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Lo schiavo ha un solo padrone;
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l’ambizioso invece ne ha tanti quante sono le persone utili alla sua fortuna
Jean De La Bruyère
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 22 GENNAIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
L’Istituto di Statistica analizza le uscite dello Stato dal 2000 al 2008. Ma il picco è previsto nel biennio 2009-2010
Il fallimento del federalismo Allarmanti dati dell’Istat:negli ultimi 10 anni la spesa pubblica ha raggiunto la metà del Pil,775 miliardi. Èesploso il costo di sanità e burocrazie regionali:colpa delle riforme di destra e di sinistra del Titolo V Dopo il pranzo del Cavaliere e Fini con i vertici del partito
di Francesco Pacifico
Alleanze con il Centro: via libera anche dal Pdl
ROMA. L’Istat ha studiato
Le regioni lasciate autonome, ma l’ultima parola a Berlusconi. Oggi l’Assemblea nazionale della Costituente centrista CONTROPARERE
di Errico Novi
Dietro i “due forni” il disegno di un nuovo sistema di Giancristiano Desiderio a chiamano, con disprezzo, la politica dei due forni e, invece, è la necessaria politica dei due forni moderati che, purtroppo, ancora non si sono formati in modo stabile e compiuto. È quasi una cosa scontata dirlo, perché senza due centri moderati che confinano tra loro fino a toccarsi non c’è una decente democrazia dell’alternanza o, come si dice in Italia, bipolarismo. La scelta dell’Unione di Centro è provare a unire chi crede nei valori della moderazione e del cattolicesimo liberale. a pagina 4
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ROMA. Se si prende una parte della versione ufficiale fornita da Sandro Bondi dopo il pranzo con Berlusconi e Fini, sembra quasi che il Pdl abbia un disegno strategico: «Condividiamo la valiLo strano caso dità del bipolarismo e indi Magdi tendiamo rafforzare que“Lucano” Allam sto percorso», dice il ministro. È un proposito L’eurodeputato Udc simmetrico rispetto a candidato dal Pdl quello dell’Udc, che afferin Basilicata ma di voler «smascheraParadisi • pagina 10 re questo falso bipolarismo». Ma di fatto il pranzo ha portato a una tregua: sulle alleanze decidono i partiti locali, anche se l’ultima parola spetterà a Berlusconi. a pagina 4
PARLA GIACOMO VACIAGO
«La demagogia costa cara»
l’andamento della spesa pubblica in Italia dal 2000 al 2008: sembrava un’analisi di routine è invece è venuto fuori un dato molto interessante. Intanto, si scopre che la spesa pubblica è diventata quasi metà del Pil italiano. Ma quel che conta è che a far lievitare così i costi sono le voci relative alla delocalizzazione. Al federalismo, per dirlo alla maniera dei leghisti e di quella sinistra che, nel decennio appena concluso, ha inseguito la Lega sul suo stesso terreno. Sanità, dipendenti e burocrazia delle Regioni: è proprio in queste voci che si annida il prezzo della demagogia.
di Francesco Lo Dico
ROMA. «Dall’introduzione del Titolo V, la spesa pubblica è in costante aumento. L’Istat non fa che fotografare un fenomeno incontrollato, su cui nessuno vuole o riesce a intervenire per motivi di consenso. Di solito, i governi degli altri Paesi europei concentrano le scelte più impopolari nella prima parte della legislatura, riservandosi di recuperare il gradimento degli elettori verso la fine del mandato. Quindi in Italia siamo già in ritardo»: Giacomo Vaciago, ordinario di Politica Economica alla Cattolica di Milano, analizza così gli ultimi dati Istat.
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Apprendistato: perché ha ragione la Gelmini
L’Italia non va a scuola di lavoro
a pagina 3
Gli Usa chiedono all’Onu di riscrivere, sull’informatica, la Carta dei diritti dell’uomo
«Giù tutti i muri di Internet»
Duro discorso della Clinton contro la Cina per la gestione del Web
di Giuseppe Bertagna
di Luisa Arezzo
ttualmente, a partire dai 16 anni, esistono tre tipi di apprendistato. Il primo è quello formativo. Riguarda l’esercizio del dirittodovere di istruzione e di formazione di tutti i ragazzi fino a 18 anni. Il secondo tipo è l’apprendistato professionalizzante. Riguarda i giovani dai 18 ai 29 anni assunti in un lavoro che non sanno svolgere bene e che dovrebbero, perciò, essere messi nelle condizioni di imparare a svolgere meglio, in termini di qualità. Il terzo tipo è quello di alta formazione. a pagina 8
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hi si aspettava una risposta secca sul caso Google-Cina sarà rimasto soddisfatto solo a metà. Perché Hillary Clinton ha solo auspicato che la Cina conduca un’inchiesta «trasparente e approfondita» sui cyber attacchi di cui è stato vittima il gigante informatico. Ma non è non per questo il discorso che Hillary Clinton ha tenuto ieri a Washington è meno importante. Anzi. Hillary non ha usato mezze parole: gli Usa non tollereranno attacchi informatici.
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a pagina 14 I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
14 •
LA RISPOSTA DEL “SOUTH CHINA MORNING POST”
Libertà? No, guerra commerciale di Alex Lo on esistono al mondo cose, soprattutto nel mondo commerciale, che vengano fatte per una motivazione pura. E quindi chi applaude Google per aver deciso di tenere una posizione dura sulla libertà di informazione rischia di tenere una posizione naif e tardiva. D’altra parte, i cinici che pensano che la decisione sia stata presa sulla base di motivazioni puramente commerciali
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
sono estremamente semplicistici: non conta, in un mercato come quello asiatico, perdere fette di mercato o subire una leggera flessione dei profitti. Lo scontro che ha visto coinvolti Google e il governo che siede a Pechino non è soltanto una diatriba fra un esecutivo e una compagnia commerciale: si tratta di uno scontro che nasce dalla delusione per aver perso. a pagina 15
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 22 gennaio 2010
Numeri. L’Istat presenta uno studio che analizza il periodo dal 2000 al 2008. La delocalizzazione ha avuto costi enormi
Il federalismo è già fallito La spesa pubblica è mezzo Pil: volano sanità, dipendenti e burocrazia delle Regioni. Questo è il risultato di dieci anni di riforme del Titolo V Romano Prodi, Umberto Bossi e Silvio Berlusconi: il tema del «federalismo», imposto dalla Lega, è diventato quasi imprescindibile per governare il nostro Paese. Ma una ricerca dell’Istat dimostra che i costi delle varie riforme del Titolo V, nel corso degli anni dal 2000 al 2008, sono stati enormi
di Francesco Pacifico
ROMA. Il costo del federalismo all’italiana è pari a 775 miliardi di euro. Perché il 49,3 per cento del prodotto interno lordo, quindi la sua metà, viene assorbito dalla spesa pubblica. Questo il dato diffuso infatti ieri dall’Istat e che si riferisce al 2008. Un anno prima che la crisi maggiore dell’età moderna mostrasse il suo volto peggiore in termini di domanda e di occupazione. Se non bastasse, non è meno inquietante che dal 2000 al 2008 si sia passati da un livello pari al 46,2 per cento all’attuale 49,3. Cioè si sia bruciato quanto recuperato sul versante della finanza pubblica negli anni della corsa all’euro (dal 1994 al 1999) in un arco di tempo segnato dall’introduzione del Titolo V della Costituzione. La modifica con la quale si sono trasferiti pieni poteri alle Regioni in materie fondamentali come sanità, infrastrutture, formazione o ambiente. Sembra quindi sempre meno lontano lo spettro della spesa facile di un quindicennio fa, quando la pressione sul Pil passa tra il 1993 al 1994 dal 53,8 per cento al 56,6. Eppure allora c’era da fare i conti con l’uscita della lira dallo Sme, un’inflazione doppia rispetto ad allora e il sistema politico e quello economico travolto da Tangentopoli. L’anno 2008 invece segue tre Finanziare (una di Tremonti, due di Padoa-Schioppa) con le quale si recuperava in totale circa sette punti di Pil.
Per la cronaca l’anno prossimo il dato non potrà che essere peggiore. Con la crisi il Pil è crollato di 5 punti, mentre la spesa ha visto segnare rialzi per alcune voci strategiche come la sanità. E infatti assumono un valore diverso quei tre miliardi in più – il ministro ne voleva concedere “soltanto” due – che Tremonti è stato costretto a concedere al servizio sanitario nazionale. «Questi numeri», sottilinea Gilberto Muraro, ordinario di scienze delle Finanze all’università
di Padova, «che va ricordato sono precedenti alla crisi, finiscono per rendere illusorio ogni proposito di un forte sgravio fiscale. Oltre a riproporre in maniera drammatica il problema del governo della macchina pubblica». Eppure il record atteso per il biennio 2009-2010 rischia di avere un valore soltanto nominale, per certi aspetti minimale rispetto a una
realtà sempre più ingestibile per l’Italia: il Paese con la maggiore spesa pensionistica e il minor indice di ricambio, che spende poco per il welfare to work, pochissimo per la ricerca. «Questo eccesso di spesa», sintetizza l’economista Gilberto Muraro, «non è giustificato da adeguati investimenti in capitale umano o infrastrutture». Di conseguenza il vero investimento per il futuro passa «per interventi drastici sulla parte corrente e in particolare sulla spesa per consumi finali e sugli stipendi. Si tratta di passare all’azione, mettendo in pratica quelle politiche che non mutano mai da proclami a misure concrete». Proprio analizzando nel dettaglio la spesa per consumi finali – salita dal 18,5 per cento del 2000 al 20,2 per cento del 2008 – si scopre che l’aumento è dovuto dalla crescita dei redditi da lavoro, dei consumi intermedi e della spesa per prestazioni sociali in natura, come la sanità. E dietro questi tre fattori si intravedono la crescita dei dipendenti pubblici (a livello statale come a quello locale) scattata anche per la man-
cata razionalizzazione delle strutture dopo il passaggio delle competenze da centro a periferia; le spese per tenere in piedi la macchina burocratica; l’assenza di politiche incisive per rimodulare l’erogazione delle prestazioni sociali. Al riguardo, sono in crescita anche le prestazioni sociali in denaro in rapporto al Pil (dal 16,4 per cento nel 2000 al 17,7 del 2008). Eppure questi aumenti – sempre più pesanti per le casse pubbliche – non sono sufficienti a darci un welfare moderno. Se tra il 2000 e il 2007 la spesa per sanità è stata in linea con quella degli altri Paesi della Zona Euro (13,7 contro 13,5 per cento), si registra un forte deficit per quanto riguarda la protezione sociale. E di quasi tre punti: 37,4 contro il 40,6 per cento medio. Lontana anni luce dalla Germania (47 per cento), che è l’unica nazione ad avere un livello di invecchiamento della popolazione superiore al nostro. E le cose non vanno meglio sul versante dell’istruzione: 10
contro il già risicato 10,6 di Eurolandia. Stesso trend anche per protezione dell’ambiente, abitazione e territorio. E pensare – cosa impensabile fino a qualche decennio fa – che lo Stato centrale si è mostrato molto più virtuoso degli enti locali tra gli anni 2000 e 2008, tanto da portare l’incidenza delle funzioni tradizionali al 26,1 per cento dell’intera spesa. Per esempio per i servizi generali (difesa, ordine pubblico e sicurezza) si è passati dal 21,1 per cento del 2000 al 15 di due anni fa. Mentre sono stati stabili i conti per la protezione sociale (dal 37,9 al 38 per cento) e per le attività culturali (1,8 per cento).
In media è basso anche l’andamento di spesa per la funzione “Affari economici”. Che – a riprova della scarsa strutturalità delle nostre politiche – risulta crescente soltanto se legato a operazioni di tipo straordinario. Infatti la spesa è salita tra il 2001 e il 2005 soprattutto per i trasferimenti in conto capitale al gruppo Ferrovie dello Stato (FS), quelli che hanno reso sostenibile il passivo della compagnia. Nel 2006, invece, la voce più rilevante è stata quella necessaria a ripianare i crediti dello Stato nei confronti della società TAV e la retrocessione alla società di cartolarizzazione dei crediti di contributi sociali dovuti dai lavoratori agricoli, con il famoso condono voluto dall’allora ministro Paolo De Castro. E se nel 2007 lo Stato ha dovuto rimborsare i tagli all’editoria e gli sgravi Iva sulle auto aziendali, nel 2008 si è registrato un’inversione di tendenza con la diminuzione dei trasferimenti in conto capitale alle imprese, seguita soprattutto alla fine della 488. Serve quindi rimodulare la spesa, ma è difficile farlo senza una massiccia dose di coraggio. Anche perché ogni intervento deve prima sciogliere tre dogmi insuperabili per la politica italiana: previdenza, statali e sanità. Prioritario è soprattutto aumentare l’età pensionistica visto che l’Italia indirizza il 15 per cento delle risorse totali per il Welfare a questa voce. Eppoi
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22 gennaio 2010 • pagina 3
«È il costo della demagogia» «Bisognerebbe aggredire subito la spesa statale»: la ricetta di Giacomo Vaciago di Francesco Lo Dico
ROMA. «Dalla introduzione del Titolo V, la spesa pubblica è in costante aumento. L’Istat non fa che fotografare un fenomeno incontrollato, su cui nessuno vuole o riesce a intervenire per motivi di consenso. Chiedere all’attuale presidente del Consiglio, che ama essere omaggiato ed applaudito mattina, pomeriggio e sera, di provvedere a un dimagrimento della spesa pubblica, è ormai impensabile. Di solito, i governi degli altri Paesi europei concentrano le scelte più impopolari nella prima parte della legislatura, riservandosi di recuperare il gradimento degli elettori verso la fine del mandato. Non appena insediatosi, il nostro esecutivo aveva raccontato che la sanità e la scuola sarebbero state sottoposte a una dieta ferrea, ma questo non è accaduto. E se non è accaduto all’inizio, non accadra più. Un fatto che conferma come la carica rivoluzionaria della destra liberale, che ottenne molti successi con Reagan e la Tatcher, nel berlusconismo si sia tradotta in un profluvio di chiacchiere. La spesa pubblica continua a essere quella che è sempre stata da ormai troppi anni: una palla di biliardo lanciata sul tavolo, che continua a scivolare per forza d’inerzia. E questo non può che farci guardare al federalismo come a un bel sogno, auspicato da tutti ma ancora illeggibile. Come a un meccanismo che, in attesa di realizzarsi compiutamente con i decreti delegati tra qualche anno, premia l’irresponsabilità in mancanza di vincoli economici rigidi». Giacomo Vaciago, ordinario di Politica Economica alla
c’è da ridurre il personale in carico allo Stato, visto che l’80 per cento della spesa per la pubblica amministrazione va in questa direzione. Ed è difficile tagliarla con i dipendenti pubblici che sono di fatto inamovibili. In ultimo c’è da fare i conti con la sanità, che con l’invecchiamento della popolazione è destinata a vedere crescere il suo fabbisogno. Il fondo per il ser-
Cattolica di Milano, analizza così gli ultimi dati Istat, che parlano di una spesa pubblica nazionale vicina al cinquanta per cento del Pil. Professore, come si è arrivati a questa situazione? Allo stato attuale, c’è un problema nella cinghia di trasmissione, per così dire. La maggiore autonomia concessa agli enti locali, ha fatto sì che si scatenasse una corsa all’acquisto, che solo in rari casi ha portato a un gestione virtuosa, e assai più spesso a gravi indebitamenti. Amministrare
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to che la bontà del decentramento ha conseguenze molto pesanti. Ci dicono che andrà tutto bene e che non ci saranno conseguenze negative, quando il federalismo diventerà pienamente operativo. Ma il fatto è che questa sensazione di autonomia, questa radiosa promessa, per il momento si paga a carissimo prezzo, perché il federalismo non ha fatto che riprodurre gli automatismi di sempre. Occorrerebbe perciò un intervento deciso sui vincoli di bilancio, e la volontà di stabilire un principio categorico: le voci di spesa non possono essere aumentate, ma solamente sostituite. Una regola che ci riporta a questioni annose. Ci spieghi pure. Il problema è tutto nelle spese storiche. Se si osservano i bilanci, ci si accorge che il 70 per cento delle voci di spesa è stato fissato trent’anni fa, e in alcuni casi anche molti più anni addietro. Ciascuna finanziaria non entra mai nel merito di quelle erogazioni perché non entra mai nell’integrale del passato, ma si attiene al delta annuale. Dietro quelle spese ormai assodate, si celano spesso autentiche gemme per il giornalista, che può scoprire magari come lo Stato spreca denari per progetti ormai desueti, e talvolta ormai completamente inutili. Il governo Prodi, segnatamente nella persona di Padoa Schioppa, aveva cominciato l’esplorazione di questa montagna di spesa, attraverso la «spending review», ma il governo Berlusconi ha interrotto l’operazione.
Il governo aveva promesso di tagliare la sanità e la scuola, ma niente di tutto questo è accaduto
i problemi senza amministrare i soldi, significa demandare a un altro la spesa, così che lo Stato centrale deve ripianare i deficit accumulati, e in qualche caso intervenire. Un meccanismo per cui si produce la paralisi. Se non si sanzionano le cattive gestioni, e non si premiano quelle buone, i governi locali non hanno alcun incentivo a far quadrare i conti. Da qui a conclamare il fallimento del federalismo all’italiana, il passo è breve Del federalismo ci vengono illustrati gli aspetti positivi come la maggiore vicinanza delle istituzioni al territorio, l’autonomia gestionale, la capacità di incidere sul territorio con politiche efficaci. Tutto vero, ma sinora dobbiamo limitarci a registrare il fat-
vizio sanitario lievitato per il prossimo triennio a 106,5 miliardi di euro di fatto è stato soltanto un saggio di quello che accadrà in futuro. Un numero che prima o poi potrebbe spingere il legislatore a rivedere i livelli essenziali di assistenza oppure ad affidarsi a coperture assicurative private per garantire le prestazioni a chi davvero ha bisogno.
”
Gilberto Muraro ha presieduto tra il 2007 e il 2008 la Commissione tecnica per la finanza pubblica. E proprio guardando alla difficile contenimento della spesa il consesso ha presentato indicazioni che oggi sembrano sempre più attuali. «Sotto questo profilo», ricorda, «si indicava come necessario un approccio strutturale volto ad allegerire la macchina dello Stato, a
L’Istat ci dice anche che aumenta la spesa per il personale. È l’effetto della sovrapposizione delle competenze tra Stato centrale ed enti decentrati? Senza dubbio. L’invecchiamento dei dipendenti genera aumenti salariali automatici legati agli scatti di anzianità, secondo una logica tutta italiana. All’estero i mglioramenti retributivi sono discrezionali e basati sul merito, In America, ad esempio, si raggiunge la paga mensile più alta in corrispondenza dei cinquant’anni di età, mediamente. Ma, giuntia quella soglia, spesso la paga decresce perché fa premio sull’efficienza. È chiaro che affidarsi a criteri anagrafici, non può che produrre nel lungo termine, un esborso retributivo sempre più elevato. Non crede che alla base di questo fallimento ci sia il fatto che la politica italiana, di sinistra e di destra, ha inseguito le istanze della Lega senza proporre un modello alternativo sostenibile? Diciamo che il federalismo vero è stato rimandato a data da destinarsi. Ci dicono che funzionerà benissimo, che tutti saremo più contenti e non ci saranno effetti collaterali. Ci viene richiesta insomma la sospensione del giudizio fino a che non sarà davvero vigente. Nell’attesa ci chiedono però di battere le mani. Una grande festa che fa dimenticare a tutti, in primis ai governatori locali, la responsabilità. E che intanto pone lo Stato centrale in una situazione di grave difficoltà. È come un party a spese altrui. Chi vorrebbe mai essere tanto impopolare da spegnere la musica e interrompere la festa?
semplificare le procedura, a modificare la ripartizione territoriale degli uffici periferici». Una ricetta lontana dalle cure choc che hanno provato a seguire per esempio Giulio Tremonti con i suoi tagli orizzontali o i blocchi del turn over al pubblico impiego in vigore di fatto da un quindicennio. «L’obiettivo», aggiunge l’economista padovano, «è quello di consentire il funzio-
namento con una minore spesa corrente evitando l’illusione di interventi drastici ma effimeri». E spiega: «Il blocco delle assunzioni potrà anche ridurre i costi, ma finisce per avere effetti perversi se non c’è una rimodulazione delle funzioni. Perché se non c’è personale a sufficienza le strade sono due: prima il ricorso al precariato e poi all’outsourcing».
politica
pagina 4 • 22 gennaio 2010
Travagli. Adesso gli uomini di Silvio parlano di «bipolarismo da difendere» senza dire a che tipo di centrodestra pensano
Il Pdl convince Berlusconi Dal vertice con Fini via libera ad alleanze con l’Udc ma a denti stretti Resta la «critica» verso il Centro, che serve a coprire la dipendenza da Bossi di Errico Novi e si prende una parte della versione ufficiale fornita da Sandro Bondi dopo il pranzo con Berlusconi e Fini sembra quasi che il Pdl abbia un disegno strategico: «Condividiamo la validità del bipolarismo e intendiamo rafforzare questo percorso», dice il ministro. È un proposito simmetrico rispetto a quello dell’Udc, che afferma di voler «smascherare questo falso bipolarismo». Intenti diversi, non c’è dubbio: e lo scarto viene sbandierato, soprattutto sul fronte berlusconiano, come ragione per criticare aspramente il Centro e le sue scelte, con un’energia al limite del paradosso. Perché alla fine dal vertice di ieri è uscito un sostanziale via libera alle alleanze con il partito di Pier Ferdinando Casini, nonostante la «valutazione condivisa negativa» verso la politica di quest’ultimo. In particolare, aggiunge il coordinatore del Pdl, «in ogni regione presenteremo un nostro candidato con un programma, quindi saranno i dirigenti regionali che dovranno vedere se c’è la possibilità di fare alleanze». Dopodiché «la cosa sarà proposta all’ufficio di presidenza che deciderà se convalidare, con l’ultima parola che spettterà comunque a Berlusconi». Insomma, lo spirito è quello di un parto sofferto, di una scelta dolorosa, fatta digrignando i denti per la rabbia e scalciando sotto il tavolo. Ha senso? O non è un paradosso, il più autolesionista che si potesse immaginare?
S
Tra i berlusconiani del Pdl, almeno tra i più vicini al premier, resta dunque valido l’ordine di servizio precedente al pranzo con Gianfranco Fini: si continuerà a esprimere gfiudii pesanti, al limite dell’offensivo, sulla strategia dell’Unione di centro. Adesso però sembra intravedersi un armamentario ideologico più robusto: Bondi introduce appunto l’elemento della «difesa del bipolarismo» che è la ragione «per cui il Pdl è nato». Peccato che a quasi un anno dal congresso fondativo non sia ancora chiaro quale bipolarismo il Pdl vuole davvero interpretare. E soprattutto quale tipo di centrodestra vuole rappresentare. Di fonte ci sono due opzioni: il centrodestra che si fa continuatore della“rivoluzione leghista”, che dà spazio a una politica egemonizzata dal Carroccio, e un altro che invece non asseconda gli estremismi lumbard e definisce una propria identità moderata, liberale, moderna. La soluzione dell’incognita richiederebbe uno sforzo politico serio. Soprattutto perché se il Pdl vuole optare per la seconda ipotesi deve partire quasi da zero: deve cioè riempire di contenuti un’azione politica finora piuttosto scarna. Dovrebbe per esempio decidersi a utilizzare su altri temi decisamente più urgenti per il Paese le energie finora disperse attorno alla giustizia. Ma intanto a mostrare questa volontà dovreb-
Gli attacchi ai centristi e il progetto dei moderati
Dietro i “due forni” c’è il disegno di un nuovo sistema politico di Giancristiano Desiderio a chiamano, con disprezzo, la politica dei due forni e, invece, è la necessaria politica dei due forni moderati che, purtroppo, ancora non si sono formati in modo stabile e compiuto. È quasi una cosa scontata dirlo, perché senza due centri moderati che confinano tra loro fino a toccarsi non c’è una decente democrazia dell’alternanza o, come si dice in Italia, bipolarismo. La scelta dell’Udc, ossia del partito che prova a unire chi crede nei valori della moderazione e del cattolicesimo liberale, è quella di allearsi a destra con il Pdl quando non c’è la Lega o non prevale il radicalismo leghista e, viceversa, quando c’è la Lega o prevale il suo estremismo, la scelta ricade sulla sinistra sì, ma con una chiara cultura riformista e quindi moderata. Come si vede - e come testimoniano le stesse alleanze nelle regioni da Nord a Sud - non solo è una via semplice e lineare, ma è addirittura una strada necessaria perché la democrazia dell’alternanza ha bisogno per funzionare di almeno due classi dirigenti che siano l’una il ricambio dell’altra e non, come accade in Italia, l’una la negazione e demonizzazione dell’altra. Ma siccome il pane che lievita nei due forni in campo, e soprattutto in quello del fornaio del Cavaliere, è un po’ indigesto e troppo dipendente dall’impasto leghista, ecco che si ricorre alla antica metafora democristiana dei due forni, ma disprezzandola.
L
Se Pier Ferdinando Casini - e con lui i moderati - avesse voluto praticare effettivamente una politica fatta tutta di calcolo e di opportunità da cogliere al volo non avrebbe incontrato grossi problemi: gli accordi si sarebbero fatti in una notte perché l’intesa sulle poltrone e gli incarichi è quella che si trova sempre. Non avrebbe trovato granché difficoltà neanche se avesse cercato la prima delle candidature: la presidenza. Anzi, si è trovato nella condizione capovolta: ha rifiutato quanto gli veniva offerto. I fatti, per chi li voglia osserva-
re, stanno lì a testimoniarlo. Ma c’è anche un’altra prova ed è probabilmente quella più significativa: il diktat di Bossi che vuole dividere le alleanze politiche in base ad una nuova “linea gotica” che ha il letto del fiume Po come il confine oltre il quale i moderati non dovrebbero osare spingersi. Ma, almeno e soprattutto in questo, i moderati devono essere estremi perché ciò che è in gioco - come ha capito Bossi e, con lui, anche Berlusconi - è una diversa concezione della politica bipolare.
Nessuno si nasconde dietro un dito. La collocazione più naturale dei cattolici moderati è con un centrodestra rivisitato, non più tendenzialmente “monarchico” e diventato finalmente un’istituzione nel panorama della storia della politica repubblicana dell’Italia. Insomma, è il giusto ampliamento o, meglio, superamento del cosiddetto “arco costituzionale”della Prima repubblica. Purtroppo, proprio il Pdl, per come si è formato e per come è interpretato, è la negazione di questa crescita della politica italiana: tutto si regge sulle spalle di un uomo che a sua volta è legato al leghismo. Più il Pdl è il “partito della lega”più l’Udc ha ragione di esistere e più Berlusconi crede di dover ricondurre a miti consigli Casini. Un errore madornale. Che cos’è l’attuale bipolarismo se non la riproposizione di quella democrazia bloccata da cui si sarebbe dovuti uscire? I moderati lavorano per la realizzazione della promessa mancata della democrazia dell’alternanza. È questo il motivo che spinge Berlusconi a nutrire propositi di distruzione dell’unione di centro. Prima ancora della questione delle percentuali elettorali, ciò che turba i sogni berlusconiani e dei berlusconiani è l’esistenza di un partito che sventola la bandiera moderata. Armato di sondaggi, dati, numeri e slogan il Cavaliere si agita e cerca di “comunicare” che il voto all’Udc è inutile e proprio mentre lo pensa e lo fa, manifesta la sconfitta del suo liberalismo.
be essere innanzitutto il suo leader, Berlusconi, che invece sembra imprigionato nella sua rancorosa ossessione per una exit strategy definitiva dai processi. Fare politica nel senso di disegnare scenari, impostare riforme, modernizzare lo Stato è per il presidente del Consiglio un pensiero accessorio, subordinato. Ci sarebbe da chiedersi se davvero le cose cambieranno, il giorno in cui fosse approvato in via definitiva il processo breve, e magari il legittimo impedimento, e chissà, un lodo Alfano costituzionale. E se Berlusconi interromperà davvero questo «sciopero della politica» di cui parlano persino alcuni suoi dirigenti e scioglierà davvero il dubbio tra l’opzione neoleghista – arrivata ora al punto che i padani pongono il veto sulla presenza della dicitura “Berlusconi” nel simbolo per le regioni del Nord – e quella liberale.
L’iniziativa dell’Udc naturalmente crea un problema enorme, a questo Pdl che sospende il giudizio su stesso: la scelta del Centro di non offrire sostegno nelle regioni in cui è presente la Lega, oltre che in quelle dove il candidato presidente è espressione diretta di Bossi, una simile chiarezza strategica, è scomoda, per il partitone unico, perché sollecita a sciogliere quel nodo identitario in tempi rapidi. Da qui l’isteria delle aggressioni al partito di Casini: anche un moderato come Bondi insiste, per esempio, nell’indugiare sulla metafora delle «macchie di leopardo». Un suo sottosegretario, quel Francesco Giro che ha lavorato per anni al coordinamento nazionale di Forza Italia, sperimenta arditi neologismi come «doppiofornismo». Non senza dare ulteriore prova di sindrome autolesionista con una puntuale frecciatina a Renata Polvertini, colpevole a suo dire di «trasversalismo» quando condivide posizioni «di sinistra» sull’articolo 18. Meno male che per Berlusconi all’incontro del De Russie è andato «tutto bene, come doveva andare». Perché quella puntualizzazione di Bondi sull’ultima scelta che spetta al premier sembra invece confermare che il presidente del Consiglio vive con disagio l’eventualità di alleanze con l’Udc. «Sapete qual è il problema? È che per Silvio gli accordi non possono mai sfuggire alla sua personale logica, che è quella del diritto privato: le alleanze per lui sono patti», dice un dirigente del Pdl di rango elevato, «e in un patto, per esempio in quello con la Lega, il contraente si attiene e basta, non crea problemi: Bossi sulla giustizia fa scivolare tutto. Con altri, con l’Udc, si ricadrebbe nel diritto pubblico, si discuterebbe in termini problematici. E questo è completamente estraneo alla natura di Berlusconi». Andrebbe tutto bene se all’interno di questo impenetrabile recinto il Pdl sviluppasse una politica davvero riconoscibile. E non avesse consegnato da tempo, alla Lega, molto più potere di quanto non fosse previsto nel patto.
politica
22 gennaio 2010 • pagina 5
I partiti stanno per varare la lista completa dei candidati per le Regionali
Roberto Cota e Mercedes Bresso sono i candidati della destra e del centrosinistra in corsa alla regione Piemonte
Ecco la mappa delle alleanze È quasi tutto deciso, ma l’incertezza regna ancora in Umbria, Campania e Puglia di Francesco Capozza
Roberto Formigoni, appoggiato da Pdl e Lega in Lombardia si batterà anche contro l’ex presidente della Provincia, Filippo Penati del Pd
Il leghista Luca Zaia e il centrista De Poli, per il momento sono i candidati più in vista per il governo del Veneto per il dopo-Galan
Vasco Errani, Pd, presidente uscente della regione Emilia Romagna, dovrà vedersela con il centrista Gian Luca Galletti
Ormai sembra deciso, nel Lazio la sfida sarà fra due donne: Renata Polverini per il centrodestra e la Bonino per la sinistra
In Campania, il candidato del Pdl sarà Stefano Caldoro, mentre per il Pd la scelta non è ancora definitiva: si parla di Ennio Cascetta
ROMA. Il 28 e 29 marzo si voterà in 13 regioni. Né il centrodestra, né il centrosinistra, tuttavia, hanno ancora definito tutti i candidati in corsa per un appuntamento elettorale che qualcuno chiama addirittura «politiche mascherate da Regionali» e qualcun altro, invece, ritiene essere il vero e proprio primo referendum su Berlusconi dopo le politiche vinte largamente nel 2008 ma dopo delle elezioni europee, quelle del giugno 2009, non proprio esaltanti. Dopo la colazione di lavoro (avvenuta ieri in modo inconsueto, in un albergo della capitale) fra il premier e il presidente della Camera Fini, co-fondatore del Pdl, il puzzle, almeno nella maggioranza, sembra si stia risolvendo con le ultime caselle. A Berlusconi, questo è il mandato dei vertici pidiellini, il mandato a gestire la trattativa con l’Udc di Pier Ferdnando Casini e a ratificare con l’ultima parola le decisioni prese dalle singole assemblee regionali di partito. Sia da una parte, sia dall’altra, però, si attende il risultato delle primarie di domenica in Puglia. Se vincerà Nichi Vendola (ricandidatosi alle primarie senza l’appoggio di alcun partito), è chiaro che il quadro è destinato a mutare, con l’Udc che in tal caso si è già detta disponibile ad appoggiare il candidato del Pdl pur di sbarrare la strada al governatore uscente. Ma ecco, nel dettaglio, la situazione attuale, regione per regione. PIEMONTE Per il centrosinistra correrà la presidente uscente Mercedes Bresso (Pd); nella coalizione che la appoggia - dopo alcune resistenze iniziali - c’è anche l’Udc, ma potrebbero esserci anche Prc e Pdci. Per il centrodestra in campo l’esponente della Lega Roberto Cota, già vicepresidente del consiglio regionale durante il governo di Enzo Ghigo. Attualmente è presidente del gruppo del Carroccio alla Camera e segretario regionale del partito. LOMBARDIA I candidati sono il presidente uscente, Roberto Formigoni (Pdl), e l’ex presidente della provincia di Milano e braccio destro di Bersani al partito, Filippo Penati (Pd). Per l’Udc si profila una corsa solitaria più che un appoggio a Formigoni. LIGURIA Il presidente uscente Claudio Burlando viene ricandidato dalla coalizione di centrosinistra con l’appoggio, siglato nelle scorse ore, anche dell’Udc. Lo sfida l’ex governatore Sandro Biasotti (in carica nel periodo 2000-2005), candidato che unisce Pdl e Lega Nord. VENETO Per il centrodestra sarà il ministro leghista Luca Zaia a correre per la poltrona lasciata libera da Galan (che sarà ricompensato entrando nella compagine governativa, probabilmente proprio al posto di Zaia). Nel centrosinistra non c’è ancora un nome condiviso, ma il Pd potrebbe convergere sul candidato dell’Udc, Antonio De Poli. Da segnalare la candidatura ufficiale di un altro ministro, Renato Brunetta, come candidato sindaco di Venezia. In caso di vittoria, il titolare dell’Innovazione ha già detto che conserverà entrambi gli incarichi.
EMILIA ROMAGNA Il centrosinistra punta su Vasco Errani, candidato per il terzo mandato. Il presidente della conferenza delle Regioni ha incassato la deroga all’unanimità dell’assemblea del Pd. Il Pdl è alla ricerca di un candidato, mentre l’Udc punta su Gian Luca Galletti. TOSCANA Enrico Rossi (Pd), attuale assessore regionale alla Sanità, è il candidato del centrosinistra. Il Pdl non ha ancora ufficializzato un nome, come pure l’Udc, che probabilmente correrà in solitaria. Il fotografo Oliviero Toscani ha ritrato la sua candidatura per i radicali. UMBRIA Il centrosinistra è nel caos per il dopoLorenzetti (che non si può ricandidare se non con i 2/3 dei voti dell’assemblea regionale del Pd). Si profilano le primarie, anche perché richieste dall’ex tesoriere del Pd Mauro Agostini, auto-candidatosi. Anche nel centrodestra buio totale, la candidatura più probabile è quella di Fiammetta Modena, capogruppo Pdl in regione. L’Udc sta a guardare. LAZIO L’ex sindacalista Renata Polverini, appoggiata da una vasta coalizione che comprende anche La Destra di Storace e l’Udc, sfida Emma Bonino per il dopo-Marrazzo. MARCHE Per il centrosinistra in corsa il presidente uscente Gian Mario Spacca (Pd), che si appresta ad avere l’appoggio dell’Udc in un’inconsueta coalizione che comprende anche l’Idv di Antonio Di Pietro. Il Pdl non ha ancora deciso chi candidare in una regione considerata da molti tra quelle in bilico. CAMPANIA Per il Pdl correrà l’ex ministro per l’attuazione del programma, il socialista Stefano Caldoro, appoggiato anche dall’Udc e dall’Udeur. L’Mpa schiera in solitaria Riccardo Villari, salito all’onore delle cronache lo scorso anno per la sua tenace resistenza alla guida della Vigilanza Rai. Il Pd deve ancora scegliere il suo candidato per il dopoBassolino, ma si fanno i nomi di Ennio Cascetta, attuale assessore alla Sanità regionale e del rettore dell’università di Salerno, Raimondo Pasquino. BASILICATA La candidatura di Magdi Cristiano Allam per il Pdl ha spiazzato l’Udc, che ha già siglato l’accordo con il Pd per la riconferma di Vito De Filippo. CALABRIA Il centrosinistra non ha definito ancora un candidato, spera di trovare l’accordo con l’Udc (si dice sulla candidatura del centrista Roberto Occhiuto) per conservare una regione che alcuni sondaggi danno già vinta dal candidato del centrodestra, il sindaco di Reggio Giuseppe Scopelliti. PUGLIA È la situazione più paradossale, con Vendola che si ripresenta alle primarie – in agenda domenica - contro Francesco Boccia (Pd) per cui in questi ultimi giorni si sta spendendo mezzo partito. Se vincesse Boccia è certo l’accordo con l’Udc, in caso contrario i centristi appoggerebbero il candidato del Pdl che potrebbe essere Adriana Poli Bortone o la novità emersa dal vertice di mercoledì, il mezzobusto del Tg1 Attilio Romita, opzione che piace moltissimo al premier in persona.
Le situazioni più ingarbugliate riguardano soprattutto il Pd che in alcune zone ha deciso di affidarsi alle primarie e in altre non ha preso decisioni
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pagina 6 • 22 gennaio 2010
Processi. Botta e risposta tra il Guardasigilli e i vertici del sindacato dei magistrati sul disegno di legge approvato al Senato
È scontro tra Alfano e l’Anm
Cascini: «È la resa dello Stato». Il ministro: «Mi cadono le braccia» ROMA. Angelino Alfano prova
nomia della magistratura, attribuiscano al giudice il ruolo centrale nell’esercizio della giurisdizione e garantiscano ad un separato ordine dell’accusa piena autonomia nell’esercizio dell’azione penale nonché nello svolgimento delle indagini sulle notizie di reato che ad esso pervengano». Per il Csm, secondo Alfano «dovrà essere ripensata la struttura, la composizione e la funzione del Consiglio superiore della magistratura, ben oltre l’esigenza di innovarne il sistema elettorale che, come è noto, può essere modificato con legge ordinaria». Alfano ha ricordato quanto letto nell’autobiografia di Mino Martinazzoli, che era Guardasigilli nel 1983, rilevando che in quel libro si parla di problemi, esistenti già 27 anni fa, come le sedi disagiate, il sovraffollamento carcerario, la geografia giudiziaria, la separazione delle carriere, l’esigenza di informatizzazione e la scarsità di risorse.
di Franco Insardà
a spostare il tiro: «Vogliamo abbattere in mille giorni, ossia in 3 anni, gli oltre 5 milioni di processi civili pendenti». Ma è sui procedimenti penali, soprattutto se a carico del premier, che si sofferma l’attenzione del Paese. Non a caso ieri mattina l’opposizione, dopo che il Guardasigilli ha illustrato la relazione sullo stato della giustizia, lo ha ribattezzato «il ministro ad personam della giustizia». La definizione è del capogruppo del Pd in commissione Giustizia della camera, Donatella Ferranti. Alfano si era appena augurato che «il 2010 possa essere un anno importante. La maggioranza e il governo si pongono nella logica di non perdere l’occasione che quest’anno possa offrire loro», ribadendo «la volontà di procedere con gli impegni assunti lo scorso anno, e più specificamente con la grande riforma della giustizia, che abbia sede e luogo nella Costituzione della Repubblica». E giusto per chiarire ha aggiunto che il disegno di legge sul processo breve «benché di iniziativa parlamentare è sostenuto dal governo».
Sull’azione riformatrice del governo ha sollevato molti dubbi Lorenzo Ria che, a nome dell’Udc, ha replicato al ministro, ricordando che il suo partito ha avanzato diverse proposte per rendere più efficiente il sistema giudiziario, dando la disponibilità «a riforme condivise testimoniate dalla proposta sul legittimo impedimento impostata come soluzione ponte. Il processo breve - secondo Ria - è un mero provvedimento tampone, che peraltro recherà un vulnus all’ordinamento giudiziario». E il responsabile organizzativo dell’Udc, Saverio Romano ha dichiarato: «Nel Paese c’è una domanda di giustizia giusta. Dal ’94 si parla di riforma, ma finora non è’ arrivata mai una risposta alle lungaggini processuali e al riequilibrio dell’accusa e della difesa. La verità è che stiamo vivendo un cortocircuito tra presidente del Consiglio e magistratura». Anche il segretario del Pd, Pierluigi Bersani annuncia battaglia, ma spera che ci sia una riflessione della maggioranza . Il dissenso dell’Anm sul processo breve non si è fatto attendere. Secondo il presidente Luca Palamara questa legge «traduce il processo penale in una tragica farsa. È incomprensibi-
Lo stesso vicepresidente le che questa normativa si applichi anche ai processi in corso e mandi al macero i fascicoli che riguardano quelli per la TyssenKrupp o per le morti di amianto. Questo significa dire di no alle vittime di molti reati che riguardano la truffa, la corruzione, la violenza privata, gli omicidi colposi legati all’attività medica».
Per il presidente dell’Anm si tratta di «un colpo di spugna perché, anziché migliorare il sistema, procura soltanto danni». Palamara ha anche sollevato dubbi sull’incostituzionalità della norma perché «l’applicazione retroattiva crea incongruenze dal punto di vista giuridico. Alcuni aspetti vanno esaminati a fondo, in particolare quello di prevedere fasi diverse per le varie tipologie di reato, per i fatti commessi prima del 2 maggio 2006 e per quelli successivi». Il presidente ha annunciato che l’Anm «sta valutando le iniziative da adottare per far sentire la nostra voce e sensibilizzare l’opinione pubblica su problemi che non sono solo dei magistrati ma sono dei cittadini, dei lavoratori, di tutta la società civile». E ha anche precisato che quelli dell’Anm sono « giudizi esclusivamente di carattere tecnico sulle conseguenze gra-
vemente dannose ed estremamente negative del provvedimento. Sono giudizi che esprimo anche in qualità di presidente del Comitato Intermagistrature - ha sottolineato Palamara - a testimonianza del fatto che le preoccupazioni sono di tutte le magistrature - ordinaria, contabile e amministrativa - e dell’Avvocatura dello Stato che hanno condiviso il grido di allarme». Palamara lancia un invito affinché «si ascolti la voce di chi quotidianamente opera nelle aule di
dello Stato democratico». Sul piede di guerra Associazione nazionale forense con il suo segretario Ester Perifano secondo la quale «il disegno di legge sul processo breve rappresenta l’ennesimo intervento settoriale nella materia penale. Il processo rischia di tramutarsi in una amnistia generalizzata, in assenza, tra l’altro, di tutela dei diritti delle persone offese».
Ma la replica del ministro non si è fatta attendere: «Mi cadono le braccia. Alfano ha defi-
Mancino: «C’è stato un giudizio formalmente recepito del plenum del Csm, ma io devo rispettare anche la volontà del Parlamento» giustizia e che sottolinea il rischio di un durissimo colpo al funzionamento del processo».
Ancora più duro il segretario dell’Anm, Giuseppe Cascin: «Questa è la resa dello Stato di fronte alla criminalità. Abbiamo il dovere di denunciare la gravità delle conseguenze di questa legge». E aggiunge «il presidente del Consiglio continua ad avere scarso senso delle istituzioni usando espressioni ingiuriose nei confronti dei magistrati. Si stanno mettendo in discussione le fondamenta
nito le parole del segretario dell’Anm Cascini come “plateali mistificazioni” aggiungendo che «una cosa è che talune affermazioni giungano dalle opposizione, ben altra cosa è che a pronunciarle siano i rappresentanti della magistratura». E ieri il Guardasigilli ha ribaditola volontà di andare avanti sulla separazione delle carriere e la riforma del Csm precisando che «è indispensabile procedere alla riscrittura di alcune fondamentali e strategiche norme costituzionali che, ferma l’indipendenza e auto-
del Csm Nicola Mancino, ai microfoni di Sky Tg24, ha ricordato «la preoccupazione della mancanza di strutture, già emersa nelle scorse settimane», e le perplessità dei procuratori della Repubblica e dei presidenti dei Tribunali «sui tempi previsti dai proponenti». Mancino ha dichiarato di rinviare il suo giudizio sul testo licenziato dal Senato aggiungendo che: «aspettiamo la seconda lettura della Camera che potrà apportare ulteriori elementi. C’è stato un giudizio formalmente recepito attraverso la discussione in plenum e quello resta, ma io devo rispettare anche la volontà del Parlamento». Intanto ieri la Camera ha approvato due risoluzioni riguardanti la relazione sullo stato della giustizia presentata dal ministro Alfano: la prima del Pdl e la seconda, all’unanimità, dell’Udc. Il Guardasigilli ha espresso anche la sua «personale soddisfazione» per l’approvazione dell’emendamento del governo al dl sulle sedi disagiate che riprende sostanzialmente il contenuto dell’emendamento del Pd e dell’Udc (sottoscritto anche dall’Idv) così da consentire ai vincitori del concorso in magistratura del 2009 di poter assumere le funzioni di Pm in quelle che il ministro della Giustizia ha definito sedi “sgradite”ai magistrati.
diario
22 gennaio 2010 • pagina 7
Momenti di tensione durante la protesta contro la Fiat
Nessun collegamento con la visita del capo dello Stato
Un malore per un operaio sul tetto di Termini
Un’auto piena di esplosivo trovata a Reggio
TERMINI IMERESE. È stato col-
REGGIO CALABRIA. Un vero
to da un malore ieri mattina uno dei diciotto lavoratori della ”Delivery Email”, azienda dell’indotto Fiat di Termini Imerese, che da tre giorni protestano su un tetto di un capannone della fabbrica automobilistica dopo essere stati licenziati per il mancato rinnovo del contratto di servizio con la loro ditta. L’uomo, Michele Balsamo, ha accusato un malessere che gli impediva di reggersi in piedi e inun primo momento è stato assistito dai compagni, ma anche dal segretario provinciale della Uilm, Vincenzo Comella e dal responsabile della Fiom Cgil di Termini Imerese Roberto Mastrosimone che sono saliti sul tetto a propria volta. Poi, dopo l’arrivo di un’ambulanza chiamata dai sindacalisti, l’operaio della Delivery Email è stato sistemato su una barella ed è sceso dal tetto con un sistema di corde e tiranti allestito dai vigili del fuoco del nucleo speleoalpino. A questo punto è stato trasportato in ospedale.
arsenale bellico è stato trovato dai carabinieri su un’automobile parcheggiata nei pressi dell’aeroporto di Reggio Calabria. La macchina si trovava in via Ravagnese. La scoperta è stata fatta durante i pattugliamenti predisposti per la visita del Capo dello Stato Giorgio Napolitano. Ma l’episodio, stando a quanto subito affermato ufficialmente dalle forze dell’ordine, non è da collegarsi in alcun modo alla visita del presidente, bensì riguarderebbe una banda di criminali (probabilmente estorsori) che si sono sentiti in pericolo proprio per i pattugliamenti delle forze dell’ordine che hanno vigilato per l’intera permanenza
«La situazione è drammatica ha commentato Comella - perché i manifestanti sono stremati dopo due notti all’addiaccio, e molto provati dal maltempo di questa mattina con un vento fortissimo. Però, malgrado le condizioni proibitive, i lavorato-
Bce, nuovo allarme disoccupazione europea Per Trichet è arrivato il momento dell’exit strategy di Alessandro D’Amato
ROMA. Niente di nuovo sul fronte monetario. Il bollettino di gennaio della Banca Centrale Europea ricalca in tutto e per tutto quanto detto dal presidente Jean Claude Trichet in occasione della conferenza stampa seguita alla prima riunione del mese dell’istituto europeo in cui ha annunciato stabilità per i tassi. In sintesi, Trichet consiglia agli stati della zona euro di attendere prima di tagliare le tasse e di tenere d’occhio il debito pubblico, mentre la ripresa è ancora troppo fragile per poterci considerare fuori dalla crisi e la disoccupazione nell’area desta ancora molta preoccupazione.
«Gli sgravi fiscali andrebbero considerati soltanto nel medio periodo, una volta che i Paesi avranno recuperato un sufficiente margine di manovra nei bilanci», dice la Bce nel Bollettino di gennaio nel quale ricorda che i governi di molti paesi dell’area euro devono far fronte a squilibri di bilancio notevoli e in netto incremento. La Bce esorta gli esecutivi «a decidere e attuare tempestivamente strategie di uscita dalle misure di stimolo e strategie di riequilibrio dei conti che siano ambiziose, fondate su ipotesi di crescita realistiche e incentrate soprattutto sulla riforma della spesa». Francoforte ammette inoltre che «l’attuale impegno dei governi ad avviare il processo di risanamento al più tardi nel 2011, spingendosi ben oltre il parametro dello 0,5% del Pil all’anno in termini strutturali, rappresenta il requisito minimo per tutti i paesi dell’area dell’euro». Secondo la Bce il successo delle strategie di riequilibrio dei conti «dipenderà essenzialmente anche dall’esistenza di norme di bilancio e istituzioni nazionali adeguate e richiederà trasparenza delle procedure di bilancio, nonché statistiche di finanza pubblica complete e affidabili». Ed è difficile non vedere nella battuta un riferimento, nemmeno tanto velato, alle polemiche che hanno coinvolto l’istituto di statistica greco e il suo comportamento in occasione del conteggio del debito pubblico del paese ellenico. L’analisi della Bce sulla situazione della crescita è poi severa, forse più severa dell’ottimi-
smo promulgato da Ocse e Fmi di recente. Nel 2010, secondo Francoforte, l’espansione dell’economia di Eurolandia avrà un ritmo moderato e il processo di recupero risulterà probabilmente discontinuo, sottolinea ancora la Banca Centrale Europea secondo cui la disoccupazione nell’area dell’euro dovrebbe seguitare ad aumentare in certa misura. Le ultime informazioni, rileva l’Istituto di Francoforte, «confermano che l’attività economica nell’area dell’euro ha continuato ad espandersi sul fine del 2009, dopo l’incremento sul periodo precedente dello 0,4% del Pil in termini reali nel terzo trimestre dello scorso anno». Alcuni dei fattori che sostengono la ripresa, osserva la Bce, «hanno tuttavia carattere temporaneo. Inoltre, è probabile che l’attività sia frenata per un certo periodo dal processo di aggiustamento dei bilanci in corso nei settori finanziario, sia all’interno che all’esterno dell’area dell’euro». In aggiunta , sottolinea, «il basso grado di utilizzo della capacità produttiva potrà verosimilmente ridurre gli investimenti e la disoccupazione nell’area dell’euro dovrebbe seguitare ad aumentare in certa misura, attenuando la crescita dei consumi. Di conseguenza ci si attende che l’economia dell’area cresca ad un ritmo moderato nel 2010 e il processo di recupero potrebbe risultare discontinuo».
«È giunta l’ora di affrontare il nodo delle ristrutturazioni bancarie», dice il bollettino dell’istituto della Ue
ri sono intenzionati a resistere finché non avranno risposte sul loro futuro». Intanto, solidarietà agli operai e preoccupazione per la situazione di termini Imerese è stata espressa da esponenti locali di tutti i partiti, dal Pd al Pdl. In più Roberto Commercio, deputato nazionale del Movimento per le Autonomie, ha detto: «Se la chiusura della Fiat di Termini Imerese dovesse verificarsi, la casa automobilistica non dovrà più ricevere alcuna forma di sovvenzionamento da parte dello Stato». Il segretario nazionale dell’Ugl metalmeccanici, invece, dopo un incontro con gli operai ha detto: «Abbiamo incontrato gli operai per dimostrare loro la solidarietà di tutta la categoria».
Poi arriva un’indicazione ai governi dell’area dell’euro sul credito: «Un’adeguata ristrutturazione» del settore bancario dovrebbe rivestire «un ruolo importante» per le riforme strutturali. L’istituto di Francoforte non precisa i singoli Paesi a cui si riferisce, ma è presumibile parli in particolare a quelli che, come l’Inghilterra, hanno dovuto effettuare durante la crisi massicci interventi di salvataggio degli istituti privati e pubblici. «Situazioni patrimoniali sane - si legge nel Bollettino – un’efficace gestione del rischio e l’adozione di modelli imprenditoriali solidi e trasparenti sono essenziali per rafforzare la tenuta delle banche agli shock gettando le basi per una crescita economica sostenibile e per la stabilità finanziaria».
del Capo dello Stato a Reggio. Nell’auto sono stati sequestrati due fucili a canne mozze, due pistole (una a tamburo e una semi automatica), esplosivo, benzina e due ordigni rudimentali formati da cilindri alti 30 centimetri e di 15 centimetri di diametro.
«Il ritrovamento dell’auto con esplosivo conferma la situazione di difficoltà che si sta vivendo a Reggio Calabria»: è stato questo il commento, riferito all’agenzia di stampa Ansa, del Procuratore della Repubblica di Reggio, Giuseppe Pignatone. «I carabinieri hanno avviato le indagini - ha aggiunto Pignatone - e a breve contiamo di ottenere maggiori elementi di valutazione per capirne di più. Ringrazio il Presidente della Repubblica per la solidarietà espressaci e per il suo appello a mobilitarsi contro la ’ndrangheta rivolto a tutte le coscienze in Calabria e fuori». Il Presidente Napolitano aveva incontrato tre degli immigrati rimasti feriti durante gli scontri di Rosario prima di raggiungere il liceo artistico Mattia Preti dove si è tenuta la cerimonia per la Giornata della legalità. Il Capo dello Stato ha avuto con i tre un breve colloquio e, lasciandoli, li ha anche baciati sulle guance.
società
pagina 8 • 22 gennaio 2010
Futuro. La maggioranza ha proposto di sostituire l’ultimo anno dell’obbligo con un periodo di avvio alla professione
Tutti a scuola di lavoro I ragazzi devono «imparare la vita»: proprio a questo serve l’apprendistato di Giuseppe Bertagna ttualmente, a partire dai 16 anni, esistono tre tipi di apprendistato. Il primo è quello formativo. Riguarda l’esercizio del dirittodovere di istruzione e di formazione di tutti i ragazzi fino a 18 anni. I suoi vincoli di svolgimento e i suoi risultati formativi dovrebbero essere stabiliti e controllati dal ministero dell’istruzione. Fa parte a pieno titolo delle «norme generali» di cui all’articolo 33 e 34 della Costituzione, declinate per la prima volta nella storia della Repubblica dalla legge n. 53/03 e dal rimando alla legge Biagi. Il secondo tipo è l’apprendistato professionalizzante, riformulato nel 1997 del ministro Treu. Riguarda i giovani dai 18 ai 29 anni assunti in un lavoro che, causa anche la scuola frequentata, non sanno svolgere bene e che dovrebbero, perciò, essere messi nelle condizioni di imparare a svolgere meglio, in termini di qualità. Coinvolge soltanto il ministero del lavoro e le parti sociali. È da articolo 35 comma 1 della Costituzione. Il terzo tipo è quello di alta formazione. Riguarda i giovani laureati specialistici che, in accordo con l’azienda, si specializzano in percorsi formativi di dottorato universitario per incrementare le proprie competenze superiori. Chiama in causa sia il ministero dell’università sia quello del lavoro sia, a maggior ragione gli accordi tra aziende e università per quanto riguarda le attività formative di e di lavoro in internship. Chiama in causa sia gli articoli 33 e 34 sia l’articolo 35 della Costituzione.
A
Il primo, però, ad oggi, interessa percentuali da prefisso telefonico, per di più con due zeri prima della virgola in molte parti d’Italia. Ed è di solito considerato una sconfitta personale e sociale. I giovani ritenuti «meritevoli» dai mass media e dalla mentalità comune, quelli premiati con le varie «doti», frequenterebbero infatti in prima istanza i licei, e poi a seguire, in una consolidata scala progressivamente discendente, gli istituti tecnici, gli istituti professionali e i corsi triennali di istruzione e formazione professionale delle regioni. All’apprendistato giungono, a 16 anni, in questo modo,
soltanto i «falliti» o i «feriti gravi» dalla scuola, quelli che in dieci anni appunto di, per loro tristi, aule scolastiche, tra bocciature e svalutazioni, hanno sostanzialmente interiorizzato in maniera incrollabile il seguente pregiudizio che nessuno riuscirà a svellere dalla loro testa per tutta la vita: chi studia non lavora, chi lavora non studia; chi studia dovrebbe comandare e mai sporcarsi le mani e chi lavora dovrebbe obbedire a chi ha studiato e lavarsi le mani sporche a fine turno.
Il secondo tipo di apprendistato fa naturalmente la parte del leone anche perché le aziende possono godere di vantaggi fi-
scali e contributivi a fronte di un lavoratore adulto. Non a caso ha avuto un vero e proprio boom, negli ultimi dieci anni. Ma è interessante osservare che un apprendista professionalizzante su quattro ha più di 25 anni (!) e che quasi il 60% della platea dei professionalizzanti non è riuscito ad andare oltre la terza media (quasi a riconfermare che perfino l’apprendistato professionalizzante sarebbe per chi non riesce bene a scuola!). La terza tipologia di apprendistato è non solo poco praticata, ma anche quasi sconosciuta all’opinione pubblica. E l’accademia nazionale si guarda bene dal valorizzarla, sebbene nel recente documento programmatico Italia 2020 dei ministri Sacconi e Gelmini sia additato come la risorsa formativa più strategica per la nostra competitività internazionale. In effetti, dovrebbe essere la tipologia che conferma l’uscita dell’apprendistato dallo stato di minorità in cui è stato cacciato dagli scolastisticismi vari, visto che potrebbe confermare il principio che si può arrivare ai dottorati non solo attraverso la filiera tradizionale dei licei e dell’università, ma anche attraverso quella meno convenzionale dell’apprendistato.
Artigiani, muratori, montatori meccanici di precisione, carpentieri: sono tante le professioni abbandonate dai giovani: e questo perché mancano del tutto gli strumenti formali per promuoverle
In una Repubblica che, articolo 1 della Costituzione, dovrebbe «essere fondata sul lavoro»; in una civiltà il cui il libro fondativo, la Bibbia, si apre con un Dio che lavora e che, alla fine, si compiace di aver «fatto bene»; in una storia, come la nostra, scandita dall’equiparazione tra preghiera e lavoro (san Benedetto); da un san Tommaso, da un Kant e da un don Bosco che qualificano le mani come «l’organo degli organi» dell’uomo; dalle straordinarie esperienze di unità tra teoria e pratica condotte nelle botteghe medievali e rinascimentali; dagli operai dell’Arsenale veneziano dai quali Galileo dichiara di aver imparato molto più che dai suoi sussiegosi colleghi dell’università di Padova; dall’Enciclopedia di Diderot e D’Alambert che aveva solo tre volumi teorici, ma ben venti dedicati ai mestieri e al lavoro, su su fino agli sconosciuti ma decisivi lavoratori che, con la loro intelligenza, hanno per-
fezionato incrementalmente le tecniche di produzione che hanno a suo tempo autorizzato la prima, la seconda e le terza rivoluzione industriale, la circostanza di questa incredibile sottovalutazione del possibile ruolo formativo dell’apprendistato dovrebbe parecchio impensierire. E dovrebbe impensierire per due ragioni.
Anzitutto perché già oggi, dati Excelsior e di altre indagini alla mano, non si trovano artigiani, muratori, brasatori, montatori meccanici di precisione, addetti al controllo di qualità, carpentieri, addetti alle macchine del movimento terra o ad attrezzature tipo jumbo, sonde, trivelle, frese per la perforazione, gruisti e autogruisti, operatori del settore asfalti, attrezzisti, fresatori, tornitori, falegnami specializzati, programmatori informatici, tecnici della contabilità aziendale, disegnatori tecnici e simili, addetti al commercio e al turismo (camerieri, cuochi, baristi ecc.). E non si trovano, va ricordato, non persone che, in questo mestieri, «lavorino bene», come si deve, con intelligenza, cultura, orgoglio e responsabilità, «coordinandosi altrettanto bene» con gli altri professionisti, altri che oggi parlano sempre più sia in italiano sia in lingua straniera, ma non si trovano semplicemente persone che «lavorino» in questi campi, anche un tanto al chilo, con quell’approssimazione che così tanto indispone i fruitori del servizio.
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22 gennaio 2010 • pagina 9
Il nodo è l’“uso” dell’ultimo anno dell’obbligo
Un emendamento della maggioranza ROMA. Tutto è cominciato con un emendamento al disegno di legge Lavoro, collegato alla Finanziaria, approvato mercoledì scorso dalla commissione Lavoro della Camera: il testo prevede che l’apprendistato possa valere a tutti gli effetti come assolvimento dell’obbligo di istruzione. In altre parole, se il provvedimento dovesse andare in porto gli studenti meno volenterosi come quelli molto interessati a entrate nel mondo del lavoro prima possibile potrebbero uscire dalle aule scolastiche un anno prima dell’attuale obbligo scolastico, fissato a 16 anni. L’emendamento, che pure non è stato “sbandierato” troppo dalla maggioranza, è stato subito contestato dall’opposizione di sinistra: «La In secondo luogo, dovrebbe impensierire perché se un personaggio come Emmanuel Mounier sosteneva che «lavorare è fare uomini» significa che oggi stiamo «facendo troppo pochi uomini». E che abbiamo dimenticato il valore intrinsecamente educativo di ogni lavoro non solo perché ha sempre a che fare, per dirla con i classici, con techne, ma anche con theoria e, ancora di più, con phronesis, con la saggezza del carattere. In questo contesto, potevano apparire il segno di una significativa inversione di tendenza rispetto a queste derive due recenti iniziative. Il primo è l’emendamento approvato alla Camera in Commissione lavoro, su proposta del presidente Giuliano Cazzola, che autorizza l’inizio dell’apprendistato formativo non più dai 16 anni soltanto (come disposto dalla finanziaria del 2007), ma dai 15, come è sempre stato e come è in tutti i paesi avanzati. Il secondo è la raccomandazione al ministro Gelmini, espressa sempre alla Camera dalla Commissione istruzione e cultura presieduta da Valentina Aprea, in sede di approvazione dei decreti sulla riforma dei licei, degli istituti tecnici e degli istituti professionali, circa l’opportunità di valorizzazione i «crediti acquisiti dagli studenti» in apprendistato al fine di trasformare sempre più questo istituto formativo in un percorso valido a tutti gli effetti per l’acquisizione di qualifiche, diplomi e diplomi superiori (lauree e dottorati).
maggioranza fa carta straccia dell’obbligo scolastico: inaccettabili questi salti all’indietro sul tema della formazione», ha subito detto Giuseppe Fioroni, leader dei cattolici del Pd e ex ministro dell’Istruzione. «È inaccettabile – ha continuato Fioroni - che, invece di intensificare gli sforzi per collegare la fase educativa alla formazione e mettere in grado i ragazzi italiani di poter competere ad armi pari con i loro colleghi nel resto del mondo, qui si decida di fare un salto all’indietro così macroscopico». In effetti, gli ultimi studi di Ocse (l’Organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico) e Banca d’Italia raccomandano l’esatto opposto: investire in istruzione.
Invece, niente. Le reazioni pavloviane del solito mainstream politico-sindacal-culturale gridano, infatti, allo scandalo perché non «si vuole mandare» tutti i ragazzi obbligatoriamente alla scuola che abbiamo fino a 16 anni. Questo scandalo si potrebbe anche giustificare se il provvedimento che impediva l’apprendistato dai 15 ai 16 anni, approvato tre anni fa, avesse contribuito a diminuire il più alto tasso di dispersione scolastica che possiamo vantare nell’Europa a 27.
Di più: se avesse anche solo contribuito ad abbassare l’incredibile numero dei disadattatati ai metodi di apprendimento scolastici. Invece, il provvedimento ha, da un lato, contribuito a rendere ulteriormente inservibile l’apprendistato in diritto dovere come percorso formativo almeno dignitoso, se non di pari dignità con l’istruzione statale e l’istruzione/formazione professionale regionale come invece disponeva la legge Moratti. È stato il grande Philip Johnson-Laird, del resto, a scoprire che servono più o meno le stesse ore per dedicarsi bene e non in maniera dilettantistica all’improvvisazione jazz o alla falegnameria. Che servono, quindi, più o meno 10 mila ore per imparare «bene» (non per fare tanto per fare) qualsiasi mestiere. Il che vuol dire tre ore per dieci anni, sei ore per cinque anni. Che buon apprendimento professionale si può fare, al contrario, con due anni di apprendistato in diritto dovere, per di più ritenuto un ca-
È davvero paradossale che non si chiamino a raccolta i migliori esperti per vincere la sfida di assicurare a tutti il successo formativo. Tutti, non solo chi si trova bene con libri e ore di lezione
nale di scarico per i falliti della scuola? Ovvio che si butta solo tempo e si frustrano ancora di più le persone, rendendo strutturale il loro senso di inferiorità. Dall’altro lato, inoltre, il provvedimento del 2007 ha contribuito a peggiorare sia la dispersione sia il disadattamento scolastico. Cosicché ci troviamo con il 20% di espulsi dalla scuola a 16 anni e con l’80% di ragazzi che, alla stessa età, hanno almeno due insufficienze gravi e considerano, per loro, la scuola tutt’altro che la scholé che dovrebbe essere.
Sorprende, perciò, che con «questa» scuola, che produce i non esaltanti risultati che si sono accennati, non si chieda a gran voce di provare a rendere più efficace sul piano formativo la possibile strada alternativa dell’apprendistato, per chi lo desidera. Sorprende a maggior ragione che parti sociali e mondo della cultura sé dicente progressista non esigano che il ministero dell’istruzione detti al più presto i livelli essenziali di prestazione che la aziende devono assicurare per rendere il lavoro un’altra via rispetto alla scuola per l’apprendimento e la maturazione complessiva della personalità degli studenti dai 15 ai 18 anni. Come sorprende che, al posto di protestare contro il provvedimento, non si chieda allo stesso ministero di chiarire subito come intende verificare con attendibilità i risultati di apprendimento non scolastici, ma comunque educativi e culturali dell’apprendistato. Così di aiutare anche chi lo organizza come percorso formativo a farlo come si deve. È davvero paradossale, perciò, che non si chiamino a raccolta i migliori esperti del problema per vincere la sfida di assicurare a tutti, nessuno escluso, il successo formativo. Tutti, non solo chi si trova bene con i libri e con le ore di lezione. Nemmeno dinanzi alla crisi conclamata degli apprendimenti scolastici da noi, purtroppo, si rinuncia, invece, ad aumentare gli insegnamenti scolastici. Ma come si può pretendere di guarire una polmonite semplicemente aumentando la dose di un antibiotico che si è già rivelato inefficace per far calare la febbre? Siccome è impossibile che oltre la metà di una generazione di studenti sia inadeguata, poco intelligente e senza capacità, dovrebbe essere naturale concludere che la scuola e l’apprendimento scolastico chiamano adeguatezza, intelligenza e capacità solo quanto corrisponde alle loro attese. E forse anche per egoismo sindacal-istituzionale non riescono neppure ad immaginare che un apprendistato centrato sul lavoro condotto in maniera formativa potrebbe essere proprio lo strumento più adatto per valorizzare al meglio, fino all’eccellenza, adeguatezze, intelligenze e capacità oggi inopinatamente svilite dall’unico modo scolastico di pensare al merito.
panorama
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Il mondo torna a Rosarno in cerca di futuro l presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è stato a Reggio Calabria. Ha ricordato anche «i fatti di Rosarno». Sembra passato già tanto tempo e, invece, tutto accadeva il 7 gennaio, il giorno dopo il giorno dell’Epifania. Il capo dello Stato ha parlato sottolineando che per governare il fenomeno dell’immigrazione ed evitare scoppi di violenza occorrono «ordine e legalità», bisogna garantire i flussi di ingresso legale e lavorare per una effettiva integrazione degli immigrati: questo è compito degli enti locali «ai quali lo Stato deve fornire risorse sufficienti». Ciò che si deve fare lo sappiamo, ma non sempre si fa. Anzi, quasi mai.
I
Sono passate due settimane dal giorno delle rivolta degli africani e contro gli africani. Bianchi contro neri. Neri contro bianchi. Ora i neri cominciano a tornare a Rosarno. Non sono più tanti come prima, ma il viaggio di ritorno verso la Calabria del Sud è ricominciato. I datori di lavoro ricominciano a ricevere telefonate per la richiesta di lavoro. Gli africani hanno bisogno di lavorare e i calabresi hanno bisogno che qualcuno raccolga le loro arance. O marciranno sugli alberi e sotto gli aranceti. Ma ricominciare tutto come prima non si può, non si deve. Nessuno lo vuole, almeno così sembra. Dove potranno vivere gli africani che lavoreranno ancora una volta nella Piana di Gioia Tauro? La vergogna della “casa di cartone” non è più pensabile e non sarebbe mai dovuta essere realizzata. La polizia locale chiudeva un occhio, anzi due. Ma ora tutti sanno che fare finta di non vedere non solo è illegale e disumano, ma anche pericoloso. Alcuni lavoratori di colore che hanno fatto ritorno a Rosarno vivono in una casa vera e pagano un affitto di 370 euro al mese. Sono in sette. Il problema dell’abitazione è il primo da risolvere per dare sicurezza e dignità agli africani e per consentire l’integrazione. Il comune di Rosarno dovrà forse fare qualche sacrificio, si dovranno cercare un po’ di risorse, si dovranno mettere a disposizione delle case, ma se questo lavoro non è svolto dal municipio da chi mai potrà essere fatto? Il presidente Napolitano ieri parlava proprio agli amministratori meridionali: bisogna garantire ordine e legalità. Gli enti locali non potranno fare tutto, ma perché non dovrebbero fare ciò che è nelle loro possibilità e nelle loro competenze? Gli africani ritornano. Pochi alla volta, ma ritornano. È inevitabile che accada. I calabresi li attendono. L’incontro non è evitabile e ci si prepara. È naturale che ora ci sia diffidenza, ma è meglio una cautela occhiuta piuttosto che una falsa accoglienza. L’altro giorno a Caserta si è svolta una manifestazione in favore degli africani, dei clandestini e dei tanti lavoratori neri in nero. È giusto manifestare, ma è sbagliato strumentalizzare. Troppo spesso le manifestazioni creano un muro e una sorta di auto ghettizzazione che non porta niente di buono. E’ una logica da evitare perché la divisione del mondo in bianco e nero è sempre sbagliata. I fatti di Rosarno ce lo insegnano. Servono ordine, legalità e case.
Lo strano caso di Magdi “lucano” Allam Eletto al Parlamento europeo con l’Udc e ora con il Pdl in Basilicata di Riccardo Paradisi agdi cristiano Allam, l’ex vicedirettore del Corriere della Sera che con inchieste e libri di grande impatto ha coraggiosamente analizzato ideologia e dinamica criminale dell’islamismo radicale ha scelto di correre per il governatorato della Basilicata sotto le bandiere del Pdl. Decisione che tra le fila dei militanti e dei quadri centristi sta sollevando una dura polemica di merito. A Magdi Cristiano Allam infatti si contesta il fatto che l’ex direttore del Corriere della Sera è stato eletto al parlamento europeo con l’appoggio dell’Unione di centro ai cui valori e alla cui strategia Allam aveva detto di aderire.
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Eletto da indipendente certamente (ma in un partito metodologicamente liberale a chiunque dovrebbe essere riconosciuta la patente di indipendente) ma indipendente che aderisce e si fa sostenere dal Centro. Si può cambiare idea è l’obiezione, si può mutare il proprio giudizio sulle strategie che la forza politica a cui si è aderito o a cui ci si è appoggiati continua ad adottare. Obiezione impeccabile. Perché è evidente che cambiare idea non è né un peccato né un reato, né si capirebbe perché questa molto usata argomentazione che si applica a tutti gli attori politici che mutano posizione e posizionamento non dovrebbe essere applicata anche nei confronti di Magdi Allam. C’è però da dire che l’adesione di Allam all’Udc è del giugno 2009, nemmeno un anno fa. E rispetto ad allora l’Udc ha mantenuto le stesse posizioni strategiche e la stessa condotta tattica. Se dunque cambiare idea è legittimo si deve anche consentire che la velocità con cui la si cambia è un fattore influente nel farsi un giudizio. È vero che Allam è un indipendente e che dopo aver ha fondato un suo partito, “Protagonisti per un’Europa cristiana”, che stringe un accordo con l’Udc alle elezioni europee ha tenuto a battesimo una nuova creatura politica, il movimento di ”Io amo l’Italia”, come il titolo di uno dei suoi numerosi libri.Vero è anche che se la candidatura sotto il simbolo del partito di Berlusconi andasse in porto, sarebbe come è stato detto il trionfo di un vecchio corteggiamento parallelo e contemporaneo al suo avvicinamento all’Udc. Nel 2006 Allam ebbe alcuni incontri
a Palazzo Grazioli con il Cavaliere, incontri in cui si parlò di una candidatura con Forza Italia. Allam secondo alcune attendibili ricostruzioni immaginava dopo quei colloquio di poter essere investito di un incarico governativo, addirittura il ministero dell’Immigrazione. Per motivi diversi quella fase di studio non aprì a conclusioni fattive, finì insomma con un niente di fatto. Oggi a Magdi Allam potrebbe andare la presidenza della Regione Basilicata. Non è il ministero dell’immigrazione ma è almeno qualcosa. Meno sottilmente sul sito dell’Udc e in rete su alcune pagine di facebook simpatizzanti ed elettori dell’Udc parlano senza mezzi termini di doppiogiochismo di opportunismo. A tratti con eccessi polemici: ora cambierà di nuovo nome “Magdi Lucano”scrive Luigi C. come a voler definire una vocazione mimetica. Anche se la conversione di Madi Allam – padrino per l’occasione, il vicepresidente della Camera del Pdl, il ciellino Maurizio Lupi – è giunta dopo un percorso sofferto e rischioso e riguarda qualcosa di molto intimo e delicato. Allam dovrebbe però valutare quanto chiedono altri sostenitori dell’Udc, ossia le sue dimissioni dal parlamento europeo. «Immagino – scrive ironicamente Alberto E. – che per onestà intellettuale Magdi Allam si dimetterà subito dal parlamento europeo, senza aspettare un’eventuale vittoria nella regione». Di fronte a una richiesta come questa rivendicare la propria indipendenza significherebbe impegnare una argomentazione debole. Si tratterebbe di capire infatti in questo caso quanto si è indipendenti infatti dalla propria coscienza e da un proprio percorso di coerenza.
Già nel 2006 ebbe alcuni incontri a Palazzo Grazioli con il Cavaliere, in cui si parlò di una candidatura con Forza Italia
Detto questo resta la posizione ufficiale dell’Udc, espressa dallo stesso Pierferdinando Casini, intonata a una certa tranquillità : «Allam non è un nostro dirigente, – dice il leader centrista – né un nostro iscritto. Quando è venuto da noi ci disse che veniva ma che era indipendente. Per questo gli faccio i migliori auguri. Se è un esperto di Basilicata lo dimostrerà in campagna elettorale». Casini è più polemico con chi continua nella pratica di levare al’Udc pezzi di classe dirigente pensando di levargli i voti. «Tutte le volte che è successo alle elezioni successive abbiamo guadagnato consensi».
panorama
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Continua la battaglia della maggioranza all’espansione italiana della piattaforma di Murdoch
E il governo mette il divieto a Sky Nel decreto sulle televisioni una norma che blocca la trasmissione di film «vietati» di Alessandro D’Amato
ROMA. È guerra aperta contro il decreto tv. Dopo le norme sulla pubblicità, nel mirino dell’opposizione l’articolo 9 del decreto, che entrerà in vigore il 27 gennaio, e che vieta «la trasmissione, anche a pagamento, dei film ai quali sia stato negato il nulla osta per la proiezione o la rappresentazione in pubblico o che siano stati vietati ai minori di anni diciotto nonché dei programmi classificali a visione per soli adulti» dalle 7 alle 23 «su tutte le piattaforme di trasmissione». Non solo: la norma è quasi altrettanto severa con i film vietati ai minori di 14 anni, che «non possono essere trasmessi, sia in chiaro che a pagamento, né forniti a richiesta, sia integralmente che parzialmente, prima delle ore 22.30 e dopo le ore 7.00». Due crociate distinte, quindi. La prima, quella contro la pornografia, tecnicamente vale per tutti i mediatori di contenuti senza distinzioni tra digitale terrestre e satellite, ma nella pratica colpisce soprattutto Sky e gli altri “piccoli”: l’emittente di Murdoch trasmette già oggi contenuti di questo tipo in pay-per-view nei canali dedicati al cinema (dal 350 in poi), anche se di solito si possono visionare od acquistare solo in tarda serata. Sky ha in Italia cinque canali
a pagamento con contenuti per adulti che finora hanno trasmesso regolarmente in orario diurno: i proventi annui sono di circa 45 milioni di euro. Ma non è la sola emittente ad avere investito sul filone porno: Conto Tv, per esempio, divide le sue trasmissio-
adesso potranno essere trasmessi soltanto dopo le dieci di sera nonostante l’interesse dei giovanissimi nei confronti di questo tipo di contenuti sia altissimo. E intanto torna sotto i riflettori anche la questione degli spot pubblicitari. «Il governo cerca di piegare la direttiva Audiovisual Media Services (ex Direttiva TV senza frontiere) agli interessi di Mediaset, di stravolgerla ad uso e consumo di un solo gestore privato, quello di pro-
ciascun paese, il governo italiano, anziché interpretarne lo spirito mettendo mano alla stortura del nostro sistema, la usa per rafforzare ancora di più la posizione dominante del gruppo Mediaset. Allo stesso tempo, sfrutta indebitamente le possibilità di aumentare spot, televendite, anche nei programmi per bambini, ulteriormente aggravando l’anomalia televisiva italiana nel panorama europeo. Non ultimo, il decreto introduce una disciplina repressiva per quanto riguarda le autorizzazioni sul Web che non ha pari nel resto d’Europa».
Nel mirino anche Youtube, appena accusata da Mediaset di usare brani dal «Grande Fratello»
ni tra sport e programmi per adulti. «Il decreto viola la libertà personale», afferma in un’intervista all’agenzia Bloomberg Marco Crispino, amministratore delegato di Conto Tv. Ma preoccupa anche la questione dei film vietati ai minori di 14 anni: tra i prodotti che devono portare il bollino ministeriale ce ne sono molti di largo come ad esempio consumo, Shoot’Em Up e Twilight, che però
prietà del Presidente del Consiglio», afferma Sandro Gozi, capogruppo del Pd nella commissione Politiche della Ue di Montecitorio dove è stato avviato l’esame del decreto che recepisce la direttiva comunitaria che, secondo Gozi, «presenta molti punti di criticità, a cominciare dal palese eccesso di delega. Del tutto illegittimamente, infatti, vengono introdotte una serie di disposizioni che sono tutte nell’interesse di Mediaset, come l’esclusione dal novero dei programmi tv delle trasmissioni Mediaset +1 o di quelle pay tv e pay per view per eludere la soglia di legge del 20%. Se la norma comunitaria è tesa a riequilibrare il mercato della pubblicità in
Non piace nemmeno la parte del decreto che disciplina la tv via internet. In particolare, nel momento in cui questo testo dovesse entrare in vigore, per trasmettere via Web sarebbe necessaria l’autorizzazione ministeriale preventiva, limitando pesantemente (se non condannando a morte) «l’attuale modalità di funzionamento della rete», come spiega Paolo Gentiloni. Una disposizione che, se interpretata nel senso più estensivo, potrebbe anche mettere a rischio i portali di trasmissione di contenuti come Youtube. Che, ricordano i maligni, è appena stato portato in giudizio con successo proprio da Mediaset a causa del rilascio di spezzoni del Grande Fratello sul suo portale.
Polemiche. Si continua a discutere (spesso a sproposito) di religione e di scelte elettorali
I cattolici e i pacchi di Emma di Osvaldo Baldacci n mito o una massa critica? Il voto cattolico è un’entità che continuamente viene evocata, ma con superficialità. C’è chi lo esalta come fosse una massa compatta destinata a cambiare gli equilibri del Paese, spesso pensando alle gerarchie ecclesiastiche e a chissà quali oscure manovre. Altri invece tendono a esorcizzare questa minaccia ripetendo come un mantra che il voto cattolico non esiste, e non conta niente. L’argomento è tornato di attualità con la candidatura della radicale Emma Bonino alla presidenza del Lazio e le relative polemiche: per lei i cattolici non sono pacchi il cui voto si sposti in modo massiccio, di fatto abbandonando la sua coalizione a causa della sua linea.
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ni. Esistono infatti diversi gradi di cattolicesimo nel 90% di italiani che vi aderiscono, e allo stesso modo esiste una forza variabile dell’influenza del sentirsi cattolico sulle scelte di voto. Esiste quindi una massa critica di voto cattolico? Sì, ma è circoscritta e disomogenea nelle scelte. Esiste cioè una quantità di elettori cattolici, in
Probabilmente non si può parlare di un blocco massiccio e univoco, ma di sicuro sbaglia chi pensa che la fede non abbia rapporti con la politica
Occorre forse una riflessione più approfondita. A me sembra che il voto cattolico esista e sia determinante nel nostro Paese, ma vada visto nelle sue articolazio-
una percentuale a due cifre, che orienta il proprio voto principalmente in base al suo essere cattolico. Non ne deriva però un’unità, perché le conclusioni che ciascuno trae lo portano a ritenere più veritiero nell’impegno cattolico uno schieramento piuttosto che un altro, e a dare maggior peso a un tema rispetto a un altro (ad esempio tra vita e solidarietà): c’è cioè chi si sente di
centro, centro-sinistra o centro-destra perché è cattolico.
Maggiore è la fascia di elettori che tiene conto del suo essere cattolico nella valutazione complessiva della scelta elettorale. Cioè le richieste “cattoliche” fanno parte del complesso di cose che l’elettore valuta e che chiede di rispettare al suo rappresentante politico. Ciascun elettore dà di volta in volta maggiore o minore peso a questi o ad altri temi. C’è poi una terza fascia, quella di chi non dà un peso rilevante alle impostazioni cattoliche, ma comunque le tiene in sottofondo, un background culturale latente che può entrare in gioco quando ha dei dubbi elettorali, e che a volte possono spingere più contro qualcuno che a favore. In sintesi, evidentemente non si può parlare di un blocco massiccio di voto cattolico univoco, ma credo che sia un errore grave e diffuso quello di sottovalutare il peso della cultura cattolica anche nell’orientare le scelte politiche degli elettori.
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BERLINO. Vestito nero, piedi incrociati come in un passo di danza, braccia alzate e rivolte verso l’alto. Le mani si toccano ed incorniciano quel viso messo a tre quarti che guarda ammiccante l’obiettivo. Intorno a lei una serie di lastre grigie suggeriscono l’idea di un labirinto da cui si può scappare solo volando. Nella pagina a fianco vediamo invece un uomo dai capelli laccati che si appoggia pensieroso a quello che sembra un muro. Tra le mani stringe una macchina fotografica e lo sguardo è rivolto all’esterno, forse verso quella ragazza che dall’altra parte sembra invece voler guardare noi. Entrambi, lui e lei, sono bellissimi e vestiti di tutto punto. Non potrebbe essere altrimenti: parliamo infatti di modelli e le immagini di cui sono protagonisti, altro non sono che scatti di moda. In basso a destra infatti leggiamo i prezzi degli abiti e degli accessori indossati. Braccialetti dai 15 ai 30 euro, scarpe da 190, abito da sera 230, maglietta da uomo 69, jeans 160 e così via. Di fotografie così ne vediamo a decine ogni volta che sfogliamo una rivista femminile o un catalogo; peccato però che queste due non possano essere considerate come tante altre, dato il set scelto. Le lastre di lei e il muro di lui sono infatti parte del Memoriale delle vittime dell’olocausto, il più grande monumento del mondo dedicato alle vittime della Shoah. Siamo a Berlino, a due passi dalla Porta di Brandeburgo, in uno dei luoghi più frequentati dai turisti di tutto il mondo. A commissionare gli scatti è stata la compagnia aerea low cost Easyjet. Per aumentare le entrate della società, infatti, a bordo di ciascun aereo di linea è possibile comprare un po’ di tutto, compreso l’abbigliamento. Non ci sono vetrine e così si sceglie la merce da acquistare guardando la rivista infilata nel retro di ogni sedile. Le immagini in questione sono apparse sul numero di Novembre sotto l’incomprensibile titolo «Il rilancio del Bauhaus» e dopo poco ritirate assieme a tutte le riviste a causa della pubblicità negativa che l’accaduto ha destato. «Non si può scherzare con la memoria» è stato il commento che ha unito intellettuali, artisti ed associazioni ebraiche per la prima volta tutti d’accordo nel difendere un monumento che fino ad allora aveva più diviso che unito. Così si espresse all’epoca della sua costruzione lo storico Peter Reichel: «Si tratta di un monumento bugiardo, un gigante atto di ruffianeria e prepotenza. Non c’è spunto critico, solo apparenza». Il celebre architetto Daniel Libeskind scrisse che «Berlino non ha bisogno di un falso cimitero nel centro della città» e furono in molti a dargli ragione. Per ovviare le polemiche, l’ex cancelliere Gerhard Schroeder concluse con un ambiguo (ed in seguito ripetutamente preso in giro dai suoi detrattori) « È un luogo per chi ha piacere ad andarci», ma le polemiche continuarono. Per capire quanto il tema sia ancora caldo all’interno del dibattito culturale tedesco, basterà citare la recente intervista rilasciata al giornale svizzero Die Weltwoche da Maxim Biller. Lo scrittore ceco naturalizzato tedesco, anche lui ebreo, autore del libro Der gebrauchte Jude («L’ebreo utilizzato»), parlando del rapporto dei tedeschi con il proprio passato, ha infatti colto l’occasione per affermare che: «Quel memoriale è stata una pazzia. I tedeschi sono l’unico popolo al mondo che costruisce un monumento sull’Olocausto con lo scopo di ricordare le vittime che loro stessi hanno reso tali. In altre parti del mondo non esiste una cosa del genere: normalmente si
il paginone
La compagnia aerea Easyjet lancia una campagna pubblicita
Se la Memoria
Una modella posa nel Memoriale dell’Olocausto di Berlino: è una profanazione? In Germania infuria la polemica tra storici, architetti e politici di Andrea D’Addio fanno dei monumenti per celebrare i propri generali. Succederà così, e di questo ne sono convinto, che fra trecento anni lo si considererà un bel monumento costruito per ricordarsi non che la persecuzione degli ebrei fu un errore, ma degli errori che lo Stato commise all’interno della sua quasi vittoriosa strategia di annientamento di un popolo».
Progettato dall’architetto ebreo americano Peter Eisenman e costato ventisette milioni di euro (interamente donati dallo Stato), il Memoriale fu inaugurato nel 2005 per «ricordare i sessant’anni dalla fine della guerra e per testimoniare l’indelebile cicatrice che per sempre legherà tedeschi ed ebrei». Si tratta di duemilasettecentoundici blocchi di cemento (con un’altezza che varia dai 20 cm ai 4 metri) disposti per righe e colonne su di una superficie di quasi ventimila metri quadri. La distanza tra una stele e un’altra è di una novantacinque centimetri, lo spazio giusto per fare passare una sola persona alla volta. Il risultato è un vero e proprio giardino di cemento senza un ingresso
Molti hanno gridato alla «storia violata»: ancora una volta si ripropone il tema, cruciale in tutto il secondo Novecento, del rapporto che dobbiamo avere con il dolore principale, né un punto di partenza né uno di arrivo, con una pavimentazione ondulata di alti e bassi che fa completamente perdere di vista proporzioni e punti di riferimento. L’obiettivo concettuale era ricreare almeno un pizzico di quell’angoscia e di quel senso di smarrimento che segnò la vita delle vittime dell’Olocausto (la metodicità dell’eccidio diventa ordine geometrico per forme e dimensioni), mentre per ciò che riguardava l’aspetto estetico Eisenman all’epoca dichiarò di voler fare del Memoriale: «un luogo di ritrovo che faccia del normale panorama cittadino dove i bambini possono giocare mentre i genitori vi cercano altro. Un posto da vivere nel quotidiano assieme alla città che lo ospita e non come corpo estraneo».
I berlinesi, da questo punto di vista, gli hanno dato finora ragione. I tanti blocchi di cemento sono infatti diventati nel corso di questi anni tavoli per i tanti im-
il paginone
aria shock realizzata nel monumento progettato da Eisenman
a veste Prada piegati (è zona d’ufficio) che hanno bisogno di un appoggio per consumare il pranzo al sacco, panchine per turisti bisognosi di riposo dopo una lunga camminata, lettini per chi, d’estate, ha il desiderio di prendere un po’ di sole e tanto altro ancora. Insomma, un vero e proprio monumento multiuso sottratto da qualsiasi tipo di sacralità. E dire che pochi giorni dopo la sua inaugurazione, il borgomastro di Berlino Klaus Wowereit, temendo che si potesse andare incontro a utilizzi estremi come quelli sopra elencati, diffidò i suoi concittadini ad atteggiamenti che profanassero il luogo in questione. Non solo era già apparsa una svastica su una delle tante pareti, ma si erano già viste persone salire con i piedi sui pilastri. Il risultato di quelle parole
L’artista che ha disegnato lo splendido sito dice: «Volevo realizzare un posto da vivere nel quotidiano assieme alla città che lo ospita e non come corpo estraneo»
Tre immagini del Memoriale dell’Olocausto a Berlino. Nella pagina a fianco, una delle immagini della campagna pubblicitaria di Easyjet non è stato soddisfacente e l’ultima dimostrazione di questo insuccesso la possiamo trovare nelle immagini che il nove novembre scorso (in occasione dei vent’anni dalla caduta del Muro) hanno riempito televisioni e giornali di tutto il mondo. Pioveva, gli ombrelli facevano da scudo a qualsiasi visione in lontananza e la gente era così tanta che era difficile anche guardare i maxischermi posti intorno alla Porta di Brandeburgo. Ecco quindi che ogni blocco di cemento è diventato un appoggio per issarsi e guadagnare metri di panorama. Né la tanta polizia che presenziava l’evento prima, né Wowereit dopo, hanno avuto il coraggio di dire qualcosa. Lo snaturamento del senso del Memoriale, almeno per come lo avevano intese le autorità, era già avvenuto da tempo. Inutile battersi con i mulini a vento. Solo l’estremo cattivo gusto delle fotografie di Easyjet è riuscito a ridare linfa al discorso sull’opportunità o meno di alcuni atteggiamenti quando si parla, anche latamente, di Olocausto e memoria.
«I giorni in cui si può guadagnare con i denti d’oro e i capelli degli ebrei deportati sono fortunatamente finiti, ma grazie alla loro morte si possono fare ancora affari» ha commentato il giornalista tedesco Thomas von Osten-Sacken sul proprio blog. «Questa è un’ulteriore prova della banalizzazione di antisemiti-
smo e la banalizzazione del genocidio il massacro degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale» sono state le parole del deputato laburista Denis MacShane, a capo dell’Istituto europeo per lo Studio dell’antisemitismo contemporaneo, mentre Uwe Neumärker, direttore della fondazione che gestisce la manutenzione e le attività correlate al Memoriale, si è preoccupato soprattutto di dimostrare la propria estraneità ai fatti: «Non ci è stata chiesta alcuna autorizzazione. Noi non supportiamo scatti di moda o qualsiasi attività che per scopi commerciali vuole utilizzare il monumento». Allo stesso modo si è dissocia-
ta anche la stilista che ha disegnato gli abiti delle foto incriminate, Anuschka Hoevener: «Non sapevo che il set fotografico sarebbe stato quello, l’ho saputo solo guardando la rivista, rimanendone sbalordita». Insomma, il coro di condanne è stato unanime, anche se il ritardo con cui sono avvenuti questi distinguo (la rivista di Easyjet è stata un paio di giorni consultabile senza che nessuno dicesse nulla) dimostra come la denuncia dello scandalo sia quasi un’azione di rito più che un comune sentire. Alla fine chi ha avuto forse l’approccio più conciliante con la “questione Easyjet” è stato proprio
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l’architetto del Memoriale, Peter Eisenman che, intervistato dal Tagesspiegel ha dichiarato: «Su Youtube ho visto cose peggiori delle foto, come il prendere il sole senza reggiseno e le registrazioni di vere e proprie scene di sesso. Non voglio però fare polemica su questo. Abbiamo progettato un monumento aperto in tutti i sensi, nessuna recinzione o altro e allora come si può evitare che la gente ne faccia l’utilizzo che vuole? Mi fa piacere quando il Memoriale diventa sfondo in lontananza per foto e film, ma solo se sono correlati al tema in questione. Certamente non si può permettere tutto, ma è comunque importante riaffermare come il monumento sia un luogo pubblico, di tutti e per tutti, non un cimitero. Non possiamo monitorare il comportamento delle persone, non sono a favore di custodi notturni o altro. Se controllassimo le azioni delle persone e le limitassimo, finiremmo per ritornare proprio a quegli anni Trenta che sono stati alla base della tragedia che qui si ricorda e allo stesso tempo non voglio che il Memoriale sia l’occasione per rafforzare e continuare colpe del passato».
Un punto di vista che non condivide lo storico inglese, David Niven, autore dell’importante libro sul ruolo della memoria in Germania, The Memorialisation in Germany since 1945. «I pericoli della banalizzazione della Shoah sono noti. I politici europei parlare ne parlano spesso, organizzano convegni, scrivono prefazioni a libri e ne ricordano gli anniversari. Qui abbiamo un caso di una costruzione che si suppone sia stata creata per agire contro l’oblio e la banalizzazione dell’Olocausto, ma che in realtà serve a incoraggiare esattamente il contrario. Naturalmente nessuno voleva che fosse così, l’apertura totale del monumento nasce dalla voglia di incoraggiare l’impegno, invitare al ricordo senza imporre domande, ma lasciando che nascano all’interno di un visitatore che deve sapere dove si trova. Con alcune persone questo risultato è raggiunto. Allo stesso modo però mi preoccupa che questo stesso spazio sia percepito da molti come un luogo di evasione e disimpegno. Ci si dimentica che ci si trova in un Memoriale sull’Olocausto e se ne tradisce il significato essenziale. Il monumento perde così le proprie radici e diventa un quadro fluttuante in cui ognuno può vederci ciò che vuole, compresa una società alla ricerca di un posto affascinante dove ambientare la pubblicità dei propri prodotti. Questa considerazione è legata poi ad un’altra, più generale. La gente ha sempre scattato fotografie di sé accanto ai monumenti, ma c’è sempre una certa riluttanza a farlo in caso di luoghi legati all’Olocausto. Per fortuna nessuno di noi ha immagini di propri amici che sono stati a Dachau o Auschwitz mentre sorridono accanto ad un crematorio. Purtroppo con il Memoriale di Berlino la situazione è diversa. In tanti si mettono in posa felici tra le lastre di cemento. Mi è capitato una volta di farlo notare ad una persona che ha risposto con naturalezza che si tratta di un monumento molto cool». La questione rimane aperta: meglio un monumento brutto, ma legato al senso intrinseco della tragedia che rappresenta o un luogo che rinnovi la memoria attraverso la possibilità di essere visto e vissuto dal suo interno, tenendo conto del rischio che alcuni neanche si accorgano di non essere in un Luna Park?
mondo
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Web. In un discorso trasmesso online in tutto il mondo Hillary Clinton si scaglia contro la censura della rete. «È inaccettabile»
Internet per tutti Gli Usa contro il nuovo Muro di Pechino, virtuale e invisibile. Ma più pericoloso di Luisa Arezzo hi si aspettava una risposta secca sul caso Google-Cina, dove il clima in questi ultimi giorni si è surriscaldato grazie a un intenso scambio di accuse per la violazione di alcune caselle di posta elettronica dei dissidenti cinesi, sarà rimasto soddisaftto solo a metà. Perché Hillary Clinton ha solo auspicato che la Cina conduca un’inchiesta «trasparente e approfondita» sui cyber attacchi di cui è stato vittima il gigante informatico. Ma non è non per questo il discorso che Hillary Clinton, segretario di Stato Usa, ha tenuto ieri al Newseum journalism di Washington è meno importante. Anzi. Hillary non ha usato mezze parole: gli Stati Uniti equipareranno un eventuale attacco informatico ai loro siste-
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mi alla stregua di un attacco vero e proprio. Con conseguenti ripercussioni, anche a livello internazionale. Gli Stati Uniti si batteranno affinchè la nuova cortina di ferro, che nel XXI secolo è virtuale, e quindi invisibile, venga abbattuta, esattamente come il Muro di Berlino.
E si opporranno a chi censura e limita la libertà d’informazione e viola la libertà personale dei cittadini entrando illegalmente in possesso di informazioni riservate. Gli Usa si impegneranno, sì. Ma Google (anche se non citata direttamente al riguardo) è avvertita: gli Stati Uniti chiederanno ai privati che lavorano e fanno affari in paesi in cui la censura è un metodo di costrizione e controllo della popolazione, di non
pensare esclusivamente al proprio tornaconto, ma di adeguarsi ai principi che l’America difende. Perché il loro marchio è il simbolo della più grande democrazia del pianeta, e questo non deve esser più dimenticato. Anche a costo di abbandonare un mercato. «La sfida del Ventunesimo secolo è sotto i nostri occhi - ha detto la ex First Lady - e riguarda il libero accesso alla tecnologia». La Rete, insomma, come la livella di Totò, deve unire tutti. «Vogliamo vivere in un mondo dove c’è un solo Internet, o vogliamo vivere in un mondo dove l’informazione e la conoscenza a cui hai accesso dipendono dal Paese in cui vivi?». La risposta per l’Occidente è scontata, ma non c’è dubbio che l’annuncio della Clinton di vo-
Il colosso informatico “Made in China” cresce di giorno in giorno
Fra i due litiganti, Baidu gode di Massimo Fazzi
PECHINO. Il principale motore di ricerca cinese, www.baidu.com, è il vero vincitore della disputa che sta interessando il governo di Washington e quello cinese. Dopo il parziale ritiro del colosso americano Google dal mercato cinese, infatti, il sito “domestico” ha visto crescere (anche se con una leggera flessione avvenuta due giorni fa) il proprio valore nelle Borse di Shanghai e Hong Kong. Ma non si è fermato qui, e da bravo soldatino agli ordini del generale che siede a Piazza Tiananmen ha pensato bene di sferrare il proprio attacco a quel mainstream americano che, nelle menti di tanti membri dell’esecutivo cinese, cerca in ogni modo di sconfiggere l’ascesa del dragone. E quindi, con un tempismo che appare quanto meno sospetto, nel giorno stesso del discorso di Hillary Clinton sulla libertà della Rete Baidu.com ha dichiarato di aver avviato una causa legale nei confronti di Register.com, società che dagli Stati Uniti gestisce i Dns. Baidu accusa Register.com di “negligenza grave” nella gestione delle entry Dns e di una risposta non idonea
agli attacchi tesi a rendere irraggiungibile il motore di ricerca ed a sostituirne la home page con una pagina web arbitraria ospitata da server di terzi. I Dns sono quegli strumenti che permettono di trasformare il codice dei siti (numerico) nella barra degli indirizzi (alfanumerico). Secondo le analisi, l’attacco a Baidu potrebbe essere stato posto in essere dagli stessi autori dell’aggressione sferrata a dicembre nei confronti del celeberrimo sito di “micro-blogging”Twitter.
Gli aggressori sono infatti riusciti a modificare la corrispondenza tra indirizzo mnemonico ed indirizzi Ip a livello Dns dirottando così tutte le richieste indirizzate a baidu.com verso un altro server. Fortunatamente gli aggressori si sono limitati a quella che sembra avere i contorni di una rivendicazione di stampo politico, senza inserire alcun elemento maligno nella pagina web che si presentava agli utenti di Baidu al posto di quella tradizionale. Le polemiche tra società statunitensi e cinesi sembrano non aver fine. Dopo la “spy story” Google-Cina dei giorni scorsi, che tra l’altro ha portato all’esplosione del problema Internet Explorer, la società cinese che per il momento è leader delle ricerche nel Paese di Hu Jintao ha deciso di far sentire la sua voce in sede legale. L’azione arriva a distanza di due giorni dalle dimissioni “per ragioni personali” del Cto Yinan Li.
ler mettere in campo nuove misure per sostenere lo sviluppo di tecnologie che consentano di aggirare la censura nei paesi che attuano politiche repressive per l’accesso a internet, rappresenta una svolta nella politica estera statunitense. «Entro il prossimo anno - ha detto la Clinton - il dipartimento di Stato promuoverà lo sviluppo di sistemi capaci di bypassare ogni forma di restrizione della rete».
Non solo la Cina, quindi, ma anche l’Iran (più volte citato dal Segretario di Stato) dove nell’ultimo anno la protesta dell’Onda verde è riuscita ad emergere proprio grazie all’utilizzo di blog e social network. L’accesso ad Internet diventa quindi una delle priorità della politica estera statunitense. Mentre blog e social forum si trasformano in un contemporaneo Samizdat di sovietica memoria. L’obiettivo è ridurre la percentuale della popolazione globale (circa il 30%) che oggi vede le proprie comunicazioni online filtrate e censurate, e che tenta in tutti i modi di far trapelare la verità. «Dalla Moldavia alla Corea del Nord, dalla Cina all’Iran, dal Vietnam alla Tunisia: gli utenti oggi non hanno accesso ad una rete libera, e questo è inaccettabile». «Quando venne introdotto il telegrafo - ha detto la Clinton, nella sua
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La risposta dell’editorialista del “South China Morning Post”
Mascherate con i diritti i fallimenti economici di Alex Lo on esistono al mondo cose, soprattutto nel mondo commerciale, che vengano fatte per una motivazione pura. E quindi chi applaude Google per aver deciso di tenere una posizione dura sulla libertà di informazione – levare i software di censura dai propri motori di ricerca cinesi – rischia di tenere una posizione naif e tardiva. D’altra parte, i cinici che pensano che la decisione sia stata presa sulla base di motivazioni puramente commerciali sono estremamente semplicistici: non conta, in un mercato come quello asiatico, perdere fette di mercato o subire una leggera flessione dei profitti. Lo scontro che ha visto coinvolti Google e il governo che siede a Pechino non è soltanto una diatriba fra un esecutivo e una compagnia commerciale, per quanto sia enorme il significato globale della compagnia in questione. Ha molto più a che fare con un altro fattore, ovvero la delusione dell’Occidente. Questo sperava, a ragione o a torto, di poter fare affari in Cina e allo stesso tempo democratizzarla con la tecnologia e la globalizzazione. Questo punto di vista si è scontrato con l’abilità orientale di evitare con molta eleganza queste trappole. Commercialmente parlando, molte fra le enormi marche americane che operano su internet sono riuscite a fare poco nel dragone asiatico, perdendo regolarmente la sfida con i rivali interni. Il sito di vendita sulla base dell’asta eBay, ad esempio, è stato scalzato da Taobao; Yahoo è oggi praticamente irrilevante e sempre più utenti della Rete si rivolgono a Baidu, e non a Google, se vogliono effettuare ricerche online. Allo stesso tempo, mentre crollavano i giganti d’Occidente, sono divenuti veri e propri campioni i siti puramente cinesi come Tencent, Sina e Alibaba. Che oggi sono marchi conosciuti e rispettati da tutta internet. Gli occidentali possono rapsodiare quanto vogliono sul tema “un miliardo di consumatori” ma, almeno quando sceglie di usare il computer, questo miliardo di persone sceglie di rivolgersi ai provider locali piuttosto che a quelli americani. Uno dei fattori che ha giocato a favore di questo stato di cose è senza alcun dubbio la consapevolezza che questi siti interni non soltanto hanno imparato a seguire le direttive di Pechino senza fare una piega, ma hanno imparato persino ad anticiparle. Il governo cinese guarda con estremo favore a questi sviluppi della situazione, e ama i concittadini molto di più degli stranieri. Non soltanto nel commercio sulla Rete, ma in tutti i campi del commercio. Ad esempio, è grazie all’amore per le compagnie locali che la Cina ha rivoltato tutti gli standard di protezione infantile che hanno portato ai disastri che conosciamo. E, anche se nessuno dei siti cinesi che abbiamo citato sia
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nuova veste di paladina di internet - molti governi non videro di buon occhio il suo dilagare. Molti si opposero. Ma alla fine si arresero». Per Internet non solo dovrebbe valere lo stesso principio, ma il suo uso dovrebbe essere tutelato «perché la libertà di espressione è un cardine della Carta dei diritti dell’uomo, e nel mondo evoluto del Ventunesimo secolo le Nazioni Unite dovranno far valere tale principio. E io mi impegno a che questo avvenga in un futuro prossimo, attraverso una risoluzione in sede
indutrsiale, scientifico e di Ong. Tutti saranno chiamati a controllare. Tutti saranno chiamati ad investire, monitorare e offrire idee su come combatterli.
Non solo libertà, democrazia e guerra nel discorso della Clinton, ma anche business. La rete è un viatico formidabile per il commercio e gli affari, così come per l’istruzione. Ma il governo degli Stati Uniti resterà diffidente nei confronti di quelle nazioni che non garantiscono una vera libertà, e da oggi in poi ne trarrà le debite conclusioni. E a questo
«I Paesi che compiono cyberattacchi subiranno delle conseguenze immediate e la condanna internazionale. In un mondo interconnesso questo non sarà più tollerato» Onu». Come dire: è opportuno riallineare i principi americani alle nuove tecnologie. Ma la Rete ha anche un lato oscuro, quello in cui si insinuano i terroristi, i pedopornografi, i pedofili, gli hacker finanziari. E contro questi verrà messo in moto un’armaggedon. La rete è come l’energia nucleare, «che può essere usata sia per dare luce a un’intera città sia per distruggerla», ha proseguito la Clinton. Contro queste forze del male virtuale gli Usa metteranno in campo un piano di azione condotto a livello governativo,
proposito anche negli Stati Uniti verranno promossi servizi online per la trasparenza e la democrazia diretta: i cittadini potranno esprimere un voto su ogni decisione del governo. Direttamemente dal proprio cellulare. Per quanto tuttavia la Clinton si sia smarcata dalle polemiche con la Cina, è inevitabile che il suo intervento venga letto anche in questa direzione. Anche perché, al di là di Google, sul tavolo della diplomazia internazionale ci sono accordi importanti da prendere con Cina e Russia sul fronte delle cyberguerre.
ancora uno dei pilastri dell’economia interna, potrebbe essere a causa loro che sono state da poco introdotte nuove politiche che promuovono la tecnologia e l’innovazione, tese a creare campioni di internet ancora più forti. E che gli stranieri piangano sul fatto che non hanno più campi sui quali giocare!
Questo ovviamente non vuol dire che le compagnie straniere non possano fare su questo mercato un sacco di soldi. Per prendere soltanto un esempio, sin dalla fine degli anni Ottanta è presente in Cina la Procter&Gamble: molto prima che venisse coniato l’acronimo Bric – Brasile, India, Cina e Russia – e molto prima che diventassero di moda concetti che teorizzavano i “mercati emergenti”. Ma questo ha funzionato perché vendere saponi è un’attività estremamente meno politica che offrire una ricerca di informazione. Internet è da sempre un affare altamente politicizzato: ed è il cuore dell’ideologia anglo-americana sulla globalizzazione e la democratizzazione. Il rapporto che si è instaurato fra la nuova potenza cinese e il mondo occidentale si è sempre basato sulla premessa – da parte dell’Occidente – che il libero commercio e la globalizzazione avrebbero senza dubbio aperto la Cina. Ma questo è un credo realmente genuino, o non è piuttosto una mera coperta ideologica? Potrebbe, ad esempio, trattarsi di un mantra con cui l’Occidente si pulisce la coscienza e fornisce un’ottima giustificazione a quelle compagnie, sempre occidentali, che fanno affari con Pechino. Sarebbe interessante scoprire quante sono le ditte del cosiddetto mondo libero che si preoccupano realmente dello stato della democrazia in Cina – e del loro personale impegno alla sua promozione – e che siano pronte a giustificare ai propri investitori delle flessioni di bilancio in nome degli ideali. Questa gente, o quella di Washington, tiene veramente al nostro popolo più di quanto non lo faccia Pechino? La risposta a questa domanda dipende da quanto riteniate repressivo il governo centrale cinese e, di conseguenza, quanto riteniate passivo e represso il popolo cinese. Guardate bene perché, sondaggio dopo sondaggio, i cinesi si dicono sempre più soddisfatti; e legittimano il loro governo. Il vero, brillante successo del governo di Pechino è stato quello di lasciare all’Occidente la sua coperta fatta di democrazia e globalizzazione, mentre ne evitava con garbo le altre trappole. Quella coperta è servita per bloccare i profitti – e a volte la proprietà intellettuale – di tante compagnie occidentali. Forse è semplicemente arrivato il momento in cui, per l’Occidente, sarà difficile guadagnare quanto prima. E Google ha semplicemente aperto la strada agli altri.
Con la Rete, gli Stati Uniti speravano di portare la democrazia in Cina. Ma Pechino ha evitato bene tutte le “trappole” dell’Ovest
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Analisi. Standard edilizi, donazioni, stato di diritto e cooperazione. Sono le strategie utili a Port-au-Prince
Quattro strade per Haiti Nell’isola distrutta parte la ricostruzione Ecco gli errori che non possiamo (più) fare di Roger Noriega l terremoto che ha colpito Haiti e la sua popolazione ha prodotto una catastrofe di proporzioni bibliche. L’enorme perdita di vite umane e di beni predetta dai rappresentanti ufficiali che si trovano al momento sul campo la renderanno probabilmente il peggior disastro naturale di questo tipo mai avvenuto, da secoli, nell’emisfero occidentale. Le immagini trasmesse dalle reti televisive mostrano persone senza speranza che hanno la faccia ricoperta dalla polvere di cemento che li ha investiti. Noi possiamo pregare affinché il mondo si muova presto e con generosità. Eppure, chi conosce la gente di quell’isola sa che si tratta di persone industriose e pronte a lavorare duro: la crudele realtà, in un luogo come Haiti, è che se sei povero e non ti dai da fare morirai molto presto. Gli emigrati provenienti da lì e che ora vivono a Brooklyn, nella Florida meridionale, e in altri luoghi degli Stati Uniti lo dimostrano: sono persone splendide, che sanno e vogliono lavorare duro per guadagnarsi la sopravvivenza. Il problema, però, è che nella loro madre patria non hanno neanche mezza possibilità di prosperare. Una poli-
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tica statale inefficace, uno Stato predatore, dei politici noti per la corruzione e per la venalità, una debolissima società civile: sono questi i fattori che, insieme, hanno cospirato per distruggere un terzo dell’isola di Hispaniola. Prima degli uragani, delle inondazioni, delle colate di fango e dei terremoti (tutti fattori che negli ultimi dieci anni hanno colpito con regolarità Haiti) è arrivato il disastro compiuto dall’uomo. Le disfunzioni di cui parlo posso essere viste, letteralmente, dallo spazio: le foto che provengono dai satelliti mostrano l’isola che Haiti divide con la Repubblica dominicana - divisa da un confine collinoso. Ebbene, una parte di queste colline sono nude: la parte haitiana. Sono colline di fango, che ripetutamente ricoprono il territorio perché il governo non ha alcun interesse, o tanto meno stimolo, a spostare coloro che vivono lì e lasciare liberi quegli alberi che pos-
sono essere bruciati per scaldarsi o per cucinarsi la cena. E questo modo di fare non favorisce certo la protezione dai disastri ambientali.
La questione dei fondi è simile. Non esiste persona al mondo che possa essere pagata meno di un haitiano, che comunque porterà a termine con onestà la sua giornata di lavoro. Eppure è molto difficile vedere dei capitali investiti nell’isola, perché la corruzione e l’effettiva inefficacia di quel governo rendono straordinariamente difficile fare affari in loco. Consideriamo quanta differenza può fare lo stato di diritto e la sua effettiva applicazione: il prodotto interno lordo pro-capite di Haiti, nel 2008, era pari a 1.300 dollari americani; nello stesso anno, i loro confinanti dominicani guadagnavano sei volte tanto. Stesso discorso per le costruzioni e le regolamentazioni interne: la mancanza di un controllo centrale sui piani di
Il presidente Préval parla per la prima volta: «Un Paese non muore, ci rialzeremo»
E l’isola vive tra lacrime e miracoli di Osvaldo Baldacci na squadra di soccorso spagnola ancora ieri ha tratto in salvo una ragazzina di 14 anni rimasta sepolta sotto le macerie della sua abitazione a Port-au-Prince dal giorno del sisma. La ragazzina, nata con un deficit mentale, era stata data per morta, così come la sorella, dai genitori. Ma uno zio che scavava tra le macerie l’ha trovata, e le squadre di soccorso spagnole l’hanno tirata fuori. Altri bambini, tra cui un neonato, sono stati salvati nelle ultime 48 ore. Sono più di 120 le persone che le squadre internazionali hanno tratto in salvo dalle macerie, mentre gli haitiani stessi, senza moderni equipaggiamenti ma armati di grande determinazione, rivendicano di aver strappato a mani nude alla terra ancor più persone vive. Poco, rispetto alla devastazione che ha messo in ginocchio l’isola, ma piccoli miracoli, piccoli segni di speranza che possono simbolizzare la tenacia con cui resta attaccato alla vita questo popolo nonostante le avversità che si sono abbattute a ripetizione sull’isola. Qualcosa che sembra dar ragione alle parole del presidente René Préval, che spaziando con lo sguardo dal passato al futuro ribadisce la sua fiducia
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nella gente più che nelle strutture, ma chiede alla comunità internazionale di non dimenticare tanto presto: «Un Paese non muore. Un popolo non muore».
Parole simili anche dalle parrocchie e dalle missioni, duramente colpiti. Molti edifici sono crollati, sono morti più di cento religiosi e religiose, nonché seminaristi e l’arcivescovo di Port-au-Prince monsignor Serge Miot, e proprio ieri è stato trovato il corpo di monsignor Charles Benoit, vicario generale della diocesi, le cui mani erano chiuse attorno a un reliquiario che conteneva un’ostia, probabilmente nell’atto di proteggerlo. Ma quel che conta, ripetono i religiosi, è il popolo che è rimasto. Ma certo questo popolo è duramente provato. L’Onu ha ammesso che forse non sarà mai in grado di determinare il bilancio finale del devastante terremoto. Si temono centinaia di migliaia di vittime. Inoltre i problemi maggiori in queste ore sono rappresentati dalle ferite e dalle infezioni a seguito dei traumi non curati: moltissimi i bambini a cui vengono amputati gli arti, ma ci sono anche casi di genitori che, quando gli viene prospettato il triste destino dei picco-
mondo per costruire l’ossatura di un sistema economico che permettesse alla popolazione di auto-governarsi. Le banche per lo sviluppo internazionale e altre organizzazioni hanno stanziato altri miliardi, sempre in aiuto. E tuttavia, lo sviluppo di quel Paese non è mai decollato: la maggior parte di tutto questo denaro se ne è andato nel tentativo (vano) di rimettere in pista il corrotto e autodistruttivo regime di Jean-Bertrand Aristide. Dal 2006, il presidente Réne Préval ha mostrato alcuni progressi nello sviluppare la stabilità politica del Paese, in modo da incoraggiare alcuni privati a investire di nuovo su Haiti. Mentre l’amministrazione americana, guidata dal presidente Barack Obama, si affretta a correre in aiuto alla popolazione, dovrebbe imparare alcune lezioni tratte dall’esperienza già fatta ad Haiti e in altri punti del globo. Ad esempio, un primo punto riguarda la ricostruzione fisica delle abitazioni. Dopo gli ultimi disastri, agli haitiani è stato permesso di ri-
Le elezioni, convocate per il 28 febbraio, devono svolgersi sotto la supervisione internazionale. Così come quelle presidenziali, fondamentali per dare alla nazione il governo forte di cui necessita se vuole rinascere da sola sviluppo immobiliare è stata evidente, quando i palazzi sono crollati in una nuvola di polvere. Mentre le poche strutture di tipo “non sviluppato”hanno resistito, i mostri ordinati dai misteri sono crollati e hanno richiesto un terribile prezzo in termini di vite umane. Ora, come già accaduto in precedenza, il mondo correrà in aiuto di Haiti. E gli Stati Uniti, insieme a un manipolo di altre nazioni, prenderanno la guida delle operazioni e le gestiranno insieme ai militari in maniera brillante. Dal 1994, gli Stati Uniti hanno speso circa tre miliardi di dollari per assistere lo sviluppo dell’isola: parliamo di programmi di raccolta fondi per l’alimentazione e
costruire sopra le proprie instabili colline. Se guardiamo e prendiamo ad esempio gli uragani che negli ultimi anni hanno squassato l’America centrale, è possibile disegnare delle mappe topografiche dell’area e, sulla base di queste, imporre degli standard di costruzione. Vanno adottate altre pratiche, rispetto a quelle di routine, per mitigare i danni di catastrofi future. Un altro punto, molto importante, riguarda l’impegno internazionale: Haiti dovrebbe essere una responsabilità globale, basata su un fondo internazionale retto da un meccanismo di coordinamento delle donazioni. In questo modo, creando un sistema del genere, si possono fare i conti e da-
li, se li portano a casa con le ferite infette, destinando con ogni probabilità i piccoli alla morte. Altre volte i medici che lavorano senza soste sono costretti a scegliere su chi intervenire e a chi negare la speranza. In aumento con la mancanza di acqua potabile anche i casi di malattie. Due milioni di persone sono senza cibo, un milione senza tetto, 500 mila sono gli sfollati raccolti in almeno 500 accampamenti. Dalla capitale devastata è in corso un esodo: o almeno sarebbe in corso se fosse possibile. Le strade sono ancora bloccate, e per avere il posto su un pullman occorre prenotare tre giorni prima. Port-au-Prince non deve diventare una città fantasma, ma le autorità non scoraggiano dall’allontanarsi chi ha la possibilità di recarsi in campagna presso amici e parenti. Anzi sono stati aggiunti autobus gratuiti verso i villaggi del circondario. Intanto l’entità del disastro fa capire che l’impegno internazionale non potrà essere troppo circoscritto nel tempo. «Questa è un’operazione che durerà anni: ne pianifichiamo tre di presenza ad Haiti», ha previsto il Presidente della Croce rossa internazionale, Massimo Barra. Anche per questo le realtà più interessate si stanno organizzando: il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato un dispiegamento aggiuntivo di 3500 uomini ai 9000 caschi blu della missione di stabilizza-
re i giusti fondi in base a una scala di priorità condivisa. È necessario poi che sia la comunità internazionale a integrare le donazioni, incoraggiando investimenti privati nell’area e unioni fra pubblico e privato in grado di colmare la mancanza di un vero esecutivo. Bisogna poi raccomandare, se non imporre, delle misure di trasparenza a tutti coloro che intendono donare: in questo modo ci si potrà rendere conto se i fondi vanno dove sono destinati. Lo scopo è quello di costruire una Haiti migliore.
Gli Stati Uniti e le altre nazioni che ospitano comunità di haitiani devono invitare i membri della diaspora a partecipare ai lavori di ricostruzione, in modo che possano trasmettere ai loro concittadini i concetti di lavoro di squadra e di responsabilità sociale. Queste nazioni dovrebbero inoltre considerare la possibilità di estendere dei benefici fiscali per i loro ospiti, in modo da incoraggiare la carità privata e gli investimenti a tornare nella madrepatria. Infine, la comunità internazionale dovrebbe aiutare Haiti a gestirsi da sola. Dovremmo incoraggiare la formazione di un governo di stabilità nazionale, teso a riunificare e poi ricostruire il Paese. Le elezioni per l’Assemblea nazionale, convocate per il 28 febbraio, dovrebbero svolgersi sotto la supervisione internazionale per quanto possibile. E lo stesso dovrebbe avvenire per quelle consultazioni che puntano a scegliere il successore di Préval. Port-au-Prince è stata livellata dal terremoto, in tutti i sensi della parola: anche i benestanti lottano, oggi, per sopravvivere. Anche se, senza dubbio, affronteranno meglio la situazione sono costretti a vivere la stessa disperazione dei loro concittadini più poveri. Forse anche da loro arriverà una forma di carità, rendendo gli haitiani consapevoli, come mai prima di ora, di quanto sia importante vivere e lottare insieme.
zione Minustah, cui partecipano 16 Paesi; gli Stati Uniti aumenteranno in settimana fino a quota 16000 la presenza dei propri soldati sull’isola per garantire l’ordine pubblico. Ma anche in questo non mancano le polemiche, il timore cioè che gli aiuti per l’emergenza umanitaria diventino un mezzo di stabile influenza.
Alle iniziali incomprensioni tra Francia e Stati Uniti si sono sovrapposte le violente accuse antistatunitensi dei governi populisti di Venezuela, Bolivia e Nicaragua che hanno parlato di occupazione dell’isola. Ma l’Onu (che per ora ha stanziato il 20 per cento degli aiuti richiesti) e il governo di Haiti hanno subito gettato acqua sul fuoco chiarendo che serve l’aiuto di tutti e che quello di Washington è particolarmente utile, anche per poter gestire il flusso degli aiuti, capace di sopraffare le destabilizzate infrastrutture dell’isola. Ma non si può negare che dietro le quinte ci sia qualche partita diplomatica aperta: da segnalare quella tra Cina e Taiwan. Pechino solo negli ultimi anni si è fatta coinvolgere nelle missioni internazionali, e ora sta cogliendo l’occasione per togliere posizioni all’isola rivale, che ad Haiti è molto impegnata perché il governo di Port-au-Prince ha riconosciuto l’indipendenza di Taipei.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato un dispiegamento aggiuntivo di 3500 uomini ai 9000 già presenti; gli Usa aumenteranno fino a quota 16mila, per garantire l’ordine pubblico
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cultura
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a mostra La riscoperta di Dada e Surrealismo a cura di Arturo Schwarz (in corso a Roma al Vittoriano) ha il grande pregio di farsi testimone di un fatto inoppugnabile: Dada e il Surrealismo sono le origini della scena corrente dell’arte. La mostra ripercorre la storia di Dada e del Surrealismo attraverso 500 opere diverse - sculture, dipinti, fotografie, documenti - organizzate in sezioni diverse che rivelano la complessità dei due movimenti attraverso iniziatori, sottocorrenti, contiguità con altre avanguardie, etc.. Un materiale che sostanzialmente conferma come la qualità concettuale dell’arte che pervade oggi le tendenze del contemporaneo nasce proprio in questo crocevia tra Dada e Surrealismo.
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Dada e Surrealismo non muoiono mai, e ribadiscono la loro vitalità infinita. Quando, nel 1924, André Breton presentò il Manifesto del Surrealismo aprì una scatola che ancor oggi non si è richiusa. Il sogno è uno scrigno portentoso pieno di risorse in cui tutte le facoltà umane, dall’economia alla politica, ad ogni altro aspetto del quotidiano, si celano nella loro energia libidinale, mascherati nel fondo del desiderio. Il sogno è un grimaldello eccezionale per l’arte surrealista che ha eletto Freud a reggente indiscusso del nuovo laicismo parascientifico. Il sonno, quello stato di morte apparente, ha aperto una serie di domande infinite sulla vita e sulla morte, aprendo un canale che tra le due ha ricercato un punto di comunicazione: Eros e Thanatos, erotismo e morte, sono i due poli opposti verso cui si muovono le pulsioni più antiche dell’animo umano. Del resto, «chi dorme e
Mostre. La storia di Dada e del Surrealismo al Vittoriano di Roma
Alla ricerca del sogno perduto di Angelo Capasso siero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale».
affiorare le aporie e le ambiguità del linguaggio. È l’arte del nulla, e che rende il nulla manifesto, visibile, iconico.
Ogni protagonista del Surrealismo, - Max Ernst, Juan Mirò, René Magritte, Salvador Dalì, - ci ha fornito attraverso il suo lavoro una sorta di autoanalisi in atto che si propone come la possibilità libera di conoscerne tratti più nascosti, la personalità più profonda: intellettuale e asciutto Max Ernst, al pari di un architetto della visione; compulsivo e istrionico Dalì, che ha avuto la grande
È già questa ibridazione innaturale che produce una qualità surreale ai lavori degli artisti di Breton: è un’associazione che risponde perfettamente alla frase di Lautremont che da sempre si considera come sintesi estetica della pittura dei surrealisti: «Bello come il fortuito incontro su un tavolo operatorio di una macchina da cucire e di un ombrello». De Chirico è stato certamente il tavolo
Surrealismo si trova la convergenza di due tendenze dell’arte che si sostituivano agli ingegnerismi del cubismo e agli ottimismi del futurismo: da un lato certamente la pittura di Giorgio De Chirico, che aveva
minava nei circoli svizzeri di Dada. «Un sistema, incapace di disciplinare le proprie forze in maniera diversa da quella che comporta la destituzione e la distruzione dell’uomo, ha fatto fallimento. Fallimento anche dell’élites che in tutti gli stati, senza eccezione, plaudono all’eccidio generale, che fanno l’impossibile per trovare le misure atte a perpetuarlo. Fallimento della scienza le cui più belle scoperte si riducono alle nuove proprietà di un esplosivo o al perfezionamento delle macchine destinate ad uccidere. Fallimento delle filosofie che dell’uomo non vedono più se non l’uniforme e che non pensano ad altro che a fornirgli giustificazioni che gli impediscano di prendere coscienza del turpe mestiere che gli fanno fare. Fallimento dell’arte, ridotta a gestire il tipo migliore di travestimento, fallimento della letteratura, semplice appendice del comunicato militare. E come si sarebbe potuto tollerare che, durante un tale cataclisma, la poesia continuasse la sua tiritera, che uomini, che avevano conosciuto questo incubo, venissero a parlarci della bellezza delle rose?» (Maurice Nadeau).
La nascente filosofia surrealista coglie un punto di mistificazione particolarmente significativo. «La ragione, l’onnipotente ragione, è sul banco degli accusati (...). Il reale è qualcosa di diverso da ciò che vediamo, sentiamo, tocchiamo, percepiamo, apprezziamo». È la ragione che ha prodotto gli sviluppi scientifici e tecnici del secolo precedente, quella che ha dominato le filosofie della fine del secolo (nel loro senso più superficiale). La prima lotta surrealista è contro questa ragione, contro la logica di un potere
Cinquecento opere (sculture, dipinti, fotografie, documenti) organizzate in sezioni diverse che rivelano la complessità dei due movimenti attraverso iniziatori, sottocorrenti, contiguità con altre avanguardie
chi è morto non è che un’immagine» sosteneva già Shakespeare nel Macbeth, sottolineando il fatto iconico del dormire come immagine della trascendenza, lo stesso che il Surrealismo vede come contatto verso una realtà superiore: la Surrealtà. Una realtà raggiungibile attraverso la liberazione delle pulsioni libidinali più profonde, o meglio come spiega Breton: «Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pen-
tradizione della pittura, Raffaello, Velazquez, Rembrandt, come riferimento centrale della sua figurazione; ironico, acuto e tagliente Magritte, che ha lavorato sull’ambiguità del linguaggio visivo; pulsionale e appassionato Mirò, che ha lasciato alla materia assorbire ogni desiderio. Alle origini del
fornito con la sua pittura metafisica un contributo determinante alla nascita del movimento, riconosciuto come padre naturale sia da Breton, che da Magritte; sul fronte opposto certamente Dada. Dada è la provocazione pura. È il senso e il nonsenso. Il controsenso come metodo di lavoro, atto a far
In questa pagina, alcune delle opere esposte alla mostra “La riscoperta di Dada e Surrealismo”, curata da Arturo Schwarz, in corso a Roma al Vittoriano
operatorio su cui si sono assorbite le istanze del nuovo immaginario postbellico proposto dal Surrealismo e anticipato da Dada. La matrice reale del movimento surrealista si trova nell’Europa del primo dopoguerra. La delusione era lo stato d’animo dominante tra gli artisti europei, e questa già do-
che continua a reggersi anche su questo valore culturale mistificato. La fortuna di DadaSurrealismo è stata anche la fortuna di Arturo Schwarz, collezionista delle opere del Surrealismo, amico dei surrealisti, nonché scrittore che ha dedicato numerose pagine a quell’ambito così ricco per l’arte internazionale. Con questa mostra, Schwarz continua la lunga sequela di mostre già organizzate sul tema. Peccato per alcune assenze fondamentali, che lasciano scoperte zone centrali di Dada-Surrealismo e quindi dell’attualità del Sogno.
spettacoli
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Musica. Si moltiplicano le voci su una possibile reunion della band di Chris Cornell dopo una separazione durata dodici anni
Soundgarden, operazione nostalgia? di Valerio Venturi
MILANO. Il dio del rock deve avere avuto pietà di Chris Cornell. Nel sito ufficiale dell’ex frontman dei Soundgarden - gruppo grunge anni ’90 - è annunciata in modo sibillino la re-union della band di Seattle: «La pausa di 12 anni è finita ed è ora di ricominciare la scuola. I Cavalieri della tavola del suono sono tornati!». Il cantante statunitense è forse stufo di percorrere una carriera solista insipida? Che abbia deciso di rivivere i fasti della sua epoca d’oro riabbracciando i vecchi compagni di giochi? È quello che sperano i rockettari che ora hanno sui trent’anni, che alla lettura della notizia si sono probabilmente infartuati di felicità: se Cornell è il cavaliere ritrovato c’è da brindare con la lacrimuccia. Anche se il fenomeno delle re-union sta diventando una vera piaga, la scena musicale ri-acquisirebbe un gruppo di artisti di qualità.
I Soundgarden si erano sciolti nel ’97, dopo 13 anni di attività e la pubblicazione di cinque fortunati album. Morto Kurt Cobain, cantante Nirvana, erano scomparse le ragioni estetiche del grunge e quindi anche i Nostri, esponenti del movimento rivisitato in salsa doom e progressive. La loro carriera era cominciata nel 1986: dopo qualche esperienza sotterranea, il drummer Scott Sundquist lascia i Soundgarden e viene sostituito da Matt Cameron, ex batterista degli Skin Yard. Il gruppo ottiene un contratto dalla Sub Pop, casa discografica di riferimento di tutte le formazioni alternative principali degli anni ’90; esce Screaming Life. L’ep ha successo: la A&M Records drizza le antenne. Segue il cd Ultramega OK, disco amato da Axl Rose. Nel 1989 esce il primo album dei Soundgarden per la A&M Records, Louder Than Love. Sono gli anni in cui il suono di Seattle conquista il mondo. Il pubblico interessato si allarga: nel 1991, Cornell e soci realizzano Badmotorfinger, sponsorizzato con un epico tour fianco a fianco dei Guns n’ Roses. I Nirvana, ormai fenomeno planetario, rubano la scena, ma il percorso dei Soundgarden è in discesa. Nel ’94 esce Superunknown, trascinato dalla hit Black Hole Sun: tre milioni di copie vendute, due Grammy Award e il primo posto in classifica dei dischi in America. L’ultimo cd realizzato è Down on the Upside, del 1996: disco di platino e canto del cigno. Un’epoca si è esaurita. Il 9 aprile del 1997 la band annuncia lo scioglimento per screzi interni. Così, Chris Cornell tenta la carriera solista: Euphoria Morning, del 1999, è un suo bel prodotto d’esordio, ma vende poco. Carry on del 2007 è così così, Scream del 2009 è una mezza fetec-
Il primo gennaio 2010 Chris Cornell annuncia tramite Twitter che «la pausa di 12 anni è finita ed è ora di ricominciare la scuola»
chia, ma funziona bene: è perchè il cantante decide di virare verso il pop; si taglia i capelli, toglie gli anfibi e le rozze camicie a quadri, si veste Dolce e Gabbana e si fa allambiccare le canzoni da Timbaland, creatore di chicche pop. Tra le tre prove “on my own”, Cornell trova il tempo di unirsi ai componenti dei Rage Against the Machine, orfani del cantante Zack de la Rocha, per dare vita agli Audioslave: due cd insieme e poi ognun per sé.
condo alcuni, il combo sarebbe già in trattativa per partecipare a diversi festival estivi. Eppoi i Soundgarden già si erano ritrovati: avevano suonato insieme il 24 marzo 2009 in apertura del concerto di Tom Morello. Una rimpatriata estemporanea o piuttosto i prodromi di un “atto secondo”. La questione rimane aperta. Chris Cornell fa il sornione glamour su web e spacca chitarre elettriche Gibson con furore
Tredici anni di attività e cinque album fortunati, culminati con il successo di “Superunknown” nel 1994, che la hit “Black Hole Sun” trascina alla vittoria di due Grammy di Dave Grohl - per i No Wto Combo, band punk creata assieme a Jello Biafra e Krist Novoselic, e molti altri. Veniamo al presente: i destini dei suddetti paiono doversi re-incrociare; il primo gennaio 2010 Chris Cornell annuncia tramite Twitter e sito ufficiale che «la pausa di 12 anni è finita ed è ora di ricominciare la scuola. I Cavalieri della tavola del suono sono tornati!».
Gli altri? Dismissed. Il talentuoso batterista Matt Cameron entra a far parte dei Pearl Jam. Kim Tahyl, chitarrista considerato tra i migliori cento della storia del rock per Rolling Stone, suona la chitarra per Pigeonhed, con i Presidents of the United States of America, per i Probot - progetto heavy metal
Parla dei Soundgarden? Mistero. In realtà il cantante si sarebbe riferito alla riattivazione del Knights of the Soundtable, fan club ufficiale dei Soundgarden; anche Krist Novoselic (Nirvana), bene informato, ha smentito la possibilità di questa reunion. Però la frase e l’azione di Cornell restano sospette e fanno sperare: se-
hendrixiano. Dipende da lui, che ha il carattere che ha. È possibile che dopo aver registrato canzoni iper-pop poco felici, parenti sfigate di quelle di Nelly Furtado e di Justin Timberlake, voglia ora risotterrare le camicie a quadri e le doctor martins? Chissà!
In tutti i casi, se l’operazione nostalgia avrà inizio, i quattro ex Soundgarden gonfieranno i loro portafogli. Cornell farà più regali ai tre figli avuti da due mogli diverse; gli orfani del grunge avranno qualcos’altro da ascoltare a parte l’ultimo cd degli Alice in Chains - anche loro: a volte ritornano e dei Pearl Jam. I ragazzini emo scopriranno che oltre al trucco e alla frangia c’è di più: un suono finemente rozzo che spaccava gli impianti stereo quando loro emettevano i primi vagiti.
cultura
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Cinema. La vera cifra della pellicola fu quella di prendere le distanze dalla parte più goffa e greve di una società che si faceva via via sempre più consumista
Amarcord via Veneto Spegne 50 candeline “La Dolce Vita” di Fellini e Flaiano Il film che fotografò l’ingresso dell’Italia nella mondanità di Gabriella Mecucci ra cominciata proprio male. La prima a Milano, al cinema Capital, fu una catastrofe. Durante la proiezione si sentirono urla tipo: «Basta, che schifo, vergogna». All’uscita Marcello Mastroianni venne apostrofato pesantemente: «Vigliacco, vagabondo, comunista». In quella freddissima serata del febbraio milanese, La dolce vita e il suo regista, Federico Fellini, sembravano colati a picco. Lo scandalo dilagava, partirono le interpellanze parlamentari e le grida di protesta della stampa e del Vaticano. Il prefetto di Milano minacciò di sequestrare la pellicola per ragioni di ordine pubblico. La notizia uscì sui giornali e il giorno dopo, davanti al Capital, c’era la ressa per entrare, nonostante il biglietto fosse stato aumentato a mille lire. Il pubblico era corso per vedere quel film che, dopo aver fatto tanto rumore, probabilmente sarebbe stato ritirato. Tutto questo accadeva cinquanta anni fa: quella pellicola osteggiata e in procinto di sepoltura diventerà un mito: un successo senza precedenti.Vincerà a Cannes, ma soprattutto diventerà l’immagine di Roma e dell’Italia all’estero: un Paese gaudente, cinico e ancora arretrato. Oggi La dolce vita festeggia il suo compleanno con tutti gli onori e nessuno si sognerebbe di non riconoscerne l’originalità e la grandezza.
E
cosa avevano capito della fine degli anni Cinquanta lui e il suo sodale Federico. Scrisse sull’Europeo ricordando il giugno del 1958: «Sto lavorando con Fellini e Tullio Pinelli a rispolverare una nostra vecchia idea per un film, quella del giovane provinciale che viene a Roma a fare il giornalista. Fel-
voleva fargli la multa. «Non ho una lira», gli rispose il regista, «ma se lei vuole proprio che paghi, allora mi presti 5mila lire». Il vigile era interdetto e rispondeva che non aveva con sé danaro. E Fellini senza pietà: «Non mi dirà che oggi non ha fatto ancora nessuna contravvenzione, mi presti i soldi che ha incassato così pago anch’io, poi domani ripasso e le restituisco tutto». Dovettero scappare per evitare l’arresto.
Sembra una scena dei Vitelloni, ma Fellini e Flaiano erano consapevoli che il tempo era passato e il mondo intorno a loro era cambiato. Lo scrittore abruzzese annotava, sempre su l’Europeo: «In questo ultimo periodo Roma si è dilatata, distorta, arricchita. Gli scandali vi scoppiano con la violenza dei temporali d’estate, la gente vive all’aperto, si annusa, invade le trattorie, i cinema, le strade,lascia le sue automobili in quelle stesse piazze che una volta c’incantavano per il loro nitore architettonico e che adesso sembrano garage. E via Veneto diventa sempre più festaiola». C’è fastidio per questa contemporaneità e nella Dolce vita qua e là emergerà questo sentimento: no, la nuova Roma che Flaiano e Fel-
La prima a Milano, al cinema Capital, fu una catastrofe. Durante la proiezione si sentirono urla tipo: «Basta, che schifo, vergogna»
Come nacque l’idea di un film in sette episodi con l’indimenticabile Mastroianni al centro di tutti nel suo ruolo di cronista d’assalto senza troppi scrupoli e di tombeur de femme più timido che spregiudicato? E lei, Anitona, immersa nella Fontana di Trevi che chiamava con voce da gatta «Marciellooo», da quale fantasia erotica sbuca fuori? Quadri di una nuova epoca, in cui si affacciava il consumismo, che La dolce vita raccontò - da qui la ragione vera del suo successo - in modo magistrale. Ennio Flaiano, che ne fu lo sceneggiatore, spiegò più tardi, nel 1962, che
lini vuole adeguarla ai tempi che corrono, dare un ritratto a questa società da caffè, che folleggia tra l’erotismo, l’alienazione, la noia e l’improvviso benessere. È una società che, passato lo spavento della guerra fredda e forse proprio per reazione, prospera un po’ dappertutto. Ma qui a Roma, per una mescolanza di sacro e di profano, di vecchio e di nuovo, per l’arrivo massiccio di stranieri, per il cinema presenta caratteri più aggressivi, subtropicali». In quel giugno caldo i due, che saranno soggettisti e sceneggiatori, passeggiavano col geniale regista con quell’aria da provinciali ironici, pigri e un po’ battutari. Progettavano, ruminavano ma ancora «non avevano scritto nemmeno un rigo della Dolce vita».
In compenso Fellini si divertiva a prendere in giro i vigili urbani. Un giorno, mentre faceva con Flaiano uno dei soliti sopralluoghi a Via Veneto, venne fermato da un pizzardone che
Federico Fellini seduto a via Veneto; Anita Ekberg mentre fa il bagno a Fontana di Trevi sul set de “La dolce vita”; un cocktail a Cinecittà (da sinistra, Mastroianni, Aimée, Reyner, Fellini, la Ekberg e Fourneaux) nella ricostruzione del Café de Paris; una ricostruzione di Cinecittà
lini raccontano è illuminata, rumorosa e persino divertente, ma c’è in loro anche tanta nostalgia per quella del recente passato. Ora via Veneto in estate è piena di ombrelloni e di festoni, tanto che sembra «una spiaggia hawaiana», pullula di belle donne e di paparazzi (il termine prima della Dolce vita non esisteva, venne inventato dal film) che fotografano scazzottate fra principi “neri”, nel senso di accreditati al soglio pontificio, e super ricchi del “generone romano”per conquistare l’attricetta di turno. Anche le conversazioni sono diventate balneari: barocche e scherzose. I caffè somigliano sempre più ad «alcove, pagode, padiglioni di cera, tombe di famiglia». E via Veneto appare di una «bellezza offensiva, opu-
lenta». Gli intellettuali fanno ormai parte del carrozzone. Flaiano li sogna tutti in corteo, Bassani a braccetto con Moravia, Arbasino con De Feo e Mario Soldati, mescolati alle majorettes e agli orchestrali di una banda: sembra un’altra scena di un film di Fellini. Non c’è polemica né sarcasmo in queste immagini, è solo la metafora della confusione dei ruoli in una via che sta diventando più simile a Ostia che al ricordo che ne ha Flaiano, quando, di dieci anni più giovane, sbarcò a Roma, nell’anno giubilare 1950.
È nostalgia quella che prova lo scrittore. Nostalgia del poeta Cardarelli che non si è mai confuso nell’ammucchiata mondan-intellettuale: di quelli cioè
cultura
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Pubblichiamo un articolo che il regista scrisse nel 1962 per l’«Europeo»
«Ma nel film ho inventato un luogo inesistente...» Il racconto della «Dolce vita» nelle parole di Fellini: «Ho deformato via Veneto con la libertà della fantasia» di Federico Fellini Nel 1962, l’Europeo dedicò i suoi quattro numeri del mese di luglio alla Dolce Vita a via Veneto. Nel primo di questi numeri comparve un lungo articolo di Federico Fellini, di cui riproduciamo alcuni stralci. uno strano modo di cominciare un articolo su via Veneto, ma sono tanti anni che non faccio più il giornalista e posso anche permettermi di ignorare le regole del mestiere. Perciò lo dico subito: io da via Veneto non ci passo mai. Insomma, quasi mai. Tanto poco da non potermi assolutamente considerare un frequentatore di questa strada famosa in tutto il mondo. So benissimo che il mio nome, dopo La dolce vita, è stato insistentemente legato a via Veneto, alla vita più o meno mondana che vi si svolge la notte, alle compagnie delle belle donne e uomini brillanti che fanno venire le ore piccole ai tavolini dei caffé. Durante l’angosciosa ricerca di un produttore, mentre preparavo il film e prima del fortunato incontro con Angelo Rizzoli, ne trovai uno che voleva chiamare a tutti i costi il film “Via Veneto”. E ancora oggi molti giornalisti stranieri, soprattutto americani, mi telefonano supplicando di introdurli ai riti intellettuali ed erotici che avrebbero in via Veneto il loro punto di partenza e di arrivo. I più spregiudicati si dichiarano anche disposti a spendere quello che è giusto, mi garantiscono la discrezione e insistono perché porti con me Anita Ekberg. Quando rispondo che non posso fare niente, che non conosco parole d’ordine per penetrare nel mondo del roman holitays, nessuno mi crede.
È
che fanno delle presentazione dell’ultimo libro «una cerimonia simile alla presentazione del neonato figlio del re». Cardarelli, invece, imbacuccato nel suo inseparabile cappottone, passava tutta la giornata seduto da solo al cafè Strega, sopra il quale aveva una stanzuccia per ritirarsi la sera. Ce l’aveva con i premi letterari: «Ho deciso ieri per chi votare allo Strega, ma non ho letto niente di lui, ci mancherebbe», oppure: «Questi riconoscimenti invece di darli agli scrittori, li dovrebbero dare ai loro lettori, poveracci se il meritano». Ma Roma - secondo Flaiano nonostante tutto, resta inguaribilmente provinciale. No, non è una città del peccato come le megalopoli americane. Non c’è coca e si bevono persino
pochi alcolici che abbondano solo in qualche bar di periferia. Ai tavolini di via Veneto ci si siede per assaporare il caffè e dissetarsi con le aranciate. Meno di un centinaio fra gli avventori sorseggiano whisky e cognac. Altro che città del vizio, «qui ci sono solo dilettanti del peccato» .
La Dolce vita guarda Roma con l’occhio di Flaiano e Fellini: ne canta la mondanità, il nuovo benessere con il caravan serraglio che si porta dietro. Filma il grande cambiamento che sta vivendo l’Italia, sino a qualche anno prima povera e piegata dalla sconfitta bellica. Il sogno trasfigura questa rottura, ma dietro di essa si avverte la nostalgia di due provinciali, arrivati nella Capitale tanti anni prima del boom. In verità chi si scandalizzò non capì la vera natura della pellicola, dove sottilmente si prendevano le distanze dalla parte più goffa e greve di quella società, dal carattere cinico e arrivista del giornalista d’assalto, da una borghesia che avvertiva la sua forza ma anche il brivido della prima crisi dei propri valori più tradizionali. Per tutto questo la Dolce Vita diventò molto più che un grande successo, fu il racconto più forte e persuasivo di un Paese che viveva una rivoluzione entusiasmante e insieme dolorosa: in cui le conquiste non cancellavano la grande perdita del proprio passato, triturato dalla società del benessere. La fantasia felliniana descriveva meglio di qualsiasi saggio la realtà di allora: la vita e i sogni degli italiani.
imporre un film che gli ambienti professionali definivano fallito in partenza. Quando si trattò di cominciare la lavorazione via Veneto diventò un problema. Le autorità civiche infatti permettevano di girare in quella strada soltanto dalle due di notte alle sei del mattino, e condizionavano l’autorizzazione ad un monte di riserve.
Per la scena in cui Marcello Mastroianni riaccompagna a casa Anitona dopo il bagno nella Fontana di Trevi, non ci furono difficoltà. Ci appostammo a notte fonda e riuscimmo a “rubare”un’alba proprio bella, con Anita che batteva i denti per il freddo... Più complicata fu la scena in macchina fra Marcello Mastroianni e Anouk Aimée, che non volevo realizzare con il trucco del trasparente. Ci furono trattative interminabili con i vigili e alla fine ottenemmo il permesso di girare la scena in movimento perché non ci fermassimo mai ad intralciare il traffico. Annucchina non sa quasi guidare, ma la scena esigeva che fosse lei a portare la macchina: era pallida, tesa, con il batticuore. Accanto a lei Mastroianni, che si picca di essere un pilota provetto, soffriva indicibilmente... Poiché la scena doveva venir ripresa più volte, rifacemmo il percorso intorno agli isolati e ricomponendo la colonna in via Ludovisi. Sui marciapiedi si era raccolta parecchia gente a seguire i personaggi di questo trionfo strombettante e anche un po’ guitto, com’è sempre il cinema quando è fatto in mezzo alla gente. Il particolare ricordo la faccia di un curioso davanti all’Exelsior, un tipo con un baschetto e una faccia di pelle buia, da saraceno. Questo signorino aspettava con ansia ogni mio passaggio e, sapendo benissimo che non potevo fermarmi senza provocare la fine del mondo, quando mi aveva a un metro, un metro e mezzo dal suo naso, mi gridava una di quelle parole romanesche che non si possono stampare su un giornale. Accadde quattro o cinque o sei volte, il saraceno, appena arrivato al semaforo, mi guardava sghignazzando da lontano, pregustando il piacere di insultarmi. Al settimo passaggio ero esaperato... Fu lo choc di questo episodio a farmi insistere presso la produzione per ricostruire via Veneto. Così l’architetto Piero Gherardi cominciò a prendere le misure... La via Veneto ricostruita era esatta fino nei minimi particolari, ma aveva una caratteristica: era piana invece che in salita. Lavorandoci mi abituai tanto a quelle prospettive che la mia insofferenza per la via Veneto autentica crebbe ancora e ormai, credo, non scomparirà mai.
Il grande cineasta volle ricostruire la strada fino nei minimi particolari. Ci riuscì alla perfezione, con un unico intoppo: la nuova via era piana invece che in salita
Mi crederebbero ancora meno se confessassi la verità: e cioè che nel mio film ho inventato una via Veneto inesistente, dilatandola e deformandola con la libertà della fantasia nella dimensione di un grande affresco allegorico. Il fatto è che via Veneto, come contraccolpo alla Dolce Vita, si è trasformata, ha fatto uno sforzo violento per adeguarsi a quell’immagine che io le avevo dato nel film... Con Flaiano, Pinelli, Brunello Rondi verificavo le mie impressioni intorno a quel materiale che stavo raccogliendo, andavo avanti nella direzione vaga di un film che avrebbe dovuto rappresentare la vita in quegli anni. E così in margine alle tiepide serate di via Veneto nell’estate del 1958 nacque La dolce vita, con tutto la travagliatissima odissea che mi portò da un produttore all’altro, da un ufficio all’altro, impegnato nella battaglia per
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
dal “Chosun Ilbo” del 21/01/2010
La vera “bolla”? La crisi di Song Hee-young entre le economie di tutto il mondo giravano avanti e indietro, la crisi finanziaria internazionale è stata l’oggetto di discussioni molto aspre. Una delle conclusioni più gettonate vuole “sovrastimate” le preoccupazioni riguardo l’impatto della crisi sull’economia reale. Mentre il crollo inizia a recedere, è chiaro che non è stata “la crisi del secolo”o il più grande crollo dalla Depressione, come volevano i giornali. Durante la Seconda guerra mondiale, il Giappone ha visto ridursi del 50 per cento il proprio Prodotto interno lordo. L’economia statunitense è calata del 29 per cento durante la Depressione e del 16,5 per cento durante il secondo conflitto mondiale. Comparando i dati con quelli attuali, anche se la crisi finanziaria ha avuto un impatto disastroso su Wall Street, si vede che la recessione di America e Giappone è rimasta nell’ordine della “cifra singola”. Dando per assodata “una crisi senza precedenti”, le nazioni hanno intrapreso ogni possibile misura di reazione: ma le analisi più recenti mostrano che hanno, come dire, reagito “troppo”.
M
Questa crisi non ha distrutto di più delle altre, né tanto meno ha colpito con più durezza: semplicemente, è stata la crisi più globale. I prezzi di beni essenziali come il grano, l’energia e i prezzi delle case sono saliti e crollati in maniera drammatica. E quando a crollare sono i prezzi degli Stati Uniti, la torre di controllo del mondo intero, le azioni di tutto il mondo crollano insieme a loro.Tutto questo è avvenuto perché questa crisi è stata presentata come un mostro imbattibile. Il collasso dei prezzi è derivato da panico, completo e globale. Lo scoppio delle bolle è avvenuto ed è davanti agli occhi di tutti, ma i media l’hanno presentata
in maniera troppo devastante: basta guardare cos’è successo, e quali toni sono stati usati, per raccontare l’allontanamento dei dipendenti di Lehman Brothers. Cooperando in maniera efficace durante le prime fasi del crollo, le maggiori economie mondiali sono riuscite a tenerlo sotto controllo: ma quest’anno si apre una nuova fase. Non è più il tempo di concentrarci sulle bancarotte dei colossi bancari, né tanto meno dovremmo cercare di “rischiarare la situazione”: l’abbiamo già fatto. Ora dobbiamo contare chi ha vinto e chi ha perso. Dubai, la Grecia e l’Islanda sono scivolare ancora di più nella recessione, mentre l’Europa, gli Usa e il Giappone mostrano solidi segnali di recupero. Australia, Israele e Cina continuano a correre davanti a tutti. Chi ha vinto e chi ha perso si scoprirà meglio nel 2010. La performance della Corea non è stata soltanto buona: è stata una fonte di orgoglio interno. Le conglomerate nazionali come Samsung, Hyundai e la Lg annunciano nuovi piani di investimento. Ma questo è avvenuto perché non hanno risposto al nostro presidente, e tanto meno ai suoi ministri, quando questi volevano che buttassero del denaro per “stimolare l’economia”.
Si sono mosse, e bene, quando hanno visto del potenziale nel mercato. Grazie a questo modo di fare, la Borsa coreana ha retto e superato il rischio collasso già da tempo: ma lo stesso, il governo vuole
mantenere le misure di emergenza in vigore ancora per i prossimi sei mesi. La politica rimane congelata mentre il mercato si infiamma: questo ci colpirà, sicuramente. Al momento assistiamo a una fluttuazione nello scambio di azioni e nei prezzi di mercato che mette a rischio la ripresa economica.
Questa si può combattere soltanto lasciando alle regole dell’economia, e non a quelle della politica, la possibilità di agire. Per assurdo, il surplus di valuta estera presente nel nostro mercato - e parlo dei dollari americani - rischia di far scoppiare una bolla immobiliare che quasi non esisteva, prima della crisi sbandierata. C’è infatti una linea sottile fra investire e scommettere sulle bolle. Nel primo caso si dà ascolto alle regole del mercato e dell’economia e ci si muove di conseguenza, puntando soldi propri. Nel secondo si usano le regole, e i soldi, della politica: cioè di tutti. Chi lo ha fatto usando - con il beneplacito di Seoul - la moneta verde in eccesso ora rischia di distruggerci tutti.
L’IMMAGINE
Borgo Annunziata (Tp): sì ai cani, no al direttore del Despair Da circa tre anni nella zona di Borgo Annunziata a Trapani risiedono tre cani randagi, regolarmente vaccinati e sterilizzati, accuditi da molti cittadini. In tre anni nessuno mai si è lamentato degli animali, che sono ben voluti da tutto il quartiere. Di recente, nella zona si è aperto un Eurodespar e sono iniziati i problemi. Il direttore si è rivolto al canile municipale di Trapani, chiedendo l’immediata cattura degli animali perché i clienti del supermercato hanno paura di fare la spesa, in quanto i cani sostano sempre davanti l’ingresso. Menzogna! Gli animali non sono mai nello stesso posto e nessuno si è mai lamentato. I dipendenti del canile sono stati, però, costretti ad intervenire per cercare di catturare quei poveri cani, ma hanno dovuto fare marcia indietro, perché gli abitanti della zona si sono ribellati in difesa degli animali, e contro il direttore e il suo supermercato.
100%animalisti
SPECULAZIONI DELLE LOBBIES FARMACEUTICHE
NO A CELEBRAZIONI STRUMENTALI
L’aggravarsi della situazione occupazionale nel settore farmaceutico, nello specifico per l’attività di informatore scientifico del farmaco, è ormai insostenibile. Le lobbie farmaceutiche operano ormai senza controllo anzi sembrano essere tutelate dallo Stato. Infatti, con il ricorso sempre più frequente alla mobilità, alla cassa integrazione guadagni, alle illegali cessioni di ramo d’azienda, e con atteggiamenti ricattatori nei confronti dei lavoratori coinvolti, calpestano i più elementari diritti dei loro dipendenti. Bisogna continuare a combattere in questa battaglia per le migliaia di famiglie coinvolte, fino a quando i quesiti sollevati non riceveranno adeguata risposta.
Non bastano le celebrazioni interessate e strumentali, a cominciare da quelle di alcuni ex dirigenti del Psi oggi nel suo governo, a falsificare la storia di Bettino Craxi, tentando di iscriverlo post mortem nelle file del centrodestra. Sarà stato anche amico di Berlusconi, ma lo era, e molto di più, di tantissimi esponenti della sinistra italiana e internazionale, che lo stimavano, oltre che per le sue qualità, proprio per le sue intelligenti e lungimiranti posizioni di socialista autentico, che stava sempre dalla parte dei deboli e della libertà. Gli errori e i silenzi di una parte della sinistra italiana, in particolare del Pci e dei suoi eredi, non possono cancellare la realtà dei fatti e prima verranno riconosciuti come tali, prima sarà possibile anche in
Domenico
Culla di fango Non sarà un giaciglio extralusso ma almeno la collinetta di fango e detriti che ospita questi due fenicotteri minori è morbida e sicura. Al momento della cova le future mamme depongono un singolo uovo su un cumulo di melma. Sulla piccola montagnetta, il pulcino non si potrà godere il panorama ma almeno sarà al sicuro dai predatori e dalle inondazioni
Italia recuperare quei milioni di elettori socialisti che da un quindicennio disertano le urne o votano per il centrodestra.
Riccardo
GIUSTIZIA E CARCERI La giustizia ha bisogno della costruzione di nuove carceri, perché
saturare quelle già esistenti con una grande componente di soli extracomunitari, è l’ulteriore tassello che impedisce di assicurare la delinquenza comune nostrana ad una pena certa. Ormai neanche le telecamere risultano sufficienti negli esercizi commerciali, perché non assicurano la certezza del do-
lo. Solo prendendo il colpevole in fragranza di reato si può ottenere una parvenza di giustizia, una condizione impossibile quasi a realizzarsi. Non servono altri indulti che stanno solo nella politica della sinistra, ma solo il rispetto rigoroso delle leggi attuali.
Gennaro Napoli
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
Il silenzio di mari profondi e regioni inesplorate Martedì è stata festa di compleanno molto più di oggi. La realtà di quelle poche ore è una porta che introduce a un nuovo senso di gioia e a un nuovo senso di dolore, e a una nuova visione della vita. Ho provato molte volte, da quella sera a scriverti, ma ogni volta mi son trovato completamente sopraffatto da uno strano silenzio... il silenzio di mari profondi e regioni inesplorate... il silenzio di ignote divinità. E persino adesso che scrivo, sento che l’elemento più terribile della vita è un elemento muto. Le ore che trascorrono prima di un formidabile temporale e i giorni che vengono dopo una grande gioia o un grande dolore si somigliano, muti e profondi e pieni di ali tese e fiamme immobili. Rihani e io abbiamo pranzato insieme. Lui e Charlotte sono arrivati all’inevitabile malinteso. Adesso si vedono reciprocamente in una luce diversa. Rihani ha detto che non vuole più vedere Charlotte, ma io penso che la rivedrà. La voce di un Essere invisibile ha parlato: «Questi sono due individui fuori del comune e devono essere amici», e io penso proprio che debbano esserlo. Ora ti do la buonanotte.Ti bacio e poi ti auguro la buonanotte, e poi apro la porta, e poi esco per le strade con il cuore pieno e l’anima affamata. Kahlil Gibran a Mary Haskell
ACCADDE OGGI
PROMOSSO FINI, RIMANDATO BRUNETTA Esprimiamo piena condivisione per le parole del presidente Fini sulle difficoltà delle giovani generazioni. Ci sembrano invece fuoriluogo le esternazioni del ministro Brunetta. Sarebbe opportuno studiare nuove agevolazioni sugli affitti per i giovani dai 18 ai 25 anni, come accade già in Svizzera. Altri incentivi ad uscire di casa potrebbero essere: buoni spesa, buoni libro e mezzi pubblici gratuiti. Se dovessimo dare una pagella di fine semestre, Fini sarebbe promosso e Brunetta rimandato. Ci auguriamo che il ministro Brunetta e il governo possano dare il via ad azioni concrete, coinvolgendo nel dibattito i diretti interessati.
Vito Kahlun responsabile delle politiche giovanili del Pri
IMMIGRAZIONE SCELTA, NON SUBITA Conviene passare dall’immigrazione subita all’immigrazione scelta (diventata legge in Francia nel 2006 e 2007), puntando su migranti altamente qualificati. Il Canada seleziona accuratamente gli immigranti, sulla base d’un punteggio (che considera l’istruzione, le conoscenze linguistiche, l’età, le esperienze lavorative e l’adattabilità sociale); ne controlla pure la fedina penale e le condizioni finanziarie, mediche e assicurative. È opportuno accogliere immigranti richiesti dal sistema economico e culturalmente compatibili con la nazione ospitante: la Spagna preferisce i cristiani. Nei contesti mul-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
22 gennaio 1970 Primo volo commerciale di un Boeing 747
1973 La Corte Suprema degli Usa emette la sentenza del caso Roe contro Wade, che cancella le leggi statali che limitano l’aborto ai primi sei mesi di gravidanza 1980 Andrei Sakharov viene arrestato a Mosca 1983 Björn Borg lascia la sua carriera nel tennis dopo aver vinto consecutivamente cinque tornei di Wimbledon 1984 Viene presentato il primo computer Apple Macintosh 1987 Il politico della Pennsylvania Budd Dwyer si suicida in diretta televisiva 1992 Forze ribelli occupano la stazione radio nazionale dello Zaire, a Kinshasa, e trasmettono una richiesta per le dimissioni del governo 1997 Madeleine Albright diventa la prima donna segretario di Stato degli Usa 1998 Unabomber si dichiara colpevole e accetta la condanna all’ergastolo 2006 Evo Morales è il primo presidente indio della Bolivia
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
ticulturali, taluni tendono a “rintanarsi” e possono alimentare tumulti, i cui colpevoli restano talvolta impuniti. Scontri fra extracomunitari per il controllo dello spaccio di droga si verificarono il 26 e 27 luglio 2006, a Padova, via Anelli. I 23 marocchini e tunisini clandestini - imputati con l’accusa di devastazione, saccheggio e resistenza a pubblico ufficiale - sono stati tutti scarcerati: liberi e scomparsi. Il processo è iniziato nel gennaio 2010, ma nessuno si è presentato alla sbarra. Gli aiuti e i sussidi di disoccupazione elargiti dallo Stato sociale potrebbero essere usati impropriamente: ad esempio per l’affermazione dell’Islam, non per comprare cibo. L’eccesso immigratorio, specie islamico, potrebbe favorire fughe ed emigrazioni dei bianchi dai loro Paesi. In Olanda, l’emigrazione superò l’immigrazione nel 2004, anno in cui venne assassinato il regista Theo van Gogh da un islamista olandese.
Gianfranco Nìbale
CELLULARI E FREDDO Il freddo fa male anche ai cellulari. Se la temperatura scende sotto lo zero il gelo può danneggiare i cristalli liquidi del visore. In questi giorni di abbassamento della temperatura consigliamo ai possessori di cellulare di non lasciarlo in macchina o all’aperto ma di tenerlo in tasca, al caldo. Anche se il limite per eventuali danni è di 10 gradi sotto zero, sarebbe opportuno non sfidare la sorte e conservare intatte le funzioni del cellulare.
Primo Mastrantoni
Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Filippo La Porta, Maria Maggiore,
Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio
Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,
Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,
RISCHIARE PER CAMBIARE Gli elettori dell’Udc già hanno scelto con chi stare e i risultati delle scorse elezioni politiche ed europee lo dimostrano. Il sen. Viespoli vorrebbe far intendere che i nostri elettori non premierebbero un’alleanza diversa dal Pdl. L’errore di fondo, nel tentativo di attrarre il forte e determinante consenso di cui gode l’Udc, è quello che vede la necessità di un’alleanza in termini elettorali e/o politici. Il contributo dell’Udc, invece, è diretto verso un’alleanza sociale fondata su un patto sobrio, sostanzioso e sostanziale con e per il territorio, non per il potere. Il senatore dovrebbe preoccuparsi di più del proprio elettorato, poiché, soprattutto in Campania, il Pdl vive una condizione asfittica, in cui ogni decisione di governo o sottogoverno è stata assunta sempre al di fuori di un sistema di autentiche regole democratiche, senza la necessità di rendere edotti i propri elettori di come si utilizza il potere disceso dalle opzioni di Berlusconi, salvo chiamarli a raccolta per la presa d’atto di oligarchie già confezionate. La nostra regione ha bisogno della viva democrazia, della vera partecipazione che, insieme ad una proposta politica, assente in questi lunghi anni, rappresenterebbero una boccata di ossigeno e una speranza per i cittadini. La proposta politica in questi anni è stata pressoché nulla, completamente appiattita su logiche consociative che hanno visto i consiglieri regionali sanniti recitare una parte politicamente miserabile, abbarbicati, come sono stati, alle stanza del potere bassoliniano ad elemosinare qualche briciola e, in cambio, rinunciare alla propria finzione di opposizione democratica, tradendo il mandato ricevuto dagli elettori, così come accade per la presa d’atto di alcuni provvedimenti del governo nazionale, fortemente lesivi degli interessi e della dignità della popolazione campana. Se la classe dirigente campana parlasse di più con la gente, motivandola e interessandosi dei problemi e mettendosi al servizio, non solo in senso mediatico o demagocico, probabilmente la politica potrebbe avere un futuro, per costruire un sentiero liberale attorno agli uomini che relazionano il mandato politico e rappresentativo in una funzione diretta al ruolo che svolgono al servizio e nell’interesse dei cittadini. L’Udc ha a cuore questo futuro, per cui l’alleanza potrà essere solo sociale, sui programmi a favore della collettività, e non politica, poiché diverse sono le differenze che attualmente ci separano. L’Udc verificherà se Stefano Caldoro saprà rischiare per cambiare qualcosa, se condividerà il momento di guardare oltre gli schemi consueti, oltre l’idea di consenso, costruito solo e comunque attraverso l’esercizio di promesse minutamente clientelari, del discrimine di affidabilità che un politico ha da scontare questo tipo di promesse, centralizzando la propria attività sul miglioramento della vita dei cittadini. Rischiare per cambiare, questo è il patto che probabilmente veicolerà la scelta dell’Udc.Vincere le elezioni senza la ricorrenza dei richiamati requisiti per i cittadini equivale ad una sconfitta, a prescindere dall’appartenenza politica. Marcello Matarazzo S E G R E T A R I O OR G A N I Z Z A T I V O PR O V I N C I A L E UD C
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PAGINAVENTIQUATTRO Anniversari. A 120 anni dalla sua nascita
Il primo «iPod» si chiamava di Valentina Gerace oloratissimo e proposto in mille forme. Status symbol di intere generazioni. Ha fatto ballare milioni di giovani in ogni angolo del mondo. Dopo un’intera epoca di innovazione tecnica e estetica resta solo il culto del collezionismo. Eh sì, il Juke Box, quella scatola magica e luminosa che ha animato la vita e le feste dei giovani dagli anni 50 in poi, oggi compie 120 anni. Uno di quei “cassettoni”colorati che fino agli anni 70 abitavano nei bar e in cambio di una monetina sputavano la loro bella o brutta canzone, può arrivare a cifre che superano i 50mila euro.
C
È questo infatti il prezzo di un Wurlitzer 1015 originale, il modello più caratteristico creato dalla casa produttrice più nota di Juke Box, proposto al grande pubblico, con immagini a tutta pagina su riviste e giornali e venduto in oltre 50mila esemplari. Nato nel 1946, è un mito per i collezionisti, lanciato dallo slogan Wurlitzer is Juke Box!: un caleidoscopio di colori, dal giallo al verde al rosso all’arancione, simbolo di speranza, di allegria e di ricostruzione dopo gli orrori della guerra. Ideato da Fuller, che insieme a Miller della Seeburg rivoluzionano il design dei Juke Box con l’introduzione della plastica, il Wurlitzer 1015, rappresenta il simbolo dell’American Way of Life, attecchito in Italia solo tardivamente, all’inizio degli anni Cinquanta. Il rock’n’roll è ormai la colonna sonora della rivoluzione sessuale. La vita dei giovani sta cambiando. Si riuniscono ascoltando la radio o i 45 giri, opponendosi alle soffocanti regole della scuola. Fenomeno non solo musicale quello del juke box, ma anche sociale, che intensifica le interazioni tra ragazzi, sopratutto abbatte le barriere culturali tra persone di etnie diverse. Eppure se le tv non mandassero in onda, ogni tanto, vecchi film o telefilm sugli anni 50 forse i ragazzi d’oggi, quelli dell’era degli Mp3 e della “malattia digitale”, ignorerebbero addirittura l’esistenza di “strani” apparecchi a gettone per ascoltare musica nei bar e nei ritrovi. L’era del jukebox è ormai solo un ricordo delle generazioni degli attuali 50-60enni. Eppure quest’oggetto coloratissimo ha segnato un’epopea della musica. Un’epopea che è iniziata esattamente il 23 novembre di 120 anni anni fa, nel 1889, quando un oscuro telegrafista americano, Louis Glass, perfeziona un fonografo della Edison, e lo installa al Palais Royal Saloon di San Francisco. L’apparecchio funziona con una monetina e permette di ascoltare un solo e unico brano musicale attraverso ricevitori a cono, collegati con un tubo allo stesso fonografo, che a sua volta con un unico rullo su cui era impresso il motivo musicale. Un successo immediato: solo nel primo giorno quel prototipo di juke box incassò 15 dollari, una discreta
somma per quei tempi. Solo nel 1906 è possibile ascoltare più brani dallo stesso fonografo, ideato dalla società americana John Gabel, che utilizza al posto dei “cilindri” musicali i primi dischi di moderna concezione inventati fin dal 1877 da Berliner, commesso di stoffe tedesco emigrato in America. L’innovazione di Berliner è seguita da quella della Bell, la società fondata dal co-inventore del telefono, che decise di produrre un nuovo fonografo tipo Edison ma in grado di suonare i dischi inventati da Berliner: venne così fondata la prima industria discografica del mondo, la Columbia Gramophone Company, tuttora una major mondiale della televisione e dello spettacolo. Nel 1930 fanno capolino la Wurlitzer e La Rock-o-la. Ma da dove nasce la parola juke-box? Da “jook” che nello slang delle per-
Celentano. Stanno nascendo il rock ’n’roll e il pop. L’influenza del juke-box nel mercato discografico italiano viene allora consacrata anche dal Festivalbar, una manifestazione che decretava i vincitori proprio attraverso le classifiche delle selezioni fatte sui juke-box sparsi in tutt’Italia. Ma è in America che la battaglia fra i gradi costruttori di juke-box fu, per così dire, più “epica”. L’innovazione introdotta dal juke-box produsse effetti incredibili: nel 1936, due anni dopo il lancio del primo modello, erano già più di 40mila. I 50 e 60 sono gli anni della innovazione. Riviste e giornali pubblicano intere pagine con fotografie di giovani che si scatenano ballando attorno all’oggetto.Vengono prodotte decine di gadget raffiguranti il mitico giocattolo musicale e gli americani attribuiscono a questo apparecchio un trionfo che
JUKE BOX Nato alla fine del 1889 (ma perfezionato e lanciato sul mercato come lo conosciamo noi solo nel 1946), prende il nome dall’unione dei termini “juke”, che nello slang delle persone di colore significa danza, e “box”: cioè “scatola” sone di colore significa danza, e dalla fonte, ovvero “box”, scatola musicale. Fino agli anni 30 tutti i jukebox erano in stile “art deco” ed erano supportati da dischi 78 giri, assomigliavano vagamente a radio-console ovvero erano strutturati in modo tale da sembrare comunissimi mobili. Successivamente il design cambia: oltre al mobile in legno vengono introdotti come materiali d’utilizzo, come resina fenolica colorata e lucida; il tutto dà maggior vivacità alle macchine destinate sempre più ai locali di ritrovo. In Italia è l’epoca di Mina e
vede ancor oggi nel “1015”un modello molto ricercato da collezionisti e amatori. Funzionanti in origine con dischi a 78 giri, vengono convertiti per poter funzionare anche con i 45 giri.
In Italia gli stabilimenti balneari sono invasi di juke-box. Con la fine del 45 giri, negli anni 70, vedono il primo declino, superati dai nuovi modi di ascoltare e diffondere la musica. Insieme al successo delle prime discoteche, nasce la figura oggi carismatica del deejay. Benché la Rock-Ola e la Wurlitzer continuino a produrre juke-box inserendovi la moderna tecnologia digitale fornita dal cd. Oggi la rete contiene siti ufficiali e non, dedicati agli artisti. I “negozi” sono sbarcati online, si possono ordinare dischi, ascoltare la radio, preascoltare brani in rete, per arrivare alla trasmissione di concerti e showcase interattivi. Non c’è da stupirsi se i teenagers di oggi non conoscono il fenomeno dei juckebox. Ne ignorano completamente il fascino, che in fondo era uno solo: godere la musica tutti “insieme”, vivere la stessa atmosfera e le stesse emozioni, nello stesso momento, in gruppo, fra amici o tra persone di altra cultura. Una differenza non da poco, rispetto al triste e solitario consumo della musica in cuffia o al pc, nelle stanze dei giovani dell’era-internet.