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Un pessimista vede la difficoltà
di e h c a n cro
in ogni opportunità; un ottimista vede l’opportunità in ogni difficoltà
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Winston Churchill di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 22 DICEMBRE 2009
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Alla cerimonia per gli auguri ai politici, il presidente difende il Parlamento: «Nessun complotto contro il governo»
Fuoco contro i riformatori Ma Napolitano insiste: «Bisogna creare un clima costituente» Di Pietro e mezzo Pd insultano D’Alema per il suo sì al dialogo.Feltri spara a zero su Casini,Fini e tutti i fautori di un nuovo patto sulle regole.Ora si vedrà se Berlusconi sceglie la pace o la guerra di Riccardo Paradisi
ROMA. Nel giorno dell’at-
di Giancristiano Desiderio
di Marco Respinti
erlusconi e D’Alema vogliono le riforme. Fini e Casini anche. Di Pietro e il Giornale di Feltri assolutamente no. Ecco spiegato perché il quotidiano di casa Berlusconi (Paolo) divide la politica in grati e ingrati e annovera nella categoria degli ingrati Gianfranco Fini, che pure ha versato il 30 per cento del “capitale” per far nascere il Pdl, e Pier Ferdinando Casini (e con lui tutta l’Udc) che addirittura, con il berlusconismo, ha rotto due anni fa con una decisione che di tutto si può accusare salvo che opportunismo, visto che Pdl voleva dire poltrone. Dividere il mondo in grati e ingrati è pericoloso: per fare un esempio non politico, pensate al rapporto fra Berlusconi e Mike Bongiorno...
remettiamolo subito. Siamo così scoperti che non ve ne sarebbe bisogno, ma viviamo nel Paese delle malelingue, dei processi alle intenzioni e dei roghi virtuali, e quindi alle nostre latitudini di prudenza non si eccede mai. Premettiamo cioè subito che dalemiani non lo siamo, né lo siamo mai stati. Ciò detto, poniamo semplicemente una domanda: è possibile parlare bene, una volta tanto, di Massimo D’Alema? Può essere, cioè, che in questo Paese si possa dire tutto e il contrario di tutto, sparlare, calunniare, irridere un giorno sì e l’altro pure, ma di fronte a ragionamenti seri si debba invocare la censura preventiva? I ragionamenti di D’Alema, infatti, seri lo sono eccome.
tacco concentrico di Di Pietro e Vittorio Feltri ai fautori del dialogo, arriva l’allarme di Napolitano. È vero che arriva Natale, ma non siamo mica poi così buoni, ha detto in sostanza il presidente ai parlamentari ai quali rivolgeva gli auguri: «Le riforme sono irrinunciabili, ma serve un vero clima costituente». E ancora non ci sono segni evidenti di questo clima, secondo il Quirinale. Difficile dargli torto: se da un lato Di Pietro e mezzo Pd sono insorti contro Massimo D’Alema che aveva aperto al dialogo («Facciamolo - ha aggiunto Bersani ma solo in Parlamento e senza leggi ad personam»), dall’altro Vittorio Feltri, dalle colonne del Giornale di casa Berlusconi continua la sua campagna contro Casini, Fini e tutti i sostenitori di un nuovo patto per le riforme. Insomma: per il premier è arrivato il momento di scegliere.
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LA DESTRA ECCITATA
LA SINISTRA AGITATA
All’armi siam feltristi, terror dei riformisti
Si può parlar bene di Massimo D’Alema?
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Scontri in Iran ai funerali di Montazeri
Il bene e il male in piazza a Teheran
La guida spirituale dell’Onda diventa immediatamente un martire da agitare contro il governo di Ahmadinejad di Antonio Picasso
l Qaeda nel Maghreb islamico. È questo lo spettro che incombe sul rapimento della coppia italiana in Mauritania. Fonti d’intelligence africana fanno trapelare che responsabili del sequestro possano essere i terroristi fedeli a bin Laden, e le modalità del rapimento sono state giudicate compatibili con tale ricostruzione. Poi però altre voci hanno iniziato a mettere in dubbio questa ipotesi e sono più propense ad attribuire l’azione a predoni del deserto, pur senza escludere il rischio di possibili successivi passaggi di mano. Ciò che è certo è che l’area del Sahara meridionale è diventata molto pericolosa anche se è trascurata dai media occidentali.
a morte del Grande Ayatollah Hossein Alì Montazeri ha riportato l’Iran in piazza. Da una parte, in contemporanea con i suoi funerali, si presenta nuovamente uno scenario di alta tensione fra gli oppositori, che vedevano nell’alto prelato defunto un faro ideologico e un esempio politico da seguire, e le autorità governative che sono tornate a reprimere l’Onda Verde, il fronte riformista appunto. D’altra parte le immagini che giungono da Teheran sono quelle di un funerale seguito da milioni di persone. Immagini che evocano quelle delle esequie di Khomeini, scomparso nel 1989. Già allora la guardia Nazionale iraniana non riuscì a contenere il pathos collettivo di 11 milioni di persone che parteciparono alle celebrazioni funebri. Oggi, come esattamente vent’anni fa, la popolazione iraniana si stringe intorno al feretro di una delle figure più rappresentative del Paese, sia in termini politici sia religiosi e culturali. L’omaggio corale a Montazeri ha più significati. È l’espressione di un popolo desideroso di riforme. Al tempo stesso, ricordando il fatto che anch’egli era un Grande Ayatollah, appare evidente come la forza della rivoluzione, condotta appunto dal clero nel 1979, sia ancora vitale nel Paese. Nonostante siano scomparsi tutti i grandi religiosi che accompagnarono Khomeini nel suo ritorno trionfale dopo la caduta dello Scià.
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Sarebbero stati portati in Mali i due italiani rapiti in Mauritania
Cosa vogliono gli Osama africani La nuova strategia e i ricatti di al Qaeda nel Maghreb di Osvaldo Baldacci
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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
I QUADERNI)
• ANNO XIV •
NUMERO
252 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Pacificazione. Il segretario del Pd denuncia il diffondersi di una nuova malattia politica nel centrosinistra: il «sospettismo»
Il lodo Napolitano
«Riforme irrinunciabili, ma serve un clima costituente»: appello del Quirinale Ma da sinistra e da destra continua il fuoco incrociato sui “dialoganti” di Riccardo Paradisi uando sente parlare di dialogo il segretario del Pd Pierluigi Bersani diffida. È una parola “malata” dice «e ancora meno mi piace l’inciucio. Noi vogliamo un confronto». Anche Maurizio Gasparri (capogruppo al Senato Pdl) fa professione di realismo: «Non vorrei che questa fosse una fase di dialogo prenatalizio e poi finisca a gennaio, quando torneranno i temi scottanti». E tra questi temi c’è per il Pdl, oltre alla giustizia anche l’elezione diretta quanto meno del presidente del Consiglio. Scetticismi comprensibili a lume di esperienza.
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La statistica del riformismo bipartisan presenta il disastroso bilancio di annunci senza esito. Un cimitero delle buone intenzioni, delle occasioni mancate. Il politologo Gianfranco Pasquino ha ricordato con liberal come in Italia è almeno dal 1983 che si tenta di imbastire un lavoro comune oltre gli schieramenti per rinnovare le istituzioni. Ventisei anni dentro cui si sono succedute tre diverse Commissioni parlamentari che hanno cercato di delineare una riforma dell’ordinamento costituzionale, senza conseguire nessun risultato. Dopo la prima Bicamerale (composta da venti deputati e da venti senatori) presieduta dal liberale Aldo Bozzi (198385) si è passati a una seconda Commissione (1992-93) presieduta prima dal presidente del Consiglio dei ministri Ciriaco De Mita e poi da Nilde Iotti, già componente dell’Assemblea costituente e presidente della Camera dei deputati. La terza Commissione bicamerale è stata infine istituita nel1997 e presieduta da Massimo D’Alema, allora segretario del Pds. Montagne che non hanno partorito nessuna riforma significativa. Perché stavolta dovrebbe essere diverso? Per l’aggressione subita da Berlusconi? Perché è Natale come dice Gasparri? «Purtroppo, ancora non si vede un clima propizio nella nostra vita pubblica, una con-
sapevolezza comune a maggioranza e opposizione in Parlamento – dice il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo discorso alle alte cariche. «Non è un aspetto secondario né è separabile dal confronto sui contenuti delle politiche pubbliche da portare avanti. Ora, possiamo considerare soddisfacente sotto questo profilo la situazione? Nessuno, credo, per quanto tenda a giudizi benigni, può rispondere affermativamente». Napolitano batte anche sulla riduzione del Parlamento a ruolo notarile: «È un fatto innegabile che nel 2008-2009 il governo ha esercitato intensamente i suoi poteri, non ha trovato alcun impedimento, a nessun livello, a decidere e attuare tutti i provvedimenti cha ha giudicato opportuni per reagire alla crisi finanziaria e economica. È stato invece compresso, per le modalità adottate nel corso del tempo da governi rappresentativi di diversi e opposti schieramenti, l’esercizio del ruolo del Parlamento». La ragione come sempre inclina al pessimismo. Anche se stavolta l’ottimismo della volontà potrebbe avere una chance. Stavolta infatti siamo al limite di resistenza della corda come dice il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa «Non capire i rischi che sta correndo l’Italia dal punto di vista economico e sociale è da irrespon-
La sinistra attacca sempre chi favorisce il confronto
Si può parlare bene di Massimo D’Alema? di Marco Respinti remettiamolo subito. Siamo così scoperti che non ve ne sarebbe bisogno, ma viviamo nel Paese delle malelingue, dei processi alle intenzioni e dei roghi virtuali, e quindi alle nostre latitudini di prudenza non si eccede mai. Premettiamo cioè subito che dalemiani non lo siamo, né lo siamo mai stati. Ciò detto, poniamo semplicemente una domanda: è possibile parlare bene, una volta tanto, di Massimo D’Alema? Può essere, cioè, che in questo Paese si possa dire tutto e il contrario di tutto, sparlare, calunniare, irridere un giorno sì e l’altro pure, ma di fronte a ragionamenti seri si debba invocare la censura preventiva? I ragionamenti di D’Alema, infatti, seri lo sono eccome, e per una ragione precisissima: sono ragionamenti sui fatti e sul possibile. In breve, sono ragionamenti autenticamente politici.
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Dice D’Alema che sulle riforme fondamentali di cui l’Italia abbisogna come dell’aria per respirare è possibile trovare un accordo fra maggioranza e opposizione, insomma che si può provare a dialogare senza secondi scopi, senza doppi fini, senza riserve mentali e senza partire sempre sbattendo a priori sul tavolo, come il chip al poker, un paio di manette. Dice D’Alema che è giunto il tempo per l’Italia di una vera fase costituente e che l’unico modo per farlo davvero è quello di trovare punti concreti di convergenza fra chi governa e chi il governo lo critica, momenti di confronto leale e strumenti precisi per fuoriuscire dalla paralisi in cui la politica talebana costringe l’Italia. Perché esattamente di politica talebana, condotta settariamente e a fronte bassa, si tratta ogni qualvolta prende la parola, Sinistra neocomunista e capi-popolo politico-televisivi a parte, una fetta cospicua del Partito Democratico e certi suoi alleati. Dario Franceschini, per intenderci, al cui fianco sta tornando pure l’ineffabile Walter Veltroni, e Antonio Di Pietro. A personaggi così, infatti, il richiamo realista e autenticamente politico rivolto da D’Alema di fatto al Paese intero proprio non va giù. A personaggi così interessa più mantenere il Paese nel caos delle risse che trovare soluzioni vere, perché altrimenti a venire immediatamente meno sarebbe proprio la loro ragion d’essere elettorale.
Franceschini (questa volta anche con l’appoggio di Veltroni) ha deciso di inseguire la strategia dipietrista
A personaggi così, insomma, la politica come arte del possibile, fatta di marce diverse, di domande concrete e di risposte chiare non piace. Ecco perché è il fronte della politica trasognata e trasecolante come opposto a quello del ritorno (forse) della politica delle cose reali che si sta scagliando ora contro D’Alema. Ecco perché è certa Sinistra, peraltro politicamente perdente proprio dentro i ranghi stessi della Sinistra, che si sta stracciando le vesti per zittire D’Alema, anzi per togliergli persino il diritto a proporre un ragionamento che abbia una parvenza di politicità. Ecco, Franceschini e Di Pietro riescono persino a farci simpatizzare con i ragionamenti di un ex comunista doc. Perché, da non dalemiani che siamo lo diciamo forte e chiaro: quando tacciono impostazioni come quelle di D’Alema, tace la politica. Ma è male. Sappiamo infatti sin troppo bene cosa succede nel mondo quando la politica tace.
sabili. O si apre davvero la stagione delle riforme condivise o il nostro Paese resterà fuori dal giro dei grandi». Se non altro dunque l’istinto di sopravvivenza dovrebbe indurre gli attori in gioco a sospendere il gioco al massacro, alla reciproca delegittimazione che la politica sta conducendo sulla pelle del Paese, declinando il bipolarismo in scontro frontale. Uno schema sostenuto da chi a destra come a sinistra alimenta il fuoco della rissa continua. Dal Giornale di Vittorio Feltri all’ipotesi di tregua si risponde con un pesante martellamento d’artiglieria concentrato proprio sulle figure che possono oggi per il loro ruolo di mediazione favorire e garantire il dialogo: «Mentre da un parte Di Pietro attacca D’Alema, dall’altra il Giornale attacca Fini e Casini – dice Ferdinando Adornato – è il fuoco contro i riformatori che credono in un clima costituente. I due versanti dell’odio si scagliano contro chi vuole interrompere la guerra civile». Specularmente, Antonio Di Pietro, chiama alla mobilitazione il suo partito e l’area protestataria denunciando l’inciucio, l’atteggiamento piratesco del Pd, definendo dei Dracula gli esponenti del governo e della maggioranza. Ma non c’è solo Di Pietro a soffiare sul fuoco.
Anche la minoranza del Pd fornisce il suo contributo per minare i ponti del confronto civile: Ignazio Marino, esponente di minoranza del Pd interviene nel dibattito aperto dalle parole di D’Alema paventando che molti iscritti al Pd strapperanno le tessere.. Che tipo di reazioni scateni a sinistra ogni prova tecnica di dialogo lo rappresenta bene d’altra parte anche il caso esploso in seno a ”Liberta’ e Giustizia” l’associazione vicina a Carlo De Benedetti. In un articolo comparso sul sito della fondazione dal titolo ”Dialogare? Pensiamoci bene”, viene tracciata una serie di scenari sulle evoluzioni della politica italiana. Al centro dell’analisi c’è il tema delle riforme condivise, con un occhio particolare all’eventuale convenienza di un dialogo con la maggioranza. È bastato un passaggio nel quale è stata ipotizzata l’idea di ”una leggina che salvi Berlusconi dai processi”per scatenare una tempesta di reazioni. Per
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La campagna sull’ingratitudine lanciata dal «Giornale»
All’armi siam feltristi, terror dei riformisti di Giancristiano Desiderio erlusconi e D’Alema vogliono le riforme. Fini e Casini anche. Di Pietro no, assolutamente no, e così anche il Giornale di Feltri. Ecco spiegato perché il quotidiano di casa Berlusconi (Paolo) divide la politica in grati e ingrati e annovera nella categoria degli ingrati Gianfranco Fini, che pure ha versato il 30 per cento del “capitale” per far nascere il Pdl, e Pier Ferdinando Casini (e con lui tutta l’Unione di Centro) che addirittura, con il berlusconismo, ha rotto due anni fa con una decisione che di tutto si può accusare salvo che opportunismo, visto che Pdl voleva dire poltrone. A proposito di grati e ingrati, facciamo un esempio non politico: la sorte delle televisioni di Berlusconi molto probabilmente sarebbe stata diversa se Silvio non avesse incontrato quel genio televisivo di Mike Bongiorno. Eppure, a nessuno oggi verrebbe in mente di sostenere che Berlusconi nell’ultimo periodo della straordinaria carriera di Mike fu ingrato con lui. Per tanto tempo Maurizio Costanzo ha fatto la fortuna di Canale 5, ma oggi per continuare a lavorare collabora con la Rai. Eppure, a nessuno verrebbe in mente di dire che Berlusconi è un ingrato perché tutti sappiamo che le cose umane vanno così, a volte bene a volte meno bene, a volte si prende e a volte si dà.
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l’autore dell’articolo una legge del genere sarebbe «un piccolo prezzo da pagare di fronte alla possibilità di costruire finalmente un’Italia civile, moderna, normale». Un’ipotesi, nulla di più. Ma apriti cielo: la reazione degli utenti del forum è a valanga. La definizione più gentile è che la posizione di Libertà e Giustizia è suicida. La redazione prende anche atto che «si delinea negli interventi una lettura dei fatti praticamente univoca, che forse farà fare marcia indietro a chi aveva ventilato certe aperture». Il riferimento è evidentemente a Massimo D’Alema di nuovo
Qui sopra, Fini e Casini, protagonisti con D’Alema, della possibile ripresa di un dialogo tra le forze politiche alla ricerca di possibili riforme condivise, come può volte richiesto dal presidente Napolitano. A ”sparare” contro, al solito, ci sono Di Pietro e Feltri
personam. La seconda: non ci dovranno essere incontri o inciuci separati, ma la discussione dovrà avvenire in Parlamento. A bocciare l’ipotesi di una costituente è Luciano Violante la cui bozza viene definita una delle possibili basi su cui cominciare a discutere: «L’assemblea costituente si fa quando crolla un regime. Altrimenti le riforme si fanno per via ordinaria. Il punto è che il processo riformatore deve essere separato dall’ordinaria quotidianità, perché altrimenti ci mettiamo nelle mani della prima dichiarazione avventata». I
Stavolta siamo al limite di resistenza del Paese: «O si apre la stagione delle riforme condivise – dice il segretario Udc Lorenzo Cesa – o restiamo fuori dal giro dei grandi. Non capirlo è da irresponsabili» sotto accusa di inciucismo da parte della sinistra che di dialogare con Berlusconi, con Videla o Dracula, direbbe Di Pietro, non ci pensa proprio. Con buona pace per lo sviluppo, la ricerca, le riforme economiche e istituzionali, per un rinnovamento della burocrazia del Paese. Però ciò che è evidente al buon senso è che un ”disarmo bilaterale”, come lo chiama il dalemiano La Torre è nell’interesse del Paese. Disarmo che avverrebbe, avverte il Pd, solo se si rispetteranno delle condizioni. La prima: il Parlamento non dovrà essere invaso da leggi ad
punti che dovrebbero interessare le riforme sono noti: fine del bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei parlamentari, maggiori poteri al premier e anche un intervento per un assetto costituzionale della Magistratura più coerente con il ruolo centrale che oggi ha nel sistema politico». Per separare il processo riformatore dall’ordinaria quotidianità basterebbe una commissione parlamentare per le riforme. Dipende da che parte oscilleremo: se verso il pessimismo della ragione o verso l’ottimismo della volontà.
cosa si spara sui pontieri e, in particolare, su Fini e Casini.
I titoloni di via Negri, che pure interpretano al meglio le battaglie politiche del capo del governo - diciamo dal caso Boffo in poi - non sembrano parole del «dolce stil novo». L’amore di Berlusconi per l’Italia e per «il suo bene» cioè il nostro - vorrebbe una diversa «corrispondenza d’amorosi sensi» e un «cor gentile che ratto s’apprende», mentre Feltri pare sbattersene d’ogni stilnovismo e come Cecco Angiolieri «se fosse foco arderei lo munno» - eccetto il suo guardaroba - perciò ci dobbiamo quasi rallegrare perché in fondo “foco” non è, ma è solo direttore di un quotidiano e a volte è, come il miglior Renzo Montagnani, «un po’ fumino». Ma a furia di essere fumino e di appiccare il fuoco non solo nell’altrui, ma anche nella propria casa, non manderà a carte quarantotto anche questo esile tentativo di riforma bicamerale senza Bicamerale? È un problema che lo stesso presidente del Consiglio si dovrebbe porre: va bene criticare e colpire e cercare di affondare Antonio Di Pietro - a proposito, ma Feltri non sarà un po’ troppo ingrato nei confronti di Di Pietro che, ai tempi del Cinghialone Craxi, pur fece la sua fortuna giornalistica - ma colpire e cercare di affondare chi vuole le tue stesse riforme non sarà una cavolata?
Il primo “irriconoscente” è proprio il giornalista che deve a Di Pietro la sua fama ai tempi di «cinghialone Craxi»
Lo stesso Berlusconi, conoscendo forze e debolezze umane, non sosterrebbe mai di aver fatto tutto sempre e soltanto grazie a se stesso e di non dover essere grato a nessuno. Una cosa del genere la sostengono, a quanto pare, solo i fedelissimi e feltrissimi de il Giornale usi a vedere in Silvio la luce che illumina la tenebre. Ma a furia di essere più realisti del re si diventa inopportuni per troppo opportunismo. Ma forse la verità è più semplice: alle riforme Feltri non ci vuole proprio arrivare perché cesserebbe quel clima di guerra civile sul quale lui con il suo Giornale lucra ideologicamente e commercialmente. Allora meglio che tutto vada presto in malora e per dare una mano alla
C’è, allora, un’altra cosa che va rimarcata. In fondo, il presidente della Camera - grazie a Berlusconi, si capisce - e l’ex presidente della Camera - sempre grazie a Berlusconi, si capisce - hanno dimostrato da tempo - Casini molto prima di Fini - di non volere un centrodestra guidato culturalmente e politicamente dalla Lega. Ecco, in fondo al Giornale delle riforme - che sono la cosa più importante per l’Italia di oggi - non frega un buttero. Ostacolano i riformisti per evitare che possa un giorno emergere un centrodestra che non sia a immagine e somiglianza del vero partito unico: Lega e Forza Italia. All’armi, siam feltristi.
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politica
Sfide. Dopo la «concessione» di Veneto e Piemonte al Carroccio, scoppia un nuovo caso nel Popolo della libertà
Il flop degli Azzurri
I candidati governatori della maggioranza alle prossime Regionali sono in prevalenza leghisti o ex-An: che fine ha fatto Forza Italia? di Errico Novi
ROMA. Comincia a diventare un giallo. Se si votasse domani e i candidati del Pdl fossero quelli finora indicati, non ci sarebbe nemmeno una bandierina azzurra da piantare. Dove per azzurra s’intende la provenienza forzista dei potenziali governatori. A meno di non voler attribuire alla struttura berlusconiana strettamente intesa figure tradizionalmente autonome come Roberto Formigoni e Sandro Biasotti. Considerati a sé stanti i casi del presidente lombardo (espressione soprattutto di quella particolarissima rete costituita da Cl) e dell’ex presidente ligure (eletto nel 2000 come indipendente del Polo), Denis Verdini e Sandro Bondi non possono dire di aver piazzato propri uomini nella griglia di partenza per le Regionali. Eppure sono stati loro a condurre l’ultima fase delle trattative, suggellata con l’ufficio di presidenza riunito giovedì scorso (il primo senza Silvio Berlusconi). È stato proprio il ministro della Cultura a definire i nomi da designare subito, in una telefonata con il premier (quel giorno ancora ricoverato al San Raffaele) che ha preceduto il vertice con La Russa e gli altri dirigenti del Pdl. Alla fine sono state messe al sicuro, oltre a Formigoni e Biasotti, le caselle leghiste del Veneto (ancora sospesa tra Luca Zaia, Federico Bricolo e Flavio Tosi) e del Piemonte (dove invece Roberto Cota non ha rivali) e i due nomi in quota An, Renata Polverini nel Lazio e Giuseppe Scopelliti in Calabria. Non si può dire dunque che il presidente del Consiglio abbia avuto un ruolo marginale nella scelta, prevalsa fino a questo momento, di non premiare la compo-
Il presidente della Camera in Sicilia all’inaugurazione di un impianto fotovoltaico
Ma Fini insiste: «Attenti alla contiguità fra mafia e politica» di Marco Palombi
ROMA. «Ma chi me l’ha fatto fare?». Questa frase Salvatore Moncada, imprenditore di Agrigento che lavora con le energie rinnovabili, la pronunciò cinque anni fa, sedendosi a tavola per cenare con la famiglia mentre la scorta presidiava il cancello di casa sua. Il figlio la prese male: «Mi sarei vergognato di te, se non li avessi denunciati». «Da quel momento non ho avuto mai più dubbi», concluse lui. Si parla di pizzo ovviamente. Il primo “emissario” l’aveva agganciato in Sardegna nel 1996, quando Moncada portava avanti la ditta di costruzioni di famiglia. Lo denunciò. Poi successe ancora a Catania e a Gela. Ancora denunce. Partirono gli attentati ai cantieri. Niente. Oggi che il suo è il quarto gruppo italiano del settore non gli capita più: la mafia sa che non c’è verso. Per questo ieri Salvatore Moncada si è preso una doppia soddisfazione. Non solo ha inaugurato a Campofranco (Caltanissetta) la fabbrica di pannelli fotovoltaici più grande d’Italia – frutto di un accordo tra la sua Moncada Solar Equipment e il colosso californiano Applied Materials – una cosetta costata 90 milioni di euro con 130 addetti (più l’indotto) e un centro di ricerca interno, ma l’ha fatto alla presenza del Guardasigilli Angelino Alfano e, soprattutto, di Gianfranco Fini. «Un’impresa - ha detto il presidente della Camera - riesce a competere quando agisce in una società in cui la delinquenza non è nelle condizioni di determinarne le dinamiche. Ma ciò è compito della politica, che deve eliminare e impedire ogni ipotesi di contiguità e di vi-
cinanza con la criminalità organizzata». Non solo: «I cittadini devono aiutare la politica a migliorare – ha insistito Fini - Non votate mai chi chiede il voto in cambio di qualche cosa. Anche questo è un comportamento paramafioso». Con una criminalità così pervasiva serve «intrasigenza», ha concluso, il che vuol dire «non solo colpire i crimini e dare pene severe, ma bandire ogni ipotesi di contiguità, di collusione e di vicinanza» tra mafia e società.
Parole di miele per Moncada e non solo per lui. L’imprenditore agrigentino, infatti, è uno dei simboli della stagione anti-racket inaugurata dalla Confindustria isolana dal 2006, con l’arrivo al vertice di Ivanohe Lo Bello. Ed è qui che si torna al Fini «intransigente» di ieri mattina e di altre recenti occasioni: il capo degli industriali siculi, infatti, simpatizzante socialista in gioventù, lettore di Leopardi e Baudelaire all’ombra del biscottificio avìto, è stato a lungo vicino al più eterogeneo dei finiani, quel Fabio Granata che sull’intreccio tra mafia e politica ha speso le parole più dure e “imbarazzanti” dentro il Pdl. Le ultime uscite sul tema del presidente della Camera, insomma, sembrano avere più a che fare con la «normalità» rivendicata dagli imprenditori che con l’antimafia emergenziale che, a destra, s’incarnava nel mito di Paolo Borsellino (militante missino da giovane). Granata, peraltro, è nato a Caltanissetta, proprio la provincia in cui Salvatore Moncada ieri ha inaugurato la sua fabbrica high tech insieme a Fini. A Palermo, intanto, si consuma la crisi della giunta siciliana, che rischia di fagocitare pure il piano energetico regionale che - era il marzo scorso - Raffaele Lombardo sottopose nientemeno che a Jeremy Rifkin, ottenendone la benedizione: la Sicilia, disse il guru ambientalista, può essere «protagonista della terza rivoluzione industriale». Moncada ci crede e, politica permettendo, spera pure di guadagnarci qualcosa.
nente ex forzista. Tutt’altro. La cosa ovviamente non fa che accrescere il mistero. Basta verificare lo stato delle trattative nelle altre regioni, oltretutto, per trovare la conferma di una tendenza assolutamente sorprendente. Si può partire dalla Campania, dove l’implicita rinuncia di Nicola Cosentino ha aperto la strada a un nome della società civile. È proprio Berlusconi infatti a non voler investire su un esponente politico. Impazza così un toto-governatore assolutamente incontrollabile: si va dal presidente degli Industriali di Napoli Gianni Lettieri al preside della facoltà di Ingegneria Edoardo Cosenza, fino al nome particolarmente gettonato di Arcibaldo Miller, capo degli 007 di via Arenula. Il magistrato ha un vantaggio: vanta ottimi rapporti proprio con Cosentino, il quale ieri è tornato a insistere sull’importanza della «squadra», cioè sull’omogeneità tra il candidato e il gruppo dirigente locale del Pdl. Ma appunto, il massimo a cui il partito inteso come struttura sembra poter aspirare, nella regione di Bassolino, è un nome non proprio indigesto ma comunque estraneo alla politica. Non paiono destinate ad arrivare lontano ipotesi più “interne”, dal presidente della commissione Lavoro di Palazzo Madama Pasquale
«Il nostro proverbiale ventre molle partorisce solo estranei», sussurrano i forzisti. La spiegazione è semplice: manca la materia prima Giuliano (ex Forza Italia, casertano come Cosentino) al leader del Nuovo Psi Stefano Caldoro.
Nelle altre regioni ancora in bilico non s’intravedono prospettive granché diverse. Solo in Puglia si registra un rallentamento su un’altra candidatura extrapolitica, quella del magistrato anti-terrorismo Stefano Dambruoso: Raffaele Fitto ha infatti ricevuto un mandato dall’ufficio di presidenza per valutare anche ipotesi diverse. Il supplemento d’istruttoria punta ad arrivare a un accordo preliminare con l’Udc e il movimento di Adriana Poli Bortone Io Sud: «Sarebbe un errore se ci presentassimo agli elettori prima con il nome del candidato e poi con i programmi», ha spiegato ieri il ministro per gli Affari regionali. La ricerca
politica
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Il sottosegretario alla Difesa: «Normale dialettica tra alleati»
«Non è vero, la nostra bandiera è Formigoni» Crosetto, che ha “ceduto” la candidatura a Cota in Piemonte, avverte: «I prescelti devono unire» di Franco Insardà
ROMA. «Sarei proprio un ingenuo se non considerassi la situazione di Veneto e Piemonte». L’ordine di scuderia arrivato da Arcore è quello di ostentare unità. Ma Guido Crosetto, oggi sottosegretario alla Difesa ma nel recente passato luogotenente del Cavaliere in Piemonte, fa fatica a nascondere un pizzico di amarezza che si respira tra i fondatori dopo le candidature alle Regionli. E che ha visto uno di loro, Giancarlo Galan, dover cedere il passo. Veneto e Piemonte alla Lega, Lazio e Calabria a ex An, Campania e Puglia in bilico. E gli ex azzurri? Non sono d’accordo. Ritengo che Forza Italia sia assolutamente garantita. Non dimentichiamoci della Lombardia. Formigoni è un azzurro atipico, non certo della prima ora. Anche su questo dissento. Roberto non lo si può non considerare un azzurro. Tutto a posto? Sarei proprio un ingenuo se non considerassi la situazione di Veneto e Piemonte. Un problema non da poco. Sicuramente, ma la Lega non poteva certo chiedere la Campania o la Calabria. Fortuna che non ha insistito per la Lombardia. Come piemontese mi mette in difficoltà. È per questo che l’abbiamo chiamata in causa. Da piemontese avrei preferito la Lombardia alla Lega e il Piemonte e il Veneto a Forza Italia. Ma Formigoni... Che cosa? Sì, la candidatura di Formigoni ha chiuso tutti i giochi. Non doveva trasferirsi a Roma? Forse non c’erano incarichi di rilievo. Ma voi azzurri della prima ora, non vi sentite un po’ accantonati? Non mi pare.Tranne alcuni che sono andati via, gli altri sono nel Pdl e contribuiscono a migliorare questo partito. Le candidature in Veneto e Lazio sono il prezzo pagato a Lega e agli ex di An per tenere in piedi il Pdl. Normale dialettica. E sarebbe successa la stessa cosa se An non fosse confluita nel Pdl: avrebbe ottenuto alcune candidature, come è successo con la Lega.
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In Veneto e in Piemonte i vostri non gradiscono il regalo alla Lega? Gli elettori alla fine sono i meno influenzati. Le maggiori delusioni vengono dai gruppi dirigenti. Ora spetta a quelli che sono stati indicati come presidenti delle Regioni lenire queste ferite, diventando i candidati di tutta l’alleanza. E lo strappo con Galan? Giancarlo è una persona che ha lavorato benissimo, portando grandi risultati nei quindici anni di mandato. La sua poi è una delle poche giunte che non ha mai avuto problemi di alcun tipo. Però l’avete disarcionato. Purtroppo l’alleanza ci ha costretto a cedere il Veneto. Galan è una persona che stimo moltissimo. Penso che possa fare altre cose che lo ricompensino per questi quindici anni e abbia la possibilità di proseguire la sua attività politica al servizio del Paese. Schiacciarvi su Bossi vi allontana dall’Udc. Spero che l’Udc cambi la sua linea: per anni è stata alleata con la Lega in una dialettica utile a tutti. Oggi, all’interno del governo, manca quella voce spesso volte dissonante, che però ci consentiva di raggiungere risultati migliori. Fa delle avances? Molti dirigenti locali non condividono questa scelta di Casini, perchè non si sentono di sinistra, ma più vicini al centrodestra. L’Udc sarà decisiva in alcune Regioni? Può esserlo, ma dipende con chi si allea. In Piemonte, per esempio, vale molto nel centrodestra, molto da sola, poco con il Pd. La candidatura della Polverini in Lazio spalanca le porte a un’ex azzurro in Campania? La Polverini la considero espressione della società civile, nonostante la sua provenienza dal mondo di An. Il ruolo esula dal partito, è stata scelta perché sulla carta è la più forte. E in Campania? Ci sono diversi nomi competitivi. Nonostante la vicenda Cosentino. Il coordinatore regionale del Pdl è uscito rafforzato dal voto della Camera, dove ha ottenuto consensi anche dall’opposizione. Poi, c’è una guerra con i giudici, ma non riguarda soltanto lui.
Spero che l’Udc cambi idea: per anni è stata con la Lega. E oggi manca nel governo quella voce critica in grado di farci ottenere risultati migliori
Giancarlo Galan, tra i fondatori di Forza Italia, è il simbolo del passo indietro fatto dal Pdl nell’identificazione dei candidati alle presidenze regionali. Accanto, Guido Crosetto. Nella pagina a fronte, Nicola Cosentino di un’alleanza più ampia rafforza la necessità di non accelerare i tempi, ma va anche notato che in Calabria si è ragionato diversamente: in quel caso in pole position c’era ed è rimasto un esponente di An come il sindaco di Reggio Scopelliti, e proprio nelle ultime ore il coordinatore regionale vicario del Pdl ha ottenuto il sì definitivo proprio dall’Unione di centro. A dimostrazione che se i candidati sono validi, si possono trovare convergenze anche senza ricorrere a figure estranee alla politica.
Altri esempi: nelle regioni rosse una delle poche certezze sembra riguardare l’avversario di Vasco Errani in Emilia-Romagna, che sarà il giornalista Giancarlo Mazzuca. Si va verso un nome preso a prestito dal mondo dei media anche in Toscana, dove in prima fila c’è l’ex direttore dell’edizione locale del Giornale Riccardo Mazzoni (che almeno ha già qualche incarico dirigenziale nel Pdl), e se proprio non la spuntasse lui toccherebbe a un altro ex An come Riccardo Migliori. Persino nella piccola Basilicata si è cercato, finora inutilmente, di convincere il presidente degli industriali Attilio Martorano piuttosto che indicare un politico,
magari di estrazione FI per dare una seppur minima compensazione. Sembra quasi che Berlusconi e i suoi stessi rappresentanti al vertice del Pdl,Verdini e Bondi innanzitutto, vogliano evitare che il partito si articoli in periferia con nuove figure forti e autonome. In nome di una visione sempre più centralistica della macchina politica. Laddove si fanno eccezioni, esse riguardano gli ex An, ai quali non si può negare la quota legittimamente pretesa, o esponenti la cui autonomia già esiste e al limite può convenire lasciare chiusa nel perimetro di una regione, come nel caso di Formigoni.
Da un autorevole dirigente locale di provenienza azzurra arriva la seguente chiosa: «Il cosiddetto ventre molle di Forza Italia ha partorito solo investiture leghiste o aennine». Il ventre molle, il corpaccione. Che evidentemente non ha più talenti da proporre o anche da creare. Alll’esigenza del controllo che Berlusconi e i suoi vogliono privilegiare si può contrapporre infatti anche una spiegazione speculare: non ci sono uomini da schierare, manca la materia prima. Entrambe le affermazioni sono vere, e ciascuna delle due pare destinata a rafforzare l’altra.
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diario
pagina 6 • 22 dicembre 2009
Dietro le quinte. Il partito dell’uomo forte di Mosca ha inviato una sua delegazione ufficiale al congresso di Bonn
Putin bussa alla porta del Ppe Il premier vorrebbe affiliare “Russia Unita” ai popolari europei ella grande kermesse del congresso di Bonn del Ppe pochi se ne sono accorti. Eppure nell’emiciclo del vecchio Bundestag dell’ex capitale tedesca c’era anche una delegazione molto particolare: quella di Russia Unita, il partito di Putin e di Medvedev. Confusa tra gli ospiti, senza particolari riconoscimenti istituzionali, ma di alto livello. A guidarla era Konstantin Kosaciov, presidente della commissione Esteri della Duma – la Camera bassa del Parlamento di Mosca – che nell’unica dichiarazione pubblica rilanciata dalla radio Voce della Russia è stato molto diplomatico: «Siamo qui per fare tesoro delle esperienze altrui». Meno criptico è stato il politologo Serghej Markov, anche lui deputato di Russia Unita: «Ci consideriamo parte di un movimento basato sui valori conservatori. Pensiamo che lo Stato deve difendere l’unità della nazione e la nostra religione tradizionale. Questi principi ci mettono oggettivamente su una piattaforma comune a quella del Partito popolare europeo».
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Da qui a ipotizzare che la delegazione fosse sbarcata a Bonn per presentare la domanda di adesione di Russia Unita al Ppe, il passo è breve. Anche se agli atti non risulta ancora alcuna richiesta ufficiale, nei circoli politici moscoviti giurano che l’intenzione del maggiore partito della Russia postcomunista è proprio questa e che la marcia di avvicinamento è cominciata. Con l’obiettivo di centrare il risultato prima delle elezioni presidenziali del 2012 che potrebbero riportare Vladimir Putin sulla poltrona più alta del Cremino. Sarebbe un bel colpo per Russia Unita. Una specie di bollino di qualità. E offrirebbe a Mosca un’arma in più per contestare chi denuncia il macato rispetto delle regole democratiche e dei diritti umani nell’ex Unione Sovietica. Uno sdoganamento, insomma. Questo, almeno, sembra essere il disegno nemmeno tanto segreto di Putin che fa parte di un generale piano per aprire le porte del salotto buono della politica internazionale alla Russia. Che si tratti dei rapporti con l’America di Barack Obama o delle relazioni
Buttiglione ha invitato a «rafforzare le radici ideali» della formazione internazionale, «cosa che ha ancora più importanza in questa fase in cui il Ppe apre a forze che non sono di radicata tradizione democratico-cristiana». Un riferimento all’Akp turco, certo. Ma non solo.
di Enrico Singer
con l’Unione europea. Degli accordi sulla riduzione dei missili a testata nucleare o dell’aumento delle forniture di gas attraverso la costruzione di nuove pipeline. Vista dall’interno del Ppe, la questione è più complessa.
Per il momento, in assenza di un passo formale del partito di maggioranza russo – alle ultime elezioni politiche del 2007 ha ottenuto il 64 per cento dei voti e 315 deputati su
zioni politiche di ispirazione democristiana e liberalconservatrice. Allora l’imbarazzo era determinato dal fatto che l’Akp, per quanto moderato, è un partito islamico e fu superato soltanto grazie al compromesso sul livello di partecipazione – la qualifica di osservatore, appunto – e alla prospettiva politica dell’adesione alla Ue della Turchia che, tra l’altro,
Ma per Rocco Buttiglione, occorre «rafforzare le radici ideali, soprattutto se ci si apre a forze che non hanno tradizione democratico-cristiana» 450 – non ci sono reazioni ufficiali da parte del presidente, Wilfred Martens, appena confermato al suo posto di comando dal congresso di Bonn. Ed è normale che sia così. Ma la sola prospettiva di dover dire di sì o di no a un’eventuale richiesta di Russia Unita è imbarazzante e potrebbe provocare delle divisioni. Come nel 2006, quando a bussare alla porta del Ppe fu l’Akp, il partito del premier turco Recep Tayyip Erdogan, poi accolto con il rango di “osservatore”, il più basso della grande famiglia continentale delle forma-
per il numero dei suoi abitanti, invierebbe a Strasburgo la rappresentanza più folta di deputati che dovrebbero, comunque, entrare poi in uno dei gruppi politici dell’Europarlamento.
Nel Ppe ci sono altri 17 partiti con lo status di osservatore di ben 13 Paesi come l’Albania, la Bielorussia, la Moldavia, la Serbia e l’Ucraina. Il secondo livello di adesione è quello di “associato” (11 partiti di sei Paesi, tra i quali Bulgaria e Svizzera), mentre sono 69 i partiti aderenti a pieno ti-
tolo di 37 Paesi diversi, con 16 capi di governo (10 della Ue e 6 extra-Ue), 9 componenti della Commissione europea (compreso il presidente, Manuel Barroso) e ora anche il nuovo presidente stabile del Consiglio della Ue, Herman Van Rompuy, e il più grande gruppo (265 deputati su 736) del Parlamento di Strasburgo che, a sua volta, è presieduto da un popolare, il polacco Jerzy Buzek. Il passaggio da uno status all’altro nella gerarchia dell’adesione al Ppe non è automatico. E proprio al congresso di Bonn, Rocco
Russia Unita è un partito giovane. È nata nell’aprile del 2001 dalla fusione di altri due movimenti politici: Madrepatria tutta la Russia, dell’ex sindaco di Mosca, Jurij Luzkov, e dell’ex premier, Evgenij Primakov, e il Partito unito di Russia di Serghei Shoigu e Aleksandr Karelin. Ma, in realtà, è una creatura di Vladimir Putin che, allora, era entrato al Cremino da presidente da appena un anno come successore di Boris Eltsin. Alle elezioni legislative del 2003, Russia Unita ottenne il 38 per cento dei voti e 222 seggi su 450 diventando, così, d’un balzo il primo partito del Paese e distanziando in modo significativo il Partito comunista della Federazione russa fermo al 12,8 per cento dei voti e a 51 seggi. Quando Putin, nel 2004, si ricandidò alla presidenza, ottenne un trionfale 71,2 per cento dei voti anche grazie all’appoggio di Russia Unita che si accreditò definitivamente come il nuovo partito del potere. Nel settembre del 2008 anche il Partito agrario è confluito in Russia Unita che si definisce una “formazione mediana” rispetto agli altri due partiti che hanno un certo peso in Russia: i comunisti del Kprf e i nazionalisti del Pldr. Ma, al di là delle etichette, è un tipico partito ritagliato e imperniato sulla figura del suo leader: Vladimir Putin che, il 14 aprile del 2008, ne ha assunto anche la presidenza, Una mossa giocata appena un mese prima di cedere, almeno formalmente, la guida del Paese a Dmitri Medvedev e interpretata come un passo in perfetto stile sovietico quando il controllo del partito, che a quei tempi era il Pcus, delle forze armate e dei servizi segreti era la chiave del potere reale al Cremino. Allora come adesso: dalle vecchie troike al nuovo tandem.
diario
22 dicembre 2009 • pagina 7
Agcom protesta: «Una scelta davvero inopportuna»
Discorso ai cardinali e ai vescovi per gli auguri di Natale
Aumenta il canone Rai: è arrivato a 109 euro
Il Papa: «La Chiesa non scenda in politica
ROMA. Aumenta il canone del-
CITTÀ DEL VATICANO. È ricor-
la Rai: il viceministro per le Comunicazioni, Paolo Romani, ha firmato il decreto per la rideterminazione del canone che passa da 107,5 euro a 109 euro l’anno. L’aumento è stato varato tenendo conto dell’inflazione programmata, stando alle considerazioni ufficiali: in effetti, 1 euro e mezzo di aumento corrisponde a quello dell’anno passato. Naturalmente la decisione sarà subito operativa (il canone Rai va pagato entro il prossimo gennaio) e non mancherà di suscitare forti polemiche, anche in considerazione del fatto che recentemente parecchi esponenti di governo hanno invitato i cittadini a non pagare il canone da cui dipende la sopravvivenza della tv pubblica, unico competitor delle reti del presidente del Consiglio. Insomma, dopo aver proposto di abolire la tassa, il governo medesimo l’ha alzata: un gesto non propriamente coerente.
rente per la Chiesa e i vescovi «la tentazione di fare politica», cioè di «cedere alla tentazione di prendere personalmente in mano la politica e da pastori trasformarsi in guide politiche»: lo ha detto Benedetto XVI, nel discorso di augurio alla Curia Romana. A cardinali e vescovi il Papa ha spiegato che i pastori non devono trasformarsi in guide politiche e che la competenza politica non spetta ai vescovi: «Come possiamo essere realisti e pratici, senza arrogarci una competenza politica che non ci spetta?». E poi ha ricordato come ogni società «abbia bisogno di riconciliazioni, perché possa esserci la pace».
La decisione, infatti, è stata decisamente contestata da varie associazioni degli utenti e dal Consiglio nazionale degli utenti, organismo dell’Agcom. Che in una nota ritiene «assolutamente da evitare l’aumento del canone. Soprattutto a fine 2009, anno che ha visto il pas-
Ferrovie nel caos È polemica sulle Fs Ma Moretti si difende: «In Europa è andata peggio» di Alessandro D’Amato
ROMA. Ieri è stata un’altra giornata di caos sulle strade, negli aeroporti e nelle ferrovie italiane. Colpa del ghiaccio e della neve. O anche della disorganizzazione? Il bollettino dei disagi parla di scuole chiuse in molti comuni della pianura veneta; di ritardi sensibili per i treni per Milano; di code e problemi alla circolazione in varie regioni. Nel Bergamasco è crollato nella notte il sottotetto di un asilo. Situazione non meno vgrave in tutta Europa dove si contano ottanta vittime per il freddo. Mentre ha fatto scalpore la richiesta di scuse per i disservizi fatta dai vertici di Eurotunnel, dal momento che il collegamento sotto la Manica è rimasto chiuso anche ieri.
«Raccogliendo le richieste provenienti dal mondo politico, ritengo sia doveroso per il Parlamento comprendere i motivi che hanno causato tanti disservizi ai viaggiatori italiani in un periodo particolarmente difficile come quello pre-natalizio», ha dichiarato la politica per bocca del Presidente della Commissione Trasporti della Camera, Mario Valducci, a proposito dei ritardi sulle linee ferroviarie durante lo scorso fine settimana. «Pur comprendendo l’eccezionalità degli eventi atmosferici che stanno imperversando sulla nostra penisola, ritengo doveroso audire in Commissione Trasporti i vertici delle Ferrovie dello Stato, per comprendere quanto accaduto e porre in atto quanto possibile perchè non si verifichino ulteriori disagi». Ne avrà da indagare, la commissione: ieri in Friuli Venezia Giulia sono stati soppressi 22 treni su 59 a causa del ghiaccio che blocca le porte automatiche. I treni, infatti, non possono partire se le porte non sono efficienti.Tra i 30 e i 40 convogli vengono cancellati in Lombardia, mentre forti disagi si registrano per i mezzi provenienti dal Sud Italia. Ritardi quasi cinque ore per l’Intercity da Bari, di quattro ore l’Intercity da Crotone e di quattro ore e mezza, l’espresso da Lecce. Le Ferrovie hanno dotato i punti critici della rete di scambi riscaldati per evitare blocchi soprattutto in prossimità delle sta-
zioni ma anche questo accorgimento non riesce sempre a evitare i guasti quando il termometro scende sotto lo zero. E nessuno potrà farci niente.Tutta colpa del maltempo? Per l’ad delle Ferrovie, Mauro Moretti, sì. O, anzi, colpa di nessuno, giacché, dice Moretti, «non abbiamo interrotto alcun funzionamento della tratta nazionale. Non abbiamo bloccato nulla. Siamo il solo Paese in Europa che non ha bloccato pezzi di rete».
In una conferenza stampa l’amministrazione ha parlato di «situazione meteo eccezionale, paragonabile solo al gennaio dell’86 o al febbraio dell’86». In quel caso ci fu il blocco della rete nazionale, «mentre stavolta blocchi non ci sono stati». I disagi, inoltre, non si sono verificati solo in Italia: «Se io avessi avuto una cosa pari a quello che è accaduto nella Manica - ha commentato con un paragone discutibile - avrebbero chiesto per me... Piazzale Loreto». L’ad, poi, ha snocciolato alcuni numeri. «Oggi (ieri, ndr) hanno circolato 3700 treni e 400 stanno circolando ora. Abbiamo soppresso lo 0,3% della lunga percorrenza e il 5,6% del trasporto regionale. In alcune regioni del Nord dove c’è più neve abbiamo punte in Friuli del 20% e in Emilia al 10%». A cosa sono dovuti i problemi? «Neve, ghiaccio e freddo hanno causato spesso il blocco degli scambi e la disattivazione della rete elettrica e altri problemi tecnici, ecco perché ci sono stati ritardi in partenza e in ri-partenza. Inoltre venivamo comunque da un periodo critico perché c’era stata l’entrata del nuovo orario e l’avvio del sistema ad alta velocità». Per quanto riguarda i ritardi dei treni, Moretti ha spiegato: «Sono ritardi che si amplificano, ma evitiamo la soppressione dei treni per far sì che anche con grandi ritardi i treni circolino. Insomma i ritardi sono il minore dei mali. Noi evitiamo le soppressioni dei treni, meglio in ritardo che niente treni. Specie sotto le feste, visto che se anche dicessimo alla gente di non partire si muoverebbe lo stesso. Ci sono disagi ma tutto quello che possiamo fare lo stiamo facendo».
Per Mario Valducci, Pdl, presidente della commissione trasporti, Moretti dovrebbe «riferire in Parlamento»
saggio al digitale diverse aree, tra cui Roma, con notevoli difficoltà per i cittadini». «Abbiamo più volte espresso la nostra contrarietà all’aumento del canone - continua la nota Agcom - sarebbe, infatti, utile che i cittadini conoscessero con esattezza quali attività il canone va a finanziare e quali invece sono realizzate con la pubblicità. Una manovra inopportuna anche considerato il fatto che è stato ridimensionato il qualitel». «Tanta solerzia nell’adeguare il canone, ma poca attenzione alle richieste degli utenti che chiedono maggiore qualità» è invece il commento di Luca Borgomeo, presidente dell’associazione di telespettatori cattolici Aiart.
Le parole del Papa arrivano a ridosso dell’annunciata visita
del 17 gennaio alla sinagoga di Roma e alle polemiche che si sono riaperta dopo la decisione di far procedere il processo di beatificazione di Pio XII (accusato dagli ebrei di non aver fatto abbastanza per contrastare la Shoah). Una scelta che ha creato irritazione nella comunità ebraica mondiale e agitazione tra gli ebrei romani. Forse per questo Benedetto XVI ha definito la visita compiuta quest’anno al memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem «un incontro sconvolgente con la crudeltà della colpa umana, con l’odio di un’ideologia accecata che, senza alcuna giustificazione, ha consegnato milioni di persone umane alla morte e che con ciò, in ultima analisi, ha voluto cacciare dal mondo anche Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e il Dio di Gesù Cristo». Yad Vashem, ha ricordato il pontefice, «è in primo luogo un monumento commemorativo contro l’odio, un richiamo accorato alla purificazione e al perdono, all’amore». Infine l’invito alla Chiesa perché apra «una sorta di cortile dei gentili dove gli uomini possano in qualche maniera agganciarsi a Dio» e «al dialogo con le religioni».
mondo
pagina 8 • 22 dicembre 2009
Retroscena. Ultimo della “vecchia guardia” khomeinista, il religioso era in grado di limitare le bizze dei teocrati
Un martire per l’Onda La morte di Montazeri rafforza l’opposizione che intende usarlo come araldo contro Teheran di Antonio Picasso a morte del Grande Ayatollah Hossein Alì Montazeri ha riportato l’Iran in piazza. Da una parte, in contemporanea con i suoi funerali, si presenta nuovamente uno scenario di alta tensione fra gli oppositori, che vedevano nell’alto prelato defunto un faro ideologico e un esempio politico da seguire, e le autorità governative che sono tornate a reprimere l’Onda Verde, il fronte riformista appunto. D’altra parte le immagini che giungono da Teheran sono quelle di un funerale seguito da milioni di persone. Immagini che evocano quelle delle esequie di Khomeini, scomparso nel 1989. Già allora la guardia Nazionale iraniana non riuscì a contenere il pathos collettivo di 11 milioni di persone che parteciparono alle celebrazioni funebri. Oggi, come esattamente vent’anni fa, la popolazione iraniana si stringe intorno al feretro di una delle figure più rappresentative del Paese, sia in termini politici sia religiosi e culturali. L’omaggio corale a Montazeri ha più significati. È l’espressione di un popolo desideroso di riforme.
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Al tempo stesso, ricordando il fatto che anch’egli era un Grande Ayatollah, appare evidente come la forza della rivoluzione, condotta appunto dal clero nel 1979, siano ancora vitale nel Paese. Infine, e questo fa da sintesi ai primi due punti, il lungo corteo funebre in onore di un riformista indica che le istituzioni governative non sono più ispirate dall’utopia di Khomeini di “rivoluzione a vita”e dal concetto di Velayat-e-Faqih, la dottrina secondo cui la sentenza di un giurista musulmano sciita (marja’a) sarebbe emanata direttamente da Dio. L’Iran piange Montazeri perché era una guida religiosa, ma al tempo stesso un lucido riformista. Con la sua cultura e il suo carisma, egli era l’ultimo Grande Ayatollah rappresentativo dell’Iran khomeinista dopo il regime dello scià. Non è un caso che Khomeini l’avesse scelto come successore, per poi delegittimarlo. L’attuale Guida suprema Ali Khamenei, anch’egli Grande Ayatollah, non ha mai raggiunto la profondità culturale e spirituale dei suoi pari-
Scontri e arresti nel corso dei funerali solenni a Qom
In piazza si sfoga l’ira del regime di Massimo Fazzi Onda verde ha dimostrato di che pasta è fatta. E non dal punto di vista degli scontri di piazza o del boicottaggio del regime degli ayatollah, attività in cui si distingue già, ma da un punto di vista morale. Riunita a Qom – parte meridionale dell’Iran – l’Onda ha commemorato con vero dolore la figura di Hossein Ali Montazeri, l’ayatollah morto nella notte tra sabato e domenica dopo una lunga malattia, che era stata guida spirituale delle proteste che da giugno scuotono l’Iran. Avendo vietato l’ingresso alla stampa occidentale, per la cronaca ci si deve affidare ai siti dell’opposizione e a quelli riformisti, che parlando di centinaia di migliaia di presenti.Tra questi anche Mir Hossein Mousavi, candidato sconfitto alle presidenziali da Mahmoud Ahmadinejad, e l’ex presidente del Parlamento Mehdi Karroubi. Sempre la stampa non ufficiale parla di scontri, prima e dopo la tumulazione, e di vari arresti dopo le violenze, di cui però non si conosce l’entità. Secondo il sito Rahesabz.net, le milizie di Ansar Hezbollah (i “seguaci di Dio”, un’organizzazione paramilitare e vicina alla teocrazia islamica), si sono infiltrate nella folla che partecipava ai funerali e hanno tentato di «interrompere la cerimonia».Tenuti lontani dagli oppositori, che non hanno raccolto provocazioni in onore della memoria della loro guida, si sono ripresentati all’uscita del mausoleo dove riposerà Montazeri per attaccare con più violenza. Nei pressi erano presenti anche membri delle milizie Basij, fedelissimi del regime, che scandivano slogan di appoggio a Mahmoud Ahmadinejad. Le autorità avevano cominciato a imporre restrizioni sin dalla serata di domenica, quando avevano arrestato vari passeggeri di un pullman che portava a Qom familia-
L’
ri di dissidenti in carcere e attivisti a favore dei diritti umani. Ma il giro di vita del regime, ancora una volta, non ha intimorito l’Onda verde, che ha organizzato manifestazioni in ricordo di Montazeri anche a Teheran, nella pizza Mohseni, dove la polizia ha impedito la circolazione dei veicoli ed ha disperso i dimostranti. Un nuovo giro di vite del governo è arrivato sempre ieri anche contro la stampa d’opposizione. A farne le spese è stato il quotidiano riformista Andishehye No, chiuso ieri dalle autorità, stando a quanto ha riferito l’agenzia d’informazione Rouydad News. Andisheh-ye No, che era uno degli ultimi quotidiani riformisti ancora in attività, paga la nuova ondata di repressione che ha colpito i mezzi d’informazione in Iran all’indomani della morte del grande ayatollah e che ha portato anche all’arresto del giornalista conservatore Ahmad Nurizad, critico nei confronti dell’operato del governo. Intanto, l’edizione di ieri del quotidiano Etemad-e Melli - vicino al leader riformista Mehdi Karroubi - è anin data stampa con il logo del quotidiano colorato di nero, che invece rosso, in segno di lutto per la morte di Montazeri.
L’Iran piange Hossein Montazeri perché era una guida spirituale, ma al tempo stesso un lucido riformista. Con la sua cultura e il suo carisma, era l’ultimo rappresentante dell’Iran khomeinista grado che uno a uno sono venuti a mancare.
La lista degli alti prelati che furono i padri del regime teocratico a Teheran è lunga. Khomeini costruì il nuovo Iran non da solo, bensì con un folto gruppo di marja’a suoi parigrado. Di questi molti sono scomparsi, altri si sono ritirati dall’agone politico per concentrarsi negli studi religiosi. Oggi sono quasi tutti ultra-ottantenni e vivono prevalentemente a Qom, il cuore dello sciismo duodecimano iraniano. Tra questi possiamo ricordare: Javad Alieri, Ali Golpapayganin (classe 1904) e Mohammed Sadeq Rahani. Nessuno di loro dimostra di avere la stoffa per assumere la guida della frangia riformista e scardinare il regime di Khamenei dall’interno. L’età e il dichiarato disinteresse a prendere parte alla“cosa pubblica”a Teheran esclude questa lista dai giochi di potere della capitale iraniana. Con la scomparsa di Montazeri, si chiude il ciclo degli Ayatollah critici del regime e quindi dissidenti. Egli era l’ultimo di quella stretta rappresentanza che aveva avuto il coraggio di opporsi agli eccessi di Khomeini. Prima di lui Kazem Shariatmadari, morto nel 1986,
aveva prospettato l’idea di un’evoluzione del Velayat-e-Faqih secondo orientamenti più liberali. Il suo atteggiamento moderato però gli costò gli arresti domiciliari. Un esempio ulteriore risale addirittura a prima della caduta dello scià. Nella seconda metà degli anni Settanta, Mahmud Taleghani tentò di mediare fra le posizioni estremistiche di Khomeini, quelle dei riformatori laici e la monarchia decadente di Reza Palhevi II. Questo altro Grande Ayatollah però, che appoggiava la leadership di Khomeini, morì all’inizio di settembre del 1979, vale a dire pochi giorni prima dell’inizio della rivoluzione, in circostanze mai chiarite. Tra i marja’a riformisti quindi che potrebbero raccogliere la fiaccola di Montazeri, l’Onda può contare solo su Jousef Sane’i, nato nel 1937 e anch’egli protagonista della rivoluzione. Ma anch’egli è da vent’anni concentrato sugli studi coranici a Qom. Il suo ritiro spirituale è dovuto alle posizioni di dissidenza che assunse negli ultimi mesi del “regno” di Khomeini. Solo dopo le elezioni di giugno, Sane’i si è esposto nel considerare illecita la Presidenza di Ahmadinejad, in seguito alle ombre dei brogli che hanno offuscato il voto. Al suo fianco vi
mondo
22 dicembre 2009 • pagina 9
L’Occidente continua a distogliere lo sguardo da un nemico che cresce
Ma i mullah tornano ai bei vecchi tempi
L’ingresso di soldati iraniani in Iraq è un simbolo: il governo vuole utilizzare le solite provocazioni di Michael Ledeen n dito teso, che viene tirato fuori da un pugno serrato. È il miglior modo per descrivere l’ultima mossa della Repubblica islamica di Iran contro gli Stati Uniti e il loro alleato iracheno. Gli iraniani hanno infatti attraversato il confine che separa le due nazioni – un confine da loro molto contestato nel corso degli anni, che è stato già alla base del disastroso conflitto fra Teheran e Baghdad – e hanno dichiarato la propria sovranità su un pozzo di petrolio. Niente di nuovo, potreste dire. E avreste ragione. In ogni caso, il governo americano ha cercato di abbassare i toni sulla questione. Un portavoce militare americano, di stanza presso la base di Adder nel sud dell’Iraq, ha dichiarato: «Non si è verificato alcun tipo di violenza nel corso di questo incidente. Crediamo che esso si possa risolvere in maniera pacifica, tramite la diplomazia dei governi iraniano e iracheno. Il petrolio si trova in un territorio disputato fra i due: incidenti del genere accadono piuttosto frequentemente». In effetti, abbiamo abbassato i toni anche su incursioni molto più serie compiute dall’Iran in territorio iracheno; fra queste ci sono le operazioni congiunte con la Turchia e i bombardamenti in Kurdistan, che hanno provocato dozzine di vittime. E qualcuno potrebbe ricordare che le truppe iraniane, un paio di anni fa, circondarono un’unità delle Forze speciali americane sempre da quelle parti: furono costretti a ucciderne circa dodici, per non essere presi in ostaggio. A volte, invece, sono riusciti a prendere degli ostaggi: al momento ci sono cinque cittadini americani nelle mani di Teheran, e noi stiamo facendo con calma i soliti patti per liberarli. Altre volte i nostri concittadini vengono uccisi, ma noi non facciamo nulla. Gli eventi attuali fanno parte di uno schema bennato: l’Iran attacca noi e nostri amici, e noi guardiamo da un’altra parte. Proprio come quando “negoziavamo” in Europa mentre i nazisti preparavano la Seconda guerra mondiale, o i sovietici quella fredda: allo stesso modo, ci siamo distratti negli ultimi trent’anni, mentre la Repubblica islamica prepara una guerra contro di noi.
U
potrebbe essere Reza Hosseini Nassab: Grande Ayatollah di soli 49 anni. La sua debolezza però risiede nel fatto di aver scelto una via “missionaristica”, essendosi trasferito in Canada, dove è considerato la guida spirituale della comunità iraniana locale. La sua assenza dall’Iran, sebbene Nassab vi rientri saltuariamente, lo rende straniero in patria. Nessuno dei due quindi può essere visto come il successore di Montazeri. Questo porterebbe a pensare che la strada di Ali Khamenei, per quanto frastagliata dal riformismo di piazza dell’Onda Verde, sia molto più sicura dopo la morte di Montazeri. La breve panoramica dei Grandi Ayatol-
la necessità per cui il prelato dimostri di avere un’esperienza nel campo degli studi teologici e della dottrina della Shia superiore a chiunque altro.
Un Grande Ayatollah dev’essere un esperto, un saggio che sappia condurre l’Iran sulla retta via della “Rivoluzione a vita”. Non è un caso che tra gli organi istituzionali iraniani vi sia l’Assemblea degli Esperti, composta da 86 membri, la quale ha il compito di eleggere proprio la Guida Suprema. Nell’ipotesi che Khamenei sia costretto a cedere il potere, per ragioni di salute come era stato ventilato due mesi fa, il regime si troverebbe improvvisamente decapi-
Con la sua scomparsa si chiude il ciclo degli ayatollah critici del regime. Era l’ultimo di quella stretta rappresentanza che aveva avuto il coraggio di opporsi agli eccessi di Khomeini lah tuttavia ci mostra due punti deboli strutturali del regime teocratico iraniano, che mettono in discussione la successione dello stesso Khamenei. L’incarico di Guida Suprema deve essere trasmesso a un altro marja’a. Non è esiste l’eventualità che il Velayat-e-Faqih venga portato avanti da un laico. È escluso a priori che Ahmadinejad, Larijani o qualsiasi altro esponente conservatore del regime raccolga il testimone di Khamenei in quanto è privo dell’investitura religiosa, A questo si aggiunge
tato. Il Presidente Ahmadinejad e con lui blocco intransigente del sistema-Iran dovrebbe a ricorrere a stratagemmi e riforme costituzionali per sopravvivere. Ma le riforme sono il primo nemico di un regime autoritario com’è quello iraniano. La scomparsa di Montazeri è senza ombra di dubbio una perdita per i riformisti di Teheran. Non è da escludere però che la sua figura, una volta idealizzata, irrobustisca l’Onda Verde e le conceda una nuova capacità di resistenza.
iraniani, compreso il capo del Consiglio per la sicurezza nazionale e il ministro della Difesa, si sono di recente recati in visita a Damasco, dove si sono incontrati con i leader del terrorismo della regione. Quegli assassini, inoltre, si recheranno presto insieme a rappresentanti del governo siriano in Iran per nuovi incontri.
Questo suggerisce, quanto meno a me, che sia in corso una ripresa vigorosa del terrore: mi aspetto un aumento delle uccisioni nei prossimi tempi. E con questo intendo dire che si verificheranno nuovi attacchi in Iraq, Pakistan, Afghanistan e Israele. Non mi aspetto che ci sarà una nostra reale risposta a questa minaccia. Persino i nostri leader si dimostrano poco propensi – quasi vergognosi – nell’incrementare il numero e la potenza delle sanzioni contro l’Iran. Avendo davanti questo atteggiamento, tipico di chi non ha spina dorsale, il regime continuerà a pressare l’opposizione con tutta la sua forza. Il risultato è che i nostri amici nella regione diventeranno molto cauti. Tutto questo è ovviamente collegato alla questione centrale, ovvero il giudizio in arrivo sul regime di Teheran. I mullah hanno cercato di organizzare delle mostruose manifestazioni a sostegno del loro leader supremo, la Guida della Rivoluzione ayatollah Ali Khamenei, ma hanno fallito. E questo è un fallimento di quelli da sottolineare, dato che ai manifestanti erano stati promessi cibo gratuito e un gettone di presenza in moneta sonante. Ma questi hanno preferito rimanersene in casa, risparmiando le proprie energie per le manifestazioni contro il governo che si verificheranno nelle prossime settimane. Nonostante il suo sostegno esclusivamente verbale, espresso durante il discorso di Oslo, il presidente degli Stati Uniti d’America non si è ancora impegnato per fare qualcosa di serio per aiutare l’opposizione iraniana. Anzi, sta costruendo con cura, premura e con una cerca sistematicità un’eredità fatta di vergogna: per lui stesso e per la sua amministrazione. Invece di comportarsi in questo modo, il presidente americano dovrebbe ricordarsi, e riascoltare con cura, quello che diceva Vaclav Havel parlando del modo migliore per trattare con i tiranni. Diceva infatti il grande dissidente: «Loro rispettano coloro che rimangono fissi sulle proprie posizioni, e dimostrano di non avere alcuna paura. Se qualcuno macchia invece i propri pantaloni prematuramente, perde per sempre il rispetto dei tiranni».
Gli Stati Uniti hanno sottovalutato i nazisti, i comunisti e tanti altri dittatori. Non possiamo fare lo stesso errore con l’Iran
Non dovete pensare che questo modo di fare sia da imputare unicamente all’amministrazione americana, oggi guidata da Barack Obama: l’unica particolarità di questa fase è che siamo molto aperti al riguardo. Molto probabilmente, nel futuro prossimo venturo, ci saranno molti altri eventi che saremo chiamati ad ignorare. Alcuni altissimi dirigenti
panorama
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Napoli, una città in cerca di nuovi leader osa Russo Iervolino, nonostante abbia perso ancora una volta l’assessore al Bilancio della sua seconda o terza Giunta, è ancora sindaco di Napoli anche grazie al soccorso del Pdl. Antonio Bassolino, titolare di un fallimento personale e politico senza precedenti, è ancora governatore della Campania anche grazie alla volontà del Pdl. Certo, l’opposizione non ha e non può mai avere in mano alcun concreto potere per mandare a casa anzitempo la sindaca e il governatore, ma ciò che stupisce è che nella crisi politica, amministrativa e sociale del centrosinistra campano, che non ha avuto eguali in altre regioni italiane, il centrodestra non abbia mai concretamente richiesto con convinzione le dimissioni di Rosa e Antonio con l’elaborazione di un’alternativa politica centrata su un sindaco di centrodestra e un governatore di centrodestra e con un progetto di svolta per Napoli e per la Campania.
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Se guardiamo allo stato delle cose politiche oggi in Campania, a pochi mesi dalle elezioni per il rinnovo del consiglio regionale, la scelta del nuovo governatore e, in pratica, la chiusura del ciclo dominato dalla figura di Bassolino, ci rendiamo conto di avere davanti una scena in cui ciò che brilla non è la Presenza, bensì l’Assenza. Anzi, per dirla tutta, stupisce e sconcerta che, giunto alla fine della sua strada, il centrosinistra pur esprimendo un bilancio fallimentare sia in grado di avanzare almeno un nome che dà garanzie come quello di Enzo De Luca, mentre nel campo del centrodestra non avanza nulla e l’unico nome politico seriamente spedibile, quello di Pasquale Viespoli, non gode purtroppo dell’unità dello stesso Pdl. Insomma, un dramma. E se si considera che questo “dramma”ha comunque i favori del pronostico elettorale meglio si comprenderà il pasticcio della politica pensata e fatta in Campania. Per cosa saranno ricordati i due mandati amministrativi a Palazzo San Giacomo della Iervolino? Il “primo “ Bassolino, anche al di là della natura effimera e virtuale del “rinascimento napoletano”, almeno riuscì a infondere fiducia, mentre il lavoro della sindaca è stato costantemente contrassegnato dal segno opposto: la sfiducia. Non a caso la giunta Iervolino è quella più sfiduciata in Italia. Il ricambio periodico degli assessori e delle competenze ha avuto sempre la medesima costante: l’inconcludenza. Una storia drammatica sotto il profilo amministrativo, ma, purtroppo, anche per quello umano visto che ricostruendo il passato prossimo delle giunte Iervolino va ricordato il suicidio dell’assessore Nugnes. Tuttavia, a fronte di questo disastro annunciato e replicato, il centrodestra è rimasto pressoché immobile e non ha mai mostrato la volontà di organizzare con la nascita di un leader e l’elaborazione di un programma praticabile l’alternativa di governo che questa città pur attende. Si aspetta il signor Godot, ma nessuno bussa alle porte di Napoli.
A Roma, morto un Papa se ne fa un Santo. Forse... Il riconoscimento delle “virtù eroiche” di Pacelli e Wojtyla di Luigi Accattoli l riconoscimento delle “virtù eroiche” dei Papi Pacelli e Wojtyla, arrivato sabato, aiuta a intendere la strategia delle canonizzazioni perseguita con millenaria esperienza dalla Chiesa di Roma: dal momento che quel riconoscimento è arrivato insieme e stante la diversissima figura papale interpretata dai due prossimi beati. Proclamare un beato o un santo è una decisione discrezionale che i Papi avocano a sé, con ferrea disciplina, dalla fine del Medioevo e dunque è interessante cercare l’intenzione che è dietro ogni proclamazione.
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L’interesse è massimo nel caso dei vescovi di Roma. Quando un Papa canonizza un predecessore è come quando sceglie il nome al momento dell’elezione: segnala una spiritualità che di fatto si è legata a una linea di governo della Chiesa. Compie dunque una scelta o quantomeno pone un atto che si presta a tale interpretazione. Oggi si tende a fare d’ogni Papa un santo ma fino a ieri non era così. Da quando vige il sistema di accertamento della santità attraverso un processo affidato a una congregazione romana (cioè dalla fine del Cinquecento) e fino alla metà del secolo scorso, c’erano appena un Papa santo, il piemontese Pio V (1566-1572) e un altro beato, il comasco Innocenzo XI (1676-1689). Ma anche in precedenza c’era grande prudenza nel mettere i Papi sugli altari. Per trovarne uno canonizzato prima di Pio V dobbiamo risalire a Celestino V (1294-1296), quello del «gran rifiuto». Vale dunque la pena di interrogarsi sul senso di questa corsa alla beatificazione dei Papi, che è tutta dell’ultimo secolo e anzi degli ultimi decenni. Prendiamo i dieci Papi dell’ultimo secolo e mezzo. Pio X è santo, Pio IX e Giovanni XXIII sono beati, per Pio XII e Giovanni Paolo II sono riconosciute le “virtù eroiche” e manca solo il riconoscimento di un miracolo per farli beati, per Paolo VI e Giovanni Paolo I le cause sono in dirittura di arrivo. Sette papi su dieci sono dunque giunti - o ben avviati all’una o all’altra delle due proclamazioni di esemplarità cristiana:“beato”e“santo”. L’inizio della corsa a canonizzare i Papi può essere individuato con facilità: la seduta finale del Vaticano II, quando Paolo VI annunciò l’avvio delle cause di Giovanni XXIII e Pio XII. Ma la tendenza era già matura dentro e la maturazione era stata favorita dalle decisioni di Pio XII su Pio X, che fece beato nel 1951 e santo nel 1954: una procla-
mazione che costituì l’ultimo atto forte di papa Pacelli. Quella canonizzazione fu tra le ragioni che indussero i riformatori conciliari a chiedere - dieci anni dopo - la canonizzazione di papa Roncalli. La richiesta dei novatori fece audaci i conservatori che si mossero a proporre quella di papa Pacelli e le contrapposte “istanze”portarono Paolo VI a introdurre in contemporanea le due cause. La decisione di Paolo VI di avviare le cause dei predecessori ha poi calamitato l’impegno del successore a introdurre la causa di papa Montini, dalla quale è gemmata quella di Giovanni Paolo I. A questo punto era ovvio che si arrivasse - anche senza il grido “santo subito”dei gruppi giovanili del Focolari durante la messa esequiale dell’8 aprile - alla causa per Giovanni Paolo II. I cardinali riuniti nelle Congregazioni generali del preconclave presero spunto da quel grido per sollecitare il “futuro Papa” a introdurre rapidamente la causa del Papa polacco: la richiesta con sotto le firme dei singoli cardinali (non tutti ma “la grande maggioranza”) fu consegnata al decano Ratzinger che una settimana dopo era Papa e che due mesi dopo autorizzò l’avvio della causa in deroga alla disposizione che prevede un’attesa di cinque anni: una deroga simile Papa Wojtyla l’aveva disposta per Madre Teresa di Calcutta. L’abbinamento delle cause di Pacelli e Roncalli prima e l’accoppiata delle proclamazioni di Roncalli e Mastai Ferretti 35 anni più tardi rivelano la tenuta nel tempo - e anzi il rafforzamento - di un’idea strategica: usare i processi di canonizzazione per affermare la continuità del Pontificato romano oltre le variabili personali.
Proclamare un beato o un santo è una decisione discrezionale che i Pontefici avocano a sé, con ferrea disciplina, dalla fine del Medioevo
C’è contrasto di giudizi su Pio X e papa Pacelli lo canonizza anche per sottrarlo alla discussione. Poi viene la disputa sui Pontificati pacelliano e roncalliano e Paolo VI sogna di beatificarli insieme, sperando così di attutire la disputa. La maggiore velocità della causa di Giovanni XXIII costringe poi Giovanni Paolo II a ricorrere all’abbinamento con Pio IX: il Papa del Vaticano II e il Papa del Sillabo. Ed eccoci alla coppia Pacelli-Wojtyla: il più romano e quello venuto “da un Paese lontano”tra i Papi recenti, il più tradizionale e il più nuovo come figura papale, l’uno aristocratico di nascita e di gesto l’altro popolare e sportivo. E per stare alle polemiche di giornata: il più amato dagli ebrei insieme al più criticato. www.luigiaccattoli.it
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L’iniziativa del ministero per il Welfare punta a una defiscalizzazione degli interventi che favoriscono la produttività
Se il governo premia il lavoro Nella Finanziaria Sacconi ha messo fondi e criteri per la flessibilità del mercato di Giuliano Cazzola l governo, nella legge finanziaria per il 2010, ha destinato 860 milioni di euro per fornire copertura alle misure di detassazione dei miglioramenti retributivi destinati alla maggiore produttività e alla qualità del lavoro. In parallelo, il decreto legislativo che dà attuazione alla riforma Brunetta ha istituito delle precise regole per ancorare la contrattazione decentrata nelle pubbliche amministrazioni ai risultati e al maggiore impegno nell’attività lavorativa. Addirittura, per i dirigenti pubblici (ad eccezione del settore sanitario) è stabilito che la quota di retribuzione variabile raggiunga gradualmente il 30% di quella totale. Esiste dunque una precisa linea di politica salariale del governo; esercitata in proprio nel caso dei pubblici dipendenti ed incoraggiata con agevolazioni fiscali (e contributive) nei comparti privati, dove le parti sociali sono protagoniste della libera contrattazione.
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gno, per poterlo fare, della massima disponibilità delle loro maestranze. Può sembrare un paradosso, ma nelle prossime settimane sarà sempre più frequente il caso di imprese che avvieranno procedure di esuberi nello stesso momento in cui si mostreranno disponi-
ai nuovi standard dal momento che impiegheranno anni prima di tornare a quelli precedenti lo sventurato anno domini 2009. Il ricorso agli esuberi può divenire, allora, una dolorosa necessità, non in contrasto, tuttavia, con la scelta di motivare anche sul piano economico i lavoratori che continueranno a prestare la propria opera in vista del rilancio dell’attività e della produzione. Del resto è comprensibile che un’azienda, passata sotto le forche caudine della crisi, ridimensioni i propri organici (grazie anche ad investimenti «a risparmio di lavoro») e che, quindi, recuperi, in tal modo, capacità di competere e di produrre ricchezza (in parte soggetta a redistribuzione).
In bilancio ci sono 860 milioni di euro per la detassazione dei miglioramenti retributivi bili a premiare con emolumenti retributivi i dipendenti che continueranno a far parte dell’organico. Le unità produttive hanno perduto, durante la crisi, quote di mercato in maniera strutturale; hanno dunque la necessità di «dimensionarsi»
Nel «pacchetto Sacconi», inserito in Finanziaria alla Camera, è evidente l’impegno del governo a ricollocare, con adeguate misure, quei dipendenti che perdono il lavoro. Sono previsti incentivi per l’assunzione di lavoratori cinquantenni che accettino una riduzione del 20% del precedente livello retributivo a fronte dell’attribuzione di una contribuzione figurativa integrativa a copertura della differenza. Sono altresì ipotizzati premi per quelle agenzie del lavoro che riescono ad impiegare
In sostanza, il governo (il ministro Sacconi lo ha ribadito più volte) sostiene che sarebbe sbagliato erogare miglioramenti a pioggia, in una logica di vetero-egualitarismo, mentre sarebbe assai più utile, anche ai fini di favorire la ripresa, mettere in campo le risorse disponibili laddove servano ovvero in quelle realtà produttive che sono pronte a ripartire e che hanno biso-
cassaintegrati, disoccupati e lavoratori in condizione di particolare disagio. I trattamenti erogati ai lavoratori a titolo di disoccupazione sono portabili, in caso di assunzione del soggetto che li percepisce e che li reca, così, «in dote» all’impresa che lo prende in carico. È poi ritornato alla Camera il «collegato» lavoro della Finanziaria 2009 (ora «collegato» all’ultima legge). Anche questo testo può essere un vettore sollecito per nuove politiche di tutela del lavoro, finanziate con l’inatteso surplus dello «scudo fiscale».
Tornando comunque agli indirizzi di politica salariale è forte l’impressione che tanto i sindacati quanto le associazioni datoriali si stiano ingegnando per caricare sui contratti nazionali di categoria la maggior quota delle risorse disponibili. È una scelta che, in questa fase, assicura consenso, accontenta anche le federazioni di categoria della Cgil disposte al dialogo e al confronto (mentre i metalmeccanici di Rinaldini e Cremaschi perseguono sempre e comunque obiettivi di conflitto, come accade in questi giorni anche in occasione di talune vertenze aziendali). Certamente si tratta di un’impostazione ispirata a criteri di socialità. Ma è questa la politica salariale che davvero serve al Paese ?
Polemiche. Mentre la Cina ”riammette” le figlie femmine, in Occidente spopola la bambola down
La sindrome del bambolotto di Luca Volontè iamo alla frutta di altra stagione, il paradosso dell’epoca in cui viviamo esplode in ogni dove e mischia segni di speranza e di discriminazione inauditi. Proprio nei paesi più potenti economicamente, questi segni emergono con maggiore violenza. C’è una buona notizia, una incredibile decisione annunciata recentemente dal Politburo del Partito Comunista Cinese: la fine della politica del figlio unico e maschio. La prassi dello Stato cinese è figlio della tradizione plurimillenaria della cultura popolare.
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La Cina ha avuto la capacità di sbattere la porta in faccia alle “paturnie” ossessive dei maltusiani occidentali, quei vecchi eredi della politica del figlio unico (altrui) che avrebbe salvato il Pianeta, e ha deciso l’abolizione della regola tirannica che impediva alle famiglie cinesi di avere più di un figlio e, soprattutto, di avere figlie femmine. Nel giugno scorso l’Udc, Buttiglione in primis, era riuscito a far approvare una mozione bi-partisan, che impegnava il
Governo Italiano a fare tutto il possibile per abolire e deprecare la “politica”dell’Onu favorevole all’aborto selettivo, soprattutto contro le bambine. La Cina ha deciso che interromperà quella sua mortifera politica per cause sociali: paradossalmente e prevedibilmente, la società cinese è e sarà nei prossimi anni composta da tanti
Restano forti, comunque, le pressioni dei potentati e delle lobby per regolamentare le nascite nei paesi poveri anziani e troppi maschi. Un po’ come in India, ci si rende conto che milioni di maschi in più sono un problema serio per il welfare e per la coesione sociale. Brava Cina! Ora se ne prenda atto, si modifichino radicalmente le politiche dell’Onu e si riducano le indebite “pressioni” delle lobby tiranniche e antinataliste.
Bambini che nasceranno, dunque, e paradossali campagne in occidente. Sì, perché sfiora l’assurdo e il tragicomico il lancio del nuovo bambolotto down, con la sindrome di down che è da poco sulle bancarelle dei negozi degli Usa e dei Paesi europei. Soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, laddove l’eugenetica e gli aborti verso gli embrioni affetti da sindromi di down, vengono praticati su larga scala, lanciare un bambolotto down e ammazzare i bambini con la medesima sindrome, appare sempre più l’ennesimo scherzo del Male. Eliminare i fratellini down e regalare ai bambini vivi una bambola è un gesto non solo vergognoso ma che deve interpellare le coscienze di tutti. Abituerà i bambini alla diversità? Penso che sia meglio abolire la pratica sanguinaria e razzista dell’eugenetica di molti ospedali pubblici, piuttosto che regalare un fantoccio di gomma con le sembianze dei fratellini. La realtà ci provoca, evitiamo superficialità.
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i chiamano Alfredo Mantici e Valerio Morucci, hanno operato a lungo in “clandestinità”, per lo Stato il primo, per un gruppo eversivo che si è macchiato di sangue il secondo. Proveremo a raccontare alcuni aspetti degli anni di piombo in una virtuale doppia intervista. Il punto di vista di chi analizzava documenti, studiava profili e cercava di aiutare le forze dell’ordine e i magistrati, contrapposto alle considerazioni di chi, armi alla mano, teorizzava una rivoluzione mai avvenuta e terrorizzava chi ostacolava la loro folle strategia. Un racconto non privo di sorprese che ci spiegherà, in parte, anche l’evoluzione dell’intelligence e il futuro dell’eversione.
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«Le Br non hanno mai mentito nei loro documenti» chiosa Mantici. «Qualcuno aveva capito, ma lo Stato non lo ascoltava» ribatte Morucci. Le parole fanno eco e rimbalzano sui soffitti affrescati di palazzo Antici Mattei, sede del Centro studi americani, dove una ristretta cerchia di uditori ascolta un seminario sul terrorismo organizzato dall’Institute for Global studies. Se guardi fuori dalla finestra vedi il selciato sconnesso di via Caetani, dove il grigio della strada sembra lasciare sospese le pareti di un altro edificio non privo di storia, dimora di papa Bonifacio VIII. E immagini la Renault 4 rossa col corpo del povero Aldo Moro riverso nel bagagliaio. «Il 1978 e il delitto Moro è stato senz’altro un punto di svolta da entrambi i fronti» spiega Alfredo Mantici, per trent’anni nel Sisde, fino a diventare direttore del settore analisi del Servizio interno per la sicurezza democratica. Per poi lasciare l’intelligence nostrana, pochi anni fa, durante un turn over voluto in ossequio allo spoil system, che ha privato il servizio di una memoria storica e speculativa che aveva scandagliato tantissimi episodi che hanno insanguinato il nostro Paese. Le Brigate Rosse e gli altri gruppi eversivi hanno fatto scorrere oltre al sangue delle vittime, fiumi d’inchiostro in libri e articoli. «Ci conoscevamo bene tutti, da Prima Linea in giù. Ogni membro di una banda eversiva era noto, venivamo dallo stesso movimento» puntualizza Valerio Morucci. Una carriera di sangue ed eversione, iniziata con la militanza politica nel Movimento del ’68. Poi il passaggio a Potere Operaio (quello di Toni Negri e Franco Piperno), organizzazione extraparlamentare, dove si occupò del servizio d’ordine. Una struttura, nota a pochi, che veniva chiamata «Lavoro illegale» e utilizzava le armi. E fin d’allora Morucci divenne esperto nel procacciare revolver e semiautomatiche, come spiega Mantici. E dopo l’estate del 1978 anche l’Organizzazione per la liberazione della Palestina si mise a fornire armi alle Br. «Quelli più attrezzati, i primi a maneggiare gli Ak-47 Kalashnikov, furono i membri di Prima Linea, non noi» si lamenta Morucci. «Forse Pl fu l’organizzazione che gestì meglio i collegamenti internazionali» ribatte Mantici. Erano quelli che si mettevano più facilmente al “servizio dei servizi” dei Paesi d’oltre Cortina. E la lotta tra servizi era anche una faccenda interna italiana. L’eterno conflitto tra Gianadelio Maletti, allora capo del controspionaggio del Sid (ufficio D) e Vito Miceli, prima direttore del Sios (il servizio militare) e poi del Sid, non era altro che
La guerra fredda e i contorni di un conflitto
C’eravamo t Stato e brigatisti a confronto. Alfredo Mantici, ex dirigente del Sisde e l’ex-br Valerio Morucci ricostruiscono il dramma degli anni Settanta di Pierre Chiartano
lo specchio di quella tra i loro referenti politici: Aldo Moro e Giulio Andreotti. Col Mossad in mezzo che faceva il suo gioco: a Israele importava avere un Paese nelle retrovie mediterranee che non fosse totalmente filoarabo. Si racconta anche che Morucci divenne tristemente noto per la “roulette russa” praticata ai danni di un compagno di Potop. Un sistema sbrigativo per ottenere la verità sul Rogo di Primavalle. Insomma, un duro dai modi spicci. Ma cominciamo con ordine. Eravamo nel 1978, l’ipotesi di compromesso storico stava prendendo forma e dopo un primo tentativo di coinvolgimento nel Pci, con la formula della non-sfiducia, si stava arrivando ad una collaborazione diretta dei comunisti. Il Parlamento avrebbe dovuto votare, su questa nuova formula, proprio il giorno in cui avvenne il rapimento del politico democristiano.
La destra democristiana non ne era però tanto convinta. Intanto si era attuata una convergenza d’interessi nella lotta al terrorismo, tra maggioranza filo-atlantica e opposizione di fede moscovita. O almeno una parte di essa, i secchiani stavano perdendo terreno. Nel 1977 c’era stata una riunione indetta dal ministro degli Interni “ombra” Ugo Pecchioli, i cui verbali furono resi noti qualche hanno fa dal Corriere della Sera. «Se avessimo letto quelle carte la nostra strategia sarebbe stata sostanzialmente diversa» commenta Morucci, che si disse stupefatto di leggere i con-
Mantici: «Le Br non erano all’altezza per comprendere tutte informazioni date da Aldo Moro. Lui parlò della Gladio e loro non se ne resero conto» tenuti di quelle carte: «Mi vennero i brividi». Sì, ma che dicevano? In pratica, Pecchioli aveva riunito i capi federazione delle province più calde sul fronte del terrorismo. E aveva raccolto le sconsolate considerazioni dei vertici locali del Pci che non riuscivano più a mobilitare la gente contro il terrorismo. Era un periodo strano, pieno di connivenze, anche solo di simpatie. Cominciato nel 1971 col famoso appello contro il commissario Calabresi, pubblicato sull’Espresso del 13 giugno. A rileggere certi nomi. «Norberto Bobbio, Lucio Colletti…» chiosa Mantici,
Qui a sinistra, Adriana Faranda. Sotto, il generale Usa J. L. Dozier. Nella foto grande, Aldo Moro. A sinistra in alto, una scena dal film “Prima Linea”. A destra in alto, Renato Curcio, in basso, Valerio Morucci
il paginone
o dove «esecuzioni sommarie» e «torture» erano parte del gioco
tanto odiati della lotta armata in Italia. Un conflitto che aveva preparato il terreno ad un compromesso “storico”. Intanto si combatteva una vera guerra tra Stato e terroristi condotta senza quartiere. «La tortura era un fatto comune e accettato da noi» stupisce un po’ Morucci. «È stata una procedura sistematica, dopo il caso Dozier e accettata anche all’interno delle istituzioni. I magistrati aspettavano dietro la porta, in attesa delle rivelazioni» dei terroristi catturati e torchiati, spiega l’esperto dell’allora Sisde (oggi Aisi). «Facemmo tradurre – rivela Mantici – un manuale carcerario giapponese degli anni Trenta. Anche loro avevano il problema di combattere i comunisti e tentare di farli dissociare una volta dietro le sbarre. Cossiga se ne innamorò». Ma veniamo al nocciolo della storia. Da una parte le Brigate rosse guardavano allo Stato, come avrebbe potuto fare solo dei comunisti. «Per noi era un Moloch e pensavano che gli apparati di sicurezza fossero onnipresenti. Da questa visione derivavano certe manie e procedure che ci imponevamo» chiosa l’ex brigatista coinvolto anche nel rapimento Moro.
tanto per citarne un paio, perché c’era il ghota dell’intellighenzia, del giornalismo e di qualche politico e sindacalista che aveva vergato quell’atto di accusa, prodromo all’omicidio del commissario. Insomma, se nelle fabbriche del nord – dopo qualche anno – la lotta armata avrebbe perso terreno, nel Paese l’area dei “non-antipatizzanti” cresceva. «Se le Br vanno avanti così, spaccheranno il movimento operaio. Vanno fermate» le parole di Pecchioli. Una «forza» che all’interno delle Brigate rosse non veniva percepita come tale, spiega invece Morucci.
Se fossero stati consapevoli di questa realtà, forse sarebbe cambiata la storia
«Le Br funzionavano come una piccola dittatura – spiega l’ex terrorista – dove il controllo della comunicazione era fondamentale» e c’è chi moriva anche solo per il volantinaggio nelle fabbriche. Per lo Stato la realtà era molto diversa e gli inizi furono difficilissimi. «In più, nel 1977, la riforma dei servizi tolse ai nostri uomini le funzioni di polizia politica. Non potevano neanche chiedere i documenti a un fermato», il controcanto di un’intelligence che si sentiva dimezzata. Invece la legislazione antiterrorismo procedeva a gonfie vele. Le leggi Cossiga prevedevano dodici anni solo per l’appartenenza ad un gruppo eversivo. Sette anni per porto illegale d’arma e non valeva il cumulo delle pene. «C’è chi si è fatto venti o addirittura trenta anni senza aver mai ucciso o ferito nessuno» spiega Alfredo Mantici. Ma anche il contesto italiano dalla fine degli anni Sessanta fino al fatidico 1978 aveva subito delle drastiche trasformazioni. La gente aveva cambiato modo di pensare. Ancora nel 1976 ai tempi del delitto del giudice Francesco Coco, l’aria era pesantissima e ancor più ambigua. «Il catenaccio dell’articolo del Corriere della Sera recitava: Coco «un uomo al centro di mille polemiche». «C’era ancora l’onda lunga del Sessantotto» racconta Mantici, per spiegare il clima d’ambiguità che si viveva allora. «Dopo il delitto Moro l’opinione pubblica sembra irregimentata, come nel 1915. Scatta la paletta rossa» conferma Valerio Morucci. L’impressione è però che molti protagonisti sul campo, in entrambi i fronti, non fossero all’altezza per capire bene i giochi che avvenivano sopra le loro teste. «Le Brigate rosse non avevamo gli strumenti
culturali per comprendere bene tutte informazioni contenute nei verbali degli interrogatori di Moro. Lui parlò della Gladio e loro non se ne resero conto. Nel caso Dozier non avevano a disposizione neanche una biografia per verificare le date. In altri casi, invece, dimostravano una conoscenza fin troppo approfondita. Nel 1982 – spiega Mantici – le Br compilano un opuscolo sul ministero del Bilancio. Ci domandammo il perché di un lavoro così antipolitico e pensammo subito ad un attentato contro l’allora ministro Beniamino Andreatta». Insomma, leggere bene i documenti con la stella cinque punte era molto utile e raccontava più di quanto ci si potesse immaginare. Ed è proprio leggendo un documento sul sequestro e omicidio del direttore del petrolchimico di Porto Marghera, Giuseppe Taliercio, «che comprendiamo che c’è una spaccatura interna alle Brigate rosse.
Morucci: «le armi migliori le usavano quelli di Prima Linea, compresi i Kalashnikov Ak-47». Mantici: «avevamo collegamenti con i servizi d’oltre Cortina»
L’arrivo di un personaggio da curva sud come Antonio Savasta, aveva provocato dissapori» spiega l’analista dell’allora Sisde. E cita un altro episodio del terrorismo nazionale, incasellato nella percezione pubblica come un segno di forza delle Br, che in realtà era stato un primo sintomo della china discendente del brigatismo armato. Siamo nel giugno 1981 a Roma, il giorno 19. I terroristi hanno pianificato una doppia operazione contro il vicequestore Sebastiano Vinci e l’avvocato Antonino De Vita. Il primo è responsabile del commissariato di Primavalle, un quartiere a nord della
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capitale, ed era da tempo nel mirino dei terroristi per le continue indagini che svolgeva. Di Vita era invece il difensore di Patrizio Peci, catturato a Torino durante una “fortuita”operazione dei carabinieri, sotto i portici di piazza Vittorio. Peci aveva cominciato a collaborare e otto giorni prima, l’11 giugno, le Br gli avevano ammazzato il fratello Roberto. Da aprile l’escalation era stata incredibile: Cirillo, Taliercio poi Sandrucci e il generale Dozier era ancora nelle mani dei terroristi.
«Tutti pensarono che quel doppio attentato fosse una prova dell’efficienza dei brigatisti. Fu tutt’altro» spiega Mantici. Le due cellule romane che avevano organizzato le operazioni non si fidavano l’una dell’altra. Il commando omicida contro il vicequestore era all’oscuro del gruppo che intendeva colpire il legale d’ufficio di Peci. Alle 13,20 quattro brigatisti, nascondendo le armi sotto dei giornali, circondano l’auto di Vinci ad un semaforo, all’incrocio tra via Battistini e via della Pineta Sacchetti. Con pochissimi minuti di scarto si muove l’altro gruppo di fuoco. L’avvocato rimane ferito e reagendo riesce a colpire anche la brigatista Natalia Ligas. Il vicequestore purtroppo muore e il suo autista, l’agente Votto, sopravvive per miracolo a numerose ferite. I luoghi dei due attentati non sono lontanissimi. «Anziché utilizzare delle vie di fuga divergenti, i due commando scelgono un percorso convergente, non sapendo l’uno dell’azione dell’altro. Un errore tattico da principianti» spiega il capo analista del Sisde. Così un gruppo incappa nei posti di blocco messi in piedi per l’altro attentato e viceversa. Ma errori, a quanto racconta Morucci ci furono anche da parte di molti magistrati. «Eccetto che per tre giudici con cui ho avuto a che fare – fra questi Violante – gli altri non erano in grado di capire neanche le cose dette in chiaro» il giudizio tranchant del brigatista pluriomicida. Oggi, per il brigatista dissociato non esistono più i presupposti per una lotta armata organizzata di quella natura. Ma non per il terrorismo tout court. E la trasformazione dei servizi, specialmente dopo 11 settembre 2001, verso un braccio attivo del law enforcement non trova tutti d’accordo. L’Aisi riempito di poliziotti e l’Aise di militari, potrebbe garantire efficienza solo puntando sulla formazione. Dunque la differenza fra intelligence e polizia giudiziaria risiederebbe nella differente natura delle due istituzioni. Il sogno di un’agenzia, tipo l’Fbi, è di arrestare bin Laden, quello di un servizio segreto sarebbe quello di arruolarlo, ci fanno capire. Le parole si spengono e rimangono i fatti. Basta volgere lo sguardo fuori da uno dei finestroni del palazzo, per vedere le ombre della sera disegnare i contorni di via Caetani. Ricordiamo che Morucci uccise, in via Fani, il caposcorta di Moro, Oreste Leonardi, e l’autista della Fiat 130 del presidente della Dc, Domenico Ricci. Condannato all’ergastolo ha scontato poco più di 22 anni di carcere per poi usufruire della legge per la dissociazione. Alfredo Mantici oggi lavora come dirigente alla Protezione civile. Si occupa della gestione di eventi straordinari come le pandemie. Loro ci hanno raccontato alcuni frammenti della storia insanguinata d’Italia.
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Scenari. Al Qaeda nel Maghreb islamico continua a fare paura sopra e sotto il Sahara. E sembra imbattibile
Osama l’Africano L’ombra dei fondamentalisti musulmani sul rapimento degli italiani in Mauritania di Osvaldo Baldacci l Qaeda nel Maghreb islamico. È questo lo spettro che incombe sul rapimento della coppia italiana in Mauritania. Fonti d’intelligence africana fanno trapelare che responsabili del sequestro possano essere i terroristi fedeli a bin Laden, e le modalità del rapimento sono state giudicate compatibili con tale ricostruzione. Poi però altre voci hanno iniziato a mettere in dubbio questa ipotesi e sono più propense ad attribuire l’azione a predoni del deserto, pur senza escludere il rischio di possibili successivi passaggi di mano. Ciò che è certo è che l’area del Sahara meridionale è diventata molto pericolosa seppure venga colpevolmente trascurata dai media occidentali. L’area che più direttamente interessa è quella del Sahel, una zona de-
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sertica tra Algeria, Mauritania, Mali e Ciad, che fa da ponte tra il Maghreb vero e proprio, vale a dire l’Africa nord-occidentale, e l’Africa centrale sub sahariana che si affaccia sul Golfo di Guinea. Un’immensa distesa quasi disabitata, ancora percorsa da carovane che spesso hanno a che fare con orrori come il traffico di migranti, il contrabbando di armi e droga, gli spostamenti di terroristi. A navigare in questo oceano di sabbia e roccia sono anche le tribù che qui sono nate, tra le quali i leggendari tuareg. Ma in una regione dove i confini sono solo fittizi e il controllo del territorio una vana illusione, ecco che si sono insediati anche veri e pericolosi gruppi terroristici, affiliati ad al Qaeda. Confusi tra i miraggi del deserto e i bagliori di guerre civili in corso nella zona, nelle vastità insondabili del Sahel si sono annidati i covi degli estremisti islamici armati, soprattutto a partire dall’Algeria. Sono alcuni anni che l’intelligence statunitense ma anche quella italiana denunciano il sorgere e l’espandersi di questo fenomeno, tanto più pericoloso perché crea un santuario di incubazione di una possibile nuova ondata di qaedisti. Un’ondata che si forma nel deserto meridionale, si incentra sul Maghreb e da lì può minacciare direttamente l’Europa. Per quanto riguarda il rapimento dei due italiani (un pensionato siciliano e sua moglie originaria del Burkina Faso e con doppia cittadinanza), esso è avvenuto nella Mauritania del sud, quindi alle propaggini estreme del Sahel. Sulla base di pochi indizi e di ciò che si sa del modus operandi dei fuorilegge della zona, è stato ritenuto molto verosimile che gli ostaggi siano stati subito trasferiti in basi sicure in Mali. Secondo alcuni il sequestro sarebbe opera dei
Guerriglieri fondamentalisti del gruppo islamico somalo al Shaabab. Pur essendo i meno coinvolti nel rapimento di occidentali, sembrano essere quelli più religiosamente fanatici. Vogliono imporre la sharia, la legge coranica, nella Somalia e nel Sudan. Sotto, Osama bin Laden: lo sceicco del terrore, latitante dal 2001, sembra aver benedetto la penetrazione islamica nel Continente Nero
terroristi di al Qaeda nel Maghreb islamico, la più temibile organizzazione della zona, che ha già operato in questo modo e tutt’ora ha in mano ostaggi occidentali. Ma ci sono altri elementi che fanno pensare che il sequestro è opera solo di banditi in cerca dei soldi del riscatto, e la prima preoccupazione dell’intelligence italiana è proprio quella di individuare bene i responsabili in modo da poter attivare i canali giusti per arrivare a una soluzione positiva della vicenda. Sbagliare interlocutori ora potrebbe comportare uno spreco di tempo ed energie preziose. Con il rischio che i rapiti possano passare di mano, magari da più malleabili bande di predoni a più fanatici elementi terroristici. Anche per questo è necessario il riserbo sul merito della vicenda.
Una tessera importante del puzzle è la vicenda di tre cooperanti spagnoli rapiti a novembre con modalità analoghe. Dopo un periodo di incertezza, in quel caso si è ormai accertato che i rapitori siano davvero legati ad al-Qaeda nel Maghreb Islamico. Infatti il presidente del Mali Amadoui Toumani sta mediando e sarebbe stato raggiunto un accordo perché i sequestratori forniscano un video come prova
Aqmi è stata protagonista di numerose azioni eclatanti nel Maghreb e di infinite imboscate quotidiane, ma ciò che più preoccupa è l’espansione della sua rete logistica in Spagna, Francia e Italia di esistenza in vita degli spagnoli, e dopo procedano a chiedere un riscatto di natura economica. Con i tre spagnoli sarebbe prigioniero anche un francese, Pierre Camatte (61 anni), sequestrato il 25 novembre in un hotel della città di Menaka, in Mali. I quattro sarebbero nelle mani del gruppo più oltranzista di al Qaeda, quello di Abu Zaid, ma ciò non toglie che la liberazione a mezzo riscatto resti l’ipotesi più probabile, dato che i gruppi della zona, anche i più estremisti, al momento sembrano più interessati al denaro che ad altro. Quest’anno infatti tra gli ostaggi presi nella regione è stato ucciso solo un cittadino inglese. Nel 2005, due cittadini del Qatar inviati dall’emiro per trovare una zona idonea per la caccia degli uccelli furono catturati dagli estremisti e liberati in cambio di 300mila euro. Il 22 febbraio del 2008, furono sequestrati due turisti austriaci a sud di Tunisi e trattenuti per otto mesi. A dicembre dello stesso anno furono sequestrati due diploma-
tici canadesi dell’Onu nella regione del Niamey (Niger), liberati nel nord del Mali il 21 aprile di quest’anno.
Nel gennaio del 2009, quattro turisti europei (una coppia svizzera, una settantenne tedesca e un britannico) furono sequestrati alla frontiera tra Mali e Niger; al Qaeda liberò la coppia il 21 aprile e la tedesca il 12 luglio; il 3 giugno annunciò invece di aver assassinato per la prima volta un occidentale, il turista britannico Edwin Diyer: i terroristi sostennero che l’esecuzione era dovuta alla decisione del governo britannico di non liberare lo sceicco Abu Qutaba, un ideologo di al Qaeda, ma secondo fonti mauritane, Londra invece non aveva voluto pagare mezzo milione di sterline. C’è però da dire che il rapimento degli italiani è avvenuto ben mille chilometri a sud dell’imboscata agli spagnoli, e questo farebbe propendere per un gruppo diverso da al-Qaeda. I rapitori si sarebbero appostati, di notte, lungo la stra-
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contributi umanitari che creino le infrastrutture e il consenso per tenere la popolazione dalla parte delle autorità. La Psi è stata una iniziativa di cooperazione intergovernativa militare internazionale lanciata nel novembre 2002 dall’amministrazione Bush al fine di proteggere i confini, tracciare i movimenti delle persone, combattere il terrorismo islamista e rafforzare la cooperazione e la stabilità regionale nell’Africa Nord-Occidentale.
L’iniziativa, all’origine, prevedeva un team anti-terroristico di 500 soldati americani in Mauritania, e 400 ranger dispiegati sul confine Niger-Ciad. Tra 2002 e 2005, la PSI ha aiutato a formare ed equipaggiare almeno una compagnia militare di reazione rapida nei quattro Paesi coinvolti (Mali, Mauritania, Niger e Ciad). Ma non senza problemi: in autunno l’Algeria ha denunciato che non è riuscita a partire una imponente operazione militare congiunta tra i quattro Paesi per spazzare via i terroristi dal Sahel. Secondo Algeri gli impedimenti sarebbero arrivati da Parigi e Washington che non si sono fidate di affidare la direzione dei lavori agli algerini. Da giugno 2005 è attivo tra alti e bassi anche un altro program-
sti che da qui partono per agire altrove. In Niger ribellioni croniche si intrecciano con una grave crisi politica e un ruolo pesante dell’esercito. Condizioni simili vivono molti altri Paesi della regione, primo fra tutti il Ciad, coinvolto da una perenne guerra civile intrecciata anche ai problemi del Darfur sudanese, da cui peraltro partirebbe anche un traffico d’armi che raggiunge al-Qaeda nel Maghreb Islamico. Occorre poi ricordare il conflitto nel Sahara occidentale, dove gli indipendentisti Saharawi appoggiati dall’Algeria si contrappongono al dominio marocchino. D’altro canto lo stesso Marocco come è noto non è immune alle infiltrazioni qaediste le cui reti si occupano di arruolamento e di logistica ma hanno compiuto anche numerosi gravi attentati. Si tratta in particolare del Gruppi Islamico Combattente Marocchino, che ci aiuta a ricollegarci con al Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi). Questa sigla infatti nasce nel 2006 con una formale sottomissione a Bin laden e si caratterizza per essere il più attivo ed efficace dei gruppi regionali di al-Qaeda. La “nuova” formazione nasceva dal Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, l’ala algerina più estremista che via via si
Nel 2002 gli Stati Uniti hanno lanciato la “Pan-Sahel Initiative”: forze euro-americane che si occupano di addestrare e sostenere le forze dell’ordine locali in chiave antiterrorismo logistico, in cambio dividono con le tribù locali i loro profitti provenienti dai sequestri e dal contrabbando, e in più forniscono addestramento, armi, esplosivi e mezzi di comunicazione ai numerosi gruppi di insorti e ribelli, berberi, tuareg, tribù di varia natura in lotta con i vari governi della regione: lampi di guerra civile infatti sono presenti in Niger come in Mali e nel Sahara occidentale, per non parlare dei colpi di Stato in Mauritania e delle crisi croniche in Ciad e a più lungo raggio negli Stati centrafricani, del Golfo di Guinea e fino in Sudan. Realtà solo apparentemente lontane, in quanto tenute in comunicazione proprio dall’immenso oceano di sabbia del Sahara tramite lo svincolo cruciale del Sahel.
da Aioun (Mauritania) - Kayes (Mali), in prossimità della località mauritana di N’Eissira, a solo qualche chilometro dalla frontiera con il Mali, nel sud. Gli spagnoli invece sarebbero stati sequestrati all’estremità opposta, settentrionale, della Mauritania. Resta il fatto che tutta la regione versa in gravi condizioni di insicurezza e instabilità. La legalità statale in quelle aree desertiche stenta ad affermarsi, e
se vige una legge è quella delle tribù locali. Queste hanno spesso rapporti controversi tanto con gli Stati quanto con i gruppi di ribelli e guerriglieri così come con i terroristi arrivati negli ultimi anni. Questi ultimi si sono infiltrati nella regione alla ricerca di rifugi sicuri e hanno creato dei sistemi di alleanze con i locali basate sulla reciproca convenienza. I terroristi ottengono copertura e appoggio
Tutto ciò ha comunque destato l’attenzione dei governi occidentali, e specie degli Usa. Occorre infatti ricordare che nella regione operano un paio di missioni antiterrorismo. Nel 2002 è stata avviata la “Pan-Sahel Initiative” (Psi), che coinvolge appunto Mauritania, Ciad, Mali e Niger, supportati da forze euroamericane che si occupano di addestrare e sostenere le forze dell’ordine locali in chiave antiterrorismo, senza dimenticare
ma internazionale ancora più mirato all’antiterrorismo, la Trans-Saharan Counter Terrorism Initiative (Tscti), estesa al di fuori del Sahel anche a Marocco, Algeria, Tunisia, Senegal e Nigeria. Ma non si tratta di Paesi facili. Esempio ne è la stessa Mauritania teatro degli ultimi rapimenti di occidentali. Il paese è schierato saldamente nel campo occidentale, ed è persino uno dei pochissimi Stati arabi a riconoscere Israele. Già questo lascia spazio agli estremisti per agire negli ambienti marginali. Inoltre però la Mauritania sta sperimentando la democrazia, ma con molta fatica. Colpi di Stato e pulsioni integraliste sono infatti tipiche di Nouakchott, e l’ultimo golpe rovesciò il primo presidente democraticamente eletto nel Paese e risale appena al 2008, quando prese il potere il generale Mohammed Ould Abdel Aziz, poi confermato con elezioni riconosciute come democratiche lo scorso 19 luglio. In questi anni la Mauritania ha subito numerosi attacchi da parte di al Qaeda, fino all’uccisione di un cittadino americano. Situazione diversa in Mali, le cui regioni settentrionali sono scosse da una latente ribellione dei tuareg e delle tribù locali e sembrano essere diventate il rifugio preferito anche dei terrori-
era distaccata dal Gruppo Islamico Armato (Gia) e dal Fronte Islamico di Salvezza (Fis).
Aqmi quindi continua a condurre una lotta essenzialmente interna all’Algeria, una guerra civile decennale costata decine di migliaia di morti, ma ambisce anche a legarsi alla lotta internazionalista e millenarista di Bin Laden e ad unificare sotto la propria guida gli altri gruppi armati fondamentalisti del Maghreb: i marocchini, i libici, i tunisini. Aqmi è stata protagonista di numerose azioni eclatanti nel Maghreb e di infinite imboscate quotidiane, ma ciò che più preoccupa è l’espansione della sua rete logistica in Spagna, Francia e Italia. Anche se finora nonostante i duri proclami legati alla propria ideologia salafita (che cioè predica il ritorno a una immaginaria purezza originaria dell’islam) e la straordinaria ferocia in patria, Aqmi non ha mostrato interesse ad esportare in Europa la sua jihad. Anzi, semmai si può dire che a fronte della sua guerra senza tregua si è poi spesso dimostrata nei fatti disponibile ad occuparsi di attività meno idealistiche e più produttive, come i sequestri, il traffico di droga dal Sudamerica all’Europa, il contrabbando, il traffico di clandestini.
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Analisi. La vera speranza va riposta nella Conferenza sul nucleare del 2010 on è carino parlare di bombe atomiche in clima natalizio. Nemmeno di quelle piccole. Ma tant’è.Visto che l’accordo russo-americano per la riduzione degli armamenti strategici sembra ormai cosa fatta - l’annuncio congiunto potrebbe arrivare prima di Natale - nel prenderne atto con soddisfazione è bene ricordare, rischiando forse qualche delusione, che l’accordo non ha nulla a che vedere né con l’osannata “opzione zero” di Obama, né con una moratoria nucleare che non ha mai funzionato. Le bombe atomiche resteranno ancora a lungo negli arsenali, anche se in numero drasticamente ridotto. Ma si parla pur sempre di alcune migliaia, non tutte in mani occidentali, una piccola parte delle quali sarebbe già sufficiente a distruggere il pianeta. L’atomica purtroppo c’è, e non si può “disinventare”. È come volersi liberare di un boomerang, che ti ritorna sempre indietro. Vediamo quali sono gli impedimenti, da dove vengono le difficoltà e sentiamo anche le ragioni di coloro che non intendono affatto disfarsene. Per lo meno, non di tutte. Il primo passo per arrivare, forse, a un mondo libero dal terrore nucleare non è tanto la riduzione degli arsenali esistenti, quanto la garanzia della non proliferazione. Se questa garanzia non c’é, è inutile continuare. Ma ottenerla è difficile, anche in presenza di un Trattato firmato da quasi tutti.
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Il problema è proprio il “quasi”, ma c’è anche chi, come l’Iran che a suo tempo lo aveva sottoscritto, ora è recalcitrante. Nel 2010 ci sarà la grande conferenza dell’Onu per il riesame del Trattato di Non Proliferazione (TNP), la cui commissione preparatoria ha lavorato bene a New York, per un paio di settimane, nel maggio di quest’anno. In questa sede si era concordato che il riesame del 2010 potrà avere successo solo se sarà rafforzato il sistema dei controlli, se si riconoscerà che tutti gli Stati aderenti hanno diritto, senza discriminazioni, all’impiego pacifico dell’energia nucleare civile e se sarà possibile porre in atto severi meccanismi di sanzione in caso di violazione degli accordi. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) aveva cercato di sottoscrivere, con ciascuno dei 189
Usa-Russia, lo Start non elimina la Bomba L’annuncio potrebbe arrivare a Natale Ma non abolirà le atomiche dal mondo di Mario Arpino
Paesi aderenti al Trattato, un protocollo addizionale relativo ai controlli, ma solo in 122 lo hanno firmato, e tra questi non ci sono Teheran e Brasilia. Questo è e sarà nel 2010 un punto nodale, perché con la crescita dei reattori nucleari nel mondo (471 esistenti o in fase di costruzione e oltre 200 in progetto), senza “poteri forti” per l’Agenzia sarà sempre più difficile monitorizzare l’eventuale loro possibile uso per scopi militari. Ma anche Cina, Russia, India e Pakistan - e forse Israele - stanno marciando nella direzione opposta e alcuni stanno anzi tentando di incrementare i loro arsenali. Nell’ambito della stessa compagine occidentale, la Francia ha appena ammodernato la sua force de frappe, che avrà una vita tecnica di altri trent’anni, il Regno Unito sta cercando di ammodernare la sua flotta di sot-
Nessuno vuole davvero che l’America diventi, dal punto di vista militare, uno Stato come tutti gli altri. Gli analisti la pensano molto diversamente tomarini nucleari e la Nato segnatamente la Germania resiste alla proposta di ritirare le poche bombe tattiche con doppia chiave (nazionale e statunitense) ancora dislocate in Europa. Ma, anche negli Stati Uniti, il plauso alla suggestiva proposta di Barack Obama è assai cauto, e l’unanimità non è data per scontata. Nessuno vuole davvero che l’America diventi uno Stato come tutti gli altri. Anzi, gli analisti la pensano molto diversamente.
Il succo del loro ragionamento non fa una piega, e si basa sulla possibilità, o meno, di esercitare la deterrenza nel ventunesimo secolo. Gli Stati Uniti - affermano costoro - a meno che le problematiche regionali esistenti non si dissolvano d’incanto, oppure decidano di ritirarsi in modo deliberato dalle aree cruciali (pe-
nisola coreana, mare di Taiwan e dintorni del Golfo Persico), potrebbero trovarsi prima o poi involontariamente impegnati in conflitti convenzionali con avversari che dispongono di armamento nucleare. La forza convenzionale degli Stati Uniti, in termini di mezzi moderni e di armamenti, è significativamente superiore a quella di ciascuno degli attori nelle tre aree, e potrebbe quindi tendere a prevalere già nel brevemedio termine. Ciò porterebbe i leaders avversari a temere di fare la fine di Noriega, di Radovan Karadzic, di Slobodan Milosevic o di Saddam Hussein. Anche il mullah Omar e Osama bin Laden, perennemente in fuga, non dormono sonni tranquilli, e nemmeno questa è una bella prospettiva. Per alcuni di questi capi, quelli che se lo possono permettere, l’idea di evitare la
disfatta e il conseguente “regime change”ricorrendo all’uso del proprio arsenale nucleare per fermare una insuperabile sfida convenzionale potrebbe essere allora l’ultima risorsa. E presumibilmente - dicono gli analisti - non avendo più niente da perdere, la userebbero. In fondo, l’uso di attacchi nucleari mirati con armamento nucleare tattico durante la Guerra Fredda era previsto anche dalla Nato, per fermare lo strapotere convenzionale sovietico in caso di invasione. I futuri avversari degli Stati Uniti, in quelle aree, si troverebbero a dover far fronte allo stesso problema. Solo il deterrente nucleare, se credibile, potrebbe allora offrire al presidente degli Stati Uniti tutte le opzioni necessarie. I mezzi non sono più le bombe ad altissimo potenziale montate sulle testate dei Minuteman nel 1985, accurate al 60 per cento, ma accuratissimi ordigni di limitata potenza con precisione al 99 per cento, oggi montati sui Trident II e sui Cruise. Le mininukes, secondo i sostenitori di queste idee, sarebbero quindi i mezzi ideali per la deterrenza americana nel ventunesimo secolo. Sono credibili, perché potrebbero essere usate. Non si sa mai…
Da tutti questi ragionamenti va tratta qualche deduzione. La dismissione unilaterale all’arma nucleare non sembrerebbe, allo stato attuale, né pensabile, né fattibile. Se i pochi paesi che attualmente la possiedono e sono padroni di quelle tecnologie che danno loro un vantaggio asimmetrico decidessero, tutti assieme, di rinunciarvi contemporaneamente, allora la procedura avrebbe un senso. È tuttavia improbabile che succeda e, anche in caso positivo, le implicazioni potrebbero essere non controllabili. Tra le probabilità, l’attizzarsi immediato dei conflitti “freddi”, svincolati ora dal tabù nucleare. Una destabilizzante e dispendiosa corsa agli armamenti convenzionali o, in alternativa, il tentativo di dotarsi di armi nucleari da parte di realtà statuali e non, che finalmente potrebbero porsi in situazione di vantaggio. Menti, formule, tecnologia e ingredienti sono ormai disponibili e il loro controllo efficace, come abbiamo già visto, è di là da venire. L’“opzione zero” mantiene però il suo fascino, anche se ha bisogno di un mondo totalmente pacifico, dove né le armi nucleari né quelle convenzionali siano di alcuna utilità. Ma é un mondo che non esiste, nemmeno a Natale. Peccato!
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Il primo ministro libanese incontra Bashar el Assad
Secondo le autorità, i ladri non fanno parte di gruppi neonazisti
Hariri in Siria: «Momento storico per i due Paesi»
Ritrovata in Polonia l’insegna di Auschwitz
BEIRUT. Una visita «storica, ca-
VARSAVIA. La polizia polacca ha ritrovato l’insegna Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi) che campeggiava all’ingresso del lager nazista di Auschwitz, in Polonia. La targa, considerata uno dei simboli del genocidio degli ebrei, era stata rubata venerdì scorso, suscitando un’ondata di indignazione in tutto il mondo. Per il furto sono finiti in manette cinque uomini, tra i 20 e i 39 anni, attualmente detenuti a Cracovia. Gli arrestati non fanno parte di gruppi neonazisti e hanno probabilmente agito per denaro, secondo quanto dichiarato dal capo della polizia di Cracovia, Andrzej Rokita, poche ore dopo il ritrovamento. «Possiamo dire che nessuno dei cinque fa-
ratterizzata da colloqui amichevoli, aperti, positivi e utili a stemperare il clima di tensione fra Libano e Siria». Così il premier libanese Saad Hariri ha definito la due giorni a Damasco, che si chiude oggi, durante la quale ha incontrato per tre volte il presidente siriano Bashar al-Assad. Durante il faccia a faccia si è parlato di “definizione dei confini” fra i due Paesi e propositi di collaborare per il futuro. Nessun accenno, invece, all’assassinio di Rafic Hariri, dietro il quale vi sarebbe la mano del governo siriano. In una conferenza stampa all’ambasciata libanese a Damasco, aperta da meno di un anno, il premier Hariri ha auspicato «relazioni privilegiate, sincere e franche» con la Siria, nell’interesse «dei due Stati e dei due popoli». Egli ha anche confermato una serie di accordi con il presidente Assad «su varie questioni come la definizione dei confini».
Dietro il vertice fra Siria e Libano, coinciso con la prima visita ufficiale di Hariri, vi sarebbe il lavoro diplomatico dell’Arabia Saudita. Ryadh, conferma il premier libanese, ha svolto «un ruolo importante» nel processo di riavvicinamento. Tuttavia l’incontro ha scatena-
Sì del Senato americano alla riforma sanitaria Ma il testo di legge perde ancora pezzi per strada di Massimo Ciullo econdo le più ottimistiche previsioni, entro Natale la riforma del sistema sanitario nazionale Usa completerà il suo iter al Senato e permetterà alla Casa Bianca di portare finalmente a compimento uno dei principali obiettivi del presidente Obama. Con 60 voti a favore è stata approvata ieri una mozione procedurale che apre la strada per la votazione definitiva del testo prima del 25 dicembre. La votazione è avvenuta in piena notte e i democratici hanno tutti votato a favore per la prima di una serie di tre mozioni che di fatto faranno concludere il dibattito. Il voto procedurale dei senatori consente di evitare ogni manovra di ostruzionismo da parte dei repubblicani, contrari alla riforma. Nel sistema istituzionale Usa il voto favorevole di 60 senatori permette di evitare il cosiddetto filibuster, l’ostruzionismo ad oltranza da parte della minoranza, che può impedire il passaggio alla votazione in aula riuscendo ad avere dalla sua anche un solo dissidente. Naturalmente l’unanimità dei democratici ha avuto un prezzo non indifferente: dalla riforma voluta da Obama sparirà la “public option”, la possibilità dell’istituzione di un ente pubblico di assicurazione. Ciò ha provocato diversi malumori, soprattutto tra i sostenitori più “a sinistra”del presidente Usa. I primi ad esprimere ad alta voce la loro delusione sono stati gli attivisti di Moveon, movimento di riferimento della sinistra liberal americana. Un testo in cui «non c’è la public option, non c’è l’allargamento del Medicare, fa veramente troppo poco per garantire che gli americani senza assistenza siano effettivamente in grado di potersi permettere l’assicurazione che dovranno pagarsi», si legge in un’e-mail inviata fatta circolare tra i simpatizzanti. Le speranze dei radicali erano riposte nei tre senatori liberal Bernie Sanders, Roland Burris e Russ Feingold, investiti del poco piacevole compito di bloccare il passaggio del testo. Ma nessuno dei tre, tutti grandi sostenitori dell’ente pubblico di assicurazione, ha avuto abbastanza coraggio per portare fino in
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fondo la propria battaglia ed essere magari etichettato come “traditore” dai propri compagni. Prima del voto Feingold ha spiegato le ragioni per cui avrebbe votato a favore della legge: «Anche se la perdita della public option è amara da digerire, nel complesso la legge ancora assicura una riforma significativa ed il costo dell’inazione sarebbe troppo alto».
Ma il senatore del Wisconsin non manca di accusare l’amministrazione Obama di aver decretato la morte dell’ente di assicurazione pubblico: «La mancanza di sostegno da parte dell’amministrazione ha reso arduo il nostro sforzo per difenderlo. Rimuoverlo dal testo è stato un errore ed eliminerà il risparmio di 25 miliardi di dollari». Feingold si è poi impegnato a battersi durante i negoziati tra Camera e Senato per riuscire a far resuscitare, ancora una volta, la public option nel testo finale. Altre due consultazioni sull’argomento sono previste al Senato questa settimana. Dopo l’eventuale approvazione dei senatori, il testo dovrà essere adattato a quello già adottato alla Camera. Il testo comune, nei desiderata della Casa Bianca, dovrebbe essere licenziato entro la fine di gennaio. Per raggiungere un compromesso è previsto ancora un difficile negoziato. Il progetto di legge punta a garantire l’assistenza sanitaria ai 30 milioni di statunitensi poveri che ne sono privi. Dopo diverse ore, tutti i 58 deputati democratici e due alleati indipendenti hanno raggiunto un compromesso per terminare il dibattito sul disegno di legge. Ad esprimere voto contrario sono stati invece 40 senatori repubblicani. «Quello che realmente uccide ogni giorno diversi americani sono le complicazioni del nostro sistema sanitario», ha detto poco prima dello scrutinio il leader della maggioranza democratica al Senato, Harry Reid. Mentre il senatore Mitch McConnell, leader della minoranza repubblicana, ha continuato fino alla fine a sperare che un «solo voto contrario» avrebbe potuto fermare «qualsiasi decisione» sullo spinosissimo argomento.
Dal decreto è sparita la “public option”, la possibilità dell’istituzione formale di un ente pubblico di assicurazione
to le critiche di una larga parte dell’opinione pubblica libanese. Il timore è che sia un segnale della rinnovata influenza di Damasco nella politica interna, dopo 30 anni di dominio del potente vicino nel Paese dei cedri. Le truppe siriane hanno abbandonato il Libano nel 2005, in seguito a una rivolta popolare scatenata dopo l’assassinio dell’ex primo ministro Rafic Hariri. Il Tribunale speciale Onu ha parlato di coinvolgimenti di frange siriane nell’attentato. Negli ultimi tempi, tuttavia, gli Stati Uniti e il blocco occidentale hanno abbandonato la politica di isolamento verso Damasco, riallacciando i rapporti diplomatici fra le due nazioni.
ceva parte di un gruppo neonazista», ha affermato, escludendo un intento politico da parte degli autori del furto.
Rokita ha aggiunto che si cercherà di stabilire «se questo crimine è avvenuto su commissione o se i ladri hanno agito di loro iniziativa». I cinque sono stati arrestati alle prime ore dell’alba e poi trasferiti alla stazione di polizia di Cracovia. Il portavoce del Museo Auschwitz-Birkenau, Pawel Sawicki, ha assicurato che l’insegna, che è stata tagliata dai ladri in tre parti, tornerà al suo posto all’ingresso del lager di Auschiwitz. Sawicki ha inoltre annunciato che saranno aumentate le misure di sicurezza nell’ex campo di sterminio ora diventato un museo, visitato in media da un milione di persone ogni anno. Non è chiaro se l’insegna - lunga cinque metri e forgiata da un deportato - sarà di nuovo al suo posto il prossimo 27 gennaio, in occasione del 65esimo anniversario della liberazione del campo da parte dei soldati sovietici. Ad Auschwitz e nel vicino campo di Birkenau, i nazisti uccisero oltre un milione di persone, in maggioranza ebrei. Le autorità polacche avevano fatto del ritrovamento della targa una priorità nazionale.
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Esposizioni. “Secondi che hanno fatto la storia”, il tributo al grande artista del museo Martin Gropius Bau di Berlino
Il doppio volto della Ddr Viaggio nel passato con il fotografo Schmitt Tra oppositori al regime e sostenitori socialisti di Andrea D’Addio
BERLINO. Harald Schmitt era solo un adolescente quando il papà gli parlò, regalandogli una macchina fotografica, di quanto potesse essere entusiasmante diventare fotografo professionista: «Viaggi intorno al mondo, vivi migliaia di avventure, impari continuamente nuove cose e c’è gente che ti paga per fare tutto questo». Fu così che Schmitt junior decise che quel lavoro che si dice di volere fare da piccoli, sarebbe stato il fotografo. Un proposito che l’ormai sessantunenne di Coblenza è riuscito nel tempo non solo a realizzare, ma diventandone uno dei più importanti rappresentanti della nostra epoca. Ne è prova il tributo che gli ha dedicato in questi giorni il Martin Gropius Bau di Berlino, uno dei principali musei della capitale tedesca.
e compagni volevano che fuoriuscisse dalla Germania dell’Est ce ne si accorse solo nel 1983, quando gli fu negato il rinnovo del visto così come fece poco dopo la Polonia. Nel frattempo Schmidt si era innamorato di una berlinese orientale che riuscì, grazie alle sue conoscenze, a portare con sé dall’altra parte del muro e in seguito a sposare. Il socialismo gli era però entrato nel cuore: non in quanto ideologia, ma come tematica da sviluppare. Fu per questo che negli anni successivi, soprattutto tra il 1988 e il 1990, Schmitt si recò in tutti i
la Germania dell’Est era per me come visitare in un paese dall’altra parte del mondo. Qualsiasi cosa vedessi, era per me una prima volta. Fotografavo tutto ciò che vedevo».
Così Schmitt spiega, nei pannelli posti accanto alle varie foto, le ragioni di quei tanti scatti che ora testimoniano una vita al di là del muro di cui la stampa occidentale non riuscì mai a occuparsi con profondità. Non certo improvvisati, ma emblemi di una profonda conoscenza delle dinamiche interne della Ddr, sono invece gli scatti realizzati da Schmitt al dirigente socialista Markus Wolf (“l’uomo invisibile” della Stasi, di cui nessuno conosceva il volto), a Rainer Eppelmann (il pastore protestante che nell’89 guiderà le proteste nelle chiese di Dresda e Lipsia) e a Robert Havemann, uno dei maggiori dissidenti interni del regime, costretto dalla metà degli anni ’60 agli arresti domiciliari. Ricorda Schmitt: «Havemann non poteva lasciare la sua proprietà e così lo fotografai davanti una finestra della sua abitazione. Fu un incontro breve, non parlammo di nulla di importante, sapevamo di essere controllati e così, quando gli posi un paio di domande non banali, lui invece che rispondermi a voce, mi scrisse il
Gli scatti sulla Berlino Est compongono la prima parte della mostra. La seconda offre alcuni reportage sui Paesi dell’ex blocco sovietico
La mostra si chiama Harald Schmitt, secondi che hanno fatto la storia e raccoglie 120, emblematici scatti realizzati dal fotografo tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’90. Circa 12 anni di momenti immortalati dalle lenti di un obiettivo che rifletteva prima di tutto la vita stessa di Schmitt. Trasferitosi nel 1978 nella Germania dell’Est come corrispondente ufficiale del settimanale Stern, Schmitt poté vivere la doppia anima della Ddr. Nel privato si muoveva come un qualsiasi cittadino orientale, frequentando ballhaus, girando in Trabant e partecipando segretamente a dibattiti con gli oppositori del regime, nella vita pubblica invece seguiva tutti gli avvenimenti ufficiali del governo socialista, accompagnando persino Honecker in alcuni suoi viaggi intercontinentali (come in Zambia e in Giappone). Tra i tanti, ma allo stesso tempo pochi, giornalisti e fotografi occidentali accreditati dalla Ddr, Schmitt fu tra quelli più coinvolti nelle tante situazioni istituzionali nonostante le sue fotografie non fossero mai celebrative, ma lasciassero comprendere l’artificialità delle situazioni. Che il suo sguardo non fosse quello che Honecker
Paesi dell’ex blocco sovietico per raccontare con le immagini in prima persona il crollo di un mondo. I sei anni passati a Berlino Est compongono la prima parte della mostra.Vi si alternano scatti ufficiali a tante, emblematiche fotografie di vita quotidiana. Ecco quindi le code davanti all’Intershop, le parate d’ordinanza, un anziano con le stampelle che rivernicia la propria vecchia auto, una coppia al passeggio mentre sullo sfondo si staglia l’antenna di Alexanderplatz e un poster gigante della propaganda di regime in cui è scritto “Il socialismo è la migliore profilassi”. «Stare nel-
suo pensiero con la macchina da scrivere». Schmitt fu anche uno dei pochi fotografi a essere presente alle manifestazioni per la libertà dei primi anni ’80 a Jena e a Dresda: «Mi commosse vedere tanti giovani con un’idea
precisa su ciò che significava essere dell’Ovest. Un’idea più bella della realtà, ma che dava loro molta forza e convinzione. In quei primi movimenti c’era un’idea di pace che sarebbe risultata fondamentale per fare cadere il muro nel 1989». La seconda parte della mostra si compone dei diversi reportage sul crollo dei Paesi dell’ex blocco sovietico. È una sezione meno originale, forse, di quella dedicata alla Ddr (in questi casi Schmitt si reca in posti dove è già successo qualcosa), ma comunque interessante. Si comincia dalla Polonia del 1980 e si passa poi, con uno sbalzo di 9 anni, alle immagini di quell’effetto domino che, partendo dal muro di Berlino, si riversò su tutto l’Est Europa. Dalla Polonia dell’agosto del 1980 provengono due foto di Lech Walesa, prima portato in spalla da suoi festanti connazionali poi stretto in mezzo a
cultura
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Fino al 7 febbraio 2010, i due artisti in mostra al Märkisches Museum
Erich e Oskar, le matite dello “zoo” di Berlino
Entrambi vignettisti, il primo raccontava la città dell’Ovest Il secondo, più creativo, lavorava dall’altra parte del Muro BERLINO. Con la mano sinistra tiene un mitra, con la destra una matita con cui segna gli anni che passano. Non ha un foglio davanti, ma una parete. Non è in galera, ma quel muro che gli è davanti lo tiene comunque prigioniero, prigioniero nel suo Paese: la Ddr. Lui è un poliziotto “democratico”, un rappresentante di quella Volkspolizei che deve impedire ai propri concittadini di scavalcare e ritrovarsi dall’altra parte del mondo, una città chiusa dal muro, eppure più libera dell’altra, stavolta davvero, circoscritta metà.
Sopra e a destra, due vignette sulla vita ai tempi della Ddr di Oskar e Erich Schmidt. In alto e nella pagina a fianco, alcuni significativi scatti del grande fotografo Harald Schmitt loro mentre aspetta la partenza di un corteo. Della seconda serie di esperienze fanno invece parte le immagini dei quattro uomini saliti sul tetto del Central Committee di Mosca con in mano una bandiera della Russia, Alexander Dubcek e Vaclav Havel che brindano alla liberazione della Cecoslovacchia dopo la rivoluzione di velluto, una statua di Lenin abbattuta e posata per terra (un’immagine che verrà ripresa in una splendida scena di Goodbye Lenin) nella Lituania del ’91, scene di pianto tra mamma e figlio in Lettonia e Michail Gorbaciov che si presenta alla nazione pochi giorni dopo il mancato colpo di stato dell’agosto 1991. Non c’è un posto a Est che Schmitt non abbia calcato per riportare attraverso il suo obiettivo la fine di un mondo. Fu per questo che, nel maggio dell’89, il fotografo tedesco partì anche
per la Cina. Lì non vide l’epilogo di nessun regime, ma “solo” quella di tanti ragazzi morti perché in quel comunismo non si riconoscevano e speravano che il vento dell’Ovest arrivasse da loro.
Così non fu: a piazza Tiananmen le biciclette si trasformarono in ambulanze per civili su cui la polizia continuava a sparare e le bandiere sventolate in segno di protesta un punto di richiamo per i mirini delle armi da fuoco. Fu un massacro. Chissà se il futuro riserverà a Herald Schmitt un’altra occasione per raccontare anche la fine del regime cinese. Non è più un “vero” Paese comunista, ma il suo sprezzo per tante libertà individuali e per alcuni diritti fondamentali dell’uomo ricordano quei tanti sistemi già visti morire dall’interno nel recente passato.
Con questo disegno il vignettista OSKAR (nome d’arte di Hans Bierbrauer) celebrò sul Berliner Morgenpost il decimo anniversario dalla costruzione del muro. Era il 1971 ed era già ben chiaro a tutti come i veri prigionieri di quel misto di cemento armato e acciaio fossero i berlinesi dell’Est. Amara ironia, impossibile prescinderne per sdrammatizzare una situazione ambientale sempre tesa, sempre da “prima pagina”. Dall’altra parte del muro, a provare a rendere la “pillola” meno amara, ci provava Erich Schmidt. Anche lui vignettista, anche lui dotato di quel senso dell’umorismo capace di prendere il quotidiano e trasformarlo (o almeno provare a farlo) in piccole situazioni emblematiche su cui sorridere e al contempo riflettere. La sua vetrina erano le pagine del Berliner Zeitung. Certo, l’ironia, era minore, difficile scherzare sui pregi dell’Est e sui difetti dell’Ovest apparendo credibile agli occhi di chi viveva limitazioni continue, ma i suoi concittadini dovevano pur potere tirarsi su un poco il morale e potere continuare a credere in un sistema ideologicamente e moralmente “più giusto”. La contrapposizione tra questi due vignettisti, ognuno testimone con le proprie opere di una città continuamente costretta a confrontarsi con se stessa, è al centro della mostra OSKAR vs. Erich Schmidt, ospitata fino al 7 febbraio presso il Märkisches Museum di Berlino. Centoventi vignette, sessanta per ogni autore, messe fianco a fianco per capire un po’ il quotidiano di una guerra fredda vista dal suo epicentro, dove non si trattava solo di comunismo contro capitalismo, ma di mangiare, bere, andare al cinema, leggere i giornali. In poche parole: vivere. Impossibile dire chi fosse il più bravo. Mentre OSKAR aveva ben poche limitazioni alla propria fantasia, ben diverso era il discorso per Schmidt, obbligato suo malgrado a strizzare sempre l’occhio ad un potere che poco sopportava le voci fuori dal coro. Difficile aggirare il vigile occhio della Stasi. Per Schmidt c’era
un’unica soluzione possibile per dire e non dire, far capire, ma non abbastanza: illustrare situazioni di vita quotidiana non felici addossandone la colpa agli occidentali. E così disegnava le file davanti ai negozi di alimentari, ma se ne faceva ricadere la responsabilità sull’assenza di commessi, tutti fuggiti dall’altra parte: non è certo perché mancano regolari approvvigionamenti! È vero che i bambini dell’Est non possono andare a Ovest, ma è per proteggerli: dall’altra parte regna la corruzione, la ricchezza che ostentano è tutta un’illusione, c’è di mezzo la fata Morgana (simbolo universale del miraggio). Noi avremo pure la polizia sulle torrette del muro, ma dall’altra parte la polizia si burla dei suoi cittadini, fomenta la violenza e non si preoccupa del loro benessere. E quando c’è qualche sparatoria, è solo perché a provocarla sono i capitalisti vogliosi di un pretesto per attaccare un paese sennò tranquillo e felice. E così via... Per dire tutto questo, Schmidt si avvaleva anche di corsive didascalie poste alla base dei propri disegni. Erano spesso quelle parole scritte spesso quasi in maniera incomprensibile a rendere chiare immagini sennò spesso troppo ambigue per essere pubblicate da censori inflessibili. Per OSKAR l’umorismo era più semplice e diretto: la Repubblica federale non è certo la terra promessa, ma è il paradiso rispetto alla nazione sorella. Un ciliegio fiorisce in campagna, poco prima di un filo spinato che segna l’inizio del territorio orientale. In alto, un socialista recide quel ramo cresciuto al di là: è il 12 maggio del’68 e questo è il modo in cui la Ddr accoglie la primavera di Praga. Il primo aprile del 1973 ecco l’immagine del muro che crolla: tutti felici, soprattutto i berlinesi orientali, peccato che sia un “pesce d’aprile”.
120 disegni, 60 per ogni autore, accostati per capire il quotidiano di una guerra fredda vista dal suo epicentro
Un uomo davanti Checkpoint Charlie allunga la mano oltre la barriera (come se fosse Tiraemolla) e mostra la prima pagina di un giornale di Berlino Est ai cittadini dell’Ovest. Non si può fare il percorso inverso: a Est non sono consentiti i giornali occidentali tanto quanto le critiche interne. La presunta rivalità creativa tra OSKAR e Erich Schmidt non si poté purtroppo confrontare su quell’evento su cui, finalmente, avrebbero potuto scherzare condividendo lo stesso punto di vista: la caduta del muro del 1989. Mentre OSKAR disegnava, richiamato dalla pensione presa un anno prima, le difficoltà di un’integrazione ora, finalmente, tutta da costruire, Schmidt aveva raggiunto ormai da cinque anni luoghi in cui i muri non esistono, esiste so(a.d’a.) lo la quiete.
cultura
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Arte. La filosofia scenica giapponese attraverso la storia delle Maschere Omote, fino a domenica scorsa in mostra a Torino
Fenomenologia del Teatro No di Diana Del Monte
TORINO. È la patina del tempo che sfiora la superficie delle maschere Omote a donare a questi oggetti quella bellezza «imperfetta, impermanente e incompleta» che è il wabisabi, la più evidente e particolare caratteristica di ciò che si può considerare «la bellezza tradizionale giapponese». Tra le sale di Palazzo Barolo, una serena malinconia e, al contempo, un ardore spirituale si offrivano ai visitatore di Omote-Le maschere del teatro No, la prima esposizione in Italia interamente dedicata a queste opere di sobria bellezza.
Adagiata di fronte a lui sulla mensola alla base dello specchio, lo shite, l’attore principale, la prende fra le mani, la osserva come se fosse la sua immagine riflessa e compie un primo inchino, poi la ruota e vi si inchina per la seconda volta, quindi la capovolge e l’accosta al volto. Dal momento che indossa la maschera, l’attore smette di essere un individuo singolo e si fonde con il personaggio che interpreta, così come la maschera si fonde con il volto dell’attore. Le Omote sono piuttosto piccole e raramente coprono il volto per intero; ne esistono di due tipi: quelle legate a un personaggio specifico del dramma e quelle che, invece, rappresentano dei “tipi generici”, delle figure archetipiche della tradizione giapponese attraverso cui è possibile rappresentare i sentimenti più profondi dell’animo umano. Con i movimenti del capo, l’attore espone in maniera sempre diversa la Omote alla luce, creando dei giochi di luce ed ombra sulla superficie, e trasformandone, in questo modo, l’espressione, altrimenti fissa.
La mostra, organiz zata dall’associazione culturale Yoshin Ryu con la collaborazione del Consolato Generale del Giappone a Milano e dell’Istituto Giapponese di Cultura a Roma, si è chiusa domenica e le Omote, tutte appartenenti ad una collezione privata, sono ripartite per il Giappone. Le venti maschere esposte a Torino erano tutte creazioni del Maestro Nomura Ran, uno degli scultori più affermati della zona occidentale del Giappone, nonché Presidente dell’Associazione Nazionale degli scultori di maschere No. Il suo lavoro ha ricevuto gli omaggi della famiglia imperiale Misaka e le sue maschere sono, ancora oggi, indossate dagli attori dei più importanti teatri giapponesi. Tra le maschere esposte, anche una Okina, la maschera utilizzata nell’Okina/Kamiuta, la più antica rappresentazione della tradizione No, che combina la danza con i rituali
scrittori sia europei sia statunitensi, ha nella cultura giapponese un posto equivalente a quello che gli ideali di bellezza e perfezione dell’Antica Grecia hanno in Occidente. Letteralmente wabi identifica, nel Giappone contemporaneo, la semplicità rustica, la freschezza, il silenzio, l’eleganza non ostentata e viene utilizzato per indicare le imperfezioni che si creano durante il pro-
essere tradotto, anche se un po’ semplicisticamente, come una “bellezza triste”, vissuta. Il teatro No è una delle tre forme di teatro tradizionale giapponese insieme al Kabuki ed al Kyogen.
Le sue origini si possono far risalire al XIII e XIV secolo, ma è solo attraverso il lavoro di Zeami Motokiyo (13631443) che si ha una strutturazione definitiva, affinata e influenzata in maniera decisiva dal pensiero Zen. Una tradizione ancora vivissima nel Giappone contemporaneo di cui la maschera Omote è il simbolo. Secondo i dettami dello stesso Zeami, infatti, l’attore No deve fare il vuoto dentro di sé per permettere al personaggio di manifestarsi liberamente e la maschera è uno dei mezzi che lo sostiene in questo processo di identificazione; per questo le Omote vengono utilizzate anche durante le prove e solo i maestri affermati, grazie alla loro lunga esperienza, possono permettersi di non indossarla. Il processo di spersonalizzazione comincia pochi minuti prima di entrare, di fronte a uno specchio, e culmina nell’atto di indossare la Omote.
I venti pezzi, appartenenti a una collezione privata, sono creazioni del Maestro Nomura Ran, uno degli scultori più affermati e apprezzati della zona occidentale del Paese shintoisti, unico e ultimo segno del passato rituale di questa tradizione teatrale. «La costruzione delle maschere del teatro No segue ancora i principi del wabi-sabi» ha spiegato il professore Matteo Casari, docente di Teatri Orientali all’Università di Bologna e autore di La verità allo specchio-Cento giorni di teatro No insieme con il maestro Umewaka Makio. Scolpire una maschera Omote, dunque, vuol dire saperle donare il wabi-sabi, un’estetica basata sull’accettazione di tre semplici verità: nulla dura, nulla è finito, nulla è perfetto. Questo aspetto del Giappone, che ha affascinato molti studiosi e
cesso di costruzione di un oggetto, rendendolo unico. Con sabi, invece, ci si riferisce a quella bellezza e a quella serenità che accompagnano l’avanzare dell’età, all’impermanenza che si manifesta quando la vita degli oggetti si mostra sulla loro superficie attraverso la comparsa della patina dell’usura o di segni di eventuali riparazioni.
Sia sabi sia wabi sono, per la visione buddhista del mondo, sentimenti positivi che permettono all’uomo di liberarsi dal mondo materiale e lo conducono verso una vita più semplice. Da un punto di vista estetico, invece, wabi-sabi può
Dall’alto: un primissimo piano di una delle maschere giapponesi Omote; un’immagine della mostra che si è svolta a Torino: un altro scatto di una maschera Omote
Non è facile comprendere appieno il senso di questa bellezza inusuale e insolita per il panorama occidentale; per questo, camminare per le sale di Palazzo Barolo si è rivelata un’affascinante scoperta del diverso, un viaggio. Il percorso espositivo, che si apriva sui bozzetti originali dell’autore, avvolgeva il pubblico in una suggestiva ambientazione sonora che seguiva i canoni della musica teatrale giapponese, No-gaku. Tre percorsi interamente dedicati alle scolaresche, inoltre, insegnavano ai più piccoli come avvicinarsi con consapevolezza a una realtà profondamente diversa da quella di origine. Infine, per contestualizzare l’utilizzo di queste maschere, alcuni video, ancora visibili attraverso la web tv del sito ufficiale, mostravano alcuni frammenti di opere. Omote-Le maschere del teatro No, dunque, non è stata solo l’occasione per scoprire e ammirare il lavoro di un grande maestro, Nomura Ran, ma ha regalato al suo pubblico un’immersione nel wabi-sabi.
spettacoli In questa pagina, alcune immagini di Ronnie Wood, la “slide guitar” dei Rolling Stones. Il chitarrista è di nuovo nei guai per via della sua amante, che lo ha fatto arrestare con l’accusa di violenza durante l’ennesimo litigio
on è la prima volta che si sente parlare di lui sui giornali per motivi di violenza o eccessi vari. Il mitico chitarrista e bassista della band più amata di tutti i tempi, slide guitar e pedal steel dei Rolling Stones, Ronnie Wood è stato tratto in arresto qualche settimana fa con l’accusa di aver picchiato la sua giovane compagna, la ventenne Ekaterina Ivanova, la cameriera russa con cui il rockettaro 62enne degli Stones flirta da quando si è separato con la storica moglie Jo, nel giugno 2008.
N
È accaduto nel profondo del Surrey inglese, dopo che un banale incidente in casa ha scatenato una violenta lite. Il musicista prelevato dagli agenti della polizia mentre si trovava nel centro di Claygate, un paesino del Surrey, a circa quindici chilometri a SudOvest di Londra, è stato rilasciato e sarà risentito il prossimo mese nell’ambito dell’inchiesta. Ronnie, certamente non in difficoltà economica, è stato subito liberato dietro pagamento di una cauzione in attesa, appunto, di essere richiamato il prossimo mese. Ovviamente tutto potrebbe risolversi con una tirata d’orecchi, trattandosi non di un semplice personaggio famoso, ma del mitico chitarrista della storica band anni Settanta. E questo è solo l’ultimo degli episodi di violenza che vedono coinvolti i Rolling Stones. Per tutti gli anni Ottanta la polizia
Musica. In manette Wood degli Stones per aver picchiato l’amante in un litigio
Quando a essere duro non è soltanto il Rock di Valentina Gerace condo le mitologie urbane fa ogni anno un travaso completo di sangue per recuperare un po’ di salute. Dipendente dalle sostanze stupefacenti in passato, adesso ha smesso di prendere droghe. I quattro venivano spesso definiti «brutti, sporchi e cattivi» al contrario dei più rassicuranti Beatles, i rivali storici. Ma soltanto per la loro pessima qualità.
ha seguito da vicino i componenti del gruppo inglese, per stanarli con l’ausilio di plotoni anti-sommossa e squadre narcotici. Ron Wood e Keith Richards vennero arrestati per la prima volta nel 1975, quando si trovavano a Dallas. Si trattò all’epoca di guida pericolosa. Gli ufficiali pensavano di trovare della marjiuana nell’auto, ma si trovarono invece davanti a diversi grammi di cocaina. Ron Wood fu anche incarcerato per possesso di un’arma da fuoco, ma pagò la cauzione e non si fece mai processare. Non è da meno Keith Richards, che se-
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Si mormora, però, che Richards abbia sniffato le ceneri del padre defunto. Con l’arresto di Ron Wood, un’altra tappa del tour della violenza made in Rolling Stones è stata raggiunta. Ci chiediamo tutti quale potrà essere la prossima. Di certo lo stravagante chitarrista, benché ultra sessantenne, non può lamentarsi di condurre una vita mo-
Classe 1947, inglese purissimo, Ronald David Ronnie Wood, chitarrista e bassista degli Stones dal 1975, ha percorso una carriera parecchio intensa. Inizialmente membro degli Thunderbirds poi bassista nel Jeff Beck Group assieme a Rod Stewart
E in molte interviste ha ammesso di aver trovato in lei una nuova prospettiva di vita. La solita storia del vecchio at-
con cui nel Settanta si unisce ai Faces (ex Small Faces) come chitarrista. Da sempre amico degli Stones, collabora all’incisione del brano It’s Only Rock’n’Roll But I Like It e riceve in compenso aiuto per la realizzazione del suo primo album da solista. Ancora nei Faces accetta l’ingaggio degli Stones a sostitui-
È stato nuovamente fermato e interrogato dalla polizia del Surrey, accusato stavolta di violenza dalla sua compagna, la fan russa ventenne Ekaterina Ivanova notona. I vari ricoveri in clinica per disintossicarsi da droghe e alcol, e la relazione con la russa appena ventunenne, conosciuta casualmente in un bar, dove lei lavorava come cameriera danno materiale interessante a chi si nutre di gossip.
la fusione al cento per cento con i Rolling Stones, Ronnie realizza molti album da solista come I’ve got my own album to do (1974), Now look (1975), Gimme some neck (1979), Slide on this (1992), Not for beginners (2001), e collabora con grandi della musica: Steve Winwood, Jim Capaldi, Eric Clapton, Prince, Bob Dylan, David Bowie, Eric Clapton, Bo Diddley, Ringo Star e Aretha Franklin. Partecipa all’album Slash & Friends del chitarrista Slash (ex Guns ans Roses) in uscita nel 2010. E oggi si parla ancora di lui, non sempre per uscite discografiche o concerti. Ma per coloriti racconti di pettegolezzo. Ma si sa. Il mondo del rock è fatto di queste cose. Eccessi, stravaganze, alcol, droga, vite sregolate. Eppure si tratta di grandi artisti. Persone che hanno fatto la storia della musica e che hanno creato le melodie più amate e ricordate di tutti I tempi. Ma non bisogna mai confondere la vita privata con la carriera artistica. Bisogna ammetterlo. Ronnie è rimasto folgorato dalla biondina da cui lo separano quarantun anni di vita.
re Mick Taylor nel loro tour nel Nord America nel 1975 (a sua volta sostiuito da Brian Jones, morto annegato nella sua piscina nel 1969).
La scelta si rivela un enorme successo. Il rapporto chitarristico con Keith Richards è perfetto. È in armonia con lo spirito rock e l’essenza scapestrata della band. Dopo vari provini (Eric Clapton, Jeff Beck, Wayne Perkins) nel 1976 viene comunicato ufficialmente. Ronnie è un membro degli Stones a tutti gli effetti. Giusto in tempo per il nuovo album Black and Blue. A parte
tempato che perde la testa per la ragazzina giovane e avvenente? Può anche darsi. Fatto sta che l’ex Rolling Stones ha divorziato dalla moglie per lei. Il divorzio costato una fortuna, non spaventa il vecchio musicista che a quanto pare ultimamente ha speso tredicimila sterline per regalare alla sua giovane fidanzatina una chitarra vintage suonata niente meno che dal mitico Hendrix. Esorbitante. Sopratutto se si pensa che Ekaterina è solamente una principiante che a mala pena sa strimpellare una chitarra. Dovrebbe essere onorata di poter anche solo tenere fra le mani un gioiello che è stato nelle mani del padre del blues, Jimi Hendrix.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
da ”Times online” del 21/12/09
E la Manica si ruppe... di Robert Lindsay e Steve Bird a società Eurostar che gestisce il traffico ferroviario sotto la manica ha dei problemi. Usiamo un eufemismo, perché il weekend è stato un vero incubo per migliaia di passeggeri che avevano scelto di passare sotto la Manica e non sopra. Intanto per il terzo giorno consecutivo non si potrà utilizzare il treno superveloce che collega Londra, Parigi e Brussel. La colpa sarebbe di un soffice manto di neve depositato sulla linea negli ultimi giorni. Eurostar ha rilasciato una dichiarazione sui motivi dell’interruzione del servizio che ha causato l’arresto di cinque convogli all’interno del tunnel. Ben duemila passeggeri bloccati senza climatizzazione, per oltre 16 ore nelle viscere del fondo marino. Le operazioni sono state ritardate da una apparente interruzione delle comunicazioni tra gli Eurostar e la società Eurotunnel. Molti passeggeri si sono lamentati per essere stati trattati «come degli animali», lasciati al buio senza cibo, acqua e servizi igienici funzionanti. All’interno delle carrozze, dove l’aria stava diventando sempre più irrespirabile, si è assistito a scene di panico. Chi invece aveva deciso di abbandonare le carrozze per rifugiarsi nelle gallerie di servizio che collegano i due sensi di marcia del tunnel, non avrebbe ricevuto alcuna indicazione su come muoversi dal personale Eurostar. La società che ha cancellato il servizio anche per tutto lunedì, ha comunicato di aver individuato l’inconveniente che aveva causato il blocco e modificato i locomotori che sta ancora testando. Si presume che martedì si possa tornare alla normalità dei collegamenti ferroviari. Nick Mercer, direttore commerciale dell’azienda, ha smentito le voci che circolavano circa il fallimento delle modifiche apportate ai treni. «Non è assolutamente il nostro caso» ha affer-
L
mato, spiegando anche che le procedure per la «winterization» (cioè la messa a punto dei parametri invernali delle macchine, ndr) erano in corso secondo gli standard previsti, con tutti gli accorgimenti ritenuti necessari. Non ci sarebbero state sorprese se tutto avesse seguito l’andamento usuale. Meteo compresa. Mercer ha dichiarato che «le modifiche previste dalla winterization hanno funzionato con successo. I cambiamenti che abbiamo attuato lavorano alla perfezione. Si è trattato di un nuovo problema».
«Una strana combinazione di fattori. La grande quantità di neve caduta, per un’altezza mai vista prima e più leggera del normale. La temperatura e l’umidità all’interno del tunnel erano superiori agli standard». In pratica la preparazione invernale dei convogli che si mette in opera ogni autunno, ha sempre funzionato per i 15 anni precedenti. Ma venerdì le condizioni che si sono presentate erano eccezionali. Per cui le ulteriori modifiche si stanno testando in giornata (lunedì) per poter riattivare il servizio martedì. «Non avremo aggiornamenti fino alle sei di oggi pomeriggio (ieri)» ha dichiarato un portavoce della società. L’interruzione del collegamento è avvenuta proprio nel periodo di maggiore affollamento per le vacanze natalizie. Circa 20mila passeggeri scelgono ogni giorno l’Eurostar per andare e venire dalle due sponde della Manica. L’operatore è una società partecipata dagli operatori su rotaia nazionali di Francia e Belgio e dal governo inglese e ha deciso di avviare un’inchiesta
indipendente sull’accaduto. Diretta da un britannico, Christopher Garnett e da un anziano funzionario francese, Claude Gressier. Garnett è stato amministratore della Gner, defunta società ferroviaria che collegava Londra, Edimburgo e la costa orientale francese ed è stato anche direttore commerciale di Eurotunnel. Grassier è ispettore generale, tecnico della pubblica amministrazione. Centinaia di passeggeri arrabbiatissimo sono tornati a Londra, Parigi e Brussel. In Inghilterra 500 di loro, in difficoltà, sono stati ospitati e caricati su mezzi di trasporto alternativi. Lo stesso servizio non sarebbe stato garantito in Francia e in Belgio. E la chiusura di molti aeroporti per il freddo non ha certo aiutato la situazione. Richard Brown responsabile del settore inglese della compagnia ha ammesso che le operazioni di recupero passeggeri sono state troppo lunghe.Tra gli sfortunati anche un europarlamentare francese che ha promesso fuoco e fiamme a Brussel.
L’IMMAGINE
Giocattoli: l’etichetta Ce non è una garanzia di sicurezza ma solo una garanzia giuridica Arriva il Natale e arrivano i giocattoli. Tanti giochi ripropongono la questione sicurezza visto che l’80% dei giocattoli importati nell’Ue sono di fabbricazione cinese e il 70% dei prodotti pirata che circolano in Europa è di origine cinese. Le norme sulla sicurezza dei giocattoli, per i minori di anni 14, sono state fissate dalla normativa vigente. Sulla confezione devono essere indicate, in lingua italiana: la marcatura Ce; il nome del fabbricante o dell’importatore; l’indicazione dell’età del bambino; le avvertenze per l’utilizzo. La marcatura viene apposta sui giocattoli da produttori o importatori e dovrebbe certificare la rispondenza alle norme di sicurezza europea. La stragrande maggioranza dei giocattoli proviene, come detto, dai Paesi asiatici dove la garanzia del rispetto delle norme europee lascia piuttosto a desiderare. Situazione assurda per la quale l’etichetta Ce non è una garanzia di sicurezza ma una semplice garanzia giuridica.
Primo Mastrantoni
SOLIDARIETÀ AD AMORUSP Si parla spesso di disoccupazione e di crisi. Esistono però professioni che sfuggono a tali difficoltà: una è quella dell’attuario, cioè di un particolare tipo di matematico assai utile nel settore bancario-assicurativo. In queste settimane si stanno selezionando giovani matematici in erba, studenti degli ultimi anni del liceo, per una prova che vedrà premiati a febbraio dell’anno prossimo dieci giovani campioni. Lo scopo è quello di sensibilizzare i giovani, e di spingerli verso materie assai premianti in termini di carriera e di remunerazione economica. Chi organizza questa sfida, l’Irsa, ha anche il merito di pubblicare libri altrimenti destinati all’oblio, come l’opera omnia del grande matematico italiano De
Finetti, uno dei maggiori del Novecento europeo, dipendente delle Generali.
Fabrizio Amadori
LE PELLICCE HANNO L’ODORE DEL SANGUE DEGLI ANIMALI Le nostre attiviste romane hanno “pedinato” alcune signore impellicciate per le vie della capitale. Le nostre attiviste, “rivestite” di cartelli contro la moda insanguinata, non hanno dato tregua alle signore impellicciate: Alcune “vittime” si sono infastidite, altre hanno giustificato la loro pelliccia come “un regalo di vecchia data”. Le pellicce odorano di sangue di animali uccisi barbaramente, rinchiusi dalla nascita in piccole gabbie, animali uccisi con elettrodi nel retto o peggio ancora, direttamente squartati
Sacco pieno Questa piccola “bolla” gialla contiene alcune delle sostanze più importanti per il nostro metabolismo. Ci troviamo nella tiroide, e quella che vedete è una piccola vescicola chiamata follicolo. In questa specie di sacca di tessuto sono conservati due tipi di ormoni (tirossina e triiodotironina) che rilasciati nel sangue, regolano importanti attività metaboliche
vivi. Una “moda”, quella della pelliccia, squallida, crudele, senza coscienza.
100%animalisti
INTIMIDAZIONE AI DANNI DEL SEN. AMORUSO Solidarietà al senatore Francesco Amoruso, vittima la scorsa notte di un atto intimidatorio contro la sua abitazione, dove in quel mo-
mento erano presenti il senatore e la sua famiglia. Mi auguro che Amoruso continui a proseguire lungo la strada dell’attività politico-amministrativa costante e quotidiana: tale episodio deplorevole non fermi né freni l’operato di un amministratore da anni impegnato sul territorio locale regionale e nazionale.
Carlo Laurora
LA GUERRA È NECESSARIA Obama ha affrontato l’investitura del suo nobel con umiltà, ma nel contempo ha fatto una ammissione insolita: per combattere il male certe volte la guerra è necessaria. Concetto che da noi è difficile da concepire e che se lo faceva il nostro premier, sarebbe nato un cataclisma dialettico madornale.
Bruna Rosso
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Aspettando potrei essere sorpreso Bolognini è bugiardo come Tersite. Non mi può aver veduto, e, molto meno, accompagnato al teatro.Ti giuro per quanto ti amo ch’io sono entrato, appena ti ho lasciata, al Caffè dei Servi. Ho preso un thè, e alle sette e mezzo ero già a letto. Da quando tu mi scrivesti che non andavi più al teatro, io non ci posi più piede; e assai meno ier sera vestito a quel modo. Hai fatto bene a negare tutto. O il signor Giudice ha voluto sospettare, e far da criminalista con interrogazioni suggestive, o ha avuto le travvegole. È anch’egli uno di quelli che mi vorrebbero bandito dal tuo cuore? Che ho fatto io agli uomini per essere sì fieramente perseguitato? Ma tutte le loro persecuzioni le soffrirò pazientemente fino a che tu, Angelo, mi amerai. Domani sera senza fallo: alle otto e mezza in punto. Aspetterò all’uscio delle donne: guarda di esserci: aspettando potrei essere sorpreso. Addio donna divina. Addio, e mille baci. Continua a stare sulla negativa col Giudice; anzi per confonderlo digli a che ora sono uscito e come ero vestito. Mi raccomando, non mancare. Io non sarei mai capace di causarti alcun dispiacere: sacrificherei tutto per la tua felicità. Ugo Foscolo ad Antonietta Fagnani Arese
CENSURA INTERNET. COSA FARE DI PIÙ Dopo l’atto di violenza fisica al presidente del Consiglio e la scontata comparsa in Internet di messaggi ad esso inneggianti, ecco che i censori di sempre e quelli nuovi si fanno risentire. E come tutti i censori, spinti dalla foga di imporre il loro giusto contro l’altro cattivo, sono irrazionali e sconclusionati. Stiamo parlando di persone del calibro di ministri come Andrea Ronchi e Angelino Alfano che hanno subito trovato la disponibilità del ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ad affrontare con urgenza il problema. L’irrazionalità della necessità di intervenire sta nel fatto che il nostro codice penale offre solo la difficoltà della scelta. Ci sono decine di reati d’opinione, a partire dall’istigazione a delinquere, che possono essere utilizzati per tappare la bocca agli incantati dalla violenza fisica come metodo politico. Il dato sconclusionante è che alcuni hanno avanzato la proposta di abolire l’anonimato in rete. A parte il fatto che è difficile essere anonimi quando si lasciano tracce del proprio passaggio in un forum di discussione,
AI CONSIGLIERI DEL CONSIGLIO NAZIONALE: È convocato il Consiglio nazionale del Centro Cristiano Democratico per il giorno 29/12/2009 alle ore 10, a Roma, presso l’hotel Ritz, in via Chelini 41, per discutere e deliberare sul seguente ordine del giorno: “Convocazione del IV Congresso nazionale del Centro Cristiano Democratico per lo scioglimento del partito”. Il presidente del consiglio nazionale, on. Sandro Fontana
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
22 dicembre 1912 Viene istituita la sezione della Canottieri Lecco Football Club, oggi nota col nome Calcio Lecco 1912 1944 Truppe tedesche chiedono la resa delle truppe statunitensi a Bastogne in Belgio 1947 L’Assemblea costituente approva la Costituzione della Repubblica italiana 1956 Istituito il ministero delle Partecipazioni Statali, che verrà soppresso nel 1993 1964 Il comico Lenny Bruce viene condannato per oscenità 1974 Grande Comore, Anjouan e Mohéli votano per diventare la nazione indipendente delle Comore. Mayotte rimane francese 1980 Vengono emesse le condanne per i responsabili dello scandalo delle partite truccate. Milan e Lazio vengono retrocesse, altre pesantemente penalizzate e molti giocatori tra cui Paolo Rossi vengono squalificati o radiati 1990 Lech Walesa giura come presidente della Polonia
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
speriamo solo che chi fa queste proposte non sappia di cosa sta parlando. L’anonimato, a livello mondiale più che nei singoli Stati, è l’elemento pregnante della rete, senza il quale la stessa non esisterebbe. E non a caso, è proprio di qualche giorno fa la notizia che, tra le tante strette che il governo della Cina impone per controllare chi naviga in Internet, non sarà più possibile aprire un dominio se non si presenta una licenza commerciale presso provider autorizzati dallo Stato. Non ci stupiremmo più di tanto, comunque, che il nostro Paese, dopo essersi accomunato in politica estera e dei diritti umani e di immigrazione ai regimi di Putin (Russia), Gheddafi (Libia) e Lukasenko (Bielorussia), per la liberta d’espressione si accomuni alla Repubblica popolare cinese.
Vincenzo Donvito
L’ARMA DEI FITTI Occupiamoci meno del premier, e lasciamolo lavorare in pace; piuttosto cerchiamo di capire cosa succede nel mondo del lavoro, perché tantissimi negozi e piccole imprese stanno chiudendo, perché la legge sui fitti permette al padrone di casa di innalzare senza limiti il canone. Ho constatato che molte vertenze di condominio con negozi e imprese inserite ai primi piani, si sono risolte con un aumento incredibile del fitto. Così molte realtà commerciali sono state costrette a chiudere e a licenziare controvoglia i dipendenti.
Bruno Russo
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
IL COMPITO DEL CRISTIANO (I PARTE) Il compito del cristiano è quello di essere lievito e fermento nella massa che lo ospita. Così anche il cattolico, in politica, è impegnato nell’assolvimento di questo mandato, seguendo coerentemente il proprio servizio. Non importa quale sia l’ambito sociale o il contesto politico o partitico. Quello che conta è la qualità del servizio svolto, teso sempre ad essere modello di equilibrio etico e sprone affinché vengano compiute scelte finalizzate al servizio del bene comune. Talvolta agli occhi dei più navigati, la presenza di alcuni cattolici in alcuni schieramenti governativi può apparire incoerente, ma questo accade solo se le situazioni vengono traguardate col mirino della logica più comoda, o più diffusa, dimenticando che un buon servizio non deve essere per forza compiuto in uno schieramento anziché in un altro, che nessuno ha diritto di determinare, nemmeno la Chiesa. Infatti «l’etica sociale si regge soltanto sulla base della qualità delle singole persone». Lo ha affermato il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, nella sua lectio magistralis sull’enciclica papale Caritas in veritate. Egli ha poi citato un passaggio del documento di Ratzinger in cui si dichiara che «lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle coscienze l’appello del bene comune». In nessun passo, però, viene mai fatto riferimento ad un partito o ad una coalizione. Il discorso si rivolge a tutti i cattolici impegnati in politica. Un riferimento concreto che esemplifica la riflessione appena fatta, è la realtà ove opera l’Udc nel nostro territorio, inserito in una coalizione anomala, incoerente, rispetto alle posizioni più tradizionaliste. Per disquisire sull’argomento, ci ha fatto piacere dialogare con Marco Andreani, recentemente nominato coordinatore provinciale dell’Udc, ragionando sopra questa domanda: Cosa significa e cosa rappresenta l’Udc in una città/provincia storicamente moderata come Massa? La Storia politica italiana è stata contrassegnata ultimamente da grandi trasformazioni. Il modello del bipolarismo costruito in concertazione dai due poli maggiori non solo non ha funzionato, ma è fallito. L’Italia sta cercando una stabilità politica diversa che riesca a recuperare un rapporto sociale al di fuori degli scontri feroci a cui abbiamo assistito negli ultimi periodi. In questo quadro gli elementi di “ricostruzione” di una deontologia politica sono rappresentati da tre processi: 1) l’avvento precoce di una stagione post-berlusconiana che si sta diffondendo soprattutto all’interno del centrodestra; 2) la crisi del Pd, sfociata in un drammatico confronto fra le forze di sinistra (ex comunisti) e quelle moderate (ex democristiane). Crisi risolta in un deciso spostamento a sinistra, quasi un ritorno alle posizioni ex Ds; 3) l’apertura di una terra di mezzo all’interno della quale si collocano le componenti moderate, scontente di come sono andate le cose nelle rispettive postazioni politiche, una volta esautorate dal ruolo di “poli forti, fissi e inamovibili” di quel modello bipolare ormai in declino. Marco Andreani, COORDINATORE PROVINCIALE UDC
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