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Ciò che sembra generosità, a volte non è che una mera ambizione mascherata

François De La Rochefoucauld

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 17 APRILE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il vertice del Pdl isola l’ex leader di An. Frenetiche consultazioni a Montecitorio con tutti i finiani per studiare le contromosse

Fini sulla riva del Rubicone Il dado del Presidente della Camera non è ancora tratto. Ma mentre lui smorza i toni Berlusconi è duro: «Se vuole, vada». Schifani e il Senatùr: «Probabile il voto anticipato» TORMENTONI

INCONGRUENZE

di Errico Novi

Se non varca mai Ma le elezioni il fiume, perderà non c’entrano ogni credibilità proprio niente di Giancristiano Desiderio

di Marco Respinti

l dado non è tratto. Fini non è Cesare. I fatti, almeno quelli, parlano chiaro. Fini è ancora al di là della sponda del Rubicone. Sembra non avere il coraggio di fare ciò che dice di voler fare: invertire i ruoli tra lui e Berlusconi o tra lui e Bossi che sono la stessa forza politica. Fini dice, ma non agisce. Quando un leader vuole fare una cosa, la fa. Fini ha seguito, invece, ancora una volta la strategia dell’annuncio. Una modalità di pensiero e azione rischiosa, soprattutto in politica, perché a furia di gridare “al lupo, al lupo” e non cacciare il lupo non si sarà più creduti quando si vorrà per davvero passare dalle intenzioni alle azioni. segue a pagina 2

o abbiamo scritto in molti e diversi modi l’altro ieri su queste stesse pagine. Adesso Silvio Berlusconi ha tre anni tondi e rotondi per fare quel che in Italia si deve da un pezzo fare: le riforme istituzionali, nette e rapide, decise e decisive, buone e generose, lungimiranti e il più ampiamente condivise possibile. Soprattutto perché, dicevamo, non si profila all’orizzonte alcun impedimento, né l’iter a esse necessario verrà stoppato da elezioni di sorta, salvo l’inciampo di quelle municipali di Torino, Milano e Napoli che si terranno il prossimo anno. Passa invece la nottata e ci risvegliamo tutti in un altro mondo. segue a pagina 2

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L

ROMA. La pace è lontana. Fi-

Un caso di “doppiopesismo”

ni ieri ha cercato di smorzare i toni, ma Berlusconi ha rilanciato: «Ho cercato di convincerlo a non fare gruppi autonomi, ma non ci sono riuscito». Bossi minaccia elezioni anticipate mentre l’ex leader di An organizza frenetiche consultazioni a Montecitorio per decidere.

Elogio di Fassino che voleva solo una banca (mentre Bossi le vuole tutte)

a pagina 2

I COMMENTI OSTELLINO: «SILVIO, NON GOVERNA MA LITIGA SEMPRE» «Dopo Casini, Fini: solo con Bossi il premier non alzerà mai la voce»; dice Piero Ostellino. «Intanto le riforme continuano a restare una chimera».

CISNETTO: «COMUNQUE È ORMAI IL TRAMONTO DEL PDL» Berlusconi è vittima della sua idea di poter fare sempre tutto da solo. È per questo che continua a “cacciare” gli alleati uno dopo l’altro. Fini è solo l’ultimo.

PERFETTI: «ORA GIANFRANCO È IN UN VICOLO CIECO» Lo storico Francesco Perfetti è duro con Fini: «Ha fatto un vero autogol e adesso nessuno sa come potrà uscire dall’angolo nel quale si è messo da solo».

alle pagine 3, 4 e 5

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mobydick

Il premier attacca anche “La piovra” mentre il Pm chiede 11 anni per Dell’Utri

Finalmente tradotte le “Lettere a Olga” scritte dal carcere da Vàclav Havel

«Saviano fa spot alla camorra»

Io, Gesù Cristo e la rivoluzione Le ceneri dell’eruzione islandese bloccano il 50% del traffico aereo tra Ue e Usa

È solo l’ultimo “vulcano cattivo” di Gualtiero Lami

di Maurizio Stefanini

di Gabriella Mecucci

ndici anni di reclusione contro i none comminati in primo grado: questa la pena richiesta dal pubblico ministero alla corte d’appello di Palermo per Marcello Dell’Utri, accusato di solidi rapporti con la mafia. Ed è polemica su Berlusconi che dice: «Roberto Saviano pubblicizza la camorra». a pagina 7

La nuvola di cenere che, dall’Islanda, paralizza metà del continente europeo rendendo di fatto impossibile volare negli Stati Uniti - è forse il danno minore fatto da un vulcano in Europa. Da Atlantide a Pompei, sono state le eruzioni a scatenare alcuni grandi eventi storici. Come la presa della Bastiglia. a pagina 8

n piccolo ma intelligente editore, Santi Quaranta, pubblica un libro di cui nessun giovane dovrebbe essere privato: Lettere a Olga, ossia quelle che Václav Havel, grande drammaturgo, protagonista della «rivoluzione di velluto» di Praga, scrisse alla moglie dalle prigioni cecoslovacche. a pagina 16

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I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

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WWW.LIBERAL.IT

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di Alessandro D’Amato strano, il destino. C’è chi per la stessa frase finisce nel tritacarne mediatico e sotto accusa in tribunale, e chi invece viene osannato come grande statista. L’«abbiamo una banca» pronunciato da Piero Fassino al telefono con Giovanni Consorte all’epoca intercettato e sotto indagine per la scalata di Unipol a Bnl costò all’allora segretario Ds accuse, reprimende e slogan – «Fuori la politica dall’economia», detto da chi appoggiava Berlusconi – che ne E intanto fecero carne la Lega da cannone blocca sui media, l’uomo mentre un’indagine della di Profumo magistratura dentro ne escluse Unicredit ogni responsabilità nella vicenda. Umberto Bossi è stato più fortunato: vuoi perché nel suo caso si tratta di una dichiarazione pubblica, vuoi perché la Lega oggi è il partito che appare più di tutti come l’unico in ascesa nel nostro panorama politico. a pagina 10

È

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 17 aprile 2010

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Divorzi tardivi. Nella sfida del presidente della Camera potrebbero essere decisivi i peones minacciati di non essere più candidati

La secessione del Pdl

Fini cerca di smorzare i toni ma Berlusconi è duro: «È fuori dal partito». A Montecitorio consultazioni frenetiche tra gli ex An in cerca di soluzioni di Errico Novi

ROMA. Parla con tono severo davanti al partito. Davanti all’ufficio di presidenza, per l’esattezza. Una platea che Silvio Berlusconi non ama. E a cui però deve ricorrere per dare peso formale alla rottura: «Ho provato a convincere Fini, ma lui vuole fare i gruppi parlamentari». E dunque «è fuori», dice il Cavaliere. «Ha deciso di andare via dal Pdl e lo ha deciso da tempo». Berlusconi annuncia l’irreversibilità della crisi della maggioranza. Mentre parla, è Schifani a ribadire che «la volontà del corpo elettorale è sacra» e che le elezioni anticipate, quindi, sono l’unico sbocco. «Con tutto il rispetto per il Quirinale», dice il presidente del Senato, «difendo la mia libertà di pensiero». Prima ancora di Schifani, quando non è ancora iniziata la riunione dell’ufficio di presidenza a Palazzo Grazioli, è Umberto Bossi a pronunciare la diagnosi più tempestiva: «Mi sa che le cose si mettono male e si torna al voto». Con un colpo di scena inimmaginabile fino a venti giorni fa il Pdl dunque salta per aria, e con lui probabilmente la legislatura. Non bastano gli affannosi tentativi dei triumviri e di Alemanno, non serve la solerzia dei soliti pontieri tra Palazzo Chigi, (dove si celebra un surreale Consiglio dei ministri) e Palazzo Grazioli: è Berlusconi a chiamare lo stop alle telefonate. Si concede una passeggiata per i soliti antiquari prima di proclamare il divorzio dall’ex leader di An. In un clima appesantito dalla decisione del Tribunale di Milano, che dopo aver assistito allo scontro tra i pm del processo Mills e Niccolò Ghedini rimette la legge sul legittimo impedimento alla Corte costituzionale. Passaggio non irrilevante nel definitivo precipitare della crisi: Berlusconi è amareggiato, anzi furente. E figurarsi che piacere deve provare nel sottomettersi alle costrizioni statutarie del partito: dopo il suo“resoconto”, intervengono coordinatori e ministri, a prolungare un atto che però si è già consumato con la decisione del leader. E l’insofferenza per le regole interne, per la struttura, è tutto, in questa crisi. Primo, perché a scatenarla, formalmente, è la pretesa avanzata dal co-fondatore nel colloquio dell’altro ieri: avere voce nel capitolo della «democrazia interna» e del «rapporto con la Lega». Pretesa assurda, per Berlusconi. Secondo, perché l’apparentemente temeraria sfida di Fini è sorretta proprio dall’insofferenza di Berlusconi per il partito. Se infatti martedì prossimo, quando riceverà tutti gli ex An alla Sala Tatarella di Montecitorio, il presidente della Camera potrà contare su un numero sufficiente di adepti da formare nuovi gruppi e aprire di fatto la crisi di governo, sarà anche grazie al terrore scatenato da Berlusconi sulle ricandidature, soprattutto tra i veterani. Da qualche mese infatti il premier ripete che

Il tormentone dell’addio sempre rinviato

La continua minaccia delle urne

Se non rompe mai Ma cosa c’entrano perde ogni credibilità le elezioni anticipate? di Giancristiano Desiderio

di Marco Respinti

segue dalla prima

segue dalla prima

In gioco, insomma, non ci sono più il Pdl e il governo, ma la stessa credibilità di Gianfranco Fini come leader. Abbiamo rivisto per l’ennesima volta un vecchio telefilm. Ma la verità è diversa da quella che ci hanno raccontato. La verità si chiama Predellino. Questa storia è iniziata quando Berlusconi in piazza San Babila salì sul predellino della sua automobile e fece così, su quattroruote, un nuovo partito con l’annessione di Alleanza nazionale e dei moderati. Ma mentre Pier Ferdinando Casini disse “al tempo” e non salì in Mercedes, Fini prima brontolò e poi si accodò. Il problema di Fini è ancora quello di piazza San Babila: aver acconsentito la formazione di un (non) partito che sarebbe per forza di cose finito nella bocca del leone. L’antica saggezza popolare, che ne sa almeno quanto Thomas Hobbes e senz’altro più dei politologi, dice che «chi agnello si fa il lupo se lo mangia». Evidentemente in quel momento Fini trovò conveniente la parte dell’agnello, ma quando poi le cose hanno assunto la loro reale fisionomia con i pesanti rapporti di forza a tutto vantaggio della Lega e della Nuova Forza Italia - il Pdl è questo l’agnello ha incominciato a ruggire. Ma un agnello che ruggisce è un aborto della natura, a meno che non diventi effettivamente leone con una metamorfosi. L’accusa di Fini a Berlusconi che ieri si leggeva sui giornali - «Ti sei comprato quelli di An» - può essere anche vera, ma solo parzialmente. Perché si sa che quando un partito finisce, i suoi beni sono effettivamente in vendita. Il vero problema, quindi, non è la vendita dei beni, ma la fine del partito. Da quando non ha più in mano il partito, Fini agita una pistola scarica. E più la agita e più si capisce che è scarica. L’ultimo proiettile che aveva in canna - il gruppo autonomo - o lo spara adesso o gli tolgono anche la pistola. Molto probabilmente, invece, andrà in una confusione inutile. Fino a quando le nubi non si addenseranno nuovamente e non andrà ancora in onda la solita vecchia storia. Solo che a quel punto nessuno la vorrà più sentire perché se oggi l’agnello, costi quel che costi, non diventa almeno leoncino, la credibilità di Fini sarà bella e andata.

La pace fredda che sembrava essere scoppiata fra il premier e Gianfranco Fini, preludio imprescindibile al doveroso lavoro riformista e possibilmente contagiosa di più vasti spazi, è già un ricordo lontano. Anzi, stavolta pare siano giunti davvero ai ferri corti. Fini minaccia la costituzione di gruppi parlamentari autonomi. E il Cavaliere, che fa? Brandisce il maglio delle elezioni anticipate, subito rincalzato da Umberto Bossi. Ma, di grazia, perché? Berlusconi e Bossi: stiamo parlando cioè di quelli che alle recenti elezioni regionali non hanno vinto, hanno trionfato. Berlusconi e Bossi: i due leader cui spetta ora il compito supremo e sovrano di riformare questo Stato. Mica ha detto, Fini, che mollava capra e cavoli per saltare sul treno dell’opposizione. Qualunque sia, e pur grave, il dissidio tra Berlusconi e Bossi da un lato e Fini dall’altro, per ora l’ex leader di Alleanza Nazionale resta dentro la coalizione di governo. Non vi è certo bisogno di essere dei partigiani di Fini, come chi qui scrive certo non è, per domandarsi esterrefatti: elezioni anticipate per cosa? Perché, insomma, in questo Paese, se in cielo splende il sole la politica chiede le elezioni e se invece tira a piovere pure? Perché in Italia la politica si fa solo e sempre a suon di elezioni litigate, agitate, contuse e contese? Perché in questo Paese, che pur sarebbe grande e nobile, si pensa che i cittadini siano mero elettorato, cioè tanto sciocchi da lasciarsi facilmente irretire da Sua Maestà il Numero foriero di subdoli dispotismi, come diceva John Randolph di Roanoke (1773-1833) agli albori della nazione statunitense? Perché da noi la politica viene fatta coincidere sempre e solo con le maggioranze, le minoranze, lo Stato (più che il governo) e l’opposizione, laddove la zona grigia ed enorme che sta fra una politica fatta solo dalle segreterie dei partiti, quindi distantissima dalla realtà, e i cittadini veri (elettori sì, ma che diamine…) viene elusa, snobbata? Cavaliere, dia retta agl’italiani, che non sopporterebbero più, e soprattutto non capirebbero, altre, nuove elezioni; che potrebbero infatti darle più di così? Dia retta ai cittadini, e faccia ciò per cui l’hanno votata. Non sotterri la politica di questo Paese dentro le urne –funerarie.

alle prossime elezioni chi ha già tre legislature alle spalle non avrà un’ulteriore chance: in tal modo potrà liberarsi di politicanti ingordi, viziati dal potere e adusi alla petulanza. Ex FI o ex Alleanza nazionale non fa differenza: non vuole più essere annoiato da colonnelli pretenziosi e avidi di poltrone. Ne ha parlato con poche primissime file del Pdl, quelli a cui spetterà l’ingrato compito di falcidiare le liste. «Ma c’è chi come Bondi non ha saputo custodire il segreto», riferisce un berlusconiano, «ne ha parlato con molte persone, ha spiegato che bisogna svecchiare i gruppi di Camera e Senato: a questo punto gli effetti rischiano di essere imprevedibili». Perché è chiaro che i seguaci di Gianfranco Fini potrebbero moltiplicarsi: non oggi, né domani, ma se la rottura si consumasse fino in fondo, fino alla crisi e al ritorno alle urne, in tanti – non solo ex aennini – potrebbero scegliere il male minore: farsi candidare nella nuova formazione del presidente della Camera, accettando il rischio di non arrivare neanche al quorum, piuttosto che essere certi dell’esclusione dagli elenchi del Pdl.

È questa la variabile imprevista della guerra aperta dai finiani per accaparrarsi i parlamentari e dar vita al Pdl-Italia nelle due Camere. Una guerra in cui naturalmente l’ampio fronte fedele al premier cerca di trattenere gli indecisi. Con un argomento semplice: Fini non va da nessuna parte, non ha futuro, se lo seguite non sarete mai eletti. Il punto è che gli interlocutori dicono: se restiamo qui non saremo neppure candidati. Sembra un dettaglio trascurabile, rispetto alla pur decisiva questione dell’egemonia leghista nella maggioranza: eppure lo strappo tra l’ex leader di An e il Cavaliere si gioca anche sul nodo dei seggi disponibili, sui quali oltretutto incombe proprio l’opa del Carroccio. Con astuzia, oltretutto, Italo Bocchino ha subito rilanciato l’allarme: «Ma vi pare un partito», ha spesso ripetuto negli ultimi giorni, «quello in cui non c’è mai certezza della candidatura, si è costretti a vivere nel terrore e ad ascoltare le teorie demagogiche di Bondi?». Ecco, spot più efficace il finiano doc non avrebbe potuto trovarne. Così alla Sala Tatarella, martedì prossimo, ci saranno molti con la valigia pronta e in bella evidenza. E già oggi si avrà un’idea più chiara delle proporzioni: c’è in pro-


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Gianfranco Fini, Marcello Pera e Antonio Martino: sono solo tre dei tanti vecchi alleati che Silvio Berlusconi ha allontanato da sé nei suoi quindici anni di politica. Una carriera piena di divorzi, considerando anche quelli con Pier Ferdinando Casini e Marco Follini

Comunque vada, sono al tramonto Fini avrebbe dovuto allearsi con Casini già dopo il “predellino”. Ora è tutto più difficile di Enrico Cisnetto on è un gran parabola, quella del centro-destra: doveva realizzare la “rupture”, nel senso del grande cambiamento del Paese come Sarkozy aveva promesso alla Francia, e invece, più banalmente, è “rottura” dentro il partito di maggioranza relativa, e per di più tra i due cofondatori. Ancora una volta Silvio Berlusconi ha trovato un nemico, anzi un traditore visto che milita nelle sue fila, e con esso si costruisce un alibi – reggerà anche questa volta? – per giustificare agli occhi degli italiani sempre più stanchi (come dimostrano le ultime elezioni, nelle quali il Pdl ha perso voti in assoluto e solo un italiano su sette ha dato il suo consenso alle forze politiche dell’attuale esecutivo) il non governo del Paese. Che poi questo gli serva per andare avanti nella legislatura e tentare di fare le cose che ha in testa (riforma della giustizia, a modo suo, e presidenzialismo per quando cercherà di andare al Quirinale) o invece usi la“rottura” per ripescare il progetto dello scorso inverno di andare alle elezioni anticipate nella speranza di fare banco, lo vedremo. Così come è tutto da vedere se il ricatto dell’interruzione della legislatura funzioni davvero, vista l’ostilità del Colle e la possibilità di un governo “diverso”.

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Ma prima di tutto staremo a vedere se davvero si consumerà fino in fondo il divorzio tra Berlusconi e Fini, visto che, come ha saggiamente suggerito Folli ieri sul Sole 24Ore, a ben pensarci sia il premier che il presidente della Camera hanno entrambi più da perdere che da guadagnare dalla “rottura”. Alcuni pontieri sono al lavoro, può darsi che ancora una volta, come è già successo, la corda non si spezzi. Nell’uno come nell’altro caso, però, la rottura politica si è gramma un pranzo organizzato dalla pattuglia finiana del Senato (Baldassarri,Valditara, Benedetti Valentini e altri che da mesi reclamano più spazio per il dibattito interno). Dalla riunione di martedì potrebbe venir fuori un ordine del giorno, l’estremo atto formale con cui Gianfranco e la sua pattuglia dichia-

già prodotta (da tempo, peraltro) e non sarà assolutamente sanabile. Dunque, una cosa è certa: il Cavaliere è rimasto solo, da un lato vittima di una concezione padronale della politica che lo ha spinto a rompere i rapporti con tutti coloro che a vario titolo e in momenti diversi hanno tentato di far valere il diritto di esistere politicamente (Follini, Casini, Pera, Martino, Fini), e dall’altro prigioniero dell’incubo del ’94, cioè la paura che Bossi gli potesse ripetere lo scherzo del ribaltone, da cui ha fatto discendere un progressivo asservimento suo e dei suoi governi alla Lega. Forse in termini di consenso elettorale non ha pagato dazio – ma anche la Dc del dopoguerra avrebbe potuto fare a meno dei partiti laici suoi alleati sul piano numerico, eppure De Gasperi non commise questo errore – ma certo ha finito sia per isolarsi che per vincolarsi, e questo certo non depone né a suo favore né a favore della sua politica e dei suoi governi. Berlusconi doveva essere l’uomo che avrebbe cambiato la politica semplificandola, ma paradossalmente quanto più è rimasto solo tanto più ha finito per complicarla maggiormente perché ha prodotto nel Paese una tale lacerazione che ha finito con l’allontanare ancora di più la società civile dalle istituzioni. Risultato peraltro inevitabile se si è preteso di costruire il Pdl in una forma ancor meno somigliante a quella di un partito di quanto non fosse Forza Italia. Ma se per quest’ultima la spiegazione c’era – l’essere nata dal nulla nel tentativo (riuscito) di riempire il vuoto creato da Tangentopoli nella rappresentanza dell’area moderata, oltre che nel ten-

tativo (più che riuscito) di mettere in salvo il suo impero minacciato – non c’è certo alcuna giustificazione al fatto che 15 anni dopo la famosa “discesa in campo” si dovesse ricorrere all’estemporanea esternazione sul predellino di un’auto per mettere insieme i diversi pezzi del centro-destra e dar vita ad un nuovo soggetto politico. Fini avrebbe voluto rompere in quel momento, ma si accorse che quasi tutto il suo partito era già passato con Berlusconi, e non gli rimase che soccombere. Salvo poi aprire – forte anche del suo ruolo istituzionale – un fronte di guerriglia politica, essendo arrivato alla conclusione, giusta ma tardiva, che lo schema del Cavaliere non prevedeva, e tuttora non prevede, la scelta di un successore, così come non contempla la costruzione di un partito vero, dotato di un pensiero, di spazi di discussione e di confronto e, se del caso, di un’articolazione interna. Mi limito ad osservare qui quanto ho personalmente detto a Fini a più riprese: il leader di An avrebbe dovuto già durante la legislatura 2001-2006, e a maggior ragione nei due anni del governo Prodi, spostare al centro il suo partito, provocando una scissione a destra ben più significativa di quella subita da Storace, e allearsi da posizioni laiche con Casini. Questo, tra l’altro, gli avrebbe consentito un lavoro di elaborazione politico-programmatica ben più consistente e significativo di quello fatto poi con Fare Futuro, la cui mancanza oggi Fini paga dando a larghi strati dell’opinione pubblica moderata la sensazione di muoversi solo per ragioni tattiche e di potere e gli costa la bollatura – certo in-

Gli italiani sono stanchi e vorrebbero che si facessero le grandi riforme strutturali di cui si parla da anni

reranno di non voler sbattere la porta ma di essere costretti a farlo.

E pensare che in mattinata Fini ha un sobbalzo d’ottimismo di fronte alla convocazione per giovedì prossimo della direzione nazionale, appena annunciata da Berlusconi: «È un primo segnale positivo, una risposta corretta sul piano del metodo

alle questioni che ho posto a Silvio». Macché: in quell’affollatissima sede si sancirà quasi certamente il divorzio. Berlusconi ripeterà l’assioma già esposto all’ufficio di presidenza: «Non è vero che nel governo conta solo la Lega, né che decide tutto Tremonti». E poi ribadirà che non ha intenzione di sottoporsi a un lungo logoramento e che dunque – come anticipato da Schi-

generosa, ma di cui deve tener conto – di “traditore”. Non aver fatto per tempo quel passaggio, subordinando ogni ragionamento politico all’idea di potersi conquistare il ruolo di successore di Berlusconi agendo per linee interne, lo ha poi costretto ad accettare il “predellino”, il Pdl padronale e l’egemonia politica sul governo della Lega.

Tuttavia, al punto in cui sono arrivate le cose, la voglia di rottura di Fini appare non solo comprensibile, ma anche sostanzialmente inevitabile. C’è solo un problema di mezzo: le eventuali elezioni anticipate. Berlusconi ci ha provato con tutte le sue forze lo scorso anno, e su questo giornale ho più insistito nel descrivere quel disegno sottaciuto ma neppure troppo nascosto. Non c’è riuscito, anche perché Fini ha cercato di non dargli modo di arrivarci quando si è accorto che andare al voto sarebbe stato un danno per tutti, a cominciare dal Paese, ma non per Berlusconi. Il risultato favorevole al premier delle regionali – seppure solo in termini relativi e non assoluti – lo conferma. E indica a Fini nuovamente il pericolo di un’eventualità del genere. Nello stesso tempo, per Berlusconi continuare a evocare nemici, complotti e necessità di (ri)verifiche elettorali non può essere un gioco ripetibile all’infinito. Gli italiani sono stanchi, come si vede dall’aumento dell’astensionismo, e vorrebbero che si facessero le grandi riforme strutturali di cui si parla da anni, affrancando il Paese dal declino e dalla marginalizzazione, e anche il mitico Cavaliere (nel senso che prendere i voti è davvero una cosa che sa far bene) potrebbe trovarsi di colpo privo di quel consenso che finora l’ha sostenuto. Partita difficile, difficilissima. Per tutti. (www.enricocisnetto.it) fani – non si può che tornare davanti agli elettori. Il marchio Pdl è suo, quello di An è di Fini: «Riesumarlo? Tutto può accadere», dice un parlamentare del disciolto partito di via della Scrofa. Ma con l’incombente minaccia del repulisti di veterani, può succedere persino che dai frantumi del partitone unico rinasca una maggioranza diversa con questo Parlamento.


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FRANCESCO PERFETTI

L’autogol di Gianfranco: si è messo in un vicolo cieco «Se tornasse indietro, l’ex leader di An perderebbe proprio la faccia. Ma andando avanti così, rischia di rompere con i suoi elettori» di Francesco Lo Dico

ROMA.

«A differenza che negli scontri precedenti, stavolta la frattura tra Fini e Berlusconi è insanabile. Il presidente della Camera non può più tornare indietro, perché ne deriverebbe un brutto colpo per la sua immagine. E il presidente del Consiglio, d’altra parte, non potrebbe accettare di buon grado ulteriori correzioni di rotta, o altre prese di posizione in contrasto con la sua volontà politica. Certo, la rottura sarebbe assai più traumatica per le sorti di Fini, che per quelle del leader azzurro. Nel caso assai probabile che loro le strade si dividessero, si arriverebbe a una crisi all’interno della maggioranza. Ma è scarsamente plausibile che si potrebbe giungere a un rimpasto, perché in questo caso Berlusconi si rivolgerebbe di nuovo alle urne per rinsaldare la sua leadership, mentre Fini dovrebbe fare i conti con una base elettorale che in buona parte non si riconosce più nelle sue posizioni politiche. Per il presidente della Camera, insomma, c’è il forte rischio di riscoprirsi irrilevante al di fuori del Pdl. Di essere finito in un vicolo cieco». L’analisi di Francesco Perfetti, docente di storia contemporanea alla Luiss Guido Carli, non lascia spazio a troppe speranze. La forzata convivenza tra Silvio e Gianfranco, sembra giunta all’epilogo. Professore, Fini può ancora tornare indietro o siamo in presenza di un ”divorzio tardivo”? I margini per un recupero sostanziale del rapporto sono molto risicati. Le poche chance di ricucire lo strappo tra il premier e il presidente della Camera sarebbero più che altro legate a uno scenario compromissorio, una soluzione formale nell’interesse dei due contendenti. L’impressione è però che l’altro giorno si sia consumato un atto definitivo. Si parla di gruppi autonomi. Che scenari si aprirebbero per il Pdl-Italia a trazione finiana? La rottura sancirebbe una crisi all’interno della maggioranza e trovarne una alternativa sarebbe poco agevole per Berlusconi. Il presidente del Consiglio avrebbe tutto l’interesse a spingere per nuove elezioni, e in quel caso i finiani si troverebbero a nuotare in acque pericolose. Ci spieghi meglio. Non c’è soltanto il fatto che Gianfranco Fini ha grossi problemi con il Pdl. C’è il problema, ancora più grande, che l’ex leader di An ha con il suo popolo. Dubito che il pre-

sidente della Camera possa trovare ancora consenso nella sua base tradizionale. L’evoluzione politica di cui si è reso protagonista negli ultimi anni, lo ha allontanato dai temi forti che stavano a cuore al suo elettorato: dalla bioetica all’immigrazione. Dove crede che siano finiti i voti di Gianfranco Fini? La vecchia destra missina è ormai divisa: quelli di area cattolica sono ormai confluiti nel Pdl, mentre gli elettori che votavano Alleanza Nazionale in nome dell’ordine e della

Il vero problema è che molti dei vecchi, storici sostenitori di Alleanza Nazionale su certi temi si sentono ormai pienamente rappresentati dalla Lega

sicurezza, si sentono ormai pienamente rappresentati dalla Lega. E come è noto, chi finisce nelle braccia di Umberto Bossi non torna più indietro. Prospettive poco allettanti, per il presidente della Camera. Fini mi sembra in difficoltà, inutile negarlo. Fare un passo indietro equivarrebbe a un brutto danno d’immagine e credibilità politica, farne uno avanti significherebbe consegnarsi a una condizione di fragilità. Ma ciò che conta, è soprattutto il suo futuro politico. L’ex leader di An era un tempo un punto di riferimento per l’anticomunismo. E oggi, l’“adozione a distanza della sinistra” lo mette in grave difficoltà. Viaggiare a destra, è per lui molto complicato. E viceversa, il tragitto sarebbe impervio anche

sterzando il volante a sinistra. Torniamo al prossimo futuro. Davvero Fini dovrebbe lasciare l’incarico di presidente della Camera, come preteso da Berlusconi? A livello giuridico non esiste nessun vincolo. Si tratterebbe piuttosto di un problema politico, di forti pressioni che lo spingerebbero a lasciare l’incarico. In qualità di presidente della Camera, Gianfranco Fini riveste di un ruolo chiave nel disciplinare l’ordinato fluire della vita parlamentare. E proprio per questo, Berlusconi avrebbe tutto da guadagnare a far saltare il banco. Viene da pensare che Fini dà fastidio perché è la rappresentazione plastica degli endemici difetti degli azzurri: assenza di collegialità, mancanza di strutture, vocazione “dadaista”. Credo che il problema vada rovesciato. Fini rappresenta la persistenza di modelli politici tradizionali all’interno di un partito che ha fatto della rottura con gli schemi del passato il suo punto cardine. Il Pdl è un partito atipico, qualcosa di molto simile a un comitato elettorale funzionale a un sistema bicefalo: da una parte il proporzionale legato a uno schema multipartitico, dall’altra il maggioritario puro. I vecchi partiti, dall’attuale Pd all’An che fu, sono legati ad altre coordinate politiche, dissimili da quelle contemporanee. La vecchia politica è quindi destinata allo scacco? La fortuna del Cavaliere è basata sull’ansia di rinnovamento di una parte del Paese che chiede le riforme. E in questo cammino, la vocazione di Fini alla politica tradizionale è stata e sarebbe per Berlusconi un inciampo. Senza Fini, però, la grande rivoluzione liberale del Cavaliere finirebbe nel piccolo signoraggio localistico della Lega. Non credo che il distacco di Fini produrrebbe conseguenze di questo tipo. A ben guardare, il “nordismo”del Carroccio è ben bilanciato dall’attenzione mostrata dal Cavaliere per il Meridione. Da Napoli alla Sicilia, il Pdl si è mostrato sensibile alla salvaguardia di una porzione del Paese oggi più che mai strategica dopo l’exploit della Lega alle ultime elezioni. Quanto ha inciso l’inarrestabile marcia di Bossi sulla marginalizzazione di Fini? È stato determinante. Fini oggi rischia di scomparire.

Una poltrona per due


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PIERO OSTELLINO

Il paradosso di Silvio: meno governa, più bisticcia «Ieri l’ha fatto con Casini, oggi lo fa con Fini. Solo con Bossi non alzerà mai la voce. Intanto le riforme restano una chimera» di Franco Insardà

ROMA. «Conviene sia a Fini sia a Berlusconi trovare una composizione. Questa volta sarà più difficile, ma ci proveranno» è questa la fotografia del momento secondo Piero Ostellino. Quali vantaggi potrà avere Gianfranco Fini? Credo che si tratti soltanto di uno strumento di pressione e ritengo che rimanga tale. Il momento è quello giusto? È persino tardi, avrebbe dovuto farlo prima. Si riferisce ai tempi del predellino? In un movimento come il Popolo delle libertà, che ora è diventato un partito, con un capo carismatico non c’è spazio per gli altri. Fini non potrà mai essere un leader altrettanto carismatico, seppure in misura minore. Quindi il Pdl è bloccato? Direi proprio di sì. In quel partito c’è un solo capo carismatico che raccoglie consensi, quando decide di metterci la faccia. Non c’è spazio per altri? Per Umberto Bossi lo spazio c’è, perché lui porta i voti alla coalizione, invece Fini non ha la stessa capacità del Senatur. Nel CentroSud esiste ancora un elettorato che si riconosce nelle posizioni del presidente della Camera. La situazione è cambiata perché il Pdl, attraverso l’asse Tremonti-Bossi, si sta espandendo anche al Sud con le politiche economiche del governo. Semmai è Tremonti che va a occupare lo spazio che era di Fini e non viceversa. La Lega non va giudicata per le grossolanità che dice, ma perchè ha un forte insediamento territoriale sul quale ha creato una classe dirigente valida. Gli altri non hanno le stesse capacità. Come reagirà l’elettorato del Popolo delle libertà a questi continui dissidi interni? Continuerà a votare Berlusconi indipendentemente dal fatto che faccia o meno le riforme. Come se lo spiega? Silvio Berlusconi e un puro capo carismatico e lo si vota perché lo si considera alto un metro e novanta, con tanti capelli biondi, con gli occhi azzurri. Con questi presupposti non cambierà nulla. Posto che il Cavaliere sia un leader indiscusso non dovrebbe riconoscere agli alleati dei meriti per le sue vittorie? È visto dai suoi elettori come tale, non è detto che sia un leader proprio per questi motivi. Cioè? Berlusconi tende ad attribuire ad

altri quelle che sono le sue carenze. Non riesce a fare le cose e accusa Fini oggi, come Casini ieri, di ostacolarlo nel programma riformatore del suo governo. Non fa le riforme e annuncia che per farle bisognerebbe cambiare l’assetto istituzionale per poter avere più poteri. Invece che cosa dovrebbe fare? Dimostrare di essere un capo carismatico vero e un leader autentico che fa le riforme indipendentemente dagli assetti istituzionali e da eventuali ostacoli degli alleati.

Berlusconi tende ad attribuire ad altri quelle che sono le sue carenze. Non riesce a fare le cose e allora preferisce accusare amici e nemici di ostacolarlo

Altrimenti? Dimostra di essere un capo carismatico un po’ di cartone. In che senso? Dice di voler realizzare le riforme che poi non fa perché o non è capace o non ha interesse. Questa situazione gli potrebbe convenire perché ha rapporti con tutte le corporazioni, le lobby e gli interessi organizzati che sono ostili a qualsiasi riforma. Il problema vero è questo, mentre le continue fughe in avanti di Berlusconi sono poco importanti e inutili. Perché? Non si tratta di avere un po’ di potere in più o di sbarazzarsi degli alleati scomodi. La dimostrazione di essere un leader vero sta nel riuscire a fare le riforme che i suoi elettori si aspettano. Il resto sono chiacchere.

Questi atteggiamenti un po’ nervosi e insofferenti del Cavaliere sono dovuti anche ai risultati delle Regionali che hanno fatto registrare un successo soprattutto della Lega? Non credo si tratti di nervosismo, ma rientrano perfettamente nel carattere di Berlusconi, il quale non è, come dice qualche esponente della sinistra, un dittatore. Lui è un monopolista, nel senso che ragiona secondo la logica di detenere il monopolio di tutto quello che si fa e si dice intorno a lui. Non ci deve essere nessun altro. E portando alle estreme conseguenze questo ragionamento confonde il Consiglio dei ministri con un consiglio d’amministrazione e il Parlamento con l’assemblea di una spa. Casini, prima, Fini oggi, ma domani toccherà a Bossi? Bossi non chiederà mai di avere una posizione paritaria, piuttosto sarà Berlusconi a fare questa richiesta. Avremo un Berlusconi Bossidipendente? No, perché al Carroccio non interessa, ha una forza reale sul territorio e Bossi sa come farla valere. È lui l’unico vero animale politico italiano. Gli altri sono dei dilettanti. Berlusconi, però, è diventato premier nel 2008 anche grazie all’appoggio di Fini. La politica non comporta bonta, altruismo, riconoscenza, ma si basa sui rapporti di forza, In quel momento Berlusconi era più forte e a Fini conveniva allearsi e, infatti, hanno vinto le elezioni. Oggi il presidente della Camera si trova stretto tra il Cavaliere e Bossi, se la prende con il primo facendo delle richieste che non possono o non vogliono essere accettate, mentre il leader del carroccio guarda ai suoi interessi e a quelli dei suoi elettori. Questi dissidi potrebbero portare all’implosione del Pdl? Potrebbe accadere la prima volta che perdono delle elezioni, ma non adesso. Secondo Massimo Cacciari tra Berlusconi, Fini e la Lega c’è un’incompatibilità culturale e politica di fondo. È d’accordo. Cacciari è una persona intelligente, ma credo che parli da filosofo. In questo triangolo comunque c’è un signore che è politicamente forte: Umberto Bossi. C’è n’è un altro che punta tutto sulla sua capacità di mettersi in gioco, ma soltanto quando è interessato personalmente e non per il bene del Paese: Silvio Berlusconi. Il terzo è l’anello debole: Gianfranco Fini.


diario

pagina 6 • 17 aprile 2010

Separazioni. Oggi si riunisce la direzione del Nazareno: tutti promettono tregua, ma la tempesta è dietro l’angolo

Pd, un partito poco popolare La corrente di Fioroni e Franceschini prepara la scissione da Bersani ROMA. Nel Pd, la riunione

benestare di D’Alema, e la scelta di Franceschini creò più di un problema a Bersani, quando la impose nel suo quadro di gestione unitaria del partito. Qualsiasi altra concessione ai popolari, al livello nazionale di guida del Pd, sarebbe osteggiata nettamente da Letta e dalla Bindi, che richiamano per loro il ruolo di capifila moderati della maggioranza bersaniana. Un vicolo cieco, insomma. In cui Fioroni e i suoi sentono di essersi cacciati per seguire le ambizioni di leadership di Franceschini che, alla fine, si sono rivelate più che vane. Il grande vecchio Franco Marini lo fa notare ai suoi continuamente, rimarcando come non si sarebbe dovuti arrivare a una rottura del patto con D’Alema, preferendogli un Fassino che, pur millantando carte eccezionali, si poteva immaginare non sarebbe riuscito a portare granché dei Ds contro Bersani.

di Antonio Funiciello

della direzione nazionale di oggi dovrebbe filare liscia per Bersani. Nessuna analisi del voto nettamente alternativa a quella propinata dai democratici nei giorni scorsi, nessuna critica radicale all’operato del segretario, nessun accenno ad una linea diversa da seguire al posto della sua. Ci sarà, invece, qualche mugugno espresso nei confronti dell’iniziativa sulla giustizia del responsabile del partito Andrea Orlando. Il quale ha avuto l’ardire di fare il suo mestiere e proporre, a mezzo stampa, una griglia di posizionamento generale del Pd sulla riforma del servizio giustizia. Un’iniziativa considerata tanto originale da accattivare la simpatia di un centinaio di parlamentari e l’ostilità dei restanti. Nel Pd non sono abituati a un titolare di un dipartimento interno che prova a fare il suo mestiere di dirigente politico; tant’è che la presidente Bindi in te-

Dietro la battaglia sul testo sulla giustizia, si nasconde uno scontro di potere molto più profondo, nel quale il segretario rischia di rimanene isolato sta è tuonata contro il ribelle che pretende di fare politica e urtare l’immobilismo imperante. Eppure, prima e dopo la Bindi, le rimostranze maggiori sono venute da una componente in particolare: quei popolari di Fioroni e Franceschini che, indipendentemente dal merito delle proposte di Orlando, si sono messi di traverso con fastidio e irritazione.

L ’i nq u ie t u d in e po po la r e (nel senso dei ”popolari”) si manifesta ormai con assiduità dalla sconfitta del congresso che li ha visti protagonisti, avendo espresso il candidato sconfitto. E ha ormai assunto proporzioni ragguardevoli, se ieri sul Corriere della Sera un pasdaran fioroniano come il deputato veronese Fogliardi ha apertamente parlato di scissione: «Il Pd ha bisogno di una cura drastica, o amputiamo o il braccio andrà in cancrena. La formula è scissione e scorporo, un partito di cattolici democratici che poi torna a federarsi con gli ex Ds». Non è soltanto una

minaccia di rottura, ma una vera e propria exit strategy dal Pd, a cui il grosso dei popolari sta pensando e opponendo in ogni discussione che nel partito si svolga lontano dai riflettori. Non è tanto questione di linea: ai popolari, del famigerato progetto originario del Lingotto da cui Bersani si è allontanato, importa poco. È, diversamente, un problema legato al ruolo negli equilibri di poteri interni al Nazareno: i popolari sono fuori da tutte le caselle che contano. Situazione peggiorata dalle ultime regionali: i popolari

considerano poca roba l’accoppiata Marche-Basilicata e, difatti, avevano almeno chiesto le candidature a presidente di Veneto e Lazio, poi negate da Bersani. Se a questo si aggiunge che, anche al prossimo giro di comunali, i popolari sono destinati a restare fuori da tutti i capoluoghi che contano, il quadro può considerarsi completo.

Bersani, da par suo, non può concedere più di quello che ha concesso, ovvero la presidenza del gruppo camerale al suo sparring partner Franceschini. Il partito locale è, difatti, in mano ai dalemiani, che di mollarne pezzi non pensano affatto. Dopo la cessione della presidenza del gruppo, il segretario democratico ha le mani legate. A guidare i deputati democratici doveva per altro andare Letta, col

La critica di Marini è dura e condivisa oggi dalla gran parte della componente. Ragione di vita del posizionamento politico dei democristiani di sinistra coi post comunisti è sempre stato l’accordo al centro, prima coi dalemiani, poi con Veltroni. Quando quest’ultimo s’è dimesso, Marini aveva avvertito il suo delfino Fioroni che bisognava subito riallearsi con D’Alema, perché altrimenti Letta e la Bindi avrebbero preso il loro posto al centro del partito. Fioroni ha tentennato, Franceschini ha pensato in grande, e le cose sono andate esattamente come il lupo morsicano aveva predetto. Fioroni, ora, non vuole fare più errori e, quindi, detta le sue condizioni a Bersani: o si ristabilisce, tra post comunisti e democristiani di sinistra, un rapporto privilegiato, oppure i popolari andranno per la loro strada; e se la loro strada porta fuori dal Pd, non si potrà proprio evitare di seguirla fino in fondo. Un richiamo identitario fortissimo, che ispirerà la loro annuale assise di Assisi del prossimo settembre, al grido ossimorico di «Il futuro è la nostra storia». Che, tradotto, equivale a «Il futuro è il nostro passato». Bersani può considerarsi avvertito.


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17 aprile 2010 • pagina 7

Un decreto per far scontare l’ultimo anno ai domiciliari

Un piano del governo per svuotare le carceri ROMA. Il governo sta studiando un nuovo decreto legge secondo il quale chi ha da scontare ancora un anno di pena lo potrà passare agli arresti domiciliari “liberando”le carceri che al momento sono drammaticamente sovraffollate. L’annuncio è arrivato dallo stesso presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, nel corso di una conferenza stampa, ha rilanciato il piano svuota-carceri già inaugurato nel settembre del 2008. La misura allo studio del governo, spiega il premier, è nata con lo scopo di «combattere il sovraffollamento delle carceri e i tragici casi di suicidio nei penitenziari». Parlando dell’emergeza carceri in Italia, Berlusconi ha infatti ribadito la necessità di «aumentare la capacità delle nostre prigioni per dare a tutti coloro ai quali viene limitata la libertà, condizioni di vita civili, dignità e nessun pericolo per ciò che riguarda la propria salute. Ci siamo lavorando».

E l’idea di servirsi della decretazione d’urgenza per fare fronte all’emergenza carceri piace anche a Rita Bernardini, deputata radicale eletta nel Pd e membro della commissione Giustizia. «Se c’è una materia in cui la misura della decretazione d’urgenza si giustifica spiega la Bernardini - è proprio quella della drammatica situazione delle carceri». «Ci sem-

«Undici anni per Dell’Utri» Il Pm chiede la condanna del senatore per i suoi rapporti con la mafia di Gualteiro Lami

PALERMO. La condanna a 11 anni di reclusione del senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, imputato di concorso esterno in associazione mafiosa, è stata chiesta alla Corte di Appello di Palermo dal procuratore generale Antonino Gatto a conclusione della sua requisitoria. In primo grado Dell’Utri è stato condannato a 9 anni. Il senatore era presente in aula al momento della richiesta. Anche in primo grado la Procura aveva chiesto per Dell’Utri la pena di 11 anni, ma il Tribunale ne aveva poi comminati 9. Al termine della requisitoria, il pg Gatto ha anche chiesto ai giudici di dichiarare l’estinzione del reato per Gaetano Cinà, unico altro imputato del processo, frattanto deceduto. Dopo il rappresentante dell’accusa, ha preso la parola

per le sue conclusioni l’avvocato che rappresenta il Comune di Palermo, costituitosi parte civile. La Corte d’Appello, presieduta da

«Io la requisitoria nemmeno l’ho sentita, ero al porto a mangiare lo sfincione. Buonissimo», ha commentato l’imputato. La sentenza a giugno Claudio Dall’Acqua, secondo i programmi dovrebbe entrare in camera di consiglio il 4 giugno per emettere la sentenza.

Nell’ultima parte della requisitoria il Pg Gatto ha sostenuto che è rimasto «assolutamente integro» il quadro emerso dal giu-

Berlusconi contro Saviano «Fa pubblicità alle cosche» ROMA. Non ha detto che la mafia non esi-

brano importanti e condivisibili le parole dette oggi dal presidente del Consiglio Berlusconi per affrontare l’emergenza carceri», ha commentato Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE. «Oggi – ha proseguito - abbiamo più di 67mila detenuti in strutture carcerarie con una capienza regolamentare di poco superiore ai 43mila posti letto. Questo va a tutto discapito della dignità umana dei reclusi, ma soprattutto delle difficoltà operative e lavorative del Corpo di Polizia Penitenziaria, sotto organico di oltre 6mila unità».

ste e che l’ha inventata Roberto Saviano per scalare le classifiche mondiali di popolarità, ma insomma… Silvio Berlusconi ieri ne ha detta un’altra delle sue: «La mafia ha goduto di un supporto promozionale che l’ha portata ad essere un fatto di giudizio molto negativo per il nostro Paese. Ricordiamoci le otto serie della Piovra, programmate dalle televisioni di 160 Paesi nel mondo, e tutto il resto, tutta la letteratura, il supporto culturale, Gomorra e tutto il resto». Insomma, si tratta di un made in Italy che ha troppe controindicazioni. La frase - pronunciata nel corso della consueta conferenza stampa che ha seguito il consiglio dei ministri di ieri - è suonata subito stonata a molti che vi hanno letto, appunto, un attacco allo

dizio di primo grado e nelle considerazioni finali dei giudici del Tribunale, «che approvo totalmente - ha detto- e a cui faccio rinvio. Ma anche dal processo d’appello sono scaturite novità importanti, diversi ulteriori elementi, tra cui le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, che si inseriscono armonicamente in un contesto in cui già erano emersi i rapporti con i fratelli Graviano, il suo ruolo nella stagione politica delle stragi.Tutti elementi - ha proseguito Gatto- che connotano negativamente la personalità dell’imputato». Il rappresentante dell’accusa ha fatto cenno anche a elementi che non sono entrati nel processo, parlando dei rapporti con Vito Roberto Palazzolo, finanziere di Terrasini (Palermo) condannato a 9 anni di carcere, e i rapporti attuali con la ’ndrangheta, risalenti al 2008, «non ammessi perché al di fuori dell’arco temporale della contestazione». Per tutti questi motivi, ha concluso il Pg, Dell’Utri è «meritevole di un aggravamento di pena» e a questo punto Gatto ha fatto riferimento, senza nominarlo, all’ex dirigente del Sisde, Bruno Contrada, condannato a 10 anni in un processo seguito dallo stesso Pg: «Mi addolora - ha affermato Gatto - fare questo riferimento, ma per un appartenente alle forze dell’ordine, la cui infedeltà allo Stato è stata di gran lunga inferiore, quanto meno come tempo, è stata emessa una condanna a 10 anni. Dell’Utri è stato vicino a Cosa nostra per un trentennio e merita dunque di più».

scrittore Roberto Saviano. Il quale, come si sa, è sotto minaccia di morte da parte della camorra dopo la pubblicazione (e appunto il successo mondiale) del suo libro Gomorra. Tra le numerose proteste, vale segnalare quella – ironica – della deputata del Pd Manuela Ghizzoni la quale ha espresso «solidarietà piena a Marina Berlusconi per aver pubblicato e promosso il libro di Roberto Saviano, Gomorra». Meno spiritoso Antonio Di Pietro (l’ironia non è mai stata il suo forte) il quale ha detto: «Berlusconi chieda scusa a Saviano che rischia la vita per le sue denunce e a tutti quegli operatori di giustizia che, nonostante le minacce in stile mafioso fatte da un Presidente del Consiglio, hanno ancora oggi il coraggio di tenere alto il senso dello Stato e delle istituzioni».

In attesa che il 30 aprile cominci a parlare la difesa, Marcello Dell’Utri ieri ha fatto un commento al solito molto spiritoso: «Non ho seguito tutta la requisitoria. Sono andato a Porta Carbone, davanti al porto, a mangiare lo sfincione. Buonissimo». Ai cronisti che, altrettanto simpaticamente gli chiedevano se la richiesta di pene gli avesse complicato la digestione l’imputato ha risposto: «Macché ! L’ho già digerito».


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Presagi. La complessa meteorologia che deriva dai sommovimenti della crosta terrestre ha influenzato in maniera decisiva gli avvenimenti dell’umanità

Le Ceneri della Storia Da Atlantide a Pompei, passando per la Bastiglia, il vulcano islandese è solo l’ultimo a colpire l’uomo di Maurizio Stefanini a è possibile che un vulcano islandese scombussoli il trasporto aereo in tutta Europa? Se è per questo i vulcani islandesi hanno fatto pure di peggio: hanno provocato la Rivoluzione Francese. Ma ricordiamo il contesto. Sono 135 i vulcani attivi in Europa, ma solo uno sta sul Continente: il Vesuvio. Altri tre stanno in Sicilia, di cui due nelle Eolie: Stromboli e Vulcano, più l’Etna. Poi, assieme ai quattro vulcani italiani, ce n’è uno su un’isola greca, Santorini. E gli altri 130 stanno tutti in Islanda. È tutto quel calore terrestre che ha permesso a quell’isola ai confini con l’Artico di poter essere abitata anche in modo abbastanza confortevole. La stessa parola Geyser viene dal Geysir, che è il più famoso dei geyser islandesi. E oltre ad assicurare metà del fabbisogno energetico dell’isola la geotermia consente agli islandesi perfino di

M

produrre frutta tropicale, in serra. Ma ogni tanto, anzi ogni poco, i vulcani islandesi scappano di mano. L’Eldgjá, in islandese “canyon di fuoco”, il più grande canyon vulcanico del mondo, eruttò nel 934: giusto sessant’anni dopo l’arrivo nell’isola dei primi coloni vichinghi dalla Norvegia, e quattro anni dopo la prima riunione di quell’ Alfingi che si vanta di essere il più antico parlamento del mondo. E produsse quello è resta tuttora il più grosso strato di basalto vulcanico registrato in tempi storici, con ben 19,6 km3 di lava. Ma l’Eldgjá fa a sia volta parte di un sistema più vasto assieme al Katla, al Grímsvötn e al Laki, e proprio il Laki l’8 giugno del 1783 esplose in quella che fu la più grande eruzione vulcanica degli ultimi 500 anni. Skaftáreldar la chiamarono gli islandesi: i “fuochi del fiume Skaftá” Entrati in contatto, acqua del sottosuolo e magma aprirono una faglia di 130 crateri, che iniziò in stle pliniano, con una lunga coonna eruttiva tipo Vesuvio. Divenne poi stromboliana, a eruzioni intervallate. E

Bloccati metà degli aerei fra Ue e America ROMA. Non si arresta il cammino della gigantesca nube di cenere provocata dall’eruzione del vulcano islandese, e continua la paralisi dei voli nei cieli del Nord. Al punto che Richard Taylor, un portavoce dell’Autorità per l’aviazione civile britannica ha commentato che «la nube sta causando, sul traffico aereo, effetti peggiori dell’11 settembre: è una situazione senza precedenti. All’epoca, dopo gli attacchi, venne bloccato il traffico transatlantico, ma i voli in Europa erano operativi». Del resto, ieri è stata cancellata la metà dei collegamenti tra Nordamerica e Vecchio continente. Di fatto, sono bloccati gli scali irlandesi, britannici, danesi, svedesi, olandesi e belgi, chiuso lo spazio aereo in Austria e nel Nordovest della Repubblica Ceca, cancellazioni negli aeroporti francesi, tedeschi e polacchi, chiuso nella mattinata di ieri anche quello di Sofia, in Bulgaria. A rischio l’arrivo a Varsavia dei capi di Stato e di governo di tutto il mondo che dovrebbero partecipare, oggi, ai funerali di Stato del presidente Lech Kaczynski. Le autorità britanniche hanno chiuso gli scali fino alle 20 di ieri. In Francia gli aeroporti del Nord e della regione parigina sono rimasti tutto il giorno fuori servizio. Air France ha annullato tutti i voli in partenza e in arrivo nella capitale. L’eruzione del vulcano sotto il ghiacciaio Eyjafjallajokull, iniziata il 13 aprile, ha provocato una nuova inondazione: i distretti di Fljotshlid e Landeyjar, nell’area del ghiacciaio, sono stati evacuati. L’acqua ha sfondato le protezioni allestite nei pressi del ponte Markarfljot per impedirne il crollo. Il livello non ha superato la struttura, attestandosi a circa mezzo metro sotto il ponte. L’acqua è di colore rossastro - a causa del fango - e contiene blocchi di ghiaccio. Di fatto, gli esperti islandesi prevedono che l’eruzione del vulcano, la seconda in un mese, potrebbe continuare per diverse settimane.

continuò all’hawaiana, con l’emissione di enormi quantità di lava: 14 Km3, con fontane alte tra gli 800 e i 1400 metri, che per otto mesi sparsero l’aerosol di acido solforico, 8 milioni di tonnellate di fluorio gassoso e 120 di ossido di zolfo, sui cieli dell’intero Emisfero Boreale. È tre volte le emissioni industriali europee del 2006. Fino al 7 febbraio del 1784 durò l’eruzione del Laki, e fino al 1785 quella del Grímsvötn. Sand-summer fu chiamata dagli inglesi l’estate del 1783: l’“estate sabbiosa”. Mentre gli storici di oggi parlano più in generale della “foschia di Laki”.

Tremende le conseguenze in Islanda, con il fluoro che contaminò i pascoli. Oltre metà del bestiame morì avvelenato, e anche il 25 per cento della popolazione umana perì: alcuni avvelenati a loro volta, ma la gran parte per la conseguente carestia. Ma anche nel resto d’Europa tra 1783 e 1784 si contarono morti a migliaia: almeno 23.000 direttamente per intossicazione, soprattutto tra gente che doveva lavorare all’aperto. Poiché le disgrazie non vengono mai da sole, infatti, l’estate del 1783 si trovò a essere la più calda mai registrata fino ad allora sul Continente, e così l’area di alta pressione che si stabilì sull’Islanda favorì il viaggio della nube venefica verso il sud-est a cavallo dei venti. Prima arrivò in Norvegia, il 17 giugno stava su Praga, il 18 su Berlino, il 290 su Parigi, il 22 su Le Havre, sulle Isle Brotanniche il 23. Poiché mancavano ancora 119 anni all’invenzione degli aerei, a restare bloccate nei porti furono le navi, mentre il Sole diventava di colore rosso sangue. Come per un apocalittico contrappasso, però, dopo il tremendo calore estivo provocato dall’aerosol di diossido di zolfo durante l’estate, con la Gran Bretagna flagellata da temporali e grandinate così violenti come mai se ne erano visti, venne il gelo, per lo schermo sui raggi del sole. In Francia in principio il calore intenso favorì nel 1785 un raccolto record, che però paradossalmente impoverì i contadini, per il conseguente crollo dei prezzi. Ma poi vennero siccità, inverni rigidi ed estati fredde, culminate nelle tremende grandinate del 1788. Un’agricoltura in ginocchio non fu più in grado di sostenere il tremendo prelievo di ricchezza che la monarchia francese imponeva per mantenere il proprio sfarzo e “comprare” nel contempo la docilità di un’artistocrazia che prima di Luigi XIV era stata endemicamente ribelle. Partì così l’agitazione per la riforma del sistema fiscale, che per l’indecisio-

ne di Luigi XVI a procedere alle riforme sfociò infine nella Presa della Bastiglia, ed in ciò che seguì. Davvero tutto ciò per un vulcano islandese? In effetti alcuni storici sfumano un poco, spiegando che a quella devastante successione di cattive stagioni concorse una pluralità singolarmente jellata di circostanze negative. Il Laki, ma anche l’alta pressione, come abbiamo ricordato. E poi un intenso episodio di El Niño, che si sarebbe verificato tra 1789 e 1793, amplificando le anomalie climatiche in corso. Né bisogna dimenticare il terremoto che il 5 febbraio del


mondo

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ciclo rivoluzionario, con la battaglia di Waterloo, fu poi contemporaneo a quell’eruzione dell’indonesiano Monte Tambora del 515 aprile 1815, che nel 1816 provocò tra Nordeuropa e Nordamerica quel fenomeno conosciuto come “l’anno senza estate”. Sembra comunque che il sole fosse già schermato dalla cenere vulcanica eruttata dal vulcano Soufrière nell’isola caraibica di Saint Vincent nel 1812 e dal Mayon nelle Filippine nel 1814. Tra le conseguenze indicate: la prima spinta alla conquista del West; la prima pandemia colerica, in popolazione indebolite dalla penuria; la tinta particolare dei tremonti dei dipinti di William Turner; l’origine della letteratura dell’orrore, nelle ”incessanti nevicate” che nel luglio 1816 durante un’”estate umida e non congeniale” costrinsero Mary e Percy Shelley, John William Polidori e George Byron a passare una vanza svizzera chiusi in casa, a sfidarsi nella gara letteraria che produsse Frankenstein e Il Vampiro.

1783 si abbattè su Reggio Calabria e Messina, uccidendo 60.000 persone, anche se lì l’impatto del sisma sullo sconquasso climatico è meno certo. In compenso, la straordinaria coincidenza tra un terremoto in Sicilia e un’eruzione appena quattro mesi dopo in Islanda fece nascere quella teoria sui collegamenti tra vulcani dell’isola artica e di quella mediterranea su cui poi nel 1864 Jules Verne imbastirà il suo Viaggio al centro della terra. Come si ricorderà, è la storia del tedesco professor Otto Lidenbrock che seguendo il manoscritto di un alchimista medieva-

le assieme al nipote Akel e alla guida islandese Hans si cala nel vulcano Snæffels. Uscendo da Stromboli. Ma altri storici aggiungono che comunque originato questo complesso di turbolenze metereologiche non disturbò solo l’Europa. Anche in Nord America l’inverno del 1784 risultò infatti uno dei più rigidi della storia, al punto da far gelare il Mississippi a New Orleans e addirittura il Golfo del Messico. La cosa attirò l’attenzione di Benjamin Franklin, che però confuso dal modo lento in cui le notizie arrivavano a

In alto, la nuvola di cenere che dalle coste dell’Islanda sta coprendo l’intero continente europeo. Secondo gli esperti, gli effetti dell’eruzione vulcanica potrebbero influenzare l’intero prossimo anno. A lato, un’immagine dal film tratto dal “Viaggio al centro della Terra” di Julius Verne. Sopra, un’immagine dell’eruzione che ha distrutto Pompei e, in alto, la furia del vulcano Krakatoa

In Europa ci sono 135 vulcani attivi, ma solo uno sul Continente: il Vesuvio. Ben 130 sono in Islanda e con il loro calore geotermico hanno reso abitabile l’isola quell’epoca scambiò l’eruzione del Loki con quella che nel 1766 era avvenuta nell’Hekla: altro vulcano islandese, che le leggende medievali ritenevano la “Porta dell’Inferno” o la “Prigione di Giuda”. Sebbene la più imponente tra quelle storicamente documentate, l’eruzione del Laki non è stata però presumibilmente l’unica a influenzare il corso delle vicende umane. A parte che nella stessa Rivoluzione Francese assieme alla congiuntura metereologica influisce anche un revival di ideologie repubblicane e democratiche di derivazione greco-romana, propiziato anche della moda neo-classica iniziata con la scoperta di Pompei. La fine del

Anche l’effetto ottico delle ceneri davanti al sole dopo l’eruzione pure indonesiana del Krakatoa, culminata nell’esplosione del 26 agosto 1883, avrebbe avuto una ricaduta artistica, nello sfondo dell’Urlo di Edvard Munch. ;entre l’eruzione neo-zelandese del Kaharoa, durata ben cinue anni, all’altyro capo del mondo avrebbe precipitato l’Europa nella grande carestia del 1315-17. Non si sa invece se il cambiamento climatico del 536-36 sia stato provocato da un’eruzione in Nova Guinea, da un precedente evento del Krakatoa o da una pioggia di meteore in Gronelandia. In compenso, i recenti studi sul dna hanno ibndividuato nella storia dell’umanità un “collo di bottiglia”in cui i nostri avi furono ridotto ad appena 10.000 coppie in tutto il mondo: forse appena un migliaio. E la circostanza sembra coincidere con l’evidenza di una gigantesca esplosione che avrebbe avuto luogo a Toba, sempre in Indonesia, tra i 69.000 e i 77.000 anni fa. Last but not least l’eruzione di Santorini, che secondo la datazione oggi più accettata avrebbe avuto luogo nel 1600 a.C., e che avrebbe a un tempo distrutto la civiltà minoica a Creata; favorito la nascita della prima civiltà micenea sul continente europeo, grazie all’apporto dei fuggiaschi cretesi; e anche fornito la base storica attorno a cui si sarebbe poi creato il mito di Atlantide. Una tesi più contestata sostiene che anche gli ebrei di Mosè sarebbero fuggiti approfittando del trambusto causato dalla pioggia di ceneri. E lo stesso Mar Rosso si sarebbe aperto e poi richiuso in conseguenza di un’onda d’urto tellurica. Ma non manca chi colloca invece l’Esodo vicino al cosiddetto “Collasso dell’Età del Bronzo”: periodo di caos che vide succedersi in pochi decenni ad esempio la distruzione di Troia, la caduta dell’impero ittita, quella della civiltà micenea in Grecia per l’invasione dei dori e il tentativo di conquista dell’Egitto da parte dei Popoli del Mare. E anche lì sembra che c’entri un vulcano islandese: l’Hekla di Franklin, con la sua eruzione che gli storici indicano nel 1159 a.C.


politica

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Paradossi. La Lega continua la sua marcia trionfale nella finanza. Mentre Fassino fu impallinato quando puntò su Unipol

Elogio di P. che voleva una banca (Mentre su Bossi che le vuole tutte non si scatena nessuno scandalo) strano, il destino. C’è chi per la stessa frase finisce nel tritacarne mediatico e sotto accusa in tribunale, e chi invece viene osannato come grande statista. L’«abbiamo una banca» pronunciato da Piero Fassino al telefono con Giovanni Consorte all’epoca intercettato e sotto indagine per la scalata di Unipol a Bnl costò all’allora segretario Ds accuse, reprimende e slogan – «Fuori la politica dall’economia», detto da chi appoggiava Berlusconi – che ne fecero carne da cannone sui media, mentre un’indagine della magistratura ne escluse ogni responsabilità nella vicenda. Invece, la pubblicazione della telefonata su Il Giornale è oggi al centro di una indagine del Pm Massimo Meroni per accesso abusivo a sistema informatico, rivelazione d’atti coperti da segreto e false fatture.

È

Umberto Bossi è stato più fortunato: vuoi perché nel suo caso si tratta di una dichiarazione pubblica, vuoi perché la

di Alessandro D’Amato Lega oggi è il partito che appare più di tutti come l’unico in ascesa nel nostro panorama politico.Vuoi, anzi, soprattutto, perché i posti nelle Fondazioni bancarie invece gli competono, lo prevede la legge che prevede la nomina nei consigli di amministrazione dei grandi azionisti delle banche da parte degli enti locali. Veneto e Piemonte sono andati alla Lega, e quindi i componenti del CdA

stra (con la Lega che ne ha tre e il Pdl pure) e gli altri sono centrosinistra o civiche. Il resto sono nomine che competono alla Camere di Commercio, (due membri), ai Rettori delle Università (altri tre), ai vescovi (altri due). Gli altri 8 componenti sono designati dal Consiglio Generale stesso, sentiti altri enti del territorio, come Usl, Sovraintendenze, Accademici delle Scienze, alle volte

mento e quindi la liquidazione». L’ex capo della vigilanza ha poi sottolineato i contatti tra lui e Giancarlo Giorgetti della Lega (allora presidente della Commissione Bilancio della Camera) per mettere a punto un piano di salvataggio della banca. In particolare, Frasca ha ricordato come, dopo il fallimento delle trattative volte a trovare un accordo con la Popolare di Milano e il

È cominciata con il blocco di Gabriele Piccini a Unicredit la rincorsa del Carroccio al salotto buono della finanza del Nord. Ma per ottenere risultati veri, i lumbard dovranno aspettare ancora di Cariverona e la Caritorino, quando dovranno essere rinnovati, saranno in parte nominati dalla Lega. Si comincerà, pare con Cariverona. Il cui rappresentante in Unicredit ieri, Luigi Castelletti, ha fatto mancare ad Alessandro Profumo, amministratore delegato di Piazza Cordusio, l’appoggio al momento del voto sul riassetto della banca e la nomina del country manager, anche se il nome di Gabriele Piccini è risultato gradito a Zaia, neogovernatore del Veneto. Meno a Tosi, sindaco di Verona, che è parte molto interessata. Come ha ricordato Repubblica, il consiglio di Cariverona è oggi composto da 32 membri. Di questi, 14 sono di nomina politica diretta, cioè di competenza di sindaci e presidenti delle Provincie: 4 spettano al sindaco, quindi alla Lega che governa oggi la città (la designazione attuale era stata della vecchia amministrazione di centro sinistra). Degli altri dieci, sei vengono espressi da sindaci di centrode-

con designazioni che richiedono specifiche competenze.

Insomma, la gente che chiedeva a Bossi di prendersi le banche dovrà un po’ pazientare ancora. Prima di arrivare a sedere nelle poltrone che contano, gli uomini della Lega dovranno aspettare. Nel frattempo, proprio ieri si è tornati a parlare della fallimentare precedente esperienza leghista in materia di istituti di credito. L’ex capo della vigilanza della Banca d’Italia, Francesco Frasca, ha ricordato come «disastrosa» l’ispezione avvenuta a suo tempo all’interno della CrediEuronord, la Banca della Lega di Umberto Bossi. È quanto emerso nel corso dell’interrogatorio all’ex funzionario di Palazzo Koch sul tentativo di scalata all’Antonveneta, durante il quale il Pm Eugenio Fusco ha chiesto qualche chiarimento sulla breve storia dell’istituto poi ’salvatò dall’allora Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani. Frasca ha così ricordato che, in seguito all’ispezione, «era stato detto di procedere con un’aggregazione o con il commissaria-

no di Banca Sella che aveva effettuato una due diligence dalla quale era emersa la «presenza di troppi fondi rischiosi», si era fatto avanti Fiorani che poi nel 2004 assorbì la banca nel gruppo Bpi.

Senza particolare cattiveria, la storia la ricorda Luca Pagni: si parte con due sportelli, uno a Milano e uno a Treviso e la tesoreria del Comune di Erbusco, in Franciacorta. Dopo tre anni la situazione è disastrosa: il bilancio 2003 si chiude con 8 milioni di perdite e 12 di sofferenze su 47 di impieghi. Anche frutto di una tecnica creditizia discutibile: la metà delle sofferenze fanno capo a soli cinque soggetti.Tra cui la società Bingo.net che ha tra gli amministratori l’allora sottosegretario leghista Balocchi e un paio di parlamentari sempre del Carroccio. Per correre ai ripari viene abbattuto il capitale sociale da 13,7 a 5 milioni di euro. Ma non basta, perché le regole di Bankitalia parlano di un capitale minimo per le banche di 6,5 milioni. è necessario un aumento di capitale da 1,2 milioni, ma l’ appello va deserto e

Le “mire” politico-finanziarie di Piero Fassino e Bossi sono state trattate in modo opposto da media e Palazzo. Il primo puntava a Unipol, il secondo a tutto il resto

devono intervenire di tasca loro i parlamentari leghisti. A guidare il salvataggio, arriva il segretario della Lega Nord, Giancarlo Giorgetti, che prima chiede aiuto alla Popolare Milano e poi va in cerca di sponde politico-finanziarie più alte. Arriva così a Gianpiero Fiorani, allora amministratore delegato di una Banca Popolare di Lodi in ascesa. Lui, su sollecitazione – sostengono i maligni – dell’allora governatore Antonio Fazio, rileva tutto, debiti compresi, per 2,8 milioni. E fa calare una pietra tombale sulla vicenda. Mentre il Carroccio cambia atteggiamento su Fazio: prima appoggiava Tremonti nella sua battaglia contro il dominus di Palazzo Koch, poi da tigre aggressiva si trasforma in un timido gattino. Continuando a difenderli anche quando Fazio e Fiorani cadono travolti dagli scandali per l’acquisizione di Antonveneta. Insomma, la prima volta della Lega nelle banche non è stata un granché. La seconda, vedremo.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Dalla scena al dipinto

STREGHE, AMLETI & BALLERINE di Nicola Fano

e ballerine vanno sempre fortissimo. Ma forse è più interessante vederivoluzionario; ma se la vanità di Napoleone vide sempre di buon occhio gli re le facce (vere o presunte) degli attori che affollano la mostra omaggi di David o del suo attore preferito François-Joseph Talma, quella Le opere di Stalin non resistette di fronte alla straordinaria libertà creativa del Dalla scena al dipinto, («La magia del teatro nella pittura delcostruttivismo teatrale, di Appia, di Mejerhol’d, di Majakovskji. l’Ottocento. Da David a Delacroix, da Füssli a Degas») che svelano Ma questa è un’altra storia. che Guy Cogeval e Beatrice Avanzi hanno curato al Mart la magia del palcoscenico Cominciamo col dire che «dalla scena al dipinto» si di Rovereto fino al 23 maggio prossimo. Ma che è punella pittura dell’Ottocento (da perdono un sacco di cose. I movimenti. Le parole. re testimoniata da un catalogo portentoso edito La musica.Talvolta la scena, ma non sempre. da Skira. Comunque, sono più interessanti le David a Degas), in mostra al Mart di Rovereto, Al di là dei pittori scenografi (qui appunto Apespressioni degli attori, un po’ perché ci racdimostrano che il teatro è più ambiguo pia ma anche Gordon Craig), in questi quadri a volcontano come si facesse il teatro in epoca neoclasdella pittura. E che il confine tra te colpiscono certi particolari che sganciano i dipinti sica (a cavallo tra Settecento e Ottocento), un po’ perché rivelano lo studio plastico dei grandi pittori del tempo. Partidalla fissità della tela per approdare agli artifici teatrali: vero e falso è davvero colare curioso: la mostra si apre con David e si chiude con prendete un grande David (I littori riportano a Bruto i corpi dei sottilissimo Adolphe Appia, dalla rivoluzione francese a quella russa che adottò la suoi figli, 1789, Musée du Louvre): qui un lenzuoletto steso tra una fila biomeccanica dell’artista svizzero; come se il teatro avesse in sé un germe di colonne fa tanto scenografia un po’ rimediata.

L

Parola chiave Lussuria di Franco Ricordi David Byrne canta Imelda di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Tasso, la voce della vita che svanisce di Filippo La Porta

Le lettere dal carcere di Havel a Olga di Gabriella Mecucci Da Solondz e Moverman a lezione di pietas di Anselma Dell’Olio

Fervore sperimentale su quadrato bianco di Marco Vallora


streghe, amleti &

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Sia pure all’interno di un allestimento evidentemente sontuoso, come quello raccontato con luce e pennelli dal più sontuoso dei neoclassici francesi. O prendete quella Ofelia morta che vaga sul fiume di Füssli (un classicissimo, al punto che quest’immagine è stata citata da tutto il cinema shakespeariano, persino nel film tv che Gassman trasse da Amleto nel 1955); anche qui c’è una evidente maestria nel fare tanto con poco. Basta un tulle ben tirato sul boccascena per far tremolare un corpo in un fiume. Ma è tutto Shakespeare a colpire in questa mostra: intanto perché lo vediamo signorilmente interpretato da David Garrick (elegante e compassato, molto british anche quando s’alza dal letto di terrore di Riccardo III), ma poi perché ce lo mostra come un autore teatrale ricco e popolare al tempo stesso; che è poi la moderna contraddizione di Shakespeare, essere semplice e complicato al tempo stesso. Anzi, a proposito di questo ossimoro vale la pena segnalare qui la quantità di streghe macbethiane ritratte. Perché quella delle tre streghe che incontrano Macbeth e gli predicono l’orrendo, confuso futuro, chiosando che «il brutto è bello, il bello è brutto!» è una delle scene meno note oggi ma più importanti nella storia di Shakespeare: la quintessenza dell’ambiguità e dell’impossibilità di discernere - per esempio - il bello dal brutto, ma anche il bene dal male (come nel caso di Macbeth e signora). Salvo che oggi si tende a dimenticarlo, proprio perché questa nostra malsicura epoca di certezze troppo ostentate per essere vere e salde, vede di pessimo occhio il dubbio. Ed è già un bel successo che il povero dubbioso Shakespeare non paia quel sovversivo che è. Comunque, qui nella mostra di Rovereto siamo pieni di streghe: streghe eleganti, vocianti, per niente beffarde, così esagerante che se ti si avvicinano non credi loro neanche se tu sei un arrivista e loro ti spiegano che presto sarai re. Il teatro è più ambiguo della pittura; tutto il teatro, non solo Shakespeare.

Ecco, se una annotazione si impone dopo la visione di questa splendida serie di opere, è che il teatro raccontato dai pittori è più sontuoso di quello che in genere si vede sul palcoscenico. Sempre, mica oggi. Le scene plastiche, l’intreccio di personaggi, lo dovizia di arazzi e colonne fa pensare a una spettacolarità prima di tutto ricca. Proprio nel senso economico del termine: scene costose e intrasportabili (avete mai pensato, vedendo uno spettacolo qualunque, che magari all’indomani in quella stessa cornice scenografica doveva essere rappresentato in un’altra città?, magari lontana centinaia di chilometri?); costumi pesanti che impediscono i movimenti; movimenti larghi, esagerati… Cose vere e false allo stesso tempo. Vero che gli attori facciano movimenti eccessivamente vistosi, perché devono essere visti e riconosciuti fino all’ultima fila del loggione. Ma falso che le scenografie abbiano una preponderanza così massiccia sull’azione scenica, pensate a quei comici che recitavano sul rovescio di un carro con due veli, o a Shakespeare (sempre lui, ne sapeva una più del diavolo!) che per far apparire il fantasma di Amleto padre o di Giulio Cesare s’accontentava di una piccola botola di legno. Cose vere e false allo stesso momento, dunque, come è giusto che sia: perché il teatro si può solo ricordarlo. E ognuno lo racconta a modo suo. Lo spettatore che ha mangiato troppo s’addormenta e ricorda poco o nulla, ma magari lavora di fantasia e vede scene monumentali e invadenti... Lo spettatore che aspira a finire la serata con l’amante che ha seduta accanto, ricorda lo spettacolo noioso e troppo lungo, con quell’attore che faceva sempre gesti eccessivi e sproporzionati… Lo spettatore solitario e sconfitto dalla vita, vede lo spettacolo sempre più bello di quel che è, un’opportunità assoluta che egli non riesce mai a cogliere… È il anno III - numero 15 - pagina II

A sinistra, “Ellen Terry nel ruolo di Lady Macbeth” di Sargent (1889). A destra, “Ofelia” di Millais (1851-52). Sotto, “Le tre streghe” di Füssli (1783), “David Garrick nel ruolo di Riccardo III” di Hogarth (1745), “Lugné-Poe e Berthe Bady” di ToulouseLautrec (1894) e “Lady Macbeth sonnambula” di Delacroix (1849-50). In copertina, “L’orchestra dell’Opéra” di Degas (1870)

ballerine

teatro: qualcosa che vive nel momento e nella memoria; e ciascuno dei partecipanti al rito ha un momento e una memoria diversi da quelli di ogni altro. Diciamo allora che questi artisti importanti e appassionati sono - in questo specifico caso - il nostro tramite con la storia del teatro. Che è una storia fatta di particolari, di tasselli da mettere uno accanto all’altro come un puzzle più che come un collage, in modo da ricostruire il tutto. Che il teatro dell’impero napoleonico fosse eccessivamente pieno di velluti rossi lo sappiamo appunto da David. Ma da David sappiamo anche che quel teatro immaginava se stesso come una carovana di divinità greche che mettevano in scena i conflitti della modernità: una roba insostenibile; finzione nella finzione. Meglio il romanticismo inglese, con un Edmund Kean ubriaco che urla parole dentro un costume mezzo stracciato. Meglio il vuoto biomeccanico che aspetta di essere popolato di marionette ciascuna uguale a se stessa e all’altra: popolo massa, come il Novecento stava appena cominciando a capire. Non c’è in questa bella mostra ma ne sarebbe stata un perfetto epilogo - una serie di marionette che Picasso dipinse per la compagnia di balletti di Sergej Diaghjilev, uno dei maestri della biomeccanica: pupazzi meccanici costruiti dal genio spagnolo con gli avanzi di scatolette e bottiglie, pentole e imbuti, un modo per riportare alla banalità della vita quotidiana le esagerazioni dell’arte.

Ecco, la mostra del Mart ha un solo grande limite, suo malgrado: i pittori sono spettatori che ricordano le cose meglio di quanto non fossero nella realtà. Non a caso certi bozzetti (compresi quelli di David e Füssli) con scene e movimenti solo accennati, sono meglio delle opere finite. Solo due esempi mirabili dalla mostra di Rovereto. C’è uno studio per Lady Macbeth sonnambula del 1781 di Füssli che lascia tutto in sospeso sulla scena tranne il trucco che cerchia gli occhi dell’attrice: trucco eccessivo, da pazza, ma che così non doveva certo apparire agli spettatori seduti a molti metri di distanza da quei colpi di matita nera intorno alle ciglia. C’è un ometto di Toulouse-Lautrec in un disegno del 1894 che fa il bullo in una strada in bianco e nero e che sembra in tutto e per tutto la prossima maschera di Ettore Petrolini, un debole che sceglie la cattiveria per sopravvivere. Tutte contrapposizioni molto teatrali. Poi ci sono le ballerine, s’è detto: sono tante, di tutte le fogge, di tutti i colori, allusive o educande, belle o brutte, truccate troppo o poco o male, in abiti lascivi o in tutù. Lo sanno anche i muri che gli impressionisti andavano pazzi per le ballerine. Le dipingevano, le scolpivano e le ammiravano. A domanda, rispondevano che di quelle donne apprezzavano la dedizione al movimento, l’unicità dei loro gesti plastici. Spiegazione logica per un pittore che voglia fermare la luce, le forme e il movimento. Ma voi davvero ci credete che fosse solo una faccenda artistica? Una roba di teatro?


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parola chiave

i sono varie interpretazioni e atteggiamenti nei confronti di questa parola, anche a seconda delle diverse epoche storiche, religiose e culturali. Basti pensare alla glorificazione vedica indiana, che sfocia nella celebre dottrina del Kama Sutra. Tuttavia, facendo parte per noi occidentali dei sette peccati capitali, la lussuria è certamente fra i più contestati fra di essi, quasi a dire che pur essendo un peccato sia giusto riconoscere in essa una grandezza, se non addirittura un senso di nobiltà. Ce lo fa capire il nostro sommo poeta che, come tutti ricordano, ci coinvolge in uno dei momenti più belli e tragici della Commedia proprio nel V Canto dell’Inferno; quando fra tutti i lussuriosi, insieme a Didone, Isotta e Cleopatra, il racconto di Paolo e Francesca ci commuove a tal punto che vorremmo stare dalla loro parte. E lo stesso Dante ce lo suggerisce chiaramente, non soltanto rendendo più che mai passionale e romantico il peccato dei due cognati, ma entrando lui stesso nella «bufera infernal che mai non resta» e, alla fine, cadendo «come corpo morto cade». La celebre ripetizione della parola «amor» nelle tre terzine del racconto di Francesca, sembrerebbe quasi identificare l’amore con la lussuria, peccato per il quale le due anime dannate si stringeranno nella tempesta per l’eternità. Ma anche nel Purgatorio Dante sembra ribadirci la sua particolare simpatia per i lussuriosi, quando nel Canto XXVI colloca fra loro Guido Guinizelli e, soprattutto, Arnaut Daniel, poeta provenzale cui Dante attribuisce alcuni fra i più bei versi di tutto il suo poema: «Ara vos prec per aquella valor/ que vos guida al som de l’escalina/ sovenha vos a temps de ma dolor!/ Poi s’ascose nel foco che li affina».

V

Le anime lussuriose del Purgatorio sono in questo modo «affinate» da Dante, in relazione al peccato commesso. Così la lussuria sembra in qualche maniera condannata, ma allo stesso tempo perdonata, se non addirittura esaltata e comunque poeticizzata. Tuttavia in epoca moderna comincia a insinuarsi un altro aspetto, e ci colpisce come filosoficamente ci pervenga addirittura da Thomas Hobbes, il grande filosofo della politica nel Leviatano, l’ultima opera in cui avremmo cercato il significato di tale parola: la lussuria, per Hobbes, è «l’amore per la stessa cosa, acquisito attraverso il ripensare, cioè l’immaginare di un piacere passato». La lussuria sarebbe dunque un vizio che implica il ricordare, un «ruminare», come lo chiama Hobbes, il piacere conseguito nel passato. Quasi a dire che nel presente sia impossibile attingere una simile sensazione. Qui comincia il significato e l’attributo che vorremmo definire decadente e anche morboso del termine. Ma per quanto anche il l’arte del XX secolo, il cinema, abbia esaltato in ogni modo la lussuria - tre sono i film che si ricordano con questo titolo, fra cui il più recente di Ang Lee - siamo convinti che tutto ciò abbia contribuito all’oblio di un senso più importante in cui tale parola è stata in qualche maniera sublimata. Il concetto di lussuria da noi esperito è infatti ormai ridotto, inevitabilmente, a qualcosa di pornografico. Non che in passato non ci fosse anche questa

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LUSSURIA È un termine aperto a varie interpretazioni. Per noi occidentali è un peccato capitale, ma tra i più contestati. Perché il suo vero significato non ha nulla a che vedere con le attuali derive pornografiche...

La divinità dell’amore di Franco Ricordi

Dante ne riconosce la grandezza. Per Hobbes è un “ruminare” su un piacere conseguito in passato. Anche Kleist e Leopardi si possono annoverare tra i suoi sostenitori. Per non parlare di Shakespeare e della sua Cleopatra, che “affama quanto più soddisfa”: la personificazione stessa della lussuria componente, basti pensare soltanto a un quadro come Il trionfo di Venere del Bronzino, che prende anche il nome di Allegoria della Lussuria; ma è evidente come oggi l’aspetto lascivo e anche necessariamente perverso abbia preso il sopravvento su quello decantato dai grandi poeti, che si libra invece a una

altezza più unica che rara. E che insieme a Dante può annoverare fra i suoi sostenitori anche Kleist, Leopardi e, naturalmente, Shakespeare. In ogni caso la questione risulta la seguente: e se la lussuria fosse «l’esasperazione dell’amore», piuttosto che un vizio ridotto ormai a semplice e morbosa deri-

va pornografica? Se insomma attraverso tali poeti e pensatori potessimo interpretare questa parola come un sentimento davvero «divino», come pretende giustamente il Giove kleistiano che, vedendo l’amore che si sprigiona tra Alcmena e Anfitrione, si sostituisce a quest’ultimo esigendo per sé e solo per sé la divinità di quel sentimento? E tale lussuria non dovrà essere intesa come la vera quintessenza dell’amore, dell’amore impossibile ancorché tragico? E non sarà proprio questa di Giove, l’onnipotente che si vede peraltro rifiutare l’amore di Alcmena, l’autentica lussuria? E quando Leopardi nel Pensiero dominante si abbandona al «Dolcissimo, possente, dominator di mia profonda mente. Terribile ma caro dono del ciel, consorte ai lugubri miei giorni, pensier che innanzi a me sì spesso torni», non sta forse parlando di una voluta e consapevole esasperazione dell’amore, che comunque vale la pena di provare e vivere anche se, molto probabilmente, condurrà a un estremo inganno? E tuttavia cosa sono al suo confronto gli altri negozi e rapporti umani?

La lussuria è in questo senso la «divinità dell’amore», il sentimento del divino che soltanto nell’amore, anche e necessariamente fisico, i mortali possono esperire. E la stessa teoria del piacere in Leopardi perviene, nella sua estrema ratio, a questo sentimento forse anche patologico ma unico nella sua grandezza. Shakespeare, infine, ci aiuta ancora di più a comprendere le altezze in cui si libra il sentimento della lussuria. Ce lo insegna con il più lussurioso dei suoi personaggi, naturalmente Cleopatra; e la descrizione che ne dà il soldato romano Enobarbo ci sembra più che mai eloquente: «altre donne saziano gli appetiti che destano, ma lei affama quanto più soddisfa. Le cose più vili, in lei, diventano bellezza, e gli stessi sacri sacerdoti la benedicono quando pecca di lussuria». Cleopatra è la personificazione, in qualche maniera divina, della lussuria. Ma non si tratta di una lasciva e inconcludente esasperazione del personaggio, bensì di un suo ruolo specifico nell’ambito della tragedia: Antonio e Cleopatra, analogamente a Paolo e Francesca, sfidano il mondo attraverso il loro amore impossibile; e quando nella battaglia decisiva Cleopatra (apparentemente non si capisce davvero il perché) ritira le proprie navi, e Antonio che insieme a lei stava per vincere lo scontro navale la segue perdendo tutto, ecco che comprendiamo come un amore di tale grandezza non abbia posto in questo piccolo mondo; e che il rifiuto della storia intesa come politica, da parte di Cleopatra, fa di lei il corrispettivo femminile di Amleto, l’uomo che si rifiuterà di agire per non accettare la violenza politica della storia occidentale. Ecco dunque la tensione più autentica, il vero significato e «senso» della parola lussuria: l’esasperazione del divino nell’amore, che rifiuta di ridursi alle ragioni della quotidianità e della stessa storia. E tutto ciò non ha nulla a che vedere con le attuali derive perverse e pornografiche dalle quali siamo sempre più assaliti; con la lussuria ridotta ai minimi termini, globalizzata e falsamente accettata, nella quale sempre più viviamo e vivremo.


Pop

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che dà inizio alla scalata al potere sottoforma di A Perfect Hand, polposo folk rock intonato da Steve Earle. Potere totale, che si identifica nell’apocalittica Order 1081 (la legge marziale introdotta nel ‘72 dal dittatore) interpretata da Natalie Merchant. Mentre il popolo veniva ridotto alla fame, Imelda l’icona kitsch accumulava ricchezze, collezionava montagne di scarpe e ballava sul suo e sugli altrui destini al ritmo di mambo e calypso (Every Drop Of Rain, con Candie Payne & St. Vincent) gustando il sabor latino (Nellie McKay: How Are You) ma soprattutto calpestando il dancefloor. Ed è qui che David Byrne e Fatboy Slim funzionano a meraviglia: nell’energetica Don’t You Agree, con Roisin Murphy che fa il verso ad Annie Lennox; nella martellante & fischiettante discomusic di Men Will Do Anything (Alice Russell); in Ladies In Blue (Theresa Andersson) che più Abba non si può; in Please Don’t (Santigold), che sembra di sentire Grace Jones.

di Stefano Bianchi robabilmente (sicuramente) è il più bravo di tutti a buttarsi là dove non tira mai il vento. Dopo aver psycho-funkeggiato da leader dei Talking Heads (dal 1977 all’88) e scandito il curriculum solista a colpi di taglia-e-cuci sonori, etnomusiche e blitz nella sperimentazione, David Byrne (col contributo ritmico dell’ex Housemartins Norman Cook, in arte Fatboy Slim) ha scelto la filippina Imelda Marcos (moglie del dittatore Ferdinand) e la sua nutrice Estrella Cumpas per dar vita al doppio cd Here Lies Love: «opera-disco» di ventidue brani affidati a venti voci femminili più due maschili (la sua e quella di Steve Earle). Quando l’affaire Imelda Marcos ha iniziato a concretizzarsi, Byrne non pensava a lei ma a chi, in generale, detiene il potere: «Volevo capire cosa spinge determinate persone a giustificare certi comportamenti e ogni volta a reinventarsi. Poi, però, ho scoperto che Imelda frequentava lo Studio 54, che nella sua residenza di New York aveva fatto appendere al soffitto una scintillante palla da discoteca e che l’avevano filmata mentre ballava con Henry Kissinger e Kashoggi. Perfetto. Al di là della storia, avevo trovato una donna di potere appassionata di musica. E da lì ho cominciato a materializzare i suoi ricordi, le sue danze e il suo glamour ben conscio che tutto ciò fosse realtà». Here Lies Love. Qui giace l’amore. L’epitaffio che la Marcos vorrebbe vedere inciso sulla propria lapide, è il titolo del pezzo che fa da prologo al disco. Cantato da Florence Welch, è un cortocircuito di pop, exotica e discomusic. L’epilogo,

P

classica

musica

David Byrne canta Imelda

Why Don’t You Love Me, intonato da Tori Amos e Cyndi Lauper, vede invece Estrella e Imelda chiedersi perché nessuno le abbia mai amate. Fra questi momenti chiave, c’è spazio per narrare altre vite. Quella di Remedios, ad esempio: la folle madre dell’ex first lady causticamente impersonata in You’ll Be Taken Care Of dalla voce di Tori Amos; quella del giovane, ambizioso senatore Ferdinand Marcos

Eppoi c’è tutto Byrne (e tonnellate di Talking Heads) nel funky di Walk Like A Woman (Charmaine Clamor), nel funk di Dancing Together (Sharon Jones) e The Whole Man (Kate Pierson dei B-52’s), nella fascinosa blaxploitation di Solano Avenue (Nicole Atkins). E se volete scoprire ciò che i filippini pensano dell’americano medio ascoltatelo, Byrne, mentre lo descrive Internet-basket-rap dipendente; guidatore cafone di auto gigantesche; lavoratore sì, ma che pensa solo al weekend. American Troglodyte, lo chiama. Imelda Marcos, spesso e volentieri, si travestiva così. David Byrne & Fatboy Slim, Here Lies Love, Nonesuch/Wea, 19,90 euro

zapping

HANDICAP E DIFFERENZA il caso degli Staff Benda Bilili di Bruno Giurato

costo di sembrare stronzi bisognerebbe ripristinare un certo senso delle differenze culturali al Sud e al Nord, all’Est e all’Ovest. Prima che l’orrida cappa dell’intercultura ci ammazzi tutti a colpi di conferenze stampa, prosecchini sgassati e salatini salati, fesserie di politici locali, stanchi trafiletti su rivistine di serie B (a volte pure di serie A), è il caso di dirlo. Le culture non sono equivalenti. C’è una gerarchia di valori. Punto. Prendi Joe Zawinul, uno dei più grandi musicisti del Novecento, sommo jazzista, sommo tastierista, mente dei Weather Report, che è riuscito a portare le musiche di tutto il mondo al jazz. Pure Zawinul lo diceva chiaro: «Non scelgo i miei musicisti per il luogo da cui provengono, li scelgo perché sono i migliori». E infatti i WR non erano l’Orchestra di Piazza Vittorio. C’è una gerarchia di valori. Punto. Ed è proprio per questo, perché qualcuno vale, che quando ascolta gli Staff Benda Bilili a un musicista medio viene graziosamente da ammazzarsi. Perché questo gruppo di disabili congolesi il cui nucleo principale è costituito da cinque cantanti e chitarristi, ex poliomelitici, in sedia a rotelle, sbatte in faccia la differenza. La gerarchia di valori. Viene da pensare con commiserazione al bassista di Milano che ha studiato lo slap, al batterista di Roma che ha studiato i paradiddles, al chitarrista toscano che ha appena comprato il Fender Twin, la chitarra Gibson e altre inutilità. Il leader degli Staff, Roger Landu, è un ragazzo di 18 anni che suona uno strumento elettrificato a una sola corda, da lui progettato e costruito a partire da un barattolo di latta. Suona bene, benissimo, da maestro. Joe Zawinul l’avrebbe invitato subito. E il gruppo suona e canta alla grande: rumba, funk, afro e tutto (dare un’occhiata su youTube per conferma). In breve, al diavolo l’interculturalità: c’è chi può e chi non può. Loro può.

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Salonen finalmente “scoperto” anche a Milano

ilano ha scoperto Esa-Pekka Salonen, direttore d’orchestra e compositore finlandese di fama mondiale, cinquant’anni suonati, trenta abbondanti di carriera, svolta per lo più all’estero: in Italia si rammentano un Pelléas et Mélisande al Maggio fiorentino e un concerto con l’Orchestra della Toscana, una ventina d’anni fa o poco meno; in seguito, nient’altro che ospitate con orchestre straniere, anzi, se non erro, colla sola Philharmonia di Londra, di cui è direttore stabile. Ma per i cari milanesi - critica inclusa - non sei nessuno finché non ti presenti alla Scala sul podio delle milizie casalinghe. In un mese poco più di domicilio all’ombra della Madunina, un concerto nella stagione sinfonica del teatro, uno in quella della Filarmonica, un’opera: per Salonen apoteosi ripetute e continuate, e l’offerta di assumere il comando dell’orchestra; offerta gentilmente declinata, mostrando

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di Jacopo Pellegrini più acume di chi gliel’ha fatta, giacché col melodramma nostrano egli non vanta confidenza alcuna. Entusiasmo, tuttavia, più che giustificato: quando mai l’orchestra ha suonato con tanto impegno, dedizione e pienezza di risultati? Ho assistito alla Nona Sinfonia di Mahler con la Filarmonica e a due recite di Da una casa di morti di Janácek. In Mahler colpivano la corposità e il legato degli archi, il fluire unitario dei tempi, la morbidezza e trasparenza del suono, caratteristiche tutte che garantiscono la massima evidenza alle sovrapposizioni di temi e ritmi.A tratti era solo un’ottima esecuzione non troppo coinvolgente (Ländler,

Rondò-Burlesca), ma il senso di fatica impresso al disegno portante del movimento iniziale, col suo ansioso ascendere e ricadere, la tensione verso il silenzio (un silenzio pacificato, non sgomento) dell’Adagio, non si dimenticano facilmente.Ancor meno comune, anzi del tutto eccezionale l’esito di Da una casa di morti (a parte il direttore di scena incapace di spegnere le luci all’ingresso del maestro): impressionante la bravura di Salonen nel porre in rilievo ciascun intervento strumentale, facendolo spiccare dall’intricato fondo orchestrale: grazie a questa nettezza di contorni timbrici, dalla frantumazione e reiterazione dei motivi caratteri-

stica dello stile musicale di Janácek il direttore riusciva a estrarre una vena di canto lancinante; un canto nient’affatto aspro o espressionista, ma come guidato da un «principio speranza», da una fiammella residua di umana bontà. La regia di Patrice Chéreau (scene Peduzzi, costumi de Vivaise, luci - fenomenali - Couderc), con stupendo effetto-contrasto, ci consegnava una visione all’insegna del più cupo pessimismo: la colonia penale siberiana di Dostoevskij (fonte letteraria del libretto preparato dallo stesso Janácek) è mutata in un universo concentrazionario senza tempo e senza luce, dominato da una violenza cieca. Spettacolo essenziale eppur sconvolgente, grazie a una recitazione di enorme carica fisica nei mimi, nei coristi, nei cantanti. Indimenticabili, Siskov (Peter Mattei) e - poli opposti che s’incontrano nel dolore - il giovane (Eric Stoklossa) e il vecchio (il veterano Heinz Zednik).


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arti Mostre

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di Marco Vallora

asta entrare nella preziosissima mostra su Torino sperimentale (di cui si era già accennato, in un precedente articolo, promettendo di tornare a parlarne), che si tiene in una delle tanti sedi emblematiche della torinesità, la Sala Bolaffi, per capire di che pasta risulti la mostra curata da Giorgina Bertolino e Francesca Pola. Buonissima. Basti appunto quel colpo iniziale (complimenti all’impaginato di Luciana Rossetti) in cui il non troppo noto autoritratto di Casorati il «vecchio», nello iato fatale tra 1959 e ’60, con quel volto intenso e super-cigliato (per via del colore, non del carattere) e che pare sguasciar fuori, mineralmente, da quegli specchi neri in cui Leonardo e Caravaggio consigliavano di verificar il ribaltato risultato pittorico, tra quello sfogliarsi tipico e vegetale e un poco costruttivista di copertine di libri, squadre, tavolozze e fogli periclitanti, ebbene vien messo simmetricamente a contrasto con un altro autoritratto metaforico e trasposto, che è l’epocale Senza Titolo di Paolini, 1962-63. «Semplicemente» (detto per paradosso) una tela bianca, riquadrata (preparata come si dice in gergo) pronta per ogni possibile peripezia e in contiguità «baciata», quasi fosse una rima ottica (o un omaggio-anticipo a Ryman, per via di quel bianco non uniforme, pennellato, che respira) appunto, un quadrato bianco, rigorosamente senza soluzione di continguità, messo in riga con il suo retro strutturale, il suo ligneo deretano fantastico. L’elementare cornice, che inquadra «da dietro» tutto quel lago bianco, contornato ma intrattenibile. Quasi un riflesso orizzontale, in serie, sulla parete. Trasognato oltre che cartesiano. Perché in fondo è proprio lì il segreto

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Architettura

ra, ma anche una serie di gallerie invidiabili e di mostre che ci fecero conoscere Bacon e la Nevelson, De Staël e Kleine. E poi c’era anche il farmacistaalchimista di Alba, Pinot Gallizio, con le sue pitture provocatoriamente a metratura, e il contatto modernissimo con il gruppo Cobra. La grande avventura di Italia ’61, con il Palazzo di Nervi e quello a Vela, la monorotaia «giapponese» e la nascita della Gam e ancora la grande mostrapioniera su Moda Stile Costume. Che miscelava, molto prima delle rivendicate epopee celantiane, abiti e film, un aereo vero, dal design futuribile, al cospetto del magnifico Cavaliere di Marino (come bene messo in luce nel catalogo Bolaffi), le rivoluzionarie Lastre di Fontana, retour dal dirompente viaggio a New Yok, sfrangiate e unghiate come da un lupo mannaro, con le prime prove del gruppo giapponese Gutaj, e le tele «dipinte con i piedi» da Shiraga, appeso a una fune. Due foto dicono tutto: quelle in cui il vecchio, sornione, perplesso Carluccio si presta a una perfomance «gutaj» di Plinio Martelli, con Borsalino e divertito scetticismo palpabile. E un’altra con il conte Paulucci e Casorati a Lascia o Raddoppia di Mike Bongiorno. Alba dello strapotere televisivo, o vecchia debolezza del narcisismo che va alla conquista dei mezzi di massa?

Fervore sperimentale su quadrato bianco di quel mondo, fantasiosamente strutturale, che a distanza lega, molto più di quanto forse al tempo non si ritenesse, i Paolini e i Casorati (proprio mentre a Torino l’Einaudi stava traducendo i Barthes, i Propp, i LeviStrauss ed il Nouveau Roman), ma vogliamo dire anche i Pagano e i Mollino, Persico e Tapié, apparentemente così lontani? C’è in mostra una tela di Scanavino, Nascosto 2, che bene collega e illustra quella doppiezza: una gabbia molto rigida, molto fredda, modern style, e dentro un riquadro il tipico ammasso di scuri fili raggomitolati, che forse rappresentano la vita, che sfugge a quella smania di catalogazione diaccia. E non dimentichiamo che tra Casorati e Paolini si infilza in mostra un magnifico nastro dentato di Carol Rama, che Sanguineti avrebbe ribattezzato Bricolage. Due anime, sì,

probabilmente, ma che in Torino si amalgamavano, oltre il solito match, uggioso ma anche vero, inevitabile, tra Casorati l’algido geometrico-caldo e Spazzapan, il tumultuoso espressionista-freddo. Ma c’era ben di più, in quella fervida e meravigliosa Torino, che non si potrebbe rimpiangere maggiormente, in questa neo-MiTorino vetero-assessoriale e disorientata, che ferisce anima e occhi (proviamo a paragonare Italia ’61 a quello che ci attende ora di anniversario e di Expo!). La mostra la recupera e ricostruisce, quella Torino Sperimentale, con bellissime opere parlanti, ma con ancor più con loquaci documenti, a stento trattenuti, come ranocchi salterini, nelle austere e promettenti strutture a caverna delle cassettiere. Stipate di curiosità e di sorprese, perché Torino non era soltanto Casorati & Arte Pove-

Torino sperimentale 1959-1969, Torino, Sala Bolaffi, fino al 9 maggio

Templi, archi, strade... l’eterno marchio di Roma

na formidabile spregiudicatezza intellettuale e la piena fiducia nell’individuo hanno impresso al mondo romano lo straordinario slancio creativo che si è tradotto in un’organizzazione sociale e in una cultura architettonica rimaste per secoli insuperate. Il genuino cosmopolitismo della civiltà romana consentiva anche a cittadini non romani di nascita di diventare imperatori oltre che di assumere ogni altra carica politica e amministrativa: perfino i liberti, cioè gli schiavi affrancati, potevano assumere cariche pubbliche. Da tale atteggiamento liberale ed ecumenico, ma governato da leggi ferree, scaturì un’eccezionale rete di scambi di culture, di conoscenze, di uomini, di opere e di merci che informò

U

di Marzia Marandola tutto il Mediterraneo e gran parte dell’Europa continentale e insulare. L’architettura romana seppe fondere creativamente la civiltà costruttiva etrusca, che contemplava l’uso dell’arco, con quella superbamente trilitica del mondo greco. Ibridando Oriente e Occidente l’architettura divenne lo strumento sociale e politico per eccellenza, capace di infondere comune appartenenza a popoli lontani, che si riconobbero nella matrice civile di Roma. Ovunque, a Roma come nelle più remote provincie dell’Impero, sorsero grandi complessi termali, solenni basiliche colonnate, mercati coperti, portici e criptoportici, templi, stadi, cinte urbiche, fogne e acquedotti, che legarono in un connettivo comune e riconoscibile i popoli e i territori del vasto Impero. La molteplicità delle genti e delle culture ha dato origine

a forme architettoniche e spaziali, a tipologie edilizie nuove e originali, tanto incisive che ancora oggi le loro rovine sono simboli riconoscibili del mondo romano. L’impianto viario ortogonale generato dall’intersezione del cardo e del decumano, l’enfatizzazione degli ingressi alla città con archi trionfali marmorei, le arcate degli acquedotti che solcano le campagne, le possenti volte delle terme, le cupole in calcestruzzo, i teatri e gli anfiteatri che orlano i Mediterraneo, parlano la lingua di Roma e del suo dominio. Questi edifici, suddivisi in capitoli tipologicamente individuati, intessono l’avvincente itinerario tracciato da Paolo Morachiello e Vincenzo Fontana attraverso l’architettura del mondo romano nel manuale edito da Laterza (L’architettura del mondo romano, 450 pagine, 45,00 euro). Attraverso capitoli tematici il volume guida, con piana consapevolezza, alla scoperta degli usi e delle funzioni, delle tecniche costruttive e delle trasformazioni delle architetture che Roma ha disseminato lungo le strade del suo vasto impero: dai sacri complessi santuariali di Preneste, di Gabii o di Tivoli, ai templi e ai teatri disseminati in Grecia, nelle colonie d’Oriente e in Africa, alle sontuose domus, alle insulae destinate al popolo. Un linguaggio fluente e famigliare caratterizza quest’opera antiaccademica, che privilegia la curiosità degli appassionati e la divulgazione tra gli studenti, senza tralasciare solidi apparati bibliografici e di immagini.


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COERENZA, RESPONSABILITÀ, STRAORDINARIA VOGLIA DI VIVERE, ALLEGRIA CHE SPUNTA DIETRO OGNI CRUCCIO, OGNI DOLORE. È QUANTO EMERGE DALLE LETTERE DI VÁCLAV HAVEL SCRITTE ALLA MOGLIE DAL CARCERE DURO E DAI LAVORI FORZATI A CUI UN TRIBUNALE COMUNISTA LO AVEVA CONDANNATO. 144 MISSIVE, INVIATE TRA IL 1979 E IL 1982, ORA RACCOLTE IN VOLUME, CHE INSEGNANO IL SENSO DELLA LIBERTÀ di Gabriella Mecucci ettere a Olga è un libro di cui nessun giovane dovrebbe essere privato. Sarebbe giusto leggerlo a scuola perché insegna la libertà e la responsabilità. E lo fa senza drammatizzazioni, senza spocchia, con pacatezza e persino con un pizzico di gioiosità. Eppure Václav Havel, grande drammaturgo, protagonista della «rivoluzione di velluto» di Praga, ex presidente della Repubblica Ceca, scrive questo corpus di 144 lettere alla moglie, fra il giugno del ’79 e il settembre dell’ ’82, da un carcere durissimo e poi dai lavori forzati, dopo la condanna inflittagli nel 1979 da un tribunale comunista. Oggi quegli scritti escono in Italia grazie a Santi Quaranta Editore (480 pagine, 15,00 euro). Havel è uno degli intellettuali più attivi nel dissenso dell’Est, fondatore del gruppo Charta 77. Quando viene arrestato e condannato ha solo 42 anni. Mentre sconta la pena, racconta alla moglie la sua detenzione, conservando sem-

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il paginone

Cara Olga, grazie alle s

Václav Havel con la moglie Olga al lavoro sull’areo presidenziale. In basso a sinistra, tre momenti della Primavera di Praga. A destra, la copertina del libro che raccoglie le lettere dell’intellettuale ceco alla sua compagna e un numero della rivista “Charta 77”, gruppo fondato da Havel ai tempi della dissidenza

Nel carteggio, il leader della “rivoluzione di velluto” rivela la sua religiosità. Per lui l’uomo somiglia a Cristo. È seguendo la sua lezione che il grande intellettuale del dissenso è riuscito a combattere “l’ordine della morte” senza violenza pre un filo di delizioso humour. Le lettere si dividono in due parti: le prime 122 riguardano la vita, i sentimenti, i bisogni, le letture, ma anche i piccoli e grandi malesseri, le ipocondrie, i dolori di un carcerato coraggioso. Poi, a partire dalla lettera 122 sino alla 144, Havel spiega la propria «filosofia politica ed esistenziale», la propria «religiosità».

Profondo e leggero, il drammaturgo, mentre dialoga con Olga, riesce a dimenticarsi di vivere una condizione terribile e «conversa» come se fosse in un circolo ricreativo. Rimprovera Olga per la sua pigrizia, scherza con lei chiamandola «brontolona». Scene di vita quotidiana quasi serene: «Oggi è stata una bella giornata: ho fatto un bel bagno, una meravigliosa seduta yoga, ho mangiato soltanto cose genuine grazie a te (la botta di vitamine ha fatto sicuramente il suo effetto). Sembra che il periodo di sconforto sia definitivamente terminato». E poi i consigli alla moglie. «Sii tranquilla, serena, allegra, operosa, socievole, carina con tutti, ottimista, prenditi cuanno III - numero 15 - pagina VIII

ra di te, vestiti bene... Pensami con affetto, sii dispiaciuta per me, ma non troppo da essere infelice, non perdere la speranza e continua a volermi bene». Havel non trascura di fornire i dettagli gradevoli della sua grama esistenza: il gusto di un buon sigaro, l’attrazione che ha provato per Olga l’ultima volta che è venuta a trovarlo, i cori con i compagni di prigionia per la festicciola di Capodanno, i regali. E poi la citazione di Dumas: «Una parola gentile in prigione ha un valore maggiore del regalo più prezioso in libertà». Alcune lettere servono per dare istruzioni alla moglie - e proprio per questo vengono sequestrate dalle occhiute guardie carcerarie - altre per lamentarsi del fatto che Olga gli scrive poco perché non ama la scrittura, o per raccontare i libri che ha letto. E poi c’è il soffermarsi sulle malattie: l’influenza, il male alle ossa, le emorroidi con relativo intervento chirurgico. Anche nei momenti più bui della depressione, mai Havel rimpiange di essersi opposto al regime, mai pensa di ritrattare, di piegarsi ai suoi carcerieri. Anzi, si lamenta ricordando che nella sua prima detenzione (quella in corso è la terza, ndr) aveva firmato una domanda di grazia. Dopo giorni e giorni di silenzio «come fulmine a ciel sereno mi fu prospettata - scrive Havel - la possibilità di essere rimesso in libertà». Lo scrittore capisce subito che cosa rischia di accadere, «la

macchia che ciò avrebbe lasciato su di me e su tutto quello in cui mi ero impegnato, mi avrebbe perseguitato per anni». Seguì un breve periodo in cui cercò di evitare di essere rilasciato, ma ormai non c’era più niente da fare. «Tutte le mie peggiori aspettative si realizzarono pienamente, uscii di prigione diffamato e mi trovai faccia a faccia con un mondo che mi sembrò come un unico, enorme, giustificato rimprovero». Allora Havel soffrì molto, ma sempre mantenendo un fondo di equilibrio: coerenza, responsabilità, desiderio di libertà, e insieme una straordinaria voglia di vivere, un’allegria insopprimibile che spunta dietro ogni cruccio, ogni dolore, ogni pentimento. La folgorante bellezza di un romanzo come Lo straniero di Camus lo mette di buon umore: «Lo avrei scritto così, anzi l’ho scritto io». L’apprezzamento inatteso per Kaputt di Malaparte: «È una sorta di anatomia della crisi morale europea». E l’amore per la «misteriosa profondità» di Kafka. Più avanti si trovano anche pagine indimenticabili sul teatro. E poi la gioia di leggere i testi di un certo cardinal Joseph Ratzinger.

Da questa dimensione di racconto della propria vita, del presente, delle letture, manca completamente ogni e qualsiasi riferimento diretto al comunismo, alla politica, al regime. Scriverne era impossibile, il prezzo da pagare sarebbe stato come minimo quello di non poter inviare più nemmeno una lettera. Havel allora sceglie la via di affrontare nel dialogo con la moglie argomenti teorici che qua e là sfiorano anche i tempi della contingenza storico-politico. Ne emergono alcuni punti fermi, molto vicini ai temi cari al filosofo franco-lituano, Emanuel Levinas. Il nostro prigioniero scrive: noi siamo stati staccati in maniera traumatica con la nascita dall’Essere e siamo stati subito scaraventati nell’incertezza del mondo. L’uomo ha nostalgia della casa e del paradiso perduti, egli è stato «gettato» nell’aiuola feroce dell’esistenza e, attraverso questa esperienza tende ardentemente all’integrità dell’Essere, al suo significato, ricercandolo e «costruendolo» con la sua vita: deve far fruttare i suoi talenti opponendosi senza violenza «all’ordine della morte». Per Havel l’uomo è un miracolo dell’Essere nel visibile, così come lo è il mondo. Dentro di noi è stata scritta una legge che esige alta moralità e dignità, ma anche solidarietà, bontà, amore. Da tutto ciò originano la libertà e il senso di responsabilità che non deve essere «predicato ma testimoniato». Queste convinzioni, che lo scrittore illustra alla moglie nelle sue ultime lettere dal carcere, sono in evidente rotta di collisione non solo col


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, vinco sconfitte

vo, niente che non sia stato espresso «da qualcun altro meglio di quanto io sia in grado da fare». Ma sono anche una «vittoria», perché, grazie a esse, «sono riuscito a sentirmi meglio di quando ho iniziato». «È strano - scrive dal carcere duro - ma ora sono persino più felice di quanto lo sia stato negli ultimi tempi. In breve, mi sento bene e ti voglio bene». Un lungo percorso quello di Havel nello scrivere le sue 144 lettere alla moglie. È una sorta di via del dolore che parte dalla condanna (la terza) al carcere, attraversa la solitudine, il dolore, la fatica dei lavori forzati. Passa per i ricordi di un tempo, per il racconto della propria vita, per i rimproveri a Olga che avverte come pigra e distante, per approdare poi a una visione filosofica e religiosa che lo fa «stare bene».

Un lungo cammino spirituale che sarà accompagnato da un lungo cammino nella carriera politica. Un percorso che dalla lotta per la libertà lo porterà in galera, ma da lì, dopo indicibili traversie, lo condurrà al Castello di Praga come presidente della Repubblica. Dopo che, come lui stesso aveva teorizzato - sta scritto anche in queste lettere - aveva vinto la sua lotta contro «l’ordine della morte» senza usare la violenza. Il suo rapporto con Olga non si fermò a quello splendido e toccante carteggio. Della coppia ormai più che cinquantenne racconterà Carlo Ripa di Meana che la incontrerà nel 1989 a Praga. In L’ordine di Mosca, Liberal edizioni, si legge: «È il pomeriggio del 28 maggio del 1989. Per andare da Havel, la Tatra nera del cerimoniale costeggia la Moldava. Abita in una di quelle case del lungo fiume - sono i luoghi della grande stagione della borghesia ceca». L’allora commissario europeo all’Ambiente si reca dall’eroe del dissenso su richiesta di Bettino Craxi, scende dall’auto davanti a un palazzotto di antica bellezza ma piuttosto malridotto. Sale le scale a piedi, «al terzo piano, su una porta c’è un foglietto appiccicato con lo schotch con su scritto Havel». «Apre una donna sulla cinquantina, sciupata, ma con un viso intenso:“Sono Olga, la moglie di Havel”, dice in francese. La guardo: è

L’ex presidente della Repubblica Ceca non trascura di fornire i dettagli gradevoli della sua esistenza di detenuto: la bellezza folgorante dello “Straniero” di Camus, l’apprezzamento per “Kaputt” di Malaparte, la “misteriosa profondità” di Kafka... regime, ma più in generale, con l’ideologia comunista. E infatti Havel, pur tra parecchi dubbi e qualche distinguo, si sente più vicino al «pensiero giudaico cristiano», molto di più che «alla filosofia classica» della quale tuttavia apprezza «alcuni contributi». Le ultime due pagine della lettera 144 sono assolutamente straordinarie. E contengono per la prima volta una critica esplicita al regime e insieme una definizione della propria religiosità: «Il fatto che gli effimeri tentativi di tutti i fanatismi ideologici di organizzare il paradiso in terra alla fine sfocino in un inferno in terra, è reso più che chiaramente dall’evocazione che il regno di Dio non è di questa terra». In realtà - prosegue Havel - «una vita su questo mondo che sia relativamente sopportabile può essere garantita solo da una umanità che sia orientata aldilà di questo mondo, a un’umanità che - in ogni suo hic e con ogni suo nunc - si relazioni con l’infinito, con l’assoluto, con l’eternità». Se non c’è nell’uomo questa tensione, il qui e adesso si trasforma in una dimensione «senza speranza», «in abbandono e disperazione». E infine «si tinge di sangue». La condanna delle teorie materialiste e comuniste non può essere più netta né più dura. E, non a caso, viene scritta nell’ultima lettera a Olga quando sta per uscire dal carcere e la censura non potrà più colpire le sue missive.

Havel avverte - sempre nella lettera 144 che l’uomo somiglia a Cristo proprio perché come lui è di fatto vittorioso grazie alle sue sconfitte. E, alla fine del lungo epistolario è lo stesso scrittore a dichiararsi vincitore grazie alle sue sconfitte. Queste mie riflessioni - spiega a Olga - sono una «sconfitta» perché non ho scoperto nulla di nuo-

bella, magra, con i capelli raccolti dietro la nuca in una crocchia. Alle sue spalle, in piedi, c’è Havel». Si sviluppa una conversazione in cui il grande drammaturgo esprime apprezzamento per quanto Craxi fa a favore del dissenso e poi parla della fine prossima ventura del comunismo. «L’Unione Sovietica e le sue colonie europee non terranno a lungo. La televisione e il Papa mettono in circolo messaggi per loro rovinosi». Ripa di Meana nota che Havel non usa nessuna cautela, eppure ha già passato complessivamente ben cinque anni in carcere. «La moglie Olga si alza, va nella stanza vicina - prosegue - e ritorna con quattro fogli dattiloscritti di carta velina, battuti fitti fitti... Nella penombra dello studio la sua silhouette ha qualcosa di vigilante e insieme di protettivo». Confidente terminale dei suoi sfoghi, momento di confronto per le sue teorie, Olga ha un ruolo straordinariamente importante nella vita di Václav . Sarà lei, pochi mesi dopo, ad accompagnarlo al Castello, quando nel dicembre del 1989 il marito - all’apice della rivoluzione di velluto - diventerà presidente della Cecoslovacchia. Accanto a lui c’era ancora quella figura slanciata e protettiva. Quando Ripa di Meana rivide Havel nel 1990: «Semplice e cordiale come nel primo incontro a casa sua». Il grande dissidente, diventato il leader del suo paese, era rimasto quello di prima: rifletteva ancora sul valore del «potere dei senza potere»; progettava un’Europa che doveva puntare sulla sua cultura e raffinatezza, rinunciando ad ambiziosi sogni strategici. La sua strada fu ancora lunga, Olga lo accompagnerà sino al 1996, quando, a 63 anni, la sua fragile silhouette si piegò su se stessa e lo lasciò per sempre.

Una compagna preziosa lga Havel era nata nel 1933 da una famiglia molto numerosa in un quartiere popolare di Praga. Ebbe un’infanzia non semplice e, dopo aver frequentato le scuole superiori, conseguì il diploma da ragioniere. Lavorò come magazziniere e come commessa. Poi, a soli vent’anni, conobbe Václav Havel. Si sposarono undici anni dopo. Olga lavorò nello stesso teatro dove Václav metteva in scena le sue pièce con ruoli amministrativi. Quando il marito finì in prigione, fu per lui preziosa: collaborò alla creazione e al funzionamento della casa editrice Expedice, che faceva circolare sotto forma di samizdat la voce del dissenso. Per questa attività Havel fu accusato di tradire la Repubblica. Nel 1968, insieme a Václav, lasciò il teatro di Praga. Nel 1990 partecipò alla fondazione del «Comitato di tutela per le persone processate ingiustamente» e due anni dopo ne diventò presidente. Dopo la caduta del comunismo fu per ben due volte insignita da un’importante Fondazione norvegese del premio «Donna dell’anno». Nel 1996, all’età di 63 anni, morì.

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Narrativa

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uesto è un romanzo di investigazione che nulla ha a che vedere con il genere giallo. L’autore, il cileno Roberto Ampuero, è noto e tradotto in tutto il mondo. La sua scrittura è scattante e profonda e lascia il segno laddove tratteggia la psicologia dei personaggi. Non era facile compiere questa operazione con il co-protagonista, il grande Pablo Neruda, premio Nobel, e con la sua vita privata affollata da contraddizioni, slanci, egoismi e autoreferenzialità. Troviamo il poeta cileno nella sua casa di Valparaìso, «il gioiello del Pacifico», negli affannati mesi che precedono l’assalto dei militari golpisti guidati da Augusto Pinochet al Palazzo della Moneda, dove il presidente Salvador Allende, alla fine difeso solo da un pugno di uomini, immola la sua vita considerandola il simbolo della democrazia e del socialismo, certamente un po’ malconcio e sgangherato ma dal volto mai feroce. Invece di raggiungere un aeroporto qualsiasi con le tasche piene di dollari - cosa non frequente tra i «latinos» - sta orgogliosamente nella nave («il Titanic del Pacifico») che affonda, ripetutamente presa a cannonate da una regia politica con non poche interferenze nordamericane. Neruda, che fino a pochi giorni dalla caduta è formale ambasciatore del Cile a Parigi, coltiva l’amicizia con Allende. L’artista, nella trama fitta e a doppio registro del romanzo di Ampuero, ha da tempo fatto propria l’ideologia marxista, alla quale (ma anche a una donna cui si legherà) attribuisce gran parte del valore dei suoi versi, o perlomeno la capacità di guardare senza ermetismi e stramberie intellettualistiche la realtà dei sentimenti e più in genere dell’uomo e della società in cui vive. Ampuero - che ha raggiunto una vasta fama con il romanzo Chi ha ucciso Cristian Kustermann? (Premio de Novela El Mercurio) - parla di Neruda come di un uomo avanti negli anni, malato («sento l’odore della morte»), ma ancora straordinariamente vitale, tuttavia rivolto verso il proprio passato perché avverte come urgenza la necessità di «chiedere perdono alle vittime della mia felicità». Passano in rassegna le sue mogli o compagne, compresa quella che ha partorito una figlia deforme. E lui, incapace di sacrificare l’impegno artistico sull’altare del dovere paterno, l’ha abbandonata nell’Olanda invasa dai nazisti.Tra le femmine ardenti (o utili) c’è an-

che una bella latino-americana, «un uragano di gelosia» dalla quale il buonsenso o il semplice istinto di sopravvivenza gli ha consigliato di distanziarsi una volta per tutte. Ma c’è una domanda che lo arrovella più di ogni altra: è sua la figlia di Beatriz, una donna di origine tedesca che amò di nascosto dal marito di lei e poi, alla rivelazione della gravidanza, lasciò, oppresso dal fantasma della sfortunata creatura avuta anni prima? Seguendo l’istinto, Neruda avvicina un cubano che abita in Cile e gli affida l’incarico di appurare la verità. Tutto deve avvenire con il massimo riserbo. E così Cayetano Brulé, poco più che ventenne, viaggia, anche molto lontano, all’inseguimento della tedesca, moglie di un cubano che distribuiva erbe come cura

Un detective al servizio di Neruda Un romanzo di investigazione incentrato sulla figura (e le contraddizioni) del poeta cileno

Riletture

di Pier Mario Fasanotti

libri

Roberto Ampuero IL CASO NERUDA Garzanti, 332 pagine, 18,60 euro anti-cancro. Medico o che altro? Morto o ancora in vita? Neruda convince Cayetano a diventare detective e gli consiglia di imparare il mestiere leggendo i romanzi di Simenon, quelli dove c’è il commissario Maigret. Brulé s’accorge subito che quello che erroneamente viene da alcuni considerato romanzo di evasione è ben altro: è studio di caratteri, di ambienti, esercizio psicologico. Solo che la piscina dove nuota Maigret è ben diversa dalla vasca sudamericana, lontana secoli e secoli dalla logica sia nordamericana sia europea. A Parigi ci sono punti fermi, a Santiago o a Città del Messico le cose possono essere il contrario di quel che appaiono. Cayetano si reca anche nella Germania dell’Est e oltre «il muro che protegge dal capitalismo» incontra una donna affascinante ma anche ambigua. È un viaggio, il suo, nei meandri della dittatura socialista dove per sopravvivere, anche ai ridicoli capricci di un regime strangolante, o per far carriera, occorre imprimere sulla pelle il marchio indecifrabile del doppio gioco. Lo stesso all’Avana, splendida quanto decadente caricatura di un regime che ormai fa finta di essere felice e far felici gli altri. Ectoplasma rabbioso dell’utopia con il vessillo rosso. Le grandi bandiere, da quelle di Castro a quelle di Che Guevara, si sono tramutate in stracci avvelenanti. Cayetano Brulé ha modo di verificare quanto sia giusto l’avvertimento di don Pablo: «La vita è una sfilata di maschere… è la perversa successione di travestimenti e di addii». Troverà alla fine Beatriz, ma atroce è il dubbio sulla sua vera identità, umana e ideologica. Lei stessa confesserà di essere sempre diversa, di non apparire mai per quello che è. Le zone d’ombra sul suo passato trascorso in Bolivia (dove fu teso l’agguato mortale al Che) rafforzano l’idea della complessità umana, della non limpidezza di certe esistenze.

Le Eolie e la memoria nei racconti di Turi Vasile

ipensando a Turi Vasile a pochi mesi dalla morte e ripercorrendo la sua multiforme attività di commediografo, sceneggiatore, regista e produttore cinematografico, mi piace richiamare la sua meno nota ma non meno significativa attività di narratore, soffermandomi in particolare sui suoi racconti, che ne rappresentano la parte più interessante. Ricordiamo l’inizio di Paura del vento, il racconto che non a caso intitola la sua raccolta forse più celebre: «All’età di sei anni mi capitò di abitare, insieme con la mia famiglia, un semaforo solitario posto sulla cima di Capo d’Orlando, in faccia alle Eolie». Dunque ecco le isole Eolie, metafora che ritorna non a caso costantemente nella sua opera. Quella raccolta significativamente si conclude con un racconto intitolato Il corpo: «Così ho preso a considerare il corpo come il tempio della memoria, che consente a ciascuno di noi di essere presente a se stesso nel passato e persino nel futuro». Sono parole che sembrano quasi una risposta a quella «paura del vento» («Forse per questo m’è rimasta la paura del vento, come di una forza che può, volendo, spalancare il mondo») e in proposito non si può fare a meno di pensare a un passaggio particolarmente significativo del romanzo Giòn: «“In Sicilia, anche gli uomini di fede sono sofi-

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di Sabino Caronia sti, figli di Gorgia”. […] Ripensai alle parole del vescovo. Persino mia moglie considerava noi siciliani allievi di Gorgia, di cui si sa poco e per sentito dire. I pensieri, del resto, rimangono anche senza gli scritti. Tra le proposizioni frammentarie, la sua conclusione “solo l’inesistente esiste” può darsi che sia una bella frase, ma è la più terribile professione di fede che abbia mai sentito». Ma torniamo a parlare delle isole Eolie, metafora del prima e dell’oltre. Se una verticale, come direbbe Giacomo Debenedetti, ci è consentito fare dell’opera di Vasile, essa non può porsi che all’altezza di Un villano a Cinecittà. E lì il riferimento alle isole Eolie ritorna significativamente dall’inizio alla fine. Si pensi al primo racconto, Stella che corre, che così si conclude: «Immaginai che, memore della meraviglia dei Ciclopi, andasse a portare la sua musica in quelle isole vaganti dove io non ero riuscito ad approdare neppure in sogno». E si pensi soprattutto all’ultimo racconto, Bentornato alle sabbie nere, posto strategicamente a conclusione del volume, in cui Turi Vasile narra come solo di recente abbia per la prima volta messo piede in quelle isole che da bambino guardava nel loro vagare irrequieto sul filo dell’orizzonte e per

Le isole a lungo osservate sul filo dell’orizzonte, metafora ricorrente nella sua opera

far intendere il senso di quel viaggio nel prima e nell’oltre della sua terrena vita così conclude: «Mi diressi lentamente verso l’albergo e all’improvviso sentii che la terra bagnata di pioggia esalava l’odore del finocchio selvatico, dell’origano, della nepitella, della mentuccia e del cappero - l’odore della mia infanzia - che aveva fatto il giro del mondo con me. Ero tornato dove non ero stato mai». Gli odori della memoria è intitolato appunto un racconto proverbiale che ora è stato raccolto nel volume L’ultima sigaretta e altri racconti (Sellerio Editore, 152 pagine, 9,30 euro): «A volte basta un odore a scatenare l’onda dei ricordi […] Così nel codice della memoria Messina suscita in me un odore che non so definire ma che è rimasto, nella esperienza, unico e inimitabile. È l’odore di una fermentazione che esalava dai barili allineati sul molo in attesa di essere stivati. Se ispiro dilatando le narici, l’aria se ne impregna ancora e mi procura un leggero stordimento. E subito il porto si rianima: scendono dai traghetti gli studenti, gli avvocati, i giudici, gli imputati, i trafficanti, gli impiegati; scendono donne vestite di nero con i panieri sulla testa incercinata che danno al loro incedere la grazia delle dee: vengono a portare verdure e primizie di Calabria e ripartono nascondendo nelle ampie sottane il sale di contrabbando […] E subito mi circondano i compagni di scuola […] Ci sono tutti, anche quelli che sono morti…».


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poesia

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La voce della vita che svanisce di Filippo La Porta orquato Tasso è il poeta della vita che dilegua. In queste ottave di sontuosa coreografia Goffredo di Buglione, che si accinge a riconquistare Gerusalemme, dà ordine al suo esercito di disboscare la foresta allo scopo di procurarsi legname per le macchine militari. I pungenti ferri tagliano e percuotono gli alberi, oltraggiano la selva e al loro avvicinarsi fiere e uccelli lasciano tane e nidi. In questa apocalittica fuga di massa degli animali, spaventati dal suono delle armi e dalle grida dei soldati, si rispecchia il ritrarsi precipitoso della natura di fronte a una oscura minaccia.Tasso canta - malinconicamente - tutto ciò che dilegua (che «langue», verbo ricorrente nell’opera): giovinezza, estate, amori, illusione, la bellezza di un volto femminile («…un balenar di riso/ scopre in breve confin di fragil viso»), la fioritura effimera di una rosa. Pur anticipando in ciò il barocco, il poeta se ne discosta poiché non esorcizza il vuoto con lo sfarzo descrittivo e nomenclatorio, con i lussuosi elenchi di cose. La natura lussureggiante del giardino incantato dove è prigioniero Rinaldo, non dipende dal numero delle piante nominate, come osserva Giovanni Getto, né dagli inventari minuziosi alla Giambattista Marino, ma dall’aspetto delle piante stesse, dalla loro perpetua fecondità. E così l’aggettivo ricercato non è mai ornamento ma precisione del linguaggio poetico, incremento conoscitivo, anche se spesso ha prevalso una lettura unicamente degustativa del Tasso.

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Sulle differenze tra Orlando furioso e Gerusalemme liberata si sono esercitati con zelo scolastico centinaia di migliaia di studenti. Cominciò forse Galileo, che a Tasso, influentissimo su successivi barocchi, arcadi, e poi su Foscolo, Leopardi, etc., volle formulare critiche ruvide e ingenerose, ma non prive di acume, definendo il suo stile «languido, forzato e male espressivo». Certo è che ritornando alla Gerusalemme mi commuove proprio quello che a diciott’anni mi faceva preferire il gioco sublime e arioso di Ariosto: e cioè l’elemento di sforzo e concettosità, di lambiccato e perfino di pedanteria (intarsiatore più che pittore a olio…), e ancora l’inquietudine e insicurezza (il personaggio di TancrediTasso, sempre un po’dissociato), la disarmonia incapace di risolversi interamente nel canto (pure plasmato su modello petrarchesco), e aggiungo la maggiore enigmaticità rispetto al Furioso. A riprova metrica di ciò, un lieve squilibrio nell’ottava, tra settimo e ottavo verso, a rima baciata ma quasi sempre con enjambement. A Tasso ha dedicato innumerevoli pagine critiche Franco Fortini, mostrando a volte una identificazione quasi imbaraz-

il club di calliope

zante (Pampaloni lo definì epigrammaticamente un Tasso che riuscì a non impazzire!). A lui lo unisce la macerazione interiore, il primato dell’etica sulla mistica, certa diffidenza - piena di sensi di colpa - verso la felicità, intesa come peccato (e cioè dissipazione e amoralità, abbandono smemorato alla varietà di forme e colori del mondo), poi l’adesione a una chiesa (in un caso cattolica controriformata nell’altro marxista e super-ortodossa anche quando apparentemente eretica), e infine lo sforzo continuo, e sempre fallimentare, di dare un ordine razionale al disordine incoercibile dell’esistenza.

L’un l’altro essorta che le piante atterri, e faccia al bosco inusitati oltraggi. Caggion recise da i pungenti ferri le sacre palme e i frassini selvaggi, i funebri cipressi e i pini e i cerri, l’elci frondose e gli alti abeti e i faggi, gli olmi mariti, a cui talor s’appoggia la vite, e con piè torto al ciel se ‘n poggia. Altri i tassi, e le quercie altri percote, che mille volte rinovàr le chiome, e mille volte ad ogni incontro immote l’ire de’ venti han rintuzzate e dome; ed altri impone a le stridenti rote d’orni e di cedri l’odorate some. Lascian al suon de l’arme, al vario grido, e le fère e gli augei la tana e ’l nido.

Eppure Fortini una volta rilevò che assai più vicino a Tasso doveva essere considerato Pasolini, anche lui privo di ogni dialettica, e quasi concidente con le proprie sanguinanti contraddizioni: diviso tra attrazione per il decoro della corte (o della società letteraria) e senso di soffocamento nel sentirsene parte, tra confronto con la Storia (la rievocazione della prima crociata mentre l’Europa combatteva i turchi) e dolente intimismo, tra scenografia (dalla ed elegia, tra lo splatter realistico degli scontri cruenti (ricomposto in geometrie luminose alla Paolo Uccello e tratteggiato con vera competenza bellica) e una musicalità stregante, tra femminilità trepida (De Sanctis) e sonante epica della battaglia. Fortini ha anche parlato di un «ritorno del represso» nella Gerusalemme, dimostrato dall’evidente simpatia dell’autore per i nemici, per la loro civiltà fondata sul piacere e sulla multiformità. Non solo il pathos verso l’«incantevole caos dei sensi»: Vafrino, scudiero di Rinaldo, si spinge nel canto XIX fino a spiare il campo nemico e così lo descrive, con eccitazione visionaria: «Vide tende infinite, e ventilanti/ stendardi in cima azzurri e persi e gialli;/ e tante udì lingue discordi, e tanti/ timoani e corni e barbari metalli,/ e voci di cameli e d’elefanti,/(…)». L’intera narrazione, che si può leggere come anticipazione del genere del romanzo (mentre l’Orlando è opera aperta e circolare), si svolge in paesaggi spettrali e grandiosi, infernali e scintillanti: oceani, deserti, cieli stellati, tempeste e siccità («ogni cosa del ciel soggetta a l’ira,/ e le sterili nubi in aria sparse», XIII, ottava 55). In tali paesaggi l’individuo, sia egli cristiano o pagano, è sempre solo. E questa solitudine si

Torquato Tasso Gerusalemme liberata, Canto III, ottave 75,76)

riconnette al tema cui accennavo all’inizio: l’ineluttabile svanire e fluttuare di tutte le cose. Si tratta infatti della solitudine davanti alla morte, momento estremo di verità per ciascuno. Così nella battaglia finale di Gerusalemme (canto XX) il feroce Solimano, l’«uom smisurato», quando viene trafitto da Rinaldo è preso da stupore, «di spavento e d’orror misto», lui che probabilmente si credeva invulnerabile: «Nel cor si turba e impallidisce in faccia/ e, chiaramente il suo morir previsto,/ non si risolve, e non sa quel che faccia;/ cosa insolita a lui: ma che non regge/ de gli affari qua giù l’etterna legge?» (ottava 104).

In quel momento l’«invitto rege» scopre l’assoluto arbitrio della volontà divina, della Fortuna che «varia e instabil erra». Qualche momento prima era salito sulla torre più alta e aveva contemplato «stupefatto» il campo di battaglia: «mirò, quasi in teatro od in agone,/ l’aspra tragedia de lo stato umano,/ i suoi assalti, e il fero orror di morte,/ e i gran giochi del caso e de la sorte». Non è qui solo il senso vivissimo del teatro: davanti a Solimano si distende lo spettacolo insensato e pieno di strepito della vita umana. Ma, in ciò superiore all’incipiente secolo barocco,Tasso sa che qualsiasi recita dovrà comunque confrontarsi con l’«etterna legge».

TRIESTE, ATLANTIDE PERDUTA in libreria

LA VIBRAZIONE DELLE COSE

di Loretto Rafanelli

E l’uomo disse: sono venuto a dire il dolore della rosa, lo strazio della roccia, la leggera felicità della nuvola e la gravità della tempesta sono venuto a dare la mia voce a ciò che è privo di parola, l’espressione del mio volto a chi non ha volto, a trarre l’infinità dal suo silenzio, a dare un’anima al cosmo perché possa infine esprimere la tenerezza e la solitudine di ciascuna dei suoi miliardi di stelle destinate a scomparire.

tlantidi, il lavoro poetico di Marina Moretti, intervallato da sette rarefatti dipinti del pittore ucraino Sergej Glinkov, esce nelle pregiate edizioni Ellerani, un editore che si misura con coraggio con la poesia contemporanea. La Moretti è una poetessa triestina e di quella terra vive l’agonia e la vivacità, la mutazione e la celebre storia di città-confine. Trieste è per la Moretti l’Atlantide perduta, «stesa tra mare e aria», un tempo grande e sfarzosa, quando «le nostre navi bruciavano il cielo/ il blu dell’aria colorava i vetri/ dei nostri palazzi». Ella da lì getta il suo sguardo. Come faceva Saba, che disse «il mondo l’ho guardato da qui». Lei si affaccia «da una finestra liberty, dal balcone coi decori sfatti/ dal salso e dalla bora…», e vede non solo il breve varco d’acqua, ma il Mediterraneo che raggiunge la città giuliana «raccolto e lanciato/ come un divino ginnasta» ed è «il nostro destino più antico». La Moretti, anche archeologa, scava nella memoria e nei luoghi, e ci restituisce il raro senso delle cose.

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Donatella Bisutti


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di Pier Mario Fasanotti e uno si mette in testa di essere sempre molto severo quando è davanti alla tv, allora si perdono occasioni di umorismo. Chiariamo: ci sono trasmissioni italiane che, per dirla alla siciliana, sono «presuntuose», ossia credono in primo luogo di scovare e descrivere la verità e quindi d’essere tappe miliari della storia televisiva italiana. In realtà, sono sciocchezze, vasche dove si annega, o ci si intossica, per sovrabbondanza di luoghi comuni. Poi ci sono alcuni prodotti americani che non si schiodano dalla loro matrice di «serie B». Uno di questi è Il clown, ogni lunedì su Axn. La piccola idea di partenza ha una sua quasi-originalità, pure intrisa di tradizione fumettistica: Max Zander fu creduto morto e invece se la cavò, decidendo poi di lottare contro il crimine nascondendo il volto dietro una maschera clownesca. Chi ricorda bene le avventure di Batman può pretendere un guizzo di inventiva in più. Ma non c’è. Il giustiziere ha l’espressione dell’americano di provincia, scolpito con l’accetta anche nell’anima. In primo piano i muscoli, che sono sempre l’asse portante di quel concetto di giustizia non perseguito nelle aule di tribunale. Un cazzotto risolve sempre. E poi i cattivi, muscolosi anch’essi a cominciare dal capo che pare passi il suo tempo a sollevare pesi, in stanze ipermoderne cariche di sudore, rabbia e machismo verbale. Gli «scagnozzi», va da sé, sono i birilli contro i quali il «capo» lancia palle di grossolano sarcasmo. Non riescono mai a portare a termine una missione, quindi sprofonderanno nell’umiliazione. Nel gruppetto cattivo non può mancare il maniaco. In questo caso c’è uno stupido che crede di risolvere tutto con le bombe a mano, sua vera passione. In uno degli episodi avviene che qualcuno abbia sabotato l’elicottero con due persone a bordo: l’istruttore e un uomo politico che ha alle spalle una lunga battaglia contro la vendita illegale di armi. Ci pensa Max, sia a confortare l’amico pilota (in ospedale, col rischio di perdere l’uso delle gambe), sia ad acciuffare il vero colpevole, che è poi quello che pensa e trama con l’asciugamano sul collo e le dita strette attorno ai pesi. Il telespettatore ha la

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Teatro

Televisione

MobyDICK

spettacoli DVD

Il clown e il ritmo

delle vecchie comiche

L’APOCALISSE TRA SCIENZA E LEGGENDA l tema, quanto mai affascinante ma non privo di brividi escatologici, è emerso con prepotenza sui media nei mesi scorsi. E Roland Emmerich ha tratto dalla vicenda un film discusso. 2012 - Scienza o superstizione riporta al centro del proscenio il famigerato 21 dicembre che, tra poco più di due anni, segnerà la fine del mondo secondo quanto tramandato dai calcoli maya. Imperniato sulla teoria apocalittica, e su quella della rinascita, il documentario edito da Corbaccio analizza la preoccupante escalation di cataclismi verificatasi negli ultimi anni, tratteggiando con forza le sotterranee inquietudini del Terzo millennio.

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CONCERTI

WHITNEY STA BENE, IN ITALIA A MAGGIO fan italiani possono tirare un sospiro di sollievo: Whitney Houston canterà il 3 maggio al Forum di Milano e il 4 al Palalottomatica di Roma. I problemi respiratori che avevano costretto la star del pop al ricovero in un ospedale parigino, sembravano aver allontanato definitivamente la possibilità di vederla in scena nel corso della tournée annunciata nel Vecchio Continente. Ma la vecchia leonessa sembra aver superato di slancio la crisi.«Mi sento bene, molto allegra e in perfetta forma», ha assicurato alla rivista People. Dopo la due giorni italiana Whitney toccherà Svizzera, Germania, Austria e Belgio.

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sua buona dose di rassicurazione. Non mancano le frasi da happy end imminente: «Lascia fare a me»; «Sono cose che succedono»; «Qual è la prossima mossa?». Max il clown vendicatore è affiancato da una trentenne bionda che gli chiede invano d’essere più romantico. Non è una Mata Hari, non è asfissiante nelle sue domande di tenerezza, anzi si dimostra sorridente, una vera camerata anche quando prende delle botte in testa o sfiora un’esplosione (ovviamente della bomba a mano). Le avventure di Max and company procedono al ritmo delle vecchie comiche: se uno se ne accorge, allora ride. Se invece vogliamo sempre trovare il pelo nell’uovo, si deve cambiare canale. Max è un altro Chuck

Norris. Se il cattivone sbraita ai suoi «riempiteli di piombo!», lui non perde la calma, e nemmeno la sua assistente Claudia. Il pilota che aveva come destino la carrozzella comincia miracolosamente a muovere i piedi. In un batter d’occhio è in piedi. Max e Claudia, felici e acciaccati, si ritrovano in una situazione che potrebbe essere galeotta: una cena a casa. Il Clown sa cucinare alla francese, lei è sornionamente stupita e vorrebbe mostrargli tutta la sua gratitudine. Avvicina le labbra. Niente da fare, un imprevisto fa rinviare quel che non c’è nel copione, l’amore. Giusto così, mai distrarre o rammollire un giustiziere dell’America prova a cavarsela senza polizia, magistratura e altre sottigliezze istituzionali.

di Francesco Lo Dico

Nel buio della periferia del mondo di Enrica Rosso

utto avviene in una notte ruvida e selvaggia. La notte poco prima della foresta del francese Bernard-Marie Koltès nella traduzione di Luca Scarlini. La più buia delle notti possibili. Una notte senza vergogna e senza pietà. Una notte indecente, imbrattata da un fluire incontenibile di rabbia e tristezza che sotto una pioggia invadente e volgare, da diluvio universale, più che lavare via, annega il senso di disperata sopraffazione in cui versa il protagonista. Un uomo «solo come non si riesce a dire» alla ricerca di un altro essere umano qualsiasi - «ho cercato qualcuno che fosse come un angelo in questo macello e non sei tu» - che gli permetta di ricostituire la sua identità in una continua rincorsa di possibili interlocutori - «quando ti ho visto giravi l’angolo della strada, piove e questo non ti mette a tuo agio». Un diseredato «io privo di tutto da sempre costretto alla privazione», che ha smarri-

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to la diritta via - «bisognerebbe essere altrove» - e invano cerca una zattera per riprendere fiato - «cerco una stanza per una parte della notte perché ho smarrito la mia». Un torrente di parole a contrastare un silenzio feroce, per farsi compagnia, nella speranza che arrivi presto l’alba e con la luce il sole a dissolvere i fantasmi e riscaldare il cuore. A vent’anni da una morte precoce Face à Face, la rassegna che esporta parole di Francia per Scene d’Italia, non poteva non rendere omaggio a uno dei suoi figli più sfortunati e apprezzati con la proposta, tra le altre, del testo che lo ha reso universalmente noto. Bernard-Marie Koltès (che ne fu il primo interprete al Festival Off di Avignone nel 1977), autore culto della seconda metà del Novecento, piega qui la scrittura a una narrazione in prima persona percorsa dall’urgenza dell’emozione, facendo saettare pensieri in una stratificazione di immagini congestionate e incalzanti per restituire l’esistenza disossata di un derelitto col fuoco

in corpo. Nell’installazione che funge da scenografia, realizzata da Carmine Guarino su opera dell’artista Loredana Longo, si dibatte lo Straniero. Arginata da una sconnessa griglia di ferro, la matericità della scena impastata di fango e calce il cui biancore polveroso assorbe la poca luce, spiovente e aggressiva, vive un ulteriore senso di precarietà dato dai lunghi tubi pericolanti sospesi per aria. La regia firmata dal colombiano Juan Diego Puerta Lopez, estremamente appagante dal punto di vista visivo, sbilancia però un poco il testo in una direzione estetizzante e distraente rispetto a una fruizione meno ornata e ancor più d’impatto, come non si fidasse fino in fondo della potenza intrinseca del testo e volesse ingentilire il messaggio alleviandolo. Claudio Santamaria porta in scena una fisicità eloquente per questo figlio della periferia del mondo e si dà completamente al personaggio. Accartocciato su se stesso, sviluppa una vita sulla difensiva, una percezione dell’intorno in oriz-

zontale. Autoriduce il suo spazio vitale per ripararsi dai colpi bassi della vita, da un buio opaco, dallo scrosciare di una pioggia proterva, dalle possibili sorprese di una notte cattiva sempre in agguato; salvo stagliarsi sul finale, in preda a una rabbia che reclama giustizia a randellare il mondo. Le musiche destabilizzanti e lucide di Louis Siciliano sono estremamente sintoniche con il disegno generale.

La notte poco prima della foresta, Teatro Elfo Puccini, Milano, fino al 25 aprile, info 02.00660606-02.716791


MobyDICK

Cinema

di Anselma Dell’Olio ai un film è stato più tempista. Quotidiani e telegiornali rovesciano da settimane ogni sorta d’onta e di condanna sulle gerarchie ecclesiastiche cattoliche, in particolare su Papa Ratzinger; odio accumulato, forse, per le sue posizioni morali poco progressiste in materia di aborto, celibato dei preti e sacerdozio femminile. L’attacco è diretto al magistero stesso della chiesa di Roma, brandendo l’arma dei sacerdoti pedofili. Non è rischioso affermare che Todd Solondz è tra gli autori di cinema più liberi e originali all’opera. Nei suoi film, immagini e dialoghi mettono la nostra capacità di condannare/perdonare sotto pressione estrema; per sondare la nostra larghezza d’animo, offrono persone in preda alle più viete pulsioni umane - nevrosi, peccato, perversione, fate voi - quelle aborrite ancor più dell’assassinio. In Happiness, il suo capolavoro del 1998, e nel nuovo Perdona e dimentica, tratta gli stessi personaggi, vittime e carnefici d’orrori perduranti; cambiano solo gli attori. Pedofili, guardoni maniaci sessuali dediti alle telefonate oscene, e le persone che li subiscono o li amano, ci sono mostrati con spavalda pietas. I comportamenti più odiati sono accostati a quelli più comuni a tutti: le tante, meschine cattiverie e stoccate che si fanno tra sorelle, tra madre e figli, tra figli e padri, tra compagni di scuola, tra amanti, fidanzati, mariti e mogli. L’esilarante, malizioso elfo ebreo Solondz ci costringe a guardare tutte le brutture della sua fantasiosa «famiglia» di reietti dannati, tristi e sconsolati. Ci sfida a guardare con lucidità la loro indiscutibile umanità, inesorabilmente bacata, e di continuare a sentirci superiori. I dialoghi sono di una comicità deadpan irresistibile, quella vera, che tratta le questioni più autentiche e inconfessabili. Non dà risposte Solondz, ma rovista come un furetto saprofago nella «fetida bottega di stracci e ossa del cuore» yeatsiana (The Circus). È la storia della mesta Joy (il nome, prego) e le sue sorelle, la patologicamente ottimista Trish (Alison Janney, la mamma di Juno) e la diva narcisomane Helen (Ally Sheedy), tutti con robusti scheletri in armadi dalle porte spalancate. Prima scena. La delicata, remissiva Joy (Shirley Henderson, meravigliosa) è in un ristorante con il marito Allen che chiede: «Stai bene?». Lei, «Oh, niente di grave, solo un po’ di dejà vu». È il loro anniversario, e lei ha deciso di «perdonare e dimenticare» dopo una separazione. Allen (Michael Kenneth Williams) giura di essere cambiato ed elenca le cose che non fa più: fare il perditempo, scansare il lavoro, insultare i suoi capi sfottendo i loro difetti fisici, sniffare cocaina, fumare crack, fumare crack-cocaina, aiutare bande di balordi a fare rapine a mano armata e a stuprare. Poi inciampa sull’unica cosa che proprio non gli riesce di… ma arriva la cameriera per prendere la comanda. La donna gli chiede di ripetere più volte l’ordine, poi, sicura della voce, gli sputa in faccia e lo manda a fare una cosaccia dove non batte il sole. Joy lo difende: «No, è cambiato! Ha perfino buttato l’elenco telefonico!». È stato recidivo, invece: la moglie lo guarda delusa. Allen frigna «Beh, solo la domenica…». Gli estimatori di Happiness ricorderanno il personaggio che ha lanciato Phillip Seymour Hoffman in Happiness: il molestatore telefonico. Hoffman era sconosciuto allora e sembrava che quel diavolo di Solondz

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A lezione di pietas da Solondz e Moverman avesse trovato un vero maniaco per il ruolo. Perdona e dimentica ha vinto a Venezia il premio per la sceneggiatura; meritava il Leone d’oro. Da vedere subito prima che sparisca. (In dvd si trovano anche Palindromes e Fuga dalla scuola media).

Wes Andersen (I Tenenbaum) ritorna con il film animato The Fantastic Mr. Fox, adattato dal racconto per l’infanzia di Roald Dahl, Furbo, il signor volpe. Dahl, più noto per La fabbrica di cioccolato, è uno scrittore assai dark, anche macabro, antiautoritario, anticonformista e molto affascinante. Andersen ha realizzato l’animazione in stop-motion, laborioso sistema in cui si spostano manichini di frazioni di centimetri alla volta, e completare due o tre secondi di film in un giorno è considerata una buona media. Il production design è splendido, a conferma della nota eleganza visiva del regista, spesso chiamato «visionario». Quelli meno entusiasti si lamentano che spesso lo stile domina sul contenuto, come in Le avventure acquatiche di Steve Zissou e Darjeeling Express. A volte è vero, ma i suoi film valgono sempre il viaggio. La colonna sonora di Alexandre Desplat è molto curata e raffinatissima, come sempre in Andersen, i dialoghi divertenti, illuminanti, anticonvenzionali, adorabili e molto, molto hip e cool (scafati). È stato detto che non è per tutti, ma meno mael; non sarebbe così bello se lo fosse. Mr. Fox (George Clooney in originale) come Royal Tenebaum, è un marito e padre divertente e furfante, un rubagalline avventuroso e spericolato. Dopo un’incursione andata male, la moglie incinta (Meryl Streep v.o.) lo convince a cambiare vita; si riforma e fa il giornalista. Ma alla mezza età i vecchi istinti tornano a galla, e dopo aver spostato la famiglia da una sicura tana profonda in una casa più acconcia

In “Perdona e dimentica” il regista di “Happiness” fa riflettere con maestria sulle pulsioni peggiori di cui le persone possono essere preda. Raffinato e imperdibile il Mr. Fox di Roald Dahl, realizzato da Wes Andersen (“I Tenenbaum”), e anche “The Messenger” è un buon film sulla verità incontrovertibile della guerra

sotto un albero («È da sfigati vivere sepolti») torna alle vecchie abitudini, sottraendo volatili e altre leccornie a tre fattori incavolati e vendicativi, soci in un grosso agribusiness. Seguono pericoli d’ogni genere e conti da pagare, ma quel che più interessa ad Andersen è il gioco tra parenti stretti: padre simpatico e prepotente, madre dolce e saggia che cerca di farlo ragionare, figlio depresso con carenze affettive e geloso del cugino atletico, brillante, bello e malinconico, un classico eroe anderseniano. È da vedere per la raffinatezza dello script, del segno visivo, della colonna sonora e per la struggente, affettuosa radiografia dei rapporti famigliari.

Oltre le regole - The Messenger è un film contro la guerra o semplicemente realista? Al centro dell’azione è la missione affidata a due soldati, reduci dal fronte in tempi diversi, di «comunicazione del lutto». Hanno lo sconvolgente compito di suonare alla porta d’estranei, per portare

di persona ai loro parenti più prossimi la notizia della morte di militari in guerra. La coppia di notificatori è composta dal sergente Will Montgomery (Ben Foster), ferito in Iraq e rientrato con una medaglia per eroismo, e il capitano Tony Stone (Woody Harrelson, candidato all’Oscar come miglior attore non protagonista, vinto da Christoph Walz per Bastardi senza gloria) è l’ufficiale esperto che conosce il protocollo e istuisce Will sul comportamento da tenere davanti alle varie reazioni che incontreranno. Ma è impossibile «prepararsi» alla realtà: scoppi d’ira, aggressioni fisiche, disperazione, urla di dolore, e la più inquietante, la semplice, composta espressione di gratitudine, il riconoscimento per l’ingrato incarico. È un buon film che traduce aride statistiche in volti umani - la verità incontrovertibile della guerra. Non sorprende che il regista Oren Moverman sia israeliano; maneggia con finezza una materia che conosce direttamente.


Fantascienza

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noto che la fantascienza non si è sbizzarrita a immaginare solo un futuro tecnologico, ma anche un futuro dal punto di vista sociale e politico. In questo caso si contamina con l’utopia (se il futuro è positivo), oppure con l’antiutopia o distopia (se il futuro è negativo). E se di utopie il Novecento («il secolo delle ideologie») ne ha prodotte di scarsissime, sono invece numerose e importanti le antiutopie. Le dittature del futuro sono ovviamente peggiori di quelle del presente, sperimentate direttamente, perché esse possono godere di uno sviluppo tecnologico che porta all’ennesima potenza i mezzi di controllo neppure immaginati dal comunismo e dal nazismo. Inutile ricordare Zamjatin, Huxley, Orwell, la triade degli autori che hanno condannato la dittatura del socialismo/stalinismo e della scienza. Accanto a loro ve ne sono molti altri che non sempre hanno utilizzato il tono del dramma per denunciare una società oppressiva. C’è anche chi ha preferito il tono ironico, sarcastico e surreale, non meno efficace. Tra questi adesso possiamo aggiungere uno scrittore italiano con un sorprendente romanzo.

MobyDICK

ai confini della realtà

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Intanto, forse qualcuno non più giovanissimo si ricorderà di un ministro democristiano degli anni Sessanta che voleva tassare l’ombra, cioè lo spazio ombreggiato dalle tende di bar, ristoranti e negozi. Alla fantasia dei tassatori non c’è limite. E qualcun altro forse ricorderà un’avventura disegnata dal grande Carl Barks in cui Paperino si proclama Imperatore del Mondo con l’intenzione di applicare al collo di ciascun suddito lo spirotassometro: a ogni respiro, tot da pagare. Ebbene, l’invenzione di Paolo Pasi, giornalista della Rai di Milano, non è da meno per fantasia e assurdità: non i respiri si tassano, bensì i sogni. Incontrollabili e fondamentali entrambi per vivere. Il suo romanzo, dal bel titolo ma dalla orribile copertina, dice tutto: Memorie di un sognatore abusivo (Edizioni Spartaco, 214 pagine, 14,00 euro). Un’opera che si aggiunge ormai alle tante che in questi ultimi due o tre anni si sono immaginate un’Italia del futuro da quasi incubo, ma nel suo caso, più unico che raro, fra l’ironico, il grottesco e il tragico. Un referendum, votato da oltre il 60 per cento degli italiani, stabilisce che tutte le tasse vengano abolite e sostituite da quella unica sui sogni. Una cosa in apparenza semplice, ma nella realtà il sogno diventa un’ossessione fiscale: nel 2035 la macchina X-19 collegata con ventose alla testa stabilisce quantità a qualità dei sogni, al risveglio contabilizza il tutto, lo inoltra alla Centrale Onirica che stabilisce l’imponibile da

Il prezzo dei sogni di Gianfranco de Turris pagare a scadenze fisse. Gli italiani sono un popolo di sognatori e ben pochi sono quelli che hanno un sonno che ne è privo. Quindi i conti sono salatissimi. Particolarmente colpito è il protagonista del romanzo che tiene uno psicodiaro: s’indebita talmente che la moglie, pur amandolo, è costretta a divorziare e a risposarsi: ne diventerà l’amante con incontri tanto clandestini quanto esal-

qui scatta la rivolta. La Comunità collassa in pochissimo tempo e viene sostituita dalla Repubblica Onirica, con i vecchi responsabili politici e tecnici convertiti sulla via di Damasco e subito re-immessi nel circuito burocratico-politico.

Finito il romanzo? No, perché Pasi ha la geniale idea di proseguire la storia dimostrando che non è tutto

Un apologo sconsolato e ironico sulla libertà individuale e collettiva, spesso tradita da chi si dice pronto a difenderla contro chi vuole invece sopprimerla. È questa la sottotrama di “Memorie di un sognatore abusivo” di Paolo Pasi, il migliore romanzo futuribile italiano degli ultimi anni tanti che il rapporto è quasi quasi più soddisfacente del tran tran coniugale. Un microchip sottocutaneo segnala inoltre chi non si collega alla macchina. Da qui multe e arresti. Non si scappa. Sicché l’insoddisfazione popolare cresce e nasce un Fronte di Liberazione Onirico che costruisce una macchina proibita che annulla l’effetto della X-19, contabilizzando zero al risveglio. Misteriosamente la macchina arriva a casa dei cittadini (alla fine si scoprirà come): alla fine il Fronte riesce a saturare la Centrale Onirica che trasmette alla popolazione conti iperbolici e impossibili da saldare: da

oro quel che luce nella realtà politica giunta al governo, grazie a un doppio colpo di scena: il primo si può rivelare, il secondo proprio no. Il nuovo corso non è poi tanto nuovo: viene creato un Centro Produzione Sogni, sicché mentre in precedenza si poteva sognare quel che si voleva pagando, adesso è lo Stato che produce «sogni in scatola», estrapolandoli da quelli di forti sognatori come il protagonista, vendendoli «certificati» alla popolazione che così può sognare quel che è nei suoi desideri (avventura, eros ecc.). Insomma, prima tutti i sogni erano ammessi, adesso soltanto quelli ammessi dalla Accademia dei Nobili Onirici che li seleziona: prima tutti i sogni erano veri, adesso tutti sono artificiali (altrui, in sostanza). Un passo avanti ancora, ed ecco che si creano i «sogni personali»: si scannerizza la memoria di un soggetto e si traggono sogni vividi e

precisi di un certo momento del passato che si vuole rivivere. Vanno a ruba: peccato che contengano spot subliminali degli sponsor che hanno finanziato il progetto inducendo il povero sognatore a comprare questo e quello… Insomma, il regime onirico della nuova «democrazia» è peggiore di quello della vecchia «autocrazia»! Al protagonista, alla moglie-amante e al cugino esponente del Fronte a cui sono stati aperti gli occhi, non resta che cercare una «vita vera», «sogni veri»: qui l’ultima rivelazione che lascia l’amaro in bocca e un senso di disillusione sulla libertà in epoca democratica. Da Orwell a Dick. Pasi ha una fantasia effervescente, che non traccia un futuro solo di nome (come altri autori italiani di oggi che non capiscono bene cosa debbano essere fantascienza e antiutopia), ma anche di fatto descrivendo nuovi modi di vivere, nuovi costumi, nuove moralità, nuovi marchingegni che sono il prolungamento di quelli che oggi usiamo quasi a getto continuo. Il suo stile, brillante e diretto, sensibile e non sbracato, tiene viva l’attenzione sino alla fine aiutato anche dai capitoli brevi e pieni di cose da raccontare, intrecciando la vita del «sognatore abusivo» con la complicata realtà italica del 2035. Inoltre, la trama non è un qualcosa di superfluo che serve a descrivere solo i filosofemi dell’autore, ma è ben congegnata, oltre a essere un apologo sconsolato, ancorché ironico, sulla libertà individuale e collettiva, spesso e volentieri presa in giro da chi si dice pronto a difenderla e a promuoverla contro chi sembra invece conculcarla. Sicuramente, queste Memorie sono uno dei migliori romanzi futuribili italiani degli ultimi anni.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

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La lista di Formigoni è sempre stata legittimamente in campo Leggendo alcuni articoli apparsi su Liberal negli ultimi giorni, a proposito del decreto cosiddetto salvaliste, credo sia opportuno segnalare ai vostri lettori che tale decreto non è mai stato utilizzato per «recuperare la lista di Formigoni». È sufficiente rileggere i due pronunciamenti del Tar e la sentenza del Consiglio di Stato per rendersi conto che la lista del presidente Formigoni non ha avuto bisogno del decreto e che gli stessi magistrati hanno riconosciuto l’assoluto diritto della lista “Per la Lombardia” a partecipare alla consultazione elettorale. La magistratura ha spiegato che Formigoni è sempre stato in corsa e che la sua esclusione non era in alcun modo motivata. Il via libera dei magistrati è arrivato senza tener conto del decreto governativo e ha bollato come illegittimo il tentativo di togliere dalla scheda elettorale il nome di Roberto Formigoni. Al di là del risultato elettorale e della votazione del Parlamento sul decreto, è opportuno non perdere di vista i fatti e le responsabilità: la lista di Formigoni è sempre stata legittimamente in campo, nel pieno rispetto delle regole e del rapporto di fiducia con gli elettori.

Giovanni Cattaneo, portavoce Presidente Formigoni

MILAZZO: MANTENIMENTO DEL SERVIZIO TURISTICO La giunta municipale di Milazzo, riunitasi sotto la presidenza del sindaco Lorenzo Italiano, in considerazione che è ormai prossima la chiusura, in virtù del decreto del presidente della regione n. 12 del 5 dicembre 2009, emesso in attuazione della legge regionale 10/2005 sul riordino del servizio turistico, di tutti i servizi turistici regionali funzionanti nelle località non capoluogo di provincia, già sede delle soppresse Aast, ha approvato un atto di indirizzo tendente a scongiurare la chiusura del servizio turistico regionale n. 13 di Milazzo, sorto a seguito della soppressione dell’Aast che era stata istituita dall’assessore regionale al Turismo, on. Giuseppe Merlino. Nell’atto di indirizzo della giunta milazzese, è stato opportunamente sottolineato che, dopo l’entrata in vigore della legge sul riassetto del settore turistico, è esplosa la crisi economica mondiale, che unitamente alla sempre crescente concorrenza turistica nell’area del Mediterraneo, ha prodotto un calo turistico. È stato altresì messo in evidenza che la provincia di Messina assorbe un terzo del turismo siciliano, e che in essa i due poli di attrazione maggiore sono rappresentati da Taormina-Giardini e da Milazzo-Isole Eolie. L’atto di indirizzo, nell’auspicare il mantenimento del servizio turistico regionale di

Milazzo, lo candida per l’importante funzione di valorizzazione di tutto il comprensorio milazzese e delle isole Eolie. L’iniziativa dell’amministrazione del sindaco Italiano di porre la città al centro del comprensorio turistico, alla luce del positivo ruolo svolto dall’Aast, della potenzialità, della vocazione del territorio, lasciano prevedere una ripresa ed una crescita, per cui merita di essere accolta dal governo regionale. Ed è ciò che auspica e che desiderano tutti gli operatori turistici e coloro che credono, e sono in moltissimi, in un prevalente sviluppo turistico.

Luigi Celebre

PSICOFARMACI DA SBALLO Sostanze psicotrope, del tipo comunemente disponibile in farmacia, sono oggi diventate pillole da sballo tra i giovani, alla stregua di potenti droghe da strada quali cocaina, marijuana e hashish. Davanti alle scuole americane già da tempo si spaccia metilfenidato (il cui nome commerciale è Ritalin), le pasticche vengono polverizzate e poi sniffate come fossero cocaina. Secondo uno studio dell’Università di Berkeley, i bambini che fanno uso di metilfenidato corrono un rischio tre volte maggiore di diventare tossicodipendenti. Il numero di giovani che usano psicofarmaci non regolarmente prescritti, secondo una ricerca dell’Espad (Euro-

L’IMMAGINE

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e di cronach

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30

Usa, in arrivo i cacciatori di meteoriti NEW YORK. Il mondo è sicuramente un posto interessante da frequentare. Perché quasi tutti coloro che lo frequentano hanno una storiella da raccontare o una vita particolare da esibire. È il caso degli uomini che cacciano meteore. Dopo lo straordinario passaggio della palla di fuoco che ha illuminato i cieli del Midwest, il Wisconsin assiste ad un altro fenomeno, la calata dei meterorite hunters, esperti che intendono dare la caccia al meteorite caduto la notte scorsa. «Quello che facciamo è raccogliere le testimonianze di chi ha visto la palla di fuoco e cercare di ricostruire la sua traiettoria, in modo da chiedere agli agricoltori di stare attenti a possibile strane rocce rinvenute nei loro campi» ha spiegato al Chicago Tribune Paul Sipiera, che si occupa dell’acquisto di meteoriti per il Field Museum di Galena, nell’Illinois. Sipiera guida una squadra di quattro cacciatori, ed altri sono attesi nella zona, si legge ancora sul giornale americano. Fino alla notte scorsa non era stato trovato nessun frammento del metorite, ma non appena verrà rinvenuta qualche roccia sospetta i cacciatori arriveranno da tutte le parti, spiega ancora Sipiera che ha sentito che anche a Londra c’è qualcuno già interessato alla caccia.

pean school project on alcohol and other drugs), sono in forte aumento e l’Italia sarebbe in prima fila. Si tratta di prodotti per la maggior parte acquistati su mercati clandestini, via internet o rubati dall’armadietto dei medicinali di casa. Anche se legali, le sostanze psicotrope sono droghe a tutti gli effetti, danno dipendenza e creano scompensi psico-fisici anche gravi, che possono condurre alla morte o a tendenze suicide. Danno assuefazione come le comuni droghe da strada, e la persona spesso passa a droghe più pesanti. Non c’è dunque un confine netto tra droghe legali e illegali, il metilfenidato ad esempio è un analogo delle anfetamine. Molti psicofarmaci in passato si sono trasformati in droghe da strada. La mescalina fu promossa negli anni quaranta da G.T Stockings, uno psichiatra, e usata negli anni cinquanta nell’ospedale di Saskatchewan in Canada, sotto la supervisione di Humphry Osmond. Le anfetamine erano regolarmente prescritte dagli psichiatri negli anni Trenta. Non sarebbe dunque una sorpresa il bando degli attuali psicofarmaci: nel frattempo ne sarebbero già spuntati altri di nuovissima generazione. Il vero spaccio da fermare è quello della disinformazione e dell’industria farmaceutica che stanno affondando la società di domani e tutte le sue speranze lungo una spirale di degradazione, da cui è sempre più difficile uscire.

Davis Fiore

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LE VERITÀ NASCOSTE

All’incrocio tra i due mondi L’acqua dello Stretto di Bering si infrance sulle rocce della spiaggia di Margaret Bay, in Alaska. Lo Stretto di Bering è il punto più ad est del continente asiatico e il punto più ad ovest del continente americano.

PAROLA D’ORDINE: PURIFICAZIONE! “Sinite parvulos venire ad me”… “Lasciate che i fanciulli vengano a me”. C’è bisogno di purificazione non solo nella Chiesa. Le Autorità civili si stringano attorno alla Chiesa e facciano quadrato a difesa dei minori e della vita.

Nicola Facciolini


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l’approfondimento

Miti. Dalle divagazioni letterarie a quelle cinematografiche: gli alieni e il loro mondo hanno sempre attratto l’uomo

2030, odissea su Marte. Un kolossal chiamato spazio Il sogno di passeggiare sul Pianeta Rosso ha almeno due secoli di vita e illusioni. Finalmente, il piano ventennale promosso da Obama per la Nasa dimostrerà se Swift, Bradbury e Asimov avevano ragione oppure no di Marco Ferrari arak Obama, classe 1961, è nato nell’anno in cui il suo predecessore John Fitzgerald Kennedy annunciò il programma di atterraggio sulla luna. Cresciuto nei miti dell’esplorazione spaziale e nell’invidia verso Jurij Gagarin e Valentina Tereskova, Obama ha ancora stampato dei suoi occhi di bambino l’incredibile visione di Neil Armstrong che le 22,17 del 20 luglio 1969 saltella sul suolo lunare e pianta la bandiera statunitense. Ora spinge avanti quel sogno puntando dritto su Marte: anno di atterraggio il 2030.

B

Nella vastità dell’infinito Marte ha sempre attizzato la nostra fantasia sia per la vicinanza al pianeta Terra sia per la somiglianza di caratteristiche come la rotazione, le calotte polari, la dimensione ecc. Abiterebbero là i famosi extraterrestri pronti ad invaderci nel caso in cui una mattina si sveglino arrabbiati con il nostro mondo - in fondo siamo dei vicini di casa - che non sa fa altro

che inventare bombe atomiche, gas di ogni genere e strumenti che turbano la quiete celeste dove loro, i marziani, appunto, se la passano bene, quatti quatti, ascoltando tutto il tempo in serenità Così parlò Zarathustra di Richard Strauss, non a caso scelto da Stanley Kubrick quale colonna sonora del film 2001: odissea nello spazio. Noi, chiassosi condomini in stile italo-americano, barbecue e bambini frignanti, viviamo invece di tecno music e satelliti che impazzano nel blu dipinto di blu. L’inizio delle nostre immaginazioni marziane, del resto, seppero di profetico: Jonathan Swift, infatti, profetizzò ne I viaggi di Gulliver l’esistenza di due satelliti del pianeta rosso invisibili agli astronomi. Intuizione che, come un’oscura rivelazione dantesca, si dimostrò poi vera 150 anni dopo. Andò invece peggio all’italiano Giovanni Virginio Schiaparelli, nominato direttore dell’Osservatorio di Brera nel 1872, il quale pensò di avere scoperto dei canali su Marte rivelatisi poi inesi-

stenti. Frutto di un’illusione ottica favorita dallo sforzo visivo, i canali furono ”osservati” per mezzo di un telescopio rifrattore Merz da 22 centimetri di diametro, tuttora conservato a Brera e presentati per la prima volta alla comunità astronomica nel 1877. Si innescò subito un dibattito molto vivace che doveva definitivamente concludersi solo nel 1964, quando le immagini a distanza ravvicinata, riprese dalla sonda Mariner 4, cancellarono ogni dubbio residuo. La poesia delle Martian Chronicles («Cronache marziane») di Ray Bradbury testimoniano di quell’abbaglio generale che portò molti scienziati a disegnare un vero e proprio sistema idrografico marziano.

Già nell’Ottocento Marte rappresentò il trampolino di lancio delle conquiste terrestri. Il mondo andava talmente male, afflitto dalla prorompente società industriale e dalla selvaggia urbanizzazione, che si cominciò a idealiz-

zare un intervento esterno di esseri dotati di tecnologie più alte e sofisticate: si trattava de La guerra dei mondi di H.G. Wells tacciato di essere una critica al colonialismo europeo dell’epoca che, senza scrupoli, metteva a ferro e fuoco il terzo mondo. Ci siamo abituati, fin da quel periodo, e mettere il naso in casa dei marziani, come adesso vuol fare Obama: il primo a calarsi sul pianeta rosso tramite tappeto volante fu Gulliver Jones inventato nel 1905 dallo scrittore di fantascienza Edwin Lester Arnold, seguito a ruota da John Carter, frutto della penna di Edgar Rice Burroughs, il quale si fermò parecchio tra i vulcani dei marziani, almeno il tempo di stampare una ricca e fortunata trilogia. Visto come andavano le cose da noi negli anni Trenta del secolo scorso, per la prima volta si pensò bene di dipingere i marziani non come cattivi ed ostili ma bravi ed educati. Non ci volle un grande sforzo mettendoli a confronto con Hitler, Stalin, Mussolini, Franco e Salazar.


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Dalle future missioni potrebbero arrivare le risposte anche sulla sua effettiva abitabilità

Carta d’identità del pianeta che (forse) fu satellite della Terra Presenza di acqua, inclinazione dell’asse, densità e velocità di rotazione Ecco le misteriose caratteristiche studiate dagli scienziati di tutto il mondo di Emilio Spedicato arte è un pianeta misterioso. Ha quasi stessa inclinazione sull’eclittica e velocità di rotazione della Terra, cosa che nessuno sa spiegare, ma che forse seguirebbe se per lunghissimo tempo fosse stato satellite della Terra. Ha una composizione simile a quella della Terra, ma una densità pari alla metà e non ha campo magnetico. Si credeva che non avesse acqua, invece si è scoperto che molta acqua c’era, che è stata perduta catastroficamente lasciando enormi strutture di erosione; e in piccole quantità acqua sopravvive certamente nel suolo, oltre che ai poli.

M

Quanto sopra ha senso se Marte per lunghissimo tempo fosse stato satellite della Terra, con acqua liquida aperta a forme di vita. E la perdita dell’acqua si può spiegare con lo strappo di Marte dalla Terra. La questione dell’ esistenza di vita fuori del nostro meraviglioso pianeta è un problema di estremo interesse, su cui si è discusso da secoli. Ricordiamo che Giordano Bruno fu condannato al rogo fra l’altro per avere ipotizzato presenza di vita intelligente in altri pianeti (ma chi sono i Troni, Dominazioni, Virtù, Principati di cui parla Paolo specie nella Lettera agli Ebrei? E forse che Jean Guitton non ha affermato di non avere problemi con l’esistenza di milioni di pianeti abitati da esseri intelligenti?). Il problema della vita fuori la Terra ha due aspetti: vita in generale o vita intelligente, vita nel sistema solare o vita nella galassia o nell’universo intero. Qui ci limitiamo al sistema solare con riferimento a Marte, e facciamo qualche ipotesi sul tipo di vita che ivi può esistere o essere esistito. A fine Ottocento l’idea che i pianeti potessero essere abitati era alquanto diffusa. Il nostro grande astronomo Schiaparelli divenne famoso per avere individuato al telescopio delle strutture canaliformi su Marte. Queste furono tradotte in inglese come canals invece che channels, parola la prima che indica una origine artificiale, della quale Schiaparelli non era particolarmente fautore. Partì quindi una ricerca di tracce di vita su Marte, a cura in particolare del ricco astrofilo Percival Lowell, che costruì uno speciale telescopio in Arizona, dove il cielo era estremamente limpido. Tuttavia la ricerca non portò a conclusioni a favore dell’ artificialità, trattandosi in gran parte di un fenomeno ottico. Mezzo secolo fa si riteneva che Marte avesse le seguenti caratteristiche: -simile alla Terra nella composizione della crosta, nella durata del giorno (ore 24 e mezzo), nell’angolazione dell’asse di rotazione sul piano eclittico; differente nella densità, metà di quella terrestre, nel campo magnetico, quasi inesistente, e nell’atmosfera, quasi inesistente -che sin dalla sua formazione qualche miliardo di anni fa si sia trovato nella

presente orbita, fra Terra e fascia degli asteroidi, geologicamente inattivo, privo di acqua, privo di vita oggi e in passato. Ora molto di più si conosce, grazie tanto a telescopi più potenti, Hubble in particolare. E oggi sappiamo che: -Marte è tuttora geologicamente attivo, vulcani hanno eruttato per l’ultima volta non miliardi di anni fa ma qualche centinaio di migliaia di anni fa; e forse si troverà che hanno eruttato solo qualche migliaio di anni fa -Marte deve avere avuto acqua in notevoli quantità, forse pari a un decimo di quella terrestre, e quest’acqua è stata perduta in un evento che ha scolpito immensi canyon. I bordi di queste strutture sono ancora netti, il che, essendo i venti marziani ricchi di sabbia e raggiungenti anche 300 km/ora, indica una origine recente, altrimenti sarebbero

vita, anche intelligente… -Un sensore sviluppato in Italia ha osservato presenza di metano e formaldeide, di solito associati a processi biologici. Quanto sopra indica che oggi, per la presenza dell’acqua, potrebbe esistere vita microscopica nel sottosuolo; se esista vita intelligente all’interno del pianeta è solo interessante speculazione, ricordiamo che Sagan, ferocemente opposto alle idee catastrofistiche di Velikovsky, ipotizzò che i satelliti marziani Phobos e Deimos fossero vuoti e utilizzati da alieni. Spiegare la vita avanzata su Marte nell’orbita attuale, fuori della regione di abitabilità, non è facile.Tuttavia le cose cambierebbero se in passato Marte fosse stato nella regione di abitabilità, come nella ipotesi sopra considerata che Marte fosse satellite della Terra prima della

C’è comunque da sperare che le prossime scoperte “promesse” dagli Usa non vengano mai secretate smussati e molti canyon almeno in parte riempiti -recente evidenza indica la presenza di acqua a piccola profondità e la sua occasionale emergenza, dedotta da recentissime tracce di scorrimento non esistenti su foto del luogo fatte tempo prima. -esistono strutture dal carattere artificiale, come accertato da analisi frattale con codici sviluppati per ragioni militari in Unione Sovietica. Queste consistono di un migliaio di piramidi, di varie strutture dal carattere di viso osservato frontalmente o di lato, di strutture a reticolo che sembrano indicare città, di almeno quella che appare essere una miniera a cielo aperto, di aperture che appaiono ingressi in pareti del monte Olympus, il gigantesco vulcano alto 27 km esistente sulla faccia opposto di quello che appare essere una gigantesca depressione di decine di milioni di km quadri -Sono state osservate strutture tubolari lunghe un centinaio di km e spesse circa 700 m dentro le quali alcuni hanno ipotizzato potrebbero esistere forme di

cattura della Luna, e fosse poi passato ripetutamente vicino alla Terra per un priodo di alcune migliaia di anni (ogni 54 anni, si può arguire).

Allora il problema è rimosso, varie caratteristiche di Marte seguirebbero, in particolare potremmo spiegare l’affermazione biblica che al diluvio di Noè si aprirono le fontane del profondo e dell alto. Quelle dell’alto costituite da parte delle acque degli oceani di Marte, perdute in un passaggio particolarmente ravvicinato... E le particelle di acqua che colpiscono ancora la Terra, visibili come lampi nelle foto notturne del nostro pianeta e analizzate per la prima volta dall’ astronomo Frank, potrebbero essere residui dell’acqua degli oceani marziani. Dalla missione su Marte promessa da Obama potrebbero aversi risposte agli scenari sopra descritti. Anche se non si può escludere che non tutto venga comunicato, che una parte delle scoperte venga secretata, come è avvenuto in Italia con i risultati dello studio degli strani fenomeni a Caronia, in Sicilia.

Così in Un’odissea marziana Stanley G. Weinbaum il visitatore terrestre incontra un indigeno stile struzzo, creature a base di silicio e persone di una civiltà sotterranea, ultima speranza che ci resta per rintracciare i nostri simili abitatori del pianeta rosso. Sempre nel 1934 Raymond Z. Gallun in Vecchio fedele fa precipitare sulla terra un marziano come si deve. A quel punto anche Wells dovette ricredersi riabilitando i marziani e descrivendoli nel libro Gli Astrigeni come essere più intelligente di noi. Finito il conflitto mondiale e sgombrano il campo sull’esistenza di una reale società marziana, la letteratura ha puntato sull’invasione di Marte. Kim Stanley Robinson, un un’altra nota trilogia dedicata ai colori, alla fine fa assomigliare Marte alla Terra. Ray Bradbury in Cronache marziane del 1950 paragona l’invasione di Marte alla conquista del Nuovo Mondo con relativo sterminio di indigeni. Il grande Isaac Asimov con Lucky Starr, il vagabondo dello spazio piazza gli alieni sotto la superficie del pianeta, una civiltà estremamente evoluta al punto da essere solo puro pensiero. Oramai Marte è una dependance terrestre, secondo Asimov, come testimonia l’altro romanzo Maledetti marziani. Da allora, più o meno, abbiamo sempre vinto noi sui poveri marziani. Il cinema non si è fatto pregare per atterrare con facilità su Marte. I primi, ovviamente, sono stati i russi, volendo esportare colà il loro modello leninista. Così hanno messo su un kolossal muto come Aelita nel 1924 per la regia di Protazanov per anticipare tutti. Gli americani hanno risposto con un po’ di ritardo con la serie di Flash Gordon, 15 episodi ideati da Alex Raymond. Da allora è stata una fatale battaglia con ovvie vittorie terrestri, talvolta regolari, altri volte rubate e spesso con ricorso ai tempi supplementari, quando sembrava tutto perduto. Con i marziani si sono cimentati grandi firme della celluloide come Tim Burton, Steven Spielberg, Brian De Palma, Paul Verhoeven, John Carpenter. Juan Antin, in un cartone animato, ha fatto atterrare un marziano a Buenos Aires con tutti i problemi del caso, disoccupazione, sporcizia, corruzione, gente che ti frega e ti raggira. Gli italiani con Corrado Guzzanti hanno fatto atterrare i fascisti nel 1939 sul quarto pianeta del sistema solare dopo aver conquistato Libia ed Etiopia.

La distanza reale tra la Terra e il pianeta rosso è di 78 milioni di chilometri, un tragitto che per essere coperto con i mezzi attuali necessita di circa 250 giorni di viaggio, solo per l’andata. Insomma ci vogliono quasi due anni tra andata, ritorno e sosta sperando che davvero non si incontri nulla di inusuale sul nostro pianeta gemello e che frattempo non finiscano i soldi destinati alla missione. La polvere rossa, le stagioni, la posizione in rapporto al sole e le comunicazioni sono i problemi da affrontare per riuscire nell’impresa di arrivare lassù ma soprattutto di tornare a casa. Per questo la Nasa già studia nuove missioni, soprattutto con l’obiettivo di portare in Florida almeno 500 grammi di rocce e suolo assieme ad un campione dell’atmosfera per rendere più sicuro il contatto. Di recente è stata scoperta la neve su Marte: chissà se i marziani amano, come noi, giocare a tirarsi le palle di neve e a costruire pupazzi? Un enigma che nel 2030 sarà svelato; con buona pace degli albergatori delle Dolomiti.


mondo

pagina 26 • 17 aprile 2010

Summit. Comincia oggi il “contro-vertice” sul nucleare di Ahamdinejad: invitati 60 Paesi. Israele è il convitato di pietra

La Corte di Mahmoud Dalla Siria alla Turchia, dai Paesi del Bric al Sudan: ecco chi tratta con Teheran di Alexandre del Valle a scorsa settimana, Washington ha annunciato la nuova dottrina nucleare americana che esclude attacchi nucleari contro gli Stati privi di capacità atomica o che rispettino il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp), escludendo in questo modo «gli Stati fuori norma come l’Iran o la Corea del Nord» che hanno violato o rinunciato al Tnp. Secondo Teheran, questa nuova strategia di Barack Obama, ribadita durante il vertice internazionale sulla sicurezza nucleare del 13 e 14 aprile, minaccerebbe “implicitamente”gli iraniani. E di fronte alla volontà occidentale di fare adottare all’Onu nuove sanzioni più efficienti per fermare il programma nucleare iraniano, la “contro-offensiva”del regime dei mullah è stata affiancata dall’annuncio della produzione di nuove centrifughe di seconda generazione con una capacità di arricchimento dell’uranio 3 volte superiore a quella attuale.

L

Teheran ha dichiarato di essere pronta a fronteggiare «qualsiasi minaccia israeloamericana» e ha annunciato la realizzazione di un nuovo sistema missilistico antiaereo, il Mersad (imboscata), «capace di colpire aerei nemici a media e bassa quota». Secondo il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, inoltre, il vertice inter-

nazionale organizzato a Washington il 12 e 13 aprile scorso sulla sicurezza nucleare e al quale l’Iran non è stato invitato è stata una «provocazione» e una nuova «iniziativa umiliante», visto che Obama lo ha utilizzato anche per persuadere la Russia e la Cina ad avallare le sanzioni.

In risposta alle nuove misure strategiche americane e alla volontà occidentale di isolare l’Iran nucleare, il regime dei Mullah ha elaborato una contro-offensiva molteplice. Prima di tutto, nell’ambito di una retorica

shington ed è passata dalle parole ai fatti organizzando oggi e domani a Teheran un “controvertice”sul nucleare al quale sono stati invitati tuuti i paesi ostili alle sanzioni contro l’Iran. Secondo il quotidiano turco Hurriyet Daily News & Economic Review China, Cina, India, Siria, Venezuela, Turkmenistan, Sudan, Oman, e Cuba, hanno assicurato la loro presenza. Il vertice si intitolerà, nella “neolingua”orwelliana dei Pasdaran, «Energia nucleare per tutti, armi nucleari per nessuno». Infatti, per giustificare il suo programma nucleare e delegittima-

La strategia a doppio binario della Cina neo-capitalista e vetero-totalitaria, da un lato dà una mano all’economia di mercato occidentale, mentre dall’altro sostiene il nuovo Asse dell’Odio vittimista e terzomondista che seduce i paesi anti-occidentali o contrari all’egemonismo americano, i dirigenti iraniani tentano di allargare il fronte filo-iraniano e stanno presentando una denuncia formale all’Onu, designando come «vera minaccia per il mondo» i paesi che possiedono attualmente le armi atomiche» (vale a dire America, Francia, Gran Bretagna, e Israele). Poi, la Repubblica islamica ha fatto sapere che non si ritiene obbligata a rispettare le decisioni prese nel vertice di Wa-

re l’embargo e le sanzioni internazionali contro l’Iran, Teheran sostiene, benchè tutti sappiano la verità, che il suo programma nucleare sarebbe «solo destinato a scopi civili» precisando che «lo sviluppo di armi atomiche andrebbe contro i dettami dell’islam», al contrario delle imprese e intenzioni bellicose dei “Satana”americano-israeliani.

Per sedurre le capitali islamiche, arabe e terzomondiste, Teheran è riuscita ad allargare il fronte filo-iraniano denun-

ciando l’ingiusto “doppio peso”. Ovvero: «impedire agli iraniani di avere ciò che è stato consentito a Israele». Di fatto, la strada di un inasprimento delle sanzioni contro Teheran è respinta non solo dalla Corea del Nord totalitaria o dalla Cina post-maoista, ma anche dal nuovo alleato strategico dell’Iran, la Turchia post kemalista di Erdogan che accusa Israele e vuol risolvere la crisi con l’Iran «solo per via diplomatica». Assieme alla Turchia, alcuni altri paesi musulmani reputati “moderati” come l’Egitto e la Giordania, esigono che Israele aderisca al trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) e parlano di evidente strategia del doppio peso. Posizione che ha convinto il premier israeliano

Netanyahu a non recarsi al vertice di Washington e a mandare il suo vice, Dan Meridor.

Per molti analisti, il caso israeliano potrebbe rendere più difficile l’adozione di nuove sanzioni contro Teheran, perchè la Cina, i paesi del terzo mondo e quelli islamici dell’Oci (Organizzazione della Conferenza islamica) si chiedono come mai il nucleare iraniano sia una minaccia ma non quello israeliano, sempre tollerato dall’Occidente. Oltre alla Siria e al Sudan, alleati privilegiati di Teheran sul dossier nucleare, il prossimo-oriente e l’antioccidentalismo, Ahmadinejad ha invitato al contro-vertice di Teheran 60 paesi, fra cui i paesi dei Bric: Brasile, Russia, Cina,

Ahmadinejad (nella foto in alto) ha dichiarato di essere pronta a fronteggiare «qualsiasi minaccia israeloamericana» e ha annunciato la realizzazione di un nuovo sistema missilistico antiaereo, il Mersad (“imboscata”)


mondo Esteri cinese Yang Jiechi e convincerlo a partecipare alla conferenza di Teheran. E questo spiega la strategia a doppio binario della Cina neo-capitalista e vetero-totalitaria che da un lato dà una mano all’economia di mercato occidentale, di cui ha bisogno per continuare a crescere, e dall’altro sostiene il nuovo Asse dell’Odio anti-occidentale (Iran, Corea del Nord, Sudan, Siria) che utilizza sia per fare pressione internazionale (con l’obbiettivo di mandar via la flotta americana dal mar cinese) sia per l’approvigionamento energetico (soprattutto dall’Iran) di cui ha bisogno per diventare - come ha detto a Washington il leader cinese Hu Jintao, la prima potenza mondiale entro il 2050.

Cina e Russia hanno investono da anni miliardi nel settore energetico iraniano e condividono con Teheran lo stesso rifiuto dell’ordine internazionale unipolare caraterizzato dagli interventi statunitensi nel Golfo, in Europa (Balcani), nel Caucaso, in Asia Centrale e in Asia. Infatti, anche se Mosca sembra aver stretto la mano tesa Obama, non mai smesso di ribadire (assieme a Pechino) la sua contrarietà a delle sanzioni draconiane contro l’Iran. India, i quattro in grado di bilanciare l’unipolarismo americano, e senza dimenticare i paesi africani e sudamericani non allineati. Infatti, oltre la Siria e i paesi comunisti ed ex-comunisti dell’antica Urss, il nucleare civile iraniano gode dell’appoggio di tanti paesi dell’America Latina: dal Brasile, che ha accettato di recarsi al contro-vertice di Teheran pur essendo amico dell’Occidente, all’asse “neo-bolivarista” promosso dal presidente venezuelano Hugo Chavez, (il “fratello” di Ahmadinejad), e i suoi discepoli della Bolivia (Evo Morales) del Nicaragua (Daniel Ortega), dell’Equador (Rafael Correa), fino ai maestri di Cuba (fratelli Castro), uniti nel gruppo latinoamericano-caraibico Alba contro l’Alena filo-statunitense. Scontata la partecipazone della Corea del Nord totalitaria, alleato di sempre della Repubblica islamica iraniana, che aiuta quest’ultima a perfezionare la portata dei missili balistici iraniani Sejil II.

Quella dell’India lo è un po’ di meno, visto che la cooperazione di Nuova Delhi con i servizi americani e israeliani in funzione anti-terrorismo islamico è ottima. La verità è che l’India, storico paese non allineato, ha bisogno come la Cina di mantenere una certa amicizia o neutralità con l’Iran, che è - esattamente come il paese di Gandhi - membro osservatore all’Organizzazone della Conferenza di Shanghai (Ocs), che unisce in funzione anti-occidentale e an-

ti-americana la Cina, la Russia e le repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale che mirano ad instaurare un «nuovo ordine mondiale multilaterale».

Detto questo, non va dimenticato che l’India, alla pari della maggioranza degli invitati, non ha la capacità di impedire le sanzioni contro l’Iran nell’ambito del dossier nucleare iraniano. Al contrario, la presenza della Cina al contro-vertice iraniano, è molto più problematica. Infatti, a differenza della Russia di Medvedev che si è avvicinata all’Occidente da quando Obama ha deciso di firmare con Mosca lo Start e di rinunciare in parte al progetto di radar e antimissili in Europa centrale, la Cina è l’unico paese filo iraniano a possedere diritto di veto nel Consiglio di sicurezza Onu e che potrebbe opporsi alle sanzioni contro Teheran senza temere danni o rappresaglie. Con la Russia, la Cina avrebbe tutto l’interesse a fare fallire un eventuale embargo contro l’Iran dei Mullah. Ma a differenza di Mosca, che dispone di tantissime riserve di petrolio e di gas (44% delle riserve mondiali di gas), la Cina può difficilmente mettere in discussione l’alleanza con l’Iran, che ha le seconde riserve di idrocarburi del Golfo e tutto l’interesse a fare pressione sull’America nell’ambito di parecchi casus belli come Google, Taiwan e il Tibet. È in quest’ambito che il capo negoziatore iraniano per il dossier nucleare, Saeed Jalili, era venerdì scorso a Pechino per incontrare il ministro degli

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senziale» della nuova doxa americano-occidentale. Oggi è difficile cadere vittima della duplice strategia della nuova Cina, che penetra gode l’organizzazione mondiale del commercio (Omc) e utilizza il libero-scambismo e la mondializzazione economica per rovinare l’Occidente e arrichirsi (“socialismo di mercato”) pero corteggia e appoggia sotto mano l’Asse neo-totalitario rossonero-verde. Un paese che sostiene i peggiori regimi totalitaristici del mondo come la Corea del Nord, che arma l’Iran, ha la bomba nucleare ed è responsabile di carestie di massa, oppure il regime islamico-militare del Sudan, che continua nell’indifferenza generale a sterminare centinaia di migliaia di persone nel Darfur ma che dispone di petrolio e compra gli aerei e i missili cinesi e russi. La Cina totalitaria-neocapitalista cerca a tutti i costi di controllare ovunque in Africa, in America Latina e in Oriente dando le fonti e le vie degli idrocarburi necessari alla sua crescita a due cifre, in cambio progetti industriali senza pretendere alcuna forma di democratizzazione. Nell’ambito della mondializzazione, questo rappresenta un enorme vantaggio per i dittatori antioccidenta-

Grazie a Pechino, non solo il Pakistan (che ospita Bin Laden ed è sostenitore dei talebani) possiede la bomba atomica ma anche l’Iran, che è un suo debitore, si sta per dotare del nucleare Principale consumatore d’idrocarburi, in primo luogo iraniani, prossima prima potenza mondiale in tutti i campi (militare, economico, demografico) tra il 2030 e il 2050, la Cina sarà in futuro il principale rivale degli Stati Uniti se non addirittura il suo avversario. E lo sarà anche dell’Europa, se quest’ultima rimane “assoggettata” alla Nato e a Washington. La nuova Cina, di cui si tende a dimenticare la natura totalitaria e che è sempre governata con pugno di ferro dal partito comunista cinese, ambisce a “respingere” a breve la marina americana fuori dall’Asia e dal mare cinese e dall’Eurasia e a recuperare Taiwan. Sostiene le aspirazioni nucleari dell’Iran e di altri dittatori “antimperialisti” sulla via della nuclearizzazione, come la Corea del Nord di cui fa finta di essersi allontanata ma che non avrebbe la bomba nucleare e i missili balistici senza l’aiuto e il permesso di Pechino. Condivide con il suo storico (ex-futuro) nemico russo (con il quale esiste un enorme contenzioso territoriale) lo stesso desiderio di rivincita per «l’umiliazione» subita dal Mondo Libero. E persegue lo stesso obiettivo, in particolare attraverso l’Ocs, che consiste nel rimettere in discussione il Nuovo Ordine internazionale e l’ideologia dei Diritti dell’Uomo, «punto es-

li non solo africani ma di tutto l’Asse dell’Internazionale dell’Odio antioccidentale. Nel 1997, Samuel Huntington descriveva come un visionario questo nuovo dato legato alla fine della Guerra fredda spiegando che: «L’alleanza confuciano-islamica è nata per sfidare gli interessi, i valori e le potenze occidentali. La Cina aumenta rapidamente le sue spese militari e le sue forze. Acquista armi dalla vecchia Unione Sovietica. Sta comprando missili a lunga gittata»..

Ricordiamo, infatti, che il Paese di Confucio e di Mao esporta armi sofisticate verso un gran numero di paesi antioccidentali e da anni aiuta paesi islamici ad acquistare armamenti e tecnologie di avanguardia. Grazie alla Cina non solo il Pakistan, che ospita Bin Laden ed è sostenitore dei talebani, possiede la bomba atomica ma anche l’Iran, che è un suo grande debitore, si sta per dotare del nucleare. Forse in futuro, subito dopo l’Iran, lo faranno anche l’Algeria revanscista, la Siria, ma anche l’Arabia saudita, l’Egitto, ecc. Tra venti o trent’anni, quest’alleanza rosso-verde o «confuceo-islamica», ostile all’egemonia americano-occidentale, preoccuperà sia l’indebolita e divisa Europa che la sicura America, sempre

più odiata e contestata come mai prima d’ora. Infatti, la nuova Cina, prossima prima potenza mondiale, pur pretendendo voler un mondo pluripolare e essere “nemica di nessuno”, non è in verità né alleata né amica di nessuno. La nuova Cina rimane la più grande dittatura rossa del mondo. Benché Pechino sia stata l’invitata d’onore del vertice di Washington, e benchè sia abilmente inserita nell’Omc e faccia finta di non essere più «totalmente opposta alle sanzioni contro Teheran», perchè deve a tutti i costi continuare a smerciare i suoi prodotti a basso costo in Occidente, ha comunque sempre più bisogno del petrolio musulmano, in gran parte iraniano. E per alimentare la sua immensità e la sua crescita difficilmente sostenibile energeticamente, deve continuare a conquistare, economicamente e a sedurre il Terzo Mondo islamico e l’Africa. Si sente quindi libera di stringere un’alleanza rosso-verde “confuceo-islamica” con l’Iran di Ahmadinejad, il Sudan di Al Bachir, e numerosi stati africani produttori di petrolio, come lo aveva pronosticato con pessimismo Huntington. Se facciamo un’analisi retrospettiva dei quattro ultimi anni di negoziati con Teheran e sanzioni progressive e limitate, la politica di dialogo portata avanti da Barack Obama con l’Iran sul programma nucleare ha solo permesso a Teheran di risparmiare tempo e farne perdere al “Gruppo dei 5+1” e all’Aiea. Infatti, i rappresentanti delle 5 più importanti potenze nucleari del mondo più la Germania, incaricati del dossier nucleare iraniano, hanno capito che la risposta dell’Iran di Ahmadinéjad alla “mano tesa” del presidente americano e dell’Europa è stata “inadeguata”. La strategia di “dialogo” scelta finora dall’Occidente, che vuole evitare a tutti i costi lo scontro militare è soltanto ingenua. Il contro-vertice del prossimo fine di settimana e le ultime minacce di Teheran saranno il punto di partenza di una nuova sfida per l’Occidente e i paesi sunniti filo-occidentali del Golfo che temono la crescita della rivoluzione sciita in Iraq, in Libano, ma anche tra le minoranze sciite del Golfo e in Palestina: o l’Occidente decide di fermare con mezzi efficienti Teheran, anche se non piace alla Cina, o l’Iran nazislamista avrà la bomba e trasformerà il Prossimo Oriente e il Golfo o in una “zona di tempesta”. Fra i peggiori scenari, non possiamo escludere quello di un Iran nucleare - arrogante sotto un’embargo inutile (perchè non totale) o bombardato da Israele - capace di bloccare gli stretti di Ormuz e Charm Al Cheikh, dove passano le navi del petrolio, suscitando un tardivo intervento militare occidentale con il rischio di una terza guerra mondiale.


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Denunce. Un Rapporto d’inchiesta accusa le “negligenze” dell’ex generale ISLAMABAD. La morte dell’ex primo ministro pakistano Benazir Bhutto, avvenuta a causa di un attentato il 27 dicembre del 2007 a Rawalpindi, «poteva essere evitata, se il governo dell’epoca guidato da Parvez Musharraf avesse messo in atto tutte le misure di sicurezza necessarie». È inoltre “incredibile” che le indagini compiute dalla polizia locale «abbiano raccolto soltanto 23 prove, su una scena del crimine che ha prodotto decine di migliaia di indicazioni». È il contenuto dell’atteso Rapporto ufficiale delle Nazioni Unite sull’omicidio Bhutto, richiesto dal governo di Islamabad e più volte rinviato. Una volta di più, dunque, il Palazzo di Vetro dimostra la sua incommensurabile sagacia spendendo come al solito milioni di dollari per una verità quasi incredibile: un omicidio si poteva evitare.

La commissione di inchiesta inviata dalle Nazioni Unite a Rawalpindi è stata guidata dall’ex giudice Heraldo Munoz, che ha presentato a New York i risultati dell’indagine addossando di fatto tutta la responsabilità sull’esecutivo in carica all’epoca dei fatti e scagionando l’attuale presidente, e vedovo della Bhutto, Asif Ali Zardari. Benazir Bhutto, già primo ministro del Pakistan, è stata uccisa il 27 dicembre 2007, in un attacco suicida e con armi da fuoco, mentre abbandonava un comizio a Rawalpindi, dove stava facendo campagna elettorale per il ritorno al potere del Partito del popolo pachistano, dopo il suo ritorno nel Paese da un esilio auto-imposto in Gran Bretagna durato nove anni. Secondo Munoz, «ogni parte dell’inchiesta dimostra che l’invasiva presenza delle forze di intel-

L’Onu: «La Bhutto uccisa da Musharraf» In pratica scagionato il vedovo Zardari, che esprime soddisfazione e sollievo di Vincenzo Faccioli Pintozzi

una commistione di responsabilità. I dirigenti del governo federali, quelli del Punjab e quelli del distretto di Rawalpindi hanno tutti fallito: nessuno di loro ha fatto quello che avrebbe dovuto, prima e dopo l’omicidio. Eppure, il governo ha fornito la giusta protezione a due altri ex primi ministri del Pakistan, che all’epoca dei fatti

La Commissione di indagine indipendente sottolinea le responsabilità delle agenzie di intelligence, troppo collegate al potere ligence pakistane, altamente politicizzata, ha deviato il corso dell’indagine compiuta all’epoca dei fatti. È incredibile, ad esempio, che la scena dell’esplosione sia stata lavata subito dopo lo scoppio: una decisione che è stata presa dalle autorità nazionali, le uniche ad avere l’autorità per fare una cosa del genere. Inoltre, se il governo Musharraf avesse preso le giuste misure di sicurezza non si sarebbe verificato proprio l’attentato». Per l’inviato Onu «si tratta di

erano alleati con Musharraf». I risultati dell’inchiesta – che secondo il presidente «non forniscono incriminazioni penali, ma si limitano a riportare i fatti» – scagionano di fatto Zardari, a lungo considerato ispiratore dell’omicidio della moglie.

Ma non indicano chi sia stato l’esecutore materiale dell’attentato. Secondo Musharraf, dietro a tutto c’è il defunto leader dei talebani pakistani, Beitullah Mehsud. E l’ex generale passa

Il presidente-generale scomparso dalle scene

C’era una volta un re Il Pakistan ha deciso di cancellare dalla Costituzione l’impronta con cui l’ex presidente, il generale Musharraf, aveva forgiato il Paese dopo gli attacchi dell’11/9, quando venne chiamato a combattere il terrorismo qaedista annidato sulle montagne del nord. La Camera bassa del Parlamento pachistano ha approvato infatti ieri all’unanimità un emendamento costituzionale che mira a revocare al presidente alcuni poteri ereditati dal suo predecessore, il generale Pervez Musharraf. Un emendamento che dovrebbe alleviare il clima politico sulla scena interna, nel momento in cui Washington auspica che il governo pachistano si concentri sulla lotta contro i talebani e i militanti legati ad al Qaida, ritenuti responsabili

degli attacchi oltrefrontiera contro le forze statunitensi e della Nato in Afghanistan. Il testo prevede di trasferire alcuni poteri presidenziali al primo ministro, come il diritto di allontanare un governo eletto e nominare i vertici militari. Per entrare in vigore, deve ottenere una maggioranza dei due terzi al prima Senato della firma dal presidente Zardari, cosa che non dovrebbe porre problemi: l’emendamento è stato redatto da una commissione composta da rappresentanti di tutti i partiti. Gli analisti politici ritengono che questo cambiamento dovrebbe trasformare la carica presidenziale in una carica in gran parte onoraria. Il presidente Zardari dovrebbe tuttavia mantenere una grande influenza sul governo.

all’attacco: «Il rapporto delle Nazioni Unite sull’omicidio dell’ex primo ministro pachistano Benazir Bhutto è un ammasso di menzogne che a torto chiama in causa l’ex presidente Pervez Musharraf e le forze di sicurezza del Pakistan per non aver fermato gli assassini». Lo ha affermato un collaboratore di Musharraf. Il rapporto diffuso ieri è stato invece elogiato dal Ppp, che oggi governa il Pakistan ed è guidato dal presidente Asif Ali Zardari, vedovo di Bhutto. Un portavoce del presidente pakistano Asif Ali Zardari ha espresso soddisfazione per i risultati dell’indagine condotta dalla commissione indipendente. Per il portavoce del presidente Farhatullah Babar, «le supposizioni del Partito del popolo del Pakistan (Ppp) si rivelano oggi vere. Abbiamo sempre insistito sul fatto che il governo guidato dall’ex presidente (Pervez, ndr) Musharraf fosse responsabile dell’omicidio di Benazir Bhutto».

In ogni caso, dopo la presentazione del rapporto, Babar ha detto che la posizione ufficiale del suo partito sul rapporto Onu «verrà resa nota dopo un attento esame del testo». E così, il Partito popolare si ripulisce l’immagine e colpisce con tutta la sua forza il responsabile dell’epoca, che da parte sua rimanda le accuse al mittente. Ma quello che colpisce in tutta questa storia è il ruolo delle Nazioni Unite, che sembrano aver del tutto abdicato al ruolo di arbitro che avrebbero dovuto svolgere durante le crisi mondiali. In pratica, il Palazzo di Vetro si riduce a funzionario para-statale, che con più o meno interessi mette nero su bianco ovvietà inutili alla ricerca della verità. Mentre in Pakistan, crisi sempre più lontana dai mainstream media, le battaglie continuano. Un attentatore suicida si è fatto esplodere ieri nel pronto soccorso dell’ospedale principale di Quetta, nel sud ovest del Pakistan, causando la morte di nove persone. Lo ha reso noto la polizia specificando che tra i morti ci sono quattro poliziotti e un cameraman televisivo e che oltre 30 persone sono rimaste ferite, tra cui dei giornalisti e un deputato locale. Secondo il capo della polizia provinciale Qazi Abdul Wahid si tratterebbe di un attentato “settario”. Quel che è certo è che nel Paese il sangue scorre ancora con troppa facilità.


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Sulla torre, che verrà inaugurata in agosto, anche un orologio

Quasi 800 i morti accertati, incalcolabili per ora i feriti

Alla Mecca il secondo grattacielo più alto

Qinghai, dopo il terremoto aumentano le vittime

LA MECCA. Dopo l’emirato di Dubai, sarà l’Arabia Saudita a detenere il primato del grattacielo più alto al mondo. Nel giugno 2010 verrà inaugurato alla Mecca – la città santa dell’islam – il Royal Clock Tower, un edificio che ospiterà un complesso alberghiero e potrà vantare un ulteriore primato: l’orologio più grande al mondo, di sei metri superiore al celebre Big Ben di Londra. Il governo saudita ha affidato i lavori di costruzione del complesso al Bin Laden Group, multinazionale dell’edilizia con sede a Jeddah. Il Mecca Royal Clock Tower sarà formato da una struttura in cemento armato alta 662 metri, la cui costruzione sarà ultimata per il mese di giugno. A questa si aggiungerà una struttura in metallo a spirale alta 155 metri, al cui interno verrà inserito un orologio largo 45 metri e alto 43. Sei metri più grande del celebre Big Ben londinese.

PECHINO. A oltre due giorni dal

L’orologio dovrebbe scoccare i primi battiti verso la metà di agosto, a pochi giorni dall’inizio del mese sacro del Ramadan. Il grattacielo sarà di soli 11 metri inferiore al Burj Khalifa di Dubai, la torre più alta al mondo inaugurata nel gennaio scorso. Tuttavia, la sola struttura in cemento armato farà del grattacielo saudita il secondo

Bakiyev in fuga. Verso Occidente Accordo tra Usa e Russia per normalizzare il Kirghizistan di Pierre Chiartano ex presidente del Kirghizistan, Kurmanbek Bakiyev, che giovedì aveva lasciato il Paese e si era rifugiato in Kazakistan, starebbe preparando le valigie per un’altra destinazione più a occidente. Lo sostiene una fonte vicina all’agenzia di stampa Interfax. «Bakiyev dovrebbe volar via dal Kazakistan nel pomeriggio»,avrebbe riferito ieri la fonte. L’ex presidente, rovesciato da una rivolta che ha portato al potere l’opposizione, ieri mattina era ancora a Taraz, nel sud del Kazakistan, dove era volato, giovedì, da Jalal-Abad sulla base di un accordo di cui si erano fatti promotori il presidente Usa Barack Obama, il presidente russo Dmitri Medvedev e il presidente kazako Nursultan Nazarbaiev. Si era rifugiato nel sud del Kirghizistan, mercoledì 7 aprile, mentre per le strade della capitale Bishkek si combatteva. Non è chiara la meta finale Bakiyev. Si è parlato della Turchia o della Lettonia, dove si trovava fino a ieri il figlio Maxim, anche lui ricercato in Kirghizistan. Ieri, a quanto scrive Interfax, Maxim – che nei giorni della rivolta si trovava negli Usa – sarebbe partito dalla Lettonia per una destinazione sconosciuta. Secondo informazioni, che però non hanno avuto alcuna conferma, Bakiev avrebbe avuto problemi fisici dopo aver firmato la lettera di dimissioni a Taraz, sceso dall’aereo, e ieri mattina avrebbe dovuto far ricorso alle cure mediche. Per il presidente russo Dmitri Medvedev la speranza è che il nuovo governo del Kirghizistan eviterà gli errori commessi dal precedente regime. «A mio parere, il crollo del sistema politico in Kirghizistan, e del regime precedente, è legato all’incapacità di risolvere i problemi socio-economici» ha affermato Medvedev da Brasilia. «D’altra parte, ciò che era stato costruito ricordava molto il vecchio sistema di governo, basato sul nepotismo, i rapporti tra clan e imprese e l’indifferenza verso altri problemi – ha continuato Medvedev – speriamo che il nuovo governo del Kirghizistan saprà liberarsi di questi difetti». Il Kirghi-

L’

zistan rimane un partner strategico della Russia, ha dichiarato poi il presidente russo: «non siamo indifferenti al suo destino». Intanto il governo provvisorio del Kirghizistan ha annunciato che prolungherà di un anno l’accordo in essere sulla base militare americana di Manas, essenziale per le operazioni militari Usa in Afghanistan. «Il governo ad interim ha deciso di rinnovare automaticamente per un anno l’accordo con gli Stati Uniti sulla presenza del centro di transito di Manas» ha affermato il vice capo del governo Omur Tekebiev. Il capo dell’esecutivo provvisorio, Roza Otunbaieva, aveva anticipato una settimana fa la conferma per la concessione per la base aerea, da molti non voluta nel Paese.

L’accordo per la base di Manas era stato firmato dall’ex presidente Kurmanbek Bakiev, deposto dopo una sanguinosa rivolta il 7 aprile scorso, nonostante la contrarietà di Mosca, che ne voleva la chiusura. L’intesa siglata a giugno scorso, della durata di un anno, prevedeva il rinnovo automatico per un anno aggiuntivo, con l’accordo dei contraenti. Il Kirghizistan ospita anche una base russa, nei pressi della capitale Bishkek. E anche i supporter di Bakiyev hanno alzato bandiera bianca, scongiurando il pericolo di una resistenza armata che avrebbe rischiato di far sprofondare il Paese in una ancora più difficile situazione. Giovedì era scattata un’operazione per arrestare i fratelli del presidente deposto, ma uno di loro, Zhanybek Bakiyev, non è stato ancora trovato: sarebbe stato lui, secondo le nuove autorità di Bishkek, a ordinare di aprire il fuoco sulla folla riunita nella capitale per manifestare, lo scorso 7 aprile. Non ha opposto invece resistenza un altro fratello di Bakiyev, Akhmat, che d’altronde non è ricercato, ma ha consegnato alla polizia regionale varie armi in possesso della famiglia, compresi fucili automatici. La crisi sembra comunque essere stata risolta grazie alla decisione di Bakiyev di lasciare il Paese.

Il governo provvisorio di Bishkek prolungherà di un anno l’accordo sulla base militare americana di Manas

edificio più alto al mondo, il Taipei 101 nell’isola di Taiwan alto 508 metri. La gestione del complesso alberghiero – sette torri, 3mila fra stanze e suite, e un costo che si aggira attorno ai 3 miliardi di dollari – è affidata alla Fairmont Hotel and Resorts. La maggior pare delle camere si affaccerà direttamente sulla Grande Moschea, per favorire la preghiera degli ospiti. Ma il vero motivo d’orgoglio per i costruttori, in questa gara verso il cielo lanciata dalle nazioni arabe, è il grande orologio che svetterà sulla torre. Di fabbricazione tedesca, sarà “il più grande al mondo” sottolinea al-Arkubi, general manager dell’hotel.

sisma che ha devastato la regione tibetana del Qinghai, il bilancio dei morti è salito ieri a 791, mentre almeno 294 persone sono disperse. Anche il numero di feriti è aumentato: 11.486, dei quali più di mille molto gravi. Le squadre di soccorso cercano di lavorare 24 ore su 24 per salvare superstiti seppelliti ancora sotto le macerie, ma il problema più urgente è come dare riparo alle decine di migliaia di persone senzatetto. Zhou Ming, membro del ministero degli affari civili, afferma che «il numero delle tende [stanziato] è sufficiente, ma il maggior problema è la difficoltà dei trasporti. Ci vorrà tempo perché tutte le tende arrivino

nella zona colpita». Zou ha detto di sperare che la situazione si risolva in due giorni. Intanto migliaia di persone dormono all’addiaccio, con temperature molto spesso sotto lo zero.

Ieri è giunto nella provincia il premier Wen Jiabao, per visitare i superstiti e per sostenere le squadre di soccorso. «Per salvare le persone – ha detto - non dobbiamo risparmiare sforzi… specie nelle prossime 72 ore, vi prego dateci sotto il più possibile». Fra la popolazione che reca soccorso vi sono anche molti monaci tibetani. Molti morti vengono accatastati vicino al monastero di Gyegu in attesa del funerale. Alcuni monaci afferma di aver raccolto migliaia di salme, mettendo in dubbio le cifre ufficiali del disastro. Donne gestanti sono state trasferite nella capitale della provincia, Xining, dopo che due di loro hanno partorito sotto le tende davanti all’ospedale di Gyegu, impraticabile. Il presidente Hu Jintao ha cancellato una sua visita in Venezuela e in Cile e ha ridotto la sua presenza in Brasile per tornare a sovrintendere la risposta e gli aiuti del Paese alla popolazione del Qinghai. Una risposta estremamente necessaria, da fornire il prima possibile.


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il personaggio della settimana Il bipartitismo perfetto di Westminster messo in discussione per la prima volta in 65 anni

Il meticcio che incantò la Gran Bretagna Chi é Nick Glegg, il leader dei liberaldemocratici, che ha dominato il primo dibattito televisivo mettendo sotto Cameron e Brown. E perché il Regno Unito si avvia al turno elettorale più incerto della sua storia di Antonio Picasso osh! Caspita! È il commento che viene da fare alla lettura dei risultati del dibattito televisivo di giovedì sera fra i tre candidati alle elezioni in Gran Bretagna il 6 maggio. Ieri il Guardian, sulla base di un sondaggio effettuato dall’agenzia “Populus for the Times”, ha sancito la vittoria mediatica del leader del Partito Liberaldemocratico, Nick Clegg, di fronte al conservatore David Cameron e al Premier in carica, il laburista Gordon Brown. Nella sua complessità, il confronto si è sviluppato all’insegna del migliore fair play britannico. I tre candidati hanno letteralmente messo in scena una cordiale conversazione di 90 minuti, senza mai interrompersi l’un l’altro, replicando nel modo più informale e chiamandosi per nome. Al tempo stesso si sono

G

dimostrati concretamente preparati e hanno evitato qualsiasi slogan privo di contenuto. Clegg però ha ricevuto il 61% di preferenze da parte degli spettatori intervistati. Questo significa che se nel Regno Unito si andasse a votare oggi, il bipolarismo perfetto del sistema Westminster sarebbe messo in discussione per la prima volta da 65 anni.

Nella attuale legislatura, il gruppo Lib-dem dei 63 membri alla Camera dei Comuni, sui 646 seggi totali, ha occupato una posizione di tutto prestigio, come terza forza dopo i laburisti e i tories. La loro tradizione può essere fatta risalire, in parte, ai whigs, i liberali storici del parlamentarismo anglosassone, che da William Pitt, passando per Gladstone si contesero la maggioranza del parlamento con i conservatori, in epoca vittoriana e nella prima metà del Novecento. Anche quello fu un esempio di bipolarismo impostato sul principio dell’alternanza e del fair play, tipicamente britannici. Le sue basi vennero scalzate con il sopraggiungere del Partito laburista che, alla fine della Seconda guerra mondiale, seppe sconfiggere i tories guidati da Churchill e mandare al numero 10 di Downing Street il loro leader, Clement Atlee. Da allora i liberali hanno vissuto una irrecuperabile perdita di consenso. Oggi i parenti alla lontana dei whigs, i Lid-dem, sembrano voler rivendicare l’eredità del liberalismo. Il partito, in realtà, ha assunto un volto più progressista.Tanto è vero che nasce dalla fusione nel 1988 tra il Partito liberale propriamente detto con quello social-democratico. Adottando i parametri di posizionamento politico italiani – forse un po’ anacronistici – potremmo dire che i Lib-dem sono un soggetto di centro/centro-sinistra. Il fatto però che abbiano rispolverato il celebre Sulla libertà di John Stuart Mill (1806-1873), come testo programmatico di riferimento, suggerisce eloquentemente la fedeltà del partito alle tradizioni liberali britanniche. La capacità proiettare queste nel Terzo millennio è poi dovuta al loro segretario, Nick Clegg appunto, che ha saputo mantenere compatti i Lib-dem per tutta la legislatura, portan-

do avanti una linea di opposizione autonoma rispetto a quella dei conservatori. Ora è riuscito anche a rendersi protagonista in un talk-show in cui ci si aspettava un confronto bilaterale ed esclusivo Brown-Cameron. Nick Clegg, classe 1967, eletto nel 2005 per la circoscrizione di Sheffield Hallam, è alla prima esperienza ai Comuni, precedentemente è stato membro del Parlamento europeo. È tutt’altro che un inglese “doc”, per lo meno secondo i canoni continentali. È cresciuto nell’Oxfordshire, insieme a due fratelli e a una sorella, una “famiglia allargata”, come è lui stesso a dire nel suo sito ufficiale.

Sua madre è olandese, suo padre per metà russo. Parla quattro lingue (inglese, francese, tedesco e spagnolo). È sposato con Miriam Gonzalez Durantes, avvocatessa spagnola di diritto internazionale. Lei vive a Londra con il marito, ma non ha la cittadinanza britannica. Lei è cattolica, lui si definisce schiettamente ateo. Hanno tre figli, Antonio, Alberto e Miguel: nessuno di loro ha un nome inglese. Clegg, per non smentire questa tendenza personale al multiculturalismo, ha studiato archeologia e antropologia a Cambridge, poi ha preso il PhD nell’Università del Minnesota (Usa) e ha concluso il suo cursus studiorum al prestigioso College d’Europe a Bruges in Belgio. Questo internazionalismo personalistico di Clegg forse può apparire eccessivo per l’elettore britannico medio. Tuttavia quella del Regno Unito è anche la società multietnica e multiculturale più all’avanguardia in Europa, capace in questo senso di tener testa anche a quella statunitense. Ormai i voti per il Parlamento vengono da cittadini che non rispondono più allo stereotipo anglosassone dell’operaio di Liverpool o dell’agricoltore dello Yorkshire. I membri delle comunità straniere che si sono perfettamente integrate nelle città inglesi quanto nelle campagne di Galles, Scozia e Irlanda del Nord costituiscono un esempio di melting pot unico nel nostro continente. Perciò non è detto che Clegg sappia andare a stimolare proprio questo tipo di interlocutori. A questo proposito, il leader liberal, quando era


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membro del Parlamento europeo, si impegnò nella realizzazione di alcuni progetti comunitari a sostegno dei Paesi dell’Asia centrale, incluse sia le repubbliche ex sovietiche sia Afghanistan e Pakistan.Vale a dire quelle aree che costituiscono l’origine dei più consistenti flussi migratori nei grandi centri industriali inglesi. Clegg quindi conosce bene la “nuova Inghilterra” e sa quali possono essere i canali di dialogo.

Sta di fatto che giovedì sera è riuscito bucare lo schermo. La stampa lo ha

Così come non ha incrociato la spada con il magnetismo di Cameron, che per molti è il Primo ministro in pectore. Sebbene l’altra sera il leader tory non abbia dato il meglio di sé. Clegg si è limitato a portare davanti alle telecamere il suo programma elettorale, concentrato sull’istruzione e in modo più ampio sulla necessità di offrire un nuovo assetto educativo alle ultime generazioni della società britannica. Ha sottolineato l’importanza della libera docenza, sia negli atenei sia nelle high school. Ha parlato di pene alternative

Madre olandese, padre per metà russo, moglie spagnola. Proprio questo spiccato multiculturalismo potrebbe costargli qualche voto elogiato non tanto per la verve di cui è famoso. Anzi, sembra che per l’occasione, inaspettatamente, abbia assunto un atteggiamento più moderato rispetto a quello usato nei comizi. Gli osservatori a Londra hanno detto che i suoi interventi sono stati semplicemente più efficaci rispetto agli altri. Clegg non si è confrontato nel campo dell’autorevolezza del Premier Brown, ben sapendo che questo – pur essendo dato per sconfitto dai bookmaker di Londra – resta comunque un politico dotato di una capacità di argomentazione di altissimo livello.

al carcere, per i giovani «per evitare che diventino i criminali del futuro». Il suo obiettivo quindi è, in un momento di profonda flessione economica in Gran Bretagna, ripartire dalla costruzione della prossima classe dirigente: preparata, dinamica, pronta ad affrontare esperienze di studi e professionali in tutto il mondo, per competere soprattutto con quella nordamericana. Clegg ha sfoderato così le sue armi migliori. Il background culturale e l’esperienza passata a Bruxelles gli permettono di avere un’inquadratura grandangolare per il Regno Unito, che si avvia alla pri-

ma legislatura post-Tony Blair, della quale né Brwon né Cameron forse sono dotati. La sua vittoria, per quanto inattesa, si è rivelata fulminea. Gordon Brown effettivamente paga personalmente le spese di un Partito laburista esausto dopo 13 anni di governo, durante i quali l’idea della “Terza via” di Anthony Giddens ha riscosso una grande successo all’inizio e poi ha subito una lenta svalutazione, anche in ambito internazionale, in particolare dopo il passaggio di consegne della premership da Blair al meno carismatico Brown. Peraltro quest’ultimo è famoso per non amare i dibattiti pubblici e per le sue scarse doti di comunicazione.

Il conservatore Cameron sta giocando proprio su questo punto e finora ha saputo definire una strategia oratoria del tutto innovativa, sia per i laburisti sia per il suo stesso partito. Si trova quindi una strada sostanzialmente spianata per arrivare a Downing Street. La coincidenza dell’età con Blair, 43 anni, quando nel 1997 divenne Primo ministro, lo ha portato a definirsi il “nuovo Tony Blair”. Colui che si impegnerà a far uscire il Paese dalle secche della crisi finanziaria che l’ha colpito pesantemente alla fine del 2008. Il suo programma elettorale infatti si concentra sui temi che maggiormente coinvolgono l’elettorato: immigrazione, tasse, sicurezza, economia, sanità e istruzione. Cameron ha saputo svecchiate il Partito conservatore, incagliato per vent’anni alla ricerca di una nuova figura della portata di Margaret Thatcher. Egli è stato l’espressione del ricambio generazionale in un movimento in cui spesso l’alta dirigenza era tenuta da over-50, un’età in Gran Bretagna considerata troppo avanzata per chiunque voglia farsi leader del Paese. Stiamo parlando di un Paese in cui la media anagrafica è esattamente di 40 anni, questo grazie alla presenza di comunità straniere in cui le famiglie sono solitamente più numerose di quelle britanniche. In questo senso, i quarantenni Cameron e

I Lib-Dem crescono L’effetto Clegg, stando ai sondaggi, c’è stato eccome. E non solo per quanto riguarda il gradimento relativo alla performance dei leader nello scontro preelettorale trasmesso giovedì sera dal canale televisivo Itv, ma anche nelle intenzioni di voto su scala nazionale. I Liberal-Democratici - rivela un’indagine condotta da ComRes per Itv - hanno infatti guadagnato 3 punti percentuali in ventiquattr’ore salendo così al 24 per cento dei consensi. I Conservatori vengono dati invece stabili al 35 per cento mentre il New Labour fa registrare il 28 per cento (con un calo di un punto). Per quanto riguarda invece i sondaggi “istantanei” elaborati riguardo la prestazione dei leader, il consenso attribuito ieri sera a Nick Clegg da Itv - 43 per cento - è d’altra parte persino “risicato” rispetto ai dati pubblicati oggi da altri istituti demoscopici. Per YouGov, infatti, Clegg è stato valutato positivamente dal 51 per cento dei telespettatori - il leader dei conservatori David Cameron si è fermato al 29 per cento, e il premier laburista Gordon Brown al 19 per cento - mentre Populus gli ha addirittura assegnato il 61 per cento degli apprezzamenti relegando Cameron al 22 per cento e Brown al 17 per cento.

Clegg non hanno dovuto fare molti sforzi per bloccare il 59 enne Primo ministro uscente. D’altra parte a suo tempo Blair disse di sé di voler raccogliere lo scettro della Thatcher. La dichiarazione fece rabbrividire i laburisti più convinti, ma tornò vantaggiosa al Primo ministro in termini di popolarità. Cameron, essendosi incoronato come il discendente di Blair, sembra voler utilizzare la stessa tattica comunicativa del riferimento “incrociato” a un ex leader di tutt’altra estrazione ideologica. È difficile però che il meccanismo funzioni anche stavolta.Tanto più che gli atteggiamenti del leader tory sembrano essere studiati a tavolino proprio per ragioni populistiche.

Ieri i sondaggi iniziavano a registrare l’entusiasmo dei telespettatori di fronte a un Clegg che si è dimostrato l’“uomo nuovo”, ma soprattutto genuino, e quindi l’alternativa sia ai laburisti sia a un Cameron, che si sta atteggiando forse esageratamente a essere l’erede di Blair. Il voto è solo fra tre settimane e il maggioritario a turno unico – anch’esso baluardo del sistema Wastminster – non permette una rimonta e un sorpasso sui conservatori da parte dei liberaldemocratici in tempi così brevi. È anche vero però che il partito di Clegg, oltre a rappresentare il terzo gruppo per importanza ai Comuni, già ora dispone del 10% di preferenze su scala nazionale: dalla Camera dei Lord ai Parlamenti di Scozia e Galles. Considerando la vittoria dei conservatori come un dato di fatto – sarà così? – l’opportunità che verrebbe a crearsi sarebbe un testa a testa per chi guiderebbe l’opposizione, se i laburisti, oppure la new entry Lib-dem.



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