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Tutti dovremmo preoccuparci

del futuro, perché là dobbiamo passare il resto della nostra vita Charles Franklin Kettering

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 19 DICEMBRE 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Aperta ieri a Roma l’Assemblea nazionale delle Regioni dell’Udc che oggi sarà chiusa dall’intervento di Pier Ferdinando Casini

Il partito della pacificazione Dagli Stati generali del Centro una proposta per superare la “guerra civile”e dare senso al dialogo: una commissione costituente parlamentare per fare le riforme che l’Italia non può più aspettare Può nascere una nuova fase della Repubblica?

di Francesco Capozza

ROMA. L’Udc mette un altro mattone sul basamento del futuro del nostro Paese: serve una Commissione parlamentare che unisca maggioranza e opposizioni per dare al Paese le riforme che non si possono più rinviare. È questa la proposta che arriva dall’Assemblea nazionale delle Regioni è aperta ieri a Roma da Lorenzo Cesa e Savino Pezzotta. L’importante è guardare avanti: l’oggi è lo spazio di dialogo che sembra essersi aperto tra maggioranza e opposizioni; il domani è un Paese finalmente pacificato e in grado di ridiscutere le proprie regole condivise. L’assemblea dei centristi non poteva arrivare in un momento meno delicato per l’Italia: con la prospettiva di possibile cambio di rotta nei rapporti fra maggioranza e opposizione, l’Udc ha imposto alla politica italiana una nuova agenda che di fatto ha una sola parola: pacificazione. Su questo hanno insistito Cesa e Pezzotta nei loro interventi di ieri e da qui ripartità Pier Ferdinando Casini, oggi, nelle conclusioni.

I politologi analizzano il nuovo clima della politica Alessandro Campi

VERSO LA TERZA REPUBBLICA

Disarmare il bipolarismo isolando Bossi e Di Pietro di Enrico Cisnetto davvero arrivato il momento delle “colombe” nella politica italiana? Me lo auguro, ma non ci scommetterei un centesimo. Ma comunque una cosa è certa: a questo punto bisogna superare l’estremismo della Lega a destra e dell’Idv a sinistra con il rispetto dell’avversario e una stagione di riforme.

È

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Piero Ostellino

Tornare a parlarsi è l’unica chance

Basta con la dittatura degli intolleranti

Alessandro Campi, direttore scientifico della Fondazione FareFuturo e spin doctor di Gianfranco Fini, è molto cauto su una possibile svolta politica: «Ma l’unica chance è il dialogo».

Piero Ostellino non si limita al richiamo benevolo, ma introduce il grande nodo dell’identità italiana: «È fondamentalmente fascista e intollerante. Occorre intervenire subito».

Stefano Folli

Paolo Pombeni

L’Udc può essere determinante

Un tavolo di saggi per cambiare il Paese

Stefano Folli non è ottimista sul futuro del dialogo, ma «se le cose andranno avanti sulla strada del confronto pacato, l’Udc sarà davvero determinante per il Paese».

Paolo Pombeni è ottimista: «Con un po’di buona volontà ci potrebbe essere la svolta. L’importante è trovare un tavolo intorno al quale far discutere i leader prima di siglare veri patti».

Massimo Giannini

Giovanni Sabbatucci

Casini può guidare l’opposizione

Attenzione, la rissa è sempre in agguato

«Il leader centrista ha fatto bene a rompere l’assedio della maggioranza e cambiare l’agenda della politica italiana», dice il vicedirettore di Repubblica Massimo Giannini.

La richiesta di un ritorno alla politica «è in crescita», osserva Giovanni Sabbatucci. Ma «ci vuole ancora tempo». SERVIZI ALLE PAGINE 3, 4 E 5

Trattative a oltranza alla Conferenza: Obama cerca di evitare il fallimento

Da Copenhagen a una Kyoto bis Il summit rinvia le decisioni a una verifica nel 2012 di Massimo Fazzi

Parla il climatologo Franco Prodi

Barack Obama ci ha provato, e questo gli va riconosciuto. Il tentativo di salvare fino all’ultimo la Conferenza internazionale sui cambiamenti climatici, che si è chiusa ieri a Copenhagen, è stato apprezzato dagli addetti ai lavori. Con un accordo politico e una proposta quasi irrealizzabile: tagli dell’80 per cento entro il 2050 per i Paesi ricchi. a pagina 10

«È un grande errore parlare solo di clima»

gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

di Pierre Chiartano ROMA. Parlare solo di clima è fuorviante e c’è chi, come l’esperto climatologo Franco Prodi, preferisce parlare del triangolo clima-ambiente-fonti energetiche, che meglio spiega lo stato in cui versa il nostro pianeta. Con un summit che rimanda le decisioni a tempi migliori.

Ennesima, incredibile violazione del lager in Polonia

Auschwitz, attacco alla memoria Strappata e rubata nella notte l’insegna «Arbeit macht frei», era il più chiaro e drammatico simbolo della violenza e della mistificazione nazista Gabriella Mecucci e Enrico Singer • pagine 14 e 15

a pagina 11 I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

251 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 19 dicembre 2009

Stati generali. Ha preso il via la grande manifestzione dei centristi che punta sul ritorno alla forza della politica

Un tavolo per le riforme Cesa e Pezzotta aprono l’assemblea nazionale dell’Udc che propone una commissione parlamentare per dare una prospettiva nuova all’Italia di Francesco Capozza

ROMA. L’atmosfera è quella delle grandi occasioni nel Salone delle Fontane: uno scenario quasi avveniristico nel cuore dell’Eur. Non ci sono gli addobbi delle feste (né quelle di partito né quelle segnate sul calendario della prossima settimana), ma un ambiente dominato dal bianco, un colore vincente per quel suo minimalismo che dà l’idea della concretezza, più della magnificenza. In effetti questa doveva essere una convention strettamente legata all’assetto del partito, quell’Unione di centro che da qui a breve, sono parole del suo stesso leader, Pier Ferdinando Casini, cambierà pelle avvicinandosi molto a quell’idea di Partito della Nazione evocato già lo scorso gennaio a Todi.

care ogni nostra attenzione come vorremmo e come sarebbe doveroso da parte di tutta la classe politica - alle questioni concrete che riguardano il Paese, ai problemi e all’interesse degli italiani, sono costretto, siamo costretti, a parlare d’altro» ha infatti esordito Cesa. «Si sta svolgendo in questi giorni a Copenhagen un importantissimo e purtroppo per molti aspetti deludente summit sui cambiamenti climatici nel mondo. Un altro incontro interlocutorio, l’ennesima fiera delle ipocrisie e delle irresponsabilità», ha proseguito il segretario dell’Udc, che ha ricordato anche altri fatti passati quasi inosservati al dibattito politico del nostro paese come «le pesanti cadute delle borse internazionali dopo il crollo di Dubai, la gravissima crisi eco-

Lorenzo Cesa: «La crisi continua a pesare. A forza di litigare, il governo se n’è dimenticato»

Più precisamente un’Assemblea nazionale delle Regioni per fare un consuntivo degli Stati regionali celebrati sia a livello locale che nazionale nei mesi scorsi. Dai quali esce una proposta innovativa, avanzata in apertura dal segretario Cesa: una Commissione parlamentare per le riforme. L’attualità di questi giorni, l’aggressione al presidente del Consiglio Berlusconi (cui l’Udc ha unanimemente rappresentato il proprio «appoggio morale incondizionato, senza se senza ma»), la fiducia posta dall’esecutivo sulla legge Finanziaria (azzerando di fatto le proposte delle opposizioni e il dibattitto in aula) che anche il presidente della Camera Fini ha definito un atto “deprecabile”, la dura battaglia parlamentare sul cosiddetto “processo breve” (che l’Udc, con la proposta Vietti, spera in qualche modo di contribuire a mutare), hanno reso di fatto questa due giorni romana un’appuntamento politico nazionale. Lo stesso segretario politico del partito, Lorenzo Cesa, nella sua relazione introduttiva ha fatto cenno a questo problema, diciamo, di “riflettori”. «Mi rendo conto settimana dopo settimana, mese dopo mese, che invece di dedi-

Oggi alle 12.30 chiude Casini ROMA. Si concluderà questa mattina alle 13, subito dopo l’intervento conclusivo del leader del partito Pier Ferdinando Casini, l’Assemplea nazionale delle Regioni. Una due giorni - iniziata ieri alle 16 con l’intervento del segretario politico Lorenzo Cesa e del presidente Rocco Buttiglione - prevista da tempo. Un appuntamento organizzato inizialmente come tappa conclusiva di un vero e proprio “giro d’Italia” all’interno degli stati generali del Centro, ma che la contingenza politica ha trasformato necessariamente in appuntamento nazionale. Per chi volesse raggiungere questa mattina il luogo dove sono in corso i lavori, ecco l’indirizzo: Salone delle Fontane, via Ciro il Grande 10-12 (zona Eur), tel 06 4549 7500

nomica in cui rischia di affondare la Grecia, un Paese dell’Unione europea a due passi da noi, dovrebbe rappresentare un monito per tutti i Paesi che si trovano a fare i conti con un debito pubblico fuori controllo».

Quanto di tutto questo, si chiede Lorenzo Cesa «è stato al centro del dibattito politico italiano delle ultime settimane? Nulla, zero, assolutamente niente», ha chiosato malinconicamente. Per il segretario dell’Udc sembra quasi che i problemi più seri, quelli che toccano il nostro presente ed il nostro futuro, non riguardino neppure la nostra classe dirigente. Il nostro paese - è il ragionamento di Cesa - è invece finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo solo per un gesto folle e gravissimo, l’ag-

gressione a Berlusconi, «che abbiamo condannato e condanniamo incondizionatamente; al presidente del Consiglio rinnoviamo i nostri auguri di una pronta guarigione». Quello avvenuto a piazza Duomo domenica scorsa, viene ribadito dal partito di via dei due Macelli, è un gesto che si inserisce in un clima inaccettabile di scontro e delegittimazione politica che si protrae nel paese da quindici anni. Un clima che vede fronteggiarsi due schiera-

menti politici con gli atteggiamenti ed il linguaggio tipici di chi affronta il nemico in guerra e non di chi si confronta con l’avversario politico - anche duramente - ma secondo la normale dialettica istituzionale. Un clima, per dirla con Cesa «che vuole trasformare e dividere gli italiani in tifoserie da curva», che intende ridurre ai «minimi termini la fiducia nelle istituzioni e che ormai ha superato il livello di guardia». Un’Assemblea, quella che si sta svolgendo all’Eur e che si concluderà stamattina con l’intervento conclusivo di Pier Ferdinando Casini, che, come spiega Savino Pezzotta «serve a lanciare un messaggio a tutte le persone, gruppi, associazioni che non hanno perso la speranza civile, che è il tempo di un nuovo impegno centrato sui valori più profondi dell’umanesimo cristiano e laico». Insieme e senza la pretesa di rivendicare primogenitura, «ci rivolgiamo a tutti quelli che vogliono ricostruire l’Italia, che vogliono dare un senso nuovo e riformatore alla politica costruendo un nuovo soggetto politico», dice il deputato centrista ed ex leader della Cisl. Per Pezzotta, «bisogna lasciare a parte i personalismi, i risentimenti, la nostalgia, qualche rancore e la diffidenza, per mettersi all’opera. Noi siamo pronti e possiamo offrire l’esperienza di un percorso che è avviato, che non si è chiuso, che è aperto e disponibile a rimodularsi». A nessuno, è il messaggio che emerge al termine di questa prima giornata di lavori, sono permessi indugi e resistenze: ci si deve mettere tutti al «lavoro per costruire insieme una prospettiva politica nuova tra le rappresentanze e per il Paese». Secondo il presidente del Partito, Rocco Buttiglione, «noi continuiamo a pensare che il bipolarismo sia finito e che occorra un Centro capace di pensare al bene del Paese».

Savino Pezzotta: «È tempo di un nuovo impegno centrato sui valori dell’umanesimo cristiano e laico»


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Siamo a una nuova fase del Paese? Alcuni dei più influenti politologi analizzano il clima attuale della politica ALESSANDRO CAMPI

«Ha ragione l’Udc: è tempo di dialogare» Ma è arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti ROMA. «Molti auspicano il dialogo. E sarebbe sicuramente utile per la politica italiana. Però è un obiettivo difficilmente realizzabile visto il livello raggiunto dal dibattito tra le forze politiche. O quello con e tra i media stessi». Alessandro Campi, direttore scientifico della Fondazione FareFuturo e spin doctor di Gianfranco Fini, è molto cauto su una possibile svolta politica. A meno che dalla «volontà si passi ad atti concreti da parte delle forze politiche che hanno la responsabilità di farlo. Mi riferisco soprattutto ai grandi partiti e all’Udc, che ha un ruolo di cerniera, molto utile che saggiamente ha preso questa posizione dialogante già da mesi». Secondo il politologo, soltanto così «si potrà ritornare a fare politica, a confrontarsi e scontrarsi». E in questa chiave Campi non prende sottogamba la mezza richiesta (o promessa) di Silvio Berlusconi di abbassare i toni. «Le parole fotografano un problema reale. Esistono delle minoranze che hanno tutto il diritto di dire quello che vogliono e che sono rappresentate in Parlamento Ma non possono dettare la linea ai grandi partiti». Di conseguenza c’è spazio per l’azione di Pier Ferdinando Casini, che deve coinvolgere «i partiti che hanno più consenso, Pd e Pdl, e l’Udc che ci rientra di diritto non tanto per ragioni numeriche, ma culturali: da mesi propone di abbassare i toni».

troppo alti. «Il suo discorso alla Camera», nota Campi, «è stato infelice, ma va spiegato e contestualizzato: ha rispecchiato l’indignazione e il forte impatto emotivo legato all’atto violento subito da Berlusconi. A questo va aggiunto che la sua biografia politica porta Cicchitto e la componente ex socialista a leggere gli ultimi venti anni di storia come uno scontro frontale tra magistratura politicizzata e classe politica. Vedono continuamente il fantasma della caduta di Bettino Craxi, la rivivono in Berlusconi, che pure dovrebbe restituire l’onore a questa famglia». Per Campi non è questa la linea del Pdl. Anche perché si finisce «per utilizzare gli stessi toni e le parole e i toni degli avversari che si biasimano. Questa è stata la causa principale anche del malessere di Fini». Al riguardo non si può che fare riferimento alla linea del Giornale. «Anche se ce ne siamo accorti in ritardo, se partirà la pacificazione è perché si è arrivati a un accordo politico tra Fini e Berlusconi. Di conseguenza il quotidiano di Feltri vedrà smentita la sua linea. Certo, può sempre continuare la sua azione con le sue ricostruzioni – penso all’invenzione del complotto del presidente della Camera dietro l’incontro con i parlamentari di An – ma lo farebbe con troppe contraddizioni».

Il problema della nostra democrazia non è il bipolarismo, ma il leaderisimo esasperato

Toni che alcuni esponenti del Pdl, in primis Fabrizio Cicchitto, mantengono

Il politologo, per fotografare il deficit e le colpe della politica napoletana, si affida alle parole di Napolitano. «Certificano la rissosità all’interno della classe politica, che è presente nella realtà, ma non raggiunge il parossismo che si registra nel circuito mediatico che sempre più spesso si trasforma in circo. Per settimane si è puntato tutto sullo scontro tra Fini e Berlusconi, ma poi i due hanno stabilito un rapporto diretto e sgonfiato le tensioni create mediaticamente». Sulla strada degli accordi va segnalato che il Pdl ha, di fatto, accolto il disegno di legge dell’Udc sul legittimo impedimento. «Come la vecchia classe partitica aveva la capacità di raccogliere le istanze della so-

cietà e di tradurle in legge di interesse generale, così oggi su alcuni argomenti questo si ripete su alcuni temi come la politica estera. Nel rispetto dei ruoli, bisognerebbe applicare lo stesso metodo anche per la politica interna». Eppure sembra difficile farlo con l’attuale bipolarismo esasperato. Ma su questo punto Campi non concorda. «Anche nella Prima Repubblica esisteva, di fatto, un bipolarismo rappresentato dai due grandi partiti. Il problema è che in Italia, invece del bipolarismo, si è instaurata una variante: il bileaderismo, come lo chiama Violante».

PAOLO POMBENI

«Un gruppo di saggi per le riforme» Ci vuole un nuovo De Gaulle, per rifondare la Repubblica Paolo Pombeni è ottimista: «Con un po’ di buona volontà ci potrebbe essere la svolta». E la buona volontà sta soprattutto nel «calibrare le parole: perché non si può prima dirsi disponibili al dialogo con l’altro schieramento e poi decidere pure chi sono i fomentatori che l’altra parte deve isolare». Le liste di proscrizione di Fabrizio Cicchitto non aiutano quindi la situazione. «Bisognerebbe adottare un sistema simile a quello del disarmo: prima mettersi intorno a un tavolo per discutere il da farsi e soltanto dopo passare ai patti. Questo spirito occorrerebbe al Paese, che non ne può più di questo scontro che coinvolge le tribù politiche ma non i cittadini».

scutere preventivamente di chi ne trarrà vantaggio, non perdendo di vista l’interesse generale. Su questo fronte l’Udc è ben piazzata, perché non ha mai fatto dell’antiberlusconismo spinto un suo cavallo di battaglia. Da partito moderato-centrista ha nelle sue corde questo ruolo di facilitatore del dialogo». Le prime aperture sulla giustizia tra gli schieramenti, Berlusconi che si appella al dialogo e che fa pace con Fini, nelle prossime settimane si attendono sorprese. «Se si vuole, a un incontro ci si arriva. Ma senza che si imponga a qualcuno di andare a Canossa». Abbassare i toni, mettersi attorno a un tavolo, fare la lista dei problemi e non dei buoni e cattivi. Azioni di buon senso, ma lontane da questa politica. «Perché, purtroppo, si è ormai ridotta a teatrino al servizio dei media pur di garantire rendite di posizione a quelli che governano questo “comitato mediatico di salute pubblica”. Inteso nel senso giacobino del termine. Poi, quanto ai complotti, non penso che Fini stia tramando contro Berlusconi, ma soltanto preparando una via d’uscita all’inevitabile fallimento di questo clima di scontro. E si sta sforzando di dare un’identità diversa al centrodestra».

Fatto sta che al momento il leader resta Berlusconi. Il quale vuole in ogni caso modificare la Costituzione. «Più che un’Assemblea costituente, la strada giusta potrebbe essere quella che percorse De Gaulle nel creare la Quinta Repubblica: formare un gruppo ristretto di saggi, non direttamente coinvolti nella polemica politica, per elaborare un testo base sul quale le forze politiche legittimate dal voto popolare possano lavorare». A ben guardare, da noi manca anche un luogo di discussione. E invece c’è da dare una risposta nell’immediato. «Il tentativo di dialogare proposto dall’Udc può essere un modo per superare lo stallo attuale, a patto che si abbia l’onestà di riconoscere le difficoltà. Occorre una ragione forte per essere uniti e superare gli ostacoli».

Serve un tavolo intorno al quale discutere il da farsi per poi passare ai patti da siglare

In questa chiave diventano centrali le riforme. «Ma si dovrebbe evitare di di-


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STEFANO FOLLI

«Ora l’Udc ha grandi responsabilità» Con il bipolarismo malato, Casini gioca bene le sue carte ROMA. «È giusto provare a dialogare, però le difficoltà sono enormi», Stefano Folli non si iscrive al partito degli ottimisti, anche se lascia intravedere dei possibili spiragli. In questo scenario l’Udc, secondo l’editorialista del Sole 24Ore «può far emergere delle posizioni più razionali, può indicare, come sta già facendo da tempo, delle soluzioni perché si possa trovare un punto di convergenza. Del resto il disegno di legge sul legittimo impedimento è proprio uno dei casi nel quale il partito di Casini ha avuto una buona intuizione. All’inizio sembrava che la proposta non fosse accolta, ora, invece, sta diventando la chiave di volta per iniziare a risolvere la questione giudiziaria».

ciucio. Il problema vero è se c’è o meno la volontà politica di andare avanti, di affermare un profilo riformista che, ovviamente sia esteso a un’ampia maggioranza del Parlamento per poter fare le riforme. Purtroppo gli ultimi dodici tredici anni certificano un fallimento. Se c’è la volontà di andare avanti, non c’è inciucio che tenga». È chiaro per Folli che l’accordo presupporrà delle condizioni per le quali «Berlusconi non potrà ottenere tutto sulla giustizia, ma anche il Pd dovrà concedere molto e sganciarsi dalla corporazione dei magistrati».

Dopo l’episodio di domenica scorsa si respira un’aria diversa e si potrebbe ricominciare a parlare di politica e «diciamo che si è aperta una finestra anche per il ruolo svolto dal presidente della Repubblica» che ha fotografato la situazione dichiarando che il Paese è più coeso dei politici. «È proprio così - aggiunge Folli - ci troviamo in una situazione nella quale il Paese reale è più realista e concreto della classe politica. Si sconta il fatto che il bipolarismo si è risolto in una rissa permanente che ha paralizzato il sistema. In questo momento non c’è coesione nel mondo politico: c’è ne è di più nel Paese che è alle prese con una crisi reale e concreta molto preoccupante. La prima cosa da fare è rimettere in moto una dinamica positiva nel sistema politico, altrimenti la frase del presidente Napolitano assume una valenza inquietante, perché non può esserci una contraddizione così evidente tra quello che vuole il popolo e quello che fa la classe politica». «Fino a qualche giorno discutevamo di un bipolarismo distrutto dalla radicalizzazione. È quindi difficile che la situazione possa cambiare così repentinamente e in maniera completa». Si tratta più di una questione tattica e riguarda le forze politiche che si iscrivono tra quelli che danno un contributo di ragionevolezza al dibattito. Di Pietro e la Lega rischiano di essere un problema serio ma, per Folli, «in questo momento il problema è rappresentato soprattutto da Di Pietro».

Il problema vero è se c’è la volontà politica di affermare un reale profilo riformista

Il ruolo dell’Udc in questo particolare momento assume una funzione importante perché in alcuni casi «un partito di dimensioni medie come il suo può arrivare a dire delle cose che le grandi forze hanno difficoltà a riconoscere. Parliamo di un partito che sta sul crinale tra i due schieramenti e deve svolgere questa funzione di responsabilità. Deve farlo, anche se è un gioco difficile, ma Casini è stato bravo ed è riuscito a reggere bene la scena, non ha perso consensi e oggi ha uno spazio politico che è cresciuto». È il sistema bipolare che non ha funzionato, ha agevolato l’Udc che «è stato il partito che più coerentemente ha indicato i vizi di quest’assetto squilibrato». Pier Ferdinando Casini potrebbe offrire una sponda al Pdl per un “patto democratico” che, per l’editorialista del Sole 24Ore. «è una proposta ancora astratta nella quale, però, l’Udc potrà riconoscersi e svolgere un ruolo per favorire la convergenza. Il problema, però, riguarda il Partito democratico: non è pensabile che l’opposizione rinunci alla sua capacità di critica nei confronti del governo. Bisognerà vedere in che cosa consiste questo “patto democratico”, se si tratta soltanto di una richiesta della maggioranza che si annacqui l’opposizione è evidentemente improponibile. Se, invece, è davvero un modo per superare le contrapposizioni, allora l’Udc potrà svolgere un ruolo determinante». L’invito del presidente Berlusconi a isolare i fomentatori secondo Folli «è inaccettabile, così come è posta, per il Partito democratico, ma fa parte un po’ del teatro politico. È evidente che il Pd non escluderà Di Pietro dal tavolo delle trattative. Il chiarimento avverrà in una fase successiva». Il rischio che il dialogo possa essere scambiato per inciucio viene escluso da Stefano Folli, secondo il quale «un compromesso si può definire anche un in-

GIOVANNI SABBATUCCI

«Ma la rissa resta ancora in agguato» Casini, D’Alema, Bersani, Fini: la soluzione passa da loro ROMA. Non c’è dubbio. Nell’opinione pubblica la richiesta di un ritorno alla politica, e al metodo del confronto, «è in crescita», osserva Giovanni Sabbatucci. Ma secondo lo storico ed editorialista del Messaggero, «non siamo ancora al punto in cui questa tendenza può disinnescare i conflitti degli ultimi quindici anni». Perché? «Perché permane un meccanismo degenerativo difficile da rimuovere, quello della rissa: come in

certi film western non sempre è necessario che tutti vogliano scontrarsi, basta uno che riprende a picchiare e subito gli schieramenti si riformano. Ha presente West side story?…». Di voci dissonanti rispetto a una ricerca del confronto pacato «ce ne sono state persino dopo l’aggressione a Berlusconi: tutti hanno espresso deplorazione, ma qualcuno, Di Pietro e la Bindi, hanno stonato. Dopodiché in Parlamento è arrivato Cicchitto con quel tipo di requisitoria».

Il processo di osmosi tra società e classe dirigente non assicura sempre un circolo virtuoso efficace. Soprattutto se la seconda, come spiega il professore della Sapienza, è affollata da agitatori sempre pronti a entrare in azione. Eppure «di soggetti disponibili a recuperare il metodo della vera politica, archiviato in pratica da tre lustri, ce ne sono: Casini, D’Alema, Bersani, Fini, anche se nel caso del presidente della Camera andrebbe fatto un discorso a parte. Ma permangono almeno due punti di caduta che mi inducono al pessimismo. L’incombere dei rissaioli, appunto. E in secondo luogo il nodo dei processi di Berlusconi». Non che vada minimizzata la disponibilità di buona parte dell’opposizione a trovare uno strumento per superare il problema. Nella piattaforma di Pier Ferdinando Casini la sostanza politica è data proprio dall’equilibrio tra realismo e difesa intransigente delle istituzioni. «Un’impostazione senz’altro comprensibile, anche se poi non credo ci si troverà a breve nella necessità di dare seguito all’ammonimento». Di sicuro la proposta dell’Udc Michele Vietti sul legittimo impedimento «incrocia il consenso del Pd, che però rispetto alla

materia giudiziaria è ancora troppo vulnerabile. Di Pietro è pronto a scatenare un putiferio, di fronte a un’intesa, che pure non è lontana. L’impraticabilità del campo, per il centrosinistra, si aggreverebbe poi di fronte al Lodo Alfano costituzionale, che accusava un tasso di impopolarità molto elevato anche prima della sentenza della Consulta». Ma è possibile che attraverso il metodo proprio della politica, ossia il confronto continuo e la continua ricerca delle soluzioni, si possano aprire strade adesso inimmaginabili? «Potrebbe essere ma dubito che lo sarà», replica Sabbatucci, «anche perché va tenuto conto di un ulteriore aspetto: Berlusconi potrebbe non accontentarsi del legittimo impedimento. Vuole qualcosa che lo liberi dai processi almeno fino alla fine del suo mandato. In pratica punta a una prescrizione. E non so se in una fase in cui certo sembra più conciliante è poi davvero disposto ad accontentarsi di qualcosa di meno». A vederla così sembrerebbe che la scena politica sia destinata a non ricomporsi entro tempi ragionevoli.

I processi al premier sono il vero banco di prova della tenuta della tregua

Ma comincia o no a maturare, nell’opinione pubblica, una richiesta più diffusa per una politica capace di mediare, e risolvere i problemi, pur senza derogare dai principi fondamentali? «C’è ed è in crescita», conferma Sabbatucci, «ma è una crescita lenta. L’area rappresentata dall’Udc può avere, certo, un peso più forte, anche se non al punto da disarticolare gli schieramenti maggiori. Avrà la sua influenza. Ma i conflitti che ci portiamo dietro dagli anni Novanta non possono ancora essere davvero disinnescati».


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quando non addirittura interprete, come nel caso di Di Pietro. Il Paese non ha ancora fatto i conti con il principio di Voltaire. E non è un caso. Nel ’22 Giustino Fortunato disse che non si era di fronte a una rivoluzione ma a una rivelazione. E un liberalsocialista come Piero Gobetti ha scritto del fascismo come autobiografia della Nazione. Di Pietro non è Mussolini nel senso che anche nel male c’è una graduatoria, il secondo almeno non aveva problemi con la grammatica. Ma Di Pietro è la stessa cosa, rappresenta la parte peggiore dell’Italia». Ma all’altra parte deve toccare per forza il destino del prigioniero? «Non sarà così solo se le forze ragionevoli sapranno riscattarsi e ritrovare appunto autonomia culturale e morale. E se l’intellighenzia, a cominciare dai giornalisti, diventerà intollerante con gli intolleranti. Ma purtroppo ho forti dubbi che tutto questo accada».

MASSIMO GIANNINI

«Così Casini può dettare l’agenda all’opposizione» PIERO OSTELLINO

«La politica metta al bando gli intolleranti» Siamo subalterni a quell’Italia fascista nell’animo, come Di Pietro ROMA. Posta la questione, Piero Ostellino com’è sua abitudine non la risolve per la via più semplice. Non si limita al richiamo benevolo, ma introduce il grande nodo dell’identità italiana, del carattere della Nazione. O quanto meno di una sua parte, che secondo l’editorialista del Corriere della Sera «è fondamentalmente fascista. È la pancia intollerante, quella che non sopporta l’opinione degli altri, che gli altri tende a cancellarli». Le forze ragionevoli, l’Udc di Pier Ferdinando Casini, il Pd di Bersani, ma lo stesso Berlusconi riapparso dal San Raffaele con le sembianze dell’ambizioso innovatore di quindici anni fa, avrebbero qualche possibilità di riscattare la politica dallo «squadrismo» solo a una condizione: «Ritrovare la propria autonomia morale e culturale rispetto a questa parte del Paese. Nello stesso tempo deve avvenire anche un’altra cosa: che gli intellettuali, i giornalisti, i professori universitari diventino intolleranti verso gli intolleranti. Senza più concessioni, senza più strizzatine d’occhio. Di una simile urgenza si mostrava avvertito John Locke appena qualche secolo fa».

Si può prescindere da queste influenze, da questa pulsione violenta che cova in una parte della società italiana? Assolutamente no, secondo Ostellino, «anche perché è quasi metà del Paese ad essere infettata». Non è forse un buon inizio quello di Pier Ferdinando Casini, che ha trovato un equilibrio tra il realismo delle soluzioni (vedi il legittimo impedimento) e la fermezza nella difesa dei capisaldi istituzionali? «Parlerei di senso comune, non basta a sostenere che si è riaffermata la ragionevolezza. E lo dico senza considerare la proposta del comitato di liberazione nazionale, assolutamente sbagliata». Il leader dell’Udc però non ha mai evocato quell’idea: casomai parte dei media ha forzato l’interpretazione delle sue parole. «E allora si tratta semplicemente di un’eventualità logica: se ci sono forzature costituzionali che mettono in discussione l’equilibrio dei poteri è chiaro che gli altri si mobilitano». Certi ammonimenti possono essere tutt’altro che inutili. In ogni caso, spiega la firma del Corriere, «è proprio nel nostro passato, nella stessa Resistenza, che si prefigura il pesante compromesso tra la politica e le forze estreme: di resistenze ce ne sono state almeno due, una cattolica e liberale, azionista e democratica, e socialista, che guardava all’Occidente; un’altra comunista, che guardava al Patto di Varsavia. Da lì nasce la nostra Costituzione, a sua volta un pasticcio compromissorio che si riflette nel perdurare dello squadrismo».

Va ritrovata l’autonomia morale e culturale dagli squadristi, lo facciano anche gli intellettuali

Certe parole non sono passate di moda, dice Ostellino: «L’intolleranza dell’anima fascista del Paese domina ancora la scena: la politica ne è subalterna,

Però l’aggressione di Milano può cambiare gli equilibri Massimo Giannini non ama dare interviste o fare commenti politici fuori dalle colonne della “sua” Repubblica. E poi ora è preso dalla conduzione di un programma di approfondimento politico sul canale tv della sua testata giornalistica. Insomma, fare una chiacchierata con il vicedirettore del quotidiano romano su temi politici e soprattutto poterla virgolettare, non è cosa da tutti i giorni. Il tema in questione, tuttavia, riguarda sotto certi aspetti anche Repubblica, visto che si tratta della lunga intervista rilasciata giovedì scorso dal numero uno dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, al quotidiano romano. Un’intervista che seguiva le dichiarazioni rese alla Stampa dal leader centrista solo pochi giorni prima, nella quale veniva lanciata l’idea di un fronte unito antiberlusconiano in caso di eventuali elezioni anticipate. «Certamente l’uscita di Casini sul comitato di liberazione nazionale anti-berlusconiano è stata intempestiva», ci dice serenamente Giannini, «il leader dell’Udc ha colto l’occasione dell’intervista al nostro giornale per centrare - se così possiamo dire - un po’il tiro rispetto alle dichiarazioni fatte prima dell’esecrabile gesto compiuto ai danni di Berlusconi domenica scorsa». Quindi, per il vicedirettore de la Repubblica, l’idea del Cln anti-premier in caso di elezioni anticipate ha qualche elemento che stona un po’con quella che è stata la politica di Casini negli ultimi tempi. «Non sto dicendo che Casini ha sbagliato – precisa Giannini – ma solo che un’ipotesi di un patto siglato da tutte le opposizioni contro Berlusconi aveva ed ha

degli elementi che lo rendono di difficile realizzazione».

In effetti il vice di Ezio Mauro ritiene che nessuno può dimenticare da un lato – sul fronte Pd – le dichiarazioni della nuova leadership in merito alle alleanze («sì a nuove alleanze, ma senza ritornare al caravanserraglio dell’Unione» chiosava Bersani alla chiusura della campagna per le primarie che lo avrebbe incoronato nuovo segretario del partito), dall’altro il niet dell’Italia dei valori all’ipotesi di alleanza con l’Udc («mai con un partito dove c’è uno come Cuffaro»). «Le dirò di più – prosegue nel ragionamento Massimo Giannini – non è certo solo dall’Idv che provengono certe perplessità. C’è infatti una parte, forse minoritaria ma pur sempre consistente, di democratici che pongono il problema dell’alleanza con un partito che ha tra le sue fila un personaggio come Totò Cuffaro». Insomma, insiste il numero due di largo Fochetti, «la situazione non è poi così chiara e semplice come potrebbe apparire». Ma attenzione, Giannini ci tiene anche a precisare che «la mossa di Casini, sebbene a mio avviso non tempistica, è molto sensata e politicamente apprezzabile» anche perché «dall’altra parte c’è chi pretende di programmare l’agenda delle opposizioni». Certo è, che l’aggressione di domenica scorsa ai danni del presidente del Consiglio spiazza in molti e forse rovina pure i piani di qualcuno. «Premesso che sono fermamente convinto che un atto vile come quello accaduto in piazza Duomo a Milano sia da condannare nella maniera più dura, non posso evitare di riflettere sul fatto che questo cambia molto le carte in tavola. E certamente non solo per Casini». Al di là di una vicinanza umana e di una condanna unanime dell’aggressione, non è infatti detto che il clima politico si svelenisca, «adesso Berlusconi contrappone il partito dell’amore a quello dell’odio, ma non è affatto detto che questa situazione duri a lungo», è l’opinione di Giannini. «Non c’è dubbio che quello che è accaduto domenica scorsa potrebbe essere un’enorme rendita per Berlusconi, ma l’uomo lo sappiamo com’è fatto, potrebbe rovinarsi il gioco da sé». Certo è che il fattaccio di piazza Duomo capita proprio in un momento di grande difficoltà per la maggioranza e per il presidente del Consiglio stesso, «in un momento – per dirla con Giannini – in cui il governo stava registrando un calo tendenziale e costante di popolarità» e se “sfruttato” bene, stando all’analisi di molti osservatori, potrebbe far vincere a mani basse Berlusconi e la sua maggioranza il prossimo appuntamento elettorale in agenda: le regionali di marzo.

Ma l’Idv e una parte del Pd sono ancora contrari a un accordo con l’Udc

«È evidente – ammette il vice direttore de la Repubblica – che se non accade qualcosa da qui a marzo in grado di turbare nuovamente Berlusconi, come le vicende giudiziarie o come fu a suo tempo lo scandalo delle escort, c’è la concreta possibilità che la maggioranza faccia “filotto” alle regionali di primavera, ipotecando così un fine della legislatura tranquillo e forse anche il Quirinale».

interviste a cura di Francesco Capozza, Franco Insardà, Errico Novi


politica

pagina 6 • 19 dicembre 2009

Terza Repubblica. È davvero arrivato il momento delle colombe? Sarebbe un bene per il Paese, ma non c’è da illudersi troppo

Disarmare il bipolarismo Bisogna superare l’estremismo della Lega a destra e dell’Idv a sinistra con il rispetto dell’avversario e una stagione di riforme di Enrico Cisnetto davvero arrivato il momento delle “colombe” nella politica italiana? Me lo auguro, ma non ci scommetterei un centesimo. Né sono persuaso che l’aggressione subita abbia indotto Silvio Berlusconi ad accantonare, quantomeno del tutto, l’idea di elezioni anticipate. Che, sono convinto - al contrario del mio amico Stefano Folli - sia da almeno due mesi il primo degli obiettivi dl premier, anche quando, come a Milano poco prima che la statuetta lo colpisse, dichiara di non averci mai neppure pensato. Pessimismo? Sottovalutazione dei piccoli segnali di apertura e disgelo che proprio il fattaccio di Milano ha provocato? No, realismo. Intanto perché non mi pare che i falchi, dall’una come dall’altra parte, siano in fase di disarmo: dal discorso di Cicchitto alla Camera sui “mandanti morali” che trova eco nelle linea del Giornale alla dialettica (si fa per dire) tra Fini e gli ex di An, dalla sollevazione dei sostenitori di Franceschini verso D’Alema reo di essere realista al linguaggio dei giornali di sinistra, tutto sembra congiurare verso un ulteriore inasprimento dei toni.

È

Ma

soprattutto,

trovo che ci sia molta furbizia e ancor più ipocrisia dietro la gran parte delle aperture che con finto buonismo vengono sbandierate come sego della volontà di rendere il clima politico più sereno. Infatti, da una parte si dice grosso modo: siccome siete voi di sinistra a fomentare, se adesso vi ravvedete potremmo anche concedervi il nostro perdono. Il che, tradotto, significa: mollate Di Pietro e potremmo anche dialogare. Richiesta giusta, quella inviata al povero Bersani, il quale deve avere le giacche ormai strappate a fuori di sentirsi tirare da una parte e dall’altra. Ma irricevibile - mi permetto di rispondere a suo nome, visto che finora ha taciuto (troppo) - per-

Stasera ci sarà anche Tremonti

Il Senatùr a cena da Berlusconi MILANO. Dovrebbe tenersi questa sera la cena che riunirà a Villa San Martino per gli auguri di Natale, ma certo non solo per quelli, Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, insieme ad altri esponenti del Carroccio, e Giulio Tremonti. Il leader della Lega già ieri aveva anticipato ai giornalisti che si sarebbe recato ad Arcore per salutare Berlusconi, tornato a casa dopo la degenza all’ospedale San Raffaele. La predilezione del premier per la componente leghista della sua maggioranza, ha più che ragioni affettive. Dall’altro canto, poi, gli sherpa del Pdl sono partiti alla verifica di una possibile strada di dialogo con le opposizioni. È così, dunque che tenta di ripartire il dialogo tra i poli in un clima politico che dovrebbe farsi meno bollente dopo la grave aggressione subita in piazza Duomo. Lo conferma il presidente del Senato, Renato Schifani, afferma: «Devo dire che in queste ore intravedo degli spiragli, vedo che maggioranza e opposizione si muovono su un patto per le riforme e questo patto per le riforme potrà essere l’elemento caratterizzante la legislatura». Chi si spinge più avanti è il fedelissimo Gaetano Quagliariello, vicepresidente vicario dei senatori del Pdl: «Le affermazioni di autorevoli esponenti del Pd secondo le quali un’eventuale sentenza di primo grado non avrebbe ripercussioni sull’esecutivo e non impedirebbe a Berlusconi di continuare ad assolvere al mandato ricevuto dagli elettori fanno ben sperare sull’abbandono della via giudiziaria alla conquista del potere da parte della sinistra italiana. Rispetto alle sirene del giustizialismo il Partito democratico ha dunque imboccato una terza via, ed è già un segnale positivo». Proprio dal Pd è la presidente dell’Assemblea nazionale, Rosy Binidi a smorzare le polemiche che l’avevano vista protagonista all’indomani dell’aggressione al premier: «Accetto l’invito alla prudenza. Nelle mie preghiere mi ricordo di tutti, anche di Berlusconi», ma aggiunge: «Non saremo disponibili a nessuna legge ad personam». Infine il vicesegretario Pd, Enrico Letta, sostiene: «Le parole di Berlusconi sono utili alla ripresa del dialogo, ma il confronto deve partire dalle riforme di sistema».

ché a parità di tutte le altre condizioni politiche, significherebbe che il centrosinistra rinuncia a tentare di costruire un’alternativa di governo. Certo che sarebbe opportuno che Bersani mollasse esplicitamente e una volta per sempre non solo Di Pietro e l’Idv, ma tutta la galassia giustizialista. Ma questo si può fare se il disarmo del “bipolarismo armato” è bilanciato, cioè se anche il centrodestra rinuncia al suo radicalismo, che è rappresentato dalla Lega, o quantomeno da molte delle sue posizioni e dalla gran parte dei suoi uomini.

Dall’altra parte, viceversa, si dice: Berlusconi si faccia processare, e poi se ne parla. Non capendo, o facendo finta

Per evitare che l’accordo fallisca servono due cose: un “disarmo” bilaterale e bilanciato»; un riordino costituzionale fuori dal Parlamento, o peggio, dalle piazze di non sapere, che l’anomalia rappresentata dalla sua presenza nella vita politica - che certamente esiste fin dal primo giorno della “discesa in campo” e che il Cavaliere non ha fatto nulla non dico per rimuovere, ma almeno per ridimensionare - non cancella l’altrettanto macroscopica anomalia di una magistratura che, fottendosene allegramente di essere parte di un sistema giustizia ormai in default, fin dai tempi di Mani Pulite ha rotto l’equilibrio dei poteri e ha assunto un ruolo politico che non le compete. Insomma, quello che intendo dire è che mi pare molto difficile, anzi impossibile, trovare la strada virtuosa del rispetto dell’avversario e della collaborazione senza il superamento di quel bipolarismo all’italiana che è stato insieme causa e conseguenza di quel clima intossicato che si vorrebbe bonificare. Altrimenti, ammesso - e non concesso - che davvero si riesca magicamente nell’intento, il rischio è quello di bissare il difetto fondamentale del passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica: aprire una nuova fase politica, se non addirittura inaugurare una nuova stagione, co-


politica struendola sull’equivoco del non detto e del non chiarito. Allora fu la questione “costo e finanziamento della politica”, oggi sarebbe quella relativa al tipologia e al funzionamento del sistema politico. Capisco, però, che se il superamento della dicotomia “berlusconismo-antiberlusconismo”, che il volto insanguinato del premier ha reso palese anche a ciechi, ha come premessa e corollario ineludibile la creazione di un sistema politico non bipolare - o quantomeno non ottusamente basato sulla contrapposizione, tanto più se basata sulla figura di una persona e non sulle idee - capisco, dicevo, che questo passaggio debba prevedere una inevitabile fase di transizione. E penso che alcuni spunti per tracciare un percorso di questa transizione siano individuabili nell’intervista di D’Alema pubblicata sul Corriere della Sera di giovedì. In particolare quando sostiene che è meglio offrire a Berlusconi un salvacondotto sicuro, ad hoc per lui, piuttosto che pasticciare una legge fintamente per tutti che farebbe solo danno o che troverebbe l’inevitabile contrarietà del Quirinale e della Consulta. Se poi, sul piano giuridico, la cosa si debba tradurre nella proposta del “ponte” lanciata da Vietti o in qualcosa d’altro, lasciamo che siano gli esperti a suggerircelo. Ma che un negoziato vada fatto, se ne deve convincere tanto Berlusconi quanto il Pd. Sapendo fin d’ora che due devono essere i punti irrinunciabili per evitare sia che l’accordo fallisca sia che si trasformi in un pateracchio consociativo delle peggior specie: che il disarmo del bipolarismo bellico deve essere bilaterale e bilanciato; che il riordino costituzionale che deve necessariamente seguire sia realizzato nell’ambito di un’Assemblea Costituente e non in parlamento o, peggio, nelle piazze.

Dopodiché, sono molto scettico sul fatto che Berlusconi sappia trovare il coraggio e la lucidità di aprire, nel modo giusto, un tavolo di trattativa siffatto, e che dall’altra parte non ci siano la solita fila di incendiari pronti a rovinare tutto. Ma vorrei tanto, tanto sbagliarmi. Così mi affido a Babbo Natale, trasformando questo articolo nella classica letterina a Santa Claus, la richiesta che il miracolo si avveri. Buon Natale.

19 dicembre 2009 • pagina 7

Tregua armata nella maggioranza. Ma Vittorio Feltri picchia ancora

La ritirata strategica del presidente Fini

Distensione con Berlusconi, opposizione alla Lega, guerra ai falchi del Pdl: ecco la sua nuova navigazione di Riccardo Paradisi inirà che ad armare la mano di Massimo Tartaglia è stata la provvidenza» scherzava ieri un esponente del Pdl in partenza da Roma per il lungo week end dei deputati. È uno di quei pontieri che da mesi si estenuano nel tessere le fila del recalcitrante dialogo tra la presidenza del Consiglio, le istituzioni e il presidente della Camera Gianfranco Fini. In effetti il paradosso ha una sua pregnanza: l’attentato di Milano contro Berlusconi ha aperto in primo luogo una riflessione sulla violenza verbale di cui è satura la politica italiana. Ha poi imposto all’agenda politica del Paese una tregua fondata su una conventio ad escludendum dei fomentatori, primo tra tutti Antonio Di Pietro e dunque aperto all’ipotesi fragile, ma ora presente, di una stagione costituente. Ha infine indotto Fini e Berlusconi a riaccostarsi per smussare gli angoli d’una convivenza sempre più sofferta e instabile.

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Il momento in cui il binario che avrebbe condotto al fatale scontro tra premier e presidenza della Camera in effetti devia proprio con la visita di Fini al San Raffaele. Da quel momento nel cielo sopra il centrodestra hanno cominciato a biancheggiare le colombe mentre il volo urlante dei falchi ha iniziato ad essere ascoltato con disagio. «Se dal male potrà nascere un bene – dice il Cavaliere in uscita dal San Raffaele – il mio sacrificio non sarebbe inutile». E del resto il fatto che Berlusconi stia seriamente pensando alla nomina a vicepremier del sottosegretario Gianni Letta – il moderato per eccellenza, l’infaticabile tessitore di armonie e ricomposizioni – è un altro segnale che va nella direzione della distensione. Certo il clima è cambiato rispetto alla tempesta che Berlusconi aveva preparato con il discorso di Bonn sabato scorso dove di fronte alla platea del Ppe aveva annunciato riforme costituzionali muscolari e scontri aperti con la magistratura di sinistra. Un progetto che avrebbe sicuramente fatto detonare anche le contraddizioni all’interno del Pdl e rinsaldato l’asse Fini-Napolitano. Con l’aggressione di Milano muta improvvisamente il paradigma, Fini riorienta la sua navigazione. Non rientra nei ranghi, come chiedeva il direttore del Giornale Vittorio Feltri, questo no, però sposta il bersaglio della sua polemica. Non più la monarchia berlusconiana, ma l’estremismo leghista. È su questo obiettivo, il ridimensionamento di Bossi all’interno dell’alleanza, che Fini chiama a raccolta i suoi ex colonnelli convocati al pranzo natalizio di mercoledì a Montecitorio. Un’iniziativa che segue immediatamente alla telefonata di Fini a Berlusconi il giorno del discorso incendiario di Cic-

chitto alla Camera. Colloquio dove il presidente della Camera parla dell’opportunità di legare i falchi. Gli ex An attivati dal loro vecchio leader si muovono da subito, soprattutto i moderati. Quelli che non lo avrebbero seguito mai lungo un’ipotetica scissione interna e che ora sono invece investiti dal ruolo politico a loro più congeniale, quello dei mediatori e dei messaggeri. E così ecco che in successione intervengono a definire la necessità del nuovo corso il ministro della Difesa Ignazio La Russa, l’esponente del Pdl Amedeo La Boccetta, il sindaco di Roma Gianni Alemanno. La Russa scrive addirittura al direttore del Giornale Vittorio Feltri, il principale nemico di Fini nel centrodestra, chiedendogli di cessare“il fuoco amico”.«Sostenere che ci fosse un ribaltone e che a farlo fallire sia stata la mancanza di un numero sufficiente di peones significa essere assai lontano dalla verità». E sempre a Feltri si rivolge Amedeo la Boccetta: «Fini, mi creda, cerca solo il rispetto. Bisogna sempre capire le ragioni degli altri. Berlusconi in queste ore lo sta facendo. Perché non ci prova anche il direttore del Giornale?». Per Amedeo Laboccetta Feltri è insomma l´unico ostacolo alla pacificazione definitiva e parlando con i cronisti dice «Se Berlusconi mostra di aver compreso le ragioni di Fini, troverei assurdo che non le comprenda Feltri». Non sarà facile. Anche perché Feltri su Fini insiste: «Avere uno che rema contro non è più una risorsa per il Pdl, ma un problema. Da risolvere in fretta».

Il regalo natalizio di Fini a Feltri: un flacone di valium «per festività serene senza ossessioni e allucinazioni»

Perché Feltri a questa tregua e al possibile dialogo non crede per niente: «Viviamo in una situazione di emergenza e il centrodestra ha bisogno di essere unito per agire senza tentennamenti a costo di adottare mezzi e sistemi eccezionali». E a distendere gli animi non aiuta certo il regalo natalizio di Fini al direttore una boccetta di valium accompagnata dal sapido biglietto: «Per festività serene senza ossessioni e allucinazioni». Cadeau a cui Feltri risponderà con del vino bianco, perché «S’è visto come il rosso a Fini annebbi le idee». Peraltro i falchi trovano altri indizi per denunciare l’ipocrisia della tregua «Accolgo l’esortazione ad abbassare i toni – dichiara sarcastico Carlo Lehner (Pdl) – e, perciò, plaudo all’ottima scelta di tempo di Gianfranco Fini. Appena Berlusconi è stato dimesso dall’ospedale, Fini, per festeggiare l’evento, ha tempestivamente stretto la mano a Carlo De Benedetti». Ieri Fini in uno dei suoi discorsi istituzionali ha detto: «Spero che il nuovo anno sia nuovo non solo perchè cambia la data, ma anche nel modo in cui la società affronta i suoi problemi».


diario

pagina 8 • 19 dicembre 2009

Televisioni. Dopo lo stop a ”Cielo” e la riduzione del tetto pubblicitario, un altro fronte aperto per le reti di Murdoch

Sky, continua l’assedio

Dalla Spagna è in arrivo un nuovo attacco di Telecom-Mediaset ROMA. A Sky la consegna è

Mediaset, «un elemento in forte crescita nel nostro gruppo». Un’interpretazione contestata da Roberto Rao (Udc), della Vigilanza Rai: «Il governo si conferma più impegnato a porre dei freni all’espansione di concorrenti dell’attuale assetto Rai-Mediaset, piuttosto che attuare i meccanismi di contrasto all’evasione del canone del servizio pubblico. Il tetto pubblicitario alla raccolta delle pay tv serve a limitare Sky e seppure formalmente interessa anche la pay di mediaset, è pur vero che questa ancora non raggiunge neanche la quota del 12% della pubblicità e quindi non ne viene danneggiata».

di Alessandro D’Amato

quella del silenzio. Ma l’azienda guidata da Rupert Murdoch continua a trovarsi in mezzo a contrasti con il governo, ed è costretta ad usare i suoi canali diplomatici sempre più spesso per arrivare a trovare soluzioni che non ne mettano in pericolo l’esistenza e le permettano di competere sul mercato con Mediaset e Sky. E le ultime vicende stanno mettendo sempre più a dura prova la pazienza di Tom Mockridge e del tycoon.

Prima è arrivato l’imbarazzante tira e molla sulla questione di Cielo. Il canale sul digitale terrestre pronto alla partenza e poi bloccato dal dipartimento delle Comunicazioni in attesa di un’autorizzazione da Bruxelles: la storia arriva a far rischiare l’incidente diplomatico tra il tycoon e Paolo Romani, sottosegretario alle Comunicazioni del governo Berlusconi, quando Sky decide di rendere pubblica una comunicazione tra l’istituzione e l’azienda nella quale Mockridge faceva notare a Romani che l’ok era già arrivato. Dopo la replica piccata del sottosegretario, arriva anche l’autorizzazione, mentre la richiesta di “chiarimenti” al gruppo editoriale Espresso che forniva i ripetitori per trasmettere all’emittente di Murdoch finisce per essere lettera morta. Ma nello stesso giorno scoppia un’altra grana: corre voce dell’intenzione da parte del governo di piazzare un tetto pubblicitario agli spot che è

L’incidente è sempre più vicino, e soltanto la mediazione decisiva di Gianni Letta lo evita: alla fine, il Consiglio dei ministri approva una riduzione graduale dei limiti orari della pubblicità per tutti i canali televisivi a pagamento, sia satellitari, sia terrestri, ma da applicarsi nel prossimo triennio (16% dal 2010, 14% dal 2011, e, a regime, 12% a decorrere dal 2012). Il provvedimento, spiega il ministero, «è pienamente conforme con la disciplina

Secondo Roberto Rao «una cosa è certa: il governo è molto impegnato a frenare l’espansione dei concorrenti del duopolio» possibile trasmettere durante le trasmissioni via satellite, per ottemperare a una direttiva europea. Fox Channels Italy (editrice di 12 canali della piattaforma Sky) ricorda che in nessuno dei 90 paesi in cui opera come pay-tv i vincoli pubblicitari sono diversi da quelli della tv gratuita. «Tutto questo porterebbe a minori entrate pubblicitarie, quindi minori investimenti ed evidenti conseguenze sull’attuale struttura del personale», fanno sapere dalle parti di Murdoch.

comunitaria anche per quanto concerne il mantenimento di un regime rigoroso a tutela dell’utente relativamente ai limiti di affollamento giornaliero che non possono superare il limite del 20%». Gina Nieri di Mediaset non pensa che la legge sia un favore al Biscione: «La riduzione progressiva del limite di affollamento orario degli spot per la pay tv colpisce noi come Sky: non è che non risentiamo di questa misura perché siamo l’azienda del presidente del Consiglio». Il taglio riguarda infatti anche le attività pay di

Il fatturato delle industrie è a -18,4%

Cala la produzione ROMA. I dati della produzione industriale tornato pesantemente negativi, dopo che per qualche mese avevano fatto sperare in una svelta ripresa dalla crisi economica. Gli indici grezzi del fatturato e degli ordinativi delle industrie hanno registrato nel mese di ottobre cali tendenziali, rispettivamente, del 18,4 e del 17,0 per cento. Lo rileva l’Istat. Nel mese di ottobre, spiega l’Istituto di statistica, gli indici destagionalizzati del fatturato e degli ordinativi dell’industria hanno registrato, nel confronto con il mese precedente, un calo dell’1,6 per cento, il primo, ed un incremento dello 0,3 per cento, il secondo. Il fatturato ha segnato una variazione nulla sul mercato interno ed e’ diminuito del 5,5 per cento su quello estero; gli ordinativi nazionali hanno registrato un aumento dello 0,7 per cento e quelli esteri una flessione dello

0,1 per cento. Nel confronto degli ultimi tre mesi (agosto-ottobre) con i tre mesi immediatamente precedenti (maggio-luglio) le variazioni congiunturali, continua l’Istat, sono state pari a meno 0,2 per cento per il fatturato e a meno 2,6 per cento per gli ordinativi.

L’indice del fatturato corretto per gli effetti di calendario ha registrato in ottobre, rileva ancora l’Istat, una diminuzione tendenziale del 15,6 per cento (i giorni lavorativi sono stati 22 contro i 23 di ottobre 2008). Nel confronto tendenziale relativo al periodo gennaio-ottobre, l’indice del fatturato corretto per gli effetti di calendario ha segnato una variazione negativa del 21,4 per cento. Gli indici grezzi del fatturato e degli ordinativi hanno registrato cali tendenziali, rispettivamente, del 18,4 e del 17,0 per cento.

Una nuova legge a favore del duopolio RaiSet? «Non lo so - Dice Rao -. Quel che è certo è che la Rai con queste norme non ci guadagna nulla, mentre invece il resto del gruppo Mediaset potrà giovarsene, e di molto. Il governo in aula ha accolto un mio ordine del giorno teso ad agganciare il canone rai alle bollette energetiche. Alla ripresa dei lavori, vedremo se la maggioranza sarà capace di passare dalle parole ai fatti, oppure proseguirà nella politica di interventi tesi solo a contrastare gli avversari dell’attuale quadro televisivo». E intanto il pericolo che sembra essere più vicino, per Sky, sta nella “convergenza” di interessi tra Mediaset e Telecom. Dopo settimane di indiscrezioni riportate dalla stampa italiana e da quella iberica, nel weekend potrebbe essere siglato l’accordo da un miliardo di euro in base al quale la Telecinco del Biscione acquisirà dal gruppo Prisa (editore fra l’altro del quotidiano El Pais) il 100% dell’emittente in chiaro e Mediaset rileverà il 23% nella pay tv Digital Plus, di cui è azionista anche Telefonica. L’azionista di maggioranza di Telco, la holding che controlla Telecom, comincerà quindi a collaborare presto con il Biscione. E se i due dovessero piacersi, potrebbero aprirsi veramente quelle forme di alleanza che avrebbero come oggetto anche l’ex monopolista. Per ora è soltanto un’ipotesi. Ma se finisse davvero stretta nella tenaglia Mediaset-Telecom, Sky si troverebbe davvero in difficoltà quasi insormontabili. Che potrebbero far pensare, prima o poi, a un disinvestimento dall’Italia.


diario

19 dicembre 2009 • pagina 9

L’Agenzia delle Entrate recupera trenta miliardi di euro

Il giornalista era nato a Catania nel 1922. Il cordoglio della Fnsi

In un anno lo Stato trova quasi settemila evasori totali

È morto Igor Man, «testimone di un secolo»

ROMA. Trenta miliardi di euro. A tanto ammontano i redditi non dichiarati nel 2009, secondo le cifre ufficializzate dalla Guardia di Finanza nel tradizionale incontro di fine anno. Oltre cinque i miliardi di Iva evasa in un anno. Le Fiamme gialle hanno individuato oltre ottomila tra evasori totali (6.715) e paratotali. A fine novembre 2009, la Finanza aveva scovato 5,4 miliardi di evasione internazionale, con un aumento sul 2008 del 6,4%. La gran parte, equivalente al 31% del totale, in Svizzera; il 16% in Lussemburgo; il 6% a San Marino. I filoni investigativi attualmente in corso sono 1.400. Il contrasto all’evasione internazionale «ha uno spazio prioritario nel piano del 2010», ha detto il comandante delle Fiamme gialle, Cosimo D’Arrigo. Nelle operazioni contro i patrimoni della mafia, sono stati indagati in un anno 5.279 soggetti (tra persone fisiche e società) e sono stati sequestrati beni per circa 2 miliardi di euro. Un dato record, visto che rispetto al 2008 le confische sono raddoppiate.

ROMA. È morto Igor Man, scrittore e giornalista: con lui «è scomparso il testimone di un secolo, un giornalista di eccellenza, un grande inviato nella cronaca e nella storia di un mondo vissuto e conosciuto in profondità», dice in una nota il segretario della Fnsi Franco Siddi. «I fatti prima di tutto, raccontati con sapienza avendone prima penetrato tutti i risvolti, affinché chiunque, leggendo sul giornale, potesse avere accesso vero - conclude - anche alle vicende più complesse di geopolitica, di politica internazionale, di cronaca».

L’Agenzia delle Entrate e la Siae hanno poi rinnovato la convenzione antievasione per l’accertamento e il contrasto alle violazioni tributarie nel set-

Ammortizzatori sociali, Draghi sferza il governo Bankitalia: 1,6 milioni di dipendenti senza tutela di Francesco Pacifico

ROMA. Prima un chiarimento: «Non vorrei essere frainteso: il governo ha fatto moltissimo sugli ammortizzatori». Quindi l’allarme: per superare l’ultima coda della crisi, quella peggiore perché colpisce la disoccupazione, l’Italia ha bisogno di un nuovo e più diffuso sistema di protezione sociale. Per Mario Draghi questi meccanismi sono indispensabili per facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro (gli ultimi dati dimostrano che ne sono sempre più esclusi) e per riconvertire gli occupati dei comparti maggiormente in crisi.

Ieri, durante la lectio magistralis tenuta all’università di Padova, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Scienze statistiche, il governatore ha spiegato che secondo una stima di via Nazionale potrebbero essere più di 1,6 milioni i lavoratori non coperti dagli ammortizzatori sociali in caso di perdita del lavoro. All’inizio dell’anno, quando Bankitalia pose lo stesso problema, il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, smentì che la situazione fosse tanto problematica. Fatto sta che in attesa dell’ennesima querelle sui numeri – da fresco dottore in statistica ha ricordato che la «politica economica deve ancorarsi a informazioni affidabili» – Draghi ha ribadito «l’esigenza di una revisione del nostro sistema di ammortizzatori sociali con benefici per l’efficienza produttiva, la tutela dei lavoratori, l’equità sociale. Essa è oggi il prerequisito per un’estensione della flessibilità del mercato del lavoro a tutti i suoi comparti». Entrando più nello specifico, ha sottolineato che «il sistema italiano di ammortizzatori sociali è notoriamente frammentato, perché si basa su uno schema assicurativo generale con un grado modesto di copertura, l’indennità di disoccupazione ordinaria, e su uno schema settoriale, la Cassa integrazione guadagni, essenzialmente limitata ai comparti industriali, cui si aggiungono altre misure come l’indennità di disoccupazione a requisiti ridotti».

Il risultato è «una copertura assicurativa estremamente eterogenea per settore, per dimensione di impresa e per contratto lavorativo». E non a caso, per tamponare l’emorragia dai posti di lavoro, Palazzo Chigi ha dovuto fronteggiare «questa situazione operando sugli strumenti esistenti, estendendone temporaneamente la copertura e ammettendo deroghe ai criteri di accesso e durata». Il governatore poi, rispondendo alle domande degli studenti dell’ateneo patavino, è tornato sulla situazione italiana. In primo luogo ha voluto correggere le analisi fatte dopo l’ultima rilevazione sulla ricchezza della famiglia. «La loro “fragilità finanziaria” risulta complessivamente limitata, pari al 2 per cento, e interessa una famiglia indebitata su dieci». Preoccupa invece l’intensità della ripresa. Il numero uno di via Nazionale ha spiegato che il recupero di crescita nel quarto trimestre è proseguito «ad un ritmo più contenuto e la crescita acquisita per il 2010 è pari allo 0,4». Quindi ha ricordato che «nel terzo trimestre il Pil è salito dello 0,6 per cento, interuna rompendo sequenza di 5 trimestri in calo consecutivi». Non è mancato un riconoscimento al ruolo dell’export, centrale nel recupero del terreno perduto. Quindi è arrivata una buona notizia per quanto riguarda i consumi: «Registrano un lieve incremento, pari al +0,4 per cento, grazie soprattutto al sostegno all’acquisto dei beni durevoli e anche gli investimenti sono aumentati dello 0,3%, dopo sei trimestri».

Secondo il governatore l’attuale sistema è «frammentato». Economia in lenta ripresa. Sotto controllo il debito familiare

tore dello spettacolo e dell’intrattenimento. L’accordo, si legge in una nota, prevede la cooperazione per le verifiche in materia di Iva e imposta sugli intrattenimenti, oltre che sul versante dei controlli relativi al credito d’imposta riconosciuto agli esercenti di sale cinematografiche. Con il nuovo accordo, la Siae si impegna a svolgere almeno 20mila accessi l’anno, dei quali non meno del 15% volti a verifiche documentali su libri, registri e scritture, e a curare l’attivazione e il funzionamento dei sistemi di biglietteria automatizzata e dei misuratori fiscali. La Siae, dunque, riceverà dall’Agenzia una remunerazione correlata al volume degli incassi lordi accertati.

Igor Man era pseudonimo di Igor Manlio Manzella: il quotidiano La Stampa ricorda la fi-

Il governatore ha poi rassicurato il mondo delle imprese, preoccupate per l’aggiornamento dei requisiti patrimoniali arrivato da palazzo Koch. «È previsto un periodo di grand fathering lungo a sufficienza, in modo da evitare ripercussioni negative sul mercato». Non poco per le imprese italiane che hanno visto tra ottobre e settembre un calo del fatturato dell’1,6 per cento. E che ha colpito soprattutto quelli più prociclici come i beni strumentali (-7,3 per cento).

gura di uno dei protagonisti del giornalismo italiano, tra le firme più prestigiose del quotidiano torinese. Man era nato a Catania il 9 ottobre 1922. Figlio di Tito Manlio Manzella, esperto di politica estera, cominciè a lavorare a La Stampa nel 1963 sotto la direzione di Giulio de Benedetti. Studioso delle religioni e delle società, Man aveva una spiccata sensibilità e competenza per i temi riguardanti il mondo arabo ed islamico. Nel 2009 aveva ricevuto il Premio America della Fondazione Italia Usa. Nella sua straordinaria carriera ha intervistato grandi personaggi, tra i quali spiccano i nomi di John Fitzgerald Kennedy, Nikita Khrusciov, Ernesto “Che” Guevara, Gheddafi, Khomeini,Yasser Arafat e Shimon Peres. «Scompare con Igor Man un grande e prestigioso giornalista internazionale di alta e tradizionale scuola. Lo ricordo ancora in qualche città del Medio Oriente mentre alla sera impartiva a noi giovani inviati lezioni sui luoghi, sulla storia, sui personaggi. Esprimo alla famiglia il cordoglio mio personale e del Governo». È quanto scrive in una nota il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti.


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Clima. Il dato politico è stato fornito senza dubbio dal doppio incontro fra Obama e Wen Jiabao. Più caloroso del previsto

Kyoto scaccia Kyoto Slitta al 2010 la data per un accordo politico E c’è chi pensa di ritornare in Giappone di Massimo Fazzi arack Obama ci ha provato, e questo gli va riconosciuto. Il tentativo di salvare fino all’ultimo la Conferenza internazionale sui cambiamenti climatici, che si è chiusa ieri a Copenhagen, è stato apprezzato dagli addetti ai lavori. Quasi tutti, almeno, dato che per altri la presenza del presidente americano e i suoi due incontri - uno non previsto - con il primo ministro cinese Wen Jiabao non sono altro che un tentativo di trovare l’impossibile quadratura (politica) di un cerchio che non si chiuderà tanto presto. Il presidente statunitense è atterrato e subito dopo ha esortato i grandi del mondo a trovare un’intesa: «Sono venuto qui non per parlare, ma per agire. Il mondo ci guarda ed è fondamentale fare passi in avanti, indicare soluzioni e accettare un accordo anche se imperfetto». E subito dopo “l’accordo imperfetto” era già sulla bocca di tutti: cosa voglia dire, per una nazione che non ha firmato il Protocollo di Kyoto, non si sa bene.

Il 7 novembre scorso ci chiedevamo: perchè andare a Copenhagen?

B

Ed ecco che, quasi per magia, dalla bozza dell’accordo allo studio dei leader spariva il riferimento al 2010 come data vincolante per un accordo politico e si iniziava a parlare del 2012. Perché, vale la pena ripeterlo, cercare di vincolare una questione complessa come quella ambientale con due settimane di incontri fra litigiose delegazioni non è credibile.Vale la pena dare una stima geopolitica dell’evento. Gli incontri fra Obama e Wen Jiabao sono stati definiti da fonti della Casa Bianca come «produttivi e tesi al successo». E questa, di per sé, potrebbe già essere una novità: il G2, come in molti hanno rappresentato il nuovo rapporto Washington-Pechino, si era incrinato dopo l’annuncio della partecipazione di Obama al vertice. Insieme al suo omologo cinese Hu Jintao, infatti, i due si erano accordati per far fallire il vertice, presentando una posizione comune sull’argomento.Le dichiarazioni entusiaste dell’inquilino della Casa Bianca, che tre settimane fa hanno fatto risalire le quotazioni dell’incontro di Copenhagen, han-

Un fallimento annunciato di Vincenzo Faccioli Pintozzi un mese esatto dall’inizio della Conferenza internazionale sui cambiamenti climatici che si è conclusa ieri a Copenhagen, liberal si era chiesto che senso avesse partecipare. Nel numero, di cui riportiamo in calce la copertina, avevamo ospitato l’opinione di esperti sul tema e presentato l’esempio di alcune delegazioni che, invece di spendere i propri soldi per volare in Danimarca, li avevano investiti in energie alternative. La presa di posizione non aveva un carattere eccessivamente polemico: lo scopo era quello di invitare a una riflessione su uno dei grandi temi di questo periodo. Andare a Copenhagen, concludevano i nostri interventi, è abbastanza inutile: non c’era stato abbastanza tempo per preparare un accordo realmente soddisfacente, si sapeva (e si sa tuttora) ancora troppo poco sull’argomento, i leader chiamati a confrontarsi hanno tutti posizioni diverse. Senza

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poi considerare che, a parlare di climate change, sono stati chiamati dirigenti di nazioni che non hanno mai neanche firmato il Protocollo di Kyoto. Ora, le Nazioni Unite hanno deciso di ri-aggiornarsi per l’ennesima volta nel 2010. I manifestanti pacifici e i black bloc torneranno a casa, mentre i capi di Stato e di governo avranno approfittato di un’ennesima vacanza a spese dei propri contibuenti per lanciare messaggi pieni di buonsenso negazionista, come la Cina, o di speranzosa inattività, come gli Stati Uniti. Forse non è particolarmente utile ascoltare la campana degli scettici, che negano del tutto i cambiamenti climatici, ma è quanto meno corretto ascoltare chi dice che - con tutti i soldi impegati per organizzare il summit - si potrebbe fare altro. Per non parlare poi di chi, come il famoso “ambientalista scettico” Bjorn Lomborg - lancia una provocazione: «Con un quinto dei soldi che i governi vogliono spendere per ridurre (forse) di un grado Celsius la temperatura, possiamo certamente salvare la vita a decine di milioni di malati di malaria sparsi per il mondo. Per non parlare della ricerca sull’hiv e sul cancro». A ognuno scegliere liberamente quale posizione tenere. Ma smettiamola di organizzare incontri internazionali che si concludono con un nulla di fatto.

no indispettito non poco Pechino, che si è sentita presa in giro. Tanto che Hu Jintao ha declinato l’invito e mandato in sua vece il premier, potente ma non troppo nell’Impero.

Al vertice si sono riuniti i leader dell’Ue (Silvio Berlusconi, assente, è stato rappresentato dal Cancelliere tedesco Angela Merkel) per valutare la possibilità di innalzare l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra entro il 2020 da un taglio del 20 per cento a uno del

nel 1992 a Rio de Janeiro, dove si svolse la Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite (Unced). Il ribattezzato “Summit della Terra”, cui presero parte le delegazioni di 154 nazioni, si concluse con la stesura della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, meglio conosciuta come United Nations Framework Convetion on Climate Change Obiettivo del trattato era quello di ridurre le emissioni di gas serra nell’atmosfera, sulla base della teoria

Una bozza dell’ultimo minuto parla di una possibilità remota: un taglio dell’80 per cento, da parte dei Paesi ricchi, entro il 2050. Rispetto inoltre a quanto registrato nel 1990 30. Ma a Copenaghen si è riuscito ad ottenere soltanto un accordo politico di basso profilo, che in pratica rimanda le decisioni concrete a un’ennesima conferenza - della durata di due o tre settimane - da tenersi a giugno a Bonn. Qui, per non farsi mancare nulla, i leader avranno il compito di «dare contenuto vincolante all’intesa». In quella sede si potrebbero quantificare i tagli alle emissioni e gettare le basi per il nuovo Trattato, che dovrebbe essere approvato alla prossima Conferenza Onu - la Cop 16 - in programma a dicembre. Il 16 accanto alla parola Cop, per i non addetti ai lavori, sta a significare che si sono già celebrate sedici riunioni internazionali simil-Copenhagen per dare un senso alla questione climatica. Tutto è nato infatti

del riscaldamento globale. Dal 1994 le delegazioni decisero di incontrarsi annualmente nella Conferenza delle Parti (Cop). L’unico che ha lasciato una traccia netta, dopo Berlino e Ginevra, fu l’incontro di Kyoto del 1997: al termine di negoziati convulsi - che videro tra i protagonisti l’ex vicepresidente Usa e Premio Nobel per la Pace Al Gore – venne firmato il famigerato Protocollo.

Gran parte dei Paesi industrializzati e diversi Stati con economie di transizione accettarono riduzioni legalmente vincolanti delle emissioni di gas serra, comprese mediamente tra il 6 e l’8 per cento rispetto ai livelli del 1990, da realizzare tra il 2008 e il 2012. Con la data del 2009 definita “vincolante” per trovare un nuovo ac-


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Parla l’esperto climatologo Franco Prodi: sono ottimista se puntiamo sulla ricerca

«È un grande errore parlare solo di clima» Atmosfera, ambiente e sfruttamento energetico fanno parte dello stesso problema. Il riscaldamento della terra è un dato certo

cordo in sostituzione di quello attuale. Ma tutto porta a pensare che questo limite non verrà rispettato. L’ultima bozza messa a punto dopo due anni di negoziato e le febbrili trattative dell’ultimo minuto non scioglie il nodo principale, quello sul taglio alle emissioni responsabili dell’effetto serra e sul meccanismi per finanziarli.

Gli sherpa, che hanno lavorato per tutta la notte e la mattinata, si sono accordati su un testo che fissa a 2 gradi centigradi il tetto entro cui contenere l’aumento della temperatura globale del pianeta rispetto ai livelli pre-industriali; e per finanziare i Paesi poveri con un fondo per adottare tecnologie “pulite” e affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici. Il pacchetto di aiuti ai Paesi più vulnerabili parte da 10 miliardi di dollari all’anno tra il 2010 e il 2012, passa a 50 miliardi di dollari annualmente fino al 2015 e 100 miliardi entro il 2020; e propone una serie di meccanismi di raccolta del denaro. Ma nulla è stato definito quanto ai tagli alle emissioni. Una minuta delle ultime battute parla di una possibilità che appare quanto meno bizzarra: un taglio dell’80 per cento, da parte dei Paesi ricchi, entro il 2050. Rispetto inoltre a quanto registrato nel 1990, uno dei momenti di massimo inquinamento ambientale. Ma se questi numeri dovessero rimanere schizzi sulla carta - non firmati, firmati ma non ratificati, ratificati ma non applicati - non si avrebbe altro che l’ennesima conferma della loro inutilità.

arlare solo di clima è fuorviante e c’è chi, come l’esperto climatologo Franco Prodi, preferisce parlare del triangolo clima-ambiente-fonti energetiche, che meglio spiega lo stato in cui versa il nostro pianeta. Nelle more di un summit di Copenhagen che sembra voler rimandare le decisioni a – è il caso di dire – “tempi”migliori, il professor Prodi ha risposto alle domande di liberal. Professore l’ambiente sta messo peggio o meglio del clima? La conoscenza scientifica sul clima non è a tale livello da consentirci delle previsioni accurate. Il parametro con cui si opera in conferenze come quella di Copenhagen è dunque il principio di precauzione. Sulla base di scenari che sono con una forbice molto ampia. Quindi parlare di un aumento della temperatura terrestre vicino alla superficie da uno a otto gradi, oppure di un innalzamento della superficie marina, non significa avere dei dati scientifici certi. Fattori fisici importanti come il ruolo delle nubi che sono al centro del sistema climatico e della funzione delle particelle sospese in atmosfera – tecnicamente si chiama aerosol – fuori dalla nube, le interazioni fra le due componenti cioè nube e aerosol non le conosciamo bene. L’attività dell’uomo agisce soprattutto sul cambiamento della composizione dell’aerosol, con le emissioni nocive. Ci sono anche delle incertezze nel passaggio da oceano ad atmosfera durante la naturale evaporazione. Incertezze anche sul ruolo dell’anidride carbonica prodotta dai vulcani e sul calore che viene dall’interno della terra. In questa condizione è difficile avere un quadro preciso. Però esistono anche dei dati che hanno un’oggettività assoluta, confermati anche dalle osservazioni satellitari che sono molto precise. Come le osservazioni di queste grandi nubi, a forte inquinamento, come quelle che stazionano su Cina e India e su tutta l’A-

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di Pierre Chiartano sia. Oggi sappiamo di più sul costo ambientale dello sviluppo economico e sulla limitatezza delle risorse del pianeta. Non sono contrario a summit come quello di Copenhagen, perché dimostrano quanto sia necessario un governo globale del pianeta. Ma è un governo globale che dovrebbe essere fatto sulla base del rispetto della biosfera e della gestione comune delle risorse. Vuol dire che clima, ambiente e sfruttamento dell’energia sono un unicumm e come tale vanno trattati? Esattamente. L’essenza del problema che ha l’umanità è proprio che lo sfruttamento delle risorse fossili si traduce nel deterioramento del clima e dell’ambiente. E il primo incide anche sul secondo. Il legame c’è, ma oggi è più a portata di mano ottenere il consenso sulla salvaguardia del pianeta, che non si può continuare a

siasi processo che imiti la natura, producendo particelle di aerosol come fa il mare, il deserto, gli incendi, abbiamo effetto sul clima. Immesse nell’aria cambiano il livello di irradiazione dell’atmosfera (che si scalda tramite la crosta terrestre, ndr). Volendo dare dei numeri, quanto Co2 produce percentualmente l’attività umana rispetto ai fenomeni naturali? Riguardo l’aerosol posso dirle circa il venti per cento, in massa, è ciò che produce l’uomo. L’uomo però aggiunge delle specie chimiche rispetto a ciò che avviene in natura, e che hanno un effetto sulle nubi. Le nubi stanno cambiando struttura e questo è oggetto proprio della ricerca attuale. Ogni goccia si forma su di una particella, se questa e di origine antropica avrà sicuramente delle caratteristiche diverse da quelle naturali, compresa l’attitudine a produrre pioggia. Oggi, sono portato a parlare in termini di lungo periodo, piuttosto che dare risposte immediate che sono quelle che interessano la politica internazionale. Servirebbe più ricerca e il sistema climatico è veramente complesso da studiare. I sistemi più semplici sono quelli che soffrono per primi dei cambiamenti. L’ambiente è uno di questi. Da giovane ricordo i bagni nel fiume Secchia. Ora i nostri fiumi sono delle cloache a cielo aperto. Le acque sotterranee cominciano ad essere permanentemente inquinate. La scomparsa di specie animali, la presenza di metalli pesanti nei pesci delle zone artiche. Questi sono dati di fatto su cui non riflettiamo, perché non ci fa comodo. Riguardo alla foto sull’energia, è l’utilizzo del carbone che desta maggiori preoccupazioni, proprio perché produce quel tipo di particelle che oltre ad essere inquinanti vanno a incidere sulla struttura atmosferica. Ma bisogna essere ottimisti perché tra spazio e modellistica l’analisi può fare passi da gigantie aiutare l’uomo e il pianeta.

Non ci sono sicurezze sul cambiamento climatico e il parametro con cui si opera in conferenze come quella di Copenhagen è dunque il principio di precauzione consumare così tanta energia. I Paesi in via di sviluppo che si sentissero ostacolati da vincoli per il loro sviluppo potrebbe essere coinvolti da politiche di salvaguardia. L’uomo del XVII secolo consumava energia quanto un qualsiasi mammifero di taglia medio-alta. Ora è cinquanta, cento volte superiore. Volendo fare una fotografia di questi tre ambiti: ambiente, clima ed energia. Cosa vedremmo? È il triangolo più importante. Sul primo versante l’effetto antropico sul clima c’è. L’anidride carbonica è in aumento dai primi del Novecento per via delle nostre emissioni. Il riscaldamento globale è un’altra certezza dai primi dell’Ottocento. C’è anche la sicurezza che le sostanze inquinanti, prodotte dall’uomo in qual-


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l cinema non riproduce la città, la inventa. Se la immagina come vuole. Scompone e ricompone a suo capriccio strade e monumenti, edifici e persone, abitudini e gesti. Stravolge piani regolatori e assetti urbanistici, elude codici della strada e leggi di gravità, costruisce percorsi impossibili ignorando sensi unici e divieti di sosta. Non avviene diversamente neppure per Roma, per la Roma del cinema. Nella quale il Colosseo sta a due passi dall’Ara Pacis, i Fori Imperiali sono vicini all’Eur, piazza Venezia dà su piazza di Spagna, secondo la logica combinatoria di un mezzo espressivo che ha l’attendibilità del sogno, la riconoscibile evidenza dell’immaginario, la verità delle sue stesse bugie. Come mettere ordine nelle tante immagini di Roma che il cinema accumula nel corso dei decenni, spesso particolarmente vive, intense, riconoscibili, senza correre il rischio dell’elenco telefonico? Roma (1972) di Federico Fellini, è l’osservatorio privilegiato per attraversare le vicende del cinema italiano, guidati dallo sguardo irrequieto del singolare inquilino del Teatro 5.

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Negli studi di Cinecittà il maestro riminese costruisce di film in film il plastico vivente e affollato della capitale amata e odiata, rimossa e vagheggiata, come un sogno lungo una vita. Roma diviene con lui il set di un’autorivelazione personale, visceralmente soggettiva e parziale, il punto di riferimento di un viaggio nella memoria che tende alla foto di gruppo, in cui ognuno finisce con il ritrovare almeno un frammento di sé e della propria storia. Il compiaciuto narcisismo dell’autore favorisce paradossalmente la progressiva appropriazione della città, il terreno germinale e fecondo in cui da Lo sceicco bianco (1952) a La dolce vita (1960), da Toby Dammit (1967) a Fellini Satyricon (1969) - matura il corpo a corpo tra il regista e la capitale che all’inizio sembra prendere le distanze per diventare alla fine immedesimazione e complicità.

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L’Urbe ripercorsa nel suo passato e nel suo presente, nei rituali più b

Tutte le cineprese Dal film di Fellini sulla capitale del 1972, tutti i capolavori del cinema che hanno ritratto strade, monumenti, edifici e persone nella Città eterna di Orio Caldiron

Nel dopoguerra, il neorealismo si riappropria dell’Urbe come luogo preferito di grande scenografia La rivelazione di Roma è quella di una città ripercorsa nel suo passato e nel suo presente, nei suoi itinerari monumentali come nei tracciati sotterranei, nei rituali più beceri, come negli appuntamenti più raffinati. Si tratta di un affresco magmatico e folgorante in cui l’inchiesta, subito sopraffatta dall’affabulazione, riaffiora nella mi-

sura di un finto documentario di raccordo. Si pensa allo scenario della trattoria all’aperto con il tram che passa accanto ai commensali, dove il rito della cucina indigena dagli acri sapori si celebra in un clima gastrosessuale, illividito dalle luci spettrali e dai colori iperrealistici. Ma anche all’incursione nel teatro del varietà della Barafonda in cui palcoscenico e platea si rimandano a vicenda in una sorta di allucinazione dai tagli espressionisti.

Il film procede per accumulo, attraverso la tecnica ormai consolidata delle entrate successive e delle rinnovate sorprese. Lo sguardo si muove in un registro di epifanie improvvise che trova una sorta di paradigma nella sequenza della talpa della metropolitana che scopre lo spazio vuoto della casa romana con gli affreschi destinati subito a scomparire. Nella lunga sequenza del Grande Raccordo Anulare la ridondanza delle situazioni insolite e delle apparizioni inattese si accompagna alla ostentazione del dispositivo tecnico delle macchine da presa, della gru e della troupe, nel

tentativo di stabilire una soglia attraverso cui si entra e si esce dalla città: uno dei momenti più alti del film in cui si afferma la poetica felliniana dell’eccesso, con tutti che si guardano tra una automobile e l’altra, mentre l’occhio del cinema fa anch’esso parte del quadro. Quando, dopo la sequenza della Festa de Noantri, il regista cerca di intervistare Anna Magnani che sta tornando a casa, e ne ottiene un secco rifiuto, un perentorio «Nun me fido», si ripropone la chiassosa romanità in vernacolo di Campo de’ fiori (1943) e L’ultima carrozzella (1943), un momento particolarmente vivace del lungo rapporto tra l’attrice e la città. Il finale dei motociclisti che attraversano la città monumentale prosegue e allarga, con la rombante presenza dei centauri meccanici, la metafora del cinema, amplificata nell’efficacia dell’impatto visivo e sonoro, un modo per marcare il territorio e sottolineare la potenza di un mezzo che perimetra la mappa urbana nel momento in cui la fa vivere per un’ultima volta. Nel cinema del dopoguerra che sembra ricominciare da zero, il neorealismo è il mo-

mento fondamentale della riappropriazione della città come grande e disponibile scenografia. Il processo ai gerarchi fascisti filmato da Luchino Visconti in Giorni di gloria (1945), la corsa di Anna Magnani verso il camion tedesco in Roma città aperta (1945), la gente in festa che va incontro agli alleati in Paisà (1946), entrambi di Roberto Rossellini, sono immagini indimenticabili che hanno lo spessore della storia rivisitata a caldo a pochi mesi di distanza dagli avvenimenti.

Non è minore la forza di rivelazione dei film di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Umberto D. (1951), Il tetto (1956), altrettanti viaggi dentro la città - il Galoppatoio di Villa Borghese e i traffici di via Veneto, i casermoni di Val Melaina e le bancarelle di Porta Portese, l’ultimo percorso in tram del pensionato in crisi, il cantiere aperto delle periferie in espansione - inchieste in progress che scoprono luoghi e ambienti e delineano una iconografia urbana inedita e sorprendente. «Ecco l’epico paesaggio neo-


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beceri e negli appuntamenti più raffinati, grazie a pellicole immortali

Paesaggi contemporanei Il volume Roma, paesaggi contemporanei, a cura di Marina Righetti, Alessandro Cosma, Roberta Cerone (pagine 366, euro 38) appena uscito da Campisano Editore - da cui è tratto l’intervento di Orio Caldiron - comprende gli atti del convegno promosso nel maggio dell’anno scorso dall’Ateneo Federato delle Scienze Umane, delle Arti e dell’Ambiente della Università La Sapienza di Roma. Nella stessa occasione è stato realizzato il video “Roma al cinema”di Orio Caldiron e Maria Grazia Miccoli.

Marcello Mastroianni e Anita Ekberg in una scena del film “La dolce Vita”. A sinistra: Carlo Ponti durante le riprese di un film a Castel Sant’Angelo. In basso, a sinistra: la famosa sequenza del capolavoro di Roberto Rossellini, “Roma città aperta”; a destra:

Alberto Sordi ne “Il vigile”. Nella pagina a fianco: Anna Magnani in “Risate di Gioia” di Mario Monicelli

e portano a Roma “Giorni di gloria” di Luchino Visconti e Anna Magnani in “Roma città aperta” sono come libri di storia realista, / coi fili del telegrafo, i selciati, i pini, / i muretti scrostati, la mistica / folla perduta nel daffare quotidiano» è il paradigma mitico, il “fuori storia” attraverso cui Pier Paolo Pasolini rappresenta in Accattone (1961) e Mamma Roma (1962) la rabbia disperata dei suoi ragazzi di vita. Come dimenticare la città deserta di L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni, con la Borsa,

gli edifici anonimi, il laghetto, i viali dell’Eur, lo spazio geometrico, prosciugato e disseccato, in cui si consuma la malattia dei sentimenti, la «sottigliezza del senso» di cui parla Roland Barthes e scuote una volta per tutte la fissità delle convenzioni narrative? Ma spetta alla commedia aver allargato indefinitamente il set, aver rotto gli steccati della finzione, l’aver generalizzato il rapporto tra il cinema e la città eterna moltiplicando le occasioni e i punti di vista. Il gioco delle maschere fa della città – da I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli a Il sorpasso (1962) e I mostri (1963) di Dino Risi, via via fino a Lo scopone scientifico (1972) di Luigi Comencini – il grande palcoscenico dei difetti nazionali, l’occasione di uno sbeffeggiamento sarcastico e impietoso a cui non è estranea la complicità. Se Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi sono stati lo specchio grottesco della mostruosità quotidiana, nessun altro ha dimostrato la stessa irriducibile irruenza di Alberto Sordi, maschera romana per eccellenza, immagine insieme cangiante e immutabile di un rapporto straordinariamente forte con le proprie radici, geniale incarnazione della crudeltà che si nasconde dietro la bonomia, dell’immaturità che convive con l’arroganza.

Sono gli sceneggiatori, da Age e Scarpelli a Suso Cecchi d’Amico, da Ennio Flaiano a Ruggero Maccari, da Sandro Continenza a Rodolfo Sonego, che rivisitano in lungo e in largo la città, s’impadroniscono delle“voci di dentro” dei vari quartieri, assaporano le inflessioni particolari, i gesti quotidiani,

ripetono le imprecazioni come giaculatorie. Sceneggiatore tra i più rappresentativi della commedia è stato per molti anni anche Ettore Scola, prima di diventare uno dei registri più dotati del cinema nazionale. Sensibile al vissuto quotidiano, è forse l’autore che più di altri ha saputo immergersi nella storia della città e risolverla in chiave contemporanea: basterebbe pensare, ancor prima di Una giornata particolare (1977) e La famiglia (1987), a C’eravamo tanto amati (1974). Non è solo una sorta di addio senza rimpianti alla stagione della commedia, in cui gli umori grotteschi cedono al bilancio generazionale, ma anche la definitiva consacrazione della città come set sia nella sequenza di Trinità dei Monti che, nell’affabulazione cinefila di Stefano Satta Flores, diventa la scalinata ejzensteniana di Odessa, sia nella straordinaria ricostruzione della scena di Fontana di Trevi di La dolce vita con Marcello Mastroianni e Anita Ekberg. Il cerchio si chiude nel 1987 con Intervista. Nel suo penultimo film, Fellini ripropone la struttura frantumata e frammentaria di Roma, mentre la pretestuosa simulazione documentaristica si accentua nella presenza assillante della troupe giapponese che lo insegue dall’inizio alla fine, ma anche nell’accumulo volutamente confuso e disordinato delle sequenze e dei dispositivi tecnici della ripresa. Il rapporto tra Roma e Cinecittà, il processo di appropriazione reciproca e speculare, l’allargamento del cinema all’intera città come grande set dalle infinite potenzialità, si capovolge nel ritorno a Cinecittà, in cui

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tutto confluisce e si risolve nel segno dell’artificio, della costruzione, del metacinema. Se in Roma gi intermezzi si aprivano ai vari blocchi del passato e del presente e i toni interlocutori dell’inchiesta cedevano alla intensità rappresentativa della messa in scena, in Intervista convivono insieme il film da fare e il film che si sta facendo, il progetto e la realizzazione, i momenti dell’affabulazione e le procedure tecniche e inventive dell’allestimento.

Sin dalla rievocazione della prima volta a Cinecittà per intervistare la diva, i due momenti si sovrappongono e si rincorrono confermando che si sta facendo del cinema e insieme che, nel cinema, tutto è possibile. Non si può girare nella Casa del Passeggero, ormai inagibile, e allora si monta l’insegna nella sede della vecchia Stefer, il deposito dei tram fuori uso. L’attore napoletano che deve interpretare il gerarca fascista non può venire e allora lo sostituisce Pietro Notarianni, il produttore esecutivo. Il viaggio del tranvetto azzurro che dalla Stazione va a Cinecittà è talmente avventuroso che passa vicino alle cascate, ai contadini che cantano nei campi e agli indiani appostati nei dintorni. Non diversamente avviene nella sequenza del matrimonio all’aperto, in uno sfarfallio di petali di carta, in cui un regista istrione mostra agli sposi lo slancio con cui si devono abbracciare, mentre la troupe, con ombrelloni, strani macchinari, schermi riflettenti, insegue faticosamente i protagonisti. O nel set esotico in cui un altro regista ancora più cialtrone urla dall’al-

Nessuno ha dimostrato la stessa irriducibile irruenza di Alberto Sordi, maschera romana per eccellenza to della gru i suoi ordini autoritari fino a quando gli elefanti di cartone non perdono vergognosamente le proboscidi in un fracasso infernale. Il solo momento in cui si esce da Cinecittà è quando Fellini con Mastroianni, vestito da Mandrake per una pubblicità, organizza la visita a sorpresa a Anita Ekberg nella sua villa in campagna, tirandosi dietro una parte della troupe in cui non mancano neppure i giapponesi con le telecamere sempre accese. Basta un lenzuolo per schermo, Marcello e Anita accennano due passi di danza e diventano i protagonisti di La dolce vita che ventisette anni prima ballano nella Fontana di Trevi. Il set affollato e chiassoso, frastornante e caotico, cede per un momento alla magia del cinema che custodisce gelosamente il segreto dell’eterna giovinezza.


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Auschwitz. Un commando ha agito di notte e ha fatto sparire un simbolo, forse il più conosciuto, della Shoah in Europa

La memoria violata Rubata la scritta “Il lavoro rende liberi” che accoglieva le vittime dell’olocausto di Enrico Singer anno rubato un simbolo della Shoah. Forse il più conosciuto. Hanno fatto sparire la scritta Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, che sovrastava l’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz. Un attacco alla memoria e un nuovo oltraggio che si aggiunge all’oltraggio che già i nazisti avevano preparato ponendo quell’illusorio slogan sul cancello di un inferno dove furono uccise, in cinque anni, più di

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L’imbarazzo delle autorità polacche - Auschwitz è a 60 chilometri da Cracovia - è grande. Hanno definito il gesto «un atto ripugnante», hanno mobilitato la polizia che cerca i fuggitivi con l’aiuto dei cani poliziotto e hanno già fatto rimontare sulla cancellata del lager una copia della scritta che era stata realizzata all’inizio dell’anno, quando quella originale, che adesso è stata portata via, era stata smontata per essere re-

Il governo polacco: «È un atto ripugnante». Per il direttore dello Yad Vashem di Gerusalemme è una «dichiarazione di guerra che dimostra la necessità di lottare contro l’antisemitismo» un milione di persone. Il commando che ha compiuto questa profanazione ha agito di notte, tra le 2 e le 4 di ieri. Ha tagliato due sbarramenti di filo spinato, ha divelto una grata e poi ha letteralmente staccato la grande scritta in ferro battuto dai pali sui quali era innalzata. Le telecamere di sorveglianza hanno anche ripreso gli autori di questo furto - se così si può chiamare che erano in sei e che si sono allontanati a bordo di un’auto e di un furgone.

Ma, di notte, i turni dei guardiani sono rallentati e nessuno ha avuto il tempo d’intervenire.

staurata. Grande l’indignazione. «È una cosa terribile e, ovviamente, è stata pianificata», ha detto Pawel Sawicki, uno dei funzionari che gestisce il mausoleo sorto ad Auschwitz. Da Gerusalemme, il presidente dello Yad Vashem, il museo della Shoah, ha detto che questo atto rappresenta «una vera e propria dichiarazione di guerra» e che dimostra la necessità «rafforzare la lotta nel mondo contro l’antisemitismo e il razzismo in tutte le sue forme». In Polonia come in Francia ed anche in Italia, negli ultimi anni ci sono stati molti gesti di antisemitismo, soprattutto profana-

zione di cimiteri ebraici, ma mai prima d’ora era stato compiuto un atto così clamoroso e simbolico. «Non riusciamo a capire come una cosa del genere sia stata rubata da un luogo del genere», ha detto il portavoce del memoriale di Auschwitz, Jaroslaw Mensfelt. «Chi lo ha fatto sapeva quello che voleva e sapeva anche come entrare, come rimuovere la scritta e quali sono i percorsi delle guardie notturne». La scritta in ferro battuto era stata posta all’ingresso del lager: furono i primi prigionieri che la dovettero costruire per ordine dei nazisti quando il campo cominciò a funzionare, il 14 giugno del 1940. Con Auschwitz s’dentifica tutto il complesso concentrazionario che, in realtà, comprendeva tre campi e che è stato il più grande e terribile strumento di quella che fu definita da Hitler la “soluzione finale della questione ebraica”: lo sterminio.

Facevano parte del complesso tre lager principali e 39 sottocampi. L’area di interesse complessiva dell’enorme lager (Interessengebiet), con sempre nuove espropriazioni forzate e demolizioni delle proprietà degli abitanti residenti, arrivò a raggiungere, dal dicembre 1941, la superficie di circa 40 chilometri quadrati. I lager

principali erano: Auschwitz I, Auschwitz-Birkenau e Auschwitz-Monowitz. Auschwitz I, noto in seguito come Stammlager (lager principale), era l’originario Konzentrationslager (campo di concentramento) reso operativo dal 14 giugno 1940 e aveva baracche per 20.000 internati. Qui furono uccise, in una piccola camera a gas ricavata dall’obitorio, o morirono di stenti, circa 70.000 persone. Auschwitz-Birkenau era il vero e proprio Vernichtungslager (campo di sterminio) del complesso di Auschwitz nel quale circa un milione di persone finirono nelle camere a gas immediatamente dopo il loro arrivo. Birkenau era il più grande lager costruito dai nazisti e entrò in funziuone l’ 8 ottobre del 1941. Auschwitz-Monowitz, invece, era l’unico campo di lavoro del complesso e sorgeva vi-

cino allo stabilimento Buna Werke per la produzione di gomma sintetica, di proprietà dell’azienda I.G. Farben, che però non entrò mai in produzione. Fu aperto il 31 ottobre del 1942.

I treni dei deportati dal 1940 al 1942 arrivavano proprio vicino ad Auschwitz I, dove c’era il cancello con la scritta Arbeit macht frei. La strategia dei nazisti era quella di tranquillizzare i prigionieri per evitare ribellioni all’aperto, sulla banchina ferroviaria, dove gli uomini venivano separati dalle donne e dai bambini e dove molti venivano immediatamente avviati verso le camere a gas che le SS presentavano ai deportati come “docce”. A partire dal 1942 fino al maggio 1944, i treni arrivarono ad un’altra piccola banchina ferroviaria, universalmente no-

Anna Foa, storica dell’ebraismo, spiega come questa profanazione sia un ennesimo tentativo revisionista

«Cercano di cancellare il passato» di Gabriella Mecucci

ROMA. Quel terribile cartello staccato nottetempo dall’ingresso di Auschwitz, che portava la scritta edificante: «Il lavoro libera l’uomo», mascherando così, ipocritamente, un luogo di torture orrende e di morte, quale messaggio lancia? Perché questa profanazione? Lo abbiamo chiesto ad Anna Foa, storica dell’ebraismo di cui di recente è uscito il bellissimo Diaspora per Laterza: «Si tratta di una ferita molto forte, al simbolo più alto delle persecuzioni naziste. Una profanazione, fatta non a caso subito dopo che il Parlamento tedesco aveva approvato uno stanziamento

per restaurare Auschwitz.Togliere la targa ha un altissimo valore simbolico: segnava infatti l’accesso all’inferno per milioni di uomini. Quella scritta in cui si evoca la libertà proprio davanti ad un luogo di distruzione e di indicibile pena, oltrechè di costrizione, rappresenta inoltre una sorta di feroce contrappasso». Chi può averla fatta? Mi auguro che sia l’iniziativa di gruppetto senza seguito, altrimenti sarebbe molto grave. Il segno politico-culturale mi sembra chiaramente neonazista. Ho letto che stanno cercando la targa con i cani lupo. Anche questo rappresenta una sorta di contrappasso: nei campi infatti i cani lupo

c’erano e avevano un loro ruolo. I nazisti se ne servivano per lanciarli con ferocia contro i prigionieri. Un furto sin troppo facile? Certo, c’è da domandarsi perché non ci fossero dei guardiani di un simbolo così importante della persecuzione antisemita. Per portare via quel cartello, infatti, ci voleva certamente più di una persona,degli attrezzi e un po’di tempo. È infatti una targa grande e di ferro, collocata in alto. C’è stata probabilmente una certa trascuratezza nella vigilanza. Che cosa muove un uomo alla profanazione? Perché nasce il desiderio incontenibile di far sparire un simbolo?

La profanazione è il desiderio di distruggere, di negare un qualcosa che si sa però che esiste. La profanazione dell’ostia, che veniva attribuita agli ebrei nel Medioevo, era interpretata dai cattolici come un riconoscimento del valore dell’ostia stessa. Non si vuol occultare o distruggere una


mondo

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Ieri e oggi. La scritta “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi) all’ingresso del campo di Auschwitz. A destra, operai rimontano una copia della scritta; il varco aperto dai ladri e superstiti del lager liberati dai russi nel 1945

ta come la Judenrampe, la rampa degli ebrei, a circa 800 metri all’esterno del campo di Auschwitz-Birkenau, nei pressi dello scalo merci della stazione della cittadina polacca di Oswiencim. Anche la maggior parte dei convogli dei deportati italiani ebbero come ultima fer-

1945 - la Judenrampe non venne inclusa nell’area divenuta museo del campo e scomparve, così, quasi completamente.

Soltanto nel 2005 è stata in parte recuperata ed ora è inserita all’interno dei percorsi di visita al campo di Auschwitz.

I nazisti fecero realizzare l’insegna in ferro battuto dai primi deportati per mascherare il campo di sterminio in campo di lavoro. Anche le camere a gas erano indicate dalle SS come se fossero docce mata proprio la Judenrampe, compreso il treno in cui si trovava Primo Levi che ha vividamente descritto la scena del suo arrivo notturno nel lager nel suo libro Se questo è un uomo. Dopo la guerra - i soldati dell’Armata Rossa entrano ad Auschwitz nel gennaio del

Ma nel lager, quando i nazisti accelerarono la “soluzione finale”, fu costruita anche una terza banchina ferroviaria che arrivava fino all’interno del campo di sterminio di AuschwitzBirkenau. Una banchina a tre binari chiamata Bahnrampe e resa famosa dalle scene del

cosa alla quale non si assegna alcun peso. Chi ha rubato la targa di Auschwitz sa bene che cosa è e che cosa ha rappresentato, e proprio per questo, per ciò che rappresenta, la vuole togliere di mezzo. Per poter negare la persecuzione, per poter dire che i campi non sono esistiti, che erano luoghi di villeggiatura. Per negare l’evidenza che conosce anche lui. È un periodo in cui ci sono molti episodi di antisemitismo? No, non mi sembra. Qualche caso qua e là c’è stato. Certamente, però, non è un momento di grande esplosione. Non è detto che quanto accaduto ad Auschwitz non provochi dei gravi strascichi. Le profanazioni dei simboli hanno la caratteristica di produrre correnti emulative: un gesto alimenta l’altro. Speriamo di no, ma non è infondato temere che ci siano nel breve periodo altri episodi di questo tipo. Una delle ondate più forti e più vicina a noi di antisemitismo si era veri-

film Schindler’s list di Steven Spielberg. Il lager - che l’Unesco ha dichiarato patrimonio dell’umanità - è diventato il principale museo della memoria dell’olocausto in Europa ed è visitato da migliaia di persone ogni settimana. Anche due Papi lo hanno visitato. Il primo a varcare il cancello fu Giovanni Paolo II il 7 giugno 1979. Durante quella visita il Pontefice pregò all’interno della cella dove fu prigioniero Massimiliano Kolbe. Papa Benedetto XVI è stato ad Auschwitz il 28 maggio 2006 e dopo la visita del campo ha pronunciato un duro discorso contro il genocidio. Adesso nel campo sono in corso dei lavori di restauro e proprio 24 ore prima del furto della scritta, il governo tedesco aveva deciso di partecipare con 60 milioni di euro: la metà dei fondi necessari.

ficata in Francia negli anni Ottanta.. Sì. Allora vennero profanate le tombe dei cimiteri ebraici.Vennero dissepolti i cadaveri. Accaddero una serie di episodi veramente orrendi. Sin qui abbiamo sempre immaginato come possibili responsabili delle profanazioni i gruppi neonazisti, ma

Ho l’impressione di no. Gli islamici si muovono su un altro terreno, che è quello dell’aggressione alle persone, della distruzione dei luoghi, della negazione. La profanazione è un gesto molto legato all’immaginario neonazista. Mi sembra inoltre che sia un gesto più tipico della cultura occidentale. Abbiamo una lunga

La profanazione del campo di sterminio è un gesto molto legato all’immaginario neonazista. Mi sembra inoltre che sia più tipico della cultura occidentale, che di quella islamica non dovremmo guardare anche altrove? L’aggressività del mondo islamico verso gli ebrei e Israele, il negazionismo di alcuni capi musulmani e dei vertici politici iraniani non possono essere anch’esse la causa di questi gesti?

storia di episodi di questo genere nella nostra storia. Nelle guerre di religione in Francia, per fare un esempio, i protestanti profanavano le chiese e i simboli religiosi. I gesti di violenza degli islamici delle banlieu francesi, per fare un esempio molto diverso, sono invece vere e proprie

aggressioni a persone e cose. Non mi risulta invece che ci siano state attacchi ai simboli. Quello dei musulmani sin qui si è configurata come una violenza più materiale, che non ha nulla di simbolico. Per intenderci: non ce li vedo gruppi di islamici andare a rubare la targa di Auschwitz,mentre li vedo picchiare un ragazzo che porta la kippah. Le cose però possono anche cambiare. Che cosa significa per un ebreo assistere alla violazione del campo di concentramento per eccellenza, del simbolo della più grande ferocia consumata verso i propri fratelli? Soprattutto rinnova il dolore. E poi dà spazio alle paure di un popolo che non ha ancora deposto tutte le sue paure, che non ha superato il trauma dello sterminio. Il gesto contro il simbolo più alto dell’antisemitismo vuol ottenere anche questo: agitare il fantasma della distruzione e aprire la porta alla paura.


quadrante

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La notizia è stata confermata dal governo, che attende ordini

Pronto l’accordo fra l’abate del tempio e il governo dell’Hunan

Soldati iraniani rubano in Iraq un pozzo petrolifero

I monaci Shaolin diventano una marca

BAGHDAD. Torna a salire la tensione alla frontiera tra Iraq e Iran. Un gruppo di militari di Teheran, 11 secondo il governo di Bagdad, ha sconfinato in un’area petrolifera. La notizia, inizialmente smentita dal governo iracheno, è stata poi confermata dal vice ministro dell’Interno Ahmed Ali al-Khafaji, che ha sottolineato come quella odierna sia l’ultima di una serie di incursioni che si sono susseguite negli ultimi giorni. AlKhafaji ha inoltre precisato che Bagdad punta a una soluzione pacifica della vicenda e per questo non c’è stata alcuna reazione militare.

PECHINO. La China Travel Service (Cts, colosso nel settore del turismo cinese) ha annunciato di aver aperto una trattativa con la municipalità di Dengfeng, nell’Henan, per trasformare l’antico monastero di Shaolin in una marca di grande successo. L’incontro è stato confermato dai dirigenti comunali, che hanno però sottolineato di «non aver ancora firmato alcun contratto con la società». Secondo i particolari disponibili, il monastero non farebbe parte della futura joint venture e il suo abate, il controverso Shi Yongxin, sarebbe stato tenuto all’oscuro dei negoziati. Tuttavia, molti fedeli buddisti della zona lo accusano di essere il vero promotore dell’iniziativa:

A parlare per prime dell’incursione erano state fonti anonime delle forze di sicurezza irachene nella provincia sudorientale di Maysan. Poi un portavoce militare del vicino campo americano Adder - a 300 chilometri a sud di Bagdad, non lontano da Nassiriya - aveva riferito che le forze iraniane avevano preso possesso di un pozzo petrolifero nel sud dell’Iraq, in un’area contesa tra i due Paesi. Ma lo stesso al-Khafaji aveva smentito parlando di ”notizie non vere”e affermando che «il territorio in questione oggetto di disputa è al momento abbandonato da entrambe le parti, è vuoto». In seguito il vi-

Aminetu Haidar torna (vittoriosa) nel Sahara Liberata da Rabat dopo 32 giorni di sciopero della fame di Massimo Ciullo opo 32 giorni di sciopero della fame, Aminetu Haidar, l’attivista per i diritti del popolo saharawi, ha vinto la sua battaglia. Le autorità marocchine, a causa delle forti pressioni internazionali, hanno permesso alla donna di tornare a casa, ad El Aaiun, la vecchia capitale del Sahara occidentale spagnolo. Haidar, apparsa molto debilitata ma sorridente, ha detto che si è trattato di una «vittoria per la causa saharawi». Il governo marocchino ha cercato in tutti i modi di evitare che il ritorno a casa dell’attivista si trasformasse in un giorno di festa nazionale ad El Aaiun, imponendo alla città un asfissiante cordone di sicurezza con centinaia di poliziotti pronti ad intervenire in caso di disordini. Oltre un mese fa, le autorità di Rabat avevano espulso Haidar e le avevano confiscato il passaporto. Dall’aeroporto di Lanzarote, un aereo messo a disposizione dalla Spagna ha riportato Haidar a casa. Con la donna hanno viaggiato la sorella Leila e il direttore dell’Ospedale di Lanzarote, il dottor Domingo de Guzman, che ha seguito il caso fin dall’inizio. L’aereo ha sorvolato il territorio saharawi per circa un’ora prima di ottenere l’autorizzazione all’atterraggio da parte marocchina. Una volta sbarcata, Haidar ha rifiutato l’autoambulanza messa a disposizione dalle autorità marocchine e ha preferito tornare a casa con l’auto dei suoi familiari, dopo la restituzione del passaporto da parte della polizia. «Questa è una vittoria per il diritto internazionale, per la giustizia internazionale e per la causa saharawi», ha ribadito la donna. Un salvacondotto del governo spagnolo ha permesso ad Haidar di tornare a casa, senza altri intoppi. Ad El Aaiun, sfidando le disposizioni del locale commissariato, decine di persone si sono recate in corteo verso l’abitazione della donna, scandendo slogan contro il governo marocchino e a favore del fronte Polisario, l’organizzazione armata che lotta dal 1975 per l’indipendenza dal Marocco dell’ex-colonia spagnola. Fonti diplomatiche hanno spiegato che il rientro di Haidar è scaturito dopo inten-

D

se negoziazioni con il Marocco, alle quali hanno partecipato gli Stati Uniti, la Spagna e in maniera decisiva, la Francia. Nella giornata di giovedì, i contatti si sono moltiplicati tra i diversi canali. Le trattative principali però, si sono svolte tra Washington, dove si è recato il capo dell’intelligence marocchina, e Parigi, che ha ricevuto la visita del ministro degli Esteri di Rabat, Taieb Farsi Fihri.

Il presidente francese Nicolas Sarkozy, dopo aver chiesto espressamente a Mohammed VI di permettere il ritorno di Haidar ad El Aaiun, ha comunicato di aver ricevuto dal diplomatico marocchino un messaggio da parte del sovrano alavita. Il capo dell’Eliseo ha accolto con soddisfazione la proposta di Rabat per la concessione di una larga autonomia per il Sahara occidentale, nel quadro di una soluzione politica sotto l’egida dell’Onu. In attesa di raggiungere questo risultato però, le autorità marocchine continueranno ad applicare la legislazione nazionale sul territorio conteso. Dopo l’accettazione francese delle precisazioni di Rabat, Sarkozy ha ricevuto un altro messaggio da Mohammed VI, in cui il monarca concedeva alla signora Haidar, «in queste circostanze», di poter tornare in Marocco. In realtà, il sovrano finora non ha mai mostrato una grande disponibilità per una soluzione pacifica della questione dell’ex Sahara Occidentale. Il Marocco aveva inizialmente accettato le condizioni poste dal Piano Baker II, ma al momento di attuare le disposizioni dell’Onu non ha dato seguito ai suoi impegni. La questione dell’ex-colonia spagnola del Sahara ha origine nel 1975, quando il Marocco decide di occupare la parte occidentale del deserto abitata dalle popolazioni saharawi. Da quel momento si è organizzata una resistenza armata, controllata dal Fronte Polisario che rivendica l’indipendenza della regione. Dal 1991 è in vigore una tregua unilaterale, proclamata dal Polisario. Diversi sono stati finora i tentativi da parte delle Nazioni Unite per trovare un esito pacifico della vicenda.

La questione dell’ex-colonia ha origine nel 1975, quando il Marocco decise di occupare la parte occidentale del deserto

ce ministro iracheno ha invece confermato l’incursione: «Undici soldati si sono infiltrati attraverso il confine e hanno preso il controllo del pozzo petrolifero. Hanno innalzato la bandiera iraniana». Al-Khafaji ha quindi aggiunto che il suo governo non ha assunto nessuna iniziativa di tipo militare perché vorrebbe risolvere la situazione per vie diplomatiche. «Siamo in attesa di ordini dal nostro leader», ha concluso. Il campo petrolifero occupato è quello di Fakka, uno dei sei aperti da Baghdad nel giugno scorso allo sfruttamento da parte di imprese estere sulla base di contratti a lungo termine. Nella provincia di Maysan si concentrano tre dei sei siti.

sono conosciuti infatti i gusti dispendiosi dell’abate, che all’inizio del 2009 ha “accettato” da una ditta privata una veste intessuta d’oro dal valore di 160mila yuan [16300 euro]. Il primo incontro per la nuova compagnia è avvenuto il 9 dicembre: secondo il Bejing News, i diritti di ingresso nel monastero e lo sfruttamento dei suggestivi scenari del monte Song – dove sorge il luogo religioso – si aggirano sui 49 milioni di yuan [circa 5 milioni di euro]. Il governo di Dengfeng ha diritto al 49% del totale. L’affare sembra però essere al ribasso: lo scorso anno, soltanto di biglietti di ingresso, il monastero ha incassato 10 milioni di euro.

Tuttavia, l’affare non è passato inosservato neanche nell’atea Cina: il monastero di Shaolin, vecchio di 1.500 anni, è considerato un luogo di interesse nazionale e quindi non dovrebbe arricchire nessuno in particolare. Patria del kung fu e culla del buddismo zen, si è trasformato negli anni in un luogo di attrazione turistica e set cinematografico. Il suo giro d’affari comprende persino la produzione di medicinali, oltre ovviamente ai celebri monaci che girano spesso il mondo per tour e spettacoli sulla loro arte marziale.



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Miti. Dopo l’operazione d’acquisto da parte di Coin, viaggio nel costume (e nei profitti) dei Gruppi che hanno modernizzato la distribuzione nel Paese

L’Italia, dalla A alla Upim Le trasformazioni della nostra società attraverso la storia dei Grandi Magazzini e della loro “rivoluzione” commerciale di Massimo Tosti a nostalgia è un sentimento che appartiene alle persone di una certa età, e che si applica indistintamente agli uomini, ai luoghi, alle cose, alle musiche, agli odori. Del tutto naturale, quindi, per chi ha ricordi lontani tornare indietro con il pensiero ai grandi magazzini di una volta, niente a che vedere con gli outlet, i centri commerciali e i megastore che oggi la fanno da padrone. A Roma (ma anche a Milano, e in quasi tutte le città d’Italia) la scelta era fra due sigle con un target (si direbbe oggi) diverso: la Rinascente e Upim. E nessuno sospettava che fossero la stessa ditta: anche perché ben pochi leggevano allora Il Sole e 24 Ore (che - per chi non lo sapesse - erano due giornali distinti), o Ore 12 (un fratello minore, come testimoniava anche la testata a mezzo tempo).

L

Erano tempi nei quali le fusioni fra le aziende non erano neppure immaginabili e la “globalizzazione” era un fenomeno di quartiere, neppure di una città. Ci si sentiva globalizzati quando un esercente che aveva un negozio di scarpe, ne apriva un secondo, a tre isolati di distanza. La notizia che Upim sia passata di mano, acquistata dalla francese Coin (presente sul mercato italiano da qualche decennio) è di quelle che non provocano emozioni nel pubblico più giovane, abituato alle concentrazioni e alle multinazionali. Ma lascia l’amaro in bocca a chi ha memoria sufficientemente lunga. Andare alla Upim (quaranta o cinquanta anni fa) era per i bambini di allora come andare al lunapark. C’era la scala mobile, dalla quale farsi trascinare su e giù per i diversi piani dell’edificio fino a rimanerne

stremati, con le madri che ogni tanto si rivolgevano al personale perché l’altoparlante li aiutasse a ritrovare i figli dispersi (che continuavano a salire e scendere incuranti dell’ango-

Un tempo erano luoghi poetici, dove correre su e giù per le scale mobili o perdersi giocando a nascondino con altri ragazzini...

scia materna). C’erano gli sconfinati reparti di abbigliamento, nei quali giocare a nascondino con altri ragazzini, amichetti improvvisati incontrati al secondo piano (reparto casalinghi), dal quale fuggire rapidamente perché era il più noioso, con tutte quelle pentole che oggi si acquistano direttamente via e-mail, oppure in televisione, dove - per invogliarti - ti offrono insieme una bicicletta con cambio scimano. Upim era il Paese delle meraviglie, e - se fosse nato settant’anni prima Lewis Carroll avrebbe ambientato lì dentro le peripezie della sua eroina. Upim nacque (da una costola della Rinascente) nel 1928. L’acronimo stava a significare Unico Prezzo Italiano: UPI. E la M? Fu aggiunta per ragioni banalmente legali: esisteva già un’azienda registrata come Upi (un’agenzia pubblicitaria). L’impiccio fu risolto aggiungendo quella M che indicava Milano (anche se il primo magazzino della catena fu aperto a Verona). Non mancarono gli sberleffi: c’era chi leggeva l’insegna, trovando nelle iniziali un significato: altro Unione per incassare meglio. Quasi tutte le sigle dei Grandi magazzini di allora ebbero una storia complicata e intrigante. Che l’idea di chiamare la primogenita La Rinascente fu di Gabriele D’Annunzio lo sanno quasi tutti. La catena di negozi esisteva dalla seconda metà dell’Ottocento, ma il nome definitivo fu coniato dal Vate nel 1917 quando il senatore Borletti rilevò l’impresa, dandole un carattere vagamente aristocratico, e alto borghese, che le è rimasto appiccicato addosso, nonostante gli acciacchi dell’età. E fu proprio per aprirsi a un mercato più popolare che alla Rinascente fu affian-

A fianco, in senso orario: la Upim, la Coin, la Rinascente, Standa e Oviesse. A sinistra, una locandina pubblicitaria d’epoca della Rinascente e una dei Magazzini Italiani

cata la Upim. Per completare il panorama delle scelte che - a partire dall’inizio degli anni Trenta - furono offerte al grande pubblico, è doveroso ricordare che nel 1931 il direttore della Upim Franco Monzino abbandonò la casa madre per fondare i Magazzini Standard, che puntavano su una clientela di fascia più bassa. Qualche anno dopo, Mussolini (che nutriva una sincera idiosincrasia per i nomi stranieri, o che sembrassero tali) vedendo l’insegna Standard in via del Corso, a Roma, impose a Monzino di tagliare le ultime due lettere. E così, dal nome si passò all’acronimo (e non viceversa, come di norma accade) e Standa fu contrabbandato per Società Tutti Articoli Dell’Abbigliamento.

Che poi all’interno si vendesse la qualunque, e non soltanto il vestiario, non dovrebbe stupire nessuno, in tempi nei quali (tanto per dirne una) le edicole dei giornalai sono sommerse da prodotti di ogni tipo, con la complicità degli editori che li spacciano sotto cellophan.

A Roma le tre major furono affiancate da un altro grande magazzino che si poneva più o meno al livello della Rinascente (medio alto), avvantaggiato da una sede centralissima, di fronte al ministero dell’Agricoltura in via XX Settembre. Era il CIM, che occupava il prestigioso Palazzo di Vetro, degno concorrente di quello che, a New York, ospita le Nazioni Unite. Ma quella sigla è stata cancel-


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ed era il momento in cui le signore si rifugiavano alla toilette per sistemarle. Che quel mondo fosse al declino lo si è capito (al di là dei trasferimenti dei pacchetti azionari) quando - per esempio - la Standa si preoccupò di fare le concorrenza ai supermercati (un’altra diavoleria contemporanea) aprendo nei propri magazzini un reparto alimentari. O quando si scoprì che la Upim concesse il suo marchio in franchising per coprire tutto il territorio nazionale, neanche fosse un Benetton qualsiasi. Niente a che vedere con i tempi eroici,

lata da molti anni (sic transit gloria mundi) per lasciare il posto a una banca, e poi chissà a cos’altro. Negli anni Cinquanta la Upim era un luogo di appuntamento, come lo sono oggi i Blockbuster o i Macdonald’s. Le signore - nei loro inquieti pomeriggi dedicati allo shopping si dicevano “Vediamoci da Upim”. Il grande magazzino diventava così un luogo di chiacchiere, come accade - nei tempi presenti - con le catene di librerie che si son fatte furbe, e ospitano al loro interno anche un bar con i tavolini. Un modo per invogliare a leggere persino gli analfabeti (che, infatti, sorseggiano un aperitivo). Fanno quattro chiacchiere e poi escono senza aver acquistato neppure un tascabile. Upim e la Rinascente non avevano il bar o il ristorante, però avevano le scale mobili e gli ascensori con il lift in livrea sgualcita, e persino quello contribuiva a mettere le clienti a proprio agio, trattate come signore, da un adolescente imberbe, e vagamente annoiato, che - al pianoterra - ripeteva la litania: “Primo piano abbigliamento, secondo casalinghi, terzo giocattoli”. Poi, piano piano, il fascino è declinato. Le aziende sono passate di mano in mano: alla fine degli anni Sessanta la Rinascente passò nelle mani della Fiat, una quindicina di anni più tardi la Standa entrò nel portafogli di Berlu-

sconi. E la gente - ormai disillusa - si rese conto che D’Annunzio era un’altra cosa, che la scala mobile (oltre ad essere un meccanismo per adeguare la paga alla contingenza) c’era pure nelle stazioni della metropolitana. Intanto i ragazzini avevano trovato altri rifugi nelle sale gioco, o preferivano perdersi negli stadi di calcio - durante il secondo tempo del derby, con lo stesso altoparlante che ne gracchiava il nome per aiutare il papà e la mamma a ritrovare il moccioso. Alda Merini, la poetessa scomparsa un mese e mezzo fa, raccontava che i vestiti li acquistava alla Upim. Soltanto un’anima candida come lei poteva ancora rivelare un’abitudine del genere, oggi che le signore non conoscono più le vie di mezzo: o scelgono Armani, oppure (con un sorriso furbo) rivelano che è “uno straccetto” che “ho trovato domenica in un mercatino”. Aggiungendo: “Non puoi neppure immaginare quanto l’ho pagato...”.

Negli anni Trenta, ma anche negli anni Cinquanta, quando s’affacciava il boom economico, le antenate delle snobine di oggi, i loro acquisti li facevano dopo aver confrontato con la meticolosa avarizia di Shylock i prezzi del negozietto sotto casa e della Upim (o della Standa, dipendeva dal ceto). Prima della guerra un reggicalze (in-

dumento necessario, e non soltanto erotico, quando non esistevano ancora i collant e le autoreggenti) costava alla Rinascente 12,50 lire. Ma era “di resistente pizzo rosa, fodera in tulle, guarnizione in nastro di raso, a richiesta anche in nero”. Un’autentica libidine. E le calze variavano da un minimo di 10 lire al paio alle 22 lire di quelle “in seta pura, velatissima, tipo finissimo, speciale per passeggio”. Le calze meritano una citazione particolare perché i grandi magazzini avevano una gamma di offerte enormemente superiore a quello delle mercerie sottocasa. E, nel reparto calze, c’era gran folla anche negli anni Cinquanta, quando la moda imponeva ancora quelle con la riga dietro, che ogni tanto - capricciosamente - si metteva per obliquo,

quando l’Unico Prezzo Italiano non era una promessa pubblicitaria, ma una realtà importa dal mercato. Per evitare che mendicanti e ladri entrassero per ripararsi e rubassero qualcosa, tutti gli oggetti in mostra avevano uno stesso prezzo (di norma 1-2-3-4 lire) che si pagava all’entrata prendendo un biglietto: così chi voleva comprare un oggetto pagava 1 lira, chi ne voleva due dava 2 lire e così via, mostrando i biglietti all’uscita. Per i nostalgici (quelli che hanno varcato abbondantemente la soglia degli “anta”) resta solo la fuga per shopping. Perché a Parigi i magazzini Lafayette sono ancora una bandiera (che evoca nel nome i giorni gloriosi della Rivoluzione) e a Londra Harrod’s continua ad essere Harrod’s, anche se il proprietario è quel signore

mediorientale che rischiò di imparentarsi con la Casa Reale britannica. Un grande magazzino che promette una gamma infinita di prodotti: se entrate nel palazzone di sette piani al centro di Knightsbridge potete domandare qualunque cosa all’impeccabile commesso con la faccia da Jeeves, persino un elefante. L’uomo non farà una piega, salvo correggervi la pronuncia di elephant. Provate a porre la stessa domanda in uno store italiano. Nessuno vi corregge la pronuncia, ma la cassiera sta già chiamando il 113. Questo per dire che ce lo meritiamo che un qualunque monsieur Coin si mangi in un solo boccone la Upim, che non è più una gloria nazionale, ma soltanto - nel migliore dei casi - il posto più vicino nel quale acquistare un paio di calze (da uomo) se vi accorgete che sta affacciandosi la “mela”(cioè un buco) dalla parte posteriore della scarpa.

Soltanto i poeti possono continuare a pensare di realizzare i propri sogni in un grande magazzino in Italia. Quanto sono remoti i tempi in cui Mario Camerini (uno dei maestri del cinema, ambientava nei “Grandi Magazzini” una storia di furti e di ricatti a lieto fine che fece piangere le signorine alla fine degli anni Trenta con la complicità di Assia Noris e di Vittorio De Sica. Ed è antico, ormai, anche il set del film (con lo stesso titolo) di Castellano e Pipolo nel quale si ficcavano in ogni sorta di equivoci Ornella Muti, Renato Pozzetto, Enrico Montesano, Nino Manfredi e una serie infinita di altri comici. Correva l’anno 1986. Da allora, i cinepanettoni sono ambientati nei grandi alberghi o sulle navi da crociera, in ogni angolo del mondo. De Sica (Christian, il figlio di Vittorio) non abita più in un palazzone con gli ascensori e le scale mobili dove si vendono elettrodomestici e vestaglie da camera, e dove i ragazzini si perdono volontariamente per vivere un effimero momento di libertà.


cultura

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ojtyliana nel cuore, ratzingeriana nel pensiero, la Chiesa europea guarda alle sfide del mondo contemporaneo con gagliardia e consapevolezza. Consapevole dei problemi che incombono sul vecchio mondo e sulla sua anima cristiana. Gagliarda, e non meno umile, nel costante attivismo per l’edificazione di una città di Dio che, senza occupazioni, invasioni o“ingerenze”, percorre le strade della città umana. Alcune settimane sono trascorse dall’annuale Assemblea plenaria degli episcopati europei, riunitasi a Parigi per riflettere sul tema “Chiesa e Stato, venti anni dopo il crollo del Muro di Berlino”. L’obiettivo dei lavori è emerso con chiarezza nel messaggio di saluto di papa Benedetto XVI, letto dal presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (Ccee), il cardinale Peter Erdö: «La giusta distinzione tra Stato e Chiesa non separi quest’ultima dalla vita sociale e culturale». In altri termini, sfondate le brecce, caduti i muri, risolte le “questioni romane”, dell’Europa non si faccia terra bruciata. Non si erigano nuove barriere, non si creino nuove divisioni, non si chiudano i ponti che da secoli conducono l’antico continente oltre il Tevere.

W

Nel segno di una rinnovata coscienza dell’alto valore sociale, civile e culturale dell’impegno svolto dalle sue istituzioni e associazioni, gli “Stati Generali” della Chiesa cattolica europea hanno dedicato la loro attenzione a un notevole complesso di problematiche, dal conflitto in Terra Santa al rapporto tra Chiesa e media, dall’ideologia del gender nel panorama legislativo europeo alle priorità della scuola e dell’università, dalle nuove migrazioni alla salvaguardia dell’ambiente. Ma il vero e proprio termometro del rapporto fra la Chiesa e gli Stati europei è la bioetica, campo nel quale il confronto, la collaborazione e la reciprocità devono progredire, in barba ai più o meno datati cleavage ideologici. Un dibattito culturale che voglia essere autenticamente laico, e pertanto non insignificante in ordine al processo legislativo e alla decisione pubblica, non può prescindere dalla definizione del contesto normativo, né dalla constatazione della realtà empirica ed effettuale in cui si è chiamati ad agire. Ancor più importante, infine, è la formulazione di “punti di riferimento” in base ai quali procedere. È stato sagacemente rilevato, e non a caso dai vescovi francesi, coinquilini di lungo corso del laicismo più radicale, come i valori fondamentali della Chiesa circa il rispetto della vita umana “dal concepimento alla morte naturale”, il significato della persona, l’indisponibilità del corpo umano debbano fare i conti con una cultura dominante, in Fran-

All’indicazione delle principali linee-guida dottrinali sulla bioetica, il clero transalpino ha accompagnato in questi anni un attivismo culturale e divulgativo al quale il Parlamento deve gratitudine. Conferenze, colloqui, dibattiti, mostre, blog, rubriche telematiche, seminari, forum di idee aperti a tutti, non ultimi esperti e scienziati, sono la base sulla quale si muoverà il dibattito parlamentare

Etica. Il lavori del Consiglio delle Conferenze Episcopali a Parigi

La “nuova” società secondo la Chiesa di Giulio Battioni cia socialmente maggioritaria, che disprezza il mondo ecclesiale come arcaico, moralista e reazionario.

Ma il tradizionale anticlericalismo repubblicano non deve demoralizzare una istituzione plurisecolare verso cui la “Cosa pubblica” è pure debitrice: «Non dobbiamo avere timore!

l’ambito di movimenti della Chiesa che attraverso istituzioni non confessionali o statali al servizio di “ogni uomo e di tutti gli uomini”». L’episcopato francese, in vista della prossima apertura del dibattito parlamentare sulla bioetica, che porterà a una più chiara disciplina dei sette argomenti indicati, il 16 luglio 2008, dal

sponibilità”del corpo umano, la procreazione assistita, la medicina predittiva e i test genetici, la diagnostica prenatale e preimpiantatoria, correlata all’eliminazione di embrioni e feti, ha precisato gli orientamenti che intende adottare.

Basarsi su fondamenti di diritto inequivocabili, dall’enci-

Per i vescovi, il clero cattolico è un sostegno indispensabile per la pace e la solidarietà, il rispetto per la vita e la libertà religiosa. Ma oltre ai sacerdoti servono anche laici, famiglie e persone capaci di testimoniare “il volto di Cristo” La Chiesa, a suo tempo, ha inventato gli ospedali pubblici. Siamo tutti a conoscenza delle cliniche gestite dalle suore. Moltissimi cristiani sono oggi attivi in questi campi, sia nel-

Consiglio dei Ministri transalpino sulla ricerca sull’embrione, i prelievi e i trapianti di organi, il consenso delle persone nelle ricerche biomediche, il significato del “principio di indi-

clica Evangelium vitae del 1995, all’istruzione Donum vitae del 1987, aggiornata nel 2008 da Dignitas personae, fino all’art. 16 del codice civile d’Oltralpe, che sancisce la dignità della persona umana dall’inizio della vita, e alla “Convenzione di Oviedo” del 1997; accogliere con favore i progressi scientifici al fine di lenire la sofferenza umana e garantire l’integrità della persona umana; integrare e la riflessione scientifica alla riflessione etica, nella ricerca del bene dell’uomo e del bene comune; distinguere i grandi principi fondamentali dai diritti soggettivi, «i diritti del bambino, ad esempio, non pos-

sono essere equiparati al diritto ad avere un bambino»; inoltre, «ragionare non su principi religiosi per difendere una visione «cattolica» delle cose, ma partire dai principi umani riconosciuti da tutti nella società odierna».

All’indicazione delle principali linee-guida dottrinali, il clero transalpino ha accompagnato in questi anni un attivismo scientifico, culturale e divulgativo al quale il Parlamento deve profonda gratitudine. Conferenze, colloqui, dibattiti, mostre, blog, rubriche telematiche, seminari, forum di idee aperti a tutti, non ultimi esperti e scienziati, costituiscono lo zoccolo duro sul quale si muoverà il dibattito parlamentare. A Parigi si è parlato anche dello status giuridico della Chiesa cattolica che in Europa gode di riconoscimenti molto diversificati e non sempre effettivi. In Italia, la condizione giuridica della Chiesa è sancita dalla Costituzione e regolata in base al Concordato, ma se i suoi interventi pubblici riguardano i diritti umani, la solidarietà e lo sviluppo sono considerati, non altrettanto avviene su bioetica, famiglia e sessualità, laddove i suoi pronunciamenti riscuotono l’indifferenza, se non quando l’ostilità, dei media e dell’establishment politico-intellettuale. La plenaria del Ccee ha dunque convenuto che se la Chiesa è un sostegno indispensabile per la pace e la solidarietà fra i popoli, il rispetto per la vita, la libertà religiosa e il bene comune, l’Europa ha bisogno, non solo di sacerdoti, ma anche di laici, famiglie e persone capaci di testimoniare “il volto di Cristo” nella politica, nella cultura e nelle istituzioni sociali.


sport

19 dicembre 2009 • pagina 21

Sfide. Ex titolare del dicastero dello Sport russo e presidente del Cska di hockey, Vyacheslav Fetisov torna in pista a 51 anni

“Slava”, il ministro sui pattini di Francesco Napoli

ntorno alla formazione da schierare nel fine settimana c’è sempre un gran discutere nei bar come sui quotidiani anche perché tra i giocatori questo o quello affatto pari sono. Capita tanto nel calcio, italiota o meno che sia, come in ogni altro sport di squadra, soprattutto quando si deve pensare a chi far scendere in campo contro la capolista. Ma non ora, e non a Mosca, dove la leggenda vivente dell’hockey su ghiaccio sovietico si tira via da dietro la scrivania di presidente e rindossa i panni del giocatore dell’Armata Rossa, quella società che l’aveva già visto pluricampione prima della caduta del Muro di Berlino e del via liberi tutti della perestroijka, quando approdò alla corte della Nhl, la massima lega professionista nordamericana.

I

All’andata il suo Cska ne aveva già buscate, 5-2, dallo Ska di San Pietroburgo, un mesetto fa circa, e rifare quella brutta figura non pare proprio il caso. Infortuni e scalognati episodi stanno compromettendo la stagione, la tiritera è valida a tutte le latitudini e in tutte le discipline, ed è necessaria una svolta. Soprattutto in difesa la squadra è apparsa particolarmente vulnerabile: bisogna rinforzarla, e lui nel ruolo è, anzi, è stato, uno dei più grandi del mondo, come dire, un Gaetano Scirea, per classe limpida e fair play in campo, e un Claudio Gentile in quanto a determinazione (e mi scuso con gli appassionati di hockey, ma la mia maggior frequentazione calciopedatoria mi porta a questi paragoni). Sì, Vyacheslav “Slava” Fetisov, da Mosca, classe 1958, riscende sulla pista ghiacciata, non per una partitella tra coetanei veterani o di vecchie glorie, ma di campionato vero, per difendere, è il caso di dire, i suoi colori contro la prima in classifica della regular season – anche nella Russia dell’amico Putin è entrato un bel po’ d’America. Allora si è tolto giacca e cravatta, ammesso che le indossi, ed è andato di buon grado in sala d’attesa del medico sociale per le visite di rito, quelle di idoneità alla pratica sportiva, superandole brillantemente. Cuore a posto, colesterolo in regola e ecocardiogramma da sforzo nei parametri: «un giovanotto, presidente – gli ha detto il dottore – po-

Nella foto grande, Vyacheslav Fetisov consegna il trofeo dell’Ice Hockey Federation World Championship ad Alexei Morozov. Qui sotto, e a sinistra, Fetisov in pista durante un match amichevole disputato in occasione dei suoi 50 anni, con indosso la divisa dell’ex Urss

Classe 1958, leggendario player dell’Armata Rossa, riscende sul campo ghiacciato non per una partitella tra coetanei veterani o di vecchie glorie, ma di campionato vero, per difendere i suoi colori contro la prima in classifica della regular season

trebbe tornare in campo già domani», ha concluso pensando di fare una battuta. «È quello che farò!», ha ribattuto Vyacheslav “Slava”Fetisov che subito dopo ha imboccato la porta degli spogliatoi per mettersi a disposizione di uno strafelice allenatore, e chi non vorrebbe in squadra uno Scirea o un Gentile messi insieme?

Così, dopo esser stato ministro dello Sport e poi presidente del Cska, passare al mero ruolo di giocatore della stessa società sportiva ai più potrebbe apparire una parabola discendente. Tutt’altro. Riproporsi a 51 anni, così come quest’anno aveva già fatto dopo una grave malattia Jonah Lomu, grande All Blacks neozelandese della palla ovale, schierandosi con una squadretta di seconda divisione francese per il gu-

sto e il piacere di dire «me voilà», mostra solo il lato vero dello sport: quello della passione. Chi ha avuto Fetisov in squadra ne ha colto questa dimensione sportiva tanto da volerne trovare quasi una possibile distillazione e una ricetta segreta modello coca-cola. Lapidarie a riguardo le parole di Dave Lewis, assistant coach dei Detroit Red Wings: «Slava è quel genere di persona di cui vorresti avere la formula, metterla in una bottiglia e farla bere ai giovani giocatori, perché non c’è nessuno come lui». Cosa in realtà si possa sentire una volta in campo dopo aver vinto tutto, perfino una sorta di grande slam hockeystico – e qui riporto pari pari da una rivista specializzata non osando avventurarmi in parafrasi: «a 43 anni, Fetisov coronò il proprio sogno potendo finalmente incidere il proprio nome sulla Stanley Cup, inoltre assieme al suo compagno di squadra Igor Larionov, realizzò un poker di vittorie assolutamente strepitoso: titolo mondiale, medaglia d’oro ai Giochi olimpici, Canada Cup e Stanley Cup» – e dopo aver avuto l’onore di vedere il proprio nome trattato alla stregua di Shakespeare o Dante Alighieri avendo posto nell’Enciclopedia Britannica, credo sia impossibile da riferire. Ma buon per “Slava” ad essere innanzitutto praticante uno sport come l’hockey e poi ad essere presidente di se stesso e non essere, vista l’anagrafe, un calciopedatore impiegato in Italia.

Poteva toccargli, nell’età critica di chi vuole trovare un lavoro nuovo o perché non gli piace quello che fa o, e i casi sono in aumento, perché l’ha perso, per la prestazione occasionale in campo o un minimo riconoscimento sindacale in termini di retribuzione, un gettone partita punto e basta, o, qualora avesse preso gusto al rientro e aveva intenzione di continuare, poteva toccargli, stando alla proposta del presidente della Reggina Calcio Lillo Foti, un contratto a tempo parziale, diventando così anche lui un co.co.pro, formula annuale che il vulcanico Foti vorrebbe applicare nel pianeta-calcio ai giocatori con oltre 30 anni. Occhio: il precariato potrebbe avanzare a grandi passi anche nel dorato mondo del pallone.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

da ”The Guardian” del 18/12/09

Cyber war iraniana di Bobbie Johnson witter il popolare social network ha avuto dei problemi la notte scorsa. Degli hacker iraniani sono riusciti a penetrare il server, superando le difese del firewall del sito. L’incursione ha reso Twitter totalmente inservibile per molte ore all’alba di venerdì.

T

I gestori hanno stimato in circa 30 milioni gli utilizzatori cui è stato impedito l’accesso a questo luogo di aggregazione virtuale. Niente messaggi on line,niente news, niente link, oscuramento totale. Erano circa le sei del mattino in Gran Bretagna, quando è cominciato l’attacco informatico. La home page di Twitter è scomparsa, sostituita da un fondo rossonero con l’immagine di una bandiera verde. Sulla pagina si potevano leggere degli slogan in inglese e in lingua farsi (l’idioma iraniano, ndr) e il nome del gruppo di pirati del web che aveva organizzato l’incursione. Il messaggio era una chiamata alle armi. «Questo sito è stato manomesso dall’Iranian cyber army» diceva il testo dell’introduzione. «Gli Stati Uniti pensano di poter controllare l’accesso ad internet, ma non è così. Noi possiamo controllare e gestire le connessioni alla rete, per cui smettetela di incitare il popolo iraniano». Il sito web è stato ripristinato al suo normale funzionamento solo due ore più tardi. Il messaggio del gestore agli utenti è stato ememsso mezz’ora dopo. Si scusavano per aver subito un «blocco non programmato». Dopo delle prime analisi sull’attacco si è capito che il metodo usato dagli hacker era meno sofisticato di quanto sembrasse in un primo momento. Hanno utilizzato una tecnica piuttosto «rudimentale» prendendo temporaneo possesso del Dsn o Domain

name system, che è come un elenco telefonico che aggancia il nome del sito al suo indirizzo di rete. In questo modo i pirati informatici hanno adottato un sistema di reindirizzamento degli utenti che si volevano collegare a un determinato dominio di internet, in questo caso quello di Twitter. Dirottandoli tutti sul loro sito farneticante (c’è da sottolineare quanto sia comunque importante mantenere il controllo di questo elenco dei dominii per la sicurezza di tutta le rete,e che per quanto possa essere stato rozzo l’attacco, ha comunque reso inutilizzabile un servizio utilizzato da milioni di persone in tutto il mondo, ndr).

Circa due ore e mezza dopo l’attacco, i gestori del social network hanno rilasciato una breve dichiarazione, pubblicata sul blog della società, in cui spiegavano il tipo di inconveniente subito e come gli hacker fossero riusciti a oscurare le pagine dell’aggregatore. «I dati di Twitter sulla Dns sono stati temporaneamente compromessi, ma ora li abbiamo ripristinati» hanno scritto, promettendo aggiornamenti sui risultati dell’inchiesta tecnica in atto. Non è la prima volta che Twitter si trova coinvolta in situazione del genere a causa dei suoi rapporti con gli attivisti dell’opposizione iraniana. È successo durante la rivolta che è seguita alle elezioni presidenziali di giugno di quest’anno. Una tornata

elettorale caratterizzata dalla vittoria contestata del presidente Mahmoud Ahmadinejad, tanto che si era parlato apertamente di brogli. Il dipartimento di Stato americano aveva esortato i gestori del sito a mantenerlo attivo per permettere la diffusione on line di informazioni provenienti dall’Iran. Visto che la censura sul web e sugli altri mezzi di comunicazione del regime sciita non permetteva ai manifestanti di comunicare fra loro e all’esterno. Un servizio che il regime iraniano potrebbe non aver gradito, visto anche le recenti decisioni di stringere il cerchio sull’opposizione interna.

Poco si sa circa il gruppo che ha rivendicato l’azione. L’analisi della natura dei messaggi fa pensare ad un’impostazione un po’ confusa. Se il testo appare come un editto antiamericano, hanno però scelto il colore verde per la bandiera, un chiaro riferimento all’onda verde e al capo dell’opposizione Mir-Hossein Mousavi. Il principale sfidante di Ahmadinejad.

L’IMMAGINE

Approviamo la scelta di Ferruccio Fazio alla guida del nuovo ministero della Salute Ribadiamo la nostra approvazione per il ripristino del ministero della Salute, e esprimiamo soddisfazione per la nomina di Ferruccio Fazio alla guida del dicastero. Abbiamo avuto modo di apprezzare la sensibilità di Fazio nei confronti dei problemi della categoria e ci auguriamo di poter contare sulla collaborazione e sul confronto reciproco. Queste qualità saranno indispensabili per affrontare i numerosi mali che affliggono il sistema sanità del nostro Paese e per risolvere i problemi che derivano dalle pessime condizioni di lavoro dei professionisti che in essa operano. Il primo banco di prova sarà, per il nuovo ministro, la vertenza salute, che nasce con lo scopo di porre all’attenzione dell’intero governo i molti problemi, ma anche le possibili soluzioni. Ci auguriamo che il nuovo ministero, forte della sua autonomia, possa essere un interlocutore privilegiato attraverso il quale raggiungere quegli obiettivi indispensabili per il servizio sanitario

Carlo Lusenti segretario nazionale Anaao Assomed

Il provvedimento sul processo breve arriverà in aula solo alla ripresa dei lavori dopo le vacanze di Natale e confidiamo che si sia avuto il tempo per riflettere che se c’è un provvedimento preliminare di cui necessita il Paese, prima di intraprendere organiche riforme in materia di giustizia, l’amnistia. Contro l’amnistia strisciante e di classe che ogni anno cancella duecentomila procedimenti penali, la soluzione è un’amnistia legale e condizionata che preveda anche il risarcimento alla vittima, nonché riforme urgenti che includano l’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, la separazione delle carriere dei magistrati, la riforma del Consiglio superiore della magistratu-

ra, la responsabilità civile dei magistrati e la depenalizzazione dei reati minori.Tutto ciò non può essere fatto senza prima sgomberare dai tavoli dei magistrati i provvedimenti pendenti che comunque non riuscirebbero a vedere la conclusione, e destinando una attenzione alla drammatica situazione delle nostre carceri.

Che cos’è questo? Che cosa vi sembra? Ecco qualche dritta: anche questa come altre invenzioni, fu creata quasi per caso; un designer giapponese ne ha ideato un modello a forma di petalo di fiore; tra la fine dell’800 e l’inizio del 900 ne fu vietata la fabbricazione in molti Paesi europei; un artista statunitense se ne serve per costruire sculture a tema cinematografico

(risposta: un cerino)

PROCESSO BREVE E AMNISTIA

Donatella Poretti

NATALE 2009: COSA C’È SOTTO L’ALBERO DEGLI ITALIANI? Mancano pochi giorni al Natale e nonostante per molti non è ancora tempo della famigerata tredicesima, si va alla disperata ricerca di regali per parenti e amici. L’osservatorio Codici ha eseguito un’indagine a livello nazionale sui regali più diffusi che gli italia-

ni si scambieranno. Ecco la classifica: 1) in pole position il 25 % del campione intervistato per quest’anno ha scelto come dono ancora videogiochi, cellulari, notebook, palmari, consolle Psp, Wii, X Box; Plasma Full Hd; 2) il 20% acquisterà libri, cd e vinili tornati in auge da quest’anno; 3) il 17% si dedicherà ai cestini di prodotti eno-gastronomici; 4) il

16% ha scelto sia per uomini che donne degli accessori quali borsellini, portafogli e portachiavi; 5) il 13% degli italiani regaleranno prodotti per il corpo, quali lozioni e bagnoschiuma. Fanalino di coda, all’ultimo posto della nostra classifica, l’abbigliamento, solo il 9% degli italiani acquisterà scarpe e vestiti, in considerazione dell’arrivo dei saldi il 2 gennaio.

In media i nostri intervistati hanno dichiarato che spenderanno per i regali dai 50 ai 250 euro e che metteranno la tredicesima da parte per acquistare capi d’abbigliamento più costosi durante i saldi. Molti hanno ammesso che la tredicesima servirà a pagare qualche debituccio accumulatosi nel corso dell’anno.

Valentina Napoletano


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

È necessario che noi due ci ritroviamo insieme Mio carissimo Helmi, ti annunzio una grande gioia, grande gioia per me e, lo so, anche per te: il signor direttore ha permesso che in maggio tu mi faccia una visita straordinaria e che noi possiamo discorrere da soli. Io ho chiesto questo permesso, perché è assolutamente necessario che noi due ci ritroviamo insieme, che la mutua confidenza venga rassicurata, la quale è di una necessità vitale nella nostra odierna condizione e nel presente periodo solstiziale della tua esistenza. Sicuro, tu, il mio primogenito, sul quale io e molti altri riponiamo grandi speranze, non puoi diventare straniero a me, neppura in una sola fibra. E tu non devi smarrirti nella foresta quando si affacciano a te ora bruscamente, e quasi immediatamente, il mondo e la vita, l’esterno e l’interno, il mondo di dentro e quello di fuori. Tu ti darai tutto a me, quale sei, con tutti i tuoi pensieri e sentimenti - a me, a tuo padre, che comprende tutto, tutto, anche le cose che sembrassero disordinate, stupide, cattive, e che so altro - e ti ama così, come soltanto un padre può amare un figlio. Tu puoi scegliere il giorno della visita: forse verso la metà di maggio; allora potrai portarmi con te nuove provviste, magari trovare anche qualcosa di superfluo. Karl Liebknecht a Helmi

APPROVATO IL CODICE DEONTOLOGICO DEI COLLABORATORI PARLAMENTARI Ancoparl, l’associazione dei professionisti non iscritti agli ordini, è nata dalla volontà del Cna e di Assoprofessioni, che è l’unica centrale italiana delle professioni non regolamentate ammessa nel Consiglio europeo delle professioni liberali. Uniprof conta già oltre 40.000 associati. L’assemblea di Ancoparl ha approvato quindi il codice deontologico del collaboratore parlamentare ed eletto un nuovo membro del consiglio direttivo e un membro del comitato etico. Nelle premesse del codice deontologico si legge «Il collaboratore parlamentare e i collaboratori dei membri delle assemblee elettive previste dalla Costituzione, sono professionisti qualificati e la loro attività professionale è nell’esclusivo interesse del Paese e delle istituzioni. La professione di collaboratore parlamentare o di collaboratore dei membri delle assemblee elettive previste dalla Costituzione della Repubblica italiana e dall’Unione europea, si fonda sul valore, sulla dignità e sulla unicità di tutte le persone, sul rispetto dei loro diritti universalmente riconosciuti e delle loro qualità originarie, quali libertà, uguaglianza, socialità, solidarietà, partecipazione, nonché sull’affermazione dei principi di giustizia ed equità sociali». Infatti il codice, che consta di 22 articoli, prevede una serie di norme che regolano, oltre all’esercizio della professione, anche il conflitto di interessi, i rapporti tra collaboratore e parlamentare, con i terzi e tra colleghi, oltre alle san-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

19 dicembre 1793 - A Tolone, Napoleone Bonaparte sconfigge gli inglesi e diventa generale 1842 Gli Stati Uniti riconoscono l’indipendenza delle Hawaii 1878 Inizia il terzo governo Depretis 1920 Costantino I di Grecia ritorna sul trono dopo la morte del precedente sovrano 1928 Primo volo di un autogiro negli Stati Uniti 1945 L’Austria diventa una repubblica per la seconda volta 1946 Ho Chi Minh attacca i francesi ad Hanoi 1962 Il Nyasaland secede dalla Rhodesia e Nyasaland 1963 Zanzibar ottiene l’indipendenza dal Regno Unito e diventa una monarchia costituzionale guidata da un sultano 1972 L’Apollo 17, ultima missione dell’uomo sulla Luna, rientra sulla Terra 1974 L’Altair 8800, il primo personal computer, viene messo in vendita 1978 John Wayne Gacy viene arrestato per l’uccisione di 33 giovani e ragazzi

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

zioni disciplinari e prevede che si compia una sua revisione, anche con cadenza annuale, che dovrà essere approvata dall’assemblea. Tale meccanismo di revisione permetterà al codice di conformarsi alle nuove esigenze sorte dall’esercizio della professione o che dovessero emergere nel corso della sua attuazione o dal processo di riconoscimento della professione avviato da Ancoparl. L’approvazione del codice è un primo passo concreto che abbiamo voluto compiere verso il pieno riconoscimento dei collaboratori parlamentari e dunque per il riconoscimento di un loro preciso status giuridico sull’esempio di quanto già avviene in altri Parlamenti europei e per la massima trasparenza dei rapporti tra eletto e il proprio collaboratore.

Associazione Nazionale Collaboratori Parlamentari

IL CLIMA SI STA FACENDO PESANTE Clima pesante, l’aria che si respira nel Paese in relazione all’atto di violenza sferrato contro il premier. Si tratta di gesti che in ogni caso destano preoccupazione e allarme, dal momento che vengono compiuti contro i rappresentanti delle istituzioni. Anche se l’azione - che condanno pesantemente - resta ristretta, sembra, a un soggetto con problematiche, è necessario che si ripristini il senso di rispetto e lealtà verso le istituzioni e i loro rappresentanti. Un conto è il dissenso, un altro è sentire convalidare, giustificandolo, da parte di alcune aree politiche l’atto di violenza.

Saro

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

DISCIPLINA DELLE UNIVERSITÀ POPOLARI La proposta di legge “Disciplina delle università popolari e della terza età” persegue il fine di migliorare e completare la L.R. n. 26 vigente, approvata dalla Regione Basilicata per promuovere e sostenere le università della terza età. Obiettivo della nostra proposta è quello di garantire il riconoscimento giuridico ed economico alle università popolari che operano, da anni, con diligenza nella nostra regione. La Regione riconosce pienamente il valore storico, pedagogico, formativo e sociale delle università popolari e ritiene che esse costituiscano un patrimonio associativo del proprio territorio che va adeguatamente finanziato, sostenuto, promosso ed incrementato. Le università popolari sono libere associazioni o enti che non perseguono scopi di lucro, aventi finalità culturali, sociali e formative; con un ordinamento autonomo, un proprio statuto, propri regolamenti e dotate di autonomia gestionale, organizzativa, finanziaria e contabile. Le università popolari si rapportano alle esperienze europee di lifelong learning e rappresentano un centro di apprendimento perrnanente, aperto a tutti senza esclusioni di sorta, ponendosi come obiettivi la più ampia diffusione della cultura per il pieno sviluppo della personalità dei cittadini, l’acquisizione di saperi e la valorizzazione dei percorsi di formazione individuale, l’esercizio dei propri diritti di cittadinanza e di sviluppo professionale, l’inserimento e la partecipazione attiva dei cittadini nella vita socio-culturale delle comunità in cui risiedono. Tali università favoriscono il pieno sviluppo della personalità dei cittadini per il loro inserimento nella vita socio-culturale, agevolandone l’integrazione intergenerazionale, favorendo la società multiculturale e ogni forma di espressione e socializzazione, con particolare riferimento alle fasce pia deboli della popolazione. La regione istituisce l’albo delle università popolari in possesso dei requisiti. Per il raggiungimento delle finalità, la regione concede, a titolo di concorso alle spese, contributi alle università popolari secondo le disponibilità previste dalla legge di bilancio. La Regione concede altresì in comodato gratuito sedi ed attrezzature proprie. Per accedere ai contributi, i soggetti interessati devono: a) avere la sede associativa nel territorio regionale; b) svolgere da almeno due anni una regolare attività costituita da cicli di lezioni e/o seminari e/o laboratori e/o corsi e/o attività parallele; c) disporre di strutture idonee allo svolgimento delle attività; d) essere associati ad una federazione nazionale di apprendimento permanente operante e riconosciuta; e) riservare parte dell’attività allo studio delle realtà culturali, socio-economiche e artistiche del territorio di appartenenza. L’iscrizione è libera, in conformità ai relativi statuti. Il versamento della quota associativa può essere oggetto di esenzione nei casi di indigenza da parte dei fruitori, in conformità agli statuti ed ai regolamenti associativi. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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