L’intelligenza è caratterizzata
di e h c a n cro
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da una naturale incomprensione della vita
Henri Bergson
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 9 MARZO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il Quirinale si lascia andare a un amaro sfogo: «In una democrazia rispettabile non si dovrebbero compiere atti estremi»
Meno male che Giorgio c’è Può sbagliare come tutti: ma in un sistema ormai dominato solo da faziosità e arroganza, Napolitano è l’unico riferimento di equilibrio super partes.Perciò attaccarlo è un errore capitale COME CAMBIA LA CARTA
di Errico Novi
Un nuovo equilibrio costituzionale
ROMA. Tra Tar e Consulta, una nuova incertezza pesa sulle regionali: ci sarà o no la lista BoninoPannella? A cancellarla non sarebbe un tribunale, ma un clamoroso gesto di eutanasia su cui oggi si esprimeranno i radicali.
ROMA. Prendete Napolitano. Immaginatelo il giorno in cui sarà nel suo seggio, per votare alle Regionali del Lazio. Provate a pensare l’animo con cui lascerà andare la scheda nell’urna. In quell’istante il presidente della Repubblica conserverà ancora intatta la sua fede nalle nostra democrazia? È probabile di sì, ma solo per un motivo: perché Giorgio Napolitano ha un superiore senso delle istituzioni, temprato dal dolore per gli errori commessi e riconosciuti, dal rispetto della propria missione, da una cultura politica antica. Se non fosse per tutto questo d’altronde, il Capo dello Stato avrebbe già seguito l’implicito invito dei dipietristi e si sarebbe dimesso. Ma la verità è che Napolitano dà l’impressione di essere l’unica figura politica responsabile in un contesto fatto di arroganza e faziosità: da questo punto di vista, l’unico vero simbolo «anti-sistema».
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di Francesco D’Onofrio a vicenda del decreto-legge relativo alla presentazione delle liste elettorali deve essere inquadrata nelle questioni di fondo concernenti gli equilibri costituzionali.
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IL CAOS NEL LAZIO
Se Pannella dà la linea al centrosinistra di Marco Palombi
L’autonomia di Bankitalia e la candidatura alla Bce
Chi vuole “bruciare” Mario Draghi? Doppiezze mentali e politiche
di Giancarlo Galli
“Bipolari da legare”: sul Quirinale Pdl e Pd perdono la testa
Mario Draghi è «ufficialmente» il candidato di Tremonti e Berlusconi alla presidenza della Bce. Ma la vera domanda è: per vincere o per perdere?
Per Berlusconi fino a ieri, assieme alla Consulta, il Capo dello Stato era il principale avversario. Oggi è una specie di eroe.
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Il Pd dice di non volerlo attaccare, ma sabato sarà in una piazza che considera un vero tradimento la sua firma al decreto Antonio Funiciello e Riccardo Paradisi • pagine 4 e 5
A Ginevra il Summit sui diritti umani
La lunga strada dell’Afghanistan Parla la prima candidata donna alla presidenza: «I talebani sono ancora forti, serve il vostro aiuto» • Massouda Jalal pagina 12
Il realismo “bellico” di Kathryn batte il fanta-Cameron: e per la prima volta trionfa una donna
Iraq, una democrazia da Oscar È grazie ai “soldati della Bigelow” che oggi a Baghdad vince il voto di Alessandro Boschi
Il successo delle elezioni nel cuore del mondo islamico
L’Iraq dalle pallottole alla democrazia
andata come alle Olimpiadi di Vancouver. Finale di hockey su ghiaccio: Canada batte Usa. Agli Oscar, la canadese Kathryn Bigelow ha strapazzato l’ex marito statunitense James Cameron. Un film tradizionale, a basso costo, di modesta diffusione, sui soldati americani iracheni, ha battuto il suo rovescio: il kolossal Avatar.
è ancora chi confonde le elezioni con la democrazia. Ma i numeri, se non accompagnati da vera coscienza democratica in termini di cultura, di prassi e di pensiero, altro non rappresentano se non una suggestione di democrazia. In questa chiave va letto il laboratorio Iraq.
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
di Mario Arpino
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WWW.LIBERAL.IT
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Ultimo difensore. «In una democrazia rispettabile non si dovrebbero compiere atti estremi», è l’amara riflessione del Quirinale
Il presidente anti-sistema
Intorno a lui, quasi tutti gli attori politici danno voce a faziosità e arroganza: perciò gli arrivano domande che vanno oltre il suo ruolo di Errico Novi
ROMA. Si provi a immaginare Napolitano nel giorno in cui sarà al suo seggio, per votare alle Regionali del Lazio. Si provi a immaginare l’animo con cui lascerà andare la scheda nell’urna. In quell’istante il presidente della Repubblica avrà ancora intatta la sua fede nella nostra democrazia? È probabile di sì, ma solo per un motivo: perché Giorgio Napolitano ha un superiore senso delle istituzioni, temprato dal dolore per gli errori commessi e riconosciuti, dal rispetto della propria missione, da una cultura politica profonda. Se non fosse per tutto questo d’altronde il Capo dello Stato avrebbe già seguito l’invito dei dipietristi e si sarebbe dimesso. Non ora, ma già dopo le offese ricevute in precedenza, per il lodo Alfano e di fronte ad altri passaggi critici della legislatura. Se non fosse corazzato dal senso delle istituzioni e dalla sua personale saggezza, oggi il presidente della Repubblica non potrebbe governare questa nave impazzita che è la politica italiana. A lui infatti viene rivolta una domanda anche superiore alle prerogative attribuitegli dalla Costituzione. Gli viene chiesto di ergersi a unico baluardo di ragionevolezza e responsabilità in una scena dominata da spinte antagoniste. E magari si trattasse solo di questo: l’antagonismo infatti si esaspera per la schizofrenia dei comportamenti. Si prenda stavolta il presidente del Consiglio: giovedì sera era al Quirinale, a minacciare clamorosi appelli alla piazza nel caso in cui Napolitano si fosse rifiutato di firmare il decreto. Nei due giorni successivi ecco invece Silvio Berlusconi rivolgersi in tono elegiaco al Colle più alto. Ma si consideri pure il comportamento dell’opposizione, del Pd in particolare. C’è il Pier Luigi Bersani responsabile e realista, quello che invoca giustamente «una soluzione politica» per le liste del Pdl. C’è però anche il Bersani numero due, quello che convoca la piazza per sabato prossimo, e che dunque implicitamente marcia contro la stessa firma di Napolitano. Senza dirlo, la-
Un nuovo assetto costituzionale di Francesco D’Onofrio a complessa vicenda concernente il decreto-legge relativo alla presentazione delle liste elettorali regionali deve essere inquadrata, anche e soprattutto, alla luce delle questioni di fondo concernenti gli equilibri costituzionali complessivi. Da questo essenziale punto di vista (tipicamente costituzionale), risulta evidente che vi è un punto di intersezione tra il governo della Repubblica e il presidente della Repubblica: vi sono infatti profili costituzionali che concernono entrambi questi organi costituzionali, e profili che invece concernono aspetti politici propri dell’azione della maggioranza di governo, rispetto ai quali sono del tutto comprensibili opinioni anche politicamente diverse le une dalle altre.
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Quel che si rileva dal punto di vista degli equilibri costituzionali complessivi concernenti l’istituzione del decreto-legge è il fatto che il Quirinale ha compiuto una scelta di fondo di ordine costituzionale diversa dalle ripetute affermazioni, in base alle quali la vittoria alle elezioni politiche comporta una sorta di autosufficienza costituzionale della medesima maggioranza di governo. Si tratta di una affermazione in base alla quale la vittoria alle elezioni politiche comporta un ordine costituzionale radicalmente diverso da quello previsto nella Costituzione vigente. Questa può essere, infatti, certamente aggiornata, ma non integralmente sostituita dalla affermazione in base alla quale la legittimazione costituzionale è esclusivamente quella elettorale politica. Siamo stati dunque in presenza della faticosissima costruzione di un equilibrio costituzionale certamente nuovo, ma pur sempre di un equilibrio che tiene conto anche delle novità costituzionali concernenti l’elezione degli organi esecutivi regionali. L’istituto del decreto-legge va pertanto considerato anche alla stregua di queste novità, senza per altro che si sia passati dalla regola costituzionale della compartecipazione del governo della Repubblica e del presidente della Repubblica alla adozione del decreto-legge medesimo, ad una regola radicalmente nuova, che renderebbe non più necessario l’esercizio del potere presidenziale concernente il decreto. Disciplina costituzionale, dunque, che riguarda l’interpretazione delle regole concernenti la presentazione delle liste elettorali regionali, ma non sostituzione della disciplina medesima con il principio – esso sì che sarebbe radicalmente nuovo dal punto di vista costituzionale – in base al quale il consenso elettorale necessario per governare diventerebbe anche fonte unica di legittimazione del potere costituzionale di adozione del decretolegge. Non si tratta dunque di una distinzione tra forma e sostanza della democrazia costituzionale, ma di una vera e propria regola costituzionale concernente l’aggiornamento e non la cancellazione dell’equilibrio costituzionale originario.
sciando magari all’alleato Di Pietro il compito di esplicitare il rancore verso il Colle, ma finendo per catalizzare quel rancore in una forma tanto più sottile quanto più pericolosa. E dire che dallo stesso partito di Bersani viene anche il Capo dello Stato. In cosa poteva mai consistere la “soluzione politica” se non in un intervento legislativo, per quanto rabberciato e tardivo? Bersani non dà risposte soddisfacenti, non ne ha date né a Napolitano né all’opinione pubblica. Cosicché spetta all’uomo del Quirinale intervenire dove gli altri omettono o modulare dove altri ancora – la maggioranza, in questo caso – vorrebbero stravolgere.
È facile interpretare il senso delle parole pronunciate ieri dal Capo dello Stato,
se stesso, il ruolo di custode attivo della democrazia che in cui è costretto a oltrepassare forse le prerogative costituzionali, ma che in questo momento è costretto ad assumere. Visto che anche la politica, come il quotidiano con cui ragazzi e ragazze «perbene» sono costretti a confrontarsi, è contrassegnata dal «degrado».
Il coraggio di cui parla Napolitano «è bello che ci sia», come lui stesso dice: ma appunto in una repubblica rispettabile un buon presidente non dovrebbe esercitare atti di coraggio per tenere in piedi il gioco democratico. E invece il presidente è costretto a farlo, per supplire alle afasie del Pd, per esempio, che invoca soluzioni senza indicarle con chiarezza. O per arginare la furia populista del Pdl «pronto a tutto» dopo essere rimasto fuori per propria insipienza. Con amara consapevolezza, il Capo dello Stato deve assistere allo sferragliare d’armi tra i due parti-
Il Capo dello Stato non parla direttamente del caso liste ma fa appello alla Costituzione «riconosciuta da tutti nonostante le divisioni» dunque. Alla celebrazione svolta al Quirinale per l’8 marzo, il presidente della Repubblica ricorda: «Una democrazia rispettabile è proprio il luogo nel quale per essere buoni cittadini non si deve esercitare nessun atto di coraggio». Si riferisce al contesto degradato in cui spesso «essere ragazze e ragazzi perbene richiede sacrifici», si appella alle donne affinché esigano «sempre il rispetto della dignità». Ma è difficile non credere che con quelle affermazioni il Capo dello Stato abbia voluto anche rappresentare
ti maggiori. E alle loro contraddizioni, ai contorcimenti che in certi casi appunto rischiano di soffocare pure lui. Se c’è un bipolarismo oggi in Italia è nella patologia dei comportamenti davvero “bipolari”, in senso psichiatrico, delle formazioni maggiori e dei loro leader. Oscillazioni continue tra imperizia e arroganza, mediazione e rivolta, in un vortice continuo che il Quirinale è impropriamente costretto a fermare con le sue mediazioni, con gli ammonimenti e gli appelli, a volte con eloquente silenzio, altre con la cooperazione attiva dei suoi consiglieri giuridici.
E dov’è che trova le energie necessarie per adempiere a questo super-lavoro istituzionale, il Capo dello Stato? Sicuramente nella fiducia che il Paese sia superiore rispetto alla classe politica. Lo si evince da un altro passaggio del discorso rivolto ieri alle donne:
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Continua il caos sulle liste elettorali tra sentenze e forzature politiche
E oggi Bonino e Pannella decidono la strategia Pd
L’assise dei radicali chiamata a decidere se ritirare o no la candidatura nel Lazio contro le forzature dei «bari» di Marco Palombi
ROMA. Al di là della questione-Tar e della ”pe- novativo) partorito dai giuristi del Pdl sulla base
Il presidente Napolitano ha garantito i diritti di tutti senza parteggiare né per Formigoni, né per Polverini né per Bonino
«Al di là di ogni differenza di modi di pensare e di posizioni politiche, è profonda tra le italiane e gli italiani la condivisione del patrimonio di valori e principi che si racchiude nella Costituzione». Tra i cittadini dunque lo spirito di unità e di rispetto è diffuso. E se una simile realtà non viene riportata con sufficiente chiarezza sul piano del confronto politico, dove può essere l’ingranaggio mancante, se non nella patologica “bipolarità” dei comportamenti?
Nonostante il veleno iniettato da Antonio Di Pietro (che ieri ha tardivamente ripiegato su un registro meno irriguardoso) in molti riconoscono il ruolo super partes svolto dal presidente della Repubblica anche nella vicenda delle liste. Dall’Udc, il cui leader Pier Ferdinando Casini ricorda che oltretutto gli attacchi al Colle
«sono un favore a Berlusconi», al Pd che con evidente doppiezza continua a chiedere di tenerlo fuori, alla Cisl di Raffaele Bonanni: «Napolitano non è equilibrato, ha dimostrato ancora una volta di essere super-equilibrato, di rappresentare la miglior espressione popolare della politica e di interpretare i bisogni della società». Fino all’Osservatore romano, che nell’edizione di ieri pomeriggio interviene a sua volta in difesa del Capo dello Stato: «È in relazione al ruolo che la stessa Costituzione gli attribuisce che ha firmato il decreto», scrive il quotidiano della Santa Sede, «Napolitano ha verificato che il provvedimento rispondesse ai requisiti di costituzionalità non entrando nel merito». In un deserto di autorevolezza è impossibile non rivolgersi all’unica figura in grado di esprimerla.
nultima parola sulla lista Pdl a Roma (l’ultima spetterà alla Consiglio di Stato), è stamattina andrà in scena l’Assemblea nazionale dei Radicali. Nove ore secche, dalle dieci alle sette del pomeriggio, in cui tutta la galassia di via di Torre Argentina si riunira «per discutere pubblicamente delle decisioni da assumere, convinti che nessuna scelta in questo momento debba essere data per scontata». Per chi non avesse capito, l’annuncio pubblico si conclude con un «occorre tenere presente il monito di Benedetto Croce: esistono momenti nella storia in cui è necessario che vi sia pur qualcuno per il quale Parigi non valga una messa. Qualcuno c’è: ci siamo». Il dibattito, per i distratti, è se ritirare o meno le liste dalle prossime regionali. In radicalese «se sia possibile tuttora continuare a giocare con i bari, in una situazione in cui lo Stato non riesce a rispondere ad esigenze che non siano di Regime».Torna in bilico, quindi, la presenza nel Lazio del centrosinistra, raccoltosi dietro il nome di Emma Bonino. Le posizioni nel partito restano quelle descritte nelle settimane scorse – Pannella e altri pronti per le «decisioni irrevocabili», Bonino e pochi altri per restare «dentro ma contro» il sistema – ma l’happening di oggi è un fatto puramente teatrale. Almeno è quello che si può desumere dalle parole dello stesso Marco Pannella nelle tradizionali due ore di conversazione domenicale col direttore di Radio Radicale Massimo Bordin: l’assemblea non ha poteri di deliberazione.Tradotto: non scelgono mica i convocati, i militanti, i radicali noti e ignoti, i matti e quant’altri oggi si avvicenderanno sul palco del Teatro di piazza Santa Chiara. La decisione politica la prendono, al chiuso, i vertici della Lista Bonino-Pannella e, secondo informali sondaggi, la vicepresidente del Senato continuerà la sua campagna elettorale. Visto però che lo spettacolo deve continuare, oggi pomeriggio l’anziano leader dovrebbe tirare fuori dal cilindro l’idea che gli permetta di continuare a terremotare il partito suo e gli altri della coalizione - e ovviamente i mass media - senza però uccidere la “sua”candidata.
dei paletti del Quirinale viola o meno la Costituzione, se metta cioè illecitamente le mani in una materia che la Carta assegna proprio alle Regioni. Se così fosse, le elezioni del 28 e 29 marzo sarebbero destinate ad essere ricordate a lungo come caso giuridico, almeno quanto sarebbero irrilevanti i loro risultati. Senza contare che restano in campo ancora i ricorsi già presentati: ad esempio Roberto Formigoni del PdL contro Filippo Penati del Pd, che a sua volta ha annunciato opposizione alla decisione del Tar che ha riammesso il listino del candidato di centrodestra. Lo scenario è preoccupante: nei partiti lo sanno, solo che nessuno può fare niente, a parte fare finta di niente o minimizzare. Prendiamo il ministro dell’Interno Roberto Maroni, che ieri ha sostenuto – nell’ordine – che «non ci sono gli estremi per il ricorso del Lazio alla Corte Costituzionale» e che «l’Italia è un Paese in cui ricorsi e controricorsi non si negano a nessuno. Speriamo solo che tutta questa situazione di incertezza finisca nel più breve tempo possibile per evitare di rinviare le elezioni». Con relativa – involontaria? – pressione sui giudici amministrativi.
Sul risultato delle elezioni pesano non solo i ricorsi al Tar, ma anche le richieste di verifica della costituzionalità
Come che sia in Lazio e Lombardia più che vere elezioni rischiano di tenersi delle prove generali. Il destino di queste consultazioni è infatti appeso ad una tale quantità di variabili che nessuno sa ancora come andrà a finire. Ad esempio, dopo il voto la Consulta – a cui ieri si sono rivolte le regioni Lazio, Piemonte e Toscana mentre altre stanno valutando il da farsi – dovrà decidere se il decreto interpretativo (per molti, però, in-
Tramortito, intanto, resta il Partito democratico. Ieri, a via del Nazareno, s’è tenuta una riunione tecnica di coalizione sulla manifestazione di sabato contro il decreto salvaliste: i bersaniani vogliono evitare che la piazza gli sfugga di mano e il raduno diventi una sorta di pubblico processo al capo dello Stato. I rapporti tra il partito e Giorgio Napolitano infatti volgono al brutto - per la prima volta dall’elezione del capo dello Stato - almeno da venerdì scorso. Le prime avvisaglie dell’irritazione del presidente s’erano avute già giovedì, quando ad una domanda sulla“soluzione politica” – a cui in quelle ore lavoravano Massimo D’Alema e Gianni Letta – aveva risposto secco: «Almeno prima spiegatemi cos’è».Venerdì pomeriggio, poi, Napolitano ha comunicato ai vertici democrats di aver deciso di firmare il decreto e che lo avrebbe fatto appena il testo fosse arrivato al Quirinale e non dopo la decisione del Tar di Milano (che, sabato in giornata, ha riammesso il listino di Formigoni) come aveva stabilito di fare prima. Data a quelle ore una telefonata dai toni poco amichevoli tra il presidente e un’importante dirigente del Pd, che rappresenta il momento di maggiore tensione del fine settimana per il capo dello Stato. Ora Pierluigi Bersani sta cercando il modo di attaccare il governo senza coinvolgere Napolitano, ma fonti qualificate parlano di un presidente sempre più arrabbiato, specialmente per i ricorsi alla Consulta targati Pd.
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Pdl. Il Colle ha bloccato una deriva che poteva finire nel muro contro muro
Come diventa santo un «noto comunista» Berlusconi pensa solo alle proprie garanzie: da mesi lo accusava di essere uomo di parte di Riccardo Paradisi l presidente della Repubblica è solo. E non è una solitudine beata la sua. In questi giorni di passione per la politica italiana successivi al pasticcio della presentazione delle liste del Pdl a Roma e in Lombardia Giorgio Napolitano è stato oggetto di una pressione convergente che come una tenaglia ha stretto il Colle da destra e da sinistra.
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Già all’indomani delle irregolarità registrate nel Lazio e in Lombardia gli attori politici in campo avevano cominciato a fronteggiarsi a suon di anatemi e reciproche accuse di golpismo. La destra ha addirittura fatto ricorso alla piazza per esercitare un’indebita pressione sugli organi giudicanti e lo stesso presidente del Consiglio, per far capire l’aria che tirava, non esitava a dichiarare che avrebbe avuto difficoltà a tener buona la sua massa critica che rischiava d’essere espropriata del diritto di voto. Da subito s’era dunque cominciata a prefigurare l’ipotesi di un decreto che potesse sanare la situazione, decreto che di fronte alle eventuali reciproche delegittimazioni politiche e a elezioni che in due regioni chiave del Paese si sarebbero potute svolgere senza la partecipazione del partito di maggioranza relativa, appariva come il male minore. Definizione usata sia dall’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato sia dal presidente della Camera Gianfranco Fini. Napolitano è stato subito coinvolto, trascinato in questa partita, tirato per la giacca già ampiamente strattonata. È arrivato così a firmare il decreto di reinterpretazione del regolamento per la presentazione delle liste dopo che giovedì Berlusconi aveva chiesto un provvedimento ancora più radicale, dove il premier pretendeva che le regole del gioco venissero retrospettivamente modificate. La soluzione firmata dal Colle è un “compromesso” come ha precisato lo stesso presidente Napolitano che evita da un lato l’esclusione delle due liste del centrodestra e quindi salvaguarda il diritto dei cittadini di scegliere attraverso il voto fra
Non c’è stata nessuna autocritica sui marchiani errori nel presentare le liste, soprattutto nel Lazio. Problemi censurati anche dalla Lega
schieramenti e programmi diversi in Lombardia e nel Lazio e dall’altro non calpesta le norme da rispettare. Per arrivare a individuare e percorrere questa via mediana però si è arrivati a sfiorare la collisione istituzionale. Ora che la destra ha ottenuto il suo scopo nei confronti del presidente della Repubblica l’atteggiamento è repentinamente mutato. Ora Napolitano diventa un
garante, una figura essenziale per l’equilibrio delle istituzioni. Il ministro della Difesa e coordinatore del Pdl Ignazio La Russa manifesta apprezzamento per la scelta del Quirinale e dice che «sulla vicenda c’è stata una collaborazione istituzionale al massimo livello». E le tensioni registrate? «Noi vivevamo lo stress di un’autentica caccia scattata ai danni delle nostre liste, il capo dello Stato era reduce da un faticoso viaggio all’estero», minimizza La Russa. Dichiarazioni di distensione che arrivano subito dopo che il centrodestra aveva esercitato una pressione fortissima sul Colle come era già capitato per il lodo Alfano prima ancora nel caso di Eluana Englaro. Una dichiarazione moderata peraltro quella di La Russa rispetto a chi nel centrodestra passa addirittura al contrattacco: come il Giornale che accusa la sinistra di avere truffato e ora di fare la vittima. Nessuna autocritica ovviamente sui marchiani errori nel presentare le liste, soprattutto nel Lazio. Errori censurati con forza anche dalla Lega nel centrodestra. Ma non è solo al destra a strapazzare la giacca di Napolitano. Puntuale arriva anche l’attacco dell’ala giustizialista e radicale dell’opposizione. Per aver firmato il decreto Napolitano viene investito soprattutto dall’Idv di Antonio di Pietro: «È un arbitro che abdica al suo ruolo», dice l’ex Pm.
In questo si inserisce anche l’ambiguità del Pd che sabato prossimo andrà in piazza contro il decreto ma non contro Napolitano che sarebbe stato costretto a firmarlo «in questa situazione Napolitano è stato una vittima al pari dei cittadini italiani», dice Piero Fassino che non fa esattamente un complimento a Napolitano. Insomma a parte l’Idv, coerente nella sua tetragona inclinazione a radicalizzare sullo scontro politico e ad attaccare il Colle, ognuno interpreta a usum delphini la linea di condotta del presidente della repubblica. Che invece ha perseguito la strada della giusta misura non mancando nelle sue riflessioni di bacchettare, per chi sa leggere tra le righe, sia la destra che la si-
Maggioranza e opposizione, ormai, sono preda di doppiezze mentali e politiche
Bipolari da legare nistra, incapaci d’uscire dall’impiccio. «Certo sarebbe stato opportuno un accordo bipartisan – dice il presidente – ma fa notare quanto ciò sia difficile ancor più in clima elettorale». Un riferimento sia all’ostinazione della destra sia all’indisponibilità della sinistra a trovare un accordo soddisfacente, soggiacendo alla tentazione di mettere in mora la maggioranza e creargli le maggiori difficoltà possibili. Tradotto l’accordo con il Pd, nemmeno cercato dal Pdl, non sarebbe passato. «Un effettivo senso di responsabilità – continua Napolitano – dovrebbe consigliare a tutti i soggetti politici e istituzionali di non rivolgersi al Capo dello Stato con aspettative e pretese improprie, e a chi governa di rispettarne costantemente le funzioni e i poteri», i riferimenti a Berlu-
sconi e al teso incontro di giovedì scorso sono abbastanza espliciti. Meglio sarebbe stato ovviamente tenere fuori il presidente della Repubblica, non coinvolgerlo in vicende che non lo riguardano – come nota il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, perché il decreto salvaliste è stato fatto dal Governo – non dal Presidente della Repubblica che si è limitato a firmarlo. Invece si è arrivati di nuovo al muro contro muro tra chi da un lato sbaglia e poi vuole la sanatoria e il condono dall’altra chi immaginava che in Lombardia e nel Lazio si dovessero celebrare le elezioni senza liste concorrenti. La presidenza della Repubblica è ancora in grado di fare l’arbitro. Ma sembra rimasta sola, tra quelli che una volta si chiamavano i poteri terzi. E soli, in questi casi, alla lunga ci si logora.
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Pd. I democratici hanno annunciato un comportamento molto più duro anche in Parlamento
Un «grande padre nobile» ...da combattere in piazza Messo all’angolo dalla sfida di Di Pietro, adesso Bersani sogna di trasformare il “popolo viola” nei suoi nuovi girotondini di Antonio Funiciello l problema di Bersani, in vista della manifestazione di sabato indetta da Pd, Italia dei valori, Sinistra e libertà e comunisti vari, è come smontare il sillogismo dipietrista, ormai acquisito dai più, che recita: In piazza contro il decreto Napolitano ha firmato il decreto - In piazza contro Napolitano. Non sarà facile. Soprattutto Bersani non si potrà fidare certo di chi, Di Pietro in particolare, potrà pure rassicurarlo in tutti i modi possibili e immaginabili ma, una volta sceso in piazza, darà sfogo al suo istinto politico e forma alla strategia dell’Idv; che resta quella di campare sulle spalle del Pd, erodendo consenso al partito di Bersani. In un momento in cui, per altro, Di Pietro ha bisogno di calcare la mano per difendersi dal fuoco amico che gli arriva da De Magistris e Travaglio. Il Pd è così messo a dura prova dagli opposti estremismi del populismo dipietrista e della minaccia di abbandono del campo da parte dei Radicali, che lascerebbero i democratici senza candidato presidente nel Lazio.
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A destra, Antonio Di Pietro e Pierluigi Bersani: fra i due è in atto da sempre una sorta di guerra di posizione che a giorni alterni rischia di sfociare in uno scontro in campo aperto: spesso, oggetto dello scontro è proprio il presiedente Giorgio Napolitano. Nella pagina a fianco, gli altri due contendenti nascosti: Umberto Bossi e Silvio Berlusconi
Le incertezze sul da farsi sono tutte motivate dalle critiche latenti che nel Pd muovono contro l’operato di Napolitano. L’unica a pronunciarle apertamente, prima sulla stampa e poi nel caminetto politico di domenica sera, è stata Rosy Bindi, che continua a parlare di «elezioni truccate» assumendo su di sé il ruolo di ufficiale di collegamento tra il vertice del partito e il caotico popolo viola, riedizione demorettizzata del girotondismo di qualche anno fa. Ma tra i dirigenti democratici sono in molti, nei giorni scorsi, da aver caldeggiato l’ipotesi di vincere facile senza la presenza dell’avversario. Questa percezione di ostilità nei confronti dell’operato del Presidente della Repubblica, fatta eccezione per personalità pure di spicco come D’Alema e Marini o Ranieri e Morando (gli ultimi due vicinissimi al Colle), il Pd la trasmette a ogni piè sospinto. Andare in giro a dire che il Presidente non poteva non firmare e non, nel rispetto politico del suo ruolo, che Napolitano ha fatto bene a firmare, produce nell’elettorato democratico una naturale reazione negativa. Che non viene poi arginata da iniziative pubbliche come quella della manifestazione di sabato prossimo accanto a chi ne ha chiesto addirittura l’impeachment. La segreteria Bersani somiglia così sempre di più alla seconda fase della segreteria Veltroni, che raccolse al Circo Massimo di Roma il popolo democratico per salvare l’Italia, come recitava il suo slogan. Di lì (fine ottobre 2008) a tre mesi, le conseguenze di quella manifestazione riuscitissima furono le dimissioni di quello stesso Veltroni che l’aveva indetta. Per Bersani è davvero un paradosso somigliare sempre di più a chi ha tanto osteggiato, fino a motivare la sua candidatura alternativa su una li-
Il partito è diviso anche sulla sostanza del decreto: se c’è chi difende il Quirinale a spada tratta, molti (soprattutto in Lombardia) protestano perché accarezzavano l’idea di un’elezione in discesa
nea di riformismo socialdemocratico di cui, ad oggi, c’è davvero poco traccia.
In coerenza con gli impegni di piazza il Pd, a partire da oggi in Senato, cambierà strategia anche nella sua azione parlamentare. Con una lettera minacciosa come il cipiglio anti-britannico del presidente argentino Galtieri durante la guerra delle Falkland, tre giorni fa i due capi gruppo Finocchiaro e Franceschini hanno fatto sapere ai Presidente delle Camere che la conduzione dell’opposizione in aula cambierà radicalmente. E da oggi è attesa a Palazzo Madama un
rafforzamento in senso ostruzionistico dell’interdizione parlamentare del Pd. Sembra insomma, sommata la piazza al palazzo, di essere tornati ai tempi del 2001-2006, quando i Ds e la Margherita occhieggiavano ai girotondi che li accusavano di inadeguatezza come fa oggi il sedicente popolo viola col Pd, mentre in Parlamento schieravano la contraerei per rispondere ai bombardamenti di Berlusconi. Col risultato che, malgrado gli insuccessi del governo Berlusconi, Prodi riuscì a vincere solo per finta le elezioni, senza mai avere una vera maggioranza parlamentare al Senato. Nonostante il misero bottino conquistato nel 2001-2006 con quella che Andrea Romano ha definito la «strategia dell’immobilismo», il Pd intende evidentemente replicare quella logica nei tre anni che lo attendono prima del nuovo confronto elettorale col centrodestra. Una tenuta del proprio elettorato su un registro di antiberlusconismo militante, in attesa della perdita di consenso di Berlusconi. Poco importa se le indagini demoscopiche già registrano che, al netto di un calo di popolarità del governo, il Pd non ne beneficia minimamente in termini di intenzioni di voto. Anche perché senza un forte antiberlusconismo militante, è impossibile per i vertici del Pd portare il loro elettorato su ipotesi audaci, come la premiership di Pier Ferdinando Casini per un nuovo centro-sinistra allargato. Ammesso - e finora poco concesso - che l’Udc sia realmente interessata a mettere su un’armata Brancaleone in difesa della democrazia, con l’offerta di cessione a suo favore della candidatura a premier nel 2013.
La confusione regna sovrana. Ed è del tutto evidente che quale che sia il risultato delle prossime regionali, è destinata a diffondere la sua fitta nebbia nei piani alti del Nazareno. Anzi, nel caso di una vittoria alle regionali, Bersani e Letta si sentirebbero autorizzati a motivare il senso dell’immobilismo democratico, inquadrandolo in una strategia politica complessiva che potrebbe segnare le scelte dei democratici nei prossimi tre anni. L’unione di tutte le opposizioni a Berlusconi finirebbe per essere, esattamente come tra il 2001 e il 2006, l’indirizzo di tutte le politiche messe in campo e l’orientamento politico generale per un’intera stagione. Un orientamento destinato a diventare unanimistico nel Pd, come già testimoniano le aperture di Veltroni per la sua nuova fondazione a esponenti di Sinistra e libertà o dell’Italia dei valori. La partita dentro e fuori il Pd finirebbe così per configurarsi come la sfida a conquistare la guida della nuova Unione tra Casini,Veltroni o Bersani (che se Casini non fosse disponibile, entrerebbe immediatamente in campo). Un epilogo che porrebbe ancora una volta la domanda sul senso stesso di dare vita al Pd per fare quello che si poteva tranquillamente fare tenendo in piedi Ds e Margherita.
diario
pagina 6 • 9 marzo 2010
L’intervista. Parla la responsabile dell’“Agenzia per la famiglia” del Comune di Parma, intervenuta a un convegno promosso dall’Udc
«Vi spiego il modello Parma»
Cecilia Greci ci racconta come sostenere e tutelare la famiglia del XXI secolo ROMA. Erano i primi del Novecento e a Parma si andava sviluppando la storica industria del pomodoro. Era un inverno freddo e c’era poca legna a disposizione. Al Comune si presentò il seguente quesito: la diamo alle imprese o la mettiamo a disposizione delle scuole per scaldare i bambini infreddoliti. La decisione fu salomonica: una metà alle une e l’altra metà alle altre. Ma l’originalità non sta nella scelta, piuttosto nel metodo che si adottò nel prenderla: vennero convocate le famiglie, si discusse a lungo e poi si deliberò. Probabilmente allora iniziò, anche se gli artefici non lo sapevano ancora, il “modello Parma”, illustrato ieri mattina al convegno “L famiglia al centro”, promosso dall’Udc, da Cecilia Greci, responsabile dell’Agenzia per la famiglia del Comune di Parma. In cosa consiste il “modello Parma”? La filosofia è quella di considerare la famiglia una risorsa. Quindi di rimetterla al centro e di darle un ruolo da protagonista. Si tratta insomma di costruire una città a misura di famiglia. Per fare ciò non abbiamo creato un apposito assessorato, ma abbiamo voluto colorare di famiglia le azioni di tutti gli assessorati. L’Agenzia, nata nel 2007 con la missione specifica di promuovere il benessere della famiglia, è quindi trasversale. Prospetta
di Gabriella Mecucci
Torniamo al “modello Parma”, che cosa fate in concreto quando dovete prendere una decisione? Innanzitutto l’Agenzia ha quattro partner: un comitato scientifico, la Consulta delle associazioni delle famiglie, il Forum della solidarietà e il centro servizi volontariato. I
«Le nostre istituzioni hanno costruito una città a misura dei diversi nuclei. E hanno come obiettivo quello di sollevare la natività e l’equità fiscale» proposte e progetti, ma solo alcuni ne coordina in prima persona, altri sono legati alle autonome attività degli assessorati. La famiglia è quindi la cifra di governo del Comune di Parma, a chi si deve questa scelta? Innanzitutto al sindaco Pietro Vignali, un quarantenne, scapolo, e per giunta poco intenzionato a mutare la propria condizione. Epperò convinto del ruolo centrale della famiglia, tanto da considerarla il focus interpretativo di tutto, e da costruire l’intera politica comunale a sua misura. Per quanto mi riguarda provengo dal volontariato e faccio l’imprenditrice. Ho una famiglia, dei figli, e sono anche affidataria di bambini.
nostri scopi di fondo sono tre: sollevare la natività, l’equità fiscale e l’equilibrio dei tempi della famiglia”. E quali sono i progetti che coordinate direttamente come Agenzia per la famiglia? Sono dieci in tutto. Il primo è stato una sorta di biglietto da visita per presentarci, per rendere evidente il modo in cui intendevamo operare. Si chiama “Per educare un fanciullo occorre un intero villaggio”. Il progetto ha portato all’allestimento di tre mostre: “Pinocchio nel paese dei diritti”,“Dove sei Piccolo Principe”, e “Momo non ho tempo”. Alla realizzazione di questo progetto ha partecipato l’intera città: dalle associazioni delle famiglie sino ai carcerati. Davvero si è
Il seminario dell’Unione di centro a Roma
Il vero fulcro della società ROMA. A tre settimane dalle elezioni l’Unione di centro ha organizzato un seminario dal titolo “La famiglia al centro”, mettendo in evidenza come questa sia il cardine principale della sua politica. Sono intervenuti intellettuali, politici, ma anche amministratori ed esponenti di
associazioni che si sono resi protagonisti di esperienze particolarmente significative. I lavori coordinati da Luisa Santolini, sono stati conclusi da Rocco Buttiglione. Ed è stato proprio lui ad informare che i risultati del seminario verranno stampati e diffusi affinché siano una base di riflessione allo
scopo di avanzare proposte di governo a livello di Regioni e di tutti gli enti locali. Questi infatti avranno sempre più un’importanza strategica nelle politiche di welfare e nelle politiche famigliari: il bene comune, una visione positiva del futuro, la ricerca di valori condivisi che diano un senso all’attività politica, un rapporto costruttivo col territorio sono in sintesi - è stato spiegato le mission della presenza politica dell’Udc. E Rocco Buttiglione ha sottolineato come la famiglia sia importantissima non solo come mondo di valori e come spazio sociale, ma anche dal punto di vista economico: le piccole e medie imprese famigliari navigano meglio nella crisi e non licenziano.
Chi mette su famiglia e la difende - ha osservato Buttiglione - vuole quindi guardare al futuro e non vive solo nel momento presente: per questo «noi non proponiamo una semplice politica per la famiglia, ma vogliamo sostenere che la famiglia è un pro(g.m.) getto di politica».
mossa un comunità intera con il coinvolgimento di migliaia di persone. Con questo spirito l’Agenzia ha condotto i bambini e le bambine di Parma in un viaggio fantastico alla scoperta dei loro diritti. Così tutta la città ha riscoperto l’importanza del rispetto per gli altri, della comunicazione, dell’ascolto e del tempo trascorso con i propri figli. Migliaia di persone coinvolte, come misurate la partecipazione? Vedendo con i nostri occhi la capacità di mobilitazione intorno alle mostre: la partecipazione delle associazioni, delle organizzazioni. E poi contando il numero di persone che le ha visitate. In genere questo tipo di eventi a Parma vede una media di 2.000 visite. Ebbene, per “Pinocchio”ne abbiamo avute 4.000, per il “Piccolo Principe”6.200 e per “Momo” 6.500.Tutto in crescendo. Ma non avrete fatto solo tre mostre... Certo che no. Abbiamo ad esempio istituito una family card che dà diritto a sconti per le famiglie con un figlio con meno di 26 anni nei negozi, nelle palestre, nei parcheggi con strisce blu, nell’assicurazione contro i rischi. E così via. Anche in questo caso il coinvolgimento della città è stato notevole. E il quoziente Parma che cosa è? Si tratta di un sistema per rimodulare le tariffe di accesso ai servizi comunali che non si fonda più sulla base dei parametri Isee, ma su nuovi parametri. E cioè in base al numero dei figli, alla presenza in famiglia di anziani, di disabili o di minori in affido, alla presenza di uno o di entrambi i genitori, alla loro situazione occupazionale. Ad esempio, con due figli tutti i redditi hanno diritto a uno sconto del 20%, con tre del 30%. Sin qui ho parlato solo di tre progetti, ma ce ne sono molti altri. La Francia con una politica fiscale e dei servizi è riuscita ad incrementare notevolmente le nascite, Parma si candida a diventare una seconda Parigi? La Francia è riuscita a fare il ricambio generazionale. Tanti giovani si affacciano alla vita, ma non sono cresciuti all’interno della famiglia e così il capitale umano non si è tradotto anche in capitale sociale. Noi cerchiamo di raggiungere entrambi gli obiettivi.
diario
9 marzo 2010 • pagina 7
Ostacoli. Inizia oggi in Senato la discussione del disegno di legge sul legittimo impedimento che dovrebbe concludersi giovedì ROMA. Barricate di Pd e Idv e astensione dell’Udc. È questo il clima che attende oggi l’arrivo in aula a Palazzo Madama del disegno di legge sul legittimo impedimento. Il provvedimento, secondo i desiderata della maggioranza, dovrebbe essere approvato nel più breve tempo possibile, forse entro giovedì. La decisione è arrivata dopo lo scontro in conferenza dei capigruppo qualche settimana fa, che aveva visto Pd e Idv opporsi alla richiesta della maggioranza di esaminare il provvedimento prima delle elezioni regionali. L’aula aveva bocciato tutte le proposte alternative presentate dal Pd e dall’Idv per dare la precedenza ad altri provvedimenti considerati più urgenti o a situazioni legate alla crisi occupazionale ed economica del Paese. La maggioranza, senza sentire altre ragioni, va avanti con il programma che si è data da tempo: legittimo impedimento in attesa di un nuovo “scudo” costituzionale per le alte cariche dello Stato o
Buttiglione: «È una medicina amara che non vorremmo propinare al Paese. Il governo ha le sue ragioni, ma se ne assuma la responsabilità» reintroduzione dell’immunità parlamentare, processo breve, stretta sulle intercettazioni, ma anche riforma costituzionale con la separazione delle carriere e la divisione del Csm.
La discussione in Senato sul legittimo impedimento arriva, comunque, in un momento certamente non favorevole per lo schieramento che fa capo a Silvio Berlusconi che deve fronteggiare le opposizioni in fermento contro il recente decreto salva-liste. «Il legittimo impedimento è una medicina amara che non vorremmo propinare al Paese. Capiamo le ragioni per cui il governo lo vuole e allora se ne assuma per intero la responsabilità». Con queste parole il presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione, ha ribadito la posizione del suo partito sul disegno di legge. «Ci siamo astenuti l’altra volta - ha chiarito ancora Buttiglione - ci asterremo adesso». Eppure l’idea del legittimo impedimento era stata lan-
Barricate a Palazzo Madama Presentati dal Pd 1200 emendamenti e altri 100 dall’Idv. L’Udc si astiene di Franco Insardà ciata proprio da Pier Ferdinando Casini in alternativa al processo breve. Ma, come è già stato chiarito dai centristi durante il dibattito a Montecitorio, il disegno di legge in discussione è stato allargato anche ai ministri, consentendo di chiedere il rinvio delle udienze sulla base di un’autocertificazione della presidenza del Consiglio, con uno stop fino a sei mesi, perché l’impegno istituzionale può anche essere continuativo, fino a un totale di 18 mesi.
Ma come ha precisato il presidente dei senatori Udc, Gianpiero D’Alia: «Non rinneghiamo la paternità del provvedimento, per noi dare a Berlusconi la possibilità di governare senza l’alibi dei processi era il male minore, ma il testo presentato dalla maggioranza non
Per una curiosa coincidenza, i testi della difesa non si sono presentati
Slitta il processo Mediaset MILANO. Nuova, clamorosa occasione di rinvio al processo sui diritti tv di Mediaset dove tra gli imputati c’è Silvio Berlusconi che risponde di frode fiscale. Ieri, infatti, nel tribunale di Milano non solo non s’è presentato il premier, ma non è arrivato nessuno dei testimoni citati proprio dalle difese. Qualcuno ha malignato che quest’assenza totale testimoni a difesa possa essere stata una mossa concordata proprio per allungare i tempi del dibattimento, tanto più che l’iter della norma che istituirebbe il “legittimo impedimento”a partecipare ai processi da parte del premier e dei ministri è ormai in dirittura d’arrivo. In ogni caso, i giudici hanno rinviato il processo al prossimo 12 aprile, ma l’avvocato Niccolò Ghedini, difensore di Berlusconi e parlamentare del Pdl, ha fatto presente che per quella data il presidente del Consiglio ha in programma un viaggio a Washington. «Non è detto che ci vada sicuramente – ha spiegato Ghedini - oggi per esempio
doveva essere in Brasile e invece non è così. Noi non siamo però in grado di indicare un’altra data». Il presidente del collegio Edoardo D’Avossa si è lamentato: «Questa però non è la collaborazione indicata dalla Corte Costituzionale». Ghedini ha risposto: «Su 83 udienze abbiamo fatto valere il legittimo impedimento solo due volte». Al termine dell’udienza, durata pochi minuti, giudici, pm e legali di Berlusconi sono rimasti brevemente riuniti per cercare di concordare il prossimo calendario del dibattimento. «Abbiamo discusso unicamente del calendario - ha spiegato Ghedini - per trovare delle date concordate e vedere quali sono gli impegni del presidente del Consiglio nelle prossime settimane. Poi comunicheremo queste date al Tribunale e al pubblico ministero. Non si è, invece, parlato di un ipotesi di stralcio della posizione del premier da quella degli altri imputati. Anche perché dello stralcio sarebbe stato necessario parlare in aula».
rispecchia assolutamente la nostra proposta. Così come abbiamo tentato alla Camera cercheremo di cambiare la norma al Senato per avere un testo senza ombre. Per questo motivo i nostri sette emendamenti escludono i ministri dai destinatari del legittimo impedimento e non ammettono forme di autogiustificazione per gli impegni del premier. Se il provvedimento non verrà modificato, il nostro voto sarà l’astensione».
E mentre l’Udc si astiene il Pd ha presentato oltre 1200 emendamenti, a conferma di quanto avevano preannunciato con una lettera i capigruppo alla Camera e al Senato nella quale si diceva che «il decreto costituisce un gravissimo precedente nella storia repubblicana. È evidente che esso avrà immediate conseguenze sul nostro atteggiamento parlamentare». Posizione ribadita dal senatore Stefano Ceccanti: «Il provvedimento serve a rendere il presidente del consiglio Berlusconi e i suoi ministri del tutto irresponsabili rispetto a reati che nulla c’entrano con la loro funzione. Davanti a un’operazione del genere non c’è alcuna possibilità di dialogo e il Pd ha infatti presentato oltre mille emendamenti e una pregiudiziale di costituzionalità. Il legittimo impedimento - secondo Ceccanti ripropone tutti i difetti del Lodo Alfano, una legge che il Pd aveva fortemente contrastato e che era stata dichiarata incostituzionale». A quelli del Pd si sommano gli altri 100 emendamenti dell’Italia dei Valori, mentre questa mattina, subito dopo il voto sulle pregiudiziali al disegno di legge è convocata un’assemblea del gruppo Pd per fare il punto “politico” della situazione e delle strategie, sul comportamento da adottare durante i lavori parlamentari. Il tutto mentre la piazza rumoreggia e si prepara a manifestare contro il decreto salva-liste. Atteggiamento questo molto criticato dal leader dell’Udc Casini: «È chiaro a tutti che gli atteggiamenti di Di Pietro alle manifestazioni di massa e le invettive contro il presidente Napolitano servono a dare un perfetto alibi a Berlusconi. Noi chiediamo al presidente del Consiglio di rispondere delle promesse che non ha realizzato in questi anni, a cominciare dal cosiddetto quoziente familiare per il quale ci siamo sempre impegnati».
economia
pagina 8 • 9 marzo 2010
Poteri forti. Il tifo di Tremonti e Berlusconi per mandare a Francoforte il leader di Bankitalia è «irrituale». E sospetto
Il cerino di Draghi La candidatura alla Bce appare sempre più una “trappola”. Ecco chi vuole bruciarlo di Giancarlo Galli iuscirà l’anno prossimo Mario Draghi nel tentativo di scalare, primo italiano in assoluto, il piano più alto dell’Eurotower di Francoforte, per occupare la poltrona ambitissima di Principe di Eurolandia che fu dell’olandese Wim Duisemberg ed ora presidiata dal francese (in scadenza di mandato), Jean Claude Trichet?
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Diciamo subito, a sgomberare il campo dagli equivoci (ve ne sono già molti, e nei mesi a venire tenderanno a moltiplicarsi), che la candidatura del nostro governatore è guardata con un misto di curiosità e scetticismo nelle Capitali che contano, cioè Berlino e Parigi. Non sottovalutando, e va detto a beneficio di Draghi, la statura dell’Uomo e del Banchiere ben introdotto nei circuiti dell’Alta Finanza internazionale, ma definendolo «un problema soprattutto italiano». E facendo capire che, con l’aria che tira, le crisi di Grecia e Spagna, ben difficilmente Francia e Germania cederanno il timone della Banca centrale europea. In un momento in cui la stessa tenuta dell’Euro è in discussione. Favorito, infatti, è Axel Weber, presidente della Bundesbank. La candidatura di Mario Draghi, comunque, esiste;
ed i nostri Berlusconi&Tremonti - nel silenzio di un’opposizione che tacendo sembra consentire - ascoltati o meno oltreconfine, tendono ad avvalorarla. Con un calore ed uno slancio inusuali, in un mondo felpato, dove vige una ferrea regola: chi troppo si espone, finisce impallinato. È il codice della Finanza! Infatti, proprio il diretto interessato evita di esprimersi. Oltretutto, Mario Draghi è un Gran Signore, di culture e stile anglosassone. Ha studiato negli Stati Uniti al Mit di Boston ed avrà una docenza ad Harward; è sposato con Serena Cappello, discendente di Bianca Cappello che nel XVI secolo sposò Francesco De Medici. È stato ai verti-
ci della Goldman Sachs, quale vicepresidente per gli affari europei di questa finanziaria internazionale, sede a Londra.
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nebbie, Mario Draghi fu richiamato d’urgenza nella soleggiata Roma fra il Natale e il Capodanno 2005-2006, per assumere la carica di governatore della banca d’Italia. Occorreva colmare il “vuoto” lasciato dal predecessore Antonio Fazio, e la scelta non era stata facile, poiché alla poltronissima di Palazzo Koch, in via Nazionale, ben quattro erano gli “aspiranti al Soglio”: l’ex commissario europeo Mario Monti, Tommaso Padoa-Schioppa, il direttore generale del Tesoro, Vitto-
Tutti sanno che, specie in questo momento di crisi, Parigi e Berlino non cederanno mai agli altri Paesi il vertice dell’istituto centrale europeo rio Grilli, Giuliano Amato, politico dalle sette vite. Berlusconi&Tremonti non hanno esitazioni. Ritengono che per arginare lo strapotere delle banche occorre un forte segnale di “discontinuità”. Il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi concorda. Vi sono anche rapporti di consuetudine fra le famiglie Ciampi e Draghi; e firma il decreto.
Mario Draghi, classe 1947, è il nono governatore della Banca d’Italia. Per completezza cronistica: il primo fu Bonaldo Stringher (19281930), seguito da Vincenzo
Jean-Claude Trichet, il governatore uscente dalla Bce. In alto, Draghi e Tremonti hanno prospettive diverse
Azzolini (1931-1944, condannato a morte per collaborazione col fascismo ma presto graziato e scarcerato), Luigi Einaudi (1945-1948), Donato Menichella (1948-1960), Guido Carli (1960-1975), Paolo Baffi (19751979), Carlo Azeglio Ciampi (1979-1993), Antonio Fazio (1993-2005). Ha scritto in un eccellente libro Elena Polidori (Splendori e miserie della Banca d’Italia, Longanesi, 2006): «È troppo presto per stabilire con ragionevole precisione quali rapporti di forza, quali veti, quali sospetti, quali calcoli e quali alleanze trasversali abbiano portato i nominantes alla soluzione Draghi (…). Tremonti, più di ogni altro, s’è battuto per chiudere l’Era Fazio e avviare un new deal a via Nazionale. L’opposizione, a partire da Romano Prodi, nega di essere stata coinvolta nella scelta, ma certamente approva».
Dall’arrivo di Mario Draghi nell’austero Palazzo Koch, molta acqua è passata sotto i poti del Tevere, ma il ruolo della Banca d’Italia s’è davvero rafforzato? Certo nessuno solleva dubbi sulla personalità di Draghi, dal rigore personale alla competenza, ma… Aveva in animo, manifestandole, una serie di riforme. A cominciare da una revisione della struttura azionaria della Banca d’Italia, che i fondatori (nel lontano 1893) vollero fosse una società per azioni, col capitale suddiviso in una miriade d’istituzioni.
Per garantirne l’autonomia. Senonché il succedersi delle fusioni, le privatizzazioni, hanno prodotto questo anomalo e sconcertante risultato: le maggiori banche (in primis il Gruppo Intesa-San Paolo) sono divenute le azioniste di riferimento. Controllati-controllori, insomma. Draghi propose di acquistare le varie quote, a rafforzare l’autonomia e l’indipendenza della Banca d’Italia. Proposte, schermaglie sul valore delle quote, insabbiamento finale. Perché?
Detto brutalmente: le banche non intendevano rinunciare al loro potere d’interdizione. E, caso pressoché unico nell’emisfero capitalistico, nessun banchiere italiano è stato chiamato a rispondere di quei comportamenti all’origine dell’attuale crisi. Dov’è finito l’impegno solenne alla “discontinuità” che aveva nel ministro Giulio Tremonti il paladino? Politicamente, dal 2006 ad oggi, a Palazzo Chigi si sono alternati Berlusconi, Romano Prodi, poi ancora Berlusconi. Quanto a Tremonti, divenuto ultrapotente (sostenuto a spada tratta dalla lega, è il più ascoltato dal premier), abbiamo assistito ad una metamorfosi. Portando Draghi alla Banca d’Italia, voleva gettare le premesse di una rivoluzione finanziaria. Necessaria ed auspicabile. Ha però cambiato casacca: da implacabile paladino-guastatore a conservatore degli equilibri. Riforme profon-
economia
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La riunione di Basilea della Banca dei regolamenti internazionali
Modello Trichet: basta aiuti ai governi «Pronti a uscire dalla crisi togliendo stimoli eccessivi»: per l’uomo dell’euro è tempo di mercato e sviluppo di Alessandro D’Amato
ROMA. La crescita mondiale rimane positiva, e si stanno riducendo gli equilibri globali. Ma soprattutto: le banche centrali sono pronte a ridurre gli stimoli all’economia. Il presidente della Bce, Jean Claude Trichet, ricordando, al termine della riunione nella sede della Bri (la Banca dei regolamenti internazinali) a Basilea, nella veste di presidente del Global Economy Meeting dice qualcosa di importante sulla crisi e molto di interessante sugli istituti di credito centrali. E a chi gli chiede se si è parlato del Fondo Monetario Europeo, destinato ad intervenire in casi di crisi di paesi, risponde con un “No” secco che fa comunque riflettere su cosa si pensa a Francoforte di quanto sta accadendo in Grecia e delle decisioni non ancora prese da Francia e Germania.
de, addio! Spiegazione: le lobby bancarie hanno per l’ennesima volta prevalso, ed il superministro non se l’è sentita di forzare. Semmai, il contrario, alla maniera del Gattopardo: far mostra di voler cambiare ma lasciando tutto come prima.
È così spuntato il “problema Draghi”, di un governatore non disponibile ad essere l’uomo buono per ogni stagione. Da gentiluomo, non esterna, non rilascia interviste deflagranti, e chi lo conosce e frequenta lo dipinge in preda al disincanto; posseduto dal desiderio di trovare una sistemazione sotto altri cieli. Quali? Ecco a questo punto Qualcuno (più d’uno, in realtà) cogliere la palla al balzo: candidarlo alla Banca centrale europea. Anche i sassi, a Francoforte, sanno trattarsi di un auspicio velleitario. Che importa? Se per caso (non si sa mai…), il trasloco riuscisse, in molti si metterebbero le penne del pavone; fallisse, l’immagine di Mario Draghi ne patirebbe, abbassando verso il basso il profilo della Banca d’Italia. Di conseguenza, lasciando campo libero ai banchieri e ai politici nazionali, che ormai marciano a braccetto: da Geronzi di Mediobanca a Bazoli d’Intesa; da Profumo di Unicredit alle Fondazioni di Giuseppe Guazzetti, sono tutti compattati attorno a Giulio Tremonti. «Le banche sono roba nostra», si potrebbe scrivere sulle loro insegne.
Mario Draghi non sembra tuttavia disponibile a portare la sua poltrona all’ammasso della claudicante partitocrazia e della casta bancaria. Con puntiglioso rigore, la Banca d’Italia ha reagito al trionfalismo sui risultati dello “scudo fiscale”, provocando l’irata replica del ministro leghista Roberto calderoni: «BankItalia torni ai suoi doveri istituzionali. Siamo ormai purtroppo abituati alla politica del tanto peggio tanto meglio… Un atteggiamento di questo genere non lo si può però concedere alla Banca d’Italia che, già in un recente passato, ha comunicato pessimistici e non fondati dati sulla disoccupazione…». A farla breve, ed a mo’ di conclusione (provvisoria): ancora una volta (e non è la prima volta), c’è chi poco gradisce l’effettiva autonomia della Banca d’Italia; e Mario Draghi rischia di farne le spese. Candidato anzitempo e maldestramente all’Eurotower, rischia di essere“bruciato”. Quasi che l’Italia non avesse bisogno di un severo gendarme ad evitare che un giorno o l’altro il Paese si risvegli con l’annuncio dell’arrivo “della greca”, terribile inflazione di cui peraltro vi è già traccia nel nostro debito pubblico, nell’evasione fiscale endemica. Questo è infatti il pericolo che si nasconde dietro il fasullo ottimismo di facciata, che solo la Banca d’Italia, non omologandosi, riesce ancora a contrastare.
«Osserviamo una forte riduzione degli squilibri globali», ha dettoTrichet al termine della riunione di Basilea. L’uomo di Francoforte ha ricordato l’impegno della comunità internazionale e in particolare del G20 a procedere verso una riduzione strutturale degli squilibri, da molti indicati come una delle cause della crisi, ma Trichet sa benissimo che questa riduzione dipende anche dall’arretramento di alcune di quelle che venivano considerate fino a qualche tempo fa come delle grandi economie, europee e non. È vero che «la crescita mondiale rimane positiva», come ha fatto sapere il banchiere centrale, ma è anche vero che questo accade grazie al traino incredibile di paesi come la Cina, che in effetti sembra scommettere sull’uscita probabile dalla crisi (altrimenti, al di là delle divergenze politiche, non starebbe progressivamente abbandonato i corposi e difensivi investimenti sui TBond). «La crescita globale e il miglioramento dei mercati finanziari - ha detto poi Trichet - possono contribuire al rientro di alcune misure di stimolo fiscale adottate dai governi nel corso dell’ultima crisi».
ri centrali si sia ribadita l’importanza della sostenibilità dei bilanci e il loro consolidamento. «Per questo, le banche centrali stanno procedendo in tutto il mondo a un generico ritiro delle misure straordinarie decise nel corso della crisi», ha dichiarato lo stesso Trichet, che qualche giorno fa aveva spiegato come la Bce stia procedendo a un ritiro graduale delle misure. Un avvertimento, più che agli Stati, ai vigilati, e in special modo a quelli che nel periodo della scarsezza della liquidità hanno attinto all’istituto di credito centrale per approvvigionarsi. Si è detto convinto, l’uomo di Francoforte, che la Bce può operare senza influire sul sentiment dei mercati. Poi l’accenno al non-argomento, ovvero al cosiddetto Fondo Monetario Europeo che dovrebbe servire a sostituire l’Fmi in casi di crisi: il discorso non è stato affrontato, anche perché non era quella la sede giusta.
Ma la non-risposta è un segnale importante, che arriva proprio quando dalla banca centrale del paese ellenico arriva una dichiarazione si-
E sulla gestione del caso-Grecia, si fa strada l’ipotesi della nascita di un inedito Fondo Monetario Europeo. Ma in ogni caso, dice il presidente, «non faremo ricorso all’Fmi»
Il presidente della Bce ha tuttavia precisato che questo rientro dalle misure di sostegno non convenzionali all’economia non deve essere interpretato come un segnale che le banche centrali «stanno cambiando la loro impostazione di politica monetaria». Ovvero, la politica dei bassi tassi d’interesse, che quindi la Bce è pronta a continuare. A completare il quadro della situazione economica globale contribuisce il fatto, ha concluso Trichet che la crescita continua a essere “relativamente robusta a livello mondiale» e che, «l’opinione è che questa crescita continui a essere positiva», cui si accompagna un «miglioramento dei mercati». Trichet ha sottolineato inoltre come nella riunione con gli altri banchie-
gnificativa: «La Grecia non avrà bisogno di aiuti esterni per far fronte alla crisi di bilancio», aveva detto il governatore della Banca centrale greca, George Provopoulos, in un’intervista pubblicata ieri sull’edizione tedesca del Financial Times. Provopoulos si è detto convinto che «uno scenario in cui avremo bisogno di aiuti non diventerà realtà», sottolineando le misure «coraggiose» prese dal governo greco per ridurre l’indebitamento. E il governatore ha comunque escluso il ricorso al Fondo Monetario Internazionale qualora si rendessero necessari aiuti esterni: «La Grecia fa parte della famiglia dell’Euro e se un aiuto sarà necessario, dovrà essere di competenza dell’eurozona». «L’Europa necessita di nuovi strumenti per fronteggiare le crisi», aveva detto in mattinata Pier Carlo Padoan, vicedirettore dell’Ocse.
panorama
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Vallanzasca, il “mito idiota” diventa fiction l “bel René”, ovvero Renato Vallanzasca, si è definito un “mito idiota”. In cosa dovrebbe consistere il mito di un delinquente? Oggi che Vallanzasca esce dal carcere per andare a lavorare in una pelletteria, ma per poi farvi ritorno ogni sera alle 19, di certo qualcosa è cambiato nella sua vita. Forse, anche lui molti decenni addietro credeva di essere un mito, una persona speciale, una vita da imitare. Forse, tanti anni fa sarà stato così. Oggi René non lo crede più: «Incontro i ragazzi che hanno problemi e cerco di spiegare con la mia esperienza che non vale affatto la pena mettersi nei guai. Qualcuno mi dice che sono un mito. Rispondo loro che un mito che si fa 40 anni di galera è un mito idiota, e che di miti non devono averne, perché i miti sono pieni di debolezze». Quaranta anni di galera. Più di una vita passata dietro le sbarre. Per cosa? Voi lo chiamereste mito?
I
Negli anni Settanta Vallanzasca fu un personaggio di spicco della mala milanese. Poi il carcere, le evasioni, i quattro ergastoli. Oggi usufruisce di un permesso in base all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. La mattina al lavoro, la sera in carcere. Non è una vita “mitica”. Finora a Vallanzasca erano stati concessi solo permessi per vedere l’anziana madre e celebrare le nozze con Antonella D’Agostino. Ma anche alcuni giorni per seguire le riprese milanesi del film che Michele Placido sta realizzando sulla sua vita. Nella pellicola, Vallanzasca è interpretato da Kim Rossi Stuart. Ecco, qui potrebbe iniziare la storia del “mito”. Perché quando il cinema, la televisione si interessano alle storie c’è sempre in agguato la mitizzazione. Anzi, è quasi una certezza. Sul grande come sul piccolo schermo i cattivi vengono meglio dei buoni. Non è una storia nuova. È già capitato innumerevoli volte. Anche con le storie dei terroristi: la loro è una vita sprecata, ingiusta, cruenta, ma quando ci sono di mezzo le telecamere ecco che il cattivo diventa fascinoso. Kim Rossi Stuart ha anche una certa somiglianza con il “bel René” e sarà stato scelto da Placido proprio per il tratto fisico così vicino all’originale. Renato Vallanzasca era bello di suo, ma Rossi Stuart lo farà ancora più bello. Ancora più bello e maledetto. Cosa c’è di più intrigante e affascinante per il cinema e la televisione? Avrà voglia Vallanzasca a schernirsi dicendo che il suo è un “mito idiota”, perché tanto ciò che resterà con la fiction sarà proprio questo: il mito. Purtroppo.
Bisogna tenere bene a mente le parole di questo ormai anziano signore che vorrebbe fare il grafico-disegnatore: «Un mito che si fa 40 anni di galera è un mito idiota, e che di miti non devono averne, perché i miti sono pieni di debolezze». La vita di Vallanzasca è la galera. La sua libertà gli è servita per diventare un ergastolano. Non so cosa racconterà il film di Michele Placido, ma dovendo girare un film sulla vita di Renato Vallanzasca e le rapine della sua banda bisognerebbe cominciare a “girare” dal carcere.
Perché solo la Chiesa ammette i propri peccati? La pedofilia e la strada (inconsueta) della trasparenza di Luigi Accattoli li scandali possono essere utili e quello tragico della pedofilia ci aiuta ad aprire gli occhi. Lo scandalo è di tutti ma l’accusa è alla Chiesa Cattolica e c’è una ragione giusta perché ciò avvenga – stante la forza di questa istituzione – e una sbagliata che è da cercare nel pregiudizio anticattolico così forte in Gran Bretagna, negli Usa e in Germania, cioè nei paesi dove più forte è stato il fuoco dei media sulla Chiesa di Roma. Ora è il turno della Germania e la fiamma raddoppia perché il Papa è tedesco. In Germania dal 1995 sono stati denunciati 210 mila casi di abusi su minori e quelli coinvolgenti la Chiesa cattolica sarebbero 94: ce n’è per tutti. Anche in questi giorni sono emersi casi non riconducibili al clero cattolico, come quello della prestigiosa scuola Odenwald (Oso) di Heppenheim, nota per il metodo pedagogico del «libero sviluppo di ogni allievo»: si parla di un alto numero di casi – tra i cinquanta e i cento – a partire dal 1971.
G
anche nelle comunità ebraiche, dei quali però si parla di meno.
Questa invocazione di una specie di “par condicio” nella denuncia dello scandalo è riecheggiata in una “nota” pubblicata sabato dall’Osservatore Romano con riferimento ai fatti di Regensburg: «La Santa Sede è grata per questo impegno di chiarezza all’interno della Chiesa e auspica che altrettanta chiarezza venga fatta anche all’interno di altre istituzioni, pubbliche e private, se veramente sta a cuore di tutti il bene dell’infanzia». È facile spiegare l’accanimento dei media sul clero cattolico: il mondo dei giornalisti è uno spontaneo sostenitore della “rivoluzione sessuale” e facilmente individua nel clero cattolico la maggiore resistenza a tale orientamento, da qui lo slancio con cui ne mette in luce – se può – le contraddizioni. Ma è da credere che quell’uso strumentale dello scandalo non durerà a lungo: la linea della denuncia pubblica imboccata da Benedetto XVI toglierà legna al falò del pregiudizio. Come si è visto nel caso tedesco, ora sono le Chiese locali a prendere l’iniziativa di rendere pubbliche le notizie che acquisisce sugli scandali. Si possono indicare tre tempi nella maturazione di questa scelta. Il primo, durato fino alla scandalo statunitense – che visse il maggior clamore nel 2004 – era caratterizzato dall’occultamento dei fatti. Il secondo, dal 2004 al 2008, fu guidato dalla tendenza ad assecondare le indagini dei media e dei tribunali. Il terzo, di cui si videro i primi segni in occasione dei viaggi statunitense e australiano di Benedetto XVI nella primavera e nell’estate del 2008, è segnato dalla decisione di prendere l’iniziativa nell’indagare, nel denunciare e nell’informare.
L’«Osservatore Romano» auspica «che altrettanta chiarezza venga fatta anche all’interno di altre istituzioni»
Dunque a far male non c’erano solo i gesuiti del Collegio Canisius di Berlino, i benedettini di Ettal in Baviera, i superiori del collegio dei cantori di Regensburg. Il male comune ovviamente non è un mezzo gaudio, ma la percezione che il dito puntato di preferenza verso il mondo cattolico sia spesso dovuto a pregiudizio anticattolico è diffusa tra i responsabili della Chiesa di Roma. Già l’ottobre scorso l’arcivescovo Silvano Tomasi, Osservatore permanente alle Nazioni Unite di Ginevra, aveva reagito a un attacco venuto in quella sede da Porteous Wood, rappresentante dell’Unione Internazionale Etica e Umanista, che si era espresso così, rivelando il convincimento che se c’è pedofilia nel mondo la colpa è di Roma: «Le molte migliaia di vittime degli abusi meritano che la comunità internazionale ne chieda conto al Vaticano». Tomasi ribattè allora che «come la Chiesa Cattolica si è adoperata per fare pulizia in casa propria, sarebbe bene che altre istituzioni e autorità, dove la maggior parte degli abusi sono stati segnalati, potessero fare lo stesso, e ne informassero i media». Tomasi fece allora riferimento a statistiche del giornale Christian Scientist Monitor, secondo le quali negli Usa le Chiese più colpite da accuse di abusi verso i bambini sarebbero quelle protestanti, e che vi sarebbero casi
Fu a Washington e a Sidney che il Papa incontrò le vittime degli abusi e affermò che i colpevoli andavano processati e che la Chiesa avrebbe collaborato con i tribunali nel metterli sotto processo. Il caso tedesco sta portando a pienezza l’atteggiamento della collaborazione.“Massima chiarezza sugli abusi in Germania”era il titolo dell’Osservatore Romano di sabato e questo era il sottotitolo: «La Chiesa opera con rigore per far luce su quanto accaduto in istituti religiosi». www.luigiaccattoli.it
panorama
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Occorre tornare a una politica fatta di valori, che vada al cuore dei problemi che contrappongono l’uomo e la società
Un progetto “alto” per il Centro Enzo Carra interviene nel dibattito lanciato da Mantini e ripreso da Paola Binetti di Enzo Carra l salutare dibattito che si è aperto su «l’Unione di centro che vogliamo» – al quale hanno dato vita Pierluigi Mantini e Paola Binetti – esige qualche precisazione. Partirei da una premessa: nel falò delle ideologie che non scalda più nessuno, il cristianesimo è una scommessa che resta in campo. Forse l’unica.
I
Quelli che sembravano paradossi fino a pochi anni fa – uno per tutti: l’uguaglianza fra gli uomini – sono oggi alla base di qualunque disegno sociale o politico. Il cristianesimo come ultima carta da giocare è tuttavia un concetto ambizioso e rischiosissimo. Non capisco perché un partito che è una libera associazione di donne e di uomini non possa giocarla apertamente con tutta la generosità che richiede. Questo anche nella convinzione che il rinnovamento generale di cui c’è grande bisogno passa attraverso la testimonianza e l’insegnamento di chi saprà tendere la mano a quei giovani che si stanno facendo le ossa nell’enorme vivaio dell’associazionismo cat-
tolico. Detto questo, il mio contributo si può riassumere in tre punti chiave.
1) La caratterizzazione clericale del partito è, come si diceva una volta, un “falso problema”. In questi casi è meglio usare la lama di Occam («entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem»). In una società fortemente secolarizzata come è la nostra non mi pare che quello del clericalismo sia il maggior ostacolo da superare. Oltre-
tutto - e per nostra fortuna - il Papa e i vescovi rilanciano con forza il ruolo dei laici in politica. E comunque: perché dovremmo chiuderci in un recinto? Ricordo, di passaggio, che le grandi esperienze dei cattolici in politica (Partito popolare, Democrazia cristiana) sono state improntate al non confessionalismo. Tagliata dunque la questione con la suddetta lama, resta da segnalare che è comunque insensato, almeno per me, seguire sul terreno
vicende, nella teoria e anche nella prassi. Si è chiesto solennemente perdono per i peccati della colonizzazione e per quelli delle crociate ma, per il momento almeno, vedo che dal cristianesimo arrivano alla società globale correzioni utili e suggerimenti morali. Niente che faccia male.
3) Più che giusta quindi, fino ai limiti dell’ovvio, l’adesione all’umanesimo cristiano. Cosa sarebbe infatti, se non avesse l’uomo al centro, la rivelazione di Cristo? («et Verbum caro factum est»). Scontato dunque un impegno - che per molti è tutt’altro che scontato - per la persona e la sua dignità, mi applicherei quindi all’essenziale. E l’essenziale per un cristiano, per un partito che abbia nel cristianesimo una fonte di pensiero e di azione, è accettare il tempo che gli è stato assegnato (Moro) per realizzarvi un progetto di cambiamento, di conversione. Per citare il recente libro di Vincenzo Paglia e Franco Scaglia (In cerca dell’anima), nell’attuale inerzia e rassegnazione, anche agli scandali, della società italiana, i cristiani devono «alzare le idee e le prospettive» perché, davvero, come ricorda Paglia citando a sua volta Ignazio di Antiochia, «Il cristianesimo non è opera di persuasione ma di grandezza». Scusate se è poco.
All’interno del Pd e del Pdl ormai sembra davvero non esserci più spazio per il pensiero cattolico dell’indifferentismo i cosiddetti grandi partiti, Pdl e Pd. D’altra parte il loro pluralismo è di tipo orwelliano. All’interno di quei partiti c’è sempre una visione del mondo più uguale delle altre. E, naturalmente, il pensiero cattolico non è, nel Pdl e nel Pd, uno dei «più uguali».
2) È molto positivo il richiamo all’umanesimo cristiano di cui ha parlato spesso di recente il Cardinal Carlo Maria Martini). Se facciamo però un ardito paragone con altre fasi storiche possiamo concludere che nella globalizzazione le responsabilità e le colpe di parte cristiana sono assai minori di quelle che le si sono attribuite in altre
Statistiche. Secondo l’Istat, un quarto di noi non parla mai di temi che riguardano la vita pubblica
Se gli italiani ignorano la politica di Gualtiero Lami
ROMA. Gli italiani non amano la politica: il 23,3% della popolazione di 14 anni e più non si informa mai di politica. Si tratta - secondo i dati di un’indagine Istat del 2009 in valori assoluti di quasi 4 milioni di uomini e di 7,847 milioni di donne. Il 60,7% delle persone di 14 anni e piu’ si informa almeno una volta a settimana e il 35,9% ogni giorno. Parla di politica almeno una volta a settimana il 39,4%, ne parla solo occasionalmente il 26,2%, mentre non ne parla mai il 31,9%. Ci si informa, dunque, di politica più di quanto se ne parli. L’ascolto di dibattiti politici e’meno diffuso e coinvolge il 23,6% della popolazione: solo 12 milioni di persone dichiarano, infatti, di aver ascoltato dibattiti politici almeno una volta nell’anno. Emergono poi profonde differenze di genere nel rapporto con la politica. La politica continua ad essere percepita da molte donne come una dimensione lontana dai propri interessi. Solo il 53,6% delle donne, infatti, si informa settimanalmente di politica, contro il 68,5% degli uomini. Se si considera lo scambio di opinio-
ni sui temi politici, le differenze di genere sono ugualmente elevate. Le donne parlano di politica almeno una volta a settimana solo nel 31,3% dei casi contro il 48,1% degli uomini. Ben il 40,1% delle donne non parla di politica e il 29,3% non si informa mai. Analogamente avviene per l’ascolto di dibattiti politici, dove il coinvolgimento
gazzi di 14-17 anni e il 25,2% delle persone di 75 anni e più, mentre a non parlarne mai sono, rispettivamente, il 46,8% e il 54,2%. Il divario di genere è meno accentuato fra le persone fino a 24 anni, ma cresce in misura importante dopo questa età e raggiunge il massimo dopo i 54 anni. Le differenze di genere quasi si annullano tra i ragazzi di 14-17 anni: la percentuale di ragazze che parlano di politica almeno una volta a settimana (23,4%) è molto vicina a quella dei loro coetanei (25,5%), mentre la percentuale di coloro che non ne parlano mai è addirittura inferiore (45,6% rispetto al 48,1%). Infine, la televisione è il canale di informazione che in assoluto viene utilizzato di più (93,5%). Seguono i quotidiani (49,9%). Circa due terzi di chi non si informa di politica (66,4%) sono motivati dal disinteresse, un quarto (24,8%) dalla sfiducia nella politica. Il 13,8% considera la politica troppo complicata e il 6,2% non ha tempo da dedicarvi.
La quasi totalità (il 93,5%) di chi conosce le cose del Palazzo e i suoi retroscena, si informa soltanto attraverso i programmi televisivi delle donne è molto più basso (19,5% contro 28%). La partecipazione politica cresce con l’età, raggiunge il massimo nelle età centrali della vita, per poi decrescere nelle età anziane.
I livelli più bassi sono raggiunti dai giovani e dagli anziani: parla di politica almeno una volta a settimana il 24,5% dei ra-
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entre oggi ci incontriamo qui, ricordiamo le donne che sono morte per permetterci di parlare con voce alta. Le donne che hanno reso possibile ad altre donne di raggiungere i loro sogni. Dobbiamo onorare quelle donne che – nei campi, nelle strade, negli uffici – lavorano giorno dopo giorno con costanza e preparazione: è grazie a loro che le donne afgane hanno capito che esiste un mondo diverso e migliore. Nel 2004, grazie anche all’esempio di quelle donne, sono stata strappata dalla mia vita ordinaria per diventare la prima donna candidata alla presidenza del mio Paese. Ho deciso di prendere una strada così ardua perché non potevo più tollerare la sofferenza del mio popolo, uomini e donne. La cacciata dei talebani è stato uno dei momenti dorati nella vita della nostra nazione: subito dopo la loro caduta la popolazione era ottimista, piovevano dalla comunità internazionale aiuti preziosi e consigli ancora più preziosi, e il sentimento generale era molto positivo. Per migliorare, per crescere e per far tornare nel mio Paese quella sensazione ho sognato molto al di là di quanto sogni un’ordinaria donna afgana. Ho sognato di trasformare la mia nazione e liberare la mia gente dalla povertà e dalle privazioni che le erano state imposte da un regime terribile. Non ho mai voluto diventare il primo presidente dopo la guerra per motivi personali, ma perché credo nel mondo afgano e nel suo popolo. Nessuno, meglio di una donna, conosce le potenzialità delle donne: che siano in Afghanistan o in qualunque altro Paese. E quindi, cosa ancora più importante di quelle dette in precedenza, credo che essermi candidata alla presidenza abbia raggiunto quanto meno uno scopo importantissimo: le donne che mi hanno visto hanno capito cosa è possibile fare, e gli uomini con cui ho avuto a che fare sono stati costretti ad ammettere che le donne hanno una propria autonomia. In una parola, ho dato un colpo di piccone ai muri che vengono imposti nella nostra società.
Ginevra 2010
Il Summit per i diritti umani si è aperto con la testimonianza del Il Paese «ha molto da dare, ma deve imparare il rispet
M
Anche se non ho avuto successo nel mio tentativo, penso di aver contribuito a liberare la strada per tutte quelle donne che, oggi o domani, vorranno abbandonare i loro rifugi e cercare di migliorare la vita del Paese. Sapevo, quando mi sono buttata in questa avventura, che combattevo contro un sistema e un candidato sostenuti dalla comunità internazionale; sapevo di avere pochissime speranze di riuscita, e che sarebbe stato necessario tutto l’acume politico che si richiede a un candidato presidente. Ma sapevo anche di avere fra le mani un’opportunità quasi unica: dimostrare alla mia gente, e soprattutto alle donne, che l’era di confinamento sociale del sesso femminile in Afghanistan si avvia verso la fine. Guardando indietro, posso ammettere senza problemi di aver perso la battaglia per la presidenza: ma ho vinto un’altra, più importante guerra. Ho ottenuto la partecipazione di una donna al maggior processo politico del Paese, rendendo le altre donne consapevoli del loro potenziale. La mia campagna è stata difficile, è inutile nasconderlo: ho subito tantissime pressioni e minacce. Non ne ho mai parlato in pubblico, perché non voglio scoraggiare altre donne dal concorrere per un ruolo pubblico. È stata difficile perché ero una donna in una società abituata a
La lunga str
di Mass
I due presidenti attesi al Summit
E oggi parlano Lech Walesa e Vaclav Havel È atteso per oggi, in mattinata, l’intervento al Summit di Ginevra per i diritti umani e la democrazia dei due fra i più importanti dissidenti anti-sovietici. Il polacco Lech Walesa e il ceco Vaclav Havel, infatti, hanno accettato di co-presiedere l’incontro per dimostrare la loro vicinanza ai nuovi dissidenti, che lottano non più contro l’Unione sovietica ma contro i regimi asiatici, africani e latinoamericani. Un piccolo giallo riguarda la partecipazione fisica dei due: se infatti è garantito quanto meno un messaggio scritto, le condizioni di salute dell’ex presidente della Repubblica ceca non gli permetterebbero di partecipare al Summit svizzero. Da parte sua, l’ufficio del fondatore di Solidarnosc ha comunicato che l’ex sindacalista polacco «aspetterà di sapere cosa fa il suo vecchio amico, prima di decidere e mettere qualcuno in imbarazzo». Comunque, dicono ancora da Varsavia, «entrambi sono con il cuore insieme a chi lotta per la libertà in tutto il mondo, proprio come hanno fatto loro in Europa».
La realtà femminile, le elezioni, la paura e la violenza. L’Afghanistan è a un bivio cruciale, per lui e per noi non dare peso alle parole di una donna, dove le donne che parlano in pubblico sono considerate un abominio e dove una donna candidata presidente è considerata una pazza. Inoltre, non avevo alcuna risorsa: mi sono dovuta affidare, nel corso della mia corsa, a una piccola rete di amici e parenti che hanno creduto in me. Per ottenere un poco di attenzione ho dovuto escogitare diversi metodi, forse poco ortodossi, come mettermi a fare un discorso in mezzo a una strada affollata sperando che qualcuno si interessasse alle mie parole. A volte mi hanno detto che ero pazza: ma quei giorni passati sotto il sole a parlare mi hanno portato molti, moltissimi voti.
È stato difficile inoltre perché non avevo alcuna familiarità con il processo elettorale e le sue regole non scritte: una macchina enorme, che richiede attenzione ma soprattutto conoscenza. Ma ho cercato di imparare, e ci sono riuscita: nel 2002 sono arrivata seconda su tre candidati e nel 2004 sesta su diciotto. Dopo questi risultati, molte altre donne sono entrate in politica: al-
le ultime elezioni, due donne hanno sfidato Karzai; e l’Afghanistan è decimo, su scala mondiale, per numero di parlamentari femmine. Ho creduto e credo ancora oggi nella creazione di una rete di leader donne, ma sono convinta che una rete di questo tipo debba condividere una visione comune di idee e obiettivi. Una sorta di “sorellanza” della politica, che intenda come suo obiettivo primario il miglioramento, non importa quanto piccolo, delle condizioni della vita femminile in Afghanistan.
I diritti umani e il rispetto degli esseri umani sono la chiave di lettura della società, una chiave che deve camminare di pari passo con il processo politico inteso in senso lato. Quando, girando per il mondo, mi chiedono se la situazione delle donne sia oggi migliore o peggiore rispetto al passato, posso rispondere in un unico modo: abbiamo già vissuto l’inferno in Terra, quello dei talebani. Niente può essere peggiore. Le donne afgane stanno meglio, oggi: hanno leggi che sulla carta eliminano la discriminazione, un piano decennale
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ella prima donna candidata a presidente dell’Afghanistan. tto per gli esseri umani. Sconosciuto ai talebani»
La dottoressa Massouda Jalal. Dopo aver esercitato per anni la professione medica, alla caduta del regime talebano si è candidata alle elezioni presidenziali. A quelle del 2002 è arrivata seconda su tre, a quelle del 2004 sesta su diciotto. Oggi guida un gruppo di donne che lavora per lo sviluppo della società afgana
rada di Kabul
souda Jalal
re la discriminazione sessuale. Dovete sostenere la crescita di una nuova generazione di donne leader, come accade da voi. Noi abbiamo una Costituzione democratica, che persino in Afghanistan è considerata la base della società. Abbiamo un testo che si basa su principi democratici e sugli standard dei diritti umani. Ma, nel nostro sistema giuridico, le leggi possono essere cambiate. Nella nuova democrazia in cui viviamo, le leggi discriminatorie vengono prese e modificate in maniera da rispondere a questi standard. E sarebbe ipocrita pensare che questo av-
“ per lo sviluppo femminile e una Costituzione che proibisce di considerarci oggetti. Le nostre ragazze sono tornate nelle scuole, possono entrare nelle moschee e possono votare: sono tornate ad essere delle persone, degli esseri umani. Tuttavia, questi risultati non sono niente confrontati con l’enormità dei problemi che dobbiamo affrontare. La maggioranza del nostro popolo è povera, e fra i più poveri ci sono le donne; le violenze domestiche continuano a essere una piaga. Abbiamo una mortalità collegata alla maternità elevatissima, e un tasso di natalità non alto. Questi problemi restano, ma c’erano già prima della cacciata dei talebani. Soltanto, ora se ne può parlare e si possono cercare delle strade per affrontarli. E credetemi: se affronti un problema enorme senza neanche un granello di speranza, sei già morto.
Oggi, invece, siamo più vivi che mai. Le donne vestono ancora con il burqa: per alcune, è il loro modo di essere. È una forma di protezione, soprattutto nelle aree rurali del Paese. Levare a queste donne il loro burqa è una forma di violenza simile a chi vuole imporlo: bisogna lasciare libere le donne, anche perché questo vestito è sempre meno usato. Ci saranno violenze, ci saranno brutte sorprese, ma date tempo alle donne del mio Paese: vi sorprenderanno. Così come quelle del resto del mondo, perché non c’è alcun dubbio che – fatta eccezione per i Paesi occidentali – la questione femminile sia lontana dall’essere risolta. Se siamo in grado, come afgane, di ottenere qualcosa è soltanto
perché siamo stati sostenute dalla comunità internazionale. Così come la minoranza religiosa del mio Paese, che non viene considerata da un punto di vista costituzionale: questo è un punto di vista che non può essere accettato da nessuno, perché parte da una legge ingiusta che abbiamo ereditato da un regime crudele. Questo è un segnale di come l’estremismo religioso sia in grado, ancora adesso, di prendere il potere nel mio Paese: una legge discriminatoria nei confronti di una minoranza religiosa, a Kabul, può essere pensata, scritta e firmata in meno di un mese. E questo perché non c’è una Costituzione che garantisce veramente tutti i cittadini. Per fare un esempio di quanto siano ancora potenti i fondamentalisti religiosi, che si vedono approvare una legge nel giro di un mese, vorrei fare un esempio. Nel 2005, nominata ma non ancora eletta ministro delle Donne, ho scritto la bozza di una legge contro la violenza domestica. Sono stata costretta a portarla al ministero della Giustizia, che a sua volta l’ha presentata in Parlamento.
Dopo quattro anni, non era stata ancora discussa. Poi è stata approvata, ma dire che è stata presa sotto gamba è farle un complimento. La sostanza di questo governo è strettamente connessa alla religione e alla discriminazione: questo dimostra che abbiamo ancora bisogno di aiuto, nella strada verso la democrazia. C’è bisogno di un continuo aiuto da parte vostra, perché il mio governo non è ancora in grado di fare i passi necessari per distrugge-
Nella nostra nuova realtà, gli estremisti sono ancora troppo potenti. Gestiscono le leggi e la società in attesa di tornare al potere. Ecco perché l’Occidente deve aiutarci oggi a combattere per una vera democrazia
”
viene soltanto perché siamo diventati da un giorno all’altro dei cultori dei diritti umani: in realtà, è la pressione del mondo esterno - in particolar modo del mondo occidentale - che ci ha convinto nel tempo ad adeguare sulla carta il nostro sistema giurisprudenziale. Ma allora viene da chiedersi come mai ci siano ancora così tanti casi di violazioni e di discriminazione nei confronti delle donne. La risposta viene sia dalla mentalità sociale dell’Afghanistan - quasi impossibile da scardinare - che dalle leggi tribali. Queste norme, approvate dalle jirga degli anziani, hanno un valore molto grande nelle province. Qui ci sono ancora i talebani, e il potere del governo non è ancora arrivato: è comprensibile che le leggi siano quelle decise dalle comunità legali, molto poco democratiche. Ma non sono leggi insuperabili: lì dove c’è il governo, con tutti i suoi difetti, ecco che anche la democrazia e i diritti umani si affacciano.
Non si tratta di un amore sviscerato della popolazione nei confronti dei vecchi usi e costumi. Anche se sinceramente religioso, il popolo afgano non è composto da razzisti: certo, discriminano le donne ma non poggiano questo modo di pensare su basi religiose. O almeno, non sempre. Quindi il passo da compiere riguarda il potere del governo, non le sue leggi: bisogna fare in modo che l’autorità di Kabul arrivi anche nelle parti rurali del Paese. Se lavori duro, in Afghanistan puoi imporre un vero e proprio stato di diritto. E quei modi di pensare e di agire, contrari alle donne e alle minoranze religiose, verranno presto messi da parte. Per i talebani, il discorso è diverso: loro si oppongono non tanto alla democrazia in quanto tale, ma al senso moderno del mondo. E questo perché sanno di essere vicini al collasso: senza il potere che gli viene concesso dalla tradizione, rimangono un gruppo di guerriglieri che miete vittime anche fra la popolazione civile. E questo non li fa amare. Ecco perché dovete aiutare non soltanto noi, ma anche le vostre donne: perché soltanto la “sorellanza” mondiale potrà aiutare le donne che soffrono. Io vi ringrazio per il tempo che mi avete concesso, perché come sapete io vengo da un Paese noto per essere il peggiore dove una donna possa nascere. Celebrando la Giornata delle donne, impariamo da chi è venuto prima di noi: abbiamo un debito di riconoscenza nei confronti di coloro che sono morti per portare la loro testimonianza.
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Le etnie cinesi «vogliono l’auto-determinazione. E seguiranno la strada della non-violenza fino alla vittoria»
Violenze & menzogne
Rebiya Kadeer, leader uighura: «Da sessant’anni, ogni giorno, subiamo le violenze di Pechino. Nel silenzio del mondo» di Vincenzo Faccioli Pintozzi ata e vissuta almeno tre volte, Rebiya Kadeer è la leader di una delle etnie cinesi che con Pechino e la sua cultura ha meno a che fare. Gli uighuri, popolo orgoglioso e guerriero, popolano la terra di steppe della Cina settentrionale: quella che oggi è chiamata Regione autonoma del Xinjiang ma che per i suoi abitanti è il Turkestan orientale. La Kadeer ha l’aspetto della madre, piuttosto che di una guerriera. E in effetti, con undici figli all’attivo, il ruolo le calza a pennello: soltanto che, oltre che madre, è stata deputata del Parlamento cinese, miliardaria e condannata a morte. Oggi guida una protesta nata sessant’anni fa, da un esilio statunitense che le pesa più di ogni altra cosa. Cosa chiede il popolo uighuro? L’etnia uighura chiede al governo di Pechino l’auto-determinazione, maggiore autonomia per il Turkestan orientale. Per arrivare a ottenere questi risultati non ci sono dubbi: la strada da seguire è non violenta. Quindi è necessario iniziare a parlare della nostra situazione, della situazione del nostro popolo, con i governi occidentali: il Parlamento europeo e il Congresso americano sono gli interlocutori migliori, in questo senso. Anche perché sono loro che possono, in un secondo momento, fare pressioni sulla Cina per arrivare a delle concessioni reali. Il dialogo è senza dubbio l’unica strada per l`autonomia e auto-determinazione della regione. Pechino sostiene che nel vostro territorio si annidino delle cellule di al Qaeda, che vengono protette dal vostro popolo, e che per questo siete tenuti sotto controllo. Cosa risponde a chi accusa gli uighuri di terrorismo? Si tratta di menzogne,
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nient`altro che menzogne. Accuse false, che vengono mosse dal governo cinese con il solo scopo di cancellarci. Pechino, con il suo atteggiamento, prende in giro i suoi cittadini di etnia uighura e quelli di etnia han (maggioritaria nel Paese, ndr). Ci danno sulla carta dei diritti che non abbiamo modo di esercitare, oltre al fatto che ci impediscono con la storia del terrorismo di coltivare la nostra lingua e le nostre tradizioni. Non abbiamo neanche la libertà di sviluppare un’economia autonoma. Non subiamo altro che repressione. A proposito di economia, la sua storia personale dimostra che non è impossibile avere successo economico, per un uighuro: lei è stata imprenditrice e persino deputata presso il Parlamento cinese.
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È necessario parlare della nostra situazione con l’Occidente: Europa e America sono gli interlocutori migliori, perché possono fare pressioni sulla Cina
”
Non crede che si possa spezzare la dominazione economica degli han? È impossibile, oggi o nel futuro, che si crei una borghesia uighura. I cinesi hanno eliminato ogni possibilità in questo senso. Anche perché sanno che ottenendo una migliore autonomia economica saremmo in grado di fare più cose all’interno della regione. E anche per questo che ci impediscono le cose più semplici, dal cantare una canzone tradizionale al raccontare le nostre leggende. In questi giorni si celebrano in Cina molti anniversari: dal movimento del 4 maggio al massacro di piazza Tiananmen. Cosa pensa del movimento dissidente cinese?
Ha rapporti con loro? Ho dei rapporti con tutti i dissidenti che vivono in Cina. Oltre a quelli tibetani e a quelli della Mongolia interna, che rappresentano etnie particolari, matengo dei contatti con gli aderential Falun Gong (movimento spirituale bandito dal governo di Pechino, che lo considera ”malvagio”, ndr), con Wei Jingsheng (il creatore del “muro della democrazia”, ndr] e altri. Insieme cerchiamo di lavorare per combattere il regime, cercando di ottenere risultati concreti. Noi aiutiamo loro e loro aiutano noi. Cosa potrebbero fare, all’atto pratico, i governi occidentali per aiutare la causa uighura? D’altra parte, la Cina è la potenza economica più stabile del mondo, e la Clinton è andata a Pechino senza parlare di diritti umani... Il nostro pianeta è pieno di Paesi dove i diritti umani sono negati. Penso alla Cina, ma anche al Tibet, al Turkestan, alla Birmania, al Sudan, al Vietnam. E sono soltanto i primi esempi che mi vengono in mente. In Occidente, invece, i diritti umani sono una realtà e una certezza rispettata da tutti. Il nuovo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha espresso l`intenzione di volerci aiutare. Il fatto che il Congresso americano ci permetta di parlare della nostra situazione dimostra la volontà anche del Dipartimento di Stato di fare qualcosa per noi. La Cina dice di portare nella nostra terra il suo aiuto economico, ma questo è un aiuto velenoso. Il Turkestan orientale subisce dei soprusi incredibili: ad esempio, prendono le nostre ragazze - quelle fra i 14 e i 25 anni - e le costringono ad andare in Cina per “lavorare”, anche dove il lavoro non c’è. Sembra di assistere al ritorno della terribile Rivoluzione Culturale. Ogni giorno vengono calpestati i nostri diritti, ogni giorno qualcuno subisce le loro violenze. Hu Jintao, il presidente cinese, parla della necessità di una società armoniosa. Lei è stata deputata presso l’Assemblea nazionale cinese e conosce molti dei suoi membri. Su chi punterebbe, nel mondo politico, per cambiare la situazione della sua regione? Se potessi, io parlerei anche con lo stesso Hu Jintao. So che non potrebbe risolvere tutto, ma sarebbe importante, perché sono sicura che riuscirei a fargli cambiare idea. Parlerei con il suo entourage e con i suoi consiglieri. Il presidente dice cose giuste, parla di necessità che sentiamo tutti noi: la pace, lo sviluppo, l`armonia sociale. Ovviamente, al primo punto spicca la pace: è la condizione necessaria per svi-
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Venti anni fa non esistevano organizzazioni per i diritti umani nel mio Paese: oggi sono dozzine. La giunta militare è sotto costante pressione e non può andare avanti così ancora per molto
o Kyi è un attivista per i diritti umani birmano. Nel 1988, studente universitario, partecipa a una serie di manifestazioni contro il regime del suo Paese chiamata “la rivolta dell’8/8/’88”. Durante la repressione di queste proteste vengono uccisi oltre tremila manifestanti e altre diverse migliaia sono i feriti. Molti vengono arrestati, tra cui lo stesso Kyi, che trascorre in carcere più di sette anni, sottoposto a torture e continui maltrattamenti. Bo tuttavia riesce a resistere, impara l’inglese ed elabora un piano di tutela dei prigionieri politici birmani. Quando viene liberato fugge a Mae Sot, nel sud della Thailandia, e concretizza il progetto dando vita all’Assistance Association for Political Prisoners in Burma, la cui attività consiste nel raccogliere notizie sui detenuti politici delle carceri birmane e chiedere alle forze politiche e alle associazioni per i diritti umani di esercitare pressioni sul regime di Rangoon per la loro liberazione. Ad esempio, Bo Kyi collabora con Human Rights Watch, che l’ha insignito del suo premio annuale agli attivisti più coraggiosi con la seguente motivazione:
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«Negli ultimi vent’anni, Bo Kyi ha dimostrato una grande e coraggiosa risolutezza, condividendo la sua storia e quella di altri prigionieri politici e denunciando gli abusi del governo birmano. Human Rights Watch onora Bo Kyi per il suo eroico sforzo di far sentire la sua voce contro la repressione birmana e di difendere coloro che hanno osato criticare la giunta militare». Bo Kyi ha raccontato della repressione del regime birmano, che negli ultimi anni ha raddoppiato gli arresti per motivi politici e incarcera, quando non trova gli uomini cui dà la caccia, le loro mogli, i genitori, gli amici. L’Assistant Association si batte perché tutti questi prigionieri ricevano sostegno finanziario, cure mediche, verifiche indipendenti delle loro condizioni, e infine il rilascio. L’attività ventennale di Bo Kyi ha dato impulso al resto della società birmana, dove sono nate numerose associazioni per la democrazia. Quella di seguito è la sua storia, raccontata da lui in prima persona. «Sono stato arrestato a tavola, mentre mangiavo con la mia famiglia. Sono stato ammanettato, incappucciato e portato via in macchina. Dentro mi è stato ordinato di abbassare la testa, in modo da non farmi vedere. Durante l’interrogatorio, non mi sono stati dati né cibo né bevande. Guardando il muro davanti a me, vedevo macchie di sangue: era il sangue di quelli che mi avevano preceduto. La gente aveva anche scritto il proprio nome sul muro, con le unghie: ho riconosciuto nomi amici. Ma un pensiero mi ha colto: dov’erano ora quelle persone? Erano state torturate? Erano morte? Mi sono spaventato sempre di più, e in quel luppare un mondo migliore. Cosa pensa del Dalai Lama? Il vostro è un percorso simile, votato alla non violenza, ma i risultati del Tibet sono scoraggianti. Ci sono delle cose da cambiare, rispetto alla lezione del leader buddista?
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”
Il birmano Bo Kyi (nella foto) ha partecipato, nel 1988, a una serie di manifestazioni contro il regime del suo Paese, “la rivolta dell’8/8/88”.Nella pagina accanto, la leader degli uighuri Rebiya Kadeer
La terribile testimonianza di un attivista per i diritti umani in Birmania fuggito dal regime
Sette anni in cella a Rangoon «Ho passato mesi ridotto in condizioni inumane: non potevo leggere, scrivere o parlare ai detenuti» di Bo Kyi momento ho capito che la mia tortura era già iniziata: senza cibo o acqua, lasciando che il terrore si prendesse la mia mente. Sono rimasto in prigione per nove giorni, e poi trasferito. Nell’altro luogo di detenzione ho dormito per terra, senza igiene di sorta o tanto meno privacy. Non c’erano cure sanitarie per chi stava male, neanche per i malati gravi. Come risultato di tutte le violenze contro di me, ho iniziato a soffrire di cuore e alla schiena.
Ho passato più di tre anni ridotto in condizioni inumane, persino in isolamento: non mi era permesso di leggere, scrivere o parlare con altri detenuti. Intellettualmente, stavo morendo per mano dei miei carcerieri. Ma, quando le guardie si allontanavano, potevo sentire i miei compagni di prigionia parlare: molti avevano studiato all’estero e, per non farsi capire all’interno delle celle, parlavano fra loro in inglese. In questo modo ho iniziato a imparare i rudimenti di quella lingua. Il Dalai Lama è fuori dalla Cina, e sono convinta che la sua è una battaglia che prima o poi verrà vinta. È Pechino che prende in giro lui e il Tibet, parlando di dialoghi che poi producono soltanto maggiore repressione. D`altra parte, anche la nostra - come quella
Alla fine, dopo sette anni in queste condizioni, sono stato rilasciato. E ancora non ho capito per quale motivo sono stato arrestato. Dopo la liberazione ho deciso di lasciare la Birmania, ma di continuare a parlare per coloro che rimangono ancora oggi in galera. Ho fondato un’associazione per sostenere i prigionieri politici in Birmania, e lavoro a stretto contatto con altre Organizzazioni non governative; abbiamo un metodo per comunicare con chi è rimasto dentro, ma non posso rivelarlo. Non vogliamo che il regime militare scopra i nostri canali, perché il nostro lavoro gli dà molto fastidio. Infatti, le testimonianze che portiamo avanti vengono riprese dagli organi di informazione di tutto il mondo, che li usa per descrivere una parte della Birmania. E così fanno anche i leader politici della comunità internazionale. Tutto questo, nel tempo, ha iniziato a generare una pressione mondiale sulla giunta midel capo dei tibetani - dura da 60 anni. Ricordo che Mao invitò a Pechino i leader uighuri per parlare del Turkestan, ma il loro aereo precipitò in un incidente mai del tutto chiarito. Da allora, ogni volta che emerge un leader fra di noi viene arrestato, torturato e ucciso.
litare, che presto dovrà cambiare rotta.
Noi sappiamo che le cose, nel Paese, stanno peggiorando: nell’ultimo anno, il numero dei prigionieri politici è raddoppiato. Se il regime non riesce a trovare chi cerca, quando parte alla caccia di qualcuno, prende un ostaggio: madre, padre, figlio, moglie.Voglio sottolineare che la mia esperienza in carcere è ancora una realtà per migliaia di persone: fino a che il regime non interromperà l’uso delle carceri politiche, non ci potranno essere democrazia o pace in Birmania. La storia insegna che queste dittature semplicemente non reggono, e quella di Than Shwe non farà eccezione. Venti anni fa, non esistevano organizzazioni per i diritti umani nel mio Paese: oggi sono dozzine. La giunta è sotto costante pressione, e non può andare avanti così. Con l’aiuto del mondo, cambiare la situazione non è impossibile. E la mia nazione sarà libera». Qual è il suo pensiero più bello? Avere la possibilità di girare per il mondo e parlare della situazione in cui vive la mia popolazione. E il più brutto? Quando fui costretta, a 15 anni, a lasciare la mia famiglia.
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Terremoti. Continua la catena di eventi tellurici dopo quelli di Haiti e del Cile di 57 morti e circa un centinaio feriti – al momento in cui scriviamo – il bilancio del terremoto di magnitudo 6 che la scorsa notte alle 4.32 (ora locale, (le 3.32 in Italia) ha colpito la provincia orientale turca di Elazig. Le vittime, fra cui diversi bambini, abitavano in cinque villaggi situati nei pressi Karakoçan, dove è stato localizzato l’epicentro. La provincia di Elazig è attraversata dalla faglia sismica attiva dell’Anatolia orientalee fortunatamente è una regiona non densamente abitata. Dopo Haiti, il Cile e la Grecia, colpite recentemente da movimenti tellurici è arrivato anche il turno della penisola analtolica, già nota come zona altamente sismica. Come se la terra si fosse svegliata e rimessa in movimento nelle profondità terrestri, dove si muovono le faglie geologiche della crosta.
È
Anche la Chiesa cattolica ha espersso preoccupazione e solidarietà per l’evento che ha colpito la Turchia. «Il sisma ha colpito una zona di antica presenza cristiana». Lo ha affermato ieri monsignor Luigi Padovese, presidente dei vescovi di Turchia, parlando del sisma che ha avuto il suo epicentro nei pressi di Elazig, nella Turchia centro-orientale. «Le notizie che abbiamo spiega il vescovo francescano in un’intervista al Servizio informazione religiosa – sono poche e frammentate. Stiamo cercando di saperne di più per poter organizzare con la Caritas Turchia un primo soccorso alle popolazioni colpite» ha aggiunto l’alto prelato. «La solidarietà e la preghiera di tutte le Chiese cristiane in Europa sono assicurate dal Consiglio delle Conferenze episcopali europee e la Kek, cui fanno capo le altre
Sisma in Anatolia, decine di morti Mobilitata la Caritas cattolica, Bruxelles pronta a intervenire «se necessario» di Pierre Chiartano
di Okcular e Yukari Demirci, sui quali da stamani si sono concentrati i soccorritori arrivati dalle vicine città di Tunceli, Bingol, Diyarbakir, Mardin ed Erzurum. Secondo vari media, in un villaggio erano state segnalate sei persone ancora intrappolate sotto le macerie di un’abitazione che, come la maggior parte di
Monsignor Luigi Padovese, presidente dei vescovi di Turchia: «Il sisma ha colpito una zona di antica presenza cristiana» Chiese cristiane, riuniti a Istanbul» . La scossa, come ha riferito l’agenzia Anadolu, è stata registrata dall’osservatorio di Kandilli ad Istanbul. Nella provincia di Elazig continuano ad arrivare i soccorsi e squadre di soccorritori per la ricerca di eventuali superstiti rimasti sotto le macerie delle abitazioni crollate. Come ha affermato il vicegovernatore della provincia di Elazig, Mehmet Ali Saglam, le località più colpite dal terremoto sono stati sei villaggi, tra cui in particolare quelli
quelle crollate, era stata costruita con mattoni fatti di terra secca mista a paglia. poi la notizia che le ricerche di eventuali superstiti erano state abbandonate.
«Non ci sono più persone sotto le macerie», aveva annunciato, ieri pomeriggio, il provinciale governatore Muammer Erol. Anche il portavoce della cellula di crisi locale, contattata telefonicamente da Ankara, ha confermato all’Afp che non ci sono sopravvissuti da cercare. Le case nei villaggi colpi-
Stessa profondità, potenza e persino ora
Come quello dell’Aquila... ROMA. Apparentemente il terremoto in Turchia è simile a quello del 6 aprile scorso nell’Aquilano: la magnitudo è confrontabile (6,2) così come la profondità (una decina di chilometri) e sono avvenuti perfino alla stessa ora: le 3:32. «Tuttavia al di là di queste similitudini ci sono anche profonde differenze nel tipo di terremoto», ha detto il sismologo Alessandro Amato, dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv). Quello dell’Aquila è un terremoto tipico dell’Appennino, generato da un processo di estensione della crosta terrestre. Al contrario, spiega l’esperto, il terremoto in Turchia «è stato causato da un movimento di compressione: la penisola arabica spinge verso Nord creando catene montuose, come i monti Zagros». «Un’altra differenza importan-
te - ha detto ancora Amato - è che, contrariamente all’Italia, la Turchia è soggetta a terremoti molto violenti, almeno di magnitudo 7».Tra le scosse più intense, le più recenti sono state quelle del 2003, di magnitudo 6,4, e quella del 1971 (6,8). E proprio a L’Aquila continua la protesta degli sfollati del centro cittadino, che chiedono al governo italiano di rendere di nuovo agibili le case della cosiddetta “zona rossa”. Per inscenare la loro protesta, i residenti sono entrati nella zona con delle carriole - come già fatto la scorsa settimana - e hanno iniziato a rimuovere le macerie provocate dalla scossa sismica. Nel frattempo, il governo cittadino si è impegnato a riattivare alcune utenze di acqua ed elettricità, ma soltanto dopo il benestare della Protezione civile.
ti sono costruite generalmente con fango e con altri materiali poco resistenti ai terremoti, frequenti in questa zona. Il premier turco Recep Tayyp Erdogan ha invitato gli sfollati a non rientrare nelle abitazioni danneggiate, anche perchè la prima scossa è stata seguita da una ventina di scosse di assestamento, la più forte di magnitudo 4,1 La terra ha tremato anche nelle vicine province di Tunceli, Bingol e Diyarbakir. Anche la Commissione europea ha offerto il suo aiuto «se necessario» alla Turchia. Il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, ha chiesto al capo della diplomazia Ue Catherine Ashton e al commissario per gli Aiuti umanitari Kristalina Georgieva di tenerlo informato della situazione «perché gli aiuti possano essere mobilitati, se necessario» ha spiegato un portavoce della Commissione. Barroso ha espresso la sua «solidarietà» alle autorità turche e le condoglianza alle famiglie delle vittime. Il presidente del Parlamento europeo Jerzy Buzek ha inviato un messaggio di condoglianze e ringraziato «tutte le squadre di soccorso che stanno gestendo le conseguenze del sisma».
Un altro terremoto magnitudo 4.2 aveva scosso, la scorsa notte, anche le regioni meridionali della Grecia, vicino alla città di Patrasso. L’Istituto di Geofisica di Atene aveva registrato la scossa alle 14.13 ora italiana (un’ora dopo in Grecia) con epicento 150 chilometri ad ovest di Atene. E la mattina del 7 marzo gli aghi dei sismograficfi erano scattatti anche nel nostro Paese. Si è trattato di un terremoto di magnitudo 3.3 avvenuto alle 05.27 in Friuli, nel distretto sismico denominato Prealpi venete, che comprende la provincia di Pordenone e anche parte del Bellunese. L’epicentro, secondo i rilievi dell’Istituto di geofisica e vulcanologia è stato localizzato tra i comuni di Andreis, Barcis e Claus, in provincia di Pordenone. La profondità è stata di 2,1 chilometri. Altri comuni vicini all’epicentro sono Aviano, Pieve D’Alpago, Maniago e Vajont. Un altro segnale che la cintura sismica che attraversa il globo sembra si sia messa in moto quasi simultaneamente. Almeno a dei livelli da rendere i movimenti della terra non solo percepibili dagli strumenti – ciò avviene già quotidianamente – ma abbastanza forti da essere percepiti dalle popolazioni a da provocare danni.
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E la moglie di Mousavi incontra le donne di Teheran
Imbarazzo a Tokyo per un capo dipartimento negazionista
La Germania apre le porte ai dissidenti iraniani
Giappone, un deputato non crede all’11/9
BERLINO. La Germania ha annunciato che accoglierà i dissidenti iraniani rifugiati all’estero come “segno di solidarietà” e come azione contro il mancato rispetto dei diritti umani nella Repubblica islamica. «Abbiamo deciso di accogliere in Germania dei cittadini iraniani che si trovano all’estero. Si tratta di una serie di casi isolati e circostanziati», ha detto una portavoce del ministero degli esteri tedesco. Secondo fonti informate, si tratterebbe di persone che hanno criticato il regime iraniano e si sarebbero rifugiate in Turchia. «Al momento - ha detto ancora la portavoce hanno molto spesso esito favorevole le richieste d’asilo di persone di nazionalità iraniana che si trovano già in territorio tedesco». I permessi di soggiorno, ha aggiunto, saranno concessi «in collaborazione con il Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite» (Unhcr).
TOKYO. La versione che ci è
La Germania, come membro del gruppo dei “5+1”, di cui fanno parte anche i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu, partecipa alle discussioni con Teheran sul dossier nucleare. Nell’ambito della politica di sanzioni, diverse imprese tedesche che facevano affari con la Repubblica islamica si sono
Strage di cristiani in Nigeria: 500 morti I villaggi intorno a Jos assaliti da bande armate di Antonio Picasso l fine settimana appena trascorso è stato testimone di una nuova strage di cristiani in Nigeria. Come già successo a gennaio e negli anni passati, il massacro è avvenuto nella regione di Jos, pressoché al centro del Paese. Questa volta si contano almeno 500 morti, fra donne, bambini e anziani, 200 in più rispetto a quelli di un mese e mezzo fa. La popolazione inerme dei villaggi che fanno da cintura alla città di Jos, abitati prevalentemente da cristiani, è stata fatta oggetto di un assalto plurimo da parte di bande armate di machete e kalashnikov.
I
Saccheggi, incendi e correlati omicidi, che a questo punto possiamo considerare di massa, hanno scritto le pagine di cronaca di questi ultimi giorni in Nigeria. A dispetto delle proteste attese però, l’Arcivescovo della diocesi locale, monsignor Ignatius Ayau Kaigama, ha invitato tutti a mantenere la calma. Ha sottolineato che dall’accaduto non si deve arrivare alla conclusione sbrigativa e semplicistica di uno scontro religioso, che sarebbe in corso nella regione. Anzi, l’opinione del prelato - in linea con quella di alcuni osservatori locali - è che la strage sia da vedere più come un regolamento di conti fra bande e tribù rivali. Si tratterebbe di scorribande da parte di miliziani fulani e hausa, i gruppi etnici dominanti in Nigeria, scesi dalle montagne per fare razzia nei ricchi ma indifesi villaggi della regione. L’ammonimento di monsignor Kaigama è plausibile. In un contesto tribale come quello nigeriano - dove è in netta crescita il traffico di armi - non si può pensare di poter spiegare tutte le espressioni di violenza come un rigurgito di guerre di religione. Si resta però sconcertati di fronte ad altre parole sempre di Kaigama, quando dice: «Ogni cosa viene letta in chiave religiosa. Anche se due persone litigano al mercato, certi giornali tirano in ballo la loro fede come motivo del litigio». In questo senso è difficile ridurre i recenti 500 morti a un «litigio in un mercato». Questa sorprendente tendenza a minimizzare l’accaduto, da parte di Kaigama, può avere lo scopo attenuare gli odi e le rivalità. Appare incisivo infatti il suo invito a «evitare un
linguaggio che inciti gli animi, bensì predicare la pace e la riconciliazione». Oltre agli interlocutori locali però, quella dell’arcivescovo di Jos appare come un’osservazione relativa all’intera area nigeriana e non solo. Per una serie di vicissitudini disconnesse ma coincidenti fra loro, il contesto sub sahariano sta tornando a essere una zona di crisi elevata. I miliziani di al Qaeda dal Maghreb e dal Sahel si starebbero espandendo verso sud, in direzione proprio della Nigeria, con l’intenzione di creare nuove cellule terroristiche, ma soprattutto per destabilizzare un Paese già di per sé precario, ma strategico per le sue ricchezze di petrolio e gas. Allo stesso tempo va ricordato il golpe di cui è stato testimone il vicino Niger. Anche questo appare come un fattore di pericolo per tutta la zona. Infine l’attenzione dev’essere rivolta ad Abuja. Qui da oltre quattro mesi il futuro della stabilità del governo federale rischia quotidianamente di essere messa in discussione. A novembre il Presidente UmaruYar’Adua è stato ricoverato in una clinica in Arabia Saudita per un intervento cardiochirurgico.
L’arcivescovo della diocesi locale, monsignor Ignatius Ayau Kaigama: «Bisogna mantenere la calma»
ritirate dall’Iran. Dove, nell’anniversario della Giornata Internazionale della donna, Zahra Rahnavard, moglie del leader dell’opposizione iraniana Mir Hossein Mussavi ha incontrato un gruppo di femministe. Durante l’incontro, la moglie di Mussavi ha sottolineato che il movimento dei diritti delle donne è «uno dei rami progressisti del cosiddetto “movimento verde”. Quando parliamo delle leggi discriminatorie contro le donne, immediatamente le forze estremiste dichiarano che l’islam potrebbe essere in pericolo. Hanno fabbricato queste leggi anti-islamiche nel nome dell’islam e le definiscono valori ideologici».
stata fornita dal governo americano degli attentati dell’11 settembre «è tutta un falso». La tesi, ampiamente e ciclicamente circolata in diversi ambienti e forme sin dall’indomani del crollo delle Twin Towers, ora però ha trovato un sostenitore quanto meno imbarazzante per il governo giapponese, il primo del dopoguerra guidato dal Partito democratico. A sostenerlo in diverse interviste, ha ricordato ieri il Washington Post, è infatti Yukihisa Fujita, un importante esponente del partito del primo ministro Yukio Hatoyama e capo della commissione di ricerca degli Affari Esteri della Camera alta del parlamento giapponese.
La sua prolungata assenza dal Paese ha innescato le proteste dell’opposizione, la quale ha chiesto al vice-Presidente, Goodluck Jonathan, di assumere il controllo del Paese, praticamente destituendo Yar’Adua. Il repentino rientro in patria di quest’ultimo, dieci giorni, fa ha evitato che anche la Nigeria fosse vittima di un palese Colpo di Stato. Permangono tuttavia le tensioni fra la Presidenza, l’opposizione e il vice Presidente Jonathan, le cui capacità di temporeggiatore hanno eluso un’escalation. Di fronte a tutto questo, appaiono chiare le intenzioni espresse da Kaigama in nome di tutte le comunità cristiane locali. Se nell’area dovesse accendersi una miccia di violenza, i cristiani non vogliono passare come i responsabili della stessa. Possono esserne le vittime, ma non i fautori. Meglio quindi, secondo questo vescovo tanto realista, minimizzare il peso di 500 morti e farli passare come un episodio di «litigio», piuttosto che fomentare l’odio contro l’Islam presso la sua diocesi.
«Le idee del signor Fujita sugli attacchi al World Trade Center sono troppo bizzarre e intellettualmente fasulle per meritare una seria discussione», taglia corto il Post che ricorda, in sommi capi, che l’esponente politico giapponese, che tra l’altro due anni fa ha proposto, senza alcun successo, che Tokyo avviasse un’inchiesta indipendente sugli attacchi dell’11 settembre in cui morirono 23 giapponesi, ha avanzato dubbi sul fatto che si sia trattato veramente di attentati terroristici, che qualcuno a conoscenza del complotto abbia sfruttato ad suo vantaggio i contracolpi sul mercato finanziario. Fino ad arrivare a supporre che 8 dei 19 kamikaze siano sopravvissuti.
Nessuna novità, insomma, rispetto alle altre tesi del complotto, ma «l’unica cosa nuova è che un uomo che si fa così suggestionare da fantasie da estremisti pazzoidi occupi un posto di rilievo nell’apparato di una nazione» che viene considerata la seconda potenza economia mondiale. Ed il più importante alleato degli Stati Uniti dell’est asiatico. Le tesi del dirigente nipponico, per ora, non hanno suscitato risposte dal governo di Tokyo. Che, tuttavia, ha espresso “imbarazzo”.
mondo
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Cinema&verità. Quella che domenica ha stracciato “Avatar” è una pellicola senza effetti speciali. Una realtà non virtuale...
Una democrazia da Oscar Il film “The Hurt Locker” di Kathryn Bigelow trionfa a Los Angeles. Ed è proprio grazie ai “suoi” soldati che oggi in Iraq vince il voto di Alessandro Boschi andata come alle Olimpiadi di Vancouver. Finale di hockey su ghiaccio: batte Usa. Canada L’82ema edizione degli Academy Awards ha riproposto in chiave cinematografica la sfida di qualche giorno fa. Con lo stesso esito. La canadese Kathryn Bigelow ha strapazzato l’ex marito statunitense James Cameron portandosi a casa le statuette più ambite: miglior film e migliore regia.
È
The Hurt Locker surclassa quindi Avatar e concede ai sostenitori del cinema classico, o almeno più classico rispetto a quel portento tecnologico di Avatar, una significativa e sostanziosa rivincita. Significativa perché The Hurt Locker è un film almeno in apparenza più tradizionale non utilizzando nessun particolare effetto speciale. Ma soprattutto è un
film, al contrario di Avatar, che pur parlando di guerra resta tutto “dentro”, puntando su una e narrazione una recitazione molto contenuta e rappresa. Il fatto che alcuni veterani dell’Iraq abbiano definito la pellicola «una collezione di scene totalmente implausibili» conferma che si è cercato nel film quello che alla Bigelow non è passato nemmeno per l’anticamera del cervello di mettere. Ma come sempre succede che
ognuno “legge” quello che vuole, e questo anche in un’opera che a nostro parere della plausibilità può serenamente fare a meno. Piuttosto va sottolineato come tutto ciò avvenga in concomitanza con le elezioni in Iraq, che hanno spinto Obama a lodare il popolo iracheno che non si è sottratto all’esercizio di un diritto spesso sottoposto al rischio di attentati, l’ultimo dei quali è costato oltre 35 vittime. Il «ritiro responsabile» da lui prefigurato pare già essere in atto. Infatti, al contrario delle consultazioni del 2005, i militari americani non hanno partecipato al presidio dei seggi elettorali affiancando i militari iracheni. Il coprifuoco proclamato da al Qaeda, che “suggeriva” alla popolazione di stare lontana
dalle urne per non incorrere nella «rabbia di Allah e dei Mujaheddin», non è riuscita a fermare i circa 18 milioni di aventi diritto al voto che, in una percentuale definita “significativa” hanno risposto con coraggio a una palese richiesta di democrazia. The Hurt Locker significa letteralmente la “cassetta del dolore”, ed è il contenitore dove finisce quello che resta di un militare morto. Una cassetta che in fondo non è molto diversa da un’urna (che può pure avere significati molto diversi). Sembra uno di quei segni del destino che all’apparenza irrazionali nascondono un significato profondo, magari legato da una parte al trionfo di un semplice film e dall’altra alla vittoria di un popolo in balìa dei terroristi. E in entrambi i casi diventa sostanziale l’operato dei militari, che da una parte garanti-
casse di distributore e produttore, anche se in questo caso il paragone con Avatar non è nemmeno minimamente immaginabile. Inoltre è la prima volta in assoluto che una regista donna si aggiudica l’Oscar per miglior film e miglior regia. Ci sarebbe forse da rinfrescare
scono l’esercizio del voto e dall’altra ci mostrano i segni non sempre visibili di una schiavitù psicologica che li rende dipendenti dalla guerra. Dipendenza questa molto simile, tornando al cinema della Bigelow, a quella provata dai vampiri disperati di Near dark, Il buio si avvicina. La vittoria della Bigelow diventa poi sostanziosa perché si sa quanto un Oscar possa portare alle
la memoria a tutti coloro che, quando il film venne presentato alla Mostra del cinema di Venezia due anni fa, lo accolsero con sufficienza, al pari dei giurati che ignorandolo (per lo meno nei premi) non ne intuirono la dirompente potenza. Per altro c’è ancora chi definisce il film, con molta lungimiranza, «quello con i soldati che disinnescano le bombe». A completare il trionfo di casa Bigelow sono andati anche i premi per la sceneggiatura originale, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro e miglior montaggio, categorie anche queste in cui se la doveva vedere con Avatar. Il quale si è invece aggiudicate solo quelle per la migliore scenografia, effetti spe-
ciali e, grazie al “nostro” Mauro Fiore, per la fotografia. Il secondo grande mancato protagonista è stato Tarantino. Al suo bellissimo Bastardi senza gloria è andata la statuetta, inevitabile, per il migliore attore non protagonista, quel Christoph Waltz già protagonista delle serie televisive Rex e Il Commissario Köster. Il che dimostra ancora una volta che si può anche lavorare molto in televisione e vincere l’Oscar. Se si è bravi. In questa stessa categoria, ma al femminile, ha trionfato come era prevedibile Mo’Nique, la terribile mamma di Precious. Questo, oltre a sancire la straordinaria bravura di questa corpulenta attrice di colore, ci consente di sperare che qualcuno ne acquisti i diritti per la distribuzione in Italia, anche a fronte di un investimento piuttosto elevato richiesto dai produttori. Precious si è
inoltre aggiudicato il premio come migliore sceneggiatura non originale con Jeoffrey Fletcher. Un po’ d’Italia anche dalle parti dell’Oscar alla migliore colonna sonora andato a Michael Giacchino, autore anche delle musiche della serie televisiva Lost.
Giacchino ha vinto per il commento musicale di quel piccolo capolavoro intitolato Up, cui è andata anche la statuetta per il migliore film d’animazione. Il sempre più bravo Jeff Bridges si è visto consegnare il riconoscimento come migliore attore per Crazy Heart. Va detto che Bridges appartiene a quella schiera di attori che migliora con il pas-
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Il dito indice immerso nell’inchiostro indelebile: simbolo di queste elezioni e segno tangibile di chi è andato a votare in Iraq. A sinistra: fotogrammi del film “Hurt Locker”; la locandina del film e la regista Kathryn Bigelow mentre riceve l’oscar per la miglior regia. È la prima volta che l’Academy assegna a una donna questo riconoscimento
Dialettica e pallottole a Baghdad Non bastano dei buoni numeri a far grande un’elezione. Ci vuole ben altro: almeno il dialogo di Mario Arpino è ancora chi confonde le elezioni – ovvero i numeri – con la democrazia. Ma i numeri, se non accompagnati da vera coscienza democratica in termini di cultura, di prassi e di pensiero, altro non rappresentano se non una suggestione di democrazia. Così, quando noi occidentali esultiamo perché nel tal paese si sono tenute elezioni “libere e democratiche”, tendiamo a dimenticarci che prodotti come Ahmadinejad o Hamas sono scaturiti proprio da elezioni; come attraverso delle elezioni la Turchia stia scivolando lontano e che l’Assemblea dell’Onu, con i numeri, potrebbe creare paradossi quali Libia, Iran, Sudan, Mugabe e Cina tra la maggioranza nella commissione per i diritti umani. In questi giorni, a “colpi di democrazia” rischiamo anche questo. Nonostante queste perplessità, le elezioni, se non sono proprio la democrazia, ne sono uno dei principali ingredienti, ed è per questo che attorno all’attesa dei risultati in Iraq c’è una atmosfera di suspense. Sono molti ad incrociare le dita. Il laboratorio Iraq è infatti considerato la cartina di tornasole per verificare se davvero in una “repubblica islamica” sia possibile veder attecchire una qualche forma di democrazia. Tutto sommato, è il Paese arabo dove, nel tempo, si è votato di più e meglio. A parte, ovviamente, le percentuali bulgare ottenute da Saddam Hussein. I primi tentativi risalgono agli inglesi, dopo il collasso del-
C’
sare degli anni. Nonostante le svariate candidature finora non c’era mai riuscito e questo Oscar va davvero a un uno dei nostri beniamini, fosse solo per i ruoli ne Il grande Lebowski e Una calibro 20 per lo specialista. Leggendario. Altro film senza distribuzione The blind side, per il quale
l’impero ottomano. Scorrendo i diari dell’avventurosa Gertrude Bell, inglese di passaporto ma innamorata della “terra tra i due fiumi”, si scopre che nel 1919 i maggiorenti arabi di Baghdad, stanchi del disordine, auspicavano un mandato per gli inglesi da parte della Società delle Nazioni, con «...Sir Cox quale Alto Commissario presso l’Emiro Feisal, in un comitato consultivo misto arabo-inglese, ma con i ministri arabi. Da scartarsi, a questo livello, l’idea di istituzioni rappresentative, non essendo il Paese ancora pronto a questo passo. Ma nelle province, dove avrebbe operato un prefetto arabo con un consigliere britannico, questo, per l’esercizio dei poteri locali, sarebbe stato assistito da Consigli elettivi. Questi Consigli avrebbero dimostrato al popolo l’uso della rappresentatività e, con il tempo, consentito l’estensione di questo metodo a tutto il Paese».
zionale dell’ottobre 2005. Salto di qualità, invece, in occasione delle prime elezioni parlamentari – dicembre 2005 – con un forte incremento dell’affluenza alle urne anche nelle province sunnite e la previsione, in ciascuna lista, di almeno un terzo di candidati donna. Buoni risultati anche nelle elezioni provinciali del gennaio 2009 – le prime dopo la “cura” Petraeus – con affluenze alle urne non inferiori alle democrazie occidentali. Come si è visto anche domenica, gli iracheni ci stanno prendendo gusto e non torneranno indietro. Venendo a queste ultime elezioni parlamentari, nonostante i molti attentati che hanno colpito sopra tutto le comunità sciite – opera di ciò che resta in Iraq di al Qaeda piuttosto che dei sunniti locali – questo trend positivo non sembra affatto smentito. Se è presto per trarre conclusioni, le incognite non stanno tanto nelle volontà di partecipazione, quanto nella “qualità” del voto. La “quantità” da sola non basta a creare un sistema di democrazia funzionante, ma è sopratutto necessario che, dopo questo voto, sia possibile superare la visione etnico-confessionale della spartizione del potere. Invece al-Maliki, vincente negli ultimissimi sondaggi con circa il 30 per cento, per ingraziarsi un maggior numero di sciiti
L’Iraq è il paese arabo dove si è votato di più e meglio. A parte, ovviamente, le percentuali bulgare di Saddam
Il sistema, messo a punto nel 1920, aveva funzionato a lungo. Dopo la parentesi di Saddam, il processo democratico iracheno è ripartito proprio dal punto in cui si era fermato, con le elezioni provinciali del gennaio 2005 e la prima Costituente. Eventi boicottati dalle minoranze sunnite, come il referendum costitu-
Sandra Bullock, fresca vincitrice di un Razzie Award (l’Oscar delle pernacchie) si è aggiudicata un Oscar vero. Non sappiamo se questo riconoscimento sia davvero meritato in quanto ella non ci sembra così dotata. Ciò che però è certo è che la Bullock, specialmente la Bullock produttrice, forse
in virtù di un carattere teutonico ereditato dalla madre, è diventata negli anni una delle potenze di Hollywood, e questo rappresenta senza dubbio un merito.
In conclusione, ciò che ha più colpito di questa edizione non è stato il trionfo di un film,
– sono questi che fanno i grandi numeri – è stato costretto a alterare quel processo di de-baathificazione all’origine dell’ammorbidimento della minoranza sunnita. Gli stessi partiti curdi sono divisi e la maggioranza sciita oscilla tra i sostenitori dell’intransigenza confessionale e quelli della pacificazione.
Tutto questo, lo si sa, in Iraq non significa solo dialettica, ma anche pallottole. C’è però, dalle due parti, chi ha ben capito quale sia il superamento necessario. Il sunnita Salah al-Mutlak, leader del fronte iracheno per il dialogo (Ifnd), che dopo i retromarcia di al-Maliki aveva annunciato il boicottaggio, è ritornato sui suoi passi e, ragionevolmente, ha deciso di appoggiare Iraqiya, il movimento trasversale laico interconfessionale capeggiato dall’ex primo ministro Iyad Allawi, di padre sciita e madre sunnita, che fino a sabato scorso veniva dato nei sondaggi come diretto concorrente – al 22 per cento – della coalizione del premier. Però l’agenzia che ha condotto i sondaggi, il National Media Center, fa capo ad al-Maliki, per cui - ma è necessario attendere i dati ufficiali - il risultato delle elezioni di domenica potrebbe addirittura presentarsi invertito. Lo vedremo. Se però Iraqiya davvero risultasse vincente, sulla tomba di Gertrude Bell potrebbe forse sbocciare un pallido fiore. Quello della democrazia.
quello della Bigelow, bensì la disfatta di un progetto che ha portato nelle casse dell’industria del cinema qualcosa come 2 miliardi e mezzo di dollari. Avatar, James Cameron. È innegabile, ci si aspettava di più. Ma...e se così non fosse? Se gli Oscar vinti dalla ex moglie facessero parte di una re-
gia, questa pure da Oscar? Se si fosse voluto dare un contentino ad un certo cinema per mantenere viva l’illusione che un film non è solo quello che ci fa vedere ma anche quello che ti fa sentire dentro? Al cinema “vecchio” i premi, a quello “nuovo” i soldi. Tutto torna, tutto si tiene: un film perfetto.
spettacoli
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di Diana Del Monte e called each other Yo», scriveva Jack Kerouac in On the road alla fine degli anni Cinquanta. La prima citazione letteraria di questa esclamazione nata tra gli afroamericani e gli italoamericani - alcuni sostengono un legame con il primo pronome italiano - della Pennsylvania è rintracciabile proprio nel libro culto della beat generation. Successivamente, la ritroviamo intatta tra le strade del South Bronx, nei block party, culla della cultura Hip hop, dove i ragazzi di una delle zone più disagiate di New York usavano chiamarsi l’un l’altro «Yo». Il viaggio di questo ideogramma occidentale dell’universo suburbano ha seguito, poi, l’onda del successo della cultura a cui si era legato; col tempo l’espressione ha assunto la forma attuale, utilizzata come pronome personale e per rispondere a quello che potremmo definire un appello, ed è diventata il simbolo di questa subcultura sempre più diffusa e internazionale, fino ad essere messa in discussione, recentemente, dai “puristi” dell’hip hop che la accusano di aver ormai perso il suo vero significato.
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Dunque, quando leggiamo o sentiamo questa sillaba pensiamo di sapere esattamente cosa e chi abbiamo di fronte; ma l’universo hip hop è vasto e articolato, ha regole, storia e stili. Un aspetto importante di questa realtà è la danza urbana; tra le danze originali dell’Hip hop “di strada”, le street dance, la più conosciuta è certamente la Breakdance o B-boying, nata contestualmente alle altre discipiline Hip hop e, per questo, considerata una vera e propria pietra miliare, ma ci sono anche il Popping, il Locking e l’Uprock. Se parliamo, invece, di Clown Walk, Krumping e 1, 2 Step entriamo nel new style, tutta un’altra storia. Il mondo della danza Hip hop, ovviamente, ha raggiunto anche il nostro Paese; Roma, in particolare, è una delle città italiane dove questo fenomeno ha trovato maggior riscontro e dove, di conseguenza, è possibile imbattersi in una fetta importante di questa realtà. Nella capitale, dunque, è maturata l’idea di Yo Urban Dance Fest, Il festival dedicato alla danza hip hop e alla gestualità metropolitana che si svolgerà il 12, 13 e 14 marzo al Palacavicchi di Roma. Nato come piattaforma di incontro e interscambio culturale per giovani e giovanissimi che si dedicano alla pratica delle varie forme di danza urbana, con particolare riferimento alle forme gestuali come l’hip hop, appunto, ma an-
Tendenze. Dal 12 al 14 marzo, a Roma, la prima rassegna dedicata all’hip hop “Yo Urban Dance Fest”
Tutti pazzi per la danza urbana
che alla House Dance, al Ragga ed al Jazz-Rock,Yo Urban nasce dall’unione di eventi pre-esistenti e propone uno spaccato della danza urbana attraverso spettacoli, competizioni, workshops e club nights. Nel programma di questa prima edizione del festival sono previsti alcuni ospiti internazionali, considerati tra i massimi esponenti delle diverse discipline: da NewYork arrivano Mr Wiggles, membro della Rock Steady Crew e degli Electric Boogaloos, e Brian Green, pioniere della House Dance; da Parigi, Dominique Lesdema con la sua compagnia Stormy Brothers e Laure Courtellemont; infine, da Stoccolma arriva Yeya, una delle maggiori esponenti della new wave europea. L’internazionalità che questa subcultura si è conquistata negli anni è, in effetti, uno degli aspetti più in-
teressanti del fenomeno; spiegarla esaustivamente richiederebbe molto tempo e spazio, ma alcuni aspetti del viaggio dell’Hip hop e delle altre street dance ricordano la storia di altre danze, come ad esempio il tango, che, nate come “cenerentole culturali”, hanno, poi, conquistato un favore planetario. La Breakdance, prima fra tutte, si è trasformata, cavalcando una rete televisiva culto come Mtv, da libera espressione popolare dei sobborghi newyorkesi in fenomeno globale; dall’Europa al Giappone, dalla Russia all’Australia, ovunque è stata accolta come qualcosa da imitare, prima, e di cui appropriarsi, poi. Si può dire che, oggi, l’Hip hop rappresenti una delle espressioni più “glocali” a cui è possibile assistere; all’interno delle numerose manifestazioni internazionali, infatti, è possibile partecipare ad uno spettacolo realmente multiculturale in cui ognuno è orgogliosamente diverso dall’altro, eppure affine. Nonostante ciò, l’età d’oro della danza Hip hop è già finita da tempo, o almeno quella di un certo tipo di danza hip hop; l’industria dell’abbigliamento sportivo, infatti, ha saputo leggere e usare, meglio e prima di altri, il potenziale commer-
ciale di questo fenomeno popolare e, così, la Break è passata dalle strade alle scuole, dai circle ai teatri d’opera. Questo non vuol dire che l’Hip hop sia morto, ma solo che, cambiando il suo campo d’azione, ha cambiato volto; la nuova generazione, infatti, cerca lo stile coreografico, la codificazione di passi virtuosistici da imparare a scuola e riproporre in ambito commerciale, lì dove li ha visti per la prima volta. I puristi impazziscono, gli studiosi si interrogano e i ragaz-
zi si divertono; ma la danza urbana, è bene ricordarlo, deve parte della sua fortuna ai principi costitutivi della prima Break che, seppur meno evidenti, permangono ancora oggi; sono questi principi che hanno reso una parte delle street dance contemporanee un punto d’incontro tra ragazzi di culture diverse.
Nel“ circle” - il cerchio formato dai b-boy e dalle b-girl all’interno del quale si esibiscono i ragazzi - si costituisce, infatti, un
La kermesse capitolina nasce dall’unione di eventi pre-esistenti e soprattutto propone uno spaccato del “ballo metropolitano” attraverso spettacoli, competizioni, workshops e club nights
In alto, gli Stormy Brothers. A sinistra, Mr Wiggles A destra, Dominique Lesdema
ambiente molto democratico nel quale ognuno, nel rispetto di regole non scritte ma note e accettate da tutti, è libero di esprimere se stesso, il proprio stile e la propria cultura. L’esito delle battle, le sessioni di improvvisazione tra due b-boy o b-girl, viene stabilito da coloro che sono seduti nel circle, ovvero altri ragazzi che praticano le danze di strada; rigorosamente meritocratico, il risultato viene rispettato o fatto rispettare. Meritocrazia, dunque, ma anche libertà d’espressione all’interno di regole certe, punti di riferimento sociali riconosciuti come affidabili e autorevoli, nonché un senso di fratellanza unito al riconoscimento di un’identità individuale illustrano bene il successo della Break degli anni d’oro, ma anche e soprattutto una parte del fascino che ancora esercita verso le nuove generazioni.
sport
9 marzo 2010 • pagina 21
Fantasisti. Da Stefano Okaka a Mario Balotelli, tutti i record italiani dalla pelle scura
Quando lo sport ne fa di tutti colori di Francesco Napoli ettaglio inquietante di cronaca di qualche giorno fa: a Brescia gli uomini della Guardia di Finanza non volevano credere ai loro occhi quando, durante alcune perquisizioni, tra gli scaffali dei negozi etnici controllati sono spuntate confezioni di creme sbiancanti, messe in vetrina accanto a gioielli e vestiti manufatti in Africa e Asia. Alla fine le Fiamme gialle hanno trovato centinaia di preparati, pronti a essere venduti agli immigrati pachistani, senegalesi e nigeriani che sognano di avere un colore della pelle più chiaro. «Li comprano indistintamente uomini e donne che vogliono assomigliare agli occidentali - spiegano al comando provinciale della Finanza . Ma queste creme sono molto pericolose, in grado di provocare lesioni permanenti».
D
“italiano”, a disputare una partita nelle coppe europee, con la Roma; il più giovane marcatore nella storia della Coppa Italia, sempre con la Roma; finalista europeo nell’under 19, visto che dalla maggiore età compiuta è cittadino italiano a tutti gli effetti, e inserito nell’undici ideale di quel campionato. Poi un altro piccolo primato: la sorella. Questo di per sé non lo sarebbe se la consanguinea non fosse: gemella, pallavolista in A1 con la squadra di Busto Arsizio, profondo Nord, e si chiamasse Stefania. Integrati raddoppiati. E Balotelli? I suoi record? Buoni e un po’ meno buoni, ma è solo questione di formazione e carattere, qualcosa sta lentamen-
ancora tanta e mentre i nostri rappresentanti s’interrogano sui temi, e per lo più ci litigano, perché non farci accompagnare nel cammino dal marciatore Nkouloukidi Jacques, pelle scurissima e spiccato accento romano, genuino rappresentante della seconda generazione di immigrati, nato 26 anni fa a Roma da padre congolese e madre di Haiti, diventato italiano con la maggiore età, e campione italiano assoluto nella 20 km nel 2009, per giunta giallorosso sfegatato, diploma di liceo tecnico industriale, e atleta delle Fiamme Gialle?
Oppure, se vogliamo andare più veloci, dalla perla di Cuba, Grenot Libania, classe 1983 da Santiago di Cuba, convolata a nozze italiche e quindi nostra compatriota a tutti gli effetti nonché luccvante oro ai Giochi del Mediterraneo ultimi scorsi di Pescara nei 400 metri piani? Forse andremo più lontano delle chiacchiere e dei buoni propositi. Finalmente anche l’Italia farà quel salto di qualità garantito ai nostri patri lidi sportivi già da May Fiona, classe 1969, oggi più mamma e attrice televisiva che altro, divenuta italiana anche lei per causa matrimonio, e plurimedagliata tra Olimpiadi, Mondiali e quant’altro, specialità salto in lungo. La stessa di Howe Andrew, classe 1985, da Los Angeles, ma italico e come: primatista del salto in lungo con 8 metri e 47 e argento mondiale nel 2007 a Osaka. Dettaglio spicciolo di cronaca sociologica: la Razza Italia sembra invecchiare precocemente, le nostre ottime donne hanno un tasso di fertilità tra i più bassi del pianeta (1,2 figli di media), l’economia sbuffa e la speranza nel futuro mi sembra affievolirsi sempre di più. Il mondo cambia, qualche campione in più non guasta, soprattutto quando sceglie il nostro paese. Si sa, poi, i campioni sono campioni e quindi davvero esemplari.
Tanti ormai i casi in cui a vincere sono stati atleti “approdati” in Italia: come il marciatore Nkouloukidi, nato a Roma da padre congolese; o la campionessa di origini giamaicane Fiona May
Si chiamano Fashion Fair Cream Fast Action o Skin Light oppure Maxy Light. Il mercato è despota: convince chi arriva da lontano che l’integrazione può essere accelerata grazie a questi prodotti chimici pericolosi cancerogeni. Dettaglio rassicurante di cronaca sportiva. Più o meno contemporaneamente a questa operazione anti truffa, la vera integrazione maturava su un campo di calcio, quando la nostra Nazionale under 21 a Rieti veniva trascinata alla vittoria contro l’Ungheria da un duo di colore davvero inserito: Balotelli Mario da Palermo, classe 1990, cresciuto proprio nel bresciano, e Okaka Stefano Chuka da Castiglione del Lago, classe 1989, calcisticamente cresciuto nel Cittadella, profondo nordest italico. E Okaka nell’ordine ha i suoi record: il più giovane giocatore italiano, e dicasi
Dall’alto, i calciatori Mario Balotelli e Stefano Okaka; gli atleti Fiona May, Andrew Howe, Libania Grenot, Jacques Nkouloukidi. In basso, le creme “sbiancanti” in vendita nel bresciano e sequestrate dalla Guardia di Finanza
te imparando. Già resistere alla maleducazione, per usare un eufemismo, dei tifosi sparsi in Italia, ma questa volta direi soprattutto al Nord, lasciandosi andare quel po’ che l’umana sopportazione proprio non riesce a contenere mi pare un bel risultato, ma può e deve fare ancora di più. Calcisticamente? A diciotto anni è già tra i primi 20 giocatori europei di categoria; il più giovane esordiente nella storia della C1, anche grazie a una deroga speciale concessa dalla Lega Calcio (lungimirante, una volta tanto); il più giovane capocannoniere, 4 reti, nella Coppa Italia, stagione 2007-08; il 4 novembre 2008 diventa il più giovane marcatore in Champions della storia dell’Inter, realizzando il suo primo gol nelle coppe europee. Età 18 anni e 85 giorni e supera il precedente record di 18 anni e 142 giorni stabilito da, guarda un po’, un nigeriano nigeriano, sempre di colore, Martins Obafemi da Lagos. Minuzia interrogativa di cronaca politica: di strada in Italia in fatto di integrazione ne dobbiamo far
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Dov’è finito l’amore per la Patria che animò la gloriosa impresa dei Mille? Quest’anno ricorre il 50° anniversario della gloriosa impresa dei Mille, iniziata il 5 maggio 1860 a Quarto, e non mi pare che si stiano organizzando manifestazioni a ricordo. Dipende ciò dal fatto che l’anniversario ricorre subito dopo la campagna elettorale o dall’affievolirsi del sentimento nazionale, forse a causa delle sporadiche, sterili e antistoriche contestazioni e revisionismi dovuti ad un crescendo egoismo legato al consumismo prima, e alla crisi economica dopo? Ma chi erano i Mille, che sbarcarono a Marsala l’11 maggio 1860? Erano quasi tutti del nord Italia ed erano animati da un grande amore di Patria, per il quale in molti persero la vita. Il governo regionale siciliano si è mosso solo recentemente, conferendo la delega all’assessore regionale Gaetano Armao. Anche i comuni che sono stati teatro delle battaglie dei garibaldini e quelli di provenienza dei volontari, dovrebbero organizzare delle manifestazioni. Si tratta di un’occasione da non perdere perché costituisce, fra l’altro, anche l’occasione per il rilancio turistico della località italiane. L’imminenza delle elezioni regionali e amministrative non può essere una scusa valida per l’inattività.
Luigi Celebre - Milazzo
A PROPOSITO DEL 1° MARZO Mi auguro che, nonostante le difficoltà, l’iniziativa promossa dai lavoratori stranieri abbia il successo che merita. Mi convincono soprattutto le motivazioni dell’iniziativa: gli immigrati vogliono dimostrare non solo di esistere, ma di essere indispensabili, con la loro presenza e il loro lavoro, alle attività economiche e sociali del Paese. Poiché si tratta di una circostanza assolutamente vera, è bene che la comunità nazionale, nel suo insieme, si renda conto che non vi sono alternative credibili all’integrazione.
Francesco Comellini
BENVENUTI NELLA PARTITOCRAZIA! Il dibattito sul fallimento del sistema elettorale ha il pregio di prendere atto del problema. Non indagare su cause e individuare responsabilità è un modo per non trovare la soluzione e mettersi nelle condizioni
di fare un altro pasticcio, contro il diritto degli elettori di scegliere i propri rappresentanti. L’attuale legge elettorale regionale toscana, votata all’unanimità dai partiti presenti nel consiglio nel 2004, ha esautorato i cittadini dalla possibilità di scelta del proprio rappresentante. Una legge ulteriormente modificata lo scorso agosto, fuori dei termini previsti dall’Unione europea per non cambiare la legge nell’anno delle elezioni. L’elettore toscano attualmente ha il “potere” di mera ratifica delle decisioni, delle candidature, prese dalle segreterie di partito. Nel caso del Pd alcune scelte sono avvenute con le primarie. Dopo il deposito delle liste è possibile conoscere i componenti del consiglio regionale prima ancora che si tengano le elezioni. I candidati conoscono già, in base alla loro posizione nei listini regionali e in quelli provinciali quali risulteranno eletti
Parla come mangi Gli antichi Greci pensavano che i gorgoglii della pancia, tipici di quando si ha fame, avessero un preciso significato. In base al tipo di rumore, infatti, le sacerdotesse ricavavano presagi più o meno positivi per il futuro. L’arte divinatoria si chiamava gastromanzia
“nominati” e quali no. Un sistema che allontana il cittadino dalle istituzioni. Presa d’atto che la denuncia dei Radicali sulla non democrazia e sulla deriva partitocratica ha indicato causa e soluzione: la riforma del sistema elettorale. L’introduzione della maggioranza relativa a un solo turno in collegio uninominale o, se si preferisce, di un sistema di voto alternativo in collegi uninominali a maggioranza assoluta, produrrebbe un deciso miglioramento alla vita interna e alla politica dei
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
partiti. Il consiglio regionale eletto con sistema maggioritario uninominale a un solo turno, con circoscrizioni più piccole delle attuali che permetterebbero così di avere un rapporto migliore e diretto fra eletto ed elettore; le elezioni del governatore e quelle del consiglio si terrebbero ogni 5 anni, ma “sfalsate”in maniera da non creare un rapporto fiduciario, né il potere di scioglimento utilizzato come arma di ricatto politico.
Donatella
da ”Haaretz” del 08/03/10
Le sette fatiche di Biden l governo d’Israele ha autorizzato, lunedì, la costruzione di 112 nuovi appartamenti nel West Bank. A dispetto degli impegni presi per rallentare la creazione di nuovi insediamenti. E proprio il giorno dopo che i rappresentanti palestinesi avevano, con riluttanza, accettato di riprendere i negoziati. La notizia delle nuove costruzioni a Beitar lllit non faciliterà certo il lavoro del vicepresidente americano Joe Biden, in arrivo (in serata di lunedì, ndr) in Israele per salvare il processo di pace. È la più alta carica del governo Usa a visitare Israele e i territori palestinesi. Sotto forti pressioni provenienti da Washington, in novembre, il governo di Gerusalemme accettò di limitare le nuove case alle sole 3mila unità abitative la cui costruzione era già stata avviata. Non permettendo però neanche la costruzione di un marciapiede nella parte est della città Santa, che i palestinesi vorrebbero come futura capitale. Il governo aveva comunque dichiarato che qualche eccezione al piano di riduzione degli insediamento poteva essere fatta. E lunedì, con l’autorizzazione rilasciata all’insediamento di ultra-ortodossi di Beitar lllit, l’eccezione è stata fatta, per motivi di sicurezza è stato affermato.
I
Solo domenica, i palestinesi avevano accettato di riprendere i colloqui di pace gestiti da Washington, per altri quattro mesi. Mettendo fine a uno stop del dialogo durato per ben 14 mesi. E rinunciando alla richiesta che Israele mettesse fine a tutti i nuovi insediamenti prima di tornare al tavolo delle trattative. Il negoziatore palestinese Saeb Erekat, nello stesso giorno della dichiarazione del governo di Gerusalemme, ha accusato Israele di minare i colloqui an-
cor prima del loro inizio. «Se lo Stato ebraico vuole sabotare gli sforzi dell’inviato speciale Usa George Mitchell, forse sarebbe meglio dirglielo, onde evitare che la sua mediazione abbia un prezzo così alto» ha dichiarato Erekat. Peace Now, l’organizzazione israeliana contraria agli insediamenti ha criticato le motivazioni del go«L’amministrazione verno. israeliana da il benvenuto al vicepresidente Biden, dimostrando, purtroppo, che non ha una sincera intenzione di portare avanti il processo di pace» ha affermato l’esperto d’insediamenti dell’organizzazione, Hagit Ofran.
Israele aveva accettato il modello di «colloqui indiretti» per tramite degli americani, appena la settimana scorsa. Ma non è ancora chiaro quando l’iniziativa dovrà partire. I palestinesi avevano abbandonato il tavolo dopo l’inizio dell’operazione Cast Lead a Gaza, quando l’esercito israeliano era entrato in forze nella Striscia nel dicembre del 2008, per porre fine ai lanci di razzi contro le città israeliane che duravano da anni. Ora non rimane che l’attesa dell’arrivo di Joe Biden per vedere cosa uscirà dal cilindro della diplomazia. E che ci sia bisogno delle migliori arti della moderazione politica lo dimostra anche l’intervento dell’Onu dopo i disordini di venerdì scorso. Tumulti che hanno visto l’intervento della polizia israeliana contro dimostranti palestinesi a Gerusalemme est e in Cisgiordania. Alla fine
della preghiera del venerdì, nella cupola della Roccia del monte del Tempio, sacra ai musulmani, c’è stato un lancio di pietre contro cittadini israeliani. Il casus è nato dalla recente decisione di inserire due siti del West bank nel patrimonio culturale dello Stato ebraico. Dopo la preghiera alcuni musulmani hanno com inciato a lanciare pietre contro chi stava pregando in quel momento al muro del pianto, che si trova proprio sotto la moschea (quella di AlAqsa, ndr) che custodisce la roccia da dove – recita la tradizione – Maometto sarebbe salito al cielo.
Una quindicina di poliziotti sarebbero rimasti feriti. Anche da parte palestinese ci sarebbero stati dei feriti causati dalla reazione delle forze di sicurezza. Di qui l’intervento dell’Onu che ha espresso preoccupazione per voce del presidente di turno del Consiglio di sicurezza, il diplomatico gabonese Emanuel Issoze-Ngondet.
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LETTERA DALLA STORIA
La ragione della mia malinconia
IL MONOPOLIO DEGLI SPAZI A PISA: IL CASO REBELDIA Negli ultimi anni, quando a Pisa si parla di associazionismo e spazi per giovani, di solito si finisce sempre per parlare del progetto Rebeldia. Già nel passato, nella nostra città, varie associazioni si sono “prese” nel tempo dei luoghi pseudo-abbandonati, ottenendo poi dal comune il relativo riconoscimento a utilizzare tali spazi attraverso comodati di varia natura. Con il progetto Rebeldia sta succedendo la stessa cosa. Infatti, con la scusa che all’interno del progetto esistono varie attività di “positiva utilità sociale”, il comune, che aveva concesso a Rebeldia gli spazi in via Battisti (dopo che quelli del progetto avevano occupato spazi dell’Università di Pisa) - di proprietà della compagnia Pisana Trasporti in comodato gratuito, con l’impegno che questi fossero lasciati liberi alla data del 28 febbraio 2007 - si trova oggi a fare bandi “blindati” a favore di Rebeldia, per assicurarle altri spazi adeguati nella zona della stazione. Il bello di tutto ciò è che loro non vogliono spostarsi da dove si
Rendi giustizia al mio cuore che ti è pur caro, e che compensa tanti miei difetti. Non voglio rimproverarti con questa lettera; ma avendo deciso di amarti lealmente, non posso tacerti la ragione della mia malinconia, che ti deve essere sembrata un po’ strana. Fra due ore io sarò da te, dopo che avrai letto il mio biglietto, e mi darai la risposta tu stessa. Riceverai incluso quello di ieri, che non ti ho dato in palco per l’imminente ritorno di tuo marito. Le cose da nulla che contiene non meritavano un’imprudenza. Il tuo di iersera mi ha ferito più di quello che tu puoi immaginarti. E tu continui sempre con così poca delicatezza a piagarmi sempre nel cuore? ... nella parte, e lo dici tu stessa, la parte migliore ch’io possegga. Crudele! Tu non mi hai dato la tua lettera perché conteneva de’ disgusti. Ma se tu me li hai scritti, avevi pure bisogno di sfogarti, e di versarli nel mio petto. Dimmi: non merito io di confondere le mie lagrime alle tue? I tuoi piaceri non sono i miei? E perché non devono essere miei anche i dolori? Non sono io il tuo amico, il tuo tutto? No, no, io non voglio pace se tu non l’hai... mi sapranno più cari i tuoi mali per quanto dolore mi apportino, piuttosto che una fredda tranquillità. Addio, abbi più stima di me. Ugo Foscolo ad Antonietta Fagnani Arese
ACCADDE OGGI
LA POLITICA DELL’INTERVENTO Il congelamento dei fondi comunitari destinati alla Campania, tolgono ben 500 milioni di euro alla ricostruzione di una terra, che si è allontanata dallo Stato nella misura in cui ha voluto mal gestire tutto, con il concorso di amministrazioni fallaci e del solito sommerso malavitoso. La sinistra è un crogiuolo di contrapposizioni, che vengono sedate solo quando si trovano i numeri giusti per le alleanze. In Campania di alleanze se ne sono fatte a iosa, ma mai hanno giovato alla costruzione e attuazione concreta di un termovalorizzatore. Nonostante molti addetti del settore nonché scienziati e ingegneri hanno espresso i loro progetti e le loro teorie, il vile denaro ha preso il sopravvento su tutto. Adesso come la si metterà con il depauperamento dei 500 milioni di euro? È l’evidenza del fallimento, la prova inconfutabile che al sud gli interessi dei singoli sovrastano quelli della comunità. È l’opportuna falla nel muro, che solo il nostro governo ha iniziato con la sua politica dell’intervento.
Lettera firmata
CURE PREVENTIVE: COME DIVENTARE MALATI SENZA SAPERE DI ESSERLO Nel prossimo futuro ci sarà una terapia anche per chi non è malato ma potrebbe diventarlo. Una “cura” preventiva, insomma, a base di droghe psichiatriche e shock elettroconvulsivi. Giusto per essere tranquilli! Si chiama “rischio di sindrome” la nuova categoria proposta per la prossima edi-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
9 marzo 1931 Ernst Ruska, premio Nobel per la fisica nel 1986, sperimenta il primo microscopio elettronico 1945 Seconda guerra mondiale: bombardamento di Tokyo 1955 Presentata per la prima volta al pubblico, a Ginevra, quella che diventerà una delle icone del boom economico italiano del dopoguerra, la Fiat 600 1959 Debutta la bambola Barbie 1964 La prima Ford Mustang esce dalla catena di montaggio della Ford Motor Company 1967 Svetlana Alliluyeva, figlia di Josif Stalin, chiede asilo agli Stati Uniti 1975 Inizia la costruzione dell’oleodotto dell’Alaska 1976 In Val di Fiemme la cabina della funivia del Cermis con 43 persone a bordo cade, a causa della rottura della fune, in località Maso Teta:42 morti 1977 Circa una dozzina di musulmani hanafiti assaltano tre edifici a Washington, uccidendo una persona e prendendone in ostaggio 130
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
zione della bibbia psichiatrica (Dsmv) del 2013. Non sei malato di mente? Allora ci deve essere una malattia che in futuro potresti avere, ma ancora non lo sai. Però, William T. Carpenter, che ha collaborato alla stesura della bozza, rassicura che per ogni persona a rischio ci deve anche essere uno psicofarmaco. Come dire... trattamenti per tutti! Per essere considerati a rischio, sarà sufficiente parlare a vanvera o essere sospettosi. Sintomi che potrebbero preannunciare una psicosi, secondo gli psichiatri. Così chi alza il gomito a una festa o una moglie un po’ gelosa potrebbero subito essere etichettati come soggetti “a rischio psicosi” ed essere sottoposti a cure farmacologiche. Ma questa è solo una delle proposte. Leggendo le altre c’è da ridere (per non piangere). Tra le nuove sindromi ci saranno la “mania da accumulo”, l’ipersessualità, le furie dei bambini, la sindrome da gambe inquiete, la sindrome da apatia, il disordine da tristezza stagionale, la dipendenza da internet. Il frutto di ricerca scientifica, a detta degli psichiatri: infatti le nuove malattie verranno sottoposte ai commenti del pubblico e poi non ad accurati test di laboratorio, bensì al vaglio di “esperti”. Una votazione democratica, insomma. Non pensi che la democrazia sia una cosa giusta? E se per caso ti rifiutassi di sottoporti al trattamento forzato, esiste già la malattia che fa per te: perché devi essere un soggetto che soffre di non adattamento al trattamento!
Davis Fiore
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,
Direttore da Washington Michael Novak
Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci
Collaboratori
Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,
Roberto Mussapi, Francesco Napoli,
Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)
Mario Arpino, Bruno Babando,
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
John R. Bolton, Mauro Canali,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
Franco Cardini, Carlo G. Cereti,
Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,
Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,
Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,
trovano oggi, limitando, tra l’altro, lo sviluppo e il miglioramento di un’area così importante della città. Ma il punto è sempre lo stesso: è giusto eticamente che tutte le altre associazioni, giovanili e non, che negli anni hanno operato e operano nella città per il bene comune di tutti, e non pensano neanche minimamente ad occupare case o enti di proprietà pubblici/privati, debbano, in nome di un’assurda idea di coesione sociale, che in realtà è incentivazione all’illegalità, continuare a subire in silenzio e accettare l’idea che solo chi infrange ripetutamente le regole trova ascolto nella pubblica amministrazione? Carlo Lazzeroni P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L PI S A
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PAGINAVENTIQUATTRO
Il ritratto. È scomparso a 83 anni il grande giornalista che era stato anche ministro dei Beni culturali
Ronchey, l’uomo che rifece di Francesco Capozza stato l’unico che negli ultimi decenni sia riuscito, per i Beni culturali, a fare qualcosa: solo contro tutti in un Paese che ignora di dovere solo ai Beni culturali il poco che conta e rappresenta nel mondo». Così scriveva Indro Montanelli nel 1995 riguardo ad Alberto Ronchey, morto a Roma all’età di 83. La data del decesso risale a venerdì scorso, ma la notizia è stata diffusa solo ieri dalla figlia ad esequie avvenute. Nato nella capitale il 26 settembre del 1926, Ronchey iniziò la sua carriera molto giovane con la direzione dell’organo del Pri, La Voce Repubblicana, per poi dirigere La Stampa fra il 1968 e il 1973. Dopo l’esperienza al quotidiano torinese, Ronchey è stato per molti anni editorialista prima del Corriere della Sera e poi di Repubblica. Dopo gli anni passati al governo divenne presidente della Rcs fra il 1994 e il 1998. A lui si devono alcuni neologismi giornalistici entrati a far parte del linguaggio comune, co-
«È
Precisione e inventiva erano le due armi principali di Alberto Ronchey, un autentico maestro di giornalismo. Precisione nell’analisi dei dati statistici, nei riferimenti storici, nella grafia dei vocaboli stranieri. Inventiva nel coniare neologismi di grande efficacia, entrati subito nell’uso comune. Proveniva dalla tradizione del repubblicanesi-
estremamente severo sul sistema sovietico e fra i primi si era occupato degli esuli antifascisti italiani rimasti vittime del terrore staliniano. Poi aveva viaggiato a lungo anche negli Stati Uniti: molti suoi libri, da La Russia del disgelo (1963) a L’ultima America (1967), fino a UsaUrss: i giganti malati (1981) sono dedicati alle superpotenze della guerra fredda. Con i suoi reportage dall’estero, che lo avevano portato da un estremo all’altro del mondo, si era conquistato il prestigio che gli fruttò la direzione de La Stampa, dal 1968 al 1973.
Approdato al quotidiano di via Solferino, ne divenne in brevissimo tempo editorialista di punta. Per lunghi anni era stato uno dei critici più esigenti della classe politica, come si può constatare nei suoi libri Accadde in Italia (1977), Chi vincerà in Italia? (1982) e Atlante italiano (1997). Alla Dc rimproverava lassismo e non governo, al Pci i pregiudizi ideologici: non
il MUSEO ITALIA
me “lottizzazione”, termine usato per descrivere la spartizione degli incarichi in Rai in base all’appartenenza politica, e “fattore K”, utilizzato in un editoriale del Corriere della Sera per spiegare come il Partito comunista, la principale forza di opposizione, non poteva raggiungere il potere a causa delle alleanze e degli equilibri internazionali. Tutte vicende da lui ricostruite nel libro Il fattore R del 2004, una vivace autobiografia in forma d’intervista con Pierluigi Battista.
Pur essendo nato a Roma nel1926, Ronchey era di lontana origine scozzese. E in effetti il suo spirito laico e illuminista ricordava da vicino la filosofia empirica di grandi pensatori della Scozia settecentesca, come Adam Smith e David Hume, mentre nutriva una forte diffidenza per le religioni rivelate e i sistemi ideologici, a cominciare dal marxismo. Aveva fatto il suo apprendistato giornalistico da ragazzo, lavorando durante l’occupazione tedesca all’edizione clandestina della Voce Repubblicana, che più tardi avrebbe diretto.
gli dispiacquero alcuni tratti del decisionismo di Bettino Craxi. Non era però un uomo che si limitasse a giudicare dall’esterno. Era disposto a mettersi in gioco, ad assumersi responsabilità anche gravose. Per questo accettò l’incarico di ministro dei Beni culturali nel primo governo Amato e successivamente nel governo tecnico guidato dall’allora Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, dal 1992 al 1994. Al tempo stesso, sapeva mettere in discussione le sue stesse idee. Fu sempre ostile alle utopie egualitarie, ai populismi e ai pauperismi. Difese sempre l’Occidente e le conquiste della modernità industriale. Ma a lui si deve anche un breve saggio intitolato I limiti del capitalismo (1991), in cui certe difficoltà oggi evidenti a tutti, in materia di ambiente e di finanza globale, sono prefigurate con una lucidità davvero ammirevole. Con lui muore una «forza della natura», come ebbe a dire Gianni Agnelli quando gli affidò la direzione de La Stampa del giornalismo italiano.
Come analista della politica italiana, fu lui a inventare la fortunata formula “Fattore K”, a indicare l’inamovibilità del partito comunista. Poi si dedicò alla modernizzazione del nostro sistema museale proteggendone il «copyright»
mo storico, ma approvò lo sforzo modernizzatore compiuto nel Pri da Ugo La Malfa. Dopo l’esperienza a La Voce, passò al Corriere d’Informazione e quindi – si dice per espressa volontà dell’Avvocato Gianni Agnelli, a La Stampa di Torino, dalla quale era stato inviato a Mosca nel 1959 per seguire il tentativo riformatore di Nikita Krusciov. Nell’esperienza all’ombra del Cremlino aveva maturato un giudizio