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Quando in un paese la forza organizzata non è in nessun luogo, il dispotismo è dappertutto
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9 771827 881004
Louis Blanc di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 4 MARZO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Cancellate tutte le liste del centrodestra per il Pirellone. Ora l’unica speranza per il governatore è il ricorso al Tar
Sull’orlo di una crisi di nervi
Caos a Milano: Formigoni fuori. A Roma escluso il Pdl Ora in Lombardia è un vero dramma. Il partito di Berlusconi sempre più logorato. E mentre Cicchitto dice che «la democrazia è a rischio», Granata avvisa: «Possiamo far cadere il governo» di Marco Palombi
Sempre più voci d’accordo con l’analisi del Centro
ROMA. Formigoni è fuori dal-
Straordinaria scoperta in Portogallo
Il chiodo di Gesù
le regionali. E pure la lista del Pdl per la provincia di Roma. Lo hanno deciso le commissioni elettorali presso le Corti d’appello di Milano e di Roma. La prima ha respinto il ricorso per la riammissione di “Lista per la Lombardia”, il listino regionale a cui è agganciata la candidatura del governatore uscente.
L’importanza che se ne accorga Ernesto
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Piero Ostellino sulle tensioni nel partito di maggioranza
«Il Cavaliere è un dilettante e il Pdl un deserto politico» di Errico Novi di Rocco Buttiglione rnesto Galli Della Loggia si è accorto che il partito di plastica, cioè il Popolo della libertà, si sta squagliando. La notizia ci conforta e ci rallegra. Ben inteso: la notizia non è che il Pdl si sta squagliando. Quello lo sapevamo già e lo abbiamo denunciato per tempo e proprio per questo non abbiamo voluto entrarci. La notizia è che se ne è accorto Ernesto Forza Italia Galli Della Loggia. A forza di era solo gridare che il re una corte è nudo alla fine allargata. qualcuno se ne accorge e ci dà Il Pdl è la Per la stessa cosa, ragione. verità Galli Delpiù Fini la Loggia avrebbe anche potuto dire che il brevetto di quella scoperta ce l’avevamo già noi, ma gli perdoniamo volentieri l’omissione. Non è la stessa cosa dire che il re è nudo in uno dei borghi del paese oppure nella reggia del Corriere della Sera, e infatti in quelle aule severe la notizia un qualche sconcerto lo ha provocato e sembra che il direttore abbia esitato a lungo prima di decidersi a pubblicare l’articolo. segue a pagina 4
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ROMA. Dilettanti. A cominciare dal leader. O comunque «pesci di fondo», vecchi cortigiani «che sanno muoversi meglio del monarca e sono pronti ad accoltellarlo alla schiena». Piero Ostellino non indulge al compatimento nel giudicare il Pdl. Né si lascia impressionare
dalla narrazione con cui parte del centrodestra prova a rovesciare la farsa delle liste bocciate, una lettura secondo cui i magistrati avrebbero afferrato al volo il formalismo procedurale come estrema occasione per colpire Berlusconi. a pagina 5
Un’isola a largo di Madeira. La tomba di tre cavalieri templari. Con loro, uno scrigno con un chiodo. Secondo Bryn Walters, l’archeologo autore della scoperta, era sulla croce di Cristo Osvaldo Baldacci •pagina 12
Il Vaticano dice sì per risolvere la fame nel mondo. Il Carroccio invece sceglie il protezionismo
La patata bollente della Lega La posizione sugli ogm frena la rincorsa al consenso della Chiesa
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di Gabriella Mecucci
ROMA. La super patata, la cui colti- nel mondo. A questa posizione pruvazione è stata autorizzata dalla Commissione europea, divide gli italiani. C’è chi, come il Vaticano, apre, sebbene con cautela, agli ogm, e chi, come il ministro dell’Agricoltura Zaia non ne vuol proprio sapere di coltivarli in Italia. A nome della Chiesa si è espresso il cancelliere della Pontificia accademia delle scienze, Marcelo Sanchez Sorondo. L’alto prelato ha difeso la trasformazione transgenica in agricoltura purchè contribuisca ad alleviare la fame I QUADERNI)
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dentemente aperturista corrisponde la dura critica che parte dagli ecologisti, da alcuni settori della sinistra e dal ministro dell’Agricoltura, Luca Zaia. Quest’ultimo fa tutt’uno con le organizzazioni degli agricoltori (Coldiretti e Confagricoltura). Sono invece più disponibili alla novità alcuni esponenti dell’industria, in particolare della chimica e della farmaceutica, e una parte importante della comunità scientifica. a pagina 8
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 4 marzo 2010
Caos a Milano. Salta il listino regionale a cui è collegata la candidatura del governatore uscente della Lombardia
Due siluri contro il Pdl
Formigoni escluso dal voto. A Roma respinto il ricorso del centrodestra Cicchitto: «A rischio la democrazia». Casini: «Spero che la situazione si risolva» di Marco Palombi
ROMA. Roberto Formigoni è fuori dalle elezioni regionali. Per ora. E pure la lista del PdL per la provincia di Roma. Lo hanno deciso le commissioni elettorali presso le Corti d’appello di Milano e di Roma. La prima ha respinto il ricorso per la riammissione di “Lista per la Lombardia”, il listino regionale a cui è agganciata la candidatura del governatore uscente. Risultato: niente Formigoni e niente centrodestra visto che le liste provinciali (dei partiti e non) esistono in quanto sono collegate al listino regionale del candidato governatore. Stessa sorte per il ricorso presentato nel Lazio, anche se questo riguarda solo la lista del PdL e per di più nella sola (ma fondamentale) provincia di Roma. La faccenda non è ovviamente finita perché restano ancora da presentare i ricorsi al Tar, sede giudiziaria tradizionalmente di manica larga su temi come la regolarità delle liste: l’obiettivo minimo del PdL, a questo punto, è ottenere almeno una sospensiva, cioè di essere riammessi nella competizione elettorale in attesa del giudizio di merito. Più facile nel primo caso – attorno a Formigoni il clima è ancora ottimista: il Tar ci riammetterà, dicono, la loro giurisprudenza è univoca – meno nel secondo in cui manca qualunque verbale che testimoni l’esistenza stessa della lista di centrodestra. A Milano, intanto, comincia a crescere la polemica tra PdL e Lega. Il Carroccio non perde occasione per irridere gli alleati “dilettanti”, ma quelli non ci stanno. Ignazio La Russa l’ha detto chiaramente: ci avevano promesso 500 firme e ne hanno portate trecento di cui solo trenta valide. Accuse seccamente rimandate al mittente – e con qualche irritazione – dagli uomini di Bossi: La Russa farebbe meglio a informarsi. PdL e Lega, peratro, battagliano anche attorno al possibile decretino “sistema tutto” del governo: Maroni e gli altri, si sa, non lo vogliono, ma adesso la cosa torna d’attualità. D’altronde basta leggere la reazione di Paolo Bonaiuti alle due esclusioni: «È impensabile che il PdL resti fuori in Lombardia e nel
Il partito non è mai nato, ma lo sapevano fin dall’inizio di Giancristiano Desiderio eri c’erano i “professionisti della politica”, oggi ci sono i “dilettanti della politica”. La vicenda dei pasticci delle liste, dei timbri, delle firme è solo un sintomo, se non una mera casualità. Il vero dilettantismo è, invece, la radice stessa del Pdl. Oggi Gianfranco Fini, quasi parafrasando una nota frase del teatro di Eduardo, dice «Così com’è il Pdl non mi piace» e un deputato a lui molto vicino, Fabio Granata, rilascia un’intervista a MicroMega e sostiene apertamente che il governo potrebbe anche cadere. Dire che siamo alla resa dei conti è probabilmente una frase fatta, mentre sottolineare che un partito non si fabbrica, ma si fa - sì, proprio come dice la pubblicità del parmigiano - e che chi ha creduto di fabbricarlo con carte notarili e percentuali patrimoniali ha solo ubbidito o a una sua personale illusione ottica o a una bugia che, come al solito, dimostra adesso di avere le gambe corte. Il Pdl è dilettantismo che si è fatto partito e governo. Ma ve la ricordate la storia?
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Silvio Berlusconi salì sul predellino dell’automobile a piazza San Babila e fece il partito. Sembrava una scena del tutto naturale e spontanea e il gesto del Cavaliere fu ricondotto a una delle sue geniali intuizioni comunicative che alla fine, però, non comunicano niente se non il niente. Lui aveva un’esigenza: costruire un partito grande per dimostrare ad elettori e a Walter Veltroni che il suo partito era più grande del Pd. Così per costruire un partito grande buttò all’aria quindici anni di storia e la possibilità concreta di fare un grande partito (faccio ricorso agli slogan pubblicitari perché nel caso di Berlusconi costituiscono in pratica un contrappasso dantesco). Pdl voleva semplicemente dire questo: Forza Italia, come una balena, ingoia anche An e diventa un partito grosso grosso. E quelli di An? E Fini? Tutti stettero al gioco e Fini, pur di togliersi dai piedi i berluscones del suo partito, si accodò recitando la parte del “co-fondatore”. Se pensiamo che Forza Italia non è mai stato un ve-
ro partito e che proprio An aveva in sé ancora qualcosa che poteva somigliare alla tradizione dei partiti radicati e con un po’ di spina dorsale territoriale e morale, allora, possiamo capire che il risultato del Pdl non poteva che essere un disastro annunciato: il partito - An - si scioglieva per farsi annettere dal non-partito: Forza Italia. Il resto lo sapete: il 70 per cento del quote condominiali andò a “quelli di Forza Italia”e il restante 30 per cento fu riconosciuto “a quelli di An”. E ora il presidente della Camera dice: “Così com’è il Pdl non mi piace”. Ben arrivato tra noi presidente, verrebbe da dire.
Eppure, dopo la scena madre di piazza San Babila ci fu chi sollevò la sensata obiezione che così non si fonda un partito, ma solo una compagnia pubblicitaria. Pier Ferdinando Casini, con i moderati e con liberal semplicemente si rifiutarono di affogare nell’indistinzione della mistica leaderistica del Cavaliare quindici anni di storia politica e nazionale che altro non chiedeva di veder nascere un grande partito nazionale sulla base delle idee e dei valori del popolarismo e del liberalismo. Il vero dilettantismo non è quello che ha travolto la storiella goffa e maldestra di Renata Polverini, ma il Pdl stesso che sulla base di furbizie e di calcoli stupidi ha addirittura negato la stessa tradizione del sano realismo italiano e buttato a mare il riassunto politico e spirituale di quindici anni di storia confusa e incerta - come tutta la storia di sempre - ma che pur ebbe l’ambizione di mettere a tema la democrazia dell’alternanza allargando i confini della Costituzione repubblicana e creando quel centrodestra senza il quale l’Italia repubblicana è costretta a continuare in eterno il giro dell’area di centrosinistra. Ecco, signori, questo è il vero dilettantismo che ci fa dire, ripetendo le parole di un uomo di un uomo di destra senza destra come Indro Montanelli, l’Italia non può che essere governata dal centro.
Lazio». E se è impensabile bisognerà fare qualcosa per evitare che l’impensabile accada. Intanto, mentre Fabrizio Cicchitto parla di decisioni che «mettono a rischio la democrazia», per oggi si attende la decisione sul listino regionale della Polverini, che dovrebbe comunque essere riammesso - il chiacchiericcio livoroso tra i contendenti non finisce mai.
Esempio: «Non vorrei fare la parte dell’eversivo ma lo dico chiaro e tondo: attendiamo fiduciosi i verdetti sulle nostre liste, ma non accetteremo mai una sentenza che impedisca a centinaia di migliaia di nostri elettori di votarci alle regionali. Se ci impediscono di correre siamo pronti a tutto» La Russa, si sa, è parlatore immaginifico nonché uomo sentimentalmente vicino a certo reducismo combattentista, quindi non bisogna esagerare, ma quel «siamo pronti a tutto» detto ad un giornale da un ministro della Difesa in carica è un po’ inquietante. E se Pierferdinando Casini si augura che «la situazione si risolva così da consentire la competizione con i candidati più forti, compreso Formigoni che ha governato in quersti anni», Marco Pannella, non immune dal virus dell’esagerazione che ha colpito l’ex colonnello di An, ha voluto ricordare «non al paleo-fascista La Russa, ma a me stesso e ai cittadini italiani, che il capo delle forze armate in Italia è il presidente della Repubblica». Sprezzante Pierluigi Bersani: «Se presi sul serio, questi vaneggiamenti mi preoccuperebbero», comunque il ministro potrebbe tenere a mente «che in giro per l’Italia un sacco di altre liste sono state escluse, non solo le loro, e tutti hanno accettato le regole. Lo facciano anche loro e non sollevino polveroni». La Russa, alla fine, ha tentato di minimizzare con buona dose di sarcasmo, ma una certa sensazione di sconvenienza rimane: «Questa gente non ce l’ha fatta con le scorciatoie giudiziarie e gossippare e quindi non gli resta che vincere correndo da soli». Scambio decisamente superfluo per i destini del Paese, ma indicativo del livello di isteria che si respira all’interno del partito di maggioranza relativa alle prese con liste escluse, firme che mancano, im-
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Fabio Granata, a sinistra e il presidente della Camera, Gianfranco Fini, a destra. Nella pagina a fianco: Renata Polverini (a sinistra); Roberto Formigoni (a destra)
Ma esplode anche una Granata Intervista del deputato finiano: «Sulla giustizia possiamo far cadere il governo» di Riccardo Paradisi on siamo ancora al divorzio, alla scissione politica per essere più precisi, ma insomma ormai nel Pdl si vive da separati in casa. Mentre a Roma infuriano le polemiche per l’esclusione dei candidati del Pdl dalle regionali Gianfranco Fini si concedeva ieri un affondo sul premier. Per carità – diceva Fini – avendo contribuito a fondarlo il partito unitario, lui ci è anche affezionato e però non è un segreto per nessuno che così com’è il Pdl proprio non gli piace: «Mi sono assunto la responsabilità di consegnare al giudizio della storia 50 anni di vita nazionale, dall’Msi ad An, perché credevamo nel bipolarismo, nell’alternanza e nell’europeismo. Ma se mi chiedete se mi piace così come è adesso, la risposta credo, l’abbiano capita tutti, non c’è bisogno di ripeterla».
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A leggere invece l’intervista rilasciata da Fabio Granata a Andrea Camilleri per la rivista Micromega diretta da Paolo Flores d’Arcais e prossimamente in uscita si impara che i motivi per cui s’è sciolta Alleanza nazionale ed è nato il Pdl sono molto diversi da quelli che racconta il presidente della Camera. Sentiamo Granata: «Quando con Fini abbiamo deciso di affrontare anche l’ultima fase, quella della confluenza di An nel Pdl, abbiamo ragionato a partire da una considerazione fondamentale: non avevamo più una classe politica adeguata a reggere la sfida, in termini di identità e prospettiva, che ci eravamo posti con la nascita di An. In altre parole: i berlusconiani erano già dentro casa nostra; noi abbiamo sciolto An perché An era già berlusconizzata al cento per cento. Abbiamo dunque sciolto un equivoco». An non era dunque alla canna del gas perché gli mancassero i voti –“avevamo presentabili candidati da chissà chi durante la notte, rivincite e vendette che già cominciano a prepararsi nell’ombra. Per non fare che un altro esempio è bastato che il Messaggero scrivesse di «un forte nervosismo» del partitone contro Cicchitto («che nel Pdl romano ha più di qualche influenza», tanto da essere riuscito a candidare il suo por-
percentuali a due cifre”dice orgoglioso il presidente della Camera – ma perché era ormai un partito che non aveva più una sua specifica ragion d’essere, era già stato assorbito e metabolizzato da Berlusconi che aveva conquistato cuore e cervello della sua classe dirigente e del suo elettorato. Ma l’intervista che Granata rilascia al padre del commissario Montalbano riserva altri imperdibili e clamorosi passaggi, molto istruttivi riguardo lo stato dell’arte dei rapporti interni al Pdl. Ad esempio, all’obiezione di Camilleri che «Alfano sta cercando di ridurre i magistrati all’impotenza. Si sta addirittura tentando di togliere loro la possibilità di dirigere le indagini», l’onorevole Granata risponde con una vera e propria minaccia alla maggioranza: «Questa cosa non passerà mai, anche se dovessero porre la fiducia. Lo dico esplicitamente: se qualcuno proporrà che a dirigere le indagini non siano più i Pm ma la polizia noi voteremo contro. Anche se sulla legge sarà posta la questione di fiducia. Fino al punto di far cadere il governo». Parole come bombe. «Oggi voi siete in un partito che ha due teste – si fa di nuovo sotto Camilleri – una delle quali però sembra poter fare il bello e il cattivo tempo a dispetto di tutto e di tutti (ovviamente mi riferisco a Silvio Berlusconi). E allora le chiedo, onorevole Granata: quali sono i vostri spazi di manovra? Non rischiate di essere – per quanto del tutto in buona fede – la classica ”foglia di fico”? Risponde Granata: «Qualcuno ha usato l’espressione “patriottismo costituzionale” per descrivere il comune riconoscimento di una cornice «pre-politica»
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entro la quale tutti sono tenuti a muoversi. È un’espressione che trovo convincente e condivisibile ed è questo il motivo per cui molto spesso ci siamo trovati a difendere le posizioni del presidente della Repubblica, che ha giustamente fatto della Costituzione la sua principale bussola di orientamento. La politica non può che partire da qui, dal patto fondante della nostra Repubblica. Sono molti provvedimenti berlusconiani che siamo riusciti a bloccare in parlamento. E poi su Cosentino io ho votato a favore della richiesta di arresto di Cosentino. Se si considera che Fabio Granata non s’è mai mosso in questi mesi senza consultarsi con Fini e tenerlo costantemente aggiornato si deduce che insomma la corda è al limite del tiraggio dentro il Pdl. Anche se Granata con una nota d’agenzia dice che lui resta leale al governo. E i finiani, d’altra parte, fino a questo punto non s’erano mai spinti, nemmeno quando minacciavano riesumazioni dell’imbalsamata Alleanza nazionale dopo gli strappi berlusconiani sulla giustizia e il processo breve. Anche se Fini, in privato, s’era sfogato coi suoi che era stato un errore sciogliere il partito. Il pasticcio del Lazio del resto è solo l’ultimo atto di un continuo braccio di ferro che va avanti ormai da più di un anno, cominciato per le quote di rappresentanza nel parlamentino interno e proseguito in crescendo con le tensioni su giustizia, democrazia interna, Fare futuro, esplodendo da ultimo con la provocazione dell’ingresso di Daniela Santanchè nella compagine di governo. Era universalmente noto che la Santanchè aveva avuto dei dissapori
Alleanza Nazionale? L’abbiamo sciolta perché i berlusconiani erano già dentro casa nostra
tavoce) che quest’ultimo stendesse un lungo comunicato stampa in cui, oltre a insolentire il giornalista, parlava senza mezzi termini – e senza mezza prova – di «accanimento della magistratura contro il Pdl», senza contare l’episodio “Milione”, nel racconto del capogruppo PdL alla Camera «un fatto gravissimo», «un’autentica lesione ai principi elementari della democra-
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zia». In realtà, in camera caritatis, nel Popolo della Libertà tutto si dice del “sabato orribile” di Roma tranne che si sia trattato di un’operazione di squadrismo dei Radicali avallata da carabinieri e toghe: cambiamenti di lista all’ultimo secondo voluti dal sindaco Alemanno e/o dal premier Berlusconi (con immancabile corredo: voleva mettere dentro due ragazze alla
con il presidente della Camera e che la sua nomina a sottosegretario non gli avrebbe fatto piacere.Berlusconi è andato avanti lo stesso, incurante ed ha premiato colei che considera una sua “fedelissima”. Come è universalmente noto che in ambiti berlusconiani si stia festeggiando per le evidenti difficoltà in cui versa Renata Polverini, candidata ritenuta finiana. L’incidente che ne sta mettendo a rischio la campagna elettorale è l’ultimo atto che può diventare l’innesco tecnico d’un esplosione per ora sotterranea che dopo le elezioni regionali potrebbe scatenarsi in superficie.
Come? Magari da parte di Fini tessendo con più energia e con meno pudori l’ordito che s’è cominciato a filare da lunghi mesi tra Fini appunto, Massimo D’Alema e Giulio Tremonti, magari con la benedizione di Montezemolo, pattuglia favorevole a un’ipotesi di larghe intese che l’ex colonnello finiano Altero Matteoli, la settimana scorsa, ha fatto accomodare insieme in occasione del lancio della sua neonata fondazione. Certo dovrebbe mutare il panorama politico generale ma l’allontanarsi di Fini dal Pdl è una prospettiva che ad Arcore potrebbe essere considerata addirittura come un evento liberatorio. Berlusconi è stanco di mediare, ricomporre, assistere impotente all’impazzito sottogoverno dei cacicchi locali e al perpetuo ordire delle sue più prossime cerchie. Lo ha già promesso: darà un colpo di reni sul partito dopo le elezioni e intanto rimette in moto i club della libertà della sua fida amazzone Maria Vittoria Brambilla. Sono stati i due cofondatori del Pdl Berlusconi e Fini. Ora entrambi sembrano avere una voglia matta di diventarne i coaffondatori. chetichella), ripicche locali con candidati da inserire o togliere.
Quanto alla lista civica di Renata Polverini alla fine la leggenda metropolitana della sua esclusione dalle elezioni ha trovato fine, non prima però che la portavoce della lista Mariella Zezza minacciasse di querelare chiunque lo avesse scritto ancora.
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La crisi del centrodestra. Forza Italia era solo il seguito di un capo. Una specie di corte allargata. Il Pdl è la stessa cosa, più Fini
Il Cavaliere smascherato
Con l’editoriale di Galli della Loggia, sono sempre di più le voci che convergono sull’analisi dell’Udc: Berlusconi i partiti non li sa fare di Rocco Buttiglione segue dalla prima L’analisi di Della Loggia incontra il senso comune: Berlusconi è un uomo straordinario ed è riuscito a convogliare dentro di sé il consenso del paese; i partiti però non li sa fare. Ci ha provato una volta con Forza Italia e gli è andata male. Ci ha provato una seconda volta con il Popolo della Libertà, e gli è andata peggio.Terrorizzati da alcuni annunci della sua intenzione di fondare un terzo partito lo imploriamo: non ci provi. Purtroppo per governare una democrazia ci vuole un partito e senza partito non si governa. Finché Berlusconi è in campo può anche riuscire a governare, quando dovesse ritirarsi a godere il meritato riposo il castello di carta crollerà. Forza Italia non era un partito, era il seguito di un capo, una specie di corte allargata.
Il Popolo della Libertà è la stessa cosa più Gianfranco Fini. Fini deve avere studiato le tattiche dei dissidenti dell’est. Quelli di Charta 77 facevano finta di vivere in uno stato democratico e pretendevano di esercitare i diritti che le costituzioni dei loro paesi teoricamente garantivano a tutti i cittadini. I governanti comunisti li cacciavano in galera e li riempivano di botte. Più li riempivano di botte più sbugiardavano davanti al mondo la pretesa di essere dei paesi democratici. Alla fine avevano perso completamente il controllo dei loro nervi e, insieme con essi, ogni residua credibilità. Galli Della Loggia si domanda come mai in quindici anni Berlusconi, e con lui la destra italiana, non sono riusciti a mettere insieme un partito? La risposta merita una riflessione attenta. Per fare un partito ci vuole una visione, prima culturale e poi politica. Occorre una idea di bene comune ed anche una interpretazione delle grandi direzioni di movimento della storia contemporanea. Di tutto questo, in quell’area, non c’è nul-
la. Chi come per esempio Marcello Pera ha provato a pensare culturalmente la destra italiana è stato rapidamente emarginato. In realtà dice Galli Della Loggia le grandi tradizioni culturali del paese sono state tutte spazzate via dal crollo del muro di Berlino, tranne il fascismo che era morto molto prima. Il risultato è il vuoto che avvolge la politica italiana, quella di destra e anche quella di sinistra. Il giudizio è amaro ma sostanzialmente condivisibile. Lo si potrebbe approfondire guardando oltre la sfera della politica.
In democrazia si fa politica per rappresentare un popolo. Che fare quando il popolo non c’è? Cicerone ci ammonisce che non una qualunque massa di gente fa un popolo. Per costituire un popolo ci vuole l’accettazione di un sistema di regole comuni e la percezione di un bene comune per il quale sia disponibile a sacrificare l’interesse egoistico individuale. Per un caso nello stesso giorno in cui il Corriere pubblica l’editoriale di Galli Della Loggia c’è su un altro grande giornale, La Stampa, una intervista di impressionante lucidità di Giuseppe De Rita. De Rita ci dice che la politica è in crisi per tutte le ragioni dette da Galli della Loggia ma ancora di più perché non c’è un popolo, perché il popolo si è dissolto. I processi culturali degli ultimi venti o trenta anni giustificati prontamente dalla intellettualità di sinistra ed esemplificati dalle televisioni di Berlusconi hanno esaltato l’utile, l’interesse ed anche il capriccio individuale al di sopra del bene comune, hanno abbattuto il rispetto per ogni autorità, hanno tolto forza a parole come coscienza, fedeltà, virtù, autorità. Il risultato è che non c’è più un consenso sulle regole e non c’è più una visione di bene comune. Il politico allora, per aggregare il consenso, non può far altro che comprare il consenso promettendo di proteggere gli interessi che a lui si affidano nel bene e nel male, in ogni modo anche contro la giustizia e la verità. Di che dovrebbe preoccuparsi, infatti, se i dotti del suo tempo spiegano continuamente che verità e giustizia sono parole vane? E il popolo lo giudicherà sui favori che avrà saputo fare agli amici e sullo spirito con cui saprà fare battute da cabaret in televisione per competere in simpatia con i componenti del
Finché il Cavaliere rimarrà in campo potrà anche riuscire a governare, quando dovesse ritirarsi a godere il meritato riposo il castello di carta crollerà improvvisamente
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L’implosione della maggioranza vista dall’ex direttore del “Corriere della Sera”
A destra, Piero Ostellino. Nella pagina a fianco, in alto, un’immagine scattata nel giorno del congresso fondativo del Popolo della libertà, a marzo 2009; in basso, Ernesto Galli della Loggia
Grande Fratello. È irreversibile la crisi del paese? Forse no. Non ci salverà però il tentativo di importare da noi culture politiche estranee alla storia del paese. Certo, alcuni innesti sarebbero utili ma per fare gli innesti bisogna prima recuperare un tronco di cultura politica nazionale. È interessante, e forse significativo il fatto che fra le culture politiche della modernità italiana nessun riferimento venga fatto alla dottrina sociale e cristiana. Né alla economia sociale di mercato. Eppure si tratta dei punti di riferimento fondamentali del Partito Popolare Europeo, cioè della maggiore forza politica del continente. Certo la Democrazia Cristiana qui in Italia subisce una crisi gravissima. Questa crisi, però, non ha come causa l’esaurimento di una cultura politica ma gli errori, le distorsioni, le deformazioni della prassi politica di quegli anni. In altri paesi simili al nostro, infatti, quella cultura politica prosegue e pare anzi essere addirittura rivalutata dalla crisi economica di questi ultimi anni. Noi pensiamo che quella cultura politica possa essere ripresa e continuata e possa dare un contributo anche a ricostruire il popolo restituendogli una nozione di bene comune e quindi la possibilità di fondare un sistema di regole condivise. Se Galli Della Loggia dicesse che quella tradizione politica ha bisogno di essere rivista, magari con qualche robusto inserto di pensiero liberale, potrei anche essere d’accordo con lui. Gli ricorderei però che i valori liberali acquistano in Italia una dimensione popolare e di massa quando sono inseriti su quella tradizione e dialogano con essa. È appena il caso di aggiungere che certo non proponiamo un nuovo confessionalismo politico. Il programma della Cdu tedesca, che esce proprio in questi giorni in una elegante edizione italiana a cura della Fondazione Adenauer richiama non i dogmi e neppure i valori cristiani, ma la visione cristiana della persona umana. Il miglior pensiero liberale italiano (leggi Benedetto Croce) questa visione della persona umana non ha attaccato ma ha sostenuto e difeso. Si tratta di quegli insiemi di valori che laicamente sostengono l’identità nazionale del popolo italiano, il suo sentimento del giusto e dell’ingiusto e fondano una visione del bene comune ed una cultura delle regole che è ancora possibile recuperare.
La migliore cultura laica non ha mai negato quei valori, ha solo cercato di fondarli in modo diverso. L’ebraismo italiano ha dato un suo fondamentale contributo a radicare quei medesimi valori (che sono comunque valori biblici) nella coscienza del popolo. Se vogliamo salvare l’Italia è proprio da lì che è necessario partire contro tutti gli egoismi. Altrimenti si comincia opponendo al bene comune l’interesse egoistico di una regione o di una categoria sociale, si finisce legittimando gli impulsi di ciascuno alla lotta a morte per l’affermazione di se stesso.
«Il premier? Un dilettante Il Pdl? Un deserto politico»
Piero Ostellino: «Non è un partito ma una schiera di cortigiani, e ora il monarca è prigioniero della macchina che ha creato» di Errico Novi
ROMA. Dilettanti. A cominciare dal leader. O comunque «pesci di fondo», vecchi cortigiani «che sanno muoversi meglio del monarca e sono pronti ad accoltellarlo alla schiena». Piero Ostellino non indulge al compatimento nel giudicare il Pdl. Né si lascia impressionare dalla narrazione con cui parte del centrodestra prova a rovesciare la farsa delle liste bocciate, una lettura secondo cui i magistrati avrebbero afferrato al volo il formalismo procedurale come estrema occasione per colpire Berlusconi. «Se nel Pdl si sono attaccati a questo sono ridotti proprio male», infierisce l’ex direttore del Corriere della Sera. Eppure è anche su questi binari che procede il dibattito, sulla stampa più vicina al governo come nelle dichiarazioni della maggioranza. Può capitare anche di imbattersi in dotte evocazioni di conflitti tra il formalismo giuridico kelseniano e lo schmittiano predominio della politica sulle regole. Ma appunto Ostellino non si impressiona e anzi vede corroborata la propria convinzione: «Il Pdl non è un partito e d’altra parte la politica non si inventa». Quindi lei dice che la retorica della politica espropriata dai cavilli non farà breccia nell’opinione pubblica. Scherziamo? Davvero si aggrappano a questo? Parliamo di un partito che non è stato nemmeno capace di presentare le firme, i cui delegati sono entrati e usciti dall’ufficio elettorale e hanno consegnato la documentazione in ritardo. Eppure qui ci si aggrappa anche a questo, al conflitto tra la grundnorm kelseniana e le obiezioni schmittiane su Stato e Costituzione che non possono essere ridotti a formalismo… Benissimo, si aggrappassero pure. Ma bisognerebbe tenere presente che, nel caso della legge, la forma è sostanza. E comunque non voglio fermarmi a questo e dico: è vero che c’è una ridondanza, un eccesso di leggi, regolamenti, prescrizioni. Ma tutte queste leggi chi le ha fatte? Si dà la colpa al formalismo giuridico, ma le leggi sono lì certo non per colpa del sottoscritto. In pochi giorni la storia si ripete: il discorso delle procedure che ostacolano la politica è stato tirato fuori anche per le inchieste sulla Protezione civile. Appunto. E non si può ragionare così. Capisco l’auspicio di trovare, nei gradi successivi dei ricorsi, magistrati che sappiano discernere tra i formalismi e il rischio di impedire il voto. Ma non è che ci si può affidare sempre a questo. Se ci sono le regole c’è anche la possibilità di cambiarle. Imparino a fare politica. Andrebbero rivalutati i cosiddetti professionisti della politica messi al bando in questi anni. Se vogliono discutere di professionisti della politica si andassero a leggere Max Weber. Il panorama è avvilente.
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La ragione è semplice: quando ha fatto nascere Forza Italia, Berlusconi, pur di mettere in campo un ceto politico che fosse uno, si è rivolto alla società civile, agli agenti di Pubblitalia, perché non poteva fare altrimenti. L’esito deludente di quell’operazione dimostra che la società civile non è meglio della politica. La quale richiede una conoscenza delle regole, dei comportamenti adeguati alla sua complessità, anche una capacità di arrivare al compromesso. Allora l’implosione del Pdl era inevitabile? Ci sono due questioni. Primo, l’unificazione di Forza Italia e An ha prodotto gli stessi effetti apprezzati nel Pd con la fusione tra post comunisti e post democristiani: c’è la stessa difficoltà a stare insieme. Secondo? Nella pancia del Pdl è emersa una forte componente che è espressione della vecchia Dc, pesci di fondo che sanno come muoversi e che sono diventati i veri padroni del partito, fino a esautorare di fatto il monarca. È un quadro in cui non c’è molto che abbia a che fare con la politica, è un deserto. C’è un fatto lampante: quando Berlusconi insulta ed esprime disprezzo per la sua classe dirigente, quelli, che si sentono i veri padroni, se ne infischiano. Questo dice tutto, e qui viene fuori il dilettantismo di Berlusconi: lui è un dilettante. Poi è una persona di intelligenza straordinaria, di grandi capacità, ma ancora confonde un consiglio dei ministri con un consiglio di amministrazione. E allora non poteva che finire così. Viene fuori che il Pdl non è un partito, ma una schiera di oligarchi e cortigiani, i quali appena si accorgono che il monarca è in affanno lo accoltellano alla schiena. Berlusconi è fiaccato, immobilizzato, prigioniero della stessa macchina che ha messo in piedi. L’aspetto davvero incredibile è che il Pdl implode perché i cortigiani sono più forti del monarca. È un finale in fondo imprevedibile, ammesso che il finale sia questo. Vede, non ci si inventa politici. La politica è una cosa complessa. Non basta passare tra due ali di folla plaudente che ti dice bravo, sei alto un metro e novanta e hai un sacco di capelli biondi… È difficile immaginare che non arrivi un altro sussulto di vitalità, da Berlusconi. A me Berlusconi non è mai stato né simpatico né antipatico. D’altra parte sono trent’anni che non vado a votare: questo è un Paese a metà tra il corporativismo vetero-fascista e il collettivismo tardo-comunista, e un liberale come il sottoscritto non ha rappresentanza. E se da questa implosione nascesse, per palingenesi, una nuova politica? Speriamo. Però prima dobbiamo affondare, e sperimentare gli effetti economici di questa vicenda, che non saranno affatto trascurabili.
Non possono invocare la dittatura del formalismo, imparassero a fare politica. La fusione tra FI e An è fallita come quella del Pd
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diario
pagina 6 • 4 marzo 2010
Ricadute. Dubbi sulla sua residenza all’estero e Gasparri avverte: «Aspettiamo la decisione della giunta delle elezioni»
Senato, scoppia il caso Fantetti Anche il sostituto di Di Girolamo potrebbe non avere i requisiti
ROMA. Chiusi i conti con Nicola Di Girolamo, adesso il Senato dovrà affrontare la questione dell’eleggibilità del primo dei non eletti della circoscrizione Europa. Quel Raffaele Fantetti, dallo specchiato curriculum che, come il suo predecessore, ha soltanto una piccola macchia: risiede a Roma e non all’estero dove è stato eletto. Il problema è stato sollevato durante la discussione che ha preceduto il voto sulle dimissioni presentate da Di Girolamo dal presidente dei senatori dell’Udc, Gianpiero Dalia: «Ci risulta che Fantetti sia un dipendente di un ministero: può avere la residenza all’estero?». Pronta la replica del presidente Schifani: «Valuteremo i titoli del subentrante, non appena la giunta per le elezioni se ne sarà occupata». Ieri, intanto, nella seduta pomeridiana Fantetti è stato dichiarato eletto e, come ha annunciato il capogruppo del Pd, Francesco Sanna, la giunta «ha trovato una soluzione che consentirà di avere entro venti giorni una risposta sull’eleggibilità o meno». Ma questa volta il Pdl vuole andarci con i piedi di piombo al punto che Maurizio Gasparri ha fatto notare: «L’adesione al gruppo avverrà soltanto o dopo un pronunciamento chiaro della giunta. Avremo massima attenzione e cautela». Sulla residenza all’estero di alcuni candidati si è focalizzata l’attenzione di molti. Infatti, durante il dibattito di ieri, Francesco Rutelli ha
L’accettazione favorevole
Inchiesta G8, il Csm accetta le dimissioni di Toro
Balducci respinge tutte le accuse que, lsegnando questa legislatura. Prima della discussione e del voto lui è apparso per l’ultima volta a Palazzo Madama, leggendo alla platea la lettera di dimissioni, presentata già lunedì al presidente Renato Schifani. Di Girolamo ha ribadito che la sua «non è una storia criminale. Non ho portato in quest’aula
Ieri è stato proclamato, ma la verifica del possesso dei requisiti per assumere l’incarico di parlamentare avverrà entro venti giorni chiesto di sapere se Stefano Andrini, candidato in America Latina, ma non eletto sia «omonimo del responsabile di una delle più importanti aziende della nettezza urbana del comune di Roma». E il leader dell’Api ha posto anche una serie di interrogativi: «Chi ha messo i candidati nelle liste? Come è stato possibile che alcuni che palesemente non risiedono stabilmente all’estero siano stati candidati? Che cosa è accaduto? Quali gruppi sono intervenuti nella formazione delle liste? Chi sono queste persone?». La vicenda di Nicola Di Girolamo sta, comun-
Al termine del suo intervento i senatori del Pdl hanno applaudito il loro collega dimissionario. Un gesto che è stato criticato aspramente dall’opposizione. Poi il Senato con 259 sì, 16 no e 12 astenuti, ha accolto, a voto segreto, le dimissioni presentate dal parlamentare del Pdl, per il quale la Procura di Roma aveva spiccato una richiesta di custodia cautelare nell’ambito dell’inchiesta relativa a riciclaggio di denaro e che ha portato alla luce come Di Girolamo fosse stato eletto nel 2008 nella circoscrizione estero con molti voti procurati dalla criminalità organizzata in Germania.
di Franco Insardà
l’indegnità della mafia e della ’ndrangheta. Ho ceduto signor presidente, ma le mie colpe verranno circoscritte dalla verità». Poi, definendosi“Lucifero”e“untore”, ha aggiunto che «quella sera ho fatto circa 250 fotografie davanti a quella torta anche con il parroco, il sindaco e il maresciallo dei carabinieri. Quello che si asserisce essere un mafioso, mi fu presentato come il proprietario di una catena di ristoranti all’estero». Dopo qualche ora è, però, arrivata la smentita categorica proprio del parroco di Isola Capo Rizzuto don Edoardo Scordio.
ROMA. Angelo Balducci ha respinto tutte le accuse, mentre Diego Anemone si è avvalso della facoltà di non rispondere. Questa in sintesi la mattinata di interrogatori, presso il carcere romano di Regina Coeli, dell’ex presidente del consiglio nazionale dei Lavori pubblici, dell’imprenditore e del dirigente del ministero dei Lavori pubblici Mauro Della Giovampaola, arrestati il 10 febbraio scorso nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti per il G8. I tre sono stati ascoltati dal gip di Perugia Paolo Micheli per un nuovo interrogatorio di garanzia, legato al rinnovo della misura della custodia cautelare in carcere. Come ha spiegato il suo avvocato Franco Coppi «Balducci ha risposto in modo convincente ed esaustivo. Ha respinto le accuse in un interrogatorio lungo e analitico». Diego Anemone, invece, ha fatto sapere il suo avvocato, Gianluca Riitano, si è avvalso della facoltà di non rispondere, come aveva già fatto nel corso dell’altro interrogatorio di garanzia di fronte al gip fiorentino Rosa-
rio Lupo. Il legale ha spiegato la strategia difensiva: «Aspettiamo che le indagini vadano avanti e chiariremo tutta la vicenda». L’avvocato Antonio Albano, difensore di Mauro Della Giovampaola, ha evidenziato il ruolo del suo assistito: «era un coordinatore tecnico. Non aveva alcuna responsabilità né di approvazione, né economica». Tra i nomi coinvolti anche quello dell’ex direttore del Sismi, Niccolò Pollari, che avrebbe avuto un contatto con Angelo Balducci. «Sono notizie false - ha dichiarato Pollari. Evidentemente una non corretta lettura di elementi desumibili da intercettazioni telefoniche ha indotto taluno ad una ricostruzione di fatti e persone fuori dalla realtà». Sempre ieri il plenum del Csm ha deliberato all’unanimità «il collocamento a riposo per anzianità di servizio» a partire dal 17 febbraio del Procuratore aggiunto di Roma Achille Toro, che aveva presentato le sue dimissioni dall’ordine giudiziario dopo il coinvolgimento nell’inchiesta sugli appalti per il G8 alla Maddalena.
del voto sulle dimissioni ha precluso le altre mozioni presentate da tutti i partiti di opposizione, che riguardavano la richiesta di decadenza di Di Girolamo e l’annullamento dell’ordine del giorno De Gregorio che, già nel 2009, aveva sospeso la delibera della giunta delle elezioni. Su questo argomento proprio il presidente della giunta delle elezioni del Senato, Marco Follini, ha voluto precisare che «La maggioranza decide di assolvere se stessa archiviando il caso Di Girolamo», e ha anche sottolineato come sarebbe stato necessario «dare priorità alla decadenza». Follini non ha perso occasione per polemizzare con il presidente del Senato Schifani “reo” di essersi «gloriato un po’ impropriamente di aver impresso un’accelerazione a una vicenda che invece si è rivelata come il gioco delle tre carte e come tale si rivela». Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Pd, ha ribadito l’accusa di«conduzione vile del Senato sulla revoca dell’ordine del giorno De Gregorio, che avevamo posto con forza fin dalla capigruppo e di cui avevamo investito per il suo ruolo il presidente Schifani. Ma lui ha ritenuto di nascondersi, di ignorare una richiesta di primissimo rilievo che riguarda la sovranità del Parlamento e cioè la valutazione dei titoli di ammissione alla propria Camera di appartenenza». Intanto la vicenda dell’ex senatore Nicola Di Girolamo si tinge ancora di giallo, secondo quanto ha dichiarato ieri in una intervista telefonica a Gr Parlamento: «C’è un problema tecnico tra il Senato e la Procura della Repubblica che non dipende da me». Per cui ha concluso «non so dove mi consegnero, nè quando».
diario
4 marzo 2010 • pagina 7
Indagini su un ex-cliente del penalista sicialiano
Arrestati anche due presunti agenti segreti di Teheran
Un indagato a Palermio per l’omicidio di Fragalà
Italia-Iran, scoperto un traffico di armi
ROMA. C’è un indagato per l’o-
MILANO. Nove persone, fra cittadini italiani e stranieri, sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata all’illecita esportazione di armi e sistemi di armamento verso l’Iran, in violazione del vigente embargo internazionale. Secondo quanto riferito dalla Guardia di Finanza Comando Provinciale Milano, tra le persone colpite dalle misure cautelari, ci sono anche due agenti segreti iraniani. Il primo è Nejad Hamid Masoumi, 51 anni, che era accreditato come giornalista presso la sala stampa estera a Roma dove è stato arrestato dalla Guardia di Finanza. L’altro presunto 007 iraniano è stato arrestato a Torino. Si chiama Ali Damirchiloo, di
micidio di Enzo Fragalà: è un ex cliente del noto penalista aggredito il 23 febbraio scorso a colpi di bastone e morto dopo tre giorni di agonia. L’uomo in passato era stato condannato, a suo avviso, «ingiustamente» ed era convinto di non essere stato difeso bene dal legale, che aveva seguito in prima persona il suo caso, su cui vige il silenzio. Si trattava di un processo di microcriminalità, estraneo a reati di mafia. Il giovane, che corrisponderebbe alla descrizione fornita da alcuni dei testimoni sentiti dagli inquirenti, covava rancore nei confronti del legale. Ma sarà solo l’esame del Ris dei suoi vestiti e del casco a stabilire se effettivamente ci sono tracce di sangue o saliva del penalista ridotto in fin di vita a colpi di bastone e poi morto dopo tre giorni di agonia. I Carabinieri stanno anche passando al vaglio l’alibi del giovane fornito per la sera di martedì scorso. Ma l’uomo indagato, per un atto dovuto, per consentirgli di nominare un difensore in attesa di un atto irripetibile che verrà svolto giovedì a Messina, non sarebbe l’unico su cui i Carabinieri indirizzano l’attenzione. «Il killer era certamente un professionista: si capisce da come ha agito. Ora è importante acquisire
La Grecia dà via libera al «maxitaglio» Il governo prepara una manovra da 4,8 miliardi di Alessandro D’Amato
ROMA. Lo sforzo ulteriore è arrivato, ora tocca all’Unione europea. Il governo greco ha approvato un nuovo piano di austerità da 4,8 miliardi di euro, pari al 2% del Pil, per ridurre l’enorme deficit e ottenere l’aiuto dei Paesi dell’Unione europea. Il piano prevede tra l’altro un taglio agli stipendi pubblici del 30%, il congelamento delle pensioni e l’aumento delle imposte sui consumi. Dopo le pressioni esercitate da Bruxelles su Atene, il primo ministro greco, George Papandreou ha annunciato le misure «necessarie per la sopravvivenza del Paese e della sua economia» e la Grecia «ora si aspetta la solidarietà europea». Nei giorni scorsi George Papandreou aveva paragonato la crisi economica ellenica ad «uno stato di guerra».
Nel 2009 il deficit greco ha raggiunto i 30 miliardi di euro, il 12,7% del Pil, e Atene ha promesso di riportarlo all’8,7% entro quest’anno e al di sotto del 3% nel 2012, così come previsto dal patto di stabilità Ue.Tra le misure contenute nel piano di austerità ci sono un aumento delle imposte su carburante, tabacco e alcol, una nuova tassa sui beni di lusso, un aumento dell’età pensionabile dai 65 ai 67 anni, e un taglio dei giorni di vacanza per i funzionari pubblici del 35%. In occasione del Consiglio europeo straordinario dell’11 febbraio scorso, la Commissione europea e gli Stati membri hanno posto Atene sotto stretta osservazione, per verificare il rispetto delle regole e la diminuzione del deficit. Il governo ha tempo fino al 16 marzo per convincere i partner Ue della validità delle misure di austerità per la risoluzione dei problemi economici del Paese. E in Europa ci si comincia a muovere. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha tenuto l’altra sera un incontro in cancelleria con alcuni rappresentanti del governo per discutere della crisi greca, secondo il tabloid Bild. Al colloquio, riporta il giornale, hanno partecipato i ministri dell’Economia, Rainer Bruederle, degli Esteri, Guido Westerwelle, e il vice ministro
delle Finanze, Joerg Asmussen. Mentre Manuel Barroso, presidente della Commissione Ue, ha dichiarato che l’Ue «sta pensando alle misure da varare». Seguito a stretto giro di posta dal presidente dell’eurogruppo Jean-Claude Juncker: «I membri dell’eurozona sono pronti ad intraprendere un’azione determinata e coordinata se necessaria per salvaguardare la stabilità finanziaria nell’eurozona nel suo complesso». In ogni caso, la polemica sugli strumenti finanziari non si placa. Il neo commissario al mercato interno e ai servizi finanziari, Michel Barnier, in un’intervista al Financial Times ha annunciato l’intenzione di aprire un’inchiesta sull’uso dei credit default swaps (Cds) da parte della Grecia per mascherare il proprio debito pubblico: «Voglio sapere chi ha fatto cosa, voglio capire», ha detto al FT. Il Wall Street Journal, in un articolo dal titolo “Il peccato originale dell’Europa”, ha invece gettato la croce sui governi del Vecchio Continente: «Gli europei accusano le transazioni messe a punto a Wall Street che, a loro avviso, hanno spinto la Grecia sull’orlo del collasso. Ma uno sguardo attento ai bilanci di Atene degli ultimi 10 anni mostra non solo che la Grecia è il principale responsabile del suo problema con il debito, ma anche che i governi degli altri paesi europei hanno ripetutamente chiuso un occhio sul beffarsi delle regole della Grecia».
Barroso applaude: «Atene imbocca la strada giusta. I risparmi su spese e salari sono fondamentali e necessari»
subito tutte le prove perché, altrimenti, c’è il rischio col passare del tempo che vengano disperse» ha detto il figlio di Enzo Fragalà, Massimiliano.
Intanto Enzo Fragalà è stato ricordato con un lungo applauso unanime dell’Aula della Camera ed un minuto di silenzio. Il presidente Gianfranco Fini ne ha ricordato la «barbara e vile aggressione che ha riempito tutti di sdegno», aggiungendo che Fragalà «portò in Parlamento una passione civile da tutti riconosciuta e la convinta adesione ai principi della Costituzione, spendendo il suo impegno per il rispetto pieno ed incondizionato della legalità contro ogni mafia».
Intanto ad Atene la situazione non è tranquilla. In risposta al piano del governo greco, centinaia di pensionati hanno manifestato davanti alla residenza ufficiale del primo ministro, urlando slogan come “tu dai i soldi ai ricchi e a noi nulla”, e i sindacati del settore pubblico hanno annunciato uno sciopero di 24 ore per il 16 marzo e uno di quattro ore per l’8 marzo.Venerdì Papandreou incontrerà la cancelliera tedesca Angela Merkel a Berlino e domenica il presidente francese Nicolas Sarkozy a Parigi, per chiedere ulteriori aiuti finanziari per l’economia greca. Mentre il 9 è atteso alla Casa Bianca da Barack Obama.
55 anni. Sono latitanti un altro iraniano, Hamir Reza, e Bakhtiyari Homayoun, di 47 anni. In manette anche Alessandro Bon, 43 anni, originario di Vittorio Veneto, residente e Monza e ritenuto dagli investigatori il promotore dell’organizzazione tramite una società, la Antares di Varese. Arrestati anche la sua compagna, Danila Maffei, 40 anni, un socio di Bon, Arnaldo La Scala, 45 anni, e un avvocato di Torino, Raffaele Rossi Patriarca, che secondo l’inchiesta si era recato in Iran a contattare ufficiali dell’esercito per la compravendita degli armamenti. Un altro arrestato è Guglielmo Savi, 56 anni, titolare di una società di telecomunicazioni, la Sirio srl.
L’indagine è nata con il fermo e il sequestro in Romania di 200 puntatori, utilizzati dai tiratori scelti. I puntatori bloccati alla dogana romena provenivano da una società italiana. Secondo quanto si è appreso dalle indagini, tutta la merce esportata veniva comunque prodotta all’estero e triangolata con l’Italia e altre nazioni per nascondere la vera destinazione finale, cioè l’Iran. L’associazione operava in molte aree geografiche straniere oltre che in Italia: Londra, in Romania appunto, e anche in Svizzera.
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pagina 8 • 4 marzo 2010
Inchiesta. L’apertura dell’Europa alla possibilità di coltivare cibi geneticamente modificati ha un risvolto tutto italiano
La patata bollente
La scelta sugli ogm frena la rincorsa della Lega al consenso della Chiesa. Il Vaticano pensa alla fame nel mondo, il Carroccio punta al protezionismo di Gabriella Mecucci
ROMA. La super patata, la cui coltivazione è stata autorizzata dalla Commissione europea, divide gli italiani. C’è chi, come il Vaticano, apre, sebbene con cautela, agli ogm (organismi geneticamente modificati), e chi, come il ministro dell’Agricoltura Zaia non ne vuol proprio sapere di coltivarli in Italia. A nome della Chiesa cattolica si è espresso il cancelliere della Pontificia accademia delle scienze, Marcelo Sanchez Sorondo. L’alto prelato ha difeso la trasformazione transgenica in agricoltura purchè contribuisca ad alleviare la fame nel mondo. A questa posizione prudentemente aperturista corrisponde la dura critica che parte dagli ecologisti, da alcuni settori della sinistra e dal ministro dell’Agricoltura, Luca Zaia. Quest’ultimo fa tutt’uno con le organizzazioni degli agricoltori (Coldiretti e Confagricoltura). Sono invece più disponibili alla novità alcuni esponenti dell’industria, in particolare della chimica e della farmaceutica, e una parte importante della comunità scientifica. Le differenti posizioni sono molto radicate e ben motivate. Quella dei cattolici fa capo all’idea che l’essere al centro della creazione è l’uomo. Dunque in suo nome, per sconfiggere la morte e la fame in tanti paesi sottosviluppati, si può accettare anche la manipolazione genetica. All’interno della Chiesa ci sono però anche posizioni critiche verso questa impostazione, soprattutto perchè le grandi multinazionali che producono ogm succhiano il sangue di popoli ridotti alla più terribile mi-
Forti di un clima di timori, talora legittimi tal’altra esagerati, il ministro Zaia ha detto che non consentirà la coltivazione in Italia della superpatata nè delle tre tipologie di mais modificate, a costo di arrivare ad un referendum. Le organizzazioni degli agricoltori lo sollecitano a tener duro e sostengono che se il nostro paese deciderà per il no, non c’è Commissione europea infatti che ci possa obbligare a piantare gli ogm. Insomma, la decisione di Bruxelles non è stata accolta bene in Italia. Ma su questi argomenti – come ormai su tutte le questioni ambientali – esistono due partiti. Gli “aperturisti” italiani sono forti e motivano ta, le produzioni nostrane. Interessi legittimi, naturalmente. Ma la discussione sul transgenico è andata molto aldilà. Tocca ormai da tempo anche l’argomento della sua presunta pericolosità. E su questo il confronto è stato ed è surriscaldato. Tanto è vero che la decisione della Commissione europea di autorizzare la superpatata e tre
La posizione dei cattolici è chiara: al centro della creazione c’è l’uomo. Dunque in suo nome, per sconfiggere la morte nei paesi sottosviluppati, si può accettare anche la manipolazione genetica seria. Questi infatti – se passa la linea transgenica – si devono rivolgere per avere le sementi forzosamente ad alcuni, pochissimi mega gruppi americani ed europei, pagando cifre altissime. A differenza della Chiesa, invece, il ministro Zaia (anche il sindaco di Roma Alemanno la pensa allo stesso modo) e le associazioni degli agricoltori si schierano contro gli ogm per difendere, almeno in prima battu-
negli Usa. Questo significa che le sementi modificate sono monopolio delle grandi multinazionali che le hanno fatte, come la tanto chiacchierata Monsanto (gruppo Usa), e finiscono per soppiantare le coltivazioni tradizionali. Nel caso della superpatata Anflora essa verrà prodotta da una multinazionale tedesca. Infine, c’è da tenere conto dell’impatto sull’ambiente che – secondo alcuni ecologisti – potrebbe essere devastante: portare anche alla scomparsa totale di certe varietà vegetali.
varianti di mais geneticamente modificate, è venuta dopo 12 anni di moratoria, voluta, a partire dal 1998, dall’identico organismo di Bruxelles.
Adesso però si è scelto di rimuovere tutti gli ostacoli. Perchè? La superpatata per Bruxelles non è assolutamente dannosa. Ma qui le opinioni sono diverse. Il pericolo viaggerebbe nel “gene marker”,il mar-
catore che verifica l’avvenuto inserimento della variazione genetica e che nel caso di Anflora (così si chiama la superpatata), resiste ad una coppia di antibiotici, kamacina e neomicina, generalmente giudicati importanti per l’uomo. L’immissione, dunque, nell’ambiente di Anflora – secondo alcuni – potrebbe scatenare una resistenza batterica verso medicinali salvavita, compresi anche farmaci per il trattamento della Tbc. Il via libera di Bruxelles alla superpatata consente inoltre di utilizzarla anche per fare mangimi: quindi per dare da mangiare a maiali e mucche. Alcuni esperti temono che così facendo si rischia di introdurre lo speciale carattere di resistenza agli antibiotici anche nella filiera dell’alimentazione umana. E questo costituisce ovviamente il pericolo più grave. Alcuni scienziati considerano però queste preoccupazioni delle vere e proprie “fobie”. In realtà – fanno notare – Anflora verrà utilizzata solo per produrre colla e carta. Non finirà,
La decisione della Commissione europea di autorizzare la superpatata e tre varianti di mais, è venuta dopo 12 anni di moratoria voluta, nel 1998, dall’identico organismo di Bruxelles almeno per il momento, sulle nostre tavole. E poi la carnamicina è un antibiotico il cui uso è arrivato al capolinea. Se questo è lo scontro sulla super patata, la portata delle divergenze diventa molto più forte se si affronta più in generale l’argomento Ogm. L’aver autorizzato la coltivazione del tubero, infatti, è stato considerato un gesto con un alto valore simbolico. Come se l’Europa, dopo anni di chiusura, avesse voglia di aprire le porte anche a molto altro. In questo caso, se si allargasse il pianere dei transgenici, l’allarme crescerebbe ulteriormente. A quelle per la salute, si aggiungerebbero altre preoccupazioni. La prima è che le varietà commerciali che si ottengono con la manipolazione sono brevettabili, in seguito ad una discutibile decisione presa
scientificamente la loro posizione. Il trasferimento dei geni esiste in natura - dicono – e non deve farci paura. Chi lavora in laboratorio non è un o stregone, non travolge l’opera di Dio e non si pone in conflitto con le leggi naturali. Per la superpatata non c’è rischio, servirà solo all’industria. Quanto ai nostri prodotti tipici, resteranno tali. Da14 anni mais e soia transgenici contribuiscono ad alimentare i nostri animali e non si è mai registrato alcun problema. Il parmigiano e il prosciutto sono quelli di sempre. Bruxelles ha abbattuto un tabù, ma questo non basta a convincere. La discussione sugli ogm non solo prosegue, ma diventa sempre più agguerrita. E i due partiti: quello pro e quello contro affilano le armi dialettiche per le prossime scadenze.
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4 marzo 2010 • pagina 9
Perché sì. Apertura della Santa Sede all’agricoltura transgenica. Parla il vescovo Marcelo Sanchez Sorondo
Chiesa favorevole se combatte la fame di Rossella Fabiani
R OMA «La Santa Sede non è contraria all’utilizzo di sementi ogm in agricoltura purché contribuisca ad alleviare la fame nel mondo e non si trasformi in attività speculativa che colpisce la giustizia sociale». Questa chiara apertura all’agricoltura transgenica, cioè agli organismi geneticamente modificati, è venuta dal Vaticano in queste ore per voce del Cancelliere della Pontificia accademia per le scienze, monsignor Marcelo Sanchez Sorondo, che ha partecipato a un vertice sui problemi dell’economia nella globalizzazione che si sta svolgendo a Cuba alla presenza di più di mille studiosi provenienti da ogni parte del mondo, rappresentanti di Ong e di organismi internazionali. L ’ i n t e r v e n t o d e l p r e s u l e ribadisce la posizione già espressa in merito dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace che ha denunciato però il rischio che le sementi ogm diventino oggetto di una sorta di monopolio da parte delle multinazionali. E dunque la posizione della Santa Sede non lascia spazio ad interpretazioni: si agli ogm, se etici. Secondo il vescovo Sanchez So-
rondo «lo sviluppo di sementi transgeniche per combattere la fame è un fatto positivo e può aiutare a realizzare la giustizia tra i beni e le persone». Un’apertura comunque consapevole della realtà che «a livello economico mondiale non si vogliono cambiare i rapporti di forza, con una parte piccola di mondo che gestisce l’80 per cento delle risorse e l’altra parte grande di popolazione che non ha nulla o quasi». I responsabili del sistema sono gli stessi che ora propongono l’uso degli ogm. «Anche se questi non risolvono il problema, tuttavia possono avere un ruolo positivo per combattere la fame nel mondo». Che è come dire se muoio di fame, mangio anche un biscotto ogm. Ma la responsabilità non è solo dell’Occidente. Diversi Paesi africani stanno svendendo le loro terre. Il Gabon poteva essere la Svizzera moderna mentre è stata ridotta alla fame da una politica scellerata. E intanto l’ex presidente accumulava ricchezze all’estero
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in diamanti, oro, argento, proprietà. Dunque la visione realista della Chiesa tiene conto di come vivono milioni di persone ed è in questo contesto che dice si agli ogm. E’ probabile che le parole di mons. Sorondo aprano di nuovo il dibattito all’interno della stessa Chiesa cattolica su un tema dove si confrontano posizioni diverse. Una bocciatura sia pure con qualche distinguo per gli ogm era infatti arrivata dal recente sinodo per l’Africa che si è svolto nello scorso ottobre in Vaticano. Nell’occasione le chiese del grande continente si erano pronunciate criticamente contro l’invasività nelle agricolture locali degli ogm che cancellano le colture tradizionali e sfruttano per interessi economici le terre dei Paesi più poveri e soprattutto gli agricoltori rendendoli dipendenti dalle grandi multinazionali. Perché, forse non tutti sanno, che le sementi ogm sono sottoposte a brevetto e per ogni stagio-
L’uso non deve trasformarsi in attività speculativa che colpisce la giustizia sociale danneggiandola
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ne di semina devono essere riacquistate e non si possono utilizzare - pena vedersi presentare dopo il conto delle royalties mancate - i semi ricavati dai prodotti ogm.
U n c o n c e t t o , q u e s t ’ u l t i m o , che era stato ripetuto dallo stesso Pontefice in occasione del suo discorso al vertice della Fao sull’alimentazione che si è tenuto a Roma lo scorso novembre. Il sinodo per l’Africa, fra l’altro, chiedeva ulteriori approfondimenti dal punto di vista scientifico circa l’impatto che tali sementi possono avere sull’ecosistemea. Se queste preoccupazioni in parte sono condivise anche in Vaticano, la posizione espressa da monsignor Sanchez Soronodo è certo molto netta ed è in linea con quella fatta propria a suo tempo dal cardinale Renato Martino, presidente di Giustizia e Pace e dal suo ex vice, monsignor Giampaolo Crepaldi, oggi vescovo di Trieste. Solo che ora lo stesso dicastero di Iustitia et Pax è sotto la guida di un africano, il cardinale Peter Turkson. Bisognerà vedere come lo stesso Pontefice recepirà il problema nell’esortazione post-sinodale che deve ancora essere pubblicata.
Perché no. Il biologo Giovanni Monastra spiega come ad oggi non aumentano la produttività. Forse in futuro
A guadagnarci, solo le multinazionali ROMA «Sono davvero poco convinto che gli ogm possano aumentare la produttività. Siamo invece piuttosto davanti a un’enorme operazione di propaganda». Il biologo Giovanni Monastra, per sette anni all’Inran (Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la Nutrizione) come responsabile del progetto ogm in agricoltura prima e direttore generale poi, attualmente dirigente al dipartimento ambiente del Comune di Roma, non usa mezze parole affrontando una tematica che conosce molto bene. «Riguardo agli ogm non sono contrario ideologicamente, non ho una visione scientifica talebana. Sono tuttavia perplesso sulle presunte capacità salvifiche dell’uso degli ogm come propagandate dalle grandi multinazionali.
Le culture transegeniche attualmente in commercio, e per il nostro discorso mi riferisco soprattutto al mais e alla soia, non producono di più - la soia gm produce addirittura meno della soia normale - non hanno bisogno di meno acqua, non richiedono meno concimi chimici». Comunque una realtà drammatica è che la fame è il problema più grave che il mondo si trova ancora ad af-
frontare. «In realtà l’attuale produzione di derrate alimentari non è insufficiente, ma piuttosto è assai mal distribuita. Come ebbe a dire pochi anni fa anche l’ex Segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, l’odierna produzione agricola mondiale, se usata in modo razionale, potrebbe nutrire il doppio della popolazione del pianeta, cioè dodici miliardi di persone. Il principale motivo per cui fame e carenze alimentari continuano ad affligere il mondo è la povertà: milioni di famiglie non possono permettersi di acquistare cibo nutriente o le attrezzature agricole per produrlo». Ci sono dunque molti dubbi di fronte a quella che Monastra non esita a definire «un’operazione di marketing» anche in considerazione del fatto che gli ogm sono sottoposti a brevetti privati e non sono, invece, il frutto di una ricerca nazionale affidata a istituti pubblici. «Sostenere che l’ingegneria genetica sarà in grado di fornire entro breve tempo piante
“
capaci di superare tutte le sfide poste dai cambiamenti climatici e dall’intrinseca capacità produttiva delle piante stesse è per lo meno mistificatorio. Inoltre sarebbe solo una delle risposte necessarie e comunque raggiungibile anche attraverso altre strade libere dal cappio al collo del brevetto che tutela gli organismi transgenici prodotti dalle multinazionali biotech e che si traduce in prezzi più elevati per le sementi: profitti a cui i produttori non intendono rinunciare nemmeno nei confronti del Terzo mondo. È evidente che accettando questa regola il mercato mondiale dei prodotti agricoli diventerebbe di tipo oligopolistico con conseguenze negative sulla libertà di molti popoli e sull’autonomia degli stessi contadini». Priama di pensare a un cibo diverso, allora, bisognerebbe occuparsi di educazione, di politiche di assistenza allo sviluppo, del problema delle guerre, consierato anche che gli ogm non garantiscono questo surplus della produzione. «È co-
Attualmente mais e soia modificati non producono di più e non richiedono meno concimi
”
sì. Già Martin Taylor, presidente della Syngenta, uno dei principali attori dell’agro-industria mondiale con un gruppo che impiega più di 24mila persone in oltre 90 Paesi che operano con l’unico proposito di sviluppare il potenziale delle piante al servizio della vita, ha ammesso che soltanto tra 20 anni la ricerca sugli ogm sarà utile al Terzo mondo. E tra 20 anni o il Terzo mondo avrà risolto in parte il problema o sarà veramente una situazione tragica».
Secondo Monastra si sposta avanti nel tempo la sicurezza alimentare come risultato da conseguire in tempi abbastanza brevi per le aree povere del pianeta. «Il mercato senza regole e controlli si è rivelato ancora una volta nemico dei popoli, di tutti i popoli. L’economia non è tutto e non può arrogarsi il diritto di dominare gli Stati. La politica deve tornare ad essere prioritaria e porsi sopra la sfera economica. Il cibo e l’acqua non sono merci, ma realtà vitali da sottrarre ai capricci e alle ingiustizie del mercato. Dobbiamo tornare a una politica capace di sfidare, se necessario, le grandi concentrazioni finanziarie e gli interessi eco(r.f.) nomici delle oligarchie».
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
La sfida di Omar e il peso della colpa mar e Erika. Saranno sempre Omar e Erika. I loro nomi, per chi come noi conoscono la tragedia di Novi Ligure del 2001, bastano a richiamare alla memoria il sangue, le coltellate, la crudeltà, la freddezza. Anche la tragedia di Erba - Olindo e Rosa - diventa al confronto qualcosa di più “comprensibile”. La tragedia di Novi Ligure, ogni volta che sentiamo i nomi dei due ragazzi - Erika e Omar - è qualcosa che non si lascia razionalizzare e resta nella nostra mente come un’allucinazione, qualcosa di irreale. Come se ci volessimo difendere dall’orrore allontanando da noi questo calice amaro di una figlia che con l’aiuto del suo fidanzatino premeditò e uccise a coltellate nella sua casa la madre e il fratellino. Perché? Chi davvero è in grado di dare una risposta? Forse, neanche loro - Erika e Omar - nell’intimità inviolabile della loro coscienza sono capaci di rispondere, vittime loro stessi della crudeltà e del gelido cuore che armarono la loro mente e le loro mani.
O
Omar è ritornato in libertà. Fino a oggi, in regime di semilibertà, ha lavorato ad Asti come giardiniere a seicento euro al mese e si è comportato, come dicono gli agenti della questura incaricati di seguirlo, un detenuto modello. Riuscirà ad essere anche un uomo modello? Il giudizio degli altri se lo porterà sempre dietro, che lo voglia o no. Dice di avere dimenticato Erika: «Oggi mi è indifferente, non mi interessa, capitolo chiuso, non le porto nemmeno rancore». Omar era stato condannato a 14 anni di carcere. La condanna, tra sconti e riduzioni, è finita. Ora Omar è un uomo libero. Il difficile, forse, arriva adesso. La pena detentiva che doveva scontare lo proteggeva. È qualcosa di più di un paradosso. È la colpa che sarà per sempre al suo fianco. Per sempre. Il suo primo desiderio è “farmi una bella nuotata al mare: sono dieci anni che non ci vado”. Fosse andato a nuotare anche quella terribile sera del 21 febbraio 2001 ora le sue bracciate sarebbero più leggere e più vere. La libertà di Omar avrà sempre uno strano sapore. Potrà nuotare e sentire il sole, potrà amare e essere amato e glielo auguriamo - ma il prezzo della sua libertà non sarà mai veramente riscattabile. Solo un Dio misericordioso potrà sollevarlo. Solo Susi e Gianluca - la madre e il figlioletto - potrebbero aiutarlo. Non c’è giustizia umana che possa “liberarlo dal male”. Un male che ognuno di noi si porta dentro e che, vincendolo e superandolo, ci fa vivere per affermare umanamente il bene. Omar, nella sua verde età, è rimasto schiacciato dal male e non ha avuto la forza per resistergli. Quella lotta lo impegnerà ora per il resto dei suoi giorni e delle sue notti. È ancora comprensibile che Omar dica «Erika non mi interessa più, mi è indifferente, è un capitolo chiuso». Come potrebbe essere altrimenti? Tuttavia, Erika non sarà mai un “capitolo chiuso”. Questa è la sua vera pena. Una sorta di “malattia mortale” senza mortalità. Sempre che perché non possiamo saperlo - le nostre parole abbiano un senso di calda luce nel foro della coscienza di Omar.
Fiat apre allo spin off auto e fa pace con i mercati Marchionne: «Senza incentivi il comparto italiano risalirà nel 2013» di Francesco Pacifico
ROMA. Il flebile rilancio su Termini Imerese di Montezemolo sembra già svanito. Domani si aggiornerà il tavolo al ministero dello Sviluppo, ma se i lavoratori dello stabilimento aspettano novita sul loro futuro, difficilmente le avranno dai vertici di Torino. Lo si è compreso ieri da Sergio Marchionne, che dal Salone dell’auto di Ginevra ha passato la giornata a tranquillizzare i mercati. L’anno che si è appena aperto rischia di segnare un arretramento per l’industria dell’auto? Vero, ammette l’Ad di Fiat, «ma il Brasile ci darà un grandissimo 2010». Gli analisti dubitano che il Lingotto confermerà i target? Forse, ma «non si possono mettere a confronto i dati del 2010 con un periodo estremamente strano della vita della Chrysler». Quindi il colpo di teatro, quello che ha fatto invertire il trend borsistico Fiat. «Lo spin off dell’auto è un tormentone, ma ne parleremo il 21 aprile quando presenteremo il piano di sviluppo del gruppo». Infatti sono bastati pochi minuti ed ecco il titolo segnare il massimo a quota 8,33 euro. Marchionne ha lasciato intendere che va a conclusione il processo che ha portato Fiat a passare da campione nazionale a player mondiale dell’auto. Partendo proprio dall’azionariato. Non a caso ieri mattina il Lingotto ha “schierato” al salone ginevrino Marchionne e il vicepresidente Jaki Elkann, ma, con un colpo a sorpresa molto gradito dai Tg, li ha fatti incontrare con Lapo Elkann, uscito dall’azienda con molto fragore nel 2005. Il quale, dopo aver espresso la sua gioia all’Ad per questa giornata diversa – «Qui sto da dio, sono felice: ci sono un sacco di belle macchine» – ha tenuto a sottolineare: «Non ho mai lasciato il gruppo né dal punto di vista affettivo né da quello economico, visto che sono azionista. Da lì ad avere un incarico operativo ce ne vuole». Parole che di fatto non contraddicono quella che sembra la linea seguita dalla famiglia: diluire la quota all’interno di una multinazionale passando da padroni ad azionisti rilevanti. In questa logica – e tenendo conto che una Fiat impegnata su quattro continenti porta con sé troppi rischi rispetto a quelli che sono disposti a sostenere gli eredi dell’Avvocato – rientra lo spin off che Mar-
chionne voleva lanciare già nel 2009 e che il mercato gli chiede da un biennio. Per saperne di più bisognerà aspettare la presentazione del nuovo piano di sviluppo ad aprile. Quel che è certo che nella decisione dei tempi e modi molto inciderà la situazione finanziaria globale. Marchionne – non certo incline ai diktat del mercato – ha ricordato che il progetto rientra in «un quadro di ipotesi che vanno analizzate attentamente». Nel tentativo di far camminare la Fiat sulle proprie gambe finisce invece di influire le novità che arrivano da Peugeot. Ieri è stata ufficializzata la fine delle trattative con Mitsubishi per uno scambio azionario. Ma da giorni il management si dice pronto a valutare le offerte che verranno da Torino. Marchionne ha precisato che al momento non ci sono possibilità di far rientrare anche i transalpini nell’alleanza tra Fiat e Chrysler. «Ma le relazioni sono ottime per i veicoli commerciali. Lo sviluppo continuerà ad andare avanti». Infatti si potrebbero profilare nuovi progetti su piattaforme comuni per risparmiare risorse e rispondere a 2010 che in Europa potrebbe segnare un crollo nelle immatricolazioni di 3 milioni.
Domani nuova riunione su Termini. Scajola: «Ci vorrà tempo per una soluzione». E dal Lingotto non arrivano nuove aperture
In tutto questo scenario l’Italia e il suo mercato appaiono più marginale nella strategia del manager italo-canadese. E non soltanto perché «bisognerà aspettare il 2013 per una normalizzazione. Senza incentivi il mercato si attesterà a quota 1.750.000». Di conseguenza rischia anche di allungarsi anche la risoluzione della questione Termini Imerese. Ieri il ministro Claudio Scajola ha tenuto un profilo più bassi: «L’incontro del 5 marzo», ha spiegato, «è uno dei passi che stiamo portando avanti, una tappa per rendere trasparente l’operazione che cerchiamo di portare a compimento, ma non è che il 5 si decide il destino di Termini Imerese». L’argomento però resta spinoso per Marchionne. A differenza di Montezemolo non va oltre la garanzia che «Fiat farà tutto quello che è necessario per traghettare l’azienda e portarla da un’altra parte. Ma invito tutti quanti a fare discorsi seri. È un problema che sta diventando difficile da gestire dal punto di vista mediatico. Andiamo ad aggiungere pezzettini e cerotti a un discorso che era di una semplicità e chiarezza incredibile».
panorama
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Fra Emma Bonino e i vertici locali dei democratici è gelo costante: ma ora che le liste avversarie sono state escluse...
Povero Pd, costretto a gareggiare Il caos nel Lazio smuove il partito di Bersani da un incredibile torpore elettorale di Antonio Funiciello
ROMA. Ci sta che un governo in carica perde le elezioni di medio termine. È una delle più diffuse regole della politica, quasi una legge, che interessa ogni grande democrazia avanzata e, dunque, anche l’Italia. Obama, che è Obama, ha dovuto assistere allo sfratto che i cittadini del Massachusetts hanno consegnato ai democratici dopo che per decenni il loro rappresentante al Senato era stato un Kennedy. La particolarità italiana di questa legge della politica è data dal contributo che il partito di maggioranza relativa del presidente del consiglio, il Popolo della libertà, sta profondendo, di suo, per consegnare al centrosinistra la maggioranza delle regioni al voto. Le dimostrazioni di insipienza offerte nel Lazio fanno il paio con l’incapacità al Nord di sottrarsi al morso della Lega, candidando Cota in Piemonte e rimettendo in gioco un centrosinistra minoritario, e al Sud con la protervia mostrata nel caso Puglia dove, una vittoria a portata di mano che passasse per l’accordo con l’Udc, è stata rigettata con scarsa lucidità politica. Risultato: quelle che erano elezioni che il governo in carica, pur dopo i due modesti anni di attività, poteva clamorosamente vincere, andranno tristemente perse.
con Caio, mettendo a nudo la mancanza di un strategia complessiva di attacco al centrodestra in vista delle elezioni politiche del 2013. O meglio, sta prevalendo al Nazareno una logica di tenuta dello zoccolo duro elettorale democratico. Non certo quel 33% conquistato da Veltroni, ma qualcosa che sia poco sotto la soglia del 30% e possa così legittimare il ruolo guida del Pd bersaniano (partito di maggioranza dello spazio del centrosinistra) nella
costruzione della nuova Unione da opporre a Berlusconi nel 2013 o, all’occorrenza, anche prima. Se, come sembra, la tenuta del Pd darà buona prova di sé alle prossime regionali, il cammino da seguire sarà segnato. Nella certezza di un indebolimento della constituency sociale del Pdl, che risulterà chiara dal risultato del voto di marzo e rafforzerà le difficoltà di Berlusconi nei tre anni di governo che ancora lo attendono. Il Pd punta a questo. Un po’ come i Ds e la Margherita tra il 2001 e il 2006 puntavano sul logoramento di Berlusconi e del suo esecutivo. Bersani è convinto di poter replicare i successi elettorali mediani di Fassino e Rutelli, per poi dar vita, assumendo il ruolo di convocatore del tavolo di centrosinistra che fu di Fassino, alla nuova alleanza.
Nel partito, nessuno ha nemmeno cominciato a discutere di cariche e ruoli, in caso di vittoria
Questa strategia di contenimento adotta al Nazareno è stata replicata ovunque in vista del turno elettorale. Sia dove si lasciano apprezzare i risultati di governo regionale come in Piemonte, sia dove gli scandali hanno travolto tutti come nel Lazio, il grosso dei candidati regionali del Pd sono gli assessori e i consiglieri uscenti, in una logica di riproposizione dell’identico che replica cencellianamente il rapporto di forza tra componenti e sottocomponenti interne. Quanto dovrà ac-
Di suo, il Pd di Bersani non ha fatto molto, fuorché la grande confusione mostrata nell’allearsi qui con Tizio, là
cadere dai primi di aprile in poi, dopo cioè l’insediamento delle nuove giunte e maggioranze regionali, non è dato sapere e non è oggetto di riflessione in campagna elettorale, malgrado i malumori che pure serpeggiano. Nel Lazio, le preoccupazioni di una (a questo punto) molto probabile vittoria della Bonino montano giorno dopo giorno tra i democratici. Se per Marrazzo rappresentò l’impresa più ardua destreggiarsi nelle acque profonde del Consiglio regionale, al Pd romano non dubitano che le stesse difficoltà si ripresenteranno con la leader radicale. Magari anche accresciute, vista la totale assenza di relazioni tra il partito locale e la Bonino, che pretende di dialogare unicamente con Bersani, in un rapporto diretto e privilegiato che taglia fuori i dirigenti romani e laziali.
La Bonino, abituata a ruoli di grandi visibilità, dalla Commissione europea al ruolo ministeriale nel secondo esecutivo Prodi, non sembra avere il phisique du role per le lunghe trattative che pretendono gli equilibri in costante perfezionamento tra presidente di giunta e consiglio. E la circostanza che vede un Pd sorpreso e spiazzato da una piega degli eventi che pare consegnargli il governo della regione Lazio su un piatto d’argento per colpa dei pasticci del Pdl, complica ulteriormente le cose.
Vizi. Secondo la Relazione del ministero della Salute il 16% degli italiani esagera nei consumi
Ormai è allarme alcol tra i giovani di Gualtiero Lami
ROMA. Siamo un popolo di ubriaconi. E non è un modo di dire affettuoso, è una realtà drammatica, valida soprattutto per i giovani, come testimonia una ricerca del ministero della Salute che ha appena presentato una sua apposita Relazione al Parlamento. Insomma, gli italiani che esagerano col bicchiere sfiorano il 16%. E a volte si lasciano andare in modo pericoloso: il 34% dei bevitori, soprattutto giovani, pratica almeno una volta a settimana il «binge drinking», la moda di bere in maniera compulsiva fino ad ubriacarsi. «Il quadro epidemiologico che emerge dalla Relazione conferma la diffusione, in atto negli ultimi anni, di comportamenti a rischio lontani dalla tradizione nazionale - sottolinea il ministero - quali i consumi fuori pasto, le ubriacature e il binge drinking, soprattutto tra i giovani. Nei confronti dell’Europa, l’Italia presenta una minore prevalenza di consumatori di bevande alcoliche e una minore diffusione del binge drinking». Tuttavia, fra coloro che consumano alcol, ben il 26% lo fa quotidianamente (il doppio della media europea), il 14% lo fa da
4 a 5 volte a settimana (valore più alto in Europa) e il 34% pratica il binge drinking almeno una volta a settimana (contro il 28% della media europea).
Inoltre, il 9,4% della popolazione consuma quotidianamente alcol in quantità non moderate e il 15,9% non rispetta le indicazioni
dei giovani di 11-15 anni ha consumato bevande alcoliche, in un’età al di sotto di quella legale per la somministrazione e per la quale il consumo consigliato è pari a zero. Tra i giovani di 18-24 anni, maschi e femmine, ha consumato bevande alcoliche il 70,7%, con una prevalenza superiore alla media nazionale. La tipologia di consumo a rischio prevalente tra i giovani è il consumo fuori pasto, che ha riguardato nel 2008 il 31,7% dei maschi e il 21,3% delle femmine di età compresa fra gli 11 e i 24 anni. Nella stessa fascia di età, il 13,2% dei maschi e il 4,4% delle femmine ha praticato il binge drinking nel corso dell’anno. Cattive abitudini che portano inevitabilmente anche ad un aumento degli incidenti stradali.Al punto che tra i giovani conducenti si riscontra il più alto numero di feriti e morti negli incidenti stradali.
I primi eccessi alcolici iniziano già intorno agli 11 anni. E poi il bere troppo diventa la prima causa di morte negli incidenti stradali di consumo proposte dagli organi di tutela della salute. Il binge drinking è diffuso soprattutto tra i ragazzi di 18-24 anni (22,1%) e di 25-44 (16,9% ). Per quanto riguarda i giovani, la bassa età del primo contatto con le bevande alcoliche è l’aspetto di maggiore debolezza del nostro Paese nel confronto con l’Europa (in media 12,2 anni di età, contro i 14,6 della media europea). Nel 2008 il 17,6%
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l ritrovamento archeologico è di quelli che non possono lasciare indifferenti. Ci sono tutti gli ingredienti per un fascino irresistibile: l’intrigo, i templari, la religione, le reliquie di Gesù. E in un momento in cui i thriller all’Indiana Jones o peggio alla Dan Brown tirano così tanto. Ma stavolta non di fantasiose congiure si tratta, né di una caccia a oggetti magici, bensì di un regolare ritrovamento archeologico in Portogallo che però investe un reperto non certo qualsiasi: stiamo parlando infatti del ritrovamento di un antico chiodo “protetto”dalle sepolture di alcuni cavalieri templari. Sì, il pensiero non può non andare subito ai chiodi della crocifissione di Gesù, e alla venerazione antica e nuova di reliquie così preziose. E sulle reliquie della Passione di Cristo molto c’è da dire, a partire dal fatto che molte sono in Italia, compresa quella Sindone di cui è imminente l’ostensione e su cui ci sono nuove teorie, anch’esse legate ai Templari.
I
La scoperta è avvenuta sull’isola di Ilheu de Pontinha, al largo di Madeira, nel mezzo dell’Oceano Atlantico, in un antico forte dei Templari. È stata scoperta una tomba di tre cavalieri, del tutto verosimilmente tre templari, sepolti con le loro spade in un forte appartenuto all’antico ordine di monaci guerrieri. Il simbolo dell’ordine, tra l’altro, compariva su una delle spade dei tre cavalieri seppelliti nella tomba. Quello che però colpisce è che i sepolcri erano come a guardia di uno scrigno istoriato contenente un chiodo, un chiodo la cui datazione lo fa risalire al primo/secondo secolo. Un chiodo lungo dieci centimetri, smussato e levigato come se fosse stato maneggiato da molte mani al pari di una reliquia. La collocazione, la venerazione, i templari, la forma: tutti elementi che fanno pensare che si tratti di uno dei chiodi con cui venne crocifisso Gesù. Secondo il Daily Mirror, che racconta la storia di questa scoperta, l’archeologo Bryn Walters non ha dubbi: «L’epoca corrisponde. Il chiodo risale a un’epoca compresa fra il primo e il secondo secolo. È custodito all’interno di un prezioso scrigno. Inoltre il chiodo invece di essere arrugginito e macchiato, è lucido e ha gli angoli smussati, come se gli acidi del sudore di molte mani lo avessero preservato nei secoli. Sembra che sia stato toccato e tenuto nelle mani di molte persone nel corso dei secoli e questo lo ha reso molto levigato. Segno che per qualcuno quel chiodo aveva molta importanza». Se l’archeologo e i suoi scavi risulteranno attendibili, lo sarà anche il ritrovamento. Questo ovviamente non vorrà automaticamente dire che siamo di fronte a un chiodo della Crocifissione, ma che questo o qualcosa di simile credevano quelli che lo hanno conservato e venerato per secoli. E il fatto che a venerarlo fossero i Templari aggiunge fascino alla vicenda. Non perché dia spago alle fantasie di complottisti e fantarcheologi, ma perché al contrario rende verosimile e concreta la storia. I Templari poco avevano a che fare con complotti e magie, ma molto avevano a che fare con le reliquie e guarda caso proprio con il Portogallo. I Pauperes commilitones Christi templique Salomonis (Poveri Compagni d’armi di Cristo e del Tempio di Salomone) vennero fondati negli anni successivi alla prima crociata (1096) da Ugo di Payns e Goffredo di SaintOmer, per assicurare l’incolumità dei pellegrini in Terra Santa. L’ordine venne ufficializzato il 29 marzo 1139 dalla bolla Omne Datum Optimum di Innocenzo II e dissolto tra il 1312 e il 1314 dopo un drammatico processo intentato dal re di Francia Filippo il Bello con l’obiettivo di impossessarsi delle loro ricchezze.
il paginone
È lungo dieci centimetri, smussato e levigato come se fosse stato maneggiato d
Bryn Walters e Il re portò dalla sua la Chiesa e il Papa, benché a malincuore, e i Templari vennero banditi da quasi tutti i Paesi cristiani. Quasi. Solo due regni non si accodarono alle persecuzioni contro i Templari, e anzi si appoggiarono a loro per le proprie imprese: la Scozia e, eccoci al punto, il Portogallo, dove si chiamarono Ordine di Cristo. Avendo la loro base originaria sul Tempio di Gerusalemme, trattando continuamente con i pellegrini e i luoghi santi, partecipando alle imprese militari nelle zone più importanti per la fede, compresa Costantinopoli, i templari avrebbero avuto molto a che fare con le reliquie. Ed ecco tracciata una verosimile strada che dalla Terra Santa porta all’isola portoghese.
di Osvaldo Baldacci
Un percorso peraltro che richiama il parallelo con un’altra reliquia, forse la più famosa: la Sindone, la cui ostensione a Torino è in programma dal 10 aprile al 23 maggio. Della Sindone e dei Templari si è occupata intensamente negli ultimi anni la studiosa Barbara Frale. E in proposito ha tirato fuori ben due novità, teorie basate su elementi da lei rilevati.Teorie che fanno discutere, e che alcuni contestano ferocemente, continuando a portare nuove ipotesi sulla realizzazione della Sindone come falso medioevale. Di recente anche la scoperta di un sudario in Palestina è stata considerata da alcuni la prova della falsità della Sindone solo perché il tipo di tessuto è diverso. Ma quali sono le ipotesi della Frale a supporto della veridicità della Sindone? La prima riguarda strettamente la sua autenticità: la studiosa, funzionaria dell’Archivio Segreto Vaticano, avrebbe individuato sul tessuto delle scritte in varie lingue, cioè latino, greco ed ebraico. Scritte non qualsiasi: ci sarebbe esplicitamente il nome di Gesù Nazareno. L’ipotesi è che si tratti addirittura della firma del funzionario addetto alla sepoltura dei condannati a morte. Qualcosa di clamoroso. Ma l’ipotesi è accolta con prudenza da molti, con scetticismo da alcuni, che contestano l’esistenza delle scritte, ritrovate solo dopo duemila anni, o comunque la loro veridicità. La precedente ipotesi della Frale riguarda invece il percorso misterioso e controverso che la Sindone avrebbe fatto per arrivare fino a noi. Come è noto, chi contesta l’autenticità della reliquia si basa anche sul fatto che compare per la prima volta nella storia in modo accertato solo nel 1353 in una cittadina del nord francese. Ed ecco che entrano in gioco i Templari. La famiglia che possedeva la Sindone era quella dei de Charny, e un Geoffrey de Charny era stato bruciato sul rigo da Filippo il Bello quarant’anni prima, nel 1314, essendo l’ultimo precettore templare di Normandia. Nei secoli precedenti diversi indizi fanno pensare che il sudario di Cristo fosse stato conservato per secoli nella città capitale della cristianità d’oriente, Costantinopoli. Probabilmente fu presa come bottino dai crociati che saccheggiarono l’attuale Istanbul durante la Quarta Crociata. La Frale ipotizza che cadde in mano alla famiglia de La Roche, che nel 1260 l’avrebbe venduta a un
Un’isola a largo di Madeira. La tomba di tre cavalieri sepolti con le loro spade e, su una lama, il simbolo dei templari. Seppellito con loro uno scrigno con un chiodo. Secondo l’archeologo, autore della scoperta, era sulla croce di Gesù
il paginone
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da molte mani al pari di una reliquia. E l’epoca dovrebbe essere compresa tra il primo e il secondo secolo
il chiodo maledetto suo membro capo dei Templari in oriente. Il traffico di reliquie era punito con la scomunica, quindi i Templari non ufficializzarono mai il possesso, ma tra le accuse a loro rivolte c’era quella di venerare immagini presentate dagli accusatori come di idoli, in particolare quella di un uomo barbuto. Un’immagine che secondo documenti studiati dalla Frale era proprio un telo di lino con impressa la figura di un uomo che veniva adorata praticando il bacio sui piedi. Di reliquie che riportano alla Passione di Gesù ne esistono molte, più o meno attendibili, più o meno note e discusse, con storie accuratamente ricostruite oppure con comparse improvvise e sospette.
Bisogna qui ricordare che per la Chiesa cattolica le reliquie non sono certo oggetto di fede, né hanno un qualche potere intrinseco. Sono solo uno strumento che può essere onorato, non adorato. Servono in qualche modo a rendere testimonianza della realtà storica, concreta, materiale di ciò che
è connesso alla fede. Aiutano a catalizzare l’attenzione dei fedeli, e a far sentire più vicino e vero ciò che è connesso all’azione di un santo, o addirittura dello stesso Gesù. Ma in nessun modo incidono sulla fede. Un’altra cosa che va detta è che soprattutto nei primi secoli e nel medioevo il culto delle reliquie è spesso degenerato in un commercio che nulla ha di religioso, che è stato sempre condannato dai documenti della Chiesa (un po’ meno dalla prassi), e che sa più che altro di collezionismo, nulla assicurando una reliquia in termini di religione né tantomeno di inesistenti poteri magici e ultraterreni. Vendere o acquistare una reliquia rientra nella simonia, e ovviamente non garantisce nessun beneficio religioso, anzi il contrario. Ciononostante le reliquie hanno sempre avuto un fascino che va oltre la pura religione, e chi le ha giustamen-
Le 30 città che ospitano le reliquie Il chiodo ritrovato nella tomba templare sull’isola portoghese si aggiunge ad una già nutrita schiera di pretendenti al titolo di reliquie della Passione di Cristo. Sono almeno una trentina le città che reclamano l’onore di ospitare un così prezioso oggetto. Città, chiese, santuari, monasteri che espongono tale tipo di reliquia sono Aachen (cioè Aquisgrana, sede imperiale di Carlo Magno), Ancona, Andechser, Arras, Bamberg, Carpentras, Catania, Colle di Val d’Elsa, Colonia, Compiègne, Cracovia, Escurial, Firenze, Livorno, Milano (il morso di Costantino nel Duomo), Monza (la Corona Ferrea nel Duomo), Napoli, Parigi, Roma (con le altre reliquie della passione in Santa Croce in Gerusalemme, già palazzo imperiale di Sant’Elena madre di Costantino, chiodo riscoperto nel 1492 e autenticato da Papa Benedetto XIV alla metà del Settecento), Siena, Spoleto, Torcello, Torno, Toul, Treviri, Troyes, Venezia (ne rivendica ben tre) e Vienna (nella Sacra Lancia). Il chiodo a Carpentras, in Provenza, è in diretta concorrenza con quello di Milano richiamandosi anch’esso al Sacro Morso, nello stemma della città già dal 1260. Tra i più celebri e venerati quello della Cattedrale di Colle Val d’Elsa, lungo 22 centimetri, arrivato a Colle nel IX secolo per la morte in zona di un cardina(o.ba.) le francese che lo aveva ricevuto dal Papa.
te le mette in evidenza e le espone ad una modica venerazione. Ad esempio di chiodi della croce, ipotetico oggetto del ritrovamento archeologico portoghese, ne esistono già diversi, famosi e anche abbastanza verosimili.Verosimili se si pensa che possano essere stati conservati dal giorno della morte di Gesù. Comunque quel che si può dire per certo è che in questi casi si tratta di oggetti molto antichi e venerati per secoli fin da tempi remoti, dai primi secoli del cristianesimo. Ce ne sono a Roma, a Milano, a Monza, forse in Toscana, e anche in altre località, tra cui Vienna. Intanto quanti erano i chiodi della croce? La tradizione più antica si riferiva a quattro, uno per ogni mano (all’inizio si credeva piantati nei palmi, oggi si preferisce l’ipotesi polsi) e ogni piede. In realtà poi si è affermata l’ipotesi che fossero tre, con i due piedi inchiodati l’un sull’altro. Anche la Sindone confermerebbe questa ricostruzione. Naturalmente però bisogna dire che di chiodi ce ne saranno stati altri, oltre a quelli nelle carni di Gesù: per la struttura della croce, per appendere la scritta, quelli delle altre due croci. Inoltre era d’uso limare i chiodi ritenuti veri per inserire la limatura in chiodi nuovi da donare a chiese e personaggi eminenti. Probabile infine che fin dall’epoca più antica possano essere stati creduti veri chiodi che magari
no a Teodosio, che donò quello inserito nel morso del cavallo all’arcivescovo di Milano, Sant’Ambrogio. Esso è ancora conservato in un reliquiario a forma di croce posto alla sommità dell’abside del Duomo di Milano, esposto alla venerazione dei fedeli due volte all’anno, con la celebre Nivula. Altri chiodi sarebbero stati conservati a Costantinopoli fino a Giustiniano: Papa Vigilio nel 555 prestò un giuramento “sulla virtù dei Santi Chiodi che in quel luogo si conservavano”. Risulta che poi nel 586 l’imperatore Costantino Tiberio regalò i chiodi a San Gregorio Magno che ritornava a Roma, e fu così che uno dei chiodi venne donato alla Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma dove è tuttora conservato. La basilica sorge sulla cappella del palazzo imperiale di Sant’Elena, cappella che l’imperatrice avrebbe fatto pavimentare con terra della città santa, e che secondo altre fonti già lei stessa aveva destinato alla conservazione di quelle preziose reliquie da lei riportate da Israele. Con il chiodo infatti si trovano anche spine della corona di Gesù, il più grande frammento della Croce, nonché parte dell’iscrizione in latino, greco ed ebraico fatta porre da Pilato sopra Gesù crocifisso. Tornando ai chiodi, di un altro paio si può seguire un po’ la storia. Costantino come dicevamo l’avrebbe messo sul suo elmo imperiale, e a un certo
La collocazione, la venerazione, i templari, la forma: sono tutti elementi che fanno pensare che si tratti effettivamente di uno dei chiodi con cui venne crocifisso Cristo non lo erano. D’altro canto già la storia iniziale del ritrovamento delle reliquie più sacre per quanto antica ha comunque del favoloso. Se infatti non si può escludere a priori che certi oggetti siano stati conservati e tramandati nelle prime comunità cristiane, la storia del ritrovamento della Croce da parte di Sant’Elena, madre di Costantino, appare un po’ troppo miracolistica, con la croce e le altre reliquie ritrovate sepolte e intatte. È comunque da lì che parte la storia di queste reliquie, una storia già definita nel V secolo secondo la testimonianza di Sant’Ambrogio. Non si può dunque escludere che davvero l’imperatrice partita per l’Oriente abbia avuto l’autorità, la volontà e la possibilità di ottenere delle reliquie, al limite forse anche autentiche, ma difficilmente nel modo narrato dalla tradizione.
Comunque almeno dal tempo di Elena in poi è possibile tracciare la storia di queste reliquie, quasi duemila anni. Dei chiodi, uno fu calato in mare da Elena durante il viaggio di ritorno a Roma per placare una tempesta nell’Adriatico: Elena regalò quel chiodo alla Chiesa di Treviri. Gli altri chiodi furono inviati al figlio Costantino, il quale per proteggersi ne fece inserire uno nel suo elmo e un altro lo fece modellare a forma di morso per il suo cavallo. Si parla anche di un ulteriore chiodo inserito da Costantino nelle briglie. Nelle nuove collocazioni i chiodi passarono ai successivi imperatori fi-
punto quella che di fatto era la sua corona venne divisa e una parte inviata in Italia. Per lungo tempo si è dato per certo che il chiodo fosse contenuto nella Corona Ferrea con cui dai longobardi in poi, fino a Napoleone, venivano incoronati i re d’Italia, conservata nel Duomo di Monza. Per alcuni la corona sarebbe lo stesso diadema dell’elmo di Costantino, e ciò potrebbe essere vero. Quel che invece è stato smentito è che il chiodo sia stato fuso per realizzare l’anello interno del diadema, rimasto miracolosamente non arrugginito: in realtà quella lamina è d’argento, e non è quindi il chiodo. Rimane però verosimile la tradizione che collega il chiodo alla corona di Costantino e da qui alla Corona ferrea. Ma in qualche modo, nei vari smembramenti e restauri, l’identificazione precisa e le tracce del chiodo si sono quanto meno confuse. Nel 1717 le autorità vaticane decretarono che, pur in assenza di prove certe sulla presenza del chiodo nella corona, ne era autorizzata la venerazione come reliquia. Un altro chiodo che si fa risalire agli imperatori, e forse quindi fino a Costantino, si trova invece a Vienna, nel tesoro imperiale: sarebbe stato inserito nella Sacra Lancia, a sua volta una preziosa reliquia, cioè la lancia con cui il centurione Longino trafisse Gesù sulla croce. La Lancia era uno dei simboli del Sacro Romano Impero Germanico. Ma ci sono altre lance che reclamano di essere quella di Longino, e tra queste spicca quella in San Pietro.
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Analisi. Nata in chiave “anti-sunnita”, la cooperazione di Siria e Iran detta l’agenda agli altri Paesi arabi. Nel mirino c’è Israele
La Santa Alleanza Ahmadinejad a Damasco è un segnale: tornano le Crociate, ma ora da Est a Ovest di Alexandre del Valle
PARIGI. Da quando è stato eletto, il presidente americano Barack Obama cerca di sviluppare una politica estera più “bilanciata”. Una politica che, almeno in parte, tende la mano al mondo musulmano sia per evitare lo “scontro di civiltà” che per migliorare la pessima immagine dell’America, dalle guerre in Afghanistan e Iraq, mai tanto invisa. La strategia della mano tesa spiega perchè il presidente americano abbia elogiato nel suo (strano) discorso del Cairo una «splendida civiltà islamica», confessando di aver «imparato quanto la civiltà occidentale sia debitrice verso l’islam» a suo giudizio capace di «tenere alta la fiaccola del sapere per molti secoli, preparando la strada al Rinascimento europeo e all’Illuminismo».
Ricordiamo che questo mito della “scienza araba e islamica” è anche quello dell’Europa di Bruxelles, definito come Eurabia da Bat Yé’Or, benché sia risaputo e acclarato che l’Occidente deve la scienza e la filosofia greca non agli arabi-musulmani ma a Bisanzio, agli ebrei, ai persiani e ai cristiani d’Oriente che si sperticarono in traduzioni per gli invasori analfabeti che venivano dalla penisola araba. Per tornare alla strategia filo-islamica di Obama, si spiega anche perchè l’Amministrazione democratica americana appoggi così tanto il modello islamico-conservatore del premier turco Erdogan e del suo partito Akp, che vuol smantellare il kemalismo
laico e che si avvicina all’Iran e ad altre dittature islamiche o arabe. In quest’ambito, Obama aveva anche teso, appena salito al potere, la mano all’Iran nazislamista di Mahmoud Ahmadinejad, riferendosi con rispetto ai «leader e al popolo della Repubblica islamica» e invitandoli al dialogo e ad un «un nuovo inizio in grado di far voltare pagina ai rapporti tra i due Paesi». Il risultato è stato un colpo di mannaia alla mano tesa da parte dei mullah: Ahmedinejad ha guadagnato mesi, ha fatto
convincere la Siria ad allontanarsi da Teheran. Una proposta sostenuta anche dall’Europa (specialmente dalla Francia), in cambio dell’inserimento progressivo della Siria nel gregge delle nazioni, come è stato fatto con Gheddafi dal 2006. Peccato che la moneta con cui Gheddafi ha ripagato quest’apertura sia stata la chiamata al jihad contro la povera Svizzera.. Considerazioni a parte, quelli che vogliono giocare la carta siriana spiegano che si tratta di un Paese chiave per ogni solu-
Quando il dittatore di Teheran parla di attacco “islamico” contro il resto del mondo, non esagera. Più semplicemente comunica con i suoi alleati naturali, che sembrano interessati all’idea finta di negoziare sul dossier nucleare con il gruppo diviso dei 5+ 1 (Stati-Uniti, Russia, China, Francia, Gran Bretagna e Germania) e alla fine ha rifiutato l’accordo sull’arricchimento dell’uranio all’estero ai fini civili, e ha fermamente rifiutato di sospendere il proprio programma nucleare militare, affermando di essere pronto a «rispondere con forza alle eventuali nuove sanzioni».
Dopo aver finalmente capito che il dialogo con Teheran serve solo ad Ahmadinejad, il Segretario di Stato americano Hillary Clinton, che spera che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvi nuove sanzioni contro l’Iran entro due mesi, ha provato la scorsa settimana a
zione al conflitto israelo-palestese, ma anche per un eventuale containment contro l’Iran. Sono quelli che puntano sulla riconsegna del Golan alla Siria in cambio dell’impegno siriano a non sostenere più Hamas, Hezbollah e Teheran, e a costringere i palestinesi a firmare una pace con lo Stato ebraico. Ma la proposta di integrare la Siria arriva troppo tardi o troppo presto. Primo perchè i siriani non credono affatto che Israele possa restituire il Golan, riserva d’acqua strategica e formidabile zona-cuscinetto, nemmeno sotto la spinta delle pressioni americane o europee. Secondo, perchè la radicalizzazione giudeofoba ha raggiunto dei livelli di guardia tali, sia in Siria che in molti al-
tri Paesi arabi e musulmani, che la sola eventualità di dialogare con il “demonio”israeliano rappresenterebbe un “tradimento” capace di scatenare la rabbia delle masse arabo-islamiche. In risposta alla mano tesa alla Siria, il presidente siriano Bashar Al Assad e il suo omologo iraniano hanno quindi ribadito, durante l’incontro del 25 febbraio, la loro alleanza strategica sul dossier del nucleare iraniano e il loro sostegno totale alle organizzazioni terroristiche e più violentemente anti-israeliane.
Al fine di dimostrare agli occidentali che dovrebbero offrire molto di più per ottenere (forse) qualcosa, Assad ha detto: «Non vogliamo che altri vengano a darci lezioni sulla nostra regione e la nostra storia». Da parte sua, il presidente iraniano ha sottolineato che i legami tra i due Stati musulmani radicalmente anti-israeliani sono «solidi» come non mai,
«fraterni, profondi, solidi e permanenti». Convinto che l’America voglia dialogare perchè non oserà bombardare l’Iran quando avrà la bomba nucleare, Assad non ha per il momento nessuna ragione di accettare le offerte occidentali. Anzi, negoziando con Israele, avrebbe tutto da perdere visto che la mano tesa al nemico ebreo significherebbe una fatwa e una perdita di credito simbolico nel mondo islamico e nel suo Paese, dove l’opposizione dei Fratelli musulmani minaccia da anni il regime. Non dobbiamo infatti dimenticare che la Siria è un Paese in via d’islamizzazione radicale, a prevalenza sunnita, però diretto da decenni dal partito dittatoriale nazionalista e “laico” Baath, creato dal siriano cristiano Michel Aflaq. Un partito controllato dagli alauiti, minoranza eretica dell’islam sciita odiata a morte dagli islamisti sunniti. E mentre da anni il mondo islamico respinge le ideologie laiche, ke-
mondo trambi appoggiati da Teheran. Perché l’Iran nazislamista apertamente giudeofobo che vuol «cancellare Israele dalle mappe di geografia», appare sì come la potenza più anti-ebrea ma anche la più pro-palestinese, mentre gli Stati arabi sunniti pro-occidentali del Golfo e paesi come l’Egitto e la Giordania, che hanno concluso accordi di pace col il “demone”israeliano, appaiono sempre di più come dei “traditori”. Alcuni osservano che l’alleanza tra la Siria laica-bassista ed “eretica” dei Alauiti e l’Iran islamista sciita storicamente anti-baas sia contraditoria.
In verità, si tratta di un’alleanza geopoliticamente e teologicamente più coerente di quanto possa sembrare, perchè gli Alauiti di origine sciita fanno parte di un’asse pan-sciita o “anti-sunnita”che va dalla Siria all’Iran, passando dagli sciiti iracheni e libanesi alle numerose minoranze sciite del Golfo, povere, radicalizzate, sedotte dalla rivoluzione iraniana e spesso sedute sui pozzi di petrolio. Un’unione informale di cui l’Iran vorrebbe essere il centro, e indirizzata contro la maggioranza sunnita-araba maliste e baasiste, l’ossessione degli Alauiti baasisti è di non essere più etichettati “traditori” dell’Islam. E ciò spiega perchè la famiglia Assad, pur essendo alauita, faccia finta di essere diventata musulmana sunnita, in nome della taqiyya (dissimulazione per sopravvivere). In particolare: col sostegno dato sia all’Hezbollah sciita pro-Iran che all’Hamas sunnita (anch’esso filo-Iran ma legato ai Fratelli musulmani), il calcolo di Assad è questo: “dare cibo” all’opposizione islamista; far dimenticare che gli Alauiti non sono dei veri musulmani, ma piuttosto dei partigiani della causa araba palestinese, che è diventata la causa islamica per eccellenza dall’Intifada di AlAqsa e dall’islamizzazione del movimento palestinese fino alle vittorie di Hamas a Gaza; dimostrare che fino a quando non sarà restituito il Golan, Israele dovrà affrontare la violenza terrorista di Hamas e di Hezbollah con la benedizione di Damasco. D’altronde, è evidente che Assad non voglia finire come Anwar Al-Sadat, il Rais egiziano ammazzato dagli islamici per avere fatto la pace con Israele. Infatti, pur recuperando un giorno il Golan, la Siria difficilmente potrebbe concludere la pace con Israele, perchè il sentimento anti israeliano è diventato il capro espiatorio e comune denominatore dei fragili Assad, del partito Baath e di tutto il mondo arabo.
Ciò che definisco la “nuova giudeofobia” araba o la “nazificazione delle coscienze” ha rag-
giunto un livello d’allerta che gli Occidentali pacifisti non possono sospettare. In effetti, oggi, per essere ben visto dalle masse arabo-islamiche, qualsiasi leader musulmano deve dimostrare di odiare non solo Israele ma gli ebrei, questo popolo-capro-espiatorio colpevole di tutte le sciagure delle masse islamiche. Nel fare quindi l’apologia dell’Iran durante la visita di Ahmadinejad a Damasco di giovedi scorso, e ribadendo le critiche violente contro Israele, Bachar Al-Assad ha pronunciato le classiche “parole magiche” per milioni di musulmani e cittadini del Terzo mondo fanatizzati contro l’Occidente «imperialista» e «giudaico-massonico-sionista» e pronti a votare per colui che vorrà spingere di più l’acceleratore nell’escalation anti-occidentale, antisemita, antiamericano e anti-sionista. Anche se lo volesse, il regime alauita-bassista siriano, nelle condizioni in cui si trova, non potrebbe rompere con la futura potenza nucleare iraniana, e nemmeno con Hamas ed Hezbollah, en-
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stesso modo, quando Ahmadinejad dice che la bomba iraniana sarà la bomba islamo-rivoluzionaria della lotta contro il sionismo, e quando dichiara, accanto al suo amico Bashar, che «la Rivoluzione islamica iraniana ha come obiettivo finale la rivoluzione globale», proponendo di esportarla dappertutto, non agisce solo come un fanatico, ma anche come uno stratega e un comunicatore. Perchè la bomba nucleare iraniana ha come obbiettivo prioritario non solo “cancellare” Israele del mappa, ma sopratutto permettere all’Iran sciita di dominare i Paesi musulmani arabi e sunniti. E anche se i leader sunniti non sono ingenui,Teheran è riuscito a sedurre almeno le masse araboislamiche ingenue, dimostrando chè solo l’Iran persa e sciita è capace di fare ciò che non fanno i Paesi arabi sunniti: finanzia i terroristi di Hamas ed Hezbollah, «unici combattenti eroici contre Israele».
E nel presentare la bomba iraniana come l’unica in grado di estirpare e distruggere il “cancro Israele”,Teheran fa dimenticare che potrebbe distruggere
Il nuovo amore fra i regimi del Golfo deve essere tenuto sotto stretta osservazione. La “nuova giudeofobia” araba ha raggiunto ormai un livello d’allerta che gli occidentali non sospettano che nel passato ha sempre oppresso sia gli sciiti che le sette sciite (alauiti, alaviti in Turchia, drusi in Libano, ecc). Difatti, i Paesi arabi-sunniti temono il rapido sviluppo demografico e il proselitismo degli sciiti in Siria, Libano, Egitto, nel Golfo e nello stesso Maghreb. In questo contesto globale, non ci si può stupire se alla proposta di prendere le distanze da Teheran, Damasco risponda che «l’Iran ha il diritto assoluto di procedere con l’arricchimento dell’uranio», nonostante la minaccia di nuove sanzioni contro la Repubblica islamica per il suo programma nuAllo cleare.
anche delle capitali arabe-sunnite. Ahmadinejad ha messo in atto la cosiddetta “guerra di rappresentazione”, un discorso sovversivo bifronte. Il fatto che Teheran strumentalizzi la causa anti-sionista e pro-palestinese per legittimare la sua leadership islamica e neutralizzare le masse arabe, non significa che non si debba avere paura dei deliri verbali antisemiti di Ahmadinejad. Vi ricordo che la Repubblica islamica iraniana è governata dal 2005 dagli elementi più radicali del regime.
Come la Guida Suprema Ali Khamenei, padrino politico di Ahmadinejad, e che il maestro spirituale del Presidente iraniano è il fanatico ayatollah dall’indole messianica Mesbah-Yazdi, che celebra il «ritorno del Mahdi», aderisce all’ideologia teocratica patologicamente anti-occidentale, anti-ebrea e bellicosa, e vuol istaurare un «governo islamico planetario» con qualsiasi metodo e mezzo. Yazdi vuole instaurare un caos mondiale, nell’ambito della quarta guerra mondiale, tra l’islam sciita e il resto del mondo, che accelererà il ritorno del Mahdi e la fine dei tempi. Dobbiamo quindi, eccome se dobbiamo,
prendere Ahmadinejad e l’Iran sul serio. Senza dimenticare che il regime tende sempre di più a diventare un regime “nazislamico”: Teheran è diventato il rifugio e il palcoscenico privilegiato dei negazionisti e dei nazisti e anti-ebrei occidentali di tutto il mondo, che ”non possono più esprimere” il loro odio nazista e giudeofobo nelle democrazie. È vero che la retorica negazionista, terzomondista e giudeofoba di Ahmadinejad è destinata a sedurre le masse arabe perchè la bomba iraniana sia accettata più facilmente e perchè l’Iran diventi lo Stato islamico strategicamente più potente. Ma la nazificazione della retorica del regime deve preoccupare proprio perchè è popolare... Perchè i discorsi anti-ebrei, negazionisti e i tanti “convegni” organizzati dal 2006 a Teheran sulle caricature della Shoah con ospiti d’onore apertamente nazisti, piacciono a milioni di musulmani. Ecco perché tutti coloro che vorrebbero negoziare con l’Asse irano-siriano e con Hamas ed Hezbollah perchè sono stati eletti “democraticamente”, dovrebbero considerare che l’odio antiebraico della Repubblica iraniana non è solo ”provocatorio” ma esprime un’ideologia alla quale aderiscono le masse arabo-islamiche fanatizzate da 50 anni dai regimi o partiti che sono cresciuti a Mein Kampf, che considerano Hitler innocente e i Protocolli dei Saggi di Sion (la più famosa delle “opere” antisemite) un’opera veritiera.
Concludo con uno dei tanti discorsi pronunciati da Hussein Nuri Hamadani, uno dei principali ayatollah del regime: «Gli ebrei devono essere combattuti e messi in ginocchio affinché si possano creare le condizioni per il ritorno dell’imam atteso (il Mahdi), […]. Il pericolo ebraico deve essere spiegato al popolo e a ogni musulmano. Fino alla venuta dell’Islam, il gruppo che più di tutti si è opposto ad esso e che continua a opporsi è quello degli ebrei. Erano coinvolti nelle guerre contro il Profeta a Khaybar, la battaglia di Uhud e di Ahzhab (nella quale le truppe maomettane uccisero 650 ebrei della tribù dei Banu Quraysh). Da sempre gli ebrei, a causa della loro cupidigia, hanno perseguito l’accumulo della ricchezza, ricoperto posizioni importanti e concentrato tutte le ricchezze del mondo in un solo angolo e tutti, in particolare gli Stati Uniti e l’Europa, sono loro servitori». Questo tipo di discorso intriso di “odio totale” e mescolato con un messianismo sciita, deve fare riflettere. Come Hitler, Stalin e Pol Pot, i dittatori nazislamisti hanno sempre avvisato i loro nemici. Se lasciamo che l’Iran acquisisca l’arma nucleare senza reagire, in nome della pace (per molti più importante dell’onore), perderemo sia l’onore che la pace.
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Islam. Nella lotta al fondamentalismo bisogna riprendere la lezione turca arresto e la messa in stato d’accusa di alti vertici militari in Turchia la scorsa settimana ha fatto potenzialmente precipitare la più grave crisi mai verificatasi da quando Atatürk ha fondato la repubblica nel 1923. Le settimane a venire probabilmente mostreranno se il Paese continuerà la sua scivolata verso l’islamismo o tornerà al suo tradizionale secolarismo. L’epilogo avrà dappertutto importanti conseguenze per i musulmani. L’esercito turco rappresenta da tempo sia l’istituzione più fidata dello Stato che il garante del retaggio di Ataturk, specie del suo laicismo. La dedizione al suo fondatore non è un mero concetto astratto, ma una parte effettiva e centrale della vita degli ufficiali turchi; come ha documentato il giornalista Mehmet Ali Birand, difficilmente gli allievi ufficiali se ne stanno un’ora senza sentire invocato il nome di Ataturk. In quattro circostanze tra il 1960 e il 1997, l’esercito è interventuo per accomodare un processo politico andato per il verso sbagliato. Nell’ultima di queste circostanze, esso scalzò dal potere il governo islamista di Necmettin Erbakan. Abbattuti da questa esperienza, alcuni membri dello staff di Erbakan fondarono il più cauto Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp). Che nelle decisive elezioni turche del 2002 passò davanti ai partiti centristi screditati e frammentati, conquistando una maggioranza relativa del 34 per cento dei consensi.
L’
Le norme parlamentari poi trasformarono quella maggioranza in una maggioranza assoluta dei seggi parlamentari del 66 per cento e in un raro caso di governo monopartitico. Non solo
Per battere Osama usiamo Ataturk Il golpe denunciato da Erdogan mostra la “paura della laicità” dell’estremismo di Daniel Pipes
del Paese verso la realizzazione del suo sogno di costruire una Repubblica islamica di Turchia. Il partito ha posto dei suoi fautori in seno alla Presidenza e alla magistratura, assumendo un maggior controllo nell’ambito dell’istruzione, delle imprese, dei media e di altre importanti istituzioni. Esso ha sfidato perfino il
L’importanza della Turchia denota che l’esito di questa crisi avrà delle conseguenze per i musulmani di tutti Paesi, anche liberi l’Akp è riuscito abilmente a trarre profitto dalla sua opportunità di porre le basi di un ordine islamico, ma non è apparso alcun altro partito o leader pronto a sfidarlo. Ne conseguì che nelle consultazioni elettorali del 2007 l’Akp accrebbe la sua porzione di voti, ottenendo un eclatante 47 per cento, e il controllo di oltre il 62 per cento dei seggi parlamentari. I ripetuti successi elettorali dell’Akp lo hanno incoraggiato ad abbandonare la sua iniziale cautela e ad accelerare il traghettamento
controllo dei secolaristi su ciò che i turchi chiamano “lo Stato profondo” – organismi come le agenzie di intelligence, i servizi di sicurezza e la magistratura. Solo l’esercito, arbitro supremo della direzione del Paese, è rimasto fuori dal controllo dell’Akp. Diversi fattori hanno indotto l’Akp ad affrontare l’esercito: le richieste di adesione all’Ue per il controllo sull’esercito; un caso giudiziario del 2008 che stava per far chiudere i battenti dell’Akp; e la crescente assertività del suo al-
Lo dice il presidente della Camera turca, Sahin
«Ankara più forte di tutto» ROMA. La democrazia turca «è tale da impedire ogni azione contro la sua integrità». Lo ha sostenuto con forza ieri il presidente dell’Assemblea nazionale turca, Mehemet Ali Sahin, al termine di un incontro con il presidente della Camera, Gianfranco Fini. A Montecitorio, il politico di Ankara ci tiene a parlare del presunto golpe ai danni del governo di Recep Tayyip Erdogan e rassicura: «La Turchia è un Paese molto più democratico di ieri, anche dal punto di vista dello Stato di diritto è a un punto migliore di ieri». Tutti gli organi costituzionali - sottolinea ancora il presidente del Parlamento turco - «agiscono nell’ambito della democrazia, anche le forze armate, che sono un organo costituzionale, agiscono perfettamente in democrazia.
Purtroppo in tutti gli enti si trovano persone che vogliono mantenere le abitudini che avevano un tempo ma la democrazia turca ha raggiunto un livello tale per cui è capace di impedire ogni azione che va contro la sua integrità». Tutto è in mano alla magistratura - prosegue Ali Sahin - «e non è giusto rilasciare dichiarazioni che possono influenzare il corso della giustizia». Il presidente del parlamento turco precisa infine che «quando si parla di presunto golpe non si parla di una cosa di questi giorni ma di piani studiati 7-8 anni fa su cui c’è un’inchiesta». Ma dalla Turchia, nonostante le rassicurazioni del politico, continuano ad arrivare notizie di arresti e di interrogatori contro i vertici dell’esercito, ancora fedele ad Erdogan.
leato islamista il Movimento di Fethullah Gülen. Un’erosione nella popolarità dell’Akp (dal 47 per cento del 2007 è passato al 29 per cento di oggi) ha aggiunto una sensazione di impellenza a questo scontro, poiché esso punta a porre fine al ruolo monopartitico dell’Akp alle prossime elezioni.
Nel 2007, l’Akp ideò un’elaborata teoria del complotto, ricollegabile a Ergenekon, per arrestare circa duecento persone critiche dell’operato dell’Akp, inclusi ufficiali militari, con l’accusa di cospirazione volta a rovesciare il governo eletto. L’esercito reagì passivamente, così il 22 gennaio l’Akp alzò la posta ordendo una seconda teoria del complotto, un piano denominato Balyoz (Mazza) e diretto esclusivamente contro l’esercito. L’esercito negò ogni attività illecita e il Capo di stato maggiore Ilker Basbug, disse: «La nostra pazienza ha un limite». Ciononostante, il governo procedette, a partire del 22 febbraio, ad arrestare 67 ufficiali in servizio e in pensione, inclusi ex-capi dell’aeronautica e della marina militare. Finora sono stati incriminati 35 ufficiali. Pertanto l’Akp ha lanciato una sfida, lasciando alla leadership dell’esercito fondamentalmente due opzioni non allettanti: continuare ad accettare l’Akp e sperare che delle eque elezioni nel 2011 porranno fine a questo processo e lo ribalteranno; oppure preparare un colpo di stato, col rischio che gli elettori reagiranno violentemente e che aumenti la forza elettorale islamista. Il rischio potrebbe essere che offensive del tipo Ergenekon/Balyoz riusciranno a trasformare l’esercito da un’istituzione ataturkista ad una gulenista; oppure che il palese inganno dell’Akp spronerà i secolaristi a trovare la loro voce e la fiducia. In definitiva, la questione è la seguente: la sharia (la legge islamica) vigerà in Turchia o il Paese farà ritorno al secolarismo? L’importanza islamica della Turchia denota che l’esito di questa crisi avrà ovunque delle conseguenze per i musulmani. Il fatto che l’esercito sia dominato dall’Akp sta a significare che gli islamisti controllano la più potente istituzione secolare dimostrando dell’umma, che, per il momento, essi sono inarrestabili. Ma se l’esercito mantiene la sua indipendenza, la visione di Ataturk rimarrà viva in Turchia e offrirà al mondo musulmano un’alternativa alla valanga islamista.
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Il governatore potrebbe sfidare la presidenza Obama nel 2012
I giorni saranno più lunghi di 1,26 microsecondi
Texas, Perry stravince le primarie repubblicane
Il sisma in Cile ha spostato (di poco) l’asse della Terra
WASHINGTON. Il governatore
SANTIAGO. Come avviene in tutti i grandi terremoti, anche il sisma di 8,8 gradi della scala Richter di sabato scorso al largo delle coste del Cile ha spostato l’asse terrestre e modificato la durata del giorno. La differenza è stata calcolata tramite un modello matematico complesso da Richard Gross del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) di Pasadena, in California. Secondo Gross la zolla di Nazca, che subduce sotto quella sudamericana e ha generato il terremoto cileno, ha spostato masse verso l’interno della Terra. Come avviene nei pattinatori quando, durante la trottola, portano le braccia al petto e aumentano la velocità di rotazione, così capita al nostro piane-
in carica del Texas Rick Perry ha stravinto le elezioni primarie del partito repubblicano nel Lone Star State, lo “Stato della Stella solitaria”. Con uno schiacciante vantaggio di 21 punti percentuali sulla sfidante Kay Bailey Hutchison Perry correrà per un terzo mandato in novembre, dove sfiderà il democratico Bill White, ex sindaco di Houston. Le proporazioni della vittoria di Perry sono un segnale della potenza del messaggio politico antiWashington tra i conservatori. Durante la campagna il governatore ha caratterizzato la sfidante come una creatura politica contaminata dalla capitale, favorevole a scialaquare denaro pubblico e a salvataggi di Wall Street. Per quanto riguarda il presidente Obama, Perry lo ha sempre descritto come un socialista incline a violare i diritti degli Stati.
Molti, come Politico, si chiedono se questo curriculum non metta Perry in posizione per correre alla Casa Bianca nel 2012. La sua retorica incanala il sentimento di movimenti come quello dei Tea Party, che vuole la secessione dallo strapotere del governo centrale, e potrebbe colmare il vuoto tra l’ultradestra e repubblicani più
Confusione e incertezze nella nuova Europa Napolitano da Bruxelles chiede più coraggio e unità di Enrico Singer a nuova Europa è in una fase di rodaggio e, a volte, il motore s’inceppa. C’è troppa confusione, c’è incertezza». È deluso Giorgio Napolitano del grado di coesione della Ue a Ventisette, della sua capacità di decisione comune, del suo ruolo nel mondo e lo dice chiaramente. È deluso perché vorrebbe di più, da europeista convinto qual è. Sono parole, quelle del presidente della Repubblica, che esprimono concetti e preoccupazioni più volte già sottolineati. Ma che assumono un carattere particolare perché questa volta le ha proununciate a Bruxelles, una città dove ha vissuto otto anni intensi della sua attività politica in due mandati da eurodeputato (1989-1992, 1999-2004) e da presidente della Commissione Affari costituzionali dell’Europarlamento. E dove ieri ha incontrato i vertici delle istituzioni europee - dal presidente della Commissione, Manuel Barroso, a quello del Consiglio, Herman Van Rompuy, al presidente del Parlamento europeo, Jerzy Buzek - nella giornata centrale della sua visita che si concluderà oggi. Da ogni incontro un appello a superare le difficoltà, a mettere da parte le polemiche perché, per ognuno dei Paesi della Ue, il futuro è soltanto in un’Europa unita che funzioni. Come la crisi drammatica della Grecia dimostra.
L
ma della governance economica», come Napolitano ha anche scritto in una lettera inviata al presidente tedesco, Horst Kohler, sulle prospettive della Ue in cui ha lamentato «l’incerta partenza del nuovo corso istituzionale delineato dal Trattato di Lisbona».
È vero che siamo in rodaggio, ma questa fase «non può essere lunga» e, soprattutto «deve apparire presto chiara la direzione in cui ci si intende muovere» che, per Giorgio Napolitano, deve essere «un più deciso rilancio dello spirito dell’integrazione». L’invito a superare i vincoli degli interessi nazionali è evidente ed è arrivato proprio nel giorno in cui il presidente della Commissione ha lanciato la “Strategia Europa 2020”che liberal aveva anticipato sabato scorso. È un piano decennale che dovrebbe riparare il disastro della “Strategia di Lisbona” che fu varata nel 2000 e che avrebbe dovuto trasformare l’Europa nel mercato più competituto del mondo entro il 2010. Anche questo nuovo piano rischia, però, di diventare un libro dei sogni se agli obiettivi fissati aumentare al 75 per cento il livello di occupazione e al 3 per cento del Pil gli investimenti in ricerca - non si combineranno strumenti di governance adeguati. Proprio quegli strumenti richiamati dal presidente Napolitano anche nella lettera a Horst Kohler e ripetuti ai suoi interlocutori negli incontri di ieri. Oggi per Giorgio Napolitano altri colloqui e un incontro con gli esponenti della comunità italiana a Bruxelles che, nel programma iniziale, era previsto nella sede della nostra ambasciata, ma che si svolgerà nell’albergo dove il Presidente della Repubblica ha stabilito il suo quartier generale. Un’eccezione alle tradizionali regole che è stata dettata da una situazione imbarazzante. L’ambasciatore, Mario Siggia, è stato richiamato a Roma dalla Farnesina per consultazioni perché il suo nome è nelle intercettazioni telefoniche sulla vicenda della falsa residenza in Belgio di Nicola Di Girolamo che, proprio ieri, si è dimesso da senatore.
L’incontro con Barroso che aveva appena lanciato la “Strategia 2020”: un piano che, senza coesione, rischia un altro flop
vicini all’establishment come Mitt Romney o Tim Pawlenty. Solamente lunedì il governatore diceva di essere categoricametne disinteressato alla presidenza, ma ieri il suo messaggio di vittoria è apparso particolarmente mirato al governo. «Smettetela di spendere i nostri soldi, smettetela di controllare le nostre vite e le nostre aziende», ha detto, «È chiaro che l’amministrazione Obama e i suoi alleati hanno già il Texas nel mirino». Questo atteggiamento potrebbe garantirgli l’appoggio dello Stato, uno dei più popolosi dell’Unione americana. Aumenta infatti il sentimento secessionista nel Paese, soprattutto negli Stati “rossi”, quelli repubblicani.
Con elementi autocritici, anche. Perché se è vero che l’Italia fa bene a rivendicare la necessità che continuino ad arrivare al Sud del Paese i fondi strutturali della Ue, «dobbiamo avere la capacità di analizzare anche criticamente che cosa è stato fatto con questi soldi», ha detto Napolitano parlando a fianco di Barroso. «Un’analisi critica e, io che sono meridionale, dico autocritica», ha aggiunto, perché ci vuole un «più severo uso di queste risorse se vogliamo un ulteriore sviluppo dell’impegno europeo». Impegno e serietà prima di tutto, insomma, per rilanciare l’Unione che si è data nuove regole e nuove istituzioni, ma che non ha ancora trovato il passo giusto. «C’è bisogno di un chiarimento risoluto e coraggioso sul te-
ta. Masse più vicine al centro della Terra determinano una maggiore velocità di rotazione e quindi un accorciamento della durata del giorno. Per la precisione, hanno calcolato Gross e i suoi colleghi del Jpl, il giorno si è accorciato di 1,26 microsecondi, ossia 1,26 milionesimi di secondo. Una differenza molto piccola, ma permanente, che è addirittura sotto la soglia dell’osservazione diretta strumentale, che è di 5 microsecondi. Il terremoto ha avuto conseguenze anche sull’asse di rotazione che, secondo Gross, si è spostato di 2,7 millisecondi di arco, pari a 8 centimetri.
Per Enzo Boschi, presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, l’asse terrestre si è spostato di ben 12 centimetri. Anche il terremoto di Sumatra del 26 dicembre 2004, che è stato più forte (9,1 gradi Richter) determinò importanti cambiamenti: una diminuzione della durata del giorno di 6,8 microsecondi e uno spostamento dell’asse terrestre di 2,32 millisecondi di arco, pari a circa 7 centimetri. La differenza dello spostamento dell’asse terrestre del terremoto cileno rispetto a quello indonesiano è dovuto a due fattori: distanza dall’equatore e amgolo della faglia colpita.
cultura
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Cinque sensi. Da anni, ormai, nel mondo si studia il modo in cui i bimbi percepiscono bellezza ed estetica: alle volte toccare conta più che vedere
L’arte vista dai bambini Seguendo la lezione di Bruno Munari, anche l’Italia scopre il piacere di aprire i musei ai più piccoli di Livia Belardelli l museo per giocare e divertirsi. Forse non sarà più un miraggio. Anche per i bambini italiani sta diventando possibile. Non più proteste e visi lunghi dunque quando genitori o insegnanti annunciano una gita al museo? «Educare all’arte per educare alla vita», questo lo slogan che sintetizza la volontà dei dipartimenti educativi sorti in alcuni musei italiani. Un proposito che oggi sembra più un imperativo categorico e che intende traghettare l’istituzione museo verso un reale dialogo con i bambini considerati troppo spesso appendici del visitatore adulto. «È una strategia rivoluzionaria quella di lavorare sui e con i bambini come futuri uomini» ripeteva Bruno Munari, artista e designer, ma anche intuitivo educatore. Proprio a lui si deve il merito di aver “inventato” e sviluppato la didattica dell’arte attraverso i laboratori Giocare con l’arte, basati appunto sul gioco, la fantasia e la creatività ma soprattutto sul fare, memore dell’antico proverbio cinese «se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco».
A
gnanti. I cambiamenti del museo del XXI secolo hanno fortunatamente investito anche il settore educativo attuando una metamorfosi in grado di trasformare i luoghi dell’arte da contenitori adatti unicamente alla conservazione in centri vitali, polifunzionali e interattivi. Si è compreso che per far “parlare” le opere d’arte, per trasmettere cultura, non basta una sezione educativa ma è necessario rendere disponibile l’intero museo. E la chiave è proprio questa: il passaggio dal “museo
enciclopedia”, immobile, polveroso e anacronistico al “museo manuale”, meno congestionato e funzionale, in grado di guidare in maniera attiva alla comprensione delle opere e di rendere la didattica davvero efficace. Il luogo dell’esposizione è così diventato contenitore di spazio sociale, un animale dialogico che può comunicare in maniera energica attraverso un ventaglio di proposte a un pubblico pronto alla ricezione. E i bambini, più degli adulti, necessitano di una giusta chiave di lettura per recepire e apprezzare l’arte e mettere in atto un proficuo scambio comunicativo.
Qui entrano in gioco i servizi educativi che hanno un compito davveimportante, ro educare all’arte i fruitori di domani. Ponti d’accesso per i più piccoli (e non solo), forniscono ai bambini gli strumenti comunicativi per entrare in contatto con l’opera attraverso laboratori e percorsi dedicati. Un modo per seminare per il futuro, coltivare e stimolare la trasformazione della nostra società attraverso la cultura, per abbattere gli steccati intellettuali, per assottigliare le differenze tra classi sociali, in grado di facilitare il dialogo tra coloro che vengono da mondi diversi ma anche un modo per valorizzare il vastissimo patrimonio artistico del nostro paese. Così il lavoro dei servizi, ma anche quello dei musei interamente dedicati ai bambini, diventa fondamentale base di crescita culturale tanto più in un contesto che vede la scuola sempre più in difficoltà rispetto a quest’ambito.
Gli esperimenti più importanti sono il Muba di Milano, «La Città» di Genova, l’«Explora» di Roma e «L’Officina» di Napoli
Oggi, nonostante un ritardo rispetto ai paesi francofoni e anglosassoni, la didattica museale italiana si sta svegliando da un lungo sonno, dando vita a proposte efficaci. Per troppo tempo nei musei si è esposto senza comunicare al pubblico dei più piccoli. Trattati alla stregua di adulti in miniatura, non è stata data loro la possibilità di fruire davvero della proposta espositiva in maniera adeguata e soddisfacente rendendo spesso la visita al museo una terribile tortura operata da genitori sadici e diabolici inse-
E allora andiamo a vedere cosa accade in Italia, quali sono
In queste pagine, alcune opere di Bruno Munari, uno dei nostri artisti più eclettici che si è sempre dedicato all’esplorazione del rapporto tra opera d’arte e percezione sensoriale. Seguendo le sue intuizioni, stanno nascendo anche in Italia alcuni musei espressamente dedicati ai bambini
i luoghi vocati alla didattica dell’arte. Per i più piccoli il primo approccio, prima del grande salto al museo, quasi la prova generale, sono i Children’s museums. Luoghi ideati espressamente a misura di bambino, nati negli U.S.A. nei primissimi anni del ‘900, sono strutture molto diverse dal museo canonico ad iniziare dall’assenza di vere (e preziose) opere d’arte e dallo stravolgimento dell’imperativo categorico «guardare ma non toccare». Qui i bambini sono stimolati a toccare, a interagire con gli oggetti, a esplorare in libertà senza divieti di alcun genere ma con l’“obbligo”di fare esperienza di ciò che hanno intorno. Restano luoghi di acquisizione del sapere, in questo non differiscono dai musei tradizionali, ma cambia radicalmente l’approccio che si allinea alla visione munariana del fare. In Italia i più importanti Children’s museums sono il Muba di Milano, La Città dei Bambini a Genova, Explora – il Museo dei Bambini di Roma e L’Officina dei Piccoli a Napoli. Addentrarsi in un museo dei bambini è un’esperienza curiosa e affascinante. Non vigono divieti, è un luogo d’apprendimento con le sembianze del Luna Park. Qui non solo la vista ma anche il tatto, l’olfatto, il gusto, l’udito concorrono a immergere il bambino in un’esperienza sensoriale totale. Varcando la soglia di Explora a Roma ci si accorge su-
bito di trovarsi in un posto “diverso”, niente quadri alle pareti ma quattro spazi tematici. In un battibaleno il piccolo visitatore si ritrova nel ventre materno e perlustra il corpo umano nell’area dedicata all’Io, oppure può improvvisarsi pompiere o entrare nel caveau della banca nell’area della Società. Nello spazio Ambiente invece si impara la raccolta differenziata, l’importanza delle energie rinnovabili per poi, magari, fare un salto nella zona Comunicazione e pasticciare con i microfoni dello studio televisivo o tra i giornali di una redazione.
Tanti scenari anche per gli altri Children’s museums disseminati in Italia, dal bosco incantato della Città dei bambini di Genova alle mostre dedicate a Munari e al Colore al Muba di Milano. In più il Muba ha reso le sue mostre itineranti e su richiesta è possibile ricreare gli scenari e i laboratori anche in luoghi esterni al museo. Fatta incetta di Children’s Museums viene voglia di avventurarsi nei musei tradizionali. Tra le eccellenze in questo campo ci sono il Palaexpo di Roma – che comprende Palazzo delle Esposizioni e Scuderie del Quirinale –, il Mambo di Bologna e il Mart di Trento e Rovereto. «Il lavoro che facciamo» ci racconta Paola Vassalli, responsabile del dipartimento educazione del Palazzo delle Esposizioni di Roma «è importante per formare i cit-
cultura
tadini di domani, con la consapevolezza che si può vedere il mondo andando più in profondità e trovando il senso e i significati delle cose intorno a noi. Per questo crediamo che l’educazione all’arte sia importante, perché non è solo educazione al bello ma al saper vivere». Il binomio arte–vita torna anche nelle parole di Carlo Tamanini, responsabile della Sezione Didattica del Mart: «La frase di Alberto Giacometti,“Amo l’arte ma la vita mi interessa di più. L’arte è un modo per vedere”, accompagna ogni brochure del progetto Scuola-Museo del Mart. È il nostro modo per ribadire la volontà di intrecciare arte e vita, esperienze al museo, sul territorio, con se stessi e negli ambiti più vari del quotidiano». L’arte è quindi strumento, quasi pre–testo, per educare all’esistenza, è il caposaldo di tutti quei musei italiani che, puntando su servizi educativi all’avanguardia, credono nell’utilità della formazione artistica dei più piccoli. Ogni museo con i propri percorsi. Sempre Paola Vassalli ci racconta del nuovo spazio dedicato ai servizi educativi di Palazzo delle Esposizioni e Scuderie del Quirinale che vanta un intero piano dedicato esclusivamente alle attività per i più piccoli con un Atelier per i laboratori e il Forum che è sala per mostre, convegni, spazio multimediale e ospita lo scaffale d’arte. «È una biblioteca di libri selezionati nel pano-
rama internazionale sull’arte e sulla didattica» spiega la Vassalli «e viene usato come strumento di avvicinamento all’arte ma anche come supporto per il percorso grandi mostre». Il percorso nasce dalla sinergia tra la visita animata e la successiva fase di laboratorio. «La visita è necessaria per l’incontro con l’opera, per comprendere ciò che opera e artista hanno da dirci. Poi c’è l’attività in laboratorio, per rielaborare quanto osservato e dare spazio alla libera creatività». Anche gli altri musei utilizzano una formula simile. Visita animata – che ci spiega Cristina Francucci, responsabile del Dipartimento Educativo del MAMbo di Bologna, si differenzia dalla visita guidata canonica per l’uso dell’interattività e il coinvolgimento del bambino attraverso l’utilizzo di supporti didattici – e laboratorio. Ogni museo ha i propri punti di forza. Così al Palazzo delle Esposizioni vengono forniti i Dossier Pedagogici, scaricabili direttamente sul sito e utili per genitori e insegnanti al fine di organizzare la visita e stimolare l’interesse del bambino. Proposta curiosa e seducente anche i kit d’artista della MAMbo Children’s library. «Si tratta di kit dedicati ad artisti famosi. Sono scatole che contengono materiali che servono ad intro-
durre al bambino la biografia dell’artista in modo giocoso e divertente». Come borse di Mary Poppins contengono di tutto, immagini, spiegazioni e oggetti per avvicinarsi all’artista. Un’altra iniziativa stimolante di cui ci parla la Francucci è Estate al MAMbo che permette ai bambini di passare un’intera settimana a contatto
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roscienza coinvolti nell’esperienza artistica, gli effetti del contesto sulle emozioni, le differenze tra i meccanismi percettivi in relazione ad opere originali e copie, ecc. É un modo diverso per indagare i meccanismi di apprendimento nel mondo dell’arte che ha portato alla progettazione di laboratori didattici – per ora solo per le scuole secondarie ma dall’anno prossimo anche per i più piccoli – come Percepire, vedere,
Alla Fiera di Milano nascerà uno tra i più grandi centri culturali per i piccoli d’Europa guardare, osservare e Con gli occhi del cervello.
con l’arte con giornate tematiche come quella dedicata all’“en plein air” e la realizzazione di una mostra finale curata dai bambini. Al Mart invece c’è spazio anche per la neuroscienza. In partnership con il Cimec (Centro Interdipartimentale Mente e Cervello Center for Mind/Brain Sciences) vengono svolte ricerche per approfondire gli aspetti della neu-
Se le proposte sono tante, suggestive e attraenti non solo per i genitori che ne comprendono il senso educativo ma soprattutto per i piccoli destinatari – che si divertono come matti tra colori, storie e immagini –, nel lavoro di tutti i giorni i servizi educativi devono affrontare molte difficoltà. «Non ci sono investimenti adeguati e nemmeno un profilo professionale tutelato. I servizi educativi sono un impegno rilevante per un museo e non possono essere
abbandonati nelle mani dei servizi aggiuntivi. Dovrebbe esserci una sinergia tra pubblico e privato in maniera che il privato possa fornire i servizi e il pubblico sia in grado di garantire la formazione e la qualità dell’offerta con un coordinamento forte» spiega la Vassalli. Anche la Francucci si lamenta della situazione attuale, della difficoltà di inserire nell’organico le persone che collaborano a rendere efficace il settore educazione del MAMbo mentre il Mart punta il dito sui nuovi scenari della scuola italiana, contrassegnati dalla marginalizzazione dell’arte, troppo spesso considerata accessoria rispetto ad altri ambiti disciplinari. «Mi viene in mente la frase del filosofo cinese Zhuangzi: “tutti conoscono l’utilità dell’utile, ma pochi quella dell’inutile”» afferma Tamanini, «e infatti è ciò che apparentemente sembra inutile che spesso produce ciò che è più utile alle nostre esistenze, al di là dei miraggi e dei luoghi comuni della nostra epoca». Nonostante le difficoltà però sembra davvero che l’Italia marci nella direzione giusta. Così, tra le tante iniziative, piccole e grandi, che fioriscono ogni giorno nei musei, c’è spazio per un progetto di ampio respiro come il futuro Palazzo delle Scintille (ricavato dal recupero di un padiglione della Fiera di Milano) che diventerà uno trai più grandi centri culturali per bambini d’Europa.
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spettacoli
Cinema. Bistrattato da critica e pubblico, “La strada” di Hillcoat (ispirato al romanzo di McCarthy) fatica a uscire in Italia
Questo non è un film per tutti di Pietro Salvatori uando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l’inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo. La sua mano si alzava e si abbassava a ogni prezioso respiro. Si tolse di dosso il telo di plastica, si tirò su avvolto nei vestiti e nelle coperte puzzolenti e guardò verso est in cerca di luce ma non ce n’era». Nell’incipit c’è già tutto quello che bisogna sapere su La strada, capolavoro dello scrittore nativo di Providence, nel Rhode Island, Cormac McCarthy, vincitore di un Pulitzer proprio per le serrate righe del suo romanzo apocalittico. Un padre e un bambino, personaggi senza nome, che vagano in un mondo cupo, morto, in cui i pochi sopravvissuti si mangiano l’un l’altro. Un mondo distrutto da una non meglio specificata catastrofe, in cui la visione di un insetto, di un germoglio su una pianta è un privilegio raro.
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Nonostante l’ambientazione sia cupa, le vicende dei protagonisti rasentino la soglia della disperazione, La strada è uno dei più potenti inni alla vita e alla speranza della letteratura contemporanea. Due vite che si legano l’un l’altra, che bramano un anelito di infinito come unica possibilità di spiegazione per il dramma dell’esistenza. «Noi portiamo il fuoco?» è l’incessante domanda di un bambino che ha la preoccupazione di essere annoverato tra “i buoni”, che trae un insospettabile vigore dal rapporto filiale con un padre per il quale la prova inconfutabile dell’esistenza di Dio è la presenza di quella fragile e luminosa presenza donata al suo cammino. McCarthy è anche l’autore di quel Non è un paese per vecchi portato alla ribalta del grande pubblico dal magnifico film dei fratelli Cohen. Ma se la storia dello sceriffo Bell e compagni era scritta con uno stile che rasentava quello di un soggetto cinematografico, prestandosi, pur con alcune forzature, in modo perfetto per la conversione in una sceneggiatura, lo stile profondo, concettuale, potente e scarno allo stesso tempo, con il quale si dipana La strada si presentava fin da subito ostico per una traduzione per il grande schermo. Eppure Nick Wechsler, acquistati i diritti, si è gettato nell’impresa. Ingaggiato John Hillcoat, regista di videoclip di lungo corso, firma di tantissimi prodotti di Nick Cave, da subito coinvolto insieme a Warren
Ellis nella composizione della colonna sonora, ha iniziato a pensare al cast, forte dei 20 milioni di dollari racimolati per l’impresa. Individuato Viggo Mortensen come l’ideale interprete quale padre, vestiti polverosi, tosse profonda,
to, irriconoscibile nelle vesti di un vecchio straccione, sopravvissuto per qualche scherzo del destino. Ma la vera ciliegina sulla torta è stato l’ingaggio della splendida Charlize Theron come madre e moglie della coppia di pro-
La scorsa settimana però il piccolo distributore Videa-Cde ha acquistato i diritti per il lancio della pellicola nelle nostre sale. Ma il rischio è che venga proiettato d’estate, durante le vacanze barba a mascherarne (ma non troppo) i tratti somatici, e nel piccolo Kodi SmitMcPhee il bambino perfetto per dare corpo ad un personaggio complesso per come lo costruisce McCarthy, Wechsler è riuscito anche a convincere Robert Duvall a partecipare al proget-
A fianco, lo scrittore Cormac McCarthy e, sopra, la copertina del suo romanzo “La strada”. In alto, un fotogramma dell’omonimo film di Hillcoat, ispirato al libro di McCarthy
tagonisti. Sì perché la vera licenza (poetica?) della sceneggiatura, il punto focale di discrasia dalle pagine del libro che ha fatto storcere, e non senza ragioni, il naso ai puristi e ai fans del regista, è l’inserimento, attraverso l’utilizzo di flashback, di una dolente figura femminile, quella di una donna che non sopporta lo strazio di dover vedere la propria creatura crescere in un mondo senza speranza. Una decisione intrapresa forse per avvicinare il pubblico ad una storia complicata, forse per spezzare la monotonia volutamente claustrofobica delle pagine del libro, che lavorano sull’universo interiore del padre e del figlio piuttosto che sull’apocalisse che li circonda.
Ma se queste erano le intenzioni, le bionde chiome della bella Theron si sono rivelate un boomerang clamoroso per il film di Hillcoat. The road, questo il titolo originale del libro come del film, si sfarina nei confronti della poderosa compattezza del romanzo, disperde, attraverso le scelte disumane della donna, quella carica di splendente luminosità che irrompeva tra le righe di McCarthy. E se gli estimatori hanno per un verso bollato la pellicola quale tradimento dell’opera dello scrittore, di con-
verso non è bastato l’inserimento di una figura femminile per rendere più digeribile la storia al pubblico profano. Morale della favola: incasso inferiore ai costi di produzione, flop clamoroso di critica e pubblico, inutile passaggio quale evento speciale all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Una vicenda troppo cruda, deprimente, si sono scherniti i distributori italiani. E così, se è stato il pubblico a decretare il flop negli States, agli spettatori nostrani una simile opportunità potrebbe non toccare mai.
Eppure intendiamoci: per quanto sgangherato e dispersivo, se confrontato alla straordinaria solidità del libro, il film di Hillcoat racconta una storia che ha la dignità di essere vista, assimilata e giudicata, conservando qua e là quegli sprazzi di luce che sono la vera forza della narrazione di McCarthy. Ma se fino a pochi giorni fa le speranze di vederlo sui grandi schermi del Belpaese erano ridotte al lumicino, è della settimana scorsa la notizia che la VideaCde, piccolo distributore indipendente, ha finalmente acquistato i diritti per il lancio in Italia. Nessuna notizia per ora sulla data, ma il rischio che passi inosservato calendarizzato in periodi in cui alla sala solitamente si preferisce un più salubre ombrellone in riva al mare è forte. Certo è che la Videa non ha paura di adottare progetti scomodi. È sua, infatti, la “responsabilità” dell’uscita, l’anno scorso, di Martyrs, uno degli horror più disturbanti e violenti degli ultimi anni. L’unica cosa di cui siamo certi, è che La strada, quanto meno per la pubblicità che potrebbe fare ad uno dei testi più belli degli ultimi anni, è un film che deve poter essere visto anche dalle nostre parti.
spettacoli tavolta c’è di mezzo la famiglia, o meglio la sorellastra Janie che gestisce con pugno di ferro la preziosa eredità del leggendario chitarrista di Seattle: e dunque Valleys Of Neptune, l’album che esce nei negozi venerdì inaugurando il contratto con la Sony, può legittimamente fregiarsi del titolo di “nuovo” disco di Jimi Hendrix davanti agli occhi dei fan troppo spesso buggerati da prodotti di dubbia provenienza e un po’ truffaldini. Dal giorno della tragica scomparsa del rocker afroamericano, in quel lontano 18 settembre del 1970, ex manager, ex agenti ed ex amici hanno avuto poca pietà e poco rispetto nei suoi confronti, erigendo sulle ceneri del caro estinto un business che da quindici anni si è trasformato in una guerra senza esclusione di colpi tra familiari e “pirati” (fu il papà di Jimi, James detto “Al”, a creare la fondazione Experience Hendrix nel ’94 con l’intento di ripulire il mercato e di assicurare ai legittimi eredi i benefici economici dell’immortale brand). La nuova collezione, dodici registrazioni mai pubblicate prima su Lp o Cd, garantisce quantomeno rigore filologico e standard di qualità professionale, anche se non gli si può richiedere l’organicità e la coesione di un progetto compiuto.
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ambientato al Festival di Glastonbury, pompa sangue funky nelle dodici battute dell’originale; Hear My Train A Comin’ urla come Voodoo Chile allontanandosi anni luce dalla timida rilettura per dodici corde acustica emersa nella colonna sonora del film Jimi, Sunshine Of Your Love, spesso proposta in concerto quell’anno, è più veloce e aggressiva dell’originale dei Cream di Eric Clapton (ma dopo qualche minuto perde la strada sciogliendosi in un’improvvisazione).
S
Il disco riflette bene, però, ciò che Hendrix era in quel fatidico 1969, «l’anno più burrascoso della sua vita e della sua celebrata carriera», come scrive John McDermott nelle dettagliate note di copertina: un uomo e un musicista ubriacato e spaventato dallo stardom, adrenalinico ma incerto sul da farsi, in rotta con musicisti e produttori (il bassista Noel Redding, il mentore Chas Chandler), tentato dall’avventurosa jazz fusion di Miles Davis e da un blues sempre più cosmico, sempre meno appartenente a questo mondo. Più vicino, semmai, a Nettuno o al “Delta del Sud di Saturno”, ai
Musica. Domani esce “Valleys of Neptune”: dodici registrazioni inedite tra il ’69 e il ’70
Il gioiello nascosto di Jimi Hendrix di Alfredo Marziano
L’album non può avere la coesione di un progetto compiuto, ma le tracce sono selezionate con rigore e professionalità pianeti meno conosciuti e più misteriosi del sistema solare.
Gli album classici, Are You Experienced?, Axis: Bold As Love e il doppio Electric Ladyland (a proposito: escono in contemporanea in versione deluxe, con un dvd/documentario
abbinato alle tracce audio rimasterizzate), erano già acqua passata e l’irrequieto Jimi mulinava le braccia in direzioni diverse - Valleys Of Neptune lo coglie durante quella fase creativa e disordinata, albe e nottate trascorse negli studi di registrazione di Londra e di New York ad abbozzare su nastro nuove idee o provare col gruppo il repertorio da proporre in concerto. Poche novità, qualche sorpresa. Vecchi cavalli di battaglia come Fire e Stone Free, lato b del suo primo 45 giri nel 1966, qui suonano meno urgenti
e più dilatati, più colorati e meno energici. L’hard blues elettrico è ancora il suo credo, tra pezzi autografi (il celebre “lento” Red House in versione rivisitata, Lover Man ispirata a Rock Me Baby di B.B. King) e cover di lusso: Bleeding Heart di Elmore James, per cui il regista Julien Temple ha confezionato un videoclip virtualmente
Il disco riflette bene ciò che Hendrix era nel 1969: un uomo e un musicista ubriacato e spaventato dallo stardom, adrenalinico ma incerto sul da farsi, in rotta con i produttori, tentato dall’avventurosa jazz fusion e da un blues sempre più cosmico
Il resto sono rarità che rimandano segnali contraddittori: la title track, per la prima volta ascoltabile nella versione incisa dalla nuova Experience con Billy Cox al basso, è il sofferto risultato di un processo di stratificazione in quattro tempi (febbraio e settembre 1969, maggio e giugno 1970) che la dice lunga sui dubbi esistenziali e professionali del musicista dopo la leggendaria apparizione al festival di Woodstock; Mr. Bad Luck, Lullaby For The Summer e Ships Passing Through The Night (dall’ultima session con Redding, 14 aprile 1969) sono semilavorati che solo mesi dopo prenderanno la forma di canzoni consegnate ai posteri sotto altri titoli; la dolente Crying Blue Rain, con il percussionista Rocki Dzidzornu già in studio con gli Stones per Sympathy For The Devil, accenna a nuovi percorsi in fieri. A dispetto del certosino lavoro di restauro compiuto da Eddie Kramer (il tecnico del suono storico di Hendrix), unendo i dodici punti di Valley Of The Neptunes non si ricostruisce una figura completa; piuttosto uno schizzo sommario, per quanto stuzzicante, di quel che frullava allora nella testa di Jimi: ragazzo timido, folgorato dalle sue visioni artistiche e sballottato tra troppi padrini e padroni (il libro di un vecchio roadie, James “Tappy” Wright, sostiene ora che a provocare la sua morte fu una mistura letale di pillole e vino somministratagli ad arte dall’ex manager Mike Jeffery: preoccupato di vederselo sfuggire per sempre e desideroso di intascare la sua assicurazione sulla vità. Chissà, anche lui è morto tanto tempo fa e non può più parlare). Dall’ascolto del disco esce vincitrice, una volta ancora, la sua fiammeggiante chitarra elettrica, lo strumento più rivoluzionario e innovativo che la storia del rock abbia mai conosciuto, e che qui tenta nuove strade giocando con l’effetto Leslie o con i pedali appositamente costruiti per Hendrix dal mago dell’elettronica Roger Mayer. Mentre queste canzoni in divenire hanno forse più valore storico-collezionistico che artistico, e probabilmente mai avrebbero superato il rigoroso controllo di qualità esercitato dal titolare.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Zaia boccia lo stato di crisi per l’agricoltura pugliese Sono scontento e profondamente indignato per la bocciatura netta alla richiesta di stato di crisi per l’agricoltura pugliese giunta dal ministro delle Politiche Agroalimentari Luca Zaia. È veramente deplorevole questa ennesima dimostrazione di un atteggiamento antimeridionalista e totalmente condizionato dai voleri della Lega Nord adottato dal governo nazionale. Evidentemente per Zaia, come per gran parte degli esponenti del governo centrale, esistono crisi di serie A e crisi di serie B, e dunque regioni prioritarie e regioni nei confronti delle quali si può anche omettere attenzione e sensibilità. Le emergenze, intanto, per lavoratori e operatori del comparto agricolo non accennano a svanire: mentre assistiamo a quotidiani e gravi problemi per tutti gli addetti ai lavori qui in Puglia, il ministro Zaia boccia o promuove come se fosse un professore di quelli che mal celano preferenza per questo o per quell’alunno. Credo fermamente sia ora di svegliarsi: non ci si può più permettere il lusso di temporeggiare. Servono provvedimenti urgenti, mirati e concreti.
Antonio Scalera
CORRUZIONE E PRESCRIZIONI. COME SI DISTRUGGE UN PAESE L’operazione è riuscita ma il paziente è morto. Parafrasando, si potrebbe così definire la sentenza delle sezioni riunite della Corte di Cassazione che, pur mantenendo l’accusa di corruzione, ne ha prescritto il reato per decorrenza dei termini. Ci riferiamo ai processi Fininvest-GdF e All Iberian, che hanno visto coinvolti l’avvocato inglese David Mills e il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Prescrizione intervenuta grazie ad una legge voluta e votata dalla maggioranza di centrodestra del Parlamento, che ha ridotto i termini di prescrizione da 15 a 10 anni e che ha visto stralciata la posizione del presidente Berlusconi con l’approvazione del cosiddetto “lodo Alfano”, poi dichiarata incostituzionale. C’è, inoltre, il caso del senatore Nicola Di Girolamo che, secondo l’accusa è stato eletto con il sostegno di una organizzazione malavitosa, e che dichiarò una falsa
residenza per poter concorrere alla elezione senatoriale. Anche in questo caso la maggioranza di centrodestra, in un primo momento, salvò il proprio senatore più di un anno fa, bloccando la procedura che l’avrebbe fatto decadere dalla carica per falsa dichiarazione di residenza. Ci sono, ancora, le questioni che riguardano gli appalti dei grandi eventi che vedono coinvolti imprenditori privati e alti funzionari dello Stato, magistrati compresi. Così si distrugge un Paese. Si distrugge la credibilità delle istituzioni che qualche cittadino ha, ancora; si distrugge la considerazione delle istituzioni europee e internazionali; si consolida un processo di degrado complessivo di un Paese che vive di furbizie, di furti, di malaffare, di raccomandazioni, di tangenti, di compari, di favori, e di quant’altro un Paese civile dovrebbe aborrire. Siamo messi male, insomma. Ci vorranno decenni per risollevarci.
Primo Mastrantoni
Scultura di capelli La vostra chioma ha bisogno di una spuntatina? Prima di tagliare pensateci bene, potreste perdere la possibilità di realizzare complicate “impalcature” come questa. In realtà, quella che vedete è un parruccone d’alta moda, realizzato dallo stilista francese Charlie Le Mindu
ANCORA ALTRE VITTIME Un alto italiano è caduto sotto il fuoco in Afghanistan, e i clamori di un tempo, fatti di proteste e bandiere contro lo sforzo dei nostri soldati, non si vedono. Nel contempo, però, occorre ribadire che i nostri valorosi militari non sono supportati a dovere dall’organizzazione e dalla gestione da
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
parte della Nato o affini. Sembra che si lavori per due scopi distinti, il primo dei quali, svolto dai nostri ragazzi, è sicuramente quello di mantenere una pace duratura, difendendo una popolazione inerme, vittima di uno Stato atavico che si perde nella notte dei tempi.
Bruno Russo
dal ”New York Times” del 03/03/10
L’orbita cinese di Mark McDonald l nome immaginifico ne tradisce l’origine cinese: Palazzo paradisiaco. È lo stadio iniziale di quella che diventerà la prima stazione spaziale di Pechino. Verrà messo in orbita entro l’anno prossimo, assicurano fonti ufficiali. Si tratterà di un laboratorio orbitale che in cinese mandarino si chiamerà Tiangong-1. Inizialmente servirà come nave appoggio per altri moduli spaziali, come si legge dai lanci dell’agenzia ufficiale cinese Xinhua.
I
Un modello di questa stazione spaziale era già stato presentato pubblicamente durante le celebrazioni per il nuovo anno. Lungo circa trenta piedi (poco più di nove metri, ndr) dovrebbe pesare otto tonnellate e mezzo, con un equipaggio di tre uomini, che da quelle parti chiamano taikonaut. L’agenzia spaziale cinese ha annunciato di avere in programma tre lanci per il prossimo anno, per l’avvio della costruzione delle strutture della prima base spaziale. Nell’agenda a lungo termine di Pechino c’è la costruzione di una stazione da venti tonnellate che dovrebbe col tempo inglobare la Tiangong-1 e poi una missione – a parte – nel 2022, diretta sulla Luna. Il Paese di Chung Kuò ha lanciato con successo il suo primo satellite nell’aprile del 1970. Un aggeggio chiamato Dong Fang Hong-1 – tradotto significa l’Oriente è rosso – che fu mandato in orbita con un vettore Lunga marcia-1, altro nome evocativo. Il primo modulo con uomini a bordo fu invece lanciato nel 2003, facendo 14 rivoluzioni intorno alla Terra. La prima passeggiata spaziale seguì diciotto mesi dopo. Gli esperti aerospaziali, come quelli militari, affermano che il programma spaziale cinese
abbia fatto un balzo in avanti negli ultimi anni. Specialmente da quando hanno testato un sistema antisatellite nel 2007. Il programma aveva previsto l’abbattimento di un loro satellite meteorologico in un orbita a 540 miglia dalla Terra, con un missile balistico. Un’operazione diretta a inviare un messaggio ai loro competitor principali gli Stati Uniti. All’interno funziona ancora il modello di peaceful rise, ma la faccia nascosta del potere cinese «tiene ben celati gli aspetti più aggressivi della politica di Pechino» spiega Chong Pin-Lin, un analista militare di Taiwan. «Preferiscono parlare di pace e diplomazia, ma la ricerca – ha poi aggiunto – su nuove armi letali non è mai stata così intensa come oggi». Charles P. Vick un analista di GlobalSecurity.org ha descritto in un documento come nel programma spaziale cinese «il progetto della stazione spaziale abbia vinto la priorità rispetto alla missione lunare».
A Pechino insistono sempre sulle intenzioni pacifiche del loro programma spaziale, ma al capo di stato maggiore dell’Aeronautica, il generale Xu Qiliang, qualche tempo fa sfuggì un commento, forse non voluto: «la competizione militare ora si è spostata nello spazio. Questo cambiamento fa parte di una tendenza dominante oggi. È un’espansione storicamente inevitabile» aveva affermato a novembre
dell’anno scorso in un’intervista con i media nazionali. «In un certo senso se controlli lo spazio, puoi controllare la terra e il mare, e ti puoi trovare in una posizione di vantaggio» aveva poi puntulizzato il genrale cinese. Allo stesso tempo i pianificatori del Pentagono hanno espresso perplessità e preoccupazioni sulle vere intenzioni della Cina. «Sapere dove vogliono andare, quale siano i loro obiettivi, sono alcune delle cose che molte persone vorrebbero conoscere meglio» ha affermato il generale Kevin P. Chilton, a capo del Sac (Strategic air command, che controlla la parte aerea dell’arsenale atomico, ndr) a seguito delle dichiarazione del generale Xu.
«Certamente stanno avviandosi a grande velocità verso un miglioramento delle loro capacità. Chiaramente, penso che tutti noi dovremmo comprendere quanto lo spazio sia diventato un dominio da contendersi. Di solito pensavamo fosse sigillato come un santuario. Non è più così oggi».
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dai circoli liberal
LETTERA DALLA STORIA
È proprio un quadro orribile, quello di Vught
PER COMBATTERE L’OBESITÀ IN BASILICATA Si è tenuto a Potenza, nei giorni scorsi, un convegno per discutere ed esaminare lo stato di una patologia sociale in crescita nella regione, ossia l’obesità. L’iniziativa, promossa dall’Ordine dei tecnologi alimentari della Basilicata e Calabria, ha l’obiettivo di verificare l’azione e l’efficacia dei centri di educazione alimentare e benessere alla salute, operanti tra tante difficoltà, in Basilicata. Al convegno sono intervenuti: Nicola Condelli, vice presidente dell’Ordine dei tecnologi alimentari di Basilicata e Calabria, Gianluca d’Andrea, tecnologo alimentare, Paolo Riccio, professore ordinario di biochimica presso il dipartimento di biologia Dbaf dell’Università della Basilicata, Carmine Pessolano, biologo nutrizionista; le conclusioni, invece, sono state affidate a me, in qualità di promotore della legge. I lucani affetti dall’obesità sono in forte crescita come risulta dal rapporto Osservasalute 2009, presentato al policlinico Gemelli di Roma e realizzato, come ogni anno, dall’Università Cattolica. Lo studio, realizzato da 266 esperti di sanità pubblica, clinici, demografi, epi-
Durante il mio giro mattutino per i campi, ho incontrato molti vecchi amici, anche dei miei genitori: bravi borghesi, che un tempo avevo conosciuto in condizioni tranquille e agiate, e che ora ritrovo molto proletarizzati nelle grandi baracche. A volte lo stato in cui si rivedono certe persone fa davvero impressione. È meglio che i miei genitori non vengano qui. Ora mi trovo nella casetta di Jopie, lui è seduto davanti a me con indosso un paio di pantaloni da soldato e una sporca giacchetta grigia e vi saluta cordialmente. Uno dei suoi migliori amici è morto da poche ore: era gravemente ammalato di tbc, sua moglie e suo figlio erano stati deportati un po’ di tempo fa e lui non aveva potuto seguirli. Per Jopie quello era uno dei pochi matrimoni riusciti che avesse conosciuto. Alcuni giorni fa è morto qui un altro suo buon amico. Oggi pomeriggio cercherò di dormire un poco - ora ho di nuovo un letto per me, qualcuno è partito in licenza. Stanotte alle quattro arriva un altro treno da Vught. Nel corso della notte scorsa ho potuto farmi un quadro di questo Vught, è proprio un quadro orribile. Ora devo salutarvi di corsa tutti quanti - troppi per ricordarvi ad uno ad uno. Siete tutti molto buoni. La prossima volta di più, miei cari. Etty Hillesum aHan Wegerif e altri
ACCADDE OGGI
LA VERGOGNA E L’ILLEGALITÀ NELLA PRESENTAZIONE DELLE LISTE C’è chi per il rispetto della legge mette la propria vita e il proprio corpo a disposizione (Emma Bonino è in sciopero della sete e della fame, io solo della fame) e c’è chi viola la legge nonostante l’abbia scritta. Ciò che succede ad Arezzo non credo sia una particolarità... comunque questi sono i fatti. Per presentare una lista alle prossime elezioni regionali, per la circoscrizione di Arezzo occorrono almeno 1000 firme: cioè almeno 1000 elettori di Arezzo e provincia che depositano una lista di candidati in cui questi ultimi sono indicati con nome e cognome e dati anagrafici. Le firme devono essere apposte in presenza di un ufficiale autenticatore e poi ad ogni sottoscrizione va allegato un certificato, in cui il comune di residenza del firmatario attesta l’iscrizione di quell’elettore alle proprie liste elettorali. Ma siamo sicuri che queste regole siano rispettate da tutti? Credo proprio di no! Avete sentito la notizia stampa che solo nottetempo sono state definite alcune liste. Quindi sarebbe dovuta partire la sottoscrizione degli elettori che presentavano quei candidati... ma abbiamo verificato che all’ufficio elettorale del comune sono già pronti -perché già richiesti nei giorni precedenti - i certificati elettorali di quei cittadini che solo dopo avrebbero potuto apporre la propria firma. Sento puzza di illegalità e raggiro della legge, e proprio da parte di coloro che in consiglio regionale avevano approvato questo meccanismo per la presentazio-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
4 marzo 1941 Il Regno Unito lancia l’Operazione Claymore, sulle Isole Lofoten, durante la seconda guerra mondiale 1947 Eseguita l’ultima esecuzione in Italia. I nomi dei condannati erano: Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D’Ignoti 1954 Il Peter Bent Brigham Hospital di Boston annuncia il primo trapianto riuscito di fegato 1963 A Parigi sei persone sono condannate a morte per il tentato assassinio del presidente de Gaulle 1966 John Lennon pronuncia la celebre frase: «Siamo I Beatles più famosi di Gesù» 1975 Charlie Chaplin viene nominato cavaliere dalla regina Elisabetta II del Regno Unito 1977 Un terremoto in Romania provoca più di 1500 vittime 1979 Papa Giovanni Paolo II pubblica la lettera enciclica Redemptor Hominis, «ai venerati fratelli nell’episcopato, ai sacerdoti e alle famiglie religiose, ai figli e figlie della Chiesa
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
ne delle liste. E questo accade mentre i militanti della lista Bonino-Pannella sono sulla strada da settimane per raccogliere firme su liste pronte fin dall’inizio della raccolta.
Donatella Poretti
NICHEL ECCESSIVO IN BIGIOTTERIA? Il nichel è utilizzato in lega con il rame in molte applicazioni tra cui la bigiotteria, per la resistenza all’abrasione, all’ossidazione e per il suo colore grigio argenteo. Ha una buona resistenza alla corrosione ma in presenza di sostanze acide (sudore) può rilasciare parti che danno luogo a reazioni allergiche, di cui ne soffrono maggiormente le donne. Nonostante ci siano normative europee che ne disciplino la quantità da usare, recenti analisi in Austria su 40 prodotti, soprattutto bigiotteria, parti metalliche delle cinture, bottoni, borchie, è risultato che 6 di questi rilasciavano più nichel del consentito.
D.P.
ELENCO EVASORI La cancelliera tedesca Angela Merkel si è detta disponibile ad acquistare l’elenco di 1500 conti tedeschi in Svizzera. Pare che l’operazione farà recuperare al fisco tedesco ben 100 milioni di euro. Anche se il progetto ha innescato una polemica per dubbi sulla liceità dell’operazione, a me pare sia una strada percorribile per scovare gli evasori che indeboliscono il Paese portando all’estero ingenti capitani. Forse è la strada giusta per far rientrare i capitali.
Luigi Celebre
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Direttore da Washington Michael Novak
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Collaboratori
Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,
Roberto Mussapi, Francesco Napoli,
Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
Mario Arpino, Bruno Babando,
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
John R. Bolton, Mauro Canali,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
Franco Cardini, Carlo G. Cereti,
Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,
Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,
Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,
demiologi, matematici, statistici ed economisti, mette in evidenza come l’Italia della sanità sia divisa in due. Una spaccatura all’interno della quale la Basilicata si posiziona, come il resto del sud Italia, in un quadro precario, per quanto riguarda il trend migratorio di pazienti dal sud al nord del Paese. I dati del rapporto (riferiti al 2007) dimostrano che dalla nostra regione è partito il 24.1 per cento dei pazienti, con un aggravio per il bilancio della sanità lucana, per il costo delle cure mediche corrisposto ad altre regioni, pari a circa 30 milioni di euro. Altro primato lucano negativo evidenziato nel rapporto è quello dei sovrappeso. Riguardo agli stili di vita la nostra regione, infatti, non è tra le più virtuose e i dati sembrano esser peggiorati rispetto all’ultimo rapporto. Lo scorso anno, infatti, le persone adulte (over 18) in sovrappeso erano il 39,8 per cento della popolazione regionale contro una media nazionale del 34,7 per cento e anche gli obesi (12%) erano molti. Ma mentre lo scorso anno la Campania andava peggio, quest’anno è la Basilicata ad aver raggiunto la presenza più alta di persone in sovrappeso: il 40,4 per cento della popolazione. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
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PAGINAVENTIQUATTRO Il caso. Dell’Utri annuncia l’esposizione di un capitolo scottante di «Petrolio». Che parla di Cefis e Mattei...
Ecco cosa dice il Pasolini di Pier Mario Fasanotti rima di raccontare una storia italiana che entra nei perimetri dell’incredibile, vorrei lanciare un appello ai migliori giallisti del mondo: tra un best seller e l’altro, concedetevi alcuni mesi di permanenza in Italia, studiate la nostra recente storia. Avrete come primo risultato la sicurezza di scrivere vicende verosimili anche se vi paiono a primo acchito troppo fantasiose. L’Italia è terra di limoni, come diceva Goethe, ma anche di verità sepolte, spesso riaffioranti come fantasmini nei camposanti. L’Italia, come diceva Hegel dell’uomo, è «un legno storto». Ficchiamo pure questo legno nella terra delle ipotesi: poco si capirà, ma molto si scriverà perché il bel suolo non è solo archeologico, ma misterico. Se noi italici non veniamo mai a capo di niente, pensateci voi con le vostre trame romanzesche. Detto questo, veniamo a un’altra delle incredibili storie italiane. Il senatore Marcello dell’Utri, grande bibliofilo, ha annunciato che tra poco a Milano sarà esposto il capitolo mancante del romanzo Petrolio di Pier Paolo Pasolini, pubblicato postumo dall’Einaudi (1992). Molto probabile, anzi quasi certo, che le pagine mancanti si riferiscano alla misteriosa morte di Enrico Mattei (1962). Sono 78 fogli che hanno come titolo «Lampi sull’Eni». Dopo la morte di Pasolini, novembre 1975, un ladro, ovviamente su incarico, rubò delle carte a casa dello scrittore. Proprio
P
RUBATO quelle? Crediamo di sì. Il narratore-regista-poeta intendeva scrivere un romanzo di duemila pagine: «il preambolo di un testamento», «la mia ultima risposta al mondo», come confidò all’amico Alberto Moravia. Pasolini era un uomo molto preciso, raccoglieva molti materiali e su Petrolio si documentò con diligenza approfittando di certe “entrature”. Una delle fonti del romanzo, definito «il Satirycon moderno» ma anche storia del malaffare, fu un libricino che poco dopo la sua comparsa divenne introvabile. S’intitolava Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente. Uscì nel 1972. Ricordiamo che Eugenio Cefis fu il successore di Mattei alla guida dell’Eni, e poi divenne il leader della Montedison. Chi è l’autore del libro? Giorgio Steimetz, nome che non dice nulla. Uno pseudonimo sicuramente, dietro al quale si nascondeva uno stretto collaboratore di Mattei, morto per l’esplosione del suo aereo a Bascapè, vicino Pavia (incidente? Attentato? Più verosimile la seconda ipotesi).
Torna alla ribalta una storia torbida di affari e spionaggio, di omicidi e depistaggi. Su cui il romanziere indagò e scrisse: ma dopo la sua morte, qualcuno trafugò quelle pagine dal suo studio Questo Steimetz pare raccontasse con dovizia di particolari alcuni lati oscuri di Cefis, alcune ombre imbarazzanti che si riallacciavano alla sua stagione di partigiano in Val d’Ossola e alla brusca rottura con Mattei. Il “padrone” di EniAgip, chiamato anche “il corsaro volante”, era considerato scomodo (così tanto da essere fatto fuori magari con la manina della mafia?) perché, badando agli interessi nazionali, dava fastidio al cartello petrolifero chiamato “Le sette sorelle”(le più grandi società petrolifere del mondo), le quali non digerivano i tentativi di Mattei di assicurare all’Italia l’approvvigionamento energetico con accordi diretti e bilaterali con i paesi produttori di greggio.Torniamo ancora al misterioso Steimetz. Qualcuno lo avrebbe identificato come l’uomo che curava le pubbliche relazioni dell’Eni in Sicilia. E dunque soffermiamoci sulla Sicilia, particolare che non è proprio un particolare. Il 16 settembre 1970 scomparve, e mai fu più trovato (nemmeno cadavere), il giornalista dell’Ora di Palermo Mauro De Mauro. Un’altra persona scomoda in quanto ottimo giornalista, dotato di un fiuto eccezionale. Nel suo ultimo periodo di vita pare avesse avuto rivelazioni sulla morte di Mattei. De Mauro venne prelevato da due persone e scaraventato su una macchina. Unici testimoni: sua figlia e il suo futuro genero, i quali sentono frasi concitate, una delle quali in siciliano, “amuninne” (andiamo). Il quotidiano L’Ora indagò, ovviamente, e arrivò alla conclusione che solo due organizzazioni potevano aver rapito il cronista: la ma-
fia e i servizi segreti. La figlia del giornalista riferirà di aver riconosciuto una delle voci dei sequestratori: era un conoscente di papà.
De Mauro raccoglieva notizie e spunti per il regista Rosi, determinato a fare un film sulla dubbia morte di Mattei. Scoprì per esempio che il numero uno dell’Eni ricevette una telefonata “ministeriale”che lo consigliava di anticipare il suo rientro a Roma. L’ora del decollo era tenuta sempre segreta, invece qualcuno ne venne a conoscenza e attorno all’aereo qualcuno vide due individui con la divisa dei carabinieri. La figlia del cronista, Junia (battezzata così a ricordo di Junio Valerio Borghese, amico di De Mauro) riferì che suo padre le confidò: «Sai, cara, ho scoperto che…». La vedova Mattei disse di credere a un’altra “pista”: «Quell’estate mio marito non parlava d’altro che del caso Mattei. Ci disse, a tavola, che a uccidere il presidente dell’Eni era stato il “presidente”». Ma quale “presidente”? Eugenio Cefis? Aggiunse la signora De Mauro (La Stampa del 27 gennaio 2001): «So cose che faranno tremare l’Italia». Ebbene: erano le stesse “cose” svelate a Pasolini? E a questo punto riandiamo alla sua tragica morte all’Idroscalo di Roma. Non si difese, pur essendo muscoloso. Si riteneva già vittima sacrificale visto che ci sono cenni chiari a questa vocazione nei suoi testi e nelle sue poesie? Davvero fu il “puttano” Pino Pelosi detto “la rana”, ragazzo di vita, il solo a togliere la vita allo scrittore? Molti personaggi, e pure autorevoli, misero in dubbio la versione del ragazzo. Paolo Volponi parlò apertamente di “omicidio politico”. Altri, come Dacia Maraini e Bernardo Bertolucci, collegarono la sua morte al romanzo Petrolio. Rimane il fatto che le indagini sul massacro di Ostia furono condotte con una sciatteria a dir poco sospetta. Fu l’Europeo a indagare più di altri giornali. Solo due particolari tra i tanti che non quadrano: nell’Alfa Romeo di Pasolini furono ritrovati i suoi occhiali. Lui non sarebbe mai sceso senza inforcarli. Fu dunque trascinato fuori? E ancora: la sua auto, con tracce di sangue e materia cerebrale, fu messa in un angolo senza riparo ed esaminata solo otto giorni dopo. Oriana Fallaci, che scriveva per l’Europeo, pose una domanda: «Come mai Pelosi non era macchiato di sangue?». Leggeremo dunque il capitolo scottante di Petrolio. Dell’Utri dice di averlo avuto da un “privato”. Ma se è il frutto di un furto a casa dello scrittore, perché mai non consegnarlo alle autorità? Aggiunge il senatore siciliano: «Sia chiaro che questo documento riguarda un periodo lontano, e quindi parla di un Eni che non c’entra con l’attuale; dico questo perché non si pensi a manovre». Ma quali manovre? Senatore, il capitolo ha uno stretto collegamento con certi “cadaveri eccellenti”, per dirla con Leonardo Sciascia. E a proposito dell’autore di Todo modo, ci piace ricordare una sua frase a proposito del nostro malaffare: «Mi duole l’Italia». Lo disse ad alcuni giornalisti francesi. Sciascia era tentato di trasferirsi a Parigi. A Sartre sussurrò: «L’Italia è un Paese senza verità». Appunto.