie nazionali che lo hanno eletto segretario, dovrebbe suggerire più miti valutazioni. E, anche volendo confermare l’avversità generale nei riguardi della competizione primaria, Bersani dovrebbe puntualizzare le modalità di selezione dei candidati presidenti alle prossime elezioni regionali. Si può essere più che legittimamente contro le primarie, ma scegliere a Roma il candidato per le regionali lombarde, ancorché lombardo lui stesso (e ci mancherebbe pure altro!), è quanto meno incauto.
Il partito del nord voleva “spendere” l’ex presidente della Provincia per la sfida alla Moratti
Per quanto la scelta di Penati non garantisca il Pd in termini aritmetici di tenuta, Bersani e D’Alema gli hanno comunque chiesto di candidarsi. Le due fazioni in cui il protagonismo penatiano tende a dividere il Pd lombardo non ne sono state comunque insoddisfatte. I suoi avversari interni confidano di vederlo, dopo l’en-
Cosa se ne farà da marzo in poi il Pd, in termini spiccioli di spendibilità politica, di un Penati recordman di sconfitte - con due elezioni perse in soli nove mesi - è difficile da capire. Ancor più nella successione temporale delle stesse, che porterà Penati dall’aver perso di misura contro Podestà alle provinciali, alla probabile disfatta contro Formigoni alle regionali. Nel lungo cammino che attende il Pd prima delle prossime elezioni politiche, manca al momento una vera programmazione del lavoro, che comprenda pure l’utilizzo delle proprie migliori risorse umane. Relegare i destini del Pd alla sola strategia delle alleanze è rischioso. E anche se si volesse perseguire unicamente questa strada, sul tavolo della santa alleanza contro Berlusconi i democratici potrebbero contare assai di più se la loro offerta alla coalizione si incarnasse in figure credibili e non bruciate da annunciatissime sconfitte.
panorama
17 dicembre 2009 • pagina 11
Da via Arenula neanche l’ombra della tanto annunciata riforma della categoria, mentre gli uffici giudiziari già tremano
Se la giustizia va in pensione Sono 3.500 i magistrati onorari di tribunale che stanno per cessare dalle loro funzioni di Marco Palombi
ROMA. Cosa vuole fare il governo con i magistrati onorari di tribunale? Una risposta, oramai decisamente urgente, la si attende dal ministro Guardasigilli, ovvero Angelino Alfano, che ha più volte annunciato che una riforma della categoria sarebbe arrivata entro l’anno (le professionalità «non vanno disperse», sostiene il nostro). Ebbene l’anno è finito e la riforma è ancora nella penna dei tecnici di via Arenula, solo che nel frattempo i magistrati onorari di tribunale - che dal 1998, di proroga in proroga, continuano a lavorare nei “palazzacci” d’Italia - stanno per cessare dalle loro funzioni in blocco il 31 dicembre prossimo. Il go-
Gli “ordinari” non vorrebbero la riforma organica perché, se si stabilizzassero gli “onorari”, magari poi toccherebbe dar loro uno strapuntino nel Csm verno - e il titolare della Giustizia in particolare - è stato più volte “interpellato” in Parlamento dalle opposizioni sull’argomento, da ultimo dalla radicale Rita Bernardini, ma finora Alfano non ha trovato il modo di rispondere, occupato com’è a riformare ben altri aspetti del sistema giudiziario. Una posizione “ufficiale”, fatto salvo un rinvio dovuto alla fiducia o a un’afasia fulminante dell’esecutivo, potrebbe arrivare oggi, ma - a stare alle indiscrezioni - sarà largamente insoddisfacente: proroga degli “onorari”(pagata chissà come) nel dl milleproroghe e, a seguire, una riforma del settore che non è affatto una riforma.
Ci torneremo ma intanto va chiarita la portata reale della questione che, essendo un fatto quotidianamente rilevante nei tribunali e nelle procure, non ha alcuno spazio nel dibattito politico e, duole dirlo, nemmeno in quello interno alle varie forme di rappresentanza delle toghe. I magistrati onorari di cui stiamo parlando - che non sono i giudici di pace - furono istituiti con legge del 1998 e si dividono in vice-
Paola Bellone, “vpo” a Torino, racconta la propria esperienza
Quando il processo è breve davvero ROMA. «A Torino, dove lavoro io, da quando le indagini per i reati di competenza del giudice di pace sono devolute ai Vpo (come previsto per legge), sotto il coordinamento di un sostituto procuratore, le archiviazioni sono aumentate del 50%. Vuol dire che si fanno meno processi (evitando quelli destinati all’assoluzione) e gli altri si celebrano più in fretta: infatti è aumentato del 100% il numero dei procedimenti definiti nei primi quattro mesi». Paola Bellone di mestiere fa proprio il viceprocuratore onorario, oltre ad essere consigliere nazionale della Federmot (l’associazione di categoria), e ci tiene a sottolineare come i riconoscimenti europei per la velocità nella celebrazione dei processi, che tanto inorgogliscono la Procura del capoluogo piemontese, abbiano a che fare anche con un uso intelligente proprio della magistratura onoraria.
«Anche gli avvocati, per dire, lamentano l’inefficacia del filtro ai processi davanti al tribunale monocratico: troppi processi, cioè, si concludono con un’assoluzione che sarebbe potuta arrivare in fase istruttoria con indagini più accurate - o con la prescrizione. Il fatto è che i pm di carriera sono pochi e oberati di lavoro fin da quando la riforma del 1989 gli riversò addosso, senza aumentare gli organici, tutto il lavoro che prima svolgeva il giudice istruttore». Soluzione: «Basterebbe devolvere ai Vpo le indagini per i quali sono competenti in udienza (ora le fanno i pm che poi passano il fascicolo al magistrato onorario, ndr) ed ecco che si sarebbe trovata una soluzione
al problema del processo breve». E’ sostanzialmente la proposta del «doppio binario» fatta più volte da Marcello Maddalena, oggi Pg presso la Corte d’appello di Torino ma ottimo organizzatore dell’ufficio quand’era procuratore capo: devolvere la giustizia monocratica (salvo i reati in materia specialistica) agli “onorari”, in modo che i magistrati di carriera possano dedicarsi solo ai processi più complessi.
L’unica altra soluzione possibile, spiega Bellone, è «aumentare il numero dei magistrati, anzi raddoppiarlo, perché di questo si tratta se si contano i vpo e i got attualmente in servizio». La verità è che la magistratura onoraria «andrebbe riformata, riconoscendo a queste persone che da anni amministrano giustizia per conto dello Stato, dignità e diritti anche economici. Sarebbe ora di aprire un dibattito sui problemi concreti del sistema giudiziario, magari dando voce anche chi, come noi, ogni giorno va in aula con la toga per rispondere alla domanda di giustizia dei cittadini e lo fa senza la minima tutela giuslavoristica da parte di un sistema ipocrita, a cui basta definire “onorario” un magistrato per trattarlo peggio di un “cococo” e senza peraltro rinunciare ad usarlo come un lavoratore subordinato». (m.p.)
procuratori onorari (vpo) e giudici onorari di tribunale (got): trattasi rispettivamente di 1.673 e 1.831 lavoratori che ogni giorno in cui il Sole illumina la terra amministrano giustizia in nome dello Stato. Dalle statistiche più recenti, per capirci, risulta che i Got rappresentano una bella fetta della giustizia civile di questo Paese e si occupano, tanto per dire, del 100 per cento dei procedimenti di esecuzione mobiliare, mentre i Vpo si caricano il 99,9 per cento delle udienze davanti ai giudici di pace (compreso, quindi, il fondamentale reato di immigrazione clandestina) e il 98 per cento di quelle celebrate davanti al giudice monocratico (bagattelle tipo spaccio, rapina semplice, reati fiscali, lesioni e, se è permesso, pure i reati a mezzo stampa). Costo? Qualche decina di euro a udienza, vale a dire al giorno, ciascuno. Ora anche il lettore può capire meglio: questi 3.500 lavoratori “scadono” a fine anno e i capi degli uffici giudiziari se la stanno già facendo sotto.
A quanto risulta a chi scrive il governo - pur volendo la proroga - non ha ancora individuato i fondi aggiuntivi necessari (la solita borsa chiusa del ministro Tremonti), mentre la bozza di riforma che circola a via Arenula sembra scritta da un magistrato ordinario che abbia in gran dispetto i colleghi onorari: ultima proroga (di quattro anni) per chi ne ha avute già due, incompatibilità distrettuale per chi fa anche l’avvocato e con qualunque altro impiego, nessun aumento di stipendio (alla faccia della “non delle dispersione” competenze). Il fatto è che gli “ordinari” non vogliono una riforma organica perché, se si stabilizzano gli “onorari”, magari poi tocca dargli uno strapuntino nel Csm. La politica ha altro a cui pensare. Resta solo la domanda: ministro Alfano, che vogliamo fare con Got e Vpo?
pagina 12 • 17 dicembre 2009
opo la “cyberguerra” fredda sta iniziando la “cyber-distensione”? La notizia l’ha data il New York Times, e riguarda l’inizio di discussioni tra gli Stati Uniti, la Russia e una Commissione Onu incaricata del controllo delle armi, a proposito di un tema che finora nessuna assise del genere aveva mai esaminato: la sicurezza su Internet e la limitazione del ricorso dei militari al cyberspazio. Citando alcuni degli incaricati dei colloqui, il quotidiano ha riferito che americani e russi hanno «un’interpretazione differente di queste discussioni». Ma già il semplice fatto che si parlano segna una svolta, a suo modo simile a quando tra Mosca e Washington si iniziò per la prima volta a discutere di come mettere sotto controllo l’equilibrio del terrore tra le armi nucleari. Anche perché, finora, erano stati proprio gli Stati Uniti a respingere le offerte di dialogo di Mosca, forti di quella che ritenevano essere la loro assoluta superiorità nel settore. «Bisogna aprire un negoziato per arrivare a un possibile trattato di disarmo per il cyberspazio», è la tesi che ha sostenuto ancora a questi colloqui Viktor Sokolov, direttore aggiunto dell’Istituito per la sicurezza dell’Informazione di Mosca.
D
Semmai, era stata la Cina a creare allarme, quando per la prima volta una decina di anni fa si era iniziato a agitare il concetto di guerra nel cyberspazio. Anzi, tecnicamente l’interferenza tra uso delle armi e rete risale a prima ancora. Durante la Guerra del Kuwait, in particolare, ci fu un clamoroso furto di informazioni sui movimenti di truppe Usa da parte di hacker olandesi. Ma l’iniziativa era ancora talmente in anticipo che quando il governo di Saddam Hussein fu contattato per acquistare i segreti rubati non capì di che cosa si trattava e lasciò cadere l’offerta. Poi, il primo gennaio 1995, con l’improvvisa eruzione della rivolta zapatista comparve anche la prima organizzazione armata in grado di utilizzare Internet per farsi propaganda. Presto imitata da altri gruppi guerriglieri, e anche dalle istituzioni militari ufficiali. E presto i siti di queste istituzioni militari ufficiali divengono obiettivo delle scorrerie di hacker. Nel marzo 1997 un quindicenne croato riesce ad esempio a penetrare nei sistemi della base Usa di Guam. Nel gennaio 1999 la “Us Air Intelligence Agency” è vittima di un attacco coordinato, in parte proveniente dalla Russia. Nel febbraio 1999 finisce sotto processo a Gerusalemme il ventenne israeliano Ehud Tenebaum, che con il nome di battaglia di “The Analyzer” e l’aiuto di teenager californiani ha scorazzato per tutto il ’97 e il ’98 nei segreti del Pentagono. Sempre nel febbraio 1999 un gruppo di hacker prende addirittura il controllo di un satellite di comunicazioni britannico, chiedendo un riscatto in denaro per la sua “liberazione”. Ma è il 31 maggio 1999 che uno scoop di Newsweek segna il grande salto di qualità: dalle guerre su Internet alle guerre con Internet, e dagli hacker cani sciolti a quelli inquadrati. In un momento in cui la guerra del Kosovo sembra ormai arenata, infatti, il popolare settimanale rivela un piano della Cia per destabilizzare Slobodan Milosevic in cui sarebbe contemplato l’utilizzo di hacker per penetrare nei conti all’estero del presidente jugoslavo. Tra i paesi che la cyberguerra del Pentagono potrebbe investi-
il paginone
È stata la Cina, nel 1999, ad annunciare la formazione della prima “divisione info
Lampi di guerra Timidi segnali di distensione tra Russia e Usa, ma ormai la Rete è il teatro di scontro più temuto (e ambito) dalle superpotenze e dai loro hacker di Maurizio Stefanini sufficiente perché il 15 settembre 1999, nel presentare la relazione di una Commissione indipendente messa su dal Pentagono per monitorare sui pericoli che minacceranno gli Stati Uniti nel XXI secolo, l’ex-senatore repubblicano Warren Rudman li ponga al primo posto. La possibilità di un gigantesco black-out informatico a seguito di una loro incursione massiccia, addirittura, è considerato un rischio più grave di “distruzioni in larga scala” compiute da terroristi in possesso di armi nucleari. È in questa data, insomma, che scatta l’allarme-cyberterrorismo,
re ci sarebbero Russia, Grecia e Cipro, ognuno con banche che custodirebbero qualche milione di dollari a nome della famiglia Milosevic. A questo punto, è vero, la Jugoslavia crolla di schianto, e il piano viene sospeso. A novembre un dirigente dei Servizi segreti Usa spiegherà al Washington Post che si è avuto anche paura del contraccolpo negativo di una “guerra informatica” sull’opinione pubblica, e di possibili accuse per crimini di guerra. Senza contare che la rete informatica serba, rudimentale e decentralizzata, si sarebbe prestata molto male a un tale tipo di assalto. Ma il dado è ormai tratto. Anche se forse Clinton non ha tanto dato il via, quanto piuttosto è stato il primo a rivelare pubblicamente l’esistenza di una nuova arma che molti dovevano stare già approntando, se è vera la stima del Pentagono secondo cui in questo sarebbero almeno 120 i Paesi e gruppi che hanno sviluppato sistemi di guerra informatica.
È però appunto la Cina che nel novembre del 1999 attraverso un articolo pubblicato dal giornale ufficiale delle Forze Armate di Pechino annuncia la costituzione della prima “divisione informatica” nella storia militare mondiale. Incaricata di condurre su Internet una cyberguerra a base di “bombe elettroniche in grado di saturare lo spazio cibernetico del nemico” per sabotarne finanze, commercio e comunicazioni. Paradossalmente, è stata proprio la ne-
I colloqui tra Mosca e Washington potrebbero avere un’importanza simile a quelli di quando si iniziò a discutere di come mettere sotto controllo l’equilibrio del terrore tra le armi nucleari cessità di fronteggiare gli hacker antiregime, attivi soprattutto dagli Usa, che ha costretto i militari cinesi a dotarsi del necessario knowhow. E gli hackersdell’Esercito popolare di liberazione poi, a differenza dei loro colleghi di altri paesi, non si limitano a esercitarsi con la guerra elettronica.
La sperimentano in concreto. Sono probabilmente loro, ad esempio, a penetrare il 7 agosto 1999 nel sito ufficiale dello Yuan di Controllo, principale organismo di vigilanza del governo di Taiwan. «Esiste solo una Cina e solo una Cina è necessaria», scrivono. E c’è il dubbio che la “divisione informatica” di Pechino possa essere all’origine anche di molte delle bordate che si sono scatenate nei mesi precedenti sui siti ufficiali Usa. Nell’aprile 1999 salta il sito della stessa Fbi, e a giugno quello del Senato. Ma anche senza l’aiuto dei cinesi, il lavoro degli hacker fai-da-te è stato
Un’ondata di assalti informatici da parte di hacker millenaristi in occasione del Capodanno del 2000 è ventilata anche nel famoso “Progetto Megiddo”, il piano di sicurezza in 34 pagine redatto dall’Fbi per mettere in guardia contro la possibilità di un’esplosione di terrorismo “apocalittico” e prendere le necessarie contromisure. Invece, la “Pearl Harbor informatica” si scatena il successivo 8 febbraio. Forse per protesta contro i cinque anni di carcere che sono stati inferti al “Condor” Kevin Mitnick, un hacker diventato mitico per le sue scorribande nei sistemi di sicurezza di Motorola, Sun Microsystems, Nec, Pacific Bell, Novel e altre società ancora, per un totale di 80 milioni di dollari di danni. Comunque Yahoo!, azienda del valore di 93 miliardi di dollari allora considerata la più sicura del mondo, è mandata in tilt col metodo nuovo e semplice di intasarla bombardandola di chiamate. E dopo il sito di commercio elettronico E-Trade, quello di informazioni Ziff-Davis, la Cnn, il colosso della aste on line e-Bay, il libraio Amazon e il grossista Buy.com, nel mirino finisce infine la stessa Borsa provocando un crollo. «Non c’è più niente di sicuro ormai», riconosceranno gli esperti del National infrastructure protection center (Nip), la speciale sezione anti-hacker dell’Fbi. Janet Reno, ministro della Giustizia di Clinton, annuncerà uno stanziamento di 37 milioni di dollari per migliorare i sistemi di lotta alla criminalità informatica. Certo, poi con le Torri Gemelle il grande attacco all’America arriverà per una via completamente diversa. Ma resta il dubbio che azioni web abbiano aiutato i terroristi, per tenere in contatto le branche militari e finanziarie di al Qaeda o per diffondere virus come il Nimda. E la
il paginone
ormatica” della storia militare mondiale, incaricata di “combattere” su Internet
nel cyberspazio
possibilità di una “seconda ondata” terrorista in arrivo dalla rete ha sempre continuato a essere paventata, anche se sembra che al Qaeda l’abbia usata soprattutto per fare propaganda e arruolamenti e per tenere i collegamenti.
Ma anche al Qaeda è ormai diventata un pericolo informatico minore, così come era diventati un pericolo informatico minore gli hacker cani sciolti. Secondo il New York Times, l’amministrazione Obama avrebbe realizzato che troppi Paesi sono ormai in procinto di mettere a punto cyberarmi devastanti: dai virus ai software spia. Certo, in questi negoziati c’è il timore che la Russia voglia mettere nel calderone anche la manifestazione del dissenso via Internet, mentre a Washington premono la cyberciminalità e il
La “Pearl Harbor” virtuale degli Stati Uniti arriva l’8 febbraio del 2000, quando vengono attaccati i siti di Yahoo!, E-Trade, Ziff-Davis, Cnn, e-Bay, Amazon, Buy.com e, infine, della stessa Wall Street cyber terrorismo. A gennaio la Commissione riprenderà le discussioni a New York, e prossimamente si dovrebbe tenere anche una conferenza annuale silla sicurezza di Internet nella località tedesca di Garmisch.
Lo stesso grid elettrico Usa si è trovato recentemente a rischio, e dunque diventa necessario un nuovo approccio, per evitare quella che McAfee, nota società di Silicon Valley specializzata in antivirus e firewall per la sicurezza informatica, nell’ultimo dei suoi rapporti annuali sulle principale minacce che pendono come una spada di Damocle sui nostri computer ha definito “cyberguerra fredda” strisciante. Una corsa appunto analoga a quella alla bomba atomica dopo il 1945, con però un’importante differenza. Le armi nucleare sono state massicciamente testate, ma dopo Hiroshima e Nagasaki non sono state più utilizzate contro un nemico vero. Al contrario, lo stillicidio di scaramucce informatiche a livello mondiale secondo la McAfee sarebbe
17 dicembre 2009 • pagina 13
ormai continuo. «Molti esperti non sono d’accordo col termine di cyberguerra, e non è lo scopo della McAfee quello di creare soprassalti o scatenare ondate di panico incontrollate», riconosce il documento. «Ma la nostra ricerca ha mostrato che fin quando per quanto ci possa essere dibattito a proposito della definizione di cyberguerra, ci sono ben pochi disaccordi sul fatto che ci troviamo di fronte a un incremento dei cyber attacchi che ricorda molto di più un conflitto politico che non il crimine. Abbiamo anche l’evidenza che varie nazioni al mondo stanno aumentando le loro capacità nel cyberspazio, in quella che alcuni hanno definito una corsa ai cyberarmamenti».
Sia gli Stati Uniti che il Regno Unito, in particolare, hanno accusato la Cina di aver organizzato attacchi a siti e reti governativi per provare a bloccarne il funzionamento o a individuarne i punti deboli. Gli Stati Uniti, addirittura che era stato posto a rischio il grid elettrico, col rischio di provocare un blackout a livello continentale. Attacchi non isolati, ma sistematici e ben organizzati. E la Nato ha puntualizzato che anche gli altri suoi 24 membri sono stati almeno una volta posti sotto offensiva. In particolare, accuse a Pechino arrivano anche dalla Germania. E sebbene i Paesi in grado di condurre tecniche di cyberguerra siano oltre 120 e i cinesi fossero stati sospettati negli anni passati, questa accusa ormai aperta segna un importante salto di qualità. Ma anche la Repubblica Popolare dice di aver sofferto danni “enormi” per colpa di spie online: sia di tipo politico che economico-industriale. Vari ministeri della Difesa stanno preparando manuali, e la Forza Aerea Usa ha creato una apposita nuova sezione forte di 40mila persone: un po’ più di una per ognuna delle 37mila irruzioni nei sistemi Usa che sono stati denunciati nel corso dell’anno. Anche la Russia si è segnalata in prima linea. Quando l’Estonia ha per esempio deciso di togliere dalle strade di Tallin un monumento di epoca sovietica dedicato all’Armata Rossa, dalla Russia sono arrivati molti attacchi di hacker contro le reti di questo Paese che è all’avanguardia mondiale nell’egovernment, al punto da aver inserito nella Costituzione il diritto di ogni cittadino alla banda larga. Il giorno nero è stato il 27 aprile del 2008, quando sono saltati vari siti ufficiali, quello del principale partito di governo, i sistemi di banche e giornali. Il Cremlino ha respinto le accuse estoni, ma la Nato è intervenuta in difesa del suo socio attaccato. Creando proprio a Tallinn il proprio Centro di Eccellenza per la Cyber Difesa Cooperativa. Pure nel 2008, a agosto, attacchi di hacker russi contro la Georgia hanno accompagnato il conflitto nel Caucaso. Tra i siti web bloccati c’è stato anche quello del Ministero degli Esteri di Tiblisi, costretto a ovviare con un blog d’emergenza. Mentre lo scorso 4 luglio è stata invece attribuita alla Corea del Nord un blitz che ha infettato 20mila computer, bloccando siti importanti sia negli Stati Uniti (Casa Bianca, Dipartimento di stato, Wall Street...), sia la Corea del Sud (Presidenza, Ministero della Difesa, il principale portale, banche, la versione sudcoreana di Ebay...). Ma, avverte McAfee, tutto ciò sarebbe soltanto “la punta dell’iceberg”.
mondo
pagina 14 • 17 dicembre 2009
Opinioni. La “lotta fra il bene e il male”, la “guerra giusta” e l’opposizione ai regimi sono bandiere dei conservatori
Mr Obama, neo-con Nel discorso pronunciato per il Nobel, il presidente è stato “aggredito dalla realtà” di Abe Greenwald urante il discorso che ha pronunciato in occasione della consegna del Premio Nobel per la pace, Barack Obama ha detto: «Cerchiamo di capirci: il male esiste nel mondo». Ha citato, a sostegno della sua teoria, l’esempio storico di Adolf Hitler e quello attuale di al Qaeda. Questa frase chiude un circolo di un anno, che è stato composto da una serie di lezioni sul mondo reale in grado id sostenere le teorie di quella tendenza intellettuale nota come neo-conservatorismo: l’Iran ha rigettato il torrente ossequioso degli Stati Uniti e non sarà convinto con il fascino a smetterla di accrescere il suo potenziale nucleare; nel frattempo, la sua popolazione chiede con sempre più clamore un intervento americano a difesa della democrazia; un presidente americano di estrema sinistra ha chiarito che l’unica strada per vincere la guerra in una lontana terra musulmana passa per l’aumento delle truppe sul campo; lo stesso presidente ha riconosciuto che in Iraq «sono stati raggiunti obiettivi difficili» e sta usando le stesse basi per raggiungere gli obiettivi della sua nuova strategia. In questi acca-
D
dimenti, tre convinzioni spesso associate con i neo-con sono state affermate.
La prima è che non importa quanto il mondo sia tecnologicamente avanzato o interconnesso: ci saranno sempre i cattivi, e la loro ostinazione rimarrà intatta. I regimi non possono essere sconfitti con degli appelli generici alla comune umanità. Alcuni possono essere abbattuti soltanto tramite le minacce e, se necessario, con la forza. La seconda è che le popolazioni che vivono sotto regimi dispotici, in
espresso contro l’arrogante “polizia del mondo” sparisce d’improvviso, quando il manganello inizia a cadere sulla testa dei dissidenti. L’America deve essere lì dove il suo supporto è richiesto. La terza è che la volontà di applicare l’enorme e innovativa forza militare americana rimane critica quando si tratta delle guerre degli Usa, data la sua natura asimmetrica. Allo stesso modo, l’America non può pensare di abbandonare il proprio sforzo militare come risposta a delle considerazioni temporali. Le guerre corte devono
Sul concetto di guerra, che per sua natura non accetta compromessi, il leader democratico ha cercato (fino al Premio) di raggiungere una soluzione molto particolare: il compromesso tutti i tempi, si sono impegnati e si impegnano per la libertà. Inoltre, queste popolazioni guardano all’America, la più antica democrazia costituzionale, per un sostegno morale e materiale.Tutto il risentimento
essere vinte; quelle lunghe, con ancora più certezza. Mentre gli ultimi sviluppi dei conflitti globali hanno autenticato queste nozioni, rimane una tensione fondamentale fra le loro implicazioni politiche lo-
giche e quelle di Barack Obama. Il presidente non ha ancora messo in pratica un approccio da “fase II” - quello che riguarda un regime di sanzioni effettive - per motivare un intrattabile Iran; non ha ancora
offerto sostegno incondizionato ai democratici di quel Paese; non ha ancora parlato in maniera chiara di vincere in Afghanistan; ha creato di proposito una nuvola di confusione riguardo al suo impegno in
Il “nuovo corso” della Casa Bianca raccoglie consensi a destra e critiche (anche durissime) a sinistra
La svolta che non piace ai dems di Pierre Chiartano a Nobel lecture dell’inquilino della Casa Bianca sta diventando un cult politico, per nuovi ammiratori di Obama, e nuovi critici. E potrebbe sorprendere come i neocon guardino con sempre più rispetto al nuovo presidente e in che modo, invece, i alcuni democratici globali e statunitensi, abbiano deglutito alla fine del discorso di Oslo. Tanto che qualcuno ha cominciato a chiamarla «dottrina Obama» come ha fatto Tom Brokaw della Nbc. Oppure è stato definita «una finestra aperta nella mente» del presidente, da Tom Friedman, noto futurologo e columnist del New York Times. In Italia c’è chi non ha lesinato citazioni da Kant a Hobbes, piuttosto che riconoscere alcune costanti del pensiero politico tra l’odiato Bush e l’amatissimo Obama, specialmente sul concetto di guerra i cui riferimenti risalgono addirittura all’antica Roma“si vis pacem...”. Ma in America come l’hanno presa i colleghi di partito del presidente? Cosa
L
ne pensano i democrats del discorso di Obama a Oslo, della sua visione del mondo, e dell’esistenza del male, che richiama ad una visione più cristiana che laica della weltanschauung obamiana? I pacifisti di Capitol Hill di area democratica non hanno digerito che il presidente abbia esposto il concetto di «guerra giusta» e proprio dal palcoscenico di un Nobel per la Pace.
Dennis J. Kucinich, un parlamentare democratico dell’Ohio non le ha mandate a dire (nel 2007 presentò al Congresso una richiesta d’impeachment per l’allora vicepresidente Cheney). «Il riferimento del valore strumentale della guerra per perseguire la pace rischia di spingere in futuro gli Stati Uniti verso conflitti ancora più sanguinosi». Una volta invischiati da questi «passaggi semantici», spiega Kucinich, potrebbe cominciare un percorso orwelliano alla cui fine il significato di guerra e di pace potrebbero scambiarsi di posto.
«La guerra spesso è ingiusta, solo alcune volte può essere giusta» spiega il parlamentare di origine croata in un’intervista al Washington Times. C’è chi, sabato scorso, ha preferito scendere sui marciapiedi, organizzando una manifestazione pacifista vicino alla Casa Bianca. In mezzo a quella folla il discorso di Obama non è stato un successone: «ripugnante» è stato il commento più comune. Laurie Dobson direttrice di End the War e membro del collettivo d’attivisti che avevano organizzato l’iniziativa è andata oltre. E parlando di Obama ha affermato: «penso che non conosca il significato di pace (...) credo che abbia pericolosamente perso il contatto col sentimento della maggioranza degli americani e con ciò che pensano veramente della guerra». Ma le premesse per il surge dell’opposizione interna ai democratici, erano state messe il primo dicembre, quando Obama aveva annunciato l’invio di altri
mondo sto questa domanda: «Ma Obama è troppo arrogante per farsi aggredire dalla realtà?». Una domanda eccellente. Quella che il presidente definisce “la sua filosofia della persistenza” assomiglia sempre di più al vizio della vanità. La nuova “imperiosità” della Casa Bianca spiega l’impossibilità di Obama di offrire il giusto sostegno alla guerra irachena, un impegno a cui si è sempre opposto. E spiega inoltre la sua devozione nel trattare l’Iran attraverso il vudù del suo fascino personale. Non spiega il miscuglio con cui ha condito i messaggi relativi alla guerra in Afghanistan. Sulla realtà della guerra, che per sua natura non accetta compromessi, Obama ha cercato di raggiungere una soluzione obamiana molto particolare: il compromesso, a ogni stadio.
Il presidente è stato parzialmente aggredito. La realtà gli si è accostata e lo ha scosso per ottenere delle concessioni, ma si tratta soltanto di un accordo temporaneo. La “persistenza”di Obama è, al momento, intatta. E questo spiega le contraddizioni contenute nel suo discorso di guerra. Tuttavia, evocando il male nel suo discorso di pace, si è obbligato
17 dicembre 2009 • pagina 15
promozione della democrazia e la decisione di agire. Parliamo di credere nel bene e nel male, il regalo che la realtà concede agli aggrediti. Considerato spesso un pensiero datato, credere che virtù e vizio sono reali è il cuore del sostegno neo-con al potere americano nel mondo. I talebani che decapitano gli innocenti, tagliano le mani degli elettori e costringono le donne a una vita di servitù brutale - rappresentano il male.
E lo stesso vale per i mullah iraniani, che condannano degli adolescenti alla pena di morte per il “crimine” di essere omosessuali. Sconfiggere queste fazioni contiene in sé la ricompensa per averlo fatto. E ora che il male fa parte del lessico di guerra di Barack Obama, deve fare suo questo concetto. E deve parlare di vittoria. Perché una volta che il male viene evocato, il compromesso esce dal tavolo. Il male, infatti, deve essere sconfitto. Tutto questo non vuole dire che il presidente si sia dimostrato, fino ad oggi, senza compasso morale. Al contrario, in questa e altre materie Obama ha dimostrato di avere un esteso modello per decidere cosa sia giusto e cosa sba-
Dopo il discorso, un nuovo sondaggio Rasmussen mostra che il 53 per cento degli elettori sostiene la decisione di inviare altri 30mila uomini in Afghanistan, mentre il 47 per cento è per il ritiro quel Paese; non ha ancora abbracciato in pieno il successo americano in Iraq. Perché no? La risposta non è meno connessa al neo-conservatorismo di quanto non lo siano quelle realtà internazionali che fan-
no sorgere la domanda. Irving Kristol una volta disse: «Un neo-con è un liberal che è stato aggredito dalla realtà». Con questa definizione in testa, un eminente personaggio della sicurezza nazionale mi ha po-
30mila uomini in Afghanistan. I malumori tra i dem contrari alla guerra erano nati in quel momento, poi il discorso di Oslo avrebbe solo dato fuoco alle polveri. «Un movimento pacifista non avrebbe mai fermato Adolf Hitler» è un altro passaggio del discorso presidenziale che tante anime belle del pensiero liberal d’oltre Atlantico non hanno tanto gradito. Specialmente tra quelle convenute a Lafyette Park a Washington, che chiedevano un immediato cessate-il-fuoco in Iraq e Afghanistan, con ritiro contestuale delle truppe Usa e la fine delle missioni dei droni Cia in Pakistan. Insomma, mica poco.
Tra loro anche Kathy Kelly, coordinatrice di Voices for creative nonviolence, una che la nomination al Nobel per la Pace l’ha guadagnata per ben tre volte. Ciò che sembra guidare le intenzioni del presidente è un pragmatismo che si potrebbe definire «post-imperiale». Dove domina l’interesse a difendere la sicurezza nazionale degli Usa e un loro ruolo preminente nel mondo – non dimenticando Martin Luther King – e la volontà di non farsi degli esportatori di democrazia. Oltre a non avere illusioni su di una «pace duratura», tanto da guadagnarsi il plauso e i commenti lusinghieri di Fox News, canale conservatore e mai tenero col presidente.
a un corso di azioni più decisivo e forse a una nuova serietà morale. Ma per questa c’è bisogno di una più profonda preoccupazione neo-con, che serve come fondamento su cui poggiare l’architettura della
Mentre dalle colonne “amiche”del New York Times, Jeff Zeleny chiede invece conto del motivo per cui Obama non abbia spiegato bene «perché la guerra sia necessaria per conquistare la pace». E vagli a far capire chi era Vegezio. C’è chi, come alcuni responsabili di sondaggi, ringraziano i fusi orari che hanno visto la maggior parte degli americani dormire un sonno profondo al momento del discorso dell’inquilino della Casa Bianca.
Adam Serwer, analista di American Prospect, un magazine di area liberal come The New Republic, giudica il discorso di Obama come «una difesa dell’intervento militare americano dalla Seconda guerra mondiale a Desert Storm». Inoltre sul passaggio dedicato alla difesa degli ideali più profondi che vanno salvaguardati per non perdere la rotta della democrazia, Serwer fa notare come Obama sia stato coerente a quest’approccio abolendo le tecniche di tortura per ottenere informazioni dai terroristi. Ma abbia agito in continuità con la precedente amministrazione riguardo ai termini di carcerazione, senza processo, e alla sorveglianza delle comunicazioni, senza garanzie. Il capo dello staff obamiano alla Casa Bianca, Rahm Emanuel, ha subito spiegato che il tono del discorso non va assolutamente inteso come un segnale di cambiamento di rotta della politica este-
gliato. È il modello liberale contemporaneo, dove per giusto si intende tutto ciò che si fa o si cerca di fare senza l’approvazione dell’Occidente e sbagliato significa tutto quello che l’America e l’Europa cer-
ra di Washington. D’altro canto gran parte dell’intervento è uscito da quelle stanze, grazie al lavoro di stesura e“ripulitura”di speechwriter come Ben Rhodes e Jon Favreau e ha risentito non poco dell’influenza del discorso fatto pochi giorni prima all’Accademia militare di West Point. Korb Lowrence un’analista di area democratica che lavora al Center for Political progress e ripreso dal Wall Street Journal, da credito ad Obama: «ha usato la parola uccidere due volte» inteso come“solo”due volte.Tim Kaine, governatore democratico (fino al 16 gennaio) della Virginia, è al fianco del suo presidente. Per lui i giorni migliori per l’America sono quelli che devono ancora arrivare. «Ho piena fiducia che Obama sarà in grado di mantenere in vita il sogno americano».
cano di riuscire a ottenere fuori dai propri confini; giusto è tutto quello che porta verso la pace, anche a costo di lunghissime sofferenze, mentre sbagliato è ogni azione di guerra degli Usa. Non è difficile vedere come questo codice sia stato applicato alle decisioni di politica interna prese da Obama. E, allo stesso tempo, non è difficile vedere come sia stato complicato per lui gestire le contraddizioni nei suoi atti. Forse, adesso si affaccia nella mente del presidente che non sono soltanto i neo-con a credere che l’America attiri il male in giro per il mondo. Infatti, quella concezione della moralità degli Usa è tanto vecchia quanto quella, relativamente nuova, che propone lui. I presidenti di guerra si sono sempre appellati a questo aspetto dell’eccezionalismo americano, per secoli.
Fra le altre cose, la guerra del 1812 era un tentativo di sradicare il male delle monarchie dinastiche; la guerra civile fra nordisti e sudisti è stata combattuta con lo scopo di eliminare la schiavitù; le due guerre mondiali che hanno afflitto per prime l’Europa sono state combattute dagli Stati Uniti contro le ideologie totalitaristiche, mentre la Guerra fredda è stata un trionfo contro l’Impero del male. Se il presidente americano Barack Obama non è ancora stato aggredito dalla realtà, è stato almeno scosso dal crollo della sua popolarità nei sondaggi. Nel suo ruolo di presidente di guerra, potrebbe trovare un modo per fermare il calo. Un nuovo sondaggio Rasmussen mostra che il 53 per cento degli elettori sostiene la decisione di inviare altri 30mila uomini in Afghanistan, mentre il 47 per cento sostiene il ritiro. Questo significa che la maggioranza - esile quanto si vuole - non accetta la concezione morale presentata dai liberal contemporanei. E forse è proprio questa la realtà in grado di aggredire il nostro comandante in capo.
quadrante
pagina 16 • 17 dicembre 2009
Idee. I regimi totalitari non sono stati sconfitti: hanno solo cambiato forma n leader democratico dell’Europa orientale è venuto di recente a trovarmi. La nostra conversazione è stata sulle nuove generazioni, che non sembrano più interessate alla questione “democrazia”: non sono più entusiasti, come lo erano coloro che firmarono Charta ’77. Questo amico pensava infatti a come propagare l’ideologia democratica dalle università, per resistere alla mano nera del comunismo russo che si stringeva sull’Europa dell’Est. O, per dirla in maniera più corretta, per resistere alla mano nera del Kgb. Questa mano non ha soltanto aiutato la Russia a rimettere in pista un governo semi-comunista, in una maniera simile a quella in cui il Partito comunista cinese domina con autoritarismo. Il suo controllo e la sua influenza sulle nazioni dell’Europa orientale sono inoltre cresciute rapidamente, sempre più simile a quello del periodo sovietico. Molti democratici anti-comunisti pensano che la società sia tornata indietro, che il comunismo non sia stato sconfitto; si sarebbe semplicemente trasformato in una nuova autocrazia di stile capitalista. Eppure, dietro a questa nuova forma ci sono ancora il vecchio Partito comunista e il sistema autocratico stalinista-leninista. Io ho sempre pensato che la rivoluzione degli anni ’80 non sia stata un vero successo, e che i felici occidentali si siano comportati in maniera troppo naif. Negli ultimi 20 anni, il pensiero di quelle popolazioni ha completato il circolo. Il nostro modo di pensare quando eravamo giovani – i democratici cinesi, così come i dissidenti dell’Europa dell’Est come Havel e Sakharov – era in pratica una sorta di venerazione dell’Occidente: dalla sua
U
Ma oggi “democrazia” non significa più nulla Il noto dissidente cinese denuncia: «Fallite le rivoluzioni anni ’80, servono nuovi stimoli» di Wei Jingsheng
zare un sistema sociale democratico. L’Occidente ha semplicemente dichiarato di aver sconfitto i propri avversari, per poi chiudere la Guerra fredda. Invece, il mondo occidentale ha sfruttato la cosiddetta “cooperazione economica” con le nazioni comuniste (e con quelle che lo erano) per fare un sacco di soldi. Gli sforzi per
Cina, Russia e Vietnam sono ancora dominati da regimi assolutistici, che schiacciano gli oppositori e reprimono le libertà personali ideologia alla sua forza economica e politica. Tutto faceva parte della democrazia occidentale. Noi pensavamo che quello fosse l’unico modello corretto: copiare l’Occidente avrebbe risolto tutti i problemi. All’epoca, questo modo di pensare non era sbagliato; era il modo necessario per opporsi al modello comunista. Eppure, la realtà degli ultimi due decenni ha ispirato il mondo in una nuova maniera. Il mondo occidentale non ha aiutato le popolazioni delle nazioni comuniste a costruire e raffor-
la democratizzazione della Cina e per la costruzione della democrazia nell’ex Unione sovietica e nei Paesi dell’Europa orientale sono totalmente al di fuori della sfera d’interesse delle nazioni occidentali. Dopo gli eventi che si sono succeduti in Georgia e Ucraina, insieme con l’indebolita politica nei confronti della Cina comunista di Bush e Obama, la delusione delle popolazioni delle democrazie occidentali ha superato il punto critico. Alcuni politici e intellettuali dell’Ovest pensano la stessa
L’inventore del “Muro della democrazia”
Wei, una vita per la libertà Wei Jingsheng ha una lunga storia nel campo dei diritti umani e della democrazia in Cina. Il 5 aprile 1976, a 26 anni, partecipa al primo moto antigovernativo che scoppia in piazza Tiananmen. Due anni dopo appare, nei pressi di uno dei principali incroci della capitale, il Muro della Democrazia: un angolo di muro dove sono affissi i dazibao della contestazione democratica. Il 5 dicembre 1978 affigge il testo che lo renderà celebre, La Quinta Modernizzazione, dove sviluppa l’idea che il progresso economico del Paese (le “quattro modernizzazioni” esaltate dal regime comunista) deve passare attraverso la democratizzazione del sistema, senza la quale il popolo non avrà alcun beneficio. Wei denuncia la detenzione per motivi politici, la mise-
ria di una parte della popolazione, le origini politiche della delinquenza giovanile, la vendita di bambini per le strade di Pechino. Dal ’79 al ’93 è tenuto in prigione per volere di Deng Xiaoping. Dopo il rilascio, il primo aprile 1994 viene fatto sparire insieme alla sua compagna. Il 13 dicembre 1995, un anno e mezzo dopo il nuovo arresto, Wei riappare davanti alla Corte popolare di Pechino e condannato a 14 anni di prigione per “aver complottato contro il governo”. Il 16 novembre 1997 è stato scarcerato dalle autorità cinesi dopo fortissime pressioni da parte della comunità internazionali e mandato all’estero per “cure”: una condanna all’esilio. Al momento vive negli Stati Uniti ed è il presidente del Movimento “Democratic China”.
cosa: quali sono i problemi del sistema democratico? L’Occidente e i suoi governi stanno perdendo terreno? Ora la questione non è più limitata alla Cina, la Russia o l’Europa orientale ma diventa una questione mondiale; e un problema che riguarda lo sviluppo dei sistemi sociali democratici. Anche se il Partito comunista nell’ex Unione sovietica e nei Paesi dell’Europa orientale è collassato, questo non vuol dire che sia diminuita l’autocrazia comunista. Nazioni comuniste come Cina e Vietnam l’hanno trasformata con successo in un nuovo stile di autocrazia “dell’inclusione”: capitalisti di tutto il mondo, uniti. Questi sono stati sempre più bravi nel costringere le nazioni occidentali ad arrendersi, e hanno creato un esempio per tutte le nazioni autocratiche del mondo. La democrazia occidentale vecchio stile ha perso sempre di più la sua funzione modello, così come ha perso la sua attrattiva per le popolazioni. Vedo sempre più persone, fra i democratici della vecchia generazione, che sono ancora sepolti nell’ideologia che hanno costruito quando erano giovani, e insistono nel voler accettare le idee democratiche e il sistema occidentale nella sua interezza.
Ma questo modo di pensare non basta più: è datato. Ripetere oggi quello che dicevamo 30 anni fa, ai giovani, non li convincerà. L’era di Internet ha modificato il raggio visivo delle nuove generazioni, che conoscono molto di più di quello che sapevamo noi alla loro età. I problemi attuali sono nella lista dei loro interessi. Dai miei contatti personali con i giovani, mi rendo conto che parlare loro delle vecchie teorie democratiche non servirà. Molti di loro già conoscono queste idee, e sanno anche che erano i problemi dei vecchi sistemi democratici. Ora sono interessati alla loro, di era. E questa presenta uno sviluppo, in cui l’autocrazia si è tramutata da difensiva a offensiva, e guadagna terreno. In che modo le nazioni democratiche hanno affrontato questo problema? Il sistema democratico è in declino? Potrebbe la società democratica invertire il senso di questo declino? Anche il vecchio sistema democratico si trasformerà? Discutere queste cose con i giovani riesce ad ottenere il loro interesse: sono sensibili a questi temi. E questo dimostra che i giovani non sono senza speranza. Anzi, dobbiamo fidarci di loro.
quadrante
17 dicembre 2009 • pagina 17
E il governo “minaccia” l’opposizione: sappiamo tutto
Il governatore della Fed batte McChrystal, la Pelosi e Neda
Nuova sfida dell’Iran: testato razzo a lungo raggio
Time incorona Ben Bernanke come uomo dell’anno 2009
TEHERAN. Si è verificata ieri la nuova, ennesima sfida dell’Iran, che ha sperimentato con successo una versione aggiornata del missile Sejil-2, in grado tra l’altro di raggiungere Israele. Lo riferisce la tv di Stato. Nella precedente esercitazione missilistica, svoltasi a settembre, era stato annunciato il lancio di una versione del Sejil a due stati, con carburante solido e con una gittata di 2.000 chilometri. Capace quindi, come un altro vettore iraniano, lo Shahab-3, di raggiungere tra l’altro il territorio israeliano. L’esperimento di ieri è avvenuto in un momento di crescenti tensioni con l’Occidente per il programma nucleare della Repubblica islamica. E mentre proseguono i testi missilistici iraniani, la Camera dei rappresentanti degli Stati uniti ha approvato un progetto di legge che permette al presidente americano di varare nuove e maggiori sanzioni contro Teheran per fermare le sue ambizioni nucleari. Il testo consente al presidente Barack Obama di impedire alle aziende di esportare benzina verso l’Iran per costringere Teheran a cedere sulle sue ambizioni nucleari. La misura estende la normativa attuale che punisce le aziende che investono oltre 20 milioni di dollari l’anno nel settore
NEW YORK. È Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve, la banca centrale americana, l’«uomo dell’anno 2009» secondo la rivista Time che come consuetudine dedica l’ultima copertina dell’anno a i personaggi che si sono maggiormente distinti sulla scena internazionale. Bernanke, secondo la motivazione che ha dato la rivista, «è stato protagonista nel guidare la più importante economia del mondo. La sua leadership creativa ha contributo a fare in modo che il 2009 sia stato un periodo di debole ripresa anzichè di depressione catastrofica e oggi continua a detenere un potere senza pari sul nostro denaro, i nostri posti di lavori, i nostri risparmi e il
Un “caso Cucchi” scuote il Cremlino Un avvocato muore in carcere e la Russia protesta di Fernando Orlandi ergei Magnitskii era nato nel 1972, aveva due figli e 37 anni quando è morto in una prigione russa lo scorso 16 novembre dopo un anno di detenzione preventiva a Butyrka. Poteva essere uno dei tanti, troppi detenuti che lasciano la loro vita tra le mura di un degradato e indegno sistema penitenziario (nel gennaio-novembre di quest’anno solo fra i detenuti in attesa di giudizio in Russia ci sono stati 386 morti), ma su di lui si è levata l’attenzione internazionale. Intervistato dalla radio Eco di Mosca, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Thomas Hammarberg ha chiesto una vera indagine sulla sua morte. Magnitskii era un avvocato, un fiscalista che a Mosca lavorava nello studio Firestone Duncan. Si trovava in prigione perché aveva denunciato una colossale frode fiscale di cui era stato vittima il fondo di investimenti Hermitage Capital Management, costituito da William Browder, nipote del fondatore del Partito comunista degli Usa e fino a che non è rimasto scottato acceso fan di Vladimir Putin, una enorme truffa a quanto pare orchestrata da una rete di criminali che vedeva coinvolti tra gli altri alcuni alti funzionari del ministero dell’Interno. Dopo la sua testimonianza, Magnitskii è stato perseguitato e fatto incarcerare proprio da questi funzionari, subendo una detenzione punitiva, nel corso della quale gli è anche stata fatta mancare l’assistenza sanitaria. I medici del carcere, invece di curarlo hanno redatto falsi certificati. Solo cinque giorni prima della morte per problemi cardiovascolari, in risposta a una istanza dei suoi legali, il tenente colonnello Dmitrii Komnov, comandante della Butyrka e il colonnello Kratov, reponsabile sanitario, riferivano ai magistrati che il suo elettrocardiogramma era perfetto, il suo cuore aveva 72 battiti al minuto e la pressione era di 70/120. Condizioni di salute invidiabili, per cui poteva restare benissimo in carcere. In realtà Magnitskii non è stato curato e per questo è morto. Jamison Firestone ha dichiarato senza mezzi termini: «Hanno preso un ra-
S
gazzo sano, lo hanno imprigionato senza motivo, lo hanno messo in condizioni talmente orribili da farlo ammalare gravemente. Poi gli hanno negato le cure mediche». Dinanzi all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale e di istituzioni europee il presidente Medvedev non poteva rimanere inattivo. Con un decreto, il 4 dicembre ha rimosso una ventina di alti funzionari del sistema penitenziario, fra cui il capo della prigione Butyrka. In apparenza è una svolta rispetto al passato, ma come a volte accade in Russia le cose si manifestano diversamente da come sono.
Aleksandr Kromin, portavoce del Servizio federale delle prigioni, si è affrettato a precisare che solo alcuni di questi licenziamenti erano connessi con la mancata assistenza sanitaria prestata a Magnitsk, mentre gli altri facevano parte di un avvicendamento. Ma poi la Itar-Tass ha fatto sapere che in realtà molti dei “rimossi” avrebbero ricevuto un nuovo incarico, insomma, sarebbero stati “promossi”: questo giro di poltrone era in realtà legato a una ristrutturazione del sistema penitenziario. Un altro tassello è poi stato aggiunto dall’indipendente Novaya gazeta: Aleksandr Reimer, il nuovo capo del Servizio federale delle prigioni, si è insediato da poco tempo e gli serviva un pretesto per liberarsi degli uomini di Yurii Kalinin, il suo predecessore, per potere così insediare i suoi fedeli. La vicenda di Magnitsk ha costituito il pretesto ideale. Il provvedimento di Medvedev, inoltre, si rivela anche essere fuorviante, perché “dimentica” tutti coloro che sono stati complici dell’arresto e della detenzione del giovane fiscalista, primi fra tutti quei funzionari corrotti del Ministero dell’interno che proprio Magnitsk aveva accusato, così come quei magistrati loro complici che lo hanno detenuto sulla base di false accuse, per fargli ritrattare la sua testimonianza. Lo avesse fatto, sarebbe stato liberato. Richiestogli di commentare la vicenda, il portavoce di Putin ha detto che non costituiva «niente di speciale».
Sergei Magnitskii, fiscalista, denuncia una truffa enorme che coinvolge l’Interno e muore in galera per le torture
energetico iraniano. I deputati hanno approvato il testo, sostenuto dalla grande maggioranza dei democratici e dei repubblicani, con 412 voti contro 12.
Il disegno di legge deve essere ora approvato dal Senato. Sul fronte interno, ancora guai per l’opposizione, finita nel mirino dei giudici. Il capo della magistratura iraniana, l’ayatollah Sadeq Larijani, ha avvertito i leader dell’opposizione che il sistema giudiziario potrebbe decidere di agire in ogni momento contro di loro, avendo raccolto le prove del loro ruolo «sedizioso. Se ancora non abbiamo agito con forza contro di loro, non vuol dire che non sappiamo cosa fanno».
nostro futuro come nazione. Le decisioni da lui prese, e quelle che prenderà in futuro determineranno il nostro percorso verso la prosperità, la direzione della nostra politica e la nostra relazione con il mondo».
Bernanke ha battuto nella selezione finale il generale Stanley McChrystal, «il lavoratore cinese», il presidente della Camera Nancy Pelosi e il velocista Usain Bolt. L’anno scorso ad aggiudicarsi l’ambito riconoscimento era stato l’allora presidente eletto Barack Obama, che di lì a poche settimane si sarebbe insediato alla Casa Bianca. Nel 2007 fu invece la volta del premier russo Vladimir Putin. Tra gli altri vincitori del passato anche Bono, il presidente George W.Bush e il fondatore e ad di Amazon.com Jeff Bezos. Particolarmente innovativa quella dedicata a ciascun individuo: sotto la scritta «You», ovvero «tu», era stata posizionata una superficie riflettente. L’uomo dell’anno era così chiunque vi si potesse rispecchiare. Time riserva un posto d’onore anche per Neda Agha-Soltan, la donna uccisa a giugno nelle manifestazioni di Teheran dopo le contestatissime elezioni presidenziali. Neda, uccisa da un pasdaran, è definita «indimenticabile».
cultura
pagina 18 • 17 dicembre 2009
Mutazioni. Un tempo mietevano milioni e milioni di vittime. Oggi, ogni tre o quattro anni l’Oms ne minaccia una, ma per fortuna l’allarme rientra sempre
C’era una volta la pandemia Dalla mucca pazza all’aviaria, fino all’influenza H1N1: le epidemie attuali sono meno violente delle antenate. E arricchiscono di più di Gabriella Mecucci rmai non ci sono più le pandemie di una volta. Ogni 3 o 4 anni ne viene minacciata una dall’Oms. Si paventano sfraceli per alcuni mesi, poi l’allarme rientra. Ma ci fu un tempo in cui accadevano davvero. Sono state anche oggetto dell’indagine degli archeologi. Nel 2006, ad esempio, i ricercatori dell’università di Atene hanno scoperto fra i denti degli antichi abitanti della capitale greca il batterio che causò la febbre tifoide del 430 avanti Cristo. Il morbo uccise un quarto della popolazione e delle truppe cittadine. Il fisico di chi si ammalava veniva fiaccato e la morte sopraggiungeva quasi subito. Tanta virulenza e rapidità nell’eliminazione degli ospiti del batterio, ebbe alla fine un risvolto positivo: il bacillo non oltrepassò i confini della città. Le madri piangevano i loro figli e, qualche giorno dopo, si ammalavano e li raggiungevano nell’oltretomba. I guerrieri perdevano la loro battaglia nel giro di poche ore. Ma tutto finì lì.Peggio, molto peggio andò ai romani: due furono le pandemie in epoca imperiale. La prima fra il 165 e il 180. Probabilmente si trattò di qualcosa di molto simile al vaiolo, un morbo importato dalle truppe di ritorno dal Vicino Oriente. Uccise cinque milioni di persone: un’ecatombe. Mentre fra il 251 e il 266, il secondo picco del virus causava solo a Roma la morte di 5.000 persone al giorno.
O
Dopo il crollo dell’impero romano di Occidente, si abbattè su Costantinopoli il “morbo di Giustiniano”, a partire dal 541. La malattia si insinuò ovunque è mandò all’altromondo anche molti e importanti dignitari della corte. Una falcidia di classe dirigente, si direbbe oggi. Si trattò della prima apparizione, di cui ci sia arrivata testimonianza, della peste bubbonica. Partì dall’Egitto e arrivò sino alla capitale dell’impero d’Oriente. Mieteva 10.000 vittime al giorno. E, alla fine, uccise metà degli abitanti. Il bacillo attraversò i confini della città e si diffuse in tutte le zone circostanti causando il decesso di ol-
tre un quarto delle donne e degli uomini del Mediterraneo orientale. I racconti dello storico Procopio sono apocalittici. La morte di chi contraeva il morbo avveniva fra atroci dolori. I cadaveri erano accatastati
Sono lontani ricordi oramai la febbre tifoide di Atene, il morbo di Giustiniano, la peste bubbonica e la più recente influenza spagnola
per le strade invase da terribili miasmi. La gente rubava e scappava nel disperato tentativo di sopravvivere. Ma non c’era luogo raggiungibile che fosse sicuro. Si trattò della peggiore pandemia dell’epoca antica. Ottocento anni dopo la strage di Costantinopoli, la peste bubbonica fece il suo ritorno dall’Asia in Europa. Partita nel 1346 dall’assedio tartaro di Caffa, città nelle mani dei genovesi, e portata dai mercanti italiani provenienti dalla Crimea, dapprima raggiunse la Sicilia, per estendersi poi a tutta l’Italia, alla Francia, alla Spagna, alla Germania e altrove. Si trattava della famosa peste nera che fece, in sei anni, 25 mi-
lioni di morti, quasi il 30 per cento degli abitanti dell’Europa. Chiunque abbia studiato la storia medioevale della propria città si è imbattuto in questo terribile evento che non ha risparmiato nessuna contrada. Se ne salvarono pochissime situate più ad Oriente: fra queste Praga.
L’onda di morte provocò una nuova religiosità e al tempo stesso domande più stringenti alla Chiesa sulla natura di Dio: perché consentiva quel flagello? Nacquero sette eretiche. Ma, accanto a questi fenomeni disgregativi, le istituzioni religiose furono anche oggetto di
numerose e cospicue donazioni da parte chi moriva - ed erano tanti - a causa del terribile morbo. La Chiesa, insomma, uscì dalla peste nera più debole e con minore ascendente sul popolo, ma anche più ricca. Il morbo fra le tante terribili conseguenze, ne portò una che è la più tristemente famosa: un’ondata di persecuzione degli ebrei, ritenuti la causa del contagio, di tragica virulenza.Venivano strappati dalle loro case e uccisi senza pietà. Tantoché il Papa dovette intervenire per vietare che nessun «giudeo venisse messo a morte senza processo». Ma la persecuzione non fu comunque fermata. La peste nera continuò a mietere vittime
A destra, dall’alto: una raffigurazione della febbre tifoide di Atene; un dipinto sulla peste a Firenze; uno scatto dei malati di influenza spagnola. Sotto e in basso, due immagini relative all’attuale influenza A. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace
provocando un’ecatombe senza pari, paragonabile solo al “morbo di Giustiniano”. Poi dopo il terribile Trecento - iniziarono le pandemie da colera e ci furono ancora peste e vaiolo, ma nessuna di queste raggiunse un numero di vittime superiore ai venti milioni. La scoperta del nuovo mondo e l’arrivo dei conquistatori riaprì la ferita: solo in Messico nel 1520, causa vaiolo, passarono a miglior vita oltre150mila persone, compreso l’imperatore. Mentre la “grande armée”di Napoleone venne decimata dal tifo durante la campagna di Russia. Questo è proprio uno di quei casi in cui al peggio non c’è fine. E per farla breve - sbarchiamo
nel Novecento. La pandemia per eccellenza fu fra il 1918 e il 1919: si tratta della super citata “influenza spagnola”. Iniziò nell’agosto del 1918 in tre diversi luoghi: Brest in Francia, Boston nel Massachusetts, e Freetown in Sierra Leone. Si trattava di un ceppo particolarmente violento e letale che non venne mai identificato con precisione. La malattia si diffuse in tutto il mondo uccidendo 25 milioni di persone in sei mesi: circa 17 milioni in India, 500mila negli Stati Uniti, 200mila in Gran Bretagna. Sparì dopo 18 mesi. La spagnola è l’ultima grande pandemia. L’asiatica,infatti, fra il 1957-58 non raggiunse negli Usa i 70mila morti e la seconda edizione, proveniente da Hong Kong, dovuta al virus H3N2, arrivò a 34mila vittime, sempre negli States.
E siamo arrivati ai giorni d’oggi. Prima - più di una decina d’anni fa - scatta il terrore per il morbo della mucca pazza. Si prendono precauzioni robuste: sino a impedire per mesi e mesi la vendita della bistecca fiorentina. La malattia rallenta la sua diffusione, alla fine -dopo qualche anno - scompare del tutto. Poi arriva la Sars o Aviaria: l’allarme è altissimo. Inizia quando un uomo d’affari americano che viaggiava dalla Cina si ammala su un volo da
cultura
17 dicembre 2009 • pagina 19
verni, pressati dall’opinione pubblica, hanno firmato contratti in bianco per milioni di dosi pagando anticipatamente vaccini non ancora approvati. Una pazzia. Ma la situazione era surriscaldata, nonostante ci fossero parecchi scienziati - in Italia fra questi c’era Silvio Garattini - che invitavano alla calma sostenendo che l’influenza A non era così pericolosa, anzi lo era meno di un’influenza normale. Gocce d’acqua cadute nel deserto. Tant’è che l’inglese Gsdk ha piazzato in pochi giorni 440 milioni di dosi di Pandemrix a 22 Paesi differenti con un incasso straordinario di quasi 3 miliardi di euro. Non solo, le vendite di un altro suo prodotto antivirale, Relenza, hanno raggiunto i 600 milioni di euro nei primi nove mesi dell’anno. E questo è solo un esempio La medesima cosa è capitata alla Roche, all’americana Baxter e all’inglese Astra Zeneca. Insomma, c’è in atto una overdose di vaccini che nessuno sa più dove mettere. L’Olanda ha aperto una sorta di svendita del 50 per cento della sua dotazione. In Italia ce ne sono 24 milioni, ma sin qui i vaccinati non raggiungono il milione. Le scorte insomma non mancano. Non c’è Asl, da Varese, alla Toscana sino alla Sicilia, in cui non ci sia un numero esorbitante di dosi. E sembra - che il picco dell’influenza A sia già superato.
Singapore. Sintomi simili alla polmonite, l’epidemia viene trasmessa dai volatili. Ogni volta che se ne trova uno morto circola una paura di tipo isterico. Galline, anatre, polli vengono guardati a vista; diventano il nemico pubblico numero uno. Nessuno compra più la carne di questi animali. Le aziende che le producono e le commercializzano finiscono nei guai più
neri. Il Paese dal quale è partito il virus però fa lungamente finta di niente: Pechino tace e parla solo quando i morti diventano migliaia. L’Oms lancia un’allerta globale. Ma per fortuna il morbo resta relegato in Asia, pochi i casi in Occidente, anche se non si è mai riusciti a realizzare un vaccino adeguato. E siamo alla seconda pandemia mancata. Mancata grazie a cosa? Per il momento, occupiamoci della terza, quella di quest’anno, e poi passiamo alle conclusioni. Il 2009 è di nuovo all’insegna della grande paura.
Questa volta è di scena l’influenza A H1N1. I giornali tutte le mattine “strillano” in prima pagina un morto, o cinque, o sette. Peggio di tutti va a Napoli, così sembra. In realtà le regioni più colpite sono le Marche e l’Emilia. Ma hanno un’informazione più discreta, che fa meno rumore.
In realtà la pandemia mancata si è trasformata però in un vero grande business per l’industria farmaceutica. La Big Pharma, malgrado la mitezza del morbo, ha già incassato 20 miliardi di euro, mentre l’Oms è stata costretta ad aprire un’inchiesta sul conflitto di interesse di alcuni suoi consulenti scientifici, accusati di essere anche sul libro paga dell’indu-
stria del settore. L’influenza d’oro ha beneficiato più di ogni altro i produttori di vaccino. Fino a qualche anno fa questo “ramo” del business si stava seccando: le malattie virali gravi sembravano nei Paesi ricchi sull’orlo dell’estinzione. Mentre in quelli del Terzo Mondo, la miseria imperante impediva comunque - anche a chi ne aveva un disperato bisogno - di acquistare vaccini. Oggi invece le cose sono cambiate: il rischio di bio-terrorismo e il gran battage sull’Aviaria avevano già fatto ripartire la produzione, quest’anno c’è stato un vero boom. L’influenza A è stata infatti la ciliegina sulla torta, una miniera d’oro che ha regalato ai big dell’industria farmaceutica un bonus di 12 miliardi. A settembre la domanda di dosi era doppia rispetto alla capacità produttiva mondiale. I go-
Alcuni scienziati hanno aperto esplicitamente il fuoco sull’Oms per aver cambiato la definizione di pandemia. Un tempo con questa parola s’intendeva una malattia che causava un enorme numero di morti. Dizione sparita nei primi mesi dell’anno dal prontuario di Ginevra. Una ragione in più per credere al “conflitto d’interesse”di cui si è già parlato. L’Oms si trincera dietro una dichiarazione giusta ma che può coprire anche operazioni oscure: «Collaboriamo con l’industria farmaceutica per ragioni legittime. I laboratori dell’industria svolgono un ruolo essenziale per raggiungere gli obiettivi di salute pubblica». Insomma, la storia più la giri e più sembra soprattutto a uso del business. Anche se - e questo è vero anche per l’Aviaria l’allarme eccessivo è anche la causa però della brusca frenata che hanno avuto le pandemie. Le preoccupazioni, le campagne stampa, le grida dell’Oms sono certo molto utili a chi produce farmaci, ma probabilmente servono anche rendere più cauti e attenti i possibili soggetti a rischio. C’è poi la tendenza, ormai affermatasi, di tenere i malati sospetti subito in isolamento: accadeva anche prima ma ora c’è un supplemento di attenzione e di rigore. Il risultato di tutto ciò è che qualcuno si arricchisce a dismisura, ma non ci sono più le epidemie di una volta. E meno male.
società
pagina 20 • 17 dicembre 2009
a famiglia è competente”, recita il titolo di una delle opere del terapeuta danese Jesper Juul, ricca di indicazioni per costruire relazioni forti e feconde tra coppie e tra padri e figli. Se lo stesso titolo fosse uscito dalla penna di un italiano, con intenti simili, sarebbe probabilmente diventato il bersaglio polemico di quanti oggi nel nostro paese credono di poter individuare nella struttura familiare l’origine di tutti i mali.
“L
Mali economici, anzitutto: come il calo di produttività nazionale e competitività rispetto al contesto europeo; mali sociali, come la scarsa mobilità geografica e la disoccupazione, femminile; mali morali, infine, come il parassitismo, l’illegalità, persino la malavita. È del tutto naturale che da una simile prospettiva, largamente sponsorizzata dai settori più in vista dell’opinione pubblica, nascano iniziative destinate non a sostenere la famiglia, ma a farne le veci, avocando a soggetti terzi – meglio se pubblici – il ruolo di supplenza alle sue presunte carenze. L’emblema di questo invito alla famiglia a farsi da parte si trova all’incrocio tra il tema dell’educazione e il complesso ambito della conciliazione tra vita e lavoro. Si parla della delicata fase della prima infanzia, quando l’irrinunciabile bisogno che i neonati (non ancora “bambini”, visto che hanno da un massimo di tre anni a un minimo di soli tre mesi) hanno dei propri genitori viene subordinato a esigenze come l’emancipazione e la produttività, che impongono l’immediata ripresa lavorativa di madri e padri. Per rendere più digeribile il fatto – assai poco politically correct – che esigenze simili non collimino con le necessità infantili, si aggiungono giustificazioni che somigliano a pretesti: come la socializzazione, il vantaggio cognitivo, addirittura il diritto all’istruzione. Ragioni che la scienza e l’esperienza – oltreché l’ordinamento scolastico – sconsigliano di applicare ai bambini al di sotto dei tre anni; ma che cadono a fagiolo, se si tratta di sostenere un improbabile primato degli asili nido e delle altre strutture di assistenza alla prima infanzia sulla famiglia. Meglio il nido della famiglia, insomma: per garantire una crescita equilibrata, per stimolare lo sviluppo intellettuale, per educare sin da piccoli alla convivenza civile. Tutti vantaggi incontestabili (l’esecrabile eccezione dell’asilo di Pistoia non può essere generalizzata alle tantissime strutture colorate, attrezzate, sicure, animate da educatrici professionali). Meno incontestabile è il sottile sottinteso, secondo il quale i piccoli non potrebbero mai godere di simili benefici restando
Libri. Paola Liberace dedica il suo nuovo saggio alle scuole d’infanzia
I bimbi all’asilo, la famiglia in gabbia di Paola Liberace
L’azione di governo privilegia la delega esterna della cura genitoriale, privando padri e madri della libertà di scelta a casa con mamma e papà. E se anche potessero, si aggiunge ora, non sarebbe corretto che lo facessero, per non fomentare il “familismo amorale”, che rappresenta la vera piaga nazionale. Al quale, c’è da scommetterci, una valida risposta viene ritenuta la disseminazione di nidi pubblici sul territorio nazionale: latori – almeno nella vulgata – di garanzie ben più certe di quelle offerte dalle strutture
private (oltre che di costi ben più gravi per l’erario pubblico: ma questo sembra essere un dettaglio persino per i liberali antistatalisti).
Malgrado i sostenitori di simili tesi rimproverino i ministri Sacconi e Carfagna di eccessiva attenzione alla famiglia, l’operato effettivo di questi non si discosta poi tanto dalle teorie di quelli. Nel recente pacchetto di misure per la conciliazione, emanato di concerto dai due dicasteri, a fare la parte del leone (nel contesto di un finanziamento dei provvedimenti che ammonta a soli 40 milioni di euro totali) sono il potenziamento dei servizi di assistenza all’infanzia (compresi i nidi “familiari”), e la sperimentazione dei “buoni lavoro”per l’acquisto dei servizi anche da privati.
Della cifra stanziata dal governo, una minima parte è destinata a “favorire”il telelavoro – fatti salvi i dubbi sull’effettivo significato del termine, che spazia dal vecchio e marginalizzante lavoro a domicilio alla più innovativa delocalizzazione di mansioni anche di alta responsabilità – ; mentre poco più che le intenzioni dichiarate restano a sostegno del part-time, ai primi posti non solo tra le misure anticrisi, ma anche tra i desideri delle madri lavoratrici. Eppure, tra coloro che
Nella foto grande, alcuni bambini in età prescolare intenti a dipingere. Qui sopra, la copertina del libro di Paola Liberace
amano sottolineare il divario tra il nostro paese e i più avanzati vicini europei, nessuno si leva a protestare che la flessibilità lavorativa fa da tempo parte del bagaglio delle medesime nazioni citate ad esempio di modernità: tutti amano sottolineare l’ampia disponibilità estera di strutture di assistenza alla prima infanzia, ma non la larga diffusione oltreconfine di congedi parentali retribuiti, di contratti di lavoro a tempo parziale, di orari flessibili. Così, in nome della lotta al familismo, si chiude insieme la porta alla possibilità di rendere più dinamiche le modalità lavorative e di modernizzare il Paese. Il principio guida dell’azione di governo, così come quello dell’argomentazione dei suoi abituali detrattori, resta la delega esterna della cura familiare, piuttosto che il conferimento alla famiglia di una reale libertà di scelta, che contempli anche la possibilità di incaricarsi direttamente di questo compito. Assumere come punto di partenza intoccabile una modalità lavorativa rigida e ormai obsoleta, fondata sulla presenza piuttosto che sugli obiettivi, impone fatalmente di sacrificare ad essa l’altro polo della conciliazione, la famiglia.
Ammettere, al contrario, che la precoce e prolungata separazione dei neonati dai genitori sia un male, sia pure necessario, potrebbe indurre a rivedere questa necessità: e suggerire di formulare provvedimenti di conciliazione – come congedi parentali estesi e retribuiti, parttime, delocalizzazione delle attività – che non prevedano in ogni caso la delega incondizionata dell’educazione dei figli a terzi. Come avviene nel resto d’Europa: dove non sono certo familisti come noi, se questo significa identificare la famiglia con l’origine dei propri mali.
società
17 dicembre 2009 • pagina 21
Mostri sacri. Parla Suor Keyrouz, religiosa che ha fondato l’Ensemble de la Paix a Beirut e incanta tutti con la sua voce
Marie, la Callas con il velo di Rossella Fabiani
a sua arma è la voce, il canto. Anzi, i canti sacri di tutte le religioni per dimostrare che Dio è uno solo e che è un Dio di pace. «Chi fa la guerra con la religione non ha mai pregato: usa il nome di Dio per attirare la gente e piegarla ai suoi fini politici», dice suor Marie Keyrouz. Non è facile descrivere questa libanese di 46 anni in cui religione e arte si fondono annullando ogni confine. La sua vita semplice e straordinaria è l’esempio di un insegnamento morale che non ha nulla di moralistico, di una sete di sapere che non diventa mai accademica, di una rinuncia all’io che non è mai sacrificio, ma gioia, di una lode a Dio che non è mai retorica.
L
Nata a Deir el-Ahmar, vicino all’antica città romana di Baalbeck, figlia di musicisti, suor Marie sin da bambina ha scelto di seguire la sua vocazione: lodare Dio con il canto. La incontro in un albergo nella città del Vaticano di mattina presto, il giorno dopo il concerto all’Auditorium di via della Conciliazione con i solisti dell’Ensemble de la Paix – che lei stessa ha fondato – e con la voce di Pamela Villoresi che ha dato vita a testi di Etty Hillesum, Madre Teresa di Calcutta e Malek Jan Ne’Mati. Il concerto è stato un successo, come ovunque nel mondo. Lei arriva scusandosi di un ritardo piccolissimo. Mi appare minuta, apparentemente inerme nello spazio rigoroso della sala che ci ospita. È un’immagine emblematica della ricerca di suor Marie. In lei la preghiera e la passione per la conoscenza si intrecciano e l’opposizione alla ferocia del mondo avviene attraverso la forza eversiva della mitezza e quella evocatrice del canto. Ha cominciato giovanissima. «Avevo 7 anni quando ho tenuto il mio primo concerto a scuola a Beirut. Ma già a 5 anni cantavo con mia madre: la accompagnavo mentre interpretava la musica sacra in chiesa. E una volta, mi ricordo era il venerdì santo, lei smise di cantare all’improvviso e io rimasi a cantare da sola. Fu la prima volta che cantai in pubblico». La sua vocazione è nata quasi insieme a quella del canto. «Certo non ho deciso a 7 anni, ma la presenza di Dio mi ha accompagnata sin da giovanissima. A 13 anni sono entrata al Conservatorio di Beirut dove mi facevano studiare Verdi e Rossini: seguivo un program-
ma di opera classica. Dissi al mio insegnante che volevo cantare qualcosa che avesse un valore morale e fu lui allora a dirmi che dovevo andare all’oratorio. È stato l’inizio di tutto. Non ho abbandonato Haendel, Verdi, Bach, ma ho cominciato a studiare anche il repertorio di musica sacra». Quando Marie Keyrouz si è diplomata, era già suora e aveva già scelto la sua strada: conciliare la mu-
te cose: «Il ruolo del canto rituale e la sua funzione culturale nella vita dell’uomo». Dice suor Marie: «Il canto sacro ha un grande effetto sulla vita dell’uomo, lo mette in uno stato di grazia, lo prepara all’incontro con Dio. Il canto è una preghiera doppia, come diceva San Basilio, anzi tripla come dico io perché coinvolge gli altri». Quando suor Marie parla di canto sacro non si riferisce soltanto alla
«Non c’è differenza tra i testi classici e quelli orientali, purché il canto sia sincero, sia lode del Signore. Cristiano, ebreo o musulmano, religioso, credente o non, ogni uomo, un giorno o l’altro, sente il bisogno di abbandonarsi a Dio» sica sacra classica con quella orientale. «Mi dicevano che non era possibile, ma per me la voce è uno strumento. E non c’è differenza tra i testi classici e quelli orientali, purché il canto sia sincero, sia lode del Signore. Cristiano, ebreo o musulmano, religioso, credente o non credente, ogni uomo, un
giorno o l’altro, sente il bisogno di abbandonarsi nelle braccia di Dio. Il mio sogno più grande è quello di cantare a Gerusalemme».
musica sacra – orientale come occidentale – della religione cristiana. Certo, lei fa parte dell’ordine delle Basiliane di rito cattolico, ma la sua famiglia è cristiano maronita (è la terza di Dopo il diploma a Beirut, arri- cinque figli, tre maschi e due va il dottorato alla Sorbona di femmine) e tutta la sua vita è al Parigi in musicologia e antro- crocevia delle religioni, tra cripologia. Il titolo spiega già mol- stiani, ebrei, musulmani. «Non ha senso fare guerre in nome delle religioni Nella foto perché il messaggio è grande, unico. L’Ensamble de un momento la Paix oggi ha 25 anni tratto da quando l’ho fondato dal concerto a Beirut sotto le bombe dall’Ensemble della guerra civile. In de la Paix. Libano esistono 18 coPiù in basso, munità religiose e io le e qui accanto, ho riunite tutte in quesuor Marie sta orchestra proprio Keyrouz, per dimostrare che religiosa quella che chiamano libanese guerra di religione in che ha fondato realtà è guerra politica. l’Ensemble A chi non riesce a dide la Paix menticare le differenze a Beirut tra arabi, ebrei, cristiani io posso soltanto di-
re che occorre dare un senso alla sofferenza. Tutti hanno sofferto, arabi, ebrei e cristiani. L’importante non è ricordare la sofferenza, ma accettarla come una lezione e superarla perché, comunque sia, c’è un solo Dio. E il canto sacro è un mezzo importante per farlo. È il modo per cantare la bellezza delle tre religioni, per cantare le cose che uniscono e non la storia che divide». Sono più di vent’anni che suor Marie si esibisce con l’Ensemble de la Paix. L’hanno anche chiamata la “suora-star”, l’hanno paragonata per la voce a Maria Callas. Ma quello che interessa a suor Marie è la testimonianza, il messaggio che resta dopo i suoi concerti. Soprattutto adesso che il fondamentalismo islamico è all’attacco. «Nel mondo arabo sono accolta molto bene. Come al Festival di Fez in Marocco dove una volta Hassan, il padre dell’attuale re, è venuto a trovarmi, ha stretto le mie mani tra le sue e mi ha detto che era molto felice e fiero di me a nome di tutta la comunità islamica. Nel 1985 ho conosciuto Giovanni Paolo II che nell’aula Paolo VI mi ha voluto abbracciare e mi ha detto: ‘suor Marie non smettete mai un secondo di lodare Dio’. Perché non è Dio che fa la guerra, ma sono gli uomini a farla, tentati da interessi, soldi, potere». L’impegno di suor Marie non finisce con i concerti. «A Parigi, dove adesso vivo, ho fondato due associazioni: l’Istituto internazionale di canto sacro e l’Istituto dell’infanzia per la pace che prepara i bambini ad essere gli uomini di pace di domani. Con i proventi dei concerti finanzio la scuola perché l’ignoranza è alla base della guerra».
Per il futuro ha le idee chiare. «Canterò fino alla fine dei miei giorni, fino a che il Signore me ne darà la forza. Non ho una vita da artista, ma da religiosa. La mia giornata comincia presto al mattino, alle 5 per la preghiera e per la messa. Poi mi ritrovo con le sorelle a fare colazione. Alle 8.30 sono già all’istituto che ho fondato 15 anni fa dove insegno canto bizantino, siriaco, classico e gregoriano. Spesso tengo seminari o conferenze. Nel pomeriggio faccio i miei esercizi di canto e alle otto di sera mi ritiro per pregare. Per i miei concerti non sto mai fuori più di 24 ore e incontro la mia orchestra una volta alla settimana. Cantare è la mia vocazione. Ogni religioso è un ponte tra l’uomo e Dio e usa il suo strumento migliore. Il mio è la voce».
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”The New Yorker” del 15/12/09
Il giardiniere di Villa Somalia di Jon Lee Anderson ome scrivevo nelle mie recenti Lettere da Mogadiscio, ero stato sistemato nel compound presidenziale di Villa Somalia durante la permanenza in quei luoghi. Sheik Ahmed Mursal, anziano giardiniere, mi stava aiutando a capire meglio alcune cose di quella terra. Oggi il peggiore esempio di Stato “fallito” al mondo. Ahmed cominciò a lavorare a Villa Somalia negli anni Cinquanta, quando erano ancora gli italiani a gestire la transazione post-coloniale del Paese. Solo recentemente è tornato, da un remoto villaggio nel sud. Si è stupito di verde i somali vestire all’europea e bere tè nel leggendario caffè Croce del Sud, nel centro cittadino, di fianco alla Cattedrale. E che fu distrutto nel 1992. «Nel mio villaggio solo gli europei vestivano in quella maniera. Nel mio villaggio con gli europei non potevano neanche parlare». Ahmed è oggi un canuto signore di settantacinque anni, con una lunga barba bianca. Uno zucchetto bianco in testa, una camicia rossa e dei larghi pantaloni. Dopo una leggera pioggia mattutina il cielo si era aperto al sole. E soffiava una leggera brezza umida. Ahmed mi spiegava i nomi delle piante in una lingua che era ciò che ricordava dell’italiano. «Campanelli yalo» erano dei fiori gialli dalla forma caratteristica, un albero veniva chiamato «anganelli» e un altro ancora «frangipani». Poi un arbusto che sembrava un tamarindo: «arbol indio» scandiva il vecchio giardiniere. All’ombra di molti di questi alberi Sheik ha piantato pomodori e banane. Un tempo, in quei giardini, giravano libere antilopi, scimmiette e una giraffa. Mentre dentro una gabbia sonnecchiavano un leone e una tigre. Passeggiando sul terrazzo dai colori blu, bianco e ocra guardavamo insieme i fiori e un pennone bianco sul-
C
la cui cima sventolava la bandiera somala. Una semplice stella bianca a cinque punte in campo azzurro. Ahmed spiegava che qui, nel 1960, fu festeggiato il giorno dell’indipendenza nazionale. «Laggiù sotto quegli alberi avevano preso posto diplomatici e dignitari e la sotto la banda musicale» raccontava l’anziano. Eravamo proprio di fianco alla nuova foresteria tutta vetro e cemento. Mi avevano assegnato la suite Vip, una stanza spaziosa con un balcone. Sapevo di aver avuto un trattamento speciale. I ministri più importanti del governo e i loro consulenti dormivano in due o tre per stanza. Ahmed mi ricordò che anche il dittatore ugandese Idi Amin aveva dormito in quella camera.
«Lo amavamo perché era un presidente africano» mi ricordava Sheik Ahmed che aveva lavorato anche per il dittatore somalo Siad Barre, dal 1961 al ’69. «L’ho visto anche quando scappava da qui» chiosa Sheik indicando un grande cancello. «Trenta minuti più tardi si suoi nemici entravano da quella parte» continua il vecchio indicando un’altra zona del giardino. «Di tutti i presidenti somali Siad Barre è quello che più si è interessato del giardino». Qualche volta al ritorno dai suoi viaggi all’estero portava ad Ahmed delle nuove sementi. Poi si avvicinano due donne nei loro mantelli. Si lamentano, capisco che il bersaglio è Ahmed. Sono state licenziate nell’ultimo cambio presidenziale. «Lui ha portato qui la sua gente e non c’è più posto per noi» dice una delle donne, mentre il vecchio guar-
da a terra e poi alza lo sguardo perso nel vuoto. «Quella è gente legata al clan del generale Aidid» mi spiega Ahmed, facendo il nome di un signore della guerra che aveva preso il potere al culmine della guerra civile. «Ad ogni cambio di governo si presentano a Villa Somalia quelle due e vengono regolarmente sbattute fuori» mi spiega il mio interprete Hussein. Nella società somala ognuno pensa per sé, per la famiglia e per il clan. Solo Ahmed a messo al mondo «a Dio piacendo» non meno di 35 bambini. «Nessuno dei miei figli ha mai portato un’arma» dichiara con orgoglio. «Tutto ciò che possiedo viene dal giardinaggio, dagli alberi e dai fiori». Molti dei suoi figli sono stati mandati a studiare all’estero; chi in Gran Bretagna, chi in Finlandia e chi negli Usa. «Lo scriva, lo scriva bene che io non ho mai offeso nessuno e così i miei figli. Ho lavorato duro. Sono triste che il mio Paese versi in queste condizioni e non possa ripagare i suoi cittadini. Io aspetto, continuo a lavorare fino a quando potrò avere la pensione e tornare casa mia»
L’IMMAGINE
Agevolazioni agli evasori fiscali e riduzioni a quelle “foglie morte” dei pensionati
Il mio nome è mai più
Da una notizia letta su Televideo di qualche giorno fa, ho appreso che le nuove pensioni, nel 2010, quindi dal prossimo mese di gennaio, subiranno una riduzione che va dallo 0,8% al 3,7%. Si tratta senza dubbio di un brutto segnale che riguarda la categoria più debole: quella dei pensionati, che in passato venne definita da un politico, in quell’epoca molto in auge,“delle foglie morte”. Brutto segnale perché giunge in piena recessione economica, nella quale purtroppo è stata registrata anche una lieve inflazione. È stupefacente ed incomprensibile come si possano offrire agevolazioni agli evasori fiscali che hanno portato ingenti capitali all’estero, contribuendo così ad aggravare il nostro sistema economico, nel mentre si riducono le pensioni. I due trattamenti messi a confronto denotano un’insensibilità verso i più deboli che non hanno più nemmeno l’arma dello sciopero. Un’insensibilità che umilia ancor più se confrontata alle alte retribuzioni dei personaggi dello spettacolo, della tv, dello sport e della politica.
Incatenati al collo e ai piedi, ammassati nelle stive delle navi e poi venduti al miglior offerente. Gli schiavi africani non furono deportati solo nelle Americhe ma anche verso l’Oriente, come ci ricorda questo monumento agli schiavi di Zanzibar. L’arcipelago che si trova nell’Oceano indiano fu infatti per molto tempo una delle principali vie di smercio degli esseri umani
Luigi Celebre
LE PERVERSIONI BORGHESI Tutti sappiamo che domenica scorsa il presidente del Consiglio è stato colpito al volto con una statuetta del Duomo di Milano, impugnata da uno squilibrato che ha sferrato un violento e forte fendente, tale da far copiosamnete sanguinare la vittima da due punti del viso. L’on.Tonino di Pietra (il celodurista della Leghimmobiliare P.d.s., non nel senso della lista che lo portò mugellamente in Parlamento ma nel senso antico e dialettale romano pro domo sua) è l’unico leader di un partito politico presente nel Parlamento italiano che, invece di esprimere solidarietà a Berlusconi, ha approfittato dell’occasione per insultare la vittima e incitare gli scalmanati a non più tratte-
nersi: perché? Perché in fondo nello schieramento archeomalintesincostituzionale che va dal Pd a Idv passando da Sel, Rc, Pdci (alla cui brace non si aggiunga l’Udc! Sarebbe un antiberlusconismo tragicamente peggiore di qualsiasi passato sudditamente berlusconista) è bene ciò che serve alla causa, cioè al partito? Forse una volta quando la sinistra credeva nel socialismo scientifico! Adesso che comanda lo scientismo sessualista e sinistra significa radicale il fine che giustifica ogni mezzo è lotta contro la causa di tutti i mali: estirpare il berlusconismo. E dopo come e con chi governare? Domanda stupida; immagina compagno! Dopo resteremo i puri in puro Nirvana, niente più Stato, né reli-
gione, né guerre né persone inibite da morali e stressate da pensose ricerche spirtuali. Soltanto gaudenti esseri bisessualmente sociali, postumani nonviolenti, protetti da una nobile e altruisticamente triste intellighenzia occupata a sradicare nei soggetti geneticamente inidonei: santità, malattia, critica, momogamia, eterosessualità e ogni altra ano-
mala perversione borghese.
Matteo Maria Martinoli - Milano
QUESTA E’ LA DEMOCRAZIA CHE DOBBIAMO DIFENDERE Silvio Berlusconi ha fatto i miracoli, non usa il politichese, dice quello che pensa, si comporta come uno di noi, ci fa godere di tre ministri straordinari (gli altri sono tutti ladri!), è perseguitato da
certi magistrati... Viva Silvio! Ma se non vuole fare niente per le famiglie, per la crisi dei consumi e per le fabbriche che chiudono, merita questo e altro. Sì alla violenza, purché venga dopo la ragione e dopo l’ultima spiaggia. Ahinoi, con Berlusconi è mancata l’ultima spiaggia. Di chi la colpa? Dei giornali, sicuramente.
Michele Ricciardi
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog
dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
I progetti sono gli stessi dell’anno passato Mi sono permesso di prendere la vostra chiave. Data la mia stanchezza, credo persino di aver violato il letto. Ho avvertito il portinaio che domani mi verrà portato qui un pacchetto. Potreste spingere la vostra devozione fino al punto di sistemare voi stesso, al più presto, il pacchetto presso un buon Monte di Pietà, cercando di ottenere 50 franchi? In ogni caso, il massimo. Figuratevi che quella maledetta carogna del padrone di casa mi affligge così tanto che ieri sera non sono rientarto. Esistono diverse ragioni, senza contare l’economia del tempo e delle spese, per le quali non mi faccio portare il pacchetto a casa. Ma, tra le altre ragioni, trovo inutile che quella carogna immagini fino a che punto arrivi la mia devozione per lei. Mi sono immerso nel romanzo di Furetière. Mio caro, voi conservate tutto e, quando si pensa alla posterità, non si firmano lettere come queste. Non dimenticate che per la cortesia che vi chiedo avete bisogno di una carta che attesti la vostra identità. Quanto ai miei progetti letterari - ma voi vi interessate così poco - ve ne parlerò un’altra volta. D’altronde per l’anno nuovo sono gli stessi progetti dell’anno che sta per finire e che la mia orribile vita mi ha impedito di portare a termine. Charles Baudelaire a Charles Asselineau
ACCADDE OGGI
GIOVANARDI ASSOLDA TOPOLINO CONTRO CHI SCHERZA SUGLI SPINELLI La droga è interclassista perché colpisce a Scampia, nei quartieri poveri della provincia di Napoli e a Milano, dove i grandi professionisti, gli avvocati e i medici, a 40 anni crollano sotto il peso della cocaina rovinando se stessi, i loro clienti, le loro famiglie le loro vite. Ci vuole attività di prevenzione, consapevolezza corale e ognuno deve fare la propria parte. Insomma, droga dappertutto. Sembrerebbe un’ammissione di colpevolezza, o di impotenza. Ma invece di trarne le debite conclusioni - la guerra alla droga non solo non ha ridotto il consumo e il traffico di stupefacenti, ma ne ha moltiplicato i danni - Giovanardi continua la sua crociata contro chi la pensa diversamente da lui. Al proibizionismo made in Italy non rimane che la lotta contro chi non vi aderisce. La colpa del dilagante fenomeno del consumo, delle narcomafie, delle overdosi, del sovraffollamento carcerario, della criminalità diffusa legata allo spaccio non di una politica vecchia quarant’anni; non è neanche di Giovanardi, che guida le politiche antidroga del governo da quasi un decennio. No, secondo lo zar antidroga de’ noantri, la colpa è di chi scherza sugli spinelli. I cattivi maestri rischiano di smontare, come sempre avviene nella vita, gli indirizzi positivi, come quando vedo qualche cretino in televisione che fuma lo spinello e fa lo spiritoso. Si vede la fine che fanno i grandi imprenditori e i grandi politici quando, rimbam-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
17 dicembre 1538 Papa Paolo III scomunica re Enrico VIII d’Inghilterra 1770 Ludwig van Beethoven nasce ed è battezzato nella chiesa di San Remigio a Bonn 1903 Primo volo a motore dei fratelli Wright 1932 Nasce il consorzio per la tutela dell’Asti spumante 1941 I nazisti iniziano l’assedio di Sebastopoli 1944 Il Western defense command emana una dichiarazione che pone fine all’internamento dei giapponesi negli Usa 1961 L’India strappa Goa al Portogallo 1969 L’aviazione degli Stati Uniti annuncia che le sue investigazioni sugli Ufo non hanno dato prove dell’esistenza di astronavi extraterrestri 1970 Si apre il processo per il Massacro di My Lai 1973 L’American psychiatric association toglie l’omosessualità dalla sua lista di malattie mentali 1989 I Simpson debuttano negli Stati Uniti in episodi di mezz’ora in prima serata, sulla rete Fox
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
biti dalla cocaina, finiscono nei video, distruggono se stessi e la propria famiglia e poi devono andare in convento ma allora è tardi. Dopo l’allenza con i campioni dello sport Balotelli, Kakà e Del Piero, che si sono messi a disposizione gratuitamente per la campagna informativa contro la droga, ora il testimonial sarà Topolino, grazie alla Disney che ha manifestato l’intenzione di aiutarci in questa battaglia. Sì, avete capito bene. È Topolino l’ultima arma segreta di Giovanardi.
Pietro Yates Moretti
PARTECIPAZIONE DEI LAVORATORI DIPENDENTI Dove prevale un alto costume morale, la partecipazione decisionale e la partecipazione economica dei dipendenti possono migliorare le conoscenze e le relazioni aziendali, maturare e responsabilizzare il personale, nonché unire proficuamente il lavoro e il capitale nella cointeressenza ai risultati economici. La partecipazione razionale può contribuire a mutare la percezione del lavoro: da condanna biblica a soddisfazione creativa. La partecipazione è opportuna, se migliora il senso d’appartenenza e la produttività aziendale; è sconsigliabile, se fomenta la discordia e mina la vitalità dell’unità economica. Per conseguire il bene generale, occorre sostituire l’amore all’odio, la collaborazione al conflitto, la concretezza all’astrazione, la scienza al dogma e all’ideologia, come pure riscoprire il senso del dovere e la religione del lavoro.
Gianfranco Nìbale
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
LA POLITICA RESPONSABILE DELL’UDC (IV PARTE) L’Italia deve affrontare i mercati con prodotti ad alta tecnologia, ci sono spazi di operatività in Brasile e in Russia, le produzioni a bassi prezzi vanno abbandonate perché il costo del lavoro italiano non le renderebbe competitive, quindi occorre incentivare l’alta formazione. Pezzotta ribadisce, invece, sostanzialmente i principi sin qui elencati e precisa che la cristianità è un valore da preservare ma bisogna rendersi conto che la multiculturalità è ineludibile e critica l’iniziativa delle notti bianche. Anch’egli ribadisce che è urgente il ritorno della politica fra la gente e per la gente. Pierferdinando Casini, infine, riprende e condivide i temi sin qui trattati. «Il crocifisso va inteso come il simbolo di una civiltà non come il pretesto per l’avvio di un conflitto». In quest’ottica concorda con Sacconi sul fatto che l’ottenimento della cittadinanza debba essere un percorso di condivisione e accettazione di valori, debba essere il simbolo di un raggiunto senso di appartenenza. «Un anno e mezzo fa abbiamo detto che il populismo non può sostituire la partecipazione». I riscontri infatti a livello politico di questa tendenza non sono stati edificanti. Il giustizialismo dipietrista è servito a creare spazi, la giustizia va riformata ma non affidata al partito di De Magistris, il conflitto interpartitico va sedato e le proposte devono dimostrare la volontà di armistizio e occorre che tutti siano corretti nell’esercizio delle proprie funzioni. Un magistrato non può passare da un talk show all’altro e la politica al momento opportuno deve fare il proprio dovere di fronte all’opinione pubblica, non condurre una difesa corporativa di se stessa come nel caso Cosentino. Ridare fiato alla società civile e renderle possibile la vita evitando i conflitti e ridando speranza. Finalmente, una teoria di analisi sociali e politiche finalizzate ad affrontare le difficoltà e a cercare soluzioni con un atteggiamento aperto ma responsabile. Mi viene in mente quando Monignor Ruini in una trasmissione televisiva incitava a porsi di fronte al mondo e alla gente a cuore aperto come l’angelo di Monserrat, che ho avuto occasione di vedere e dalla cui leggerezza sono rimasta colpita. Che ci si stia riuscendo? Marina Rossi C O O R D I N A T R I C E CI R C O L I LI B E R A L MI L A N O
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Gennaro Moccia, Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani,
Emilio Spedicato, Davide Urso,
Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano
Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari,
Marco Vallora, Sergio Valzania
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner,
Abbonamenti
06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30