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ISSN 1827-8817 00603

he di c a n o r c

Le opinioni dell’uomo medio sono

molto meno stupide di quel che sarebbero se pensasse con la sua testa Bertrand Russell

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 3 GIUGNO

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Palazzo di vetro chiede un’inchiesta internazionale, Obama frena e dice che la deve fare lo stato ebraico

Tutti gli ipocriti del mondo Non solo l’Onu, come ha detto Gerusalemme, ma anche Usa,Turchia, Hamas e lo stesso Netanyahu da due giorni danno vita a un balletto di bugie e non detti che allontana la pace LITI TRA DIPLOMAZIE

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Intorno a Gaza la prima vittima è la verità

ncora forti tensioni nel mondo: l’Onu chiede un’inchiesta internazionale sulla forzatura del blocco navale intorno a Gaza mentre Obama frena l’irruenza di Erdogan che chiedeva una risoluzione che condannasse il comportamento di Israele come «terrorismo di Stato». Anche il Papa è intervenuto sulla vicenda, segnalando che nel mondo «la violenza genera violenza».

A

di Giancristiano Desiderio ipocrisia vince su tutto e tutti. Vince sugli israeliani che sanno benissimo di aver esagerato. Vince sui palestinesi e su Abu Mazen che sanno benissimo che le navi della “Freedom Flotilla” non sono pacifiche.Vince sul presidente turco Erdogan che paragona il raid israeliano all’11 settembre e parla di una “nuova era” chiedendo all’Onu una punizione esemplare per Israele. Vince sugli Stati Uniti che con il segretario di Stato Hillary Clinton ribadiscono che «va rispettata l’esigenza israeliana di sicurezza tanto quanto le richieste palestinesi di assistenza umanitaria e l’accesso regolare ai mezzi di ricostruzione». Vince su tutti noi quando ci illudiamo sia possibile costruire la pace in Medioriente. La realtà dei fatti, da tanto, smentisce le nostre attese ormai ingiustificate. a pagina 2

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Gerusalemme si interroga sull’eccesso di tensione

Le paure di Israele «Siamo uno Stato in allarme perenne: perché qui siamo rimasti soli» Ely Karmon, esperto di antiterrorismo e il portavoce del Likud in Italia Jonathan Pacifici spiegano qual è la strategia del governo Antonio Picasso • pagina 4

Parla Lucio Caracciolo

«Se Erdogan gioca a fare Ahmadinejad» di Pierre Chiartano «Il Medioriente è il luogo del mondo dove l’ipocrisia può fare i danni maggiori», dice Lucio Caracciolo. E, in questo contesto, ora il pericolo viene dal premier turco che «improvvisamente si è scoperto estremista. Quasi un altro Ahmadinejad». a pagina 3

Scontro anche sui conti: per l’Fmi senza interventi sulla crescita, tagli inutili

Intercettazioni, ultimatum di Fini No al segreto di Stato: la «corrente» detta le condizioni al Pdl di Riccardo Paradisi

Servono misure specifiche per il rilancio italiano

La maggioranza è sempre più in fibrillazione. Sia sul ddl che dovrebbe regolare le intercettazioni (i fedelissimi di Fini sono pronti a votare no se sarà mantenuto il segreto di Stato sulel stragi), sia sulla manovra economica, specie dopo che l’Fmi l’ha giudicata troppo debole sul fronte della crescita. Il vertice del Pdl non ha trvoato soluzioni. a pagina 8

Non ci serve una manovra scritta solo a Bruxelles

EURO 1,00 (10,00

di Francesco D’Onofrio Riduzione del deficit; riduzione del debito pubblico; crescita complessiva dell’economia nazionale: sono questi i tre obiettivi strategici per evitare che, prima o dopo, anche l’Italia finisca con il diventare obiettivo della speculazione internazionale, come è avvenuto per la Grecia.

Una variazione economica sull’Unità d’Italia

Storia della Lira e dei suoi (primi?) 140 anni La nostalgia per la nostra vecchia moneta non si è mai spenta del tutto. La sua è una storia gloriosa che la mette accanto a Garibaldi e a Cavour. Ora l’Euro l’ha mandata in pensione. A meno che... di Giancarlo Galli e con l’aria che tira in Europa, la maggioranza dei cittadini tedeschi (dicono i sondaggi) è divenuta nostalgica del Marco, mentre non manca ai vertici della tecnocrazia finanziaria europea chi vorrebbe punire la Grecia indebitatissima e spendacciona, estromettendola dall’Euro ed obbligandola a riesumare la vecchia dracma, anche in Italia, sia pure sottovoce, sono cominciate le riflessioni attorno ad un’ipotesi: e dovessimo tornare alla Lira? Ora che si celebrano i 150 anni dell’Unità, la memoria va proprio alla moneta con cui quell’unione si compì.

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CON I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

106 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

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19.30


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pagina 2 • 3 giugno 2010

Il vero rischio è quello di scatenare un “tutti contro tutti” che, nel Terzo Millennio, sarebbe estremamente pericoloso

Ipocrisia Medioriente

Le reazioni internazionali dopo l’attacco alla flottiglia diretta verso Gaza dimostrano che le diplomazie mascherano solo giochi di potere di Vincenzo Faccioli Pintozzi lcuni la chiamano realpolitik, altri diplomazia. Ma sembra semplicemente ipocrisia, questa volta su scala mondiale. Mentre vengono liberati tutti gli attivisti a bordo della Freedom Flotilla, compresi i sei italiani, e il mondo arabo invita alla terza Intifada, stupisce più che altro la reazione delle diplomazie internazionali. E la mancanza di verità - o di semplice obiettività - che ha trasformato il palco dei rapporti fra Stati in curve da stadio, dove non esiste moderazione. Eccezion fatta, ovviamente, per le bilance commerciali che regolano i rapporti fra le capitali: quando si parla di denaro, come dimostrano gli investimenti occidentali nel mondo della finanza islamica, le polemiche urlate sembrano essere temporaneamente messe da parte. Ma l’attacco del 31 maggio, la morte di nove persone per mano di soldati di uno Stato mediorientale, i motivi alla base del loro viaggio e il reale contenuto delle loro stive hanno segnato una nuova pagina nel grande libro dei rapporti uma-

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ni. La vittoria dell’ipocrisia. Il caso più eclatante di questa nuova teoria, scritta nelle pagine delle cronache internazionali, è senza alcun dubbio rappresentato da Washington e dalla sua nuova Amministrazione. Ricevendo un infuriato ministro turco degli Esteri, la Clinton ha in qualche modo calmato la sete di sangue di Ankara: uscendo dall’incontro, ha detto che la situazione a Gaza è «inaccettabile. Così com’è non può durare» e ha aggiunto che il suo Paese si aspetta la massima chiarezza da parte di Israele sull’accaduto. Poche ore dopo, in conferen-

Ogni Paese ha la propria versione dei fatti, e nessuno vuol dialogare con gli altri

Tra attacchi e martiri, la prima vittima è la verità

za stampa, il portavoce di Obama Robert Gibbs ha invece preferito dire: «Il blitz israeliano dimostra che la pace in quella regione è più necessaria che mai». Mettendo in chiaro che l’inchiesta internazionale sull’accaduto, richiesta e votata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dovrà essere guidata da Israele.

di Giancristiano Desiderio ipocrisia vince su tutto e tutti. Vince sugli israeliani che sanno benissimo di aver esagerato. Vince sui palestinesi e su Abu Mazen che sanno benissimo che le navi della “Freedom Flotilla” non sono pacifiche.Vince sul presidente turco Erdogan che paragona il raid israeliano all’11 settembre e parla di una “nuova era” chiedendo all’Onu una punizione esemplare per Israele.Vince sugli Stati Uniti che con il segretario di Stato Hillary Clinton ribadiscono che «va rispettata l’esigenza israeliana di sicurezza tanto quanto le richieste palestinesi di assistenza umanitaria e l’accesso regolare ai mezzi di ricostruzione». Vince su tutti noi quando ci illudiamo sia possibile costruire la pace in Terra Santa e Medioriente. La realtà dei fatti da tanto tempo, troppo tempo si incarica di smentire le nostre attese. Ingiustificate. Perché ipocrite.

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La dinamica della battaglia navale e aerea al largo della Strisca di Gaza non è chiara. Credere che potrà essere chiara con un’inchiesta tempestiva è, ancora, vana ipocrisia. Anche se non sappiamo per filo e per segno come siano andati i fatti, sappiamo però bene come non potevano non andare. È questo un caso esemplare in cui la verosimiglianza è più utile e giusta della verità ufficiale che potrà essere partorita da una o più inchieste e dalle stesse immagini dei video ora dei “pacifisti” ora degli israeliani. I soldati israeliani si sono calati sulla nave turca con le peggiori intenzioni di quel mondo senza pace: quei soldati sapevano benissimo che alla minima reazione o alla mini-

ma violenza avrebbero risposto con le armi e uccidendo se non volevano rimetterci la pelle. I soldati - pensatela come volete - sono gli unici in questa storia a non essere ipocriti. A loro volta i pacifisti - e tra loro c’e-

rano non pochi pacifisti che già avevano rifornito i palestinesi di armi più che di pane - sapevano molto bene che la violazione dell’embargo avrebbe provocato l’intervento militare del governo di Tel Aviv. Tutto quanto è accaduto è semplicemente comprensibile. Mentre sono incomprensibili le parole di meraviglia, di sdegno, di condanna perché sono fuori dalla realtà. La realtà è semplice nella sua crudezza: Israele si difende, i palestinesi vogliono i martiri. Chiudere gli occhi su questo mondo insanguinato che non vuole la pace ed è in guerra permanente da oltre mezzo secolo non aiuterà quello che con enfasi si chiama “processo di pace”.

Lo Stato ebraico è circondato da un mondo minaccioso che lo vorrebbe eliminare. Il blocco navale a Gaza ha una sua funzione precisa: non serve per alimentare il turismo ma per evitare e impedire che le armi cadano nelle mani di Hamas (come ha ricordato il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, forse l’unico a non ripiegare sulla ipocrisia). La situazione non piace a nessuno, ma è questa. Il raid israeliano farà sentire i suoi effetti, che non sono a favore di Israele, soprattutto per la posizione risentita della Turchia. Tuttavia, le parole di ipocrisia non aiutano a comprendere e soprattutto a risolvere. Può darsi che la diplomazia non possa fare a meno della retorica e del linguaggio convenzionale dell’ipocrisia. Può darsi, addirittura, che la irruzione della verità nella realtà possa essere anche più pericolosa e che, quindi,

una percentuale di ipocrisia sia necessaria alla stessa vita diplomatica e civile.Tuttavia, ci si chiede se non sia proprio l’ipocrisia mondiale ad essere uno dei motivi di tormento e agitazione che fanno del medio-oriente e della guerra tra israeliani e palestinesi un caso impossibile da risolvere.

Ma anche la Turchia è animata dalla stessa ipocrisia: al mondo mostra una faccia dura, chiede punizioni esemplari e ulula alla luna, ma al proprio interno – e attraverso i canali che non passano per i media – i toni sono diversi. E si capisce come sia ancora forte nel Paese quella componente kemalista, laica e filo-europea, che i legami con Israele e l’Occidente li vuole mantenere a tutti i costi. Ed ecco che, magicamente, si arriva a comprendere che i denti scoperti verso Tel Aviv sono soltanto un modo (ipocrita) per riguadagnare la fiducia del mondo arabo dopo il “peccato originale” di essere stato il primo ad avere riconosciuto diplomaticamente Israele. Ecco perché Erdogan gioca a fare Ahmadinejad: perché teme di ve-

L’esempio meno edificante è quello Usa: il capo della diplomazia condanna “duramente”, mentre il presidente invita alla pazienza dersi sfilare da sotto il naso l’ingresso nell’Unione europea e di rimanere quindi solo, senza neanche più l’appoggio di quei Paesi della propria regione. L’ultimo ipocrita di questa tornata di giro è proprio Israele, che non è riuscito - non questa volta - a indossare con convinzione il manto della vittima illibata. L’attacco alle navi, scrivono i media israeliani di ieri, «è un’operazione talmente sbagliata che potrebbe essere giustificata soltanto se si cercasse una guerra totale con l’Iran». E la pretesa secondo cui quelle sette navi erano composte da pericolosi terroristi, e non attivisti, non convince neanche il quotidiano Haaretz. Che, dopo aver definito i ministri del Gabinetto Netanyahu “degli idioti”, scrive: «Quelle navi non


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Per Lucio Caracciolo, il premier turco sta approfittando della crisi

«E ora Erdogan vuole scavalcare Teheran»

Finito il progetto d’alleanza tra sunniti e Gerusalemme voluto da Bush, rimangono solo le parole di Obama di Pierre Chiartano bbiamo chiesto al direttore di Limes, Lucio Caracciolo le conseguenze dell’incidente della Freedom Flotilla sugli equilibri mediterranei e mediorientali. «Sicuramente è un fatto che la Turchia sia ormai un nemico dichiarato d’Israele e viceversa. Due Paesi che sono stati, per molti anni, degli alleati fondamentali nella regione. Per Israele è una perdita secca. Tanto più che la Turchia non rappresenta solo uno Stato, ma una vasta rete d’influenza nel mondo mediorientale, sia arabo che iraniano. Penso ai rapporti tra Turchia, Russia e i Balcani. Ankara non rappresenta solo uno Stato che conta, ma è una potenza molto influente. Inoltre sta strumentalizzando la crisi con Gerusalemme per presentarsi al mondo musulmano come il Paese antiIsraele. Facendo persino un po’ d’ombra ad Ahmadinejad. Erdogan usa questa crisi per cementare il consenso interno. Basta vedere le manifestazioni e il sentimento generale che c’è in Turchia. E si presenta come il campione dei nemici di Gerusalemme. Mantiene un piede in Occidente, ma si muove liberamente nel resto degli scenari. Una politica pericolosa, ma che fino ad ora ha dato dei risultati». Erdogan viene visto come un faro da tutti in Medioriente, leader politici e gente comune. Il premier turco aveva sempre giustificato la crisi della vecchia alleanza con motivazioni diplomatiche. In pratica i legami con Israele – che erano soprattutto militari – funzionavano all’interno del quadro fornito dal processo di pace di Oslo. Al di fuori di questa cornice, sosteneva il leader turco, diventava difficile sostenere le ragioni di un’alleanza. «Erdogan quando sosteneva queste tesi parlava con lingua biforcuta. Ed è caduta anche la premessa, perché ormai da molti anni il processo è morto». L’alzata di scudi di Erdogan è un segnale che ormai il kemalismo, di cui i militari sono stati gelosi custodi, è definitivamente tramontato. «Noi europei abbiamo ampiamente contribuito alla fine del kemalismo. Erdogan ha utilizzato l’Europa un po’ come noi utilizzammo l’euro ai tempi del vincolo esterno. Lui aveva detto ai militari che voleva entrare in Europa. L’Eu chiedeva di fare riforme e diventare più democratici, di ridimensionare il ruolo dei militari. ”Per amor di patria retrocedete”. Un clima che ha aiutato notevolmente a legittimare le riforme antimilitariste dell’Akp negli ultimi anni. Tanto è ve-

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Alcune scene del raid con cui Israele ha fermato le sette navi della Freedom Flotilla. Avvenuto in acque internazionali, l’intervento si è concluso con la morte di nove attivisti pro Palestina. A destra, Lucio Caracciolo

erano piene di pacifisti, ma neanche piene di terroristi. E aver cercato lo scontro arrivando a sparare fa dubitare delle buone intenzioni del nostro esercito».

Ed ecco l’ipocrisia di un Paese che si dibatte per affermare armi in mano la propria identità (e che sicuramente ci è stato costretto), ma che ormai non riesce più a farne a meno. L’ipocrisia di chi sale su una nave, spara e poi tira in ballo un antisemitismo mondiale per giustificarsi. Israele, o almeno una parte di coloro che siedono al comando della nazione, fa finta di non capire che non esistono

sempre delle giustificazioni che siano inattaccabili, e non pensa sia più necessario arrivare a scusarsi per qualcosa. Con la conseguenza - poi definita “ipocrita” - di venire censurati dal mondo intero. Se questo uso della diplomazia dovesse mantenersi intatto - se le feluche di tutto il mondo dovessero continuare a pensare che il loro ruolo è quello di salvare sempre e solo capra e cavoli - non ci possiamo aspettare altro che una radicale modifica dei rapporti mondiali. Un “tutti contro tutti” che, specialmente in aree calde come il Medioriente, rischia di essere estremamente pericoloso per tutti noi.

ro che le divise hanno perso gran parte del potere che avevano in precedenza». Il Mediterraneo è un mare difficile violento e centro di un grande gioco e che non si è fermato neanche durante la guerra fredda. «Obama ha sicuramente rotto il disegno politico degli ultimi due anni di Bush, cioè di costruire un’alleanza tra Israele e i sunniti, arabi e non arabi, per contenere l’Iran. Ormai i Paesi mediorientali stanno ragionando secondo logiche diverse e a prescindere dal contenimento di Teheran. Danno già tutti per scontato che l’Iran sia una potenza nucleare di fatto. Questo accentua l’isolamento d’Israele e la situazione di pericolo che vive. Una volta che gli iraniani avessero l’arma atomica i primi a seguire sarebbero i turchi. Si potrebbe creare un effetto domino. Gerusalemme non solo perderebbe il monopolio del nucleare, ma vedrebbe introno a se fiorire potenze atomiche non esattamente amiche». La nuova dottrina di Obama è appena partita, specialmente quella delle nuove alleanze, per alcuni si tratta di aspettare affinché possa funzionare. Ma Caracciolo non è così ottimista.

«La differenza fondamentale tra Bush e Obama è che il primo faceva sostanzialmente ciò che diceva. Mentre Obama afferma una cosa e ne fa un’altra. Il nuovo presidente segue una politica di lotta al terrorismo – anche se gli ha dato un altro nome – abbastanza simile a quella del suo predecessore. Per certi a spetti anche più muscolosa. Lo fa mentre lancia grandi aperture verbali al mondo arabo e persiano». Mano tesa e dito sul grilletto. «Una dicotomia molto pericolosa. Obama in questo momento non ha un’influenza determinante in quell’area. Una situazione che potrebbe durare per tutta la presidenza». Sì, ma a quale prezzo? «Il prezzo lo stanno già pagando con la perdita potere. Non sanno incidere sugli alleati come Israele e neanche sui Paesi musulmani per indirizzare una politica comune». Cambiano gli equilibri intorno al Mediterraneo, ma il ruolo dell’Italia potrebbe cambiare o siamo destinati a rimanere ininfluenti? «Siamo un Paese mediterraneo solo proforma. L’ultima delle direttrici che seguiamo nella nostra politica estera è proprio quella mediterranea. Sembra paradossale, ma è così. Non parliamo poi di economia commerci e affini».

È un fatto che la Turchia sia ormai un nemico dichiarato d’Israele e viceversa. Due Paesi che sono stati, per anni, degli alleati fondamentali nella regione. Per Israele è una perdita secca


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l’approfondimento

Gerusalemme si interroga su come uscire dall’impasse internazionale e su che cosa c’è nella mente di Netanyahu

Le Parole della Paura

Un analista dell’antiterrorrismo e il portavoce del Likud raccontano come si sta in un Paese costretto a vivere sempre sotto pressione militare. E con il terrore costante di essere «a rischio di estinzione» di Antonio Picasso pocrisia, contraddizioni e soprattutto uno scenario fluido in cui tutto può accadere. È questo il quadro geopolitico delineato da alcuni osservatori israeliani, in merito alla vicenda della Flottiglia attaccata dalla loro Marina militare nelle acque di fronte a Gaza. «C’è una spiegazione al comportamento sia della Turchia sia a quello degli Stati Uniti», dice Ely Karmon, senior researcher all’International Institute for Counter Terrorism (Ict) di Herzliyla, Israele. «L’atteggiamento del governo Erdogan è l’ultima mossa di una strategia che il partito Akp aveva definito con l’assunzione del potere nel 2002. Temendo le pressioni delle Forze armate e con esse l’influenza delle correnti secolariste-kemaliste che ispirano le leggi della Repubblica turca, l’esecutivo turco ha seguito il flusso di corrente del suo elettorato». Karmon pone l’accento su un fenomeno che si sta verificando sia ad Ankara sia a Istanbul. E che si percepisce nell’entrare in contatto con la

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dinamica metropoli che si affaccia sul Bosforo. Si tratta di un’impropria e controproducente sovrapposizione di conservatorismo e islamismo. Il primo è di stampo laico e incline a rivedere le basi ideologiche dello Stato fondato da Ataturk. L’obiettivo di Erdogan e del presidente Gul è quello di riabilitare ciò che di positivo aveva creato l’Impero ottomano ancora nel XIX secolo. Il secondo invece ha un’impronta schiettamente religiosa. «Tra questo e le posizioni dei movimenti islamici attivi in Medio Oriente il passo è breve», dice ancora il professore israeliano. «Soprattutto se le istituzioni di Ankara sono vincolate da un patto di preferenza che l’elettorato gli ha concesso». Rivitalizzare i valori di un mondo crollato nel 1918 non è semplice e le trappole sono ad ogni passo. L’Akp può essere travisato facilmente dalla stessa opinione pubblica nazionale e le sue idee interpretate come di ispirazione religiosa. «Questo processo però è la dimostrazione che la Turchia

sta percorrendo un cammino intricato e lento verso la democrazia». Un cammino in cui inevitabilmente si inciampa in contraddizioni ed errori politici.

Ben più severo è il giudizio di Jonathan Pacifici, portavoce del Likud per l’Italia. «L’operazione della flottiglia di Marmara nasce da una scelta deliberata del governo Erdogan, pilotata dalle istituzioni turche, le quali evidentemente preferiscono supportare il terrorismo e andare a braccetto con gli Ayatollah di

«Non temiamo la terza Intifada, ma le armi atomiche degli ayatollah»

Teheran». «Se la Turchia vuole questo, Israele non può che prenderne le distanze». E aggiunge l’esponente italo-israeliano: «In questo caso però Ankara paga con il sangue dei suoi connazionali le scelte spregiudicate che sta adottando». Per quanto riguarda Washington, Karmon è sicuro che, a questo punto, la politica estera dell’Amministrazione Obama sia giunta a un punto di svolta. «Proprio un anno fa il Presidente Usa arrivava in Medio Oriente, per parlare al mondo arabo

dal pulpito dell’Università islamica di al-azhar al Cairo e offrirgli un ramo di ulivo. È ancora disposto a porgere questa opportunità?» la domanda è retorica. Un osservatore attento com’è Ely Karmon non dimentica la crisi diplomatica sorta tre mesi fa circa fra la Casa Bianca e il Governo Netanyahu. Ed è sulla base di questi precedenti che si imposta la sua polemica. «Gli Usa dovranno per forza cambiare atteggiamento». Una conclusione, questa, che implica quanto Israele si senta di avere ragione a proseguire con la sua intransigenza nei confronti dell’Autorità palestinese, divisa al suo interno fra Fatah e Hamas, e contro il “pericolo nucleare iraniano”. «È vero, non facciamo sconti a nessuno», dice anche Pacifici. «Ma nemmeno a noi stessi. Israele ha già dimostrato di possedere gli anticorpi democratici per far pagare gli errori a chi ne è responsabile. Il fallimento delle ultime due guerre (la prima contro Hezbollah nel 2006, l’ultima contro Hamas nel 2009 ndr) ha fatto cadere il Ca-


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Il discorso del presidente al Cairo e la mano tesa all’Iran hanno cambiato molte cose

E Obama scoprì quant’è duro essere il miglior amico di Tzahal Quello di lunedì è soltanto l’ultimo di una serie di avvenimenti che hanno messo a dura prova la storica alleanza con Washington di Paul Richter l fatale attacco del commando israeliano di questa settimana che ha sollevato condanne in tutto il mondo verso il governo di Netanyahu è stato anche un avviso al presidente Obama di quanto sia difficile essere il migliore amico di Israele. Il raid, che ha provocato l’uccisione di nove attivisti filo-palestinesi sulla nave soccorso diretta a Gaza, ha gettato dei dubbi sui colloqui per la pace promossi dagli Stati Uniti, ed ha fatto vacillare la spinta sostenuta dagli Stati Uniti per nuove sanzioni contro l’Iran da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Quel che è peggio è che si è trattato dell’ultimo esempio di come la relazione Stati Uniti-Israele abbia complicato l’agenda estera del presidente. «I costi di allineamento con Israele stanno diventando più evidenti, mentre sta diventando più difficile individuarne i benefici», ha detto James Dobbins, che è stato un inviato sia per l’amministrazione Clinton che per l’amministrazione Bush e che attualmente è a capo della Rand Corporation’s Security e del Defense Policy Center. Obama ha iniziato il suo mandato presidenziale con una brusca rottura rispetto all’approccio estero del suo predecessore, il Presidente George W. Bush, ed ha viaggiato in tutto il mondo per ristabilire la credibilità degli Stati Uniti. Il presidente ha guadagnato punti per avvicinarsi ai musulmani con l’importante discorso al Cairo dello scorso anno, avendo lavorato duramente per neutralizzare i furiosi sentimenti antiamericani scaturiti per la maggior parte dalla guerra in Iraq. Tuttavia la rabbia ha continuato a ribollire a causa del sostegno degli Stati Uniti all’incursione di Israele a Gaza dal 2008.

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L’attacco di questa settimana ha evidenziato una questione espressa nella recente testimonianza al Congresso dal Generale David H. Petraeus, capo dell’Esercito degli Stati Uniti in Medio Oriente, il quale ha dichiarato che la percezione dell’influenza degli Stati Uniti nei confronti dello stato ebraico ha rappresentato un fattore negativo nel mondo musulmano. Il sostegno degli Stati Uniti allo stato di Israele, diplomaticamente isolato, è stato paragonato al sostegno della Cina al suo alleato, la Corea del Nord. Molti hanno suggerito che l’amministrazione Obama segua lo stesso consiglio che suggerisce liberamente alla Cina: invece di proteggere il suo alleato minore, dovrebbe adottare una pressione costruttiva. Infatti i tentativi che lunedì sera hanno compiuto i diplomatici statunitensi per indebolire una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro Israele hanno ricordato il recente tentativo della Cina di reprimere la stessa istituzione dopo i presunti attacchi con siluri da parte della

Corea del Nord alla Corea del Sud.Con la crescente disapprovazione per l’incidente e per l’insufficiente risposta degli Stati Uniti, il segretario di stato Hillary Clinton mercoledì ha invocato «risposte attente, meditate da parte di tutte le parti coinvolte». La flottiglia di aiuti per Gaza era partita dalla Turchia, dove i governanti erano irritati dalla diplomazia americana. Il ministro degli esteri Turco, Ahmet Davotoglu, in visita ufficiale negli Stati Uniti ha paragonato il raid di Israele agli attacchi dell’11 settembre. «Ci aspettiamo che gli Stati Uniti ci dimostrino solidarietà», ha dichiarato nel corso di un pranzo a Washington. La Turchia è un alleato Nato degli Stati Uniti ed ha svolto un ruolo importate per i tentativi militari degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan. I dirigenti statunitensi hanno riconosciuto che lo stesso Obama si sente a disagio per il continuo blocco di Gaza, che ha rappresentato una continua fonte di crescente risentimento internazionale. Obama si è appellato ripetutamente ai dirigenti di Israele affinché inviassero soccorsi. Tuttavia egli ha anche accolto le repliche di Israele secondo cui la loro sicurezza sarebbe a rischio se i militanti di Ha-

mas, nuovamente armati, cominciassero a lanciare missili da Gaza nel territorio israeliano. Benché gli Stati Uniti siano ufficialmente membri di un gruppo diplomatico chiamato il “quartetto” che lavora per promuovere la pace tra arabi e israeliani, molti diplomatici considerano che gli americani siano l’unico fattore significativo nel gruppo. Joschka Fischer, che è stato ministro degli esteri tedesco, recentemente ha ironizzato sul fatto che in verità si tratta di un quartetto “meno tre”, perché gli Stati Uniti hanno più influenza degli altri membri, Nazioni Unite, Unione Europea e Russia.

L’inadeguatezza della relazione Stati Uniti-Israele era evidente anche nel programma di assoluta priorità dell’amministrazione per ridurre gli arsenali nucleari e fermare la proliferazione nucleare. Nel corso di riunioni svolte lo scorso mese presso le Nazioni Unite, i dirigenti statunitensi hanno disperatamente sollecitato l’adozione di una dichiarazione finale che proclamasse un forte sostegno ai passi necessari per limitare gli arsenali nucleari. Ma altre nazioni hanno chiesto che Israele svolga un ruolo più attivo nel tentativo di ridurre le armi nucleari, un riferimento all’arsenale atomico che Israele non ha mai riconosciuto di possedere. Israele non è tra i firmatari del Trattato di Non Proliferazione Nucleare. I dirigenti statunitensi non volevano che si scegliesse solo Israele, ma non volevano nemmeno che il tentativo di non proliferazione andasse in fumo. Alla fine, i dirigenti statunitensi concordarono sull’inserimento nel documento di unico riferimento ad Israele che stabilisse la necessità che Israele si unisca al trattato. Nonostante gli svantaggi, i dirigenti statunitensi insistono sul fatto che non considerano la loro relazione con Israele come un fardello, senza tenere conto delle critiche dal Medio Oriente, dall’Europa o di altri paesi. «Voglio essere chiaro – ha dichiarato martedì il portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs – la nostra è una relazione fidata. Israele è un alleato importate e lavoriamo a sostegno della sua sicurezza. Questo non cambierà».

po di Stato Maggiore delle Forze Armate, il Ministro della Difesa e alla fine l’intero esecutivo guidato da Olmert. Perché? Perché entrambe le operazioni erano state gestite male sia politicamente sia militarmente». Tutto questo per dire che l’ultimo scontro di domenica notte avrà delle ripercussioni interne? «Non lo escludiamo», replica Pacifici. «È possibile che l’operazione non sia stata condotta con la accortezza adeguata da parte dello Stato Maggiore della Marina. Comunque l’inchiesta interna che verrà aperta saprà far luce sulle eventuali mancanze».

Il portavoce del Likud insiste su un messaggio da trasmettere: «Israele è una democrazia, che vive in uno stato di continua belligeranza. Se qualcuno tenta di forzare il blocco navale di fronte a Gaza, le nostre forze di sicurezza si attivano per evitare che al nemico giungano armi. Tuttavia siamo i primi a voler evitare che i nostri ragazzi in divisa paghino con la loro vita questa condizione di guerra alla quale l’intero Paese è sottoposto». Pacifici si sofferma poi sull’interpretazione attribuita ai fatti di domenica da parte dei media occidentali. «A costo di essere ripetitivi – dice – vogliamo ricordare all’Europa che nel 1938 nessuno volle ascoltare gli evidenti segnali di guerra. Oggi siamo nella stessa situazione, lo ha detto a chiare lettere Netanyahu». Per il Likud, ma anche per una parte più consistente dell’opinione pubblica israeliana, il pericolo iraniano è della stessa portata di quello che perveniva dalla Germania nazista. «Tutto è frutto di un antisemitismo che non è mai morto». Aggiunge ancora. «E chi attacca Israele dal mare o da terra, con le armi o con gli strumenti della politica, lo fa perché è ispirato da questa idea malvagia». Quella del portavoce del Likud è una prospettiva di parte. Inevitabilmente nasce da un calcolo e da una strategia di comunicazione politica. Questo non significa che abbia minor peso. Tutt’altro. Essa rappresenta la prospettiva ufficiale del governo israeliano. Nelle dichiarazioni di Pacifici sono racchiusi i timori percepiti e gli appelli che il Paese lancia ai suoi alleati in Europa e negli Usa. Timori e appelli che nascono dalle previsioni di chi analizza la situazione, come Ely Karmon. «Noi non abbiamo paura di una terza Intifada. Pensiamo che non ci siano gli interessi da parte delle forze palestinesi in gioco. La paura è legata invece a forze esterne come l’Iran, oppure a casi di vendetta incontrollabili che possono emergere in seno alla popolazione araboisraeliana, la quale vive con noi, nelle nostre stesse città e rischia di perdere il controllo di se stessa di fronte a iniziative simili a quella di Gaza».


diario

pagina 6 • 3 giugno 2010

Exploit. Alle elezioni amministrative in Sardegna l’Udc fa registrare un ottimo risultato contribuendo alla vittoria in molte realtà

«Garantiamo governabilità»

Lusetti: «Il partito che stiamo costruendo si candida a essere una forza attrattiva» ROMA. L’Udc primo partito a Iglesias e sopra il 10 per cento in molte province e comuni della Sardegna. È questo il responso che hanno dato le urne nella tornata elettorale amministrativa dell’ultimo weekend. Un risultato che ha fatto dire a Pier Ferdinando Casini: «le percentuali riportate dall’Udc nelle elezioni in Sardegna certificano la forza del nostro partito in tutta l’isola e la grande vitalità del nostro progetto nazionale».

l’Udc «dove è percepita come possibile alternativa può diventare la seconda o la prima forza politica. E le percentuali lo dimostrano». Una conferma del ruolo che i centristi stanno assumendo nel panorama politico italiano e, infatti, per Lusetti se «il partito che stiamo costruendo dimostra di essere in grado di garantire stabilità e governabilità si candida a essere una forza attrattiva».

di Franco Insardà

Il risultato di Iglesias per Casini è stato «un vero e proprio exploit, per il quale mi sento di ringraziare i nostri dirigenti locali e soprattutto i tanti cittadini sardi che ci hanno dato fiducia». Renzo Lusetti, responsabile degli Enti locali dell’Udc, dopo aver chiarito che «al momento tutte le cariche sono azzerate», aggiunge: «A Iglesias l’autorevolezza e il carisma del segretario regionale Giorgio Oppi hanno contribuito a ottenere quel risultato. C’è, comunque, da parte del partito grande soddisfazione per i risultati ottenuti in tutta la regione che hanno consentito all’Udc di aumentare i consensi rispetto alle regionali». Lusetti ci tiene a sottolineare che queste elezioni hanno evidenziato «che dove si vince in Sardegna lo si fa grazie all’apporto dell’Udc all’alleanza con il centrodestra, nonostan-

Soddisfatto il segretario regionale Saverio Romano

Decisivi anche in Sicilia ROMA. La soddisfazione di

facendo registrare «un evidente balzo in avanti nella maggior parte delle realtà al voto, sia rispetto alle scorse provinciali si alle ultime elezioni regionali».

Lorenzo Cesa: «Congratulazioni all’Udc sarda per il lusinghiero risultato ottenuto. Nel comune di Iglesias siamo il primo partito» te un calo dei votanti e una flessione dei consensi del Pdl». Alle critiche che il segretario del Pd sardo, Silvio Lai, ha rivolto all’Udc per aver appoggiato il Pdl Lusetti replica: «Le alleanze bisogna costruirle e non mi sembra che in Sardegna si sia messo in campo da parte del Pd un progetto condivisibile a partire dalle Regionali dell’anno scorso». Lo stesso segretario nazionale Lorenzo Cesa si è congratulato con l’Udc sardo per «il lusinghiero risultato ottenuto»,

Il primo turno delle provinciali si è concluso con un tre a due per il centrosinistra, mentre per le altre tre province (Cagliari, Nuoro e Ogliastra) ci saranno i ballottaggi del 13 e 14 giugno. Le precedenti elezioni finirono sette a uno, con il centrodestra che si aggiudico solo l’Oristanese. Questa volta il Pd ha vinto a Sassari, Carbonia-Iglesias e nel Medio Campidano, mentre OlbiaTempio e Oristano sono andate al centrodestra. Queste elezioni confermano, secondo Renzo Lusetti, che

Saverio Romano, segretario regionale dell’Udc siciliano, traspare dalle parole con le quali ha commentato i risultati che hanno visto il partito essere protagonista delle amministrative dello scorso fine settimana. «Le elezioni amministrative in Sicilia, dati alla mano, rivelano il ruolo decisivo e determinante dell’Udc che vede in molti comuni l’affermazione al primo turno di propri uomini. È la conferma – secondo Saverio Romano – di un modo di fare amministrazione a contatto con i cittadini, nella responsabilità di una funzione essenziale per la vita politica del nostro Paese, ponendosi quotidianamente nel confronto con i problemi delle varie comunità. È questa la ricchezza dell’Udc, ossia il suo radicamento territoriale, la vicinanza alle esigenze della gente, un modo di amministrare oculato e

attento, ed è per questo che da segretario in Sicilia non posso che congratularmi con tutti i dirigenti di partito e con i candidati, e ringraziare gli elettori per la fiducia accordata». In una regione che sconta la scissione del Pdl e le divisioni all’interno del Pd per il sostegno a Raffaele Lombardo l’Udc ha dato ancora una volta dimodel strazione suo ruolo decisivo. Il segretario nazionale Lorenzo Cesa si è detto soddisfatto e ha sottolineato: «Da questo voto emerge in maniera evidente che in Sicilia la gente è stufa della confusione che regna a livello di amministrazione regionale e ha deciso di premiare la serietà, la moderazione e la concretezza dell’azione politica». Per cinque comuni bisognerà, comunque, aspettare il ballottaggio del 13 e 14 giugno: Enna, Gela, Milazzo, Carini e Misilmeri.

Analizzando nello specifico i risultati elettorali Lusetti ritiene che i motivi del calo del Pdl in Sardegna hanno delle motivazioni locali e non nazionali. «Anche alle Regionali ha vinto Berlusconi, non il Pdl che non solo ha perso percentualmente, ma anche in numero di voti. In due anni si è registrato per il Pdl un calo di quattro milioni di consensi a dimostrazione che non è più pecepito come un partito che garantisce una prospettiva politica. Ritengo che nei prossimi mesi ci saranno forti smottamenti in quell’area e per questo motivo il partito che nascerà dopo Todi potrà diventare forte e radicato. Con queste potenzialità e tenendo presente la prospettiva futura bisognerà lavorare aggregare molti che sono oggi negli altri schieramenti e per favorire la crescita del partito sul territorio». Proprio l’allargamento del partito nelle realtà locali è stato uno dei passaggi principali dell’intervento di Pier Ferdinando Casini a Todi, nel quale il leader dell’Udc avvertiva anche i responsabili a non chiudersi rispetto ai nuovi ingressi, concetto che Lusetti conferma: «Qualche resistenza esiste ed è anche comprensibile, ma il momento è propizio per fare un salto di qualità ed è necessario aprirsi a costo anche di perdere un po’ di potere per consentire una crescita politica». A proposito di territori Lusetti ci tiene a sottolineare anche la definizione della vicenda in provincia di Caserta, dove il presidente Udc Domenico Zinzi ha ritirato le dimissioni presentate per divergenze con il Pdl: «era dimissioni tattiche e ritengo che la giunta si possa fare con la partecipazione di docenti universitari, così come auspicato sin dall’inizio dal presidente Zinzi. Anche in questo caso la linea dell’Udc è risultata quella giusta».


diario

3 giugno 2010 • pagina 7

Zoellitsch accusato di aver coperto un caso di pedofilia

Il ministro si esercita contro gli stipendi nella tv di Stato

Germania, indagato il capo dei vescovi

Calderoli: «Tagli alla Rai o niente canone»

FRIBURGO. Il presidente della

ROMA. Con una nuova uscita polemica (di quelle che fanno clamore senza produrre effetti concreti sulle cose) il ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli, riconquista le prime pagine dei giorni. Ieri mattina, con straordinario piglio demagogico Calderoli ha «invitato» la Rai a condividere i sacrifici che la manovra correttiva dei conti pubblici richiede al Paese intervenendo sui compensi d’oro. «Non esistono al mondo liquidazioni come quelle di Santoro o stipendi da favola pagati per “stare in panchina”e non lavorare – ha spiega il vulcanico ministro in una nota ufficiale -. Le regole della manovra devono essere applicate anche all’interno della Rai, altrimenti si ridiscute il pagamento del canone». «Le manovre non sono mai belle ammette il ministro -, ma possono essere necessarie. A condizione che, come la Lega ha chiesto, i sacrifici siano di tutti. Non potendo intervenire sull’autonomia degli organi costituzionali, abbiamo chiesto loro un intervento a cui stiamo già dando seguito ma, a fronte di questi sacrifici, dobbiamo chiederne anche al concessionario del servizio pubblico, ossia la Rai».

Conferenza espicopale tedesca, l’arcivescovo Robert Zoellitsch è indagato per complicità in abuso sessuale di bambini. Lo ha riferito la procura di Friburgo, confermando un servizio del primo canale televisivo pubblico Ard e un articolo del quotidiano Sudkurier. L’arcidiocesi di Friburgo, secondo le accuse, sarebbe stata al corrente di abusi nei confronti di bambini da parte di un sacerdote.

Anzi allora, sempre secondo le accuse, come responsabile del personale nel 1987 Zoellitsch avrebbe ordinato che il sacerdote in questione fosse confermato al suo posto. Secondo la procura, una denuncia contro l’arcivescovo è stata sporta a maggio. L’ar-

La Festa di Napolitano, «Torniamo alla Carta» La Lega snobba parata e celebrazioni del 2 giugno di Errico Novi

cidiocesi ha già seccamente smentito le accuse. L’arcidiocesi di Friburgo in una nota ha affermato che le accuse «sono destituite di qualsiasi fondamento». Non appena venne a sapere delle accuse contro il sacerdote, un padre certosino, l’arcidiocesi ha subito «avvertito l’ordine» di appartenenza chiedendo di trarne «le necessarie conseguenze» Inoltre, nella nota si sottolinea che «soltanto nel 2006» si è venuto a sapere che negli anni Sessanta «vi fu almeno un caso» di pedofilia. Zoellitsch era stato di recente alla ribalta della cronaca per aver esortato un altro presule, l’ex vescovo di Augsburg Walter Mixa, dimessosi per analoghe accuse, a «un momento di meditazione spirituale di distanza anche fisica» dagli eventi.

ROMA. Non è qui la festa. Non per la Lega, che pensa già alla propria, al raduno di Pontida. Con la quasi diserzione alla parata del 2 giugno, il partito di Umberto Bossi avvia anzi la sua lunga marcia verso l’happening identitario, previsto per il 20. Certo riesce a condizionare un po’ l’atmosfera dei Fori Imperiali. Doppio sgarbo, visto che dal presidente della Repubblica arriva un messaggio di grande sobrietà e concretezza, perfettamente intonato al tempo di crisi e assolutamente non imputabile di eccesso retorico: «Le difficoltà del periodo che stiamo vivendo», si legge nel testo simbolicamente indirizzato da Napolitano al capo di Stato maggiore della difesa Vincenzo Camporini, «i rischi che oggi corrono la nostra sicurezza e il nostro benessere vanno affrontati con la consapevolezza dei risultati raggiunti». E ancora: «In un mondo sempre più interdipendente non potrà esservi vera sicurezza se permarranno focolai di minaccia, né vero benessere se anche soltanto una parte dell’umanità sarà costretta a vivere nell’indigenza. Dobbiamo lavorare insieme per la sicurezza e il benessere comune, In Italia e in Europa».

dovrebbe sedere nella tribuna d’onore dei Fori Imperiali accanto al capo dello Stato, al sempre spumeggiante Silvio Berlusconi (applaudito e fischiato), al presidente del Senato Renato Schifani. E invece il numero uno delViminale preferisce ripiegare su una più defilata cerimonia al monumento ai caduti di Varese. «Oggi è un giorno di festa, non parlo», si limita a dire. Nella piccolissima delegazione lumbàrd alle celebrazioni di Roma oltretutto c’è uno di firmatari del disegno di legge costituzionale sul riconoscimento nella Carta di inni e bandiere regionali, il vicecapogruppo al Senato Lorenzo Bodiga, appunto. Certo Napolitano, a cui perviene tra gli altri anche un messaggio di Obama, si aspetterebbe ben altre attenzioni, dalla Lega, per i valori fondanti della Repubblica. Sui quali lui stesso si sofferma, nel discorso augurale, ricordando che «abbiamo vissuto anni non sempre facili dopo il 2 giugno del 1946, resi però fecondi dalla forza propulsiva della nostra Carta costituzionale. Su quei valori fondanti abbiamo costruito l’Italia di oggi, protagonista in un’Europa chiamata a rafforzare la sua unità».

Gli stipendi Rai tornano dunque nel mirino del governo, a distanza di sei mesi dall’altra

Lumbàrd rappresentati ai Fori imperiali solo dai vicecapigruppo. Maroni resta a Varese, Fini vola dai militari a Herat

Della coesione nazionale che si realizza anche Non potrebbe esserci nulla di più appropriato, per celebrare la Repubblica e le sue Forze armate, che ricordarne l’effettivo ruolo nella soluzione delle crisi globali e nel peacekeeping. E la “pragmatica”Lega che fa? Si tiene accuratamente a distanza dal palco autorità del 2 giugno. O meglio vi invia figure di secondo piano. Non certo il leader Umberto Bossi. Né qualcuno dei suoi ministri e colonnelli. Nemmeno i capigruppo, ma solo i loro vice: il deputato piemontese Sebastiano Fogliato e il senatore di Lecco Lorenzo Bodega. C’è anche un sottosegretario di recente nomina, Francesco Belsito, in forze al ministero di Roberto Calderoli. Pochino, certo non abbastanza per onorare almeno la cortesia di Giorgio Napolitano, peraltro omaggiato a distanza dai leghisti più ingentiliti, come il governatore Luca Zaia. Roberto Maroni è il ministro dell’Interno e in teoria

nel sostegno alle missioni di pace parla a sua volta Gianfranco Fini, che preferisce volare a Herat per portare il saluto ai militari italiani: «La vostra missione risponde certamente allo spirito di unità chiesto dal Capo dello Stato». A Roma è Ignazio La Russa a dare un cenno esplicito di biasimo per la diserzione padana, indirizzato per comodità al più iconoclasta dei leghisti, quel Salvini che due giorni prima aveva chiesto di abolirla proprio, la Festa della Repubblica. Sono vane recriminazioni, come quelle di Gianni Alemanno, un altro dei pochi nella maggioranza a insorgere per l’ennesimo schiaffo del Carroccio: «La loro assenza non è un buon segno», ammette. Segnali cattivi soprattutto se messi in fila con le altre tensioni diffuse tra Pdl e Lega, e che l’avanzare delle incognite su manovra e federalismo è destinato ad accentuare.

geniale idea di Renato Brunetta di pubblicare, nei titoli di coda delle trasmissioni, il cachet di conduttori e giornalisti, anche se l’obiettivo del ministro della Pubblica Amministrazione rispondeva a un’altra logica: dare ai telespettatori uno strumento per valutare le scelte della Tv di Stato. Ospite del programma Cominciamo bene, Brunetta aveva chiarito così il concetto: «La Rai è un concentrato di professionalità, non è giusto che ci siano figli e figliastri, contratti milionari e contrattini. Il cittadino deve poter vedere se un bravo conduttore si merita i due milioni di euro l’anno e una bravissima conduttrice 150 mila euro».


politica

pagina 8 • 3 giugno 2010

Resistenze. Gli uomini del presidente della Camera decisi a dare battaglia in Senato: «Non ci può essere retroattività di norme del ddl che rischierebbero di avere conseguenze pesanti sulla corruzione»

Fini, ancora ultimatum Sulle intercettazioni la “corrente” è pronta a votare no. Granata: «Via il segreto di Stato, per noi è pregiudiziale» di Riccardo Paradisi a posizione dei finiani in merito al ddl intercettazioni resta immutata e si raccoglie su tre punti: l’opposizione all’applicazione della legge ai processi in corso; la negoziazione sul limite massimo di 75 giorni continuativi deciso per gli ascolti; la possibilità di intercettare i cosiddetti reati satellite come l’usura e la ricettazione, primo aggancio per scoprire i reati di mafia. Negoziabile, di questi principi, potrebbe essere il limite dei 75 giorni ma avverte Fabio Granata, parlamentare finiano del Pdl e vice presidente della Commissione Antimafia «Non faremo un passo indietro dall’impegno tendente a consolidare strumenti pieni e completi d’indagine, a partire dalle intercettazioni telefoniche e ambientali, per tutti i reati di mafia e corruzione e per tutti i molteplici reati da sempre ad essi collegati».

L

Granata fa anche un passo in più ed è durissimo sulla proposta di allargare ancora di più la copertura, attraverso il segreto di stato, di episodi oscuri della nostra storia nazionale «mentre si dovrebbe fare piena luce per esempio sulle stragi del biennio 92-93». Per capire se ci sia una risposta positiva in seno al Pdl si dovrà aspettare l’esito del colloquio tra l’avvocato del premier Niccolò Ghedini e la finiana Giulia Buongiorno: «Si capirà da li – dice Granata – la vera volontà di Berlusconi. Che poi è la volontà che conta. I più intransigenti infatti in questa partita sembrano essere i nostri ex colonnelli di An che sembrano voler utilizzare questo delicatissimo passaggio legislativo per regolare certi conti con la componente finiana». A sentire Granata e Angela Napoli, componente anche lei della commissione Antimafia, la norma transitoria e il segreto di Stato devono comunque semplicemente sparire: «Sono la nostra linea del Piave» dicono. Toni che non parlano esattamente di distensione e che anzi assomigliano molto ad un ultimatum. Sicché appare un po’ lunare l’analisi dei finiani Italo Bocchino e Andrea Augello che

Alla nostra economia occorrono specifici stimoli alla crescita e non solo tagli per ridurre il debito

Non ci serve una manovra pensata a Bruxelles di Francesco D’Onofrio iduzione del deficit al di sotto del 3 per cento del Pil stabilito dagli accordi di Maastricht; riduzione del debito pubblico in via strutturale, in modo da rientrare progressivamente al di sotto del 100 per cento del Pil medesimo; crescita complessiva dell’economia nazionale nel contesto dell’integrazione europea e della globalizzazione in atto: sono questi i tre obiettivi strategici per evitare che, prima o dopo, anche l’Italia finisca con il diventare obiettivo della speculazione internazionale, come è avvenuto per la Grecia. Non sempre si sono tenuti presenti questi tre obiettivi – fondamentali e soprattutto contestuali – per valutare l’attuale manovra economica dei 24 miliardi di euro nel biennio 2011-2012. La manovra infatti appare certamente idonea a consentire la riduzione del deficit italiano al di sotto del 3 per cento del Pil entro il 2012. Si tratta di una manovra sostanzialmente decisa in sede europea, perché la crisi finanziaria aveva cominciato a toccare i cosiddetti titoli sovrani, per tali intendendosi – come è noto – i titoli pubblici emessi dagli Stati e non da singoli privati o da aziende. Come ha affermato il governatore Mario Draghi, si è trattato di una crisi non prevista, e soprattutto non conseguente alla crisi finanziaria prodotta in particolare dagli Stati Uniti con gli ormai famosissimi derivati. Non siamo dunque in presenza di una crisi che è conseguenza di quella crisi, ma di una nuova crisi, originata ormai dalla crisi di fiducia degli investitori istituzionali nei confronti dei singoli Stati, costretti ad emettere titoli per finanziare sostanzialmente la propria spesa pubblica.

R

Nel valutare pertanto la manovra economica in atto, il senso di responsabilità nazionale (al quale anche l’Unione di centro si è sentita sostanzialmente richiamata dal Capo dello Stato) induce a ritenere del tutto probabile che la manovra medesima, in quanto tale, finirà con l’essere approvata anche dall’Udc, sempre che risulteranno contestualmente evidenti i tre obiettivi di fondo ai quali l’Italia tutta è chiamata oggi. Non ci si può infatti limi-

tare ad approvare una manovra che non sia allo stesso tempo strutturalmente capace di ridurre il debito pubblico, o attraverso il contenimento non temporaneo della spesa pubblica medesima, o attraverso il sostanziale incremento delle entrate tributarie dello Stato. Allo stesso tempo, nel valutare la manovra in atto, si dovrà seriamente considerare se le misure in essa previste per favorire la crescita del sistema economico italiano sono o meno sufficienti e verificabili. Un partito della responsabilità nazionale dovrà pertanto valutare contestualmente le ragioni europee dell’intervento; la straordinaria e non prevista tempistica dell’intervento medesimo; l’idoneità della risposta italiana vista nel suo insieme in riferimento alle ragioni di fondo – strutturali e non congiunturali – della speculazione in atto. Non si può infatti condividere la tesi, in virtù della quale mentre oggi si chiamano al sacrificio gli italiani, si rinviano a domani gli interventi necessari per la riduzione del debito e per la crescita dell’intero sistema.

La manovra in atto appare infatti sostanzialmente tesa nell’immediato ad una riduzione del deficit al di sotto del 3 per cento del Pil previsto da Maastricht, ma non opera in modo consistente e strutturale né nel senso di una riduzione complessiva del debito pubblico italiano, né nel senso di una rapida iniezione di fiducia per la crescita complessiva del sistema medesimo. Le misure concernenti l’irrigidimento dei controlli sulle invalidità civili, e il contesto anche giuridicamente nuovo del contrasto alla evasione fiscale, non appaiono infatti idonei a produrre gettito strutturale in termini ragionevolmente brevi, o comunque tali da costituire il fondamento per un giudizio equilibrato nei confronti della manovra medesima. Nel corso del dibattito parlamentare saranno pertanto poste in evidenza le ragioni di fondo che un partito della responsabilità nazionale – quale intende essere l’Unione di centro – pone a fondamento del proprio giudizio che non può essere di supina acquiescenza alla manovra del governo.

negano ci siano scontri all’interno del Pdl: «Sulle intercettazioni ci sono tutte le condizioni per evitare problemi interni alla maggioranza, apportando utili miglioramenti al testo e varando al Senato un provvedimento condivisibile dall’intero Pdl. Le frizioni emerse nelle ultime ore, infatti, sono una tempesta in un bicchier d’acqua e non rappresentano lo stato dell’arte del dibattito interno nel merito delle questioni che abbiamo offerto alla serena valutazione del partito». Una nota che sembra più un auspicio che una constatazione. Anche il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, invoca ”un equilibrio” in aula sulla vicenda delle intercettazioni, «per evitare abusi e garantire la possibilità di indagine da parte della magistratura mentre altri parlamentari finiani – Giuseppe Valditara, Cristiana Muscardini, Benedetto della Vedova e Gian Paolo Landi di Chiavenna – ribadiscono la linea del Piave finiana: «Non ci può essere una retroattività di norme del ddl che rischierebbero di avere conseguenze pesanti sui processi di corruzione in corso e non ci può essere nessuno sconto su reati particolarmente odiosi. Il provvedimento sulle intercettazioni non può in nessun modo contenere norme che possano anche solo dare l’impressione di voler indebolire la lotta dello Stato contro la criminalità».

Non è molto conciliante nemmeno l’intervento di un altro esponente finiano Carmelo Briguglio la cui analisi sfocia addi-


politica

3 giugno 2010 • pagina 9

Dopo Confindustria e Bankitalia nuovi timori sulla necessità di altre misure

L’Fmi boccia i tagli «Rilanciate lo sviluppo» Baldassarri: «Rafforzare la manovra per aiutare la ripresa. Altrimenti il Pil calerà dell’1 per cento» di Francesco Pacifico

ROMA. Silvio Berlusconi spera che senza toccare i saldi si possa rendere più espansiva la manovra. Ma gli spazi d’intervento sono limitati e non soltanto perché il 90 per cento delle misure da 24,9 miliardi di è stato ispirato o scritto dall’Unione europea. In un vertice tenuto ieri a Palazzo Grazioli Giulio Tremonti gli avrebbe ricordato che non ci sono alternative ai tagli, sottolineando anche che l’atteggiamento tiepido dei mercati dopo le finanziarie drastiche presentate dalle cancellerie europee (ieri Piazza Affari ha chiuso a -0,4 per cento).

rittura in una sfiducia al governo Berlusconi. «Il governo sembra già vecchio, come una fotografia ingiallita. E il Pdl sembra un pezzo di antiquariato. Non lo dico per ”riaprire la ferita”, che è invece il giochino preferito di alcuni amici di partito. Siamo in una fase di ricomposizione che vogliamo incoraggia-

uscire. Ne può uscire». Come? Ecco il colpo di teatro di Briguglio: «Con un altro governo, un Berlusconi-bis diverso rispetto a quello precedente per squadra, programma e finalità. E mettendo subito mano al partito, spingendolo verso un congresso di cambiamento radicale, nella forma, nella governan-

«Non faremo un passo indietro – dice Fabio Granata – dall’impegno tendente a consolidare strumenti pieni e completi d’indagine, a partire dalle intercettazioni telefoniche e ambientali» re e non minare. La verità è che Gianfranco Fini aveva fiutato il terremoto e aveva cercato di lanciare avvertimenti al suo partito. Pagando prezzi pesantissimi in termini politici e anche personali. Prezzi ingiusti».

Per Briguglio, «non serve dare ragione a Fini, ma è assolutamente necessario fare tesoro delle sue indicazioni all’ultima direzione nazionale del Pdl e trarne le conseguenze. Furono indicazioni talmente di buon senso e moderate da essere superate in breve tempo dai fatti. La politica corre, il consenso cade, il governo sembra un vascello di altri tempi, del tutto inadeguato a solcare gli oceani della tempesta globale e dello stesso mare nostrum della politica quotidiana. Il Pdl è ancora peggio: non sembra vivo ma sopravvissuto. Non è nemmeno necessario spiegare perché. Tutti lo sanno e la pietas impedisce di dilungarsi. Berlusconi lo ha compreso. Ne vorrebbe

ce, nei compiti. Per vincere le sfide dinanzi a noi. E la competizione con la Lega che in asse con Tremonti, ogni giorno di più egemonizza il centrodestra e ipoteca la Repubblica. Oggi che della nostra Repubblica è la festa, il Presidente del Consiglio e il Presidente della Camera che hanno costruito insieme il Popolo della Libertà ritrovino la capacità del progetto comune». Potrebbe sembrare quella di Briguglio una voce dal sen fuggita, ma fonti informate alla corrente finiana spiegano che il cosiddetto arcipelago finiano funziona a vari livelli: ci sono i pontieri che rassicurano, gli incendiari che appiccano il fuoco e poi c’è Fini che media le posizioni e tratta con il Cavaliere sulle posizioni da tenere. Si vedrà la prossima settimana, quando il ddl intercettazioni arriverà al Senato, quale sarà la vera volontà del Cavaliere e dove si sarà attestata la linea del Piave finiana.

A dare ragione al ministro ci ha pensato il Fondo monetario. Che quasi in contemporanea – e rendendo esplicito un timore finora sussurato da Confindustria e Bankitalia – ha spiegato che «se l’Italia non crescerà a sufficienza servirà un’altra manovra». Questo è il messaggio principale che si evince dal rapporto finale della missione annuale del Fmi nel nostro paese. Concetto che finisce per dare nuovi argomenti a chi lamenta il carattere recessivo della finanziaria. Mario Baldassarri, che da presidente della commissione Bilancio del Senato inizierà a lavorare sul testo, ricorda che il suo maestro Franco Modigliani «spiegava ai noi studenti del Mit che “si può anche portare l’inflazione a zero, ma non conviene farlo se poi si porta il Pil a -3 per cento”. I tagli sono necessari, ma se si innesca una spirale regressiva, allora bisogna rafforzare la gamba che sostiene lo sviluppo. Senza un’adeguata ripresa delle esportazioni la manovra potrebbe anche portare la crescita a un -1 per cento». Lo scorso anno l’economista più ascoltato da Gianfranco Fini propose una serie di emendamenti dal valore di 35 miliardi per recuperare le risorse necessarie per tagliare le tasse alle famiglie e alle imprese. Misure che gli fecero ottenere da Tremonti l’appello di ”Dottor Stranamore” e che anche quest’anno dovrebbero essere riproposte quanto meno in fase di discussione. Accanto alla querelle sulle intercettazioni, i finiani sono pronti a riaprire anche un confronto con il governo sulla finanziaria, anche se in termini meno conflittuali del passato. Spiega Baldassarri: «Ora che finalmente abbiamo il testo definitivo, dobbiamo porci due domande. Intanto se la riduzione dei trasferimenti agli enti locali si tradurrà in tagli di spesa o in debiti progressi, come dimostrano i quattro miliardi ulteriori che l’anno scorso il governo ha dovuto destinare al fondo sanitario nazio-

nale. Eppoi c’è da chiedersi se riusciremmo a raggiungere gli obiettivi prefissati, compresi i 9,5 miliardi che si vogliono recuperare dall’evasione». Timore che valica i confini della politica, visto che il mondo delle costruzioni reputa che questa voce di bilancio sarà coperta rinviando di un altro anno l’avvio delle grandi opere. Cioè cantieri da 29 miliardi di euro e dei quali ne sono stati sbloccati appena 800 milioni (per il rifinanziamento del Mose). Al riguardo segnala Mario Lupo, presidente dell’Agi: «È difficile fare peggio dell’anno scorso. Io non sono un barricadero, non ho simpatie per l’estrema sinistra, ma se questo è il governo del fare, quello decisionista…» Proprio per venire incontro alle aspettative delle categorie produttive e allontare le ripercussioni di una manovra anticiclica, Baldassarri propone a Tremonti di «rafforzarla sul fronte del sostegno allo sviluppo. Io continuo a sostenere da 20 anni che conviene tagliare su due fronti, spesso equivoci, come gli acquisiti delle pubbliche e il monte del fondo perduto. E ogni euro che si risparmia può essere utilizzato per aiutare le famiglie con il quoziente familiare e le aziende con il taglio dell’Irap. Nella stessa logica un intervento funzionale alla lotta all’evasione, sacrosanta, sarebbe la cedolare secca sugli affitti».

La Cgil pronta a indire lo sciopero generale il 25 giugno, mentre Cisl e Uil chiedono alleggerimenti sugli interventi destinati al pubblico impiego

Affilano le armi anche le Regioni, che lamentano tagli da 7 miliardi nel biennio in grado di congelare i primi trasferimenti per il federalismo fiscale. Se Tremonti ha ricordato che gli enti hanno gli spazi per tagliare la spesa improduttiva, il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli (lo stesso che ha proposto di introdurre meccanismi di austerity anche in Rai) lavora per una mediazione. Sul piano di guerra anche il sindacato, anche se in modo separato. Guglielmo Epifani ha confermato la volontà di tenere uno sciopero generale (dovrebbe tenersi il 25 giugno) e ha richiamato Cisl e Uil a lottare contro una «manovra che non sostiene gli investimenti e la crescita». Al riguardo aggiunge dalla segreteria della Cgil, Agostino Megale: «L’unità sindacale è un regalo che non possiamo permettere a questo governo, che non recupererà un euro dal 10 per cento della popolazione che detiene il 44,5 della ricchezza». Cisl e Uil, più che alla piazza, guardano a ritocchi sul pubblico impiego, chiedendo risorse sulla contrattazione integrativa e il recupero degli scatti d’anzianità per gli insegnanti.


pagina 10 • 3 giugno 2010

panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Non possiamo non dirci tutti crociani e cose che scrive Ruggero Guarini nel suo Fisimario del sabato sul Corriere del Mezzogiorno forniscono sempre un contributo alla curiosità e all’intelligenza. Una delle fisime di Guarini è il contrastato sentimento di amore nei confronti di Croce. Il maggior filosofo italiano del secolo scorso è apprezzato per la sobrietà, l’antiretorica e soprattutto “lo stile altoborghese del suo patriottismo” del quale Guarini avverte tutta la mancanza nel nostro «trivialissimo tempo post-borghese» e sente di non potersi non dire crociano. Però, Croce commise due errori: non colse l’assoluta novità, rispetto al classico regime dispotico del passato, dei moderni regimi totalitari del Novecento e cadde in una palese contraddizione quando dichiarando il suo amore per la poesia della quale “non si scrive storia” smentì il suo “storicismo assoluto”. Queste cose Guarini le ha scritte varie volte e le ha riproposte anche sabato. Ora alle fisime crociane di Guarini vorrei opporre le mie.

L

È vero: ci sono stati pensatori e scrittori, addirittura dell’Ottocento, che videro il dramma europeo che si stava preparando con la modernità e la società di massa e denunciarono il totalitarismo quando ancora i regimi totalitari non c’erano. Croce, invece, forse proprio perché ci stava dentro, non se ne avvide per tempo. Tuttavia, una volta individuato il pericolo vi si seppe opporre senza tentennamenti, tanto a destra quanto a sinistra, e la sua opera è un patrimonio da custodire proprio per questo suo valore attivamente antitotalitario. Anzi, bisogna considerare - e invito Guarini a farlo - che proprio la filosofia di Croce (addirittura il suo “sistema” della filosofia dello spirito dall’Estetica alla Teoria e storia della storiografia) è una specie di “uscita di sicurezza” dal potenziale totalitario che riposa, come la bestia della violenza che dorme in attesa di svegliarsi, nel fondo del pensiero occidentale. Detto in due parole: lo storicismo crociano non è una filosofia della storia e perciò non annulla la tragicità della vita in favore del razionalismo apollineo limitandosi a costruire quotidianamente un faticoso equilibrio tra le forze della vita. Il suo stile altoborghese che piace a Guarini ha qui la sua radice. La seconda fisima è più insidiosa. L’idea che la poesia sfugga alla storia è in fondo uno strano paradosso per un pensiero che sostiene la storicità di ogni cosa perché “tutto è storia”. Se la poesia è una sorta di lampo - lirismo - che si sottrae alla narrazione storica, cioè alla sua genesi, non verrà a cadere l’idea che “tutto è storia”? È come se la Storia avesse un “buco” e questa foratura altro non fosse, osserva Guarini, che la vera o presunta “morte di Dio” che chiede una risposta o una “toppa”. Ma anche qui la ricostruzione è parziale perché la poesia lungi dall’essere fuori dalla storia, ne è l’inizio o avvio o ingresso e ciò che sfugge alla narrazione non è la poesia ma la vita del poeta come, il più delle volte, sfugge a noi stessi la nostra.

Bersani resta appeso all’incubo delle urne È dalla sua elezione a segretario che non riesce a vincere di Antonio Funiciello

ROMA. A proposito di province da tagliare - e che malgrado i soliti annunci, neppure stavolta saranno ridotte - la Sardegna che è andata al voto lo scorso week end è all’avanguardia: 8 province per una popolazione complessiva pari a un milione e mezzo di sardi. Per capirsi: il Piemonte, che di province ne ha 8 come la Sardegna, ha però una popolazione che è tre volte quella dell’isola. Intanto lo scorso week end s’è votato in tutte e 8 le province sarde, in concomitanza a un nugolo di comuni piccoli e piccolissimi di Sardegna, Sicilia e Trentino. Il risultato è sempre lo stesso: vince l’astensione, perdono voti Pd e Pdl (del risultato clamoroso dell’Udc abbiamo già parlato a pagina 6), ma tra i due partiti va decisamente peggio quello di Bersani. Cioè non quello che sta al governo, come avviene normalmente altrove. I comuni al voto sono poco indicativi: un florilegio di liste civiche impedisce di trarre significative letture nazionali. Se il centrosinistra soffia al centrodestra Rovereto (37mila abitanti), il centrodestra soffia al centrosinistra Quartu Sant’Elena (70mila abitanti), e così via. Sono le elezioni provinciali sarde ad offrire spunti interessanti di lettura per il futuro del Pd.

diviso in due liste che, sommate, stanno nettamente sopra l’avversario (32% e 25%). Tuttavia la provincia dell’Ogliastra passerà al secondo turno sicuramente al centrodestra, così come quella del capoluogo Cagliari. Per un risultato finale che tra due settimane dovrebbe indicare un pareggio 4 a 4, che reca in sé il senso di un’altra sconfitta del Pd, con tre province perse delle sette governate dal 2005. Il dato più preoccupante per il Pd è proprio quello della provincia di Cagliari, dove vivono per altro un terzo dei sardi. Il candidato del centrodestra Giuseppe Farris (46%) è prevalso nettamente sul presidente uscente di centrosinistra Graziano Milia (33%), ancorché entrambe le coalizione scontassero importanti dissidenze interne: quella del pidiellino eretico Massidda ( 9%) e quella del dipietrista Palomba (6%). Neppure nel voto in città il centrosinistra è riuscito vincente: al secondo turno il vantaggio del forze di centrodestra (51,50%) su quelle di centrosinistra (44,54%) è, in partenza, di 7 punti. Se il Pd si avvia così a perdere la provincia più importante al ballottaggio, rischia pure di non riuscire competitivo nella corsa per il municipio capoluogo, in vista delle comunali del 2011.

L’ennesima sconfitta è quella delle amministrative della scorso week end. E brucia la perdita di Olbia, la provincia di Villa Certosa...

Si partiva, in Sardegna, da un netto 7 a 1 a favore del centrosinistra, conquistato alle provinciali del 2005: al governo c’era sempre Berlusconi, all’opposizione i Ds di Fassino e la Margherita di Rutelli. Il centrosinistra si è confermato nella provincia di Carbonia e Iglesias, in quella del Medio Campidano e in quella di Sassari, sfruttando i vantaggi dell’incumbent. Il centrodestra ha tenuto al primo turno Oristano e strappato al centrosinistra Olbia, la provincia della Costa Smeralda. Il risultato delle elezioni risolte al primo turno lascia già intravedere un recupero del centrodestra su Pd e alleati che pure restano in testa 3 a 2. Nuoro è l’unica provincia di quelle che vanno al ballottaggio dove probabilmente si confermerà il centrosinistra, poiché Pdl e Udc sono sì arrivati primi (38%), ma con un centrosinistra

La cura Bersani, insomma, non paga e il Pd non accenna a riprendersi.Tra il 2001 e il 2006 il centrosinistra aveva saputo sfruttare anche il singolo voto suppletivo di un solo scranno parlamentare - prima del ”porcellum” di Calderoli - per dare il senso di una rimonta sul centrodestra al governo. Fassino e Rutelli guidarono Ds, Margherita e alleati alla conquista di regioni, province e comuni grandi e piccoli a danno del centrodestra, costruendo le condizioni materiali per risultare competitivi nel voto politico del 2006. Bersani non ce la fa. A ogni elezioni che si succede, il suo Pd dà prova di insufficienza: perde colpi o resiste a fatica. Le eccezioni sono poche e, per l’appunto, sono eccezioni. Le elezioni comunali del 2011 sono dietro l’angolo e il Pd ha ancora parecchia strada da fare davanti a sé.


panorama

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Gran parte delle misure sono di rinvio o congelamento di spese. E la lotta all’evasione non può essere quantificata

Se i mercati bocciano la manovra Cresce la diffidenza sulla sostenibilità fiscale dell’Europa. E sui conti di Tremonti di Mario Seminerio iovedì scorso il parlamento spagnolo ha approvato per un solo voto di scarto il pacchetto di misure di correzione fiscale proposte dal governo Zapatero. Determinante è risultata l’astensione dei dieci membri di Convergència i Unió, un partito nazionalista catalano considerato di orientamento centrista-conservatore. Il leader di questo movimento ha tuttavia avvertito il premier Zapatero che voterà contro la legge di bilancio 2011, a fine anno. Il rischio di una caduta del governo spagnolo aumenta sensibilmente, ma questa rischia di essere solo la punta dell’iceberg, in un’Europa confusa e spaventata per quella che appare una crisi senza precedenti e soprattutto senza immediate vie d’uscita.

G

L’accumulazione di debito pubblico per salvare il settore privato (segnatamente le banche) in gran parte d’Europa negli ultimi due anni ha determinato la crescente diffidenza dei mercati circa la sostenibilità fiscale della costruzione europea, mentre il “salvataggio” della Grecia (che per molti osservatori è comunque destinata ad una qualche forma di default sul proprio debito) ed il successivo convulso e confuso intervento per “salvare l’euro” hanno evidenziato una drammatica carenza di coordinamento e leadership tra le istituzioni europee. Per primi sono stati i tedeschi a muoversi come un elefante nella cri-

stalleria, dapprima opponendosi recisamente a qualsiasi salvataggio della Grecia, poi iniziando una martellante campagna di comunicazione basata sulla paura, al limite dell’isteria.

Da ultimo, prendendo provvedimenti isolati e non concordati (come il divieto di vendite allo scoperto senza possedere il titolo sottostante) che si sono subito rivelati dannosi, perché hanno alimentato nel mercato la percezione che le autorità nazionali non solo non sappiano concretamente cosa fare, ma soprattutto che stiano tentando di occul-

tare il reale stato dei propri sistemi bancari, appesantiti da crescenti volumi di crediti inesigibili e con un cuscinetto di capitale molto esiguo. Dopo la drammatica notte del 10 maggio, in cui si è creduto di aver predisposto la difesa dell’euro ma si sono solo poste le basi per ulteriori problemi, i governi europei hanno deciso di tentare di mostrare ai mercati una volontà di rigore fiscale, per ridurre le tensioni. Tutto quello che è stato prodotto, sulla scorta della famosa “raccomandazione”a Portogallo e Spagna di ridurre di un altro 1,5 per cento solo quest’anno il rapporto deficit-Pil, è stato il varo di misure puramente emergenziali ed orientate esclusivamente alla cassa, disinteressandosi delle riforme di struttura.

Dopo il 10 maggio si è creduto di aver difeso l’euro. Ma si sono solo poste le basi per ulteriori problemi

È il caso del governo italiano che, dopo aver annunciato che noi non avremmo avuto problemi, perché dotati di un settore privato non indebitato, ha varato in fretta e furia un provvedimento che risulta modesto sul piano quantitativo (lo 0,8 per cento del Pil nel 2011 ed altrettanto nel 2012) e dannoso su quello qualitativo, essendo composto di tagli lineari, di un’accentuazione del carattere derivato della finanza pubblica locale e che finirà col rinviare sine die alcune riforme di struttura, come quella della pubblica amministrazione. Colpisce soprattutto la correzione maggiore

rispetto alle stime di poche settimane addietro, che risponde al calo di gettito causato da una crescita che resta asfittica, e che purtroppo è destinata a restare tale ancora per molto tempo. Con tutta probabilità l’intenzione del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, era quella di rassicurare i mercati, dato l’imponente volume di titoli di stato in rinnovo quest’anno.

L’effetto finale rischia di essere opposto, considerato che finora la manovra è mutata di giorno in giorno. A saldi invariati, le inevitabili diluizioni che accompagneranno il cammino della manovra costringeranno a cercare risorse altrove. Gran parte delle misure sono di rinvio o congelamento di spese, poiché è evidente che la lotta all’evasione fiscale è quanto di più aleatorio esista, e non può essere quantificata ed iscritta a bilancio. I mercati hanno già iniziato a scontare questa incertezza, come dimostra il costante allargamento del credit default swap sull’Italia, oltre al differenziale di rendimento tra Btp e Bund, che sulla scadenza decennale è ormai di un punto e mezzo percentuale, con maggiore onere di interessi per le casse dello stato. Si comprende quindi come, all’interno di un quadro europeo già molto delicato, l’intenzione del governo di mettere in sicurezza i saldi di finanza pubblica rischia di risolversi in un autogol.

Decreti. Per evitare una condanna della Ue, l’esecutivo cancella il «controllo speciale»

Il governo ha perso la golden share di Lucio Rossi

ROMA. Il nostro Paese le ha tentate tutte, almeno fino a due anni fa. Ma alla fine ha dovuto arrendersi, forse anche complici alcune partite internazionali che potrebbero chiudersi favorevolmente allentando il controllo sulle società partecipate. La scorsa settimana infatti è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale un decreto del presidente del Consiglio che di fatto scongiura la condanna dell’Italia in sede Ue che aveva avviato una procedura di infrazione sulla cosiddetta golden share e in particolare sui poteri speciali attribuiti al ministro del Tesoro nei confronti delle società che svolgono funzioni strategiche. Il decreto modifica la disciplina del 2004, (la golden share è stata introdotta originariamente nel 1994) che consente all’inquilino del ministero di via XX settembre l’esercizio di poteri speciali nei confronti Eni, Enel, Finmeccanica o Telecom Italia S.p.a. Secondo la Ue, la legge italiana non specifica sufficientemente i criteri di esercizio dei poteri speciali, così da non consentire agli investitori di conoscere le situazioni in cui questi poteri verranno utiliz-

zati. L’effetto sarebbe quello di scoraggiare gli investitori, particolarmente quelli che intendono stabilirsi in Italia al fine di esercitare un’influenza sulla gestione delle imprese.

Insomma uno strumento che, ad avviso dell’Ue, va oltre quanto necessario per tutelare gli interessi pubblici conferendo al-

concepita dopo che Commissione europea aveva deferito l’Italia alla Corte di giustizia europea nel giugno del 2006. Un mese prima si era consumato un braccio di ferro inedito tra l’Italia e la Francia su un’ipotesi di opa di Enel su Suez con uno scambio reciproco di accuse di protezionismo dei mercati interni tra i due colossi dell’energia. Inutile dire che l’avventura italiana in Francia è rimasta un’ipotesi, mentre sono profondamente cambiati i rapporti diplomatici ed economici tra il nostro Paese e i cugini d’Oltralpe specie nel settore dell’energia. Ma nel frattempo la Francia, nel 2008 ha fatto in tempo a varare una mega-fusione che ha dato corpo a uno dei tre maggiori gruppi globali dell’energia e cioè quella tra la ri-nazionalizzata Suez e Gas de France, che, tra le altre cose ad aprile, è salita oltre la soglia del 10 per cento del capitale di Acea.

Nel mirino dell’Europa c’erano società come Eni, Enel, Finmeccanica e Telecom, praticamente ”vietate” ai possibili investitori internazionali l’autorità italiana ampi poteri discrezionali nel giudicare i rischi per gli interessi vitali dello Stato. Insomma: è stata rigettata al mittente la difesa italiana. Che aveva anche evocato l’eventualità che «un operatore straniero legato ad un’organizzazione terroristica tentasse di acquisire partecipazioni in società nazionali in un’area strategica»... La difesa italiana era stata così


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il paginone

Atene è al capolinea, Madrid e Lisbona trattengono il fia

Lira, i suoi (primi?) e con l’aria che tira in Europa, la maggioranza dei cittadini tedeschi (dando retta ai sondaggi) è divenuta nostalgica del Marco, mentre non manca ai vertici della tecnocrazia finanziaria europea chi vorrebbe punire la Grecia indebitatissima e spendacciona, estromettendola dall’Euro ed obbligandola a riesumare la vecchia dracma, anche in Italia, sia pure sottovoce, sono cominciate le riflessioni attorno ad un’ipotesi (certo “quasi impossibile”, ma...): e dovessimo tornare alla Lira? Fatti i debiti scongiuri per quello che rappresenterebbe un autentico salto nel vuoto, è tuttavia impossibile dimenticare che fu proprio l’unificazione monetaria l’evento “strutturale” (parola di moda), all’epoca dell’Unità della quale celebriamo i 150 anni. E forse la Lira ebbe un’importanza pari all’azione di Vittorio Emanuele II, Camillo Benso di Cavour e Garibaldi. Sotto molti profili, a questi Padri della Patria, bisognerebbe affiancare il nome di Quintino Sella, piemontese e ministro delle Finanze. Infatti...

S

Il 12 luglio 1862 nella sabauda Torino, capitale “provvisoria”del neonato Regno d’Italia, il ministro Quintino Sella (per inciso: figlio di banchieri, appassionato di montagna e fondatore del Club alpino italiano), più che un discorso pronunciò un’orazione. Ammonitrice. Disse che il Sud era stato conquistato più che rappacificato (i patrioti borbonici considerati “briganti”occupavano ancora campagne e cittadine isolate); biasimò l’insofferente Garibaldi, che mobilitava in segreto “camicie rosse” per demolire i resti dello Stato Pontificio; affermò alto e forte: «Solo la moneta riuscirà laddove le armi hanno mostrato i loro limiti». Cavour avrebbe certamente approvato, ma era morto l’anno precedente. Sua Maestà il Re, gli fece credito e sponda, per ragioni di cassetta. Essendo il Regno indebitato sino all’osso. Il debito pubblico della neonata Italia assomma a 2 miliardi e 402 milioni (anticipando la conversione nelle future lire italiane). A chiunque verrebbe naturale pensare, poiché questo sta scritto sui libri di scuola, trattarsi del “lascito” dei Borboni e dello Stato Pontificio. Invece no. Il debito del Regno di Sardegna, quest’era il titolo dei domini di Casa Savoia, di ben 1321 milioni, costituiva il 55 per cento del totale. In larga misura di origine bellica: la guerra con l’Austria del 1848-49 era costata 200 milioni, la spedizione “di prestigio” in Crimea (un po’ come in Iraq ed Afghanistan oggi), almeno 50. La seconda guerra d’Indipendenza 250. Secondo la ricostruzione dello storico Giorgio Candeloro: «se si tiene poi conto che tutto il debito della Romagna, circa la

metà di quello parmense, modenese e toscano e più di 50 milioni derivavano da prestiti emessi da Governi provvisori, si può affermare che quasi i due terzi del debito pubblico erano serviti a coprire le spese dello Stato Unitario e per l’ammodernamento ed il rafforzamento dello Stato piemontese». Detto altrimenti, la riforma monetaria di Quintino Sella, pur necessaria e meritoria aveva anche l’indichiarabile intento di sistemare le regie finanze. Con la manipola-

Gloria e miserie della valuta italiana. Nel 150° anniversario dell’Unità, un amarcord per riflettere sul caos monetario di Giancarlo Galli

Il conio di Stato ebbe un’importanza pari a Vittorio Emanuele II, Camillo Benso di Cavour e Giuseppe Garibaldi. E a questi nomi bisogna aggiungere quello di Quintino Sella In alto a sinistra, Napoleone III (1808-1873): nel 1866 varò l’Unione monetaria europea. Qui sopra, Vittorio Emanuele II zione dei rapporti di cambio fra la molteplicità delle monete in circolazione: la Lira del Piemonte equiparata al franco francese, il fiorino austriaco del lombardo-veneto, lo scudo dello Stato pontificio, il ducato del Regno delle Due Sicilie. Numerose le banche d’emissione, autorizzate a stampare moneta cartacea a fronte di adeguate riserve in oro ed argento. Banca nazionale degli Stati sardi, Banca nazionale toscana, Banca dello Stato pontificio che continuerà ad operare sino alla presa di Porta Pia, nel 1870. Nel Mezzogiorno, Banco di Napoli e Banco delle Due Sicilie, con le loro zecche. Che fece Quintino Sella? Con una grandi-

nata di decreti-legge diede corso legale ad una sola moneta, denominata Lira italiana. Fissandone il rapporto con l’oro e l’argento. Un grammo di metallo giallo “vale” 3,47 lire cartacee. Per un chilo d’argento servono 220 lire. Chi non si fida della carta filigranata, può andare in banca esercitando il “diritto di conversione”. Come la storia insegna, i “diritti”lasciano il tempo che trovano, o detto altrimenti: discendono dalla volontà dei reggitori. Ed ecco quel che accade: al tempo della carota, l’arcigno ed astuto ministro Sella fa seguire quello del bastone. Ovvero: mentre le banche, fiutando l’aria, costringono a chi vuol permutare la carta in metallo pregiato o in lucci-

canti monete (la zecca ne ha coniate da 100, 50, 10, 5 lire in oro; da 5 lire, 2 lire, 1 lira e 20 centesimi in argento), a pagare sino al 12 per cento del valore dell’operazione, il governo sospende la “conversione”. Così la lira sarà, per sempre, di carta.

Nel frattempo, per volontà di Napoleone III, è stata varata (1866) l’Unione monetaria europea, cui aderiscono, in assoluta parità (cambio 1:1), Francia, Svizzera, Italia, Belgio, Grecia. La Germania rifiuta, pretendendo che il Marco valga di più. E resta fuori. Al pari della Gran Bretagna, che non intende rinunciare alla Sterlina. Con la sconfitta di Napoleone III a Sedan,


il paginone

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ato, Berlino incalza: rievocare il passato non è accademia

centoquarant’anni L’Unione monetaria entra in coma irreversibile, ma (miracolo!) la lira italiana resta forte, competitiva, sino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Nonostante il succedersi di scandali bancari, gli istituti di emissione hanno rimpinguato le riserve grazie alla “manna”delle rimesse degli immigrati. Milioni di italiani, nel Mezzogiorno ma anche nel Veneto, hanno lasciato la terra natìa per cercare fortuna all’estero. Principalmente in Sudamerica, Usa, in Francia, Svizzera e nel Nord Europa. Inviando alle famiglie enormi quantità di va-

per cento. Il dollaro passa da 5 a 6 lire, la sterlina da 25 a 30. Discesa inarrestabile col prosieguo delle ostilità, la fuga dei capitali.Abbiamo vinto, ma a che prezzo! Spiegazione: dagli Usa dobbiamo importare grano, all’Inghilterra restituire i prestiti. Il caos politico ha ridotto i flussi turistici, e gli emigrati non mandano più soldi a casa. Nel 1919, si scopre che la riserva aurea della Banca d’Italia copre appena il 13 per cento della circolazione cartacea. In termini concreti: occorrono 102 lire per una sterlina, 28 per un dollaro, 2,50 per un franco

ni, porgendo la fede nuziale in cambio di una d’acciaio, e nei centri di raccolta s’accatastano 37 tonnellate d’oro, 115 d’argento, miliardi in valute estere. La Lira, in apparenza solida, torna a barcollare il 10 giugno 1940, con l’entrata in guerra a fianco della Germania hitleriana. L’impatto sui prezzi dei beni di consumo si fa da subito sentire, col galoppare dell’inflazione.Al momento dell’armistizio (8 settembre 1943), il potere d’acquisto è dimezzato rispetto all’Anteguerra. Ed è l’inizio di una tragedia che pare inarrestabile. Presto, nel Mezzogiorno “liberato”compaiono

Dopo la crisi greca, in Germania, almeno secondo i sondaggi, la maggioranza dei cittadini tedeschi ha nostalgia del Marco. E anche nel nostro Paese sono cominciate le riflessioni...

In altro a destra, Camillo Benso Conte di Cavour (1810-1861). Qui sopra, il ministro delle Finanze Quintino Sella (1827-1884) lute pregiate. Al momento della creazione della Banca d’Italia (1893), l’orgoglioso annuncio: le lire in circolazione hanno una “copertura aurea”del 40 per cento; e il rapporto migliorerà ancora nei due decenni successivi. Finché la guerra blocca le rimesse, mentre i torchi girano giorno e notte a finanziare lo sforzo militare.

Riarmarsi costa, e il 1° giugno 1915 è una data che segna la fine di un’epoca felice. A Milano corrono insistenti voci di provvedimenti monetari restrittivi. La borghesia affolla i treni per Lugano, aprendo conti presso le neutrali banche scudocrociate. In un mese, la lira si svaluta del 16

svizzero e 1,70 per il franco francese, pure uscito con le ossa rotte dal conflitto.

Del fascismo si può dire tutto il male possibile, non che bistrattò la Lira. Nell’ultimo scorcio degli Anni Venti, con il varo della politica autarchica, il regime impone cambi forzosi e, attraverso successive manovre, il rapporto della lira con la sterlina è portato a“Quota 92”. Per il dollaro a 19, a 6 per il franco svizzero. La conquista dell’Etiopia, in risposta alle sanzioni decretate dalla Società delle Nazioni, è in buona misura finanziata con la retorica (ma riuscita) campagna di “offerta dell’oro alla Patria”. La regina Elena apre le sottoscrizio-

le Am-lire, stampate in Usa; i tedeschi hanno nel frattempo trasferito in Alto Adige le riserve auree della Banca d’Italia, tuttavia nei territori della Repubblica sociale, la Lira conserva un certo valore.

Terribile il periodo che va dal 25 aprile 1945 al 18 aprile 1948, che segna il trionfo della Dc degasperiana e il definitivo passaggio delle sinistre all’opposizione. Dollaro e franco svizzero, divenute monete di riferimento (poiché sterlina e franco francese hanno i loro guai, e il marco tedesco è provvisoriamente uscito di scena), si sono trasformati in “beni rifugio”, al pari dell’oro. De Gasperi premier, il ministro al com-

mercio estero Cesare Merzagora, d’intesa con Luigi Einaudi governatore della Banca d’Italia e sul punto di essere nominato presidente della Repubblica, compiono il prodigio, stabilizzando Re dollaro a 600 lire, il franco svizzero a 140. Come? Aiuti al Piano Marshall, amnistie per il rientro dei capitali, lotta alla disoccupazione e ripresa industriale.

Nel luglio del 1961, appena nominato Governatore della Banca d’Italia, Guido Carli può permettersi un gesto clamoroso, quasi teatrale: mandare al macero le smunte banconote da 500 lire sostituendole con 74 milioni di splendide monete d’argento. Il Paese vive uno straordinario periodo di prosperità e sviluppo: finanche il Mezzogiorno sembra industrializzarsi. È la stagione del “miracolo economico italiano”, per usare le parole del New York Times. Che ha purtroppo vita breve. Il Sessantotto francese sbarca in Italia, i sindacati condizionano le aziende, la politica è debole. Si diffonde un clima d’incertezza e negli anni Settanta, la Lira ne fa le spese. Ancora una volta, la moneta subisce un infausto destino, anche per la ricomparsa sullo scacchiere europeo e mondiale di due monete fortissime: il marco tedesco e lo yen giapponese. Due decenni di passione & inflazione. Il 17 marzo 1995 mentre sull’asse ParigiBruxelles-Francoforte si sviluppano le trattative per il varo dell’euro (con l’Italia che rischia l’emarginazione), la Lira è colpita dall’ennesimo infarto: 1739 sul dollaro, 1531 sul franco svizzero, 1274 sul marco tedesco, 330 sul franco francese. Il governo di Lamberto Dini, succeduto a Silvio Berlusconi, ha un colpo di reni. In clima d’emergenza, da “tecnico”, Dini promuove una riforma pensionistica, argina la spesa pubblica rallentando la corsa all’indebitamento dello Stato. Da ex banchiere Dini che è stato in Banca d’Italia, afferma, categorico: «Un Paese come il nostro non può fallire!». Ancora miracolosamente, la tensione sul mercato dei cambi s’allenta. La Lira esce dal mirino degli speculatori e verrà presto accolta (nonostante i dubbi della Germania), in quell’Euro che sta per nascere. Salvataggio in extremis, ma pienamente riuscito, dunque. Resta l’interrogativo: e domani? Ciò che sta accadendo in Grecia, obbliga a trattenere il fiato. Anche Portogallo e Spagna navigano in acque agitate. E noi? La Germania, divenuta impietosa, incalza. L’Euro stesso vacilla. Rievocare le vicende della Lira, non è dunque esercizio puramente accademico. Il passato può tornare!


mondo

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Continenti. Si è aperta ieri la Conferenza congiunta sull’ingresso dei tre Paesi dell’area nell’Unione. Con tutti i rischi connessi

Quale Europa per i Balcani? Il caso Bosnia-Erzegovina, dove l’islam ha conquistato il territorio e la politica di Luca Galantini ochi rammentano che in Europa esiste già, di fatto, uno Stato a maggioranza etnico-religiosa musulmana. Questo Stato è la Bosnia-Erzegovina, sorto sulle ceneri del defunto regime comunista jugoslavo, ed in questo Paese si stanno svolgendo, nell’indifferenza della comunità internazionale, pericolose esercitazioni sul campo di dissoluzione della società democratica grazie a velenosi fondamentalismi religiosi e nazionalismi esasperati. In questo quadro non esaltante si è svolta ieri nella capitale bosniaca la grande conferenza internazionale della Ue sui Balcani, grazie in particolare all’autorevole sponsorship del Ministro degli Affari Esteri Frattini.

P

Già analisti e cancellerie anticipano che non ci sarà alcun nuovo impegno strategico per l’area balcanica da parte della UE, ma ribadire il leitmotiv dagli Accordi di Pace di Dauyton del 1996 – ovvero che la pace e lo sviluppo dei Balcani sarà garantito solo tramite l’ingresso nella UE – pare già un obiettivo entusiasmante, se si considera che solo grazie alla granitica opera di mediazione del Ministro Frattini le delegazioni diplomatiche di Serbia e Kosovo (quest’ultimo è per il diritto in-

ternazionale Provincia serba sotto Protettorato ONU a seguito di risoluzione n.1244) hanno accettato di sedersi attorno al tavolo della conferenza. In verità i Paesi balcanici occidentali non godono di particolari attestati di stima da parte dell’Europa: dalle perniciose quanto puerili microscopiche controversie di confine tra Croazia e Slovenia all’intransigenza con cui la Grecia nega alla Macedonia il diritto dell’uso del proprio nome sovrano, alla ben più seria questione dello status sovrano del Kosovo, per giungere all’irrisolta confusa, per non dire catastrofica – come ebbe ad affermare l’ex ambasciatore di Bosnia-Erzegovina in Croazia Dizdarevic - situazione costituzionale della Bosnia stessa, il quadro che si

confermato e condannato i limiti e difetti della Costituzione bosniaca che non tutela appieno i diritti dei singoli individui quali membri di gruppi etnici, linguistici, religiosi, ma anzi favorisce la discriminazione dei gruppi più vulnerabili e minoritari, come i cattolici di Bosnia. Vediamo da vicino uno di questi delicati nodi di Gordio, che fanno dei Balcani l’ultimo “buco nero” del territorio europeo in cui i principi dello stato di diritto e della rappresentanza democratica vengono violati.

Che cos’è oggi la Bosnia-Erzegovina? Certamente uno Stato: in verità un simulacro di Stato, per chi conosce le fragili relazioni internazionali che reggono, solo grazie alle baionette delle due missioni milita-

Nell’area si stanno svolgendo, nel silenzio della comunità internazionale, pericolose esercitazioni di dissoluzione della società democratica grazie a velenosi fondamentalismi delinea, fatta la debita tara a tante ottimistiche veline che i mezzi di informazione trasmettono, non è per nulla rasserenante. Prova provata è data dal fatto che la stessa Corte di Giustizia dei diritti dell’uomo a Strasburgo ha recentemente

ri Nato e UE, un equilibrio politico tanto incerto. La Bosnia si presenta come il primo esempio “cavia” in Europa di silente islamizzazione della società civile e politica grazie ad una strategia culturale di penetrazione economica sostenuta da

Le rovine di Sarajevo, distrutta da un conflitto decennale. Sopra, un uomo suona il violoncello nella cattedrale. Nella pagina a fianco, una spiaggia albanese

Paesi quali la Turchia, l’Arabia Saudita e l’Iran, ma grazie anche – e purtroppo - alla debolezza politico-culturale della UE nel tempo presente, che non sa sostenere il valore strategico del proprio sistema politico-legislativo, come afferma uno dei principali pensatori laici liberali del nostro tempo, Jurgen Habermas. Purtroppo in Bosnia-Erzegovina è andata così: se da un lato l’Accordo di pace di Dayton del 1996 ha posto fine alla mattanza balcanica tra i gruppi etnico-religiosi bosniaco-musulmano, croato-

cattolico e serbo-ortodosso, per converso ha “esportato” un progetto istituzionale che fa piazza pulita dei fattori identitari, nella scia dell’illusione dei fallimentari modelli politici multiculturali occidentali.

Da ciò ha tratto profitto il gruppo etnico-religioso maggioritario e più coeso, quello musulmano, che con una aggressiva politica di “occupazione culturale” del territorio, de facto attraverso l’uso disinvolto delle leve di governo del Paese, attua la logica silente e morbida del jihad “bianco”: l’educazione di masse islamiche alla identificazione tra religione e politica, che non


mondo

Il titolare della Farnesina principale sostenitore dell’incontro

E Sarajevo applaude l’impegno di Frattini l ministro italiano degli Esteri Franco Frattini è considerato il grande sponsor della Conferenza ministeriale Ue-Balcani occidentali, che vede riuniti nella capitale bosniaca i rappresentanti delle diplomazie dei Ventisette Stati membri dell’Ue, quelli dei paesi della regione, nonchè i rappresentanti diplomatici di Russia, Turchia e Usa. E proprio il titolare della Farnesina, arrivato ieri a Sarajevo, dovrebbe dettare la linea per i lavori. Presente anche l’Alto rappresentante per la politica estera Ue Catherine Ashton e il commissario europeo all’Allargamento Stefan Fule. Partecipano inoltre ai lavori i rappresentanti speciali dell’Ue in Kosovo e Fyrom, nonchè i rappresentanti di Nato, Osce e Regional Cooperation Council. L’incontro si svolge nel formato Gymnich, e vede quindi i partecipanti identificati solo attraverso i rispettivi nomi e non anche attraverso i Paesi di appartenenza, al fine di consentire la contemporanea presenza delle autorità di Serbia e Kosovo. È l’occasione per fare il punto sui pro-

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gressi compiuti dai paesi dei Balcani occidentali sulla strada verso l’Europa, ribadire l’impegno della Ue a favore della prospettiva europea della regione, sottolineare l’importanze della cooperazione regionale, incoraggiare i paesi dell’area a risolvere i contenziosi ancora pendenti in uno spirito europeo. In apertura dei lavori al ministro degli Esteri Franco Frattini è giunto un ringraziamento per il suo «fondamentale sostegno» allo svolgimento della conferenza Ue-Balcani dal capo della diplomazia spagnola Miguel Angel Moratinos, il cui Paese ha la presidente di turno dell’Ue. Apprezzamento per il titolare della Farnesina anche da parte dell’Alto rappresentante Ue Ashton. Il vertice si è aperto con una sessione plenaria aperta alla partecipazione di Russia,Turchia e Stati Uniti e delle organizzazioni internazionali e regionali. Quindi seguirà una sessione ristretta aperta solo ai Paesi Ue e a quella dei Balcani occidentali, dove verrà presentata la dichiarazione finale predisposta dalla presidenza.

sanno concepire la diversità tra religione e politica se non in forma polemogena e bellicosa. Qualche esempio? Si chiama Bbi Centar, sigla di ”Banka Bosnian International”, l’istituto di credito della Federazione bosniaca, ed è un mega-centro commerciale sorto di recente a Sarajevo.Questa realtà è uno dei massimi esempi della progressiva islamizzazione delle leggi civili della Bosnia. Infatti il Bbi Centar è stato finanziato dai Paesi arabi islamici,la Turchia in primis e dentro le sue mura vige rigorosamente la legge islamica, la shari’a: qui non si vendono alcolici e carne di maiale, le donne entrano solo con il velo, la separazione tra i sessi è rigorosa. Il Bbi Centar rappresenta efficacemente un processo che, silenziosamente, sta scardinando dall’interno i principii costituzionali delle libertà democratiche e dello stato di diritto che l’Europa sperava attuare con gli accordi di Dayton in Bosnia Erzegovina. Quella che gli analisti definiscono la politica imperiale “neo-ottomana” della Turchia, che ambisce a sviluppare un’ampia area di influenza – giustificata dal collante della omogeneità linguistica turco fona - dai Balcani alle ex-repubbliche islamiche dell’Unione Sovietica, presenta preoccupanti analogie con gli esasperati nazionalismi statali che la visione confederale della UE si impegna a combattere: sovente solo sulla carta, però.

Ancora: l’opera di conquista del territorio e delle istituzioni politiche da parte della comunità islamica avviene attraverso un ingente piano economico finalizzato alla edificazione di moschee secondo il modello consolidato delle scuole coraniche, nelle quali, accanto alla formazione religiosa, si accompagna un impegno politico militante. Concretamente: alle ragazze che accettano di portare il velo e di osservare la regola wahabita, la corrente religiosa islamica più intransigente ed estremista, vicina idealmente ai movimenti terroristici di Al Qaeda, Hezbollah, vengono concesse borse di studio universitarie, mentre nella moschea vicino all’aeroporto, retta da imam wahabiti, è proibito l’accesso allo stesso rappresentante ufficiale della comunità islamica di Sarajevo. Ciò crea le premesse per una identificazione della fede religiosa islamica in un preciso impegno politico fondamentalista che impedisca il dialogo tra i tre gruppi linguistico-religiosi. Il diritto amministrativo degli enti locali è un altro strumento efficacissimo per

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creare discriminazione nei confronti delle comunità non islamiche. Come afferma monsignor Pero Sudar, Vescovo ausiliare di Sarajevo, la libertà religiosa dei cittadini cattolici è costantemente minacciata.

All’esodo forzato a cui, durante la guerra, è stata costretta la popolazione di religione cattolica - in un decennio si è praticamente dimezzata, con una fuga di oltre 500.000 cittadini in Croazia - non ha fatto riscontro l’impegno, promesso dal governo, a garantire il rilascio dei permessi per la ricostruzione delle case distrutte e per il restauro dei luoghi di culto cattolici; e come si sa, l’assenza della simbologia religiosa in qualunque centro abitato fa venire meno il “senso” dell’identità rispetto al proprio vissuto. La mancata concessione di autorizzazioni edilizie ed urbanistiche nel piano di governo del territorio ai danni della comunità cattolica è uno strumento più efficace di tanta retorica politica: delle 60 chiese

lastri giuridici istituzionali della propria identità, Stato di diritto e democrazia, in nome di un confuso melting pot multiculturale. Ma l’interlocutore in questione, il mondo islamico, non è portatore di principii irrinunciabili in campo politico e giuridico, come il principio di reciprocità, non condivide in toto ad oggi norme basilari quali il valore della libertà individuale e della democrazia. Forse sarebbe il caso di affrontare con ponderata serenità ciò che in molte cancellerie si mormora e che nelle strade di Sarajevo come a Mostar o a Bania Luka la gente della strada sostiene esplicitamente: la Bosnia Erzegovina non cerca, e non ha bisogno di essere, nel senso più elementare del termine, un Paese, come lo sono tutti gli altri. Evidentemente, in Bosnia Erzegovina per vari motivi tutto questo a molti sta bene.

Il modello multiculturale della società globalizzata, versione aggiornata del pragmatismo utilitarista americano, se nelle

L’Accordo di Dayton ha “esportato” un progetto istituzionale che fa piazza pulita dei fattori identitari, nella scia dell’illusione dei falliti modelli politici multiculturali dell’Ovest cattoliche distrutte nella Diocesi di Sarajevo durante la guerra la Curia non ha ancora ottenuto il permesso per avviare i lavori di ricostruzione di alcuna, mentre nel Paese sono state costruite ben 156 nuove moschee. Proprio il cardinale Vinko Pu-

lijc, energico arcivescovo di Sarajevo impegnato sin dai tempi della guerra in prima linea nella tutela dei diritti della comunità cattolica di Bosnia - ha già subito cinque attentati terroristici e si muove sotto scorta lancia una denuncia circostanziata: l’ambasciatore di uno dei Paesi occidentali maggiormente impegnati nell’attuazione dell’Accordo di Dayton ha infatti espresso il convincimento che se i cattolici non si assimileranno alla maggioranza bosniaco-musulmana, dovranno scomparire. La realtà in Bosnia Erzegovina appare in tutta la sua cruda paradossale schizofrenia: l’Europa rinunzia ai pi-

rette intenzioni di John Dewey doveva rispondere alle esigenze di inclusione del cittadino nel dinamismo strutturale di una società osmotica etnicamente e religiosa varia come quella USA, in realtà, a contatto con le stratificazioni storiche e politiche dell’Europa ha provocato solo reazioni di rigetto, ostilità ed estraneità. Annullare o mettere in epochè la propria identità è, secondo il filoofo Giovanni Reale, il rischio più latente della società multiculturale... Appare sempre più evidente che se i classici canoni di appartenenza si indeboliscono, siano essi religiosi, etnici, linguistici, si lancia una sfida epocale al “senso” del vivere comune.E se l’assenza del senso del vivere comune nasce dal seno della globalizzazione multiculturale, il recupero del senso della collettività si svilupperà nel lessico costituzionale con il recupero dei concetti di popolo e di radici identitarie, categorie politologiche che i cold projects del costituzionalismo laicista hanno inppotunamente sottovalutato. L’esito è evidente: ne scaturisce una sfida epocale in cui la miopia dei governanti europei potrebbe rivelarsi tragica per la società civile. La Bosnia non a caso è perennemente in bilico tra istanze di secessione armata e rassegnata sopravivvenza.


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Giappone. Venerdì le primarie democratiche per la scelta del successore TOKYO. Il premier giapponese Yukio Hatoyama ha riperso la battaglia di Okinawa. Stavolta è bastato meno del mezzo milione di soldati, 1.600 navi e 12.000 aerei utilizzati dalle forze armate americane nel 1945. E non è colpa degli alieni che secondo la moglie del premier l’avrebbero rapita alcuni ani fa. È bastato non trovare l’accordo giusto per spostare una delle basi militari, quella di Futenma. Hatoyama in campagna elettorale aveva promesso ai suoi sostenitori di portare a termine lo “sfratto” e di rivedere lo status dei militari americani dispiegati in Giappone, ma pochi giorni fa ha gettato la spugna dicendo che non era possibile mandar via gli americani. Aveva anzi definito “irragionevole” la proposta avanzata dal Partito Socialista, partner di coalizione, di spostare la base militare statunitense di Okinawa sull’isola di Guam, in territorio americano. La sua popolarità, già scarsa dopo i fasti del 70% iniziale, è crollata quasi di colpo ad appena il 20% di gradimento, e con le elezioni del Senato in vista, a luglio. Gli alleati di governo socialdemocratici non hanno apprezzato, e si sono ritirati dalla maggioranza. Per cui tutti, anche i suoi sostenitori, hanno pensato che forse era il caso che il primo ministro si facesse da parte dopo appena otto mesi al timone, cedendo l’incarico a una personalità meno compromessa. Anche il numero due del partito, Ichiro Ozawa, ha annunciato le proprie dimissioni. Oggi il partito Democratico giapponese (DpJ) sceglierà il suo nuovo leader. Il nuovo presidente della principale forza di governo sarà probabilmente anche il nuovo premier, riporterà i socialdemocratici nella coalizione e già lunedì potrebbe varare il

Okinawa resta Usa Hatoyama se ne va Il premier di Tokyo non riesce a spostare i marines americani e lascia l’incarico di Osvaldo Baldacci

mento di opposizione alla presenza americana, anche in relazione a diversi casi di violenza sessuale e molestie compiuti dai militari statunitensi. La popolazione locale da tempo chiede lo spostamento della base fuori dalla sua prefettura, lamentandosi del rumore, dell’inquinamento, temendo incidenti e collisioni. L’anno scorso, in

I problemi diplomatici con Washington sono soltanto uno dei motivi del crollo del governo. Pesa sopratutto la terribile crisi economica nuovo governo. In pole position come successore l’attuale vicepremier e ministro delle Finanze giapponese, Naoto Kan. In calo dopo l’annuncio, tutte le piazze finanziarie dell’area Asia-Pacifico, anche perché non si tratterà di una sostituzione indolore, in quanto tutti i nodi resteranno lì, a partire proprio dalla base di Okinawa. E Hatoyama è il quarto Primo ministro nipponico a dimettersi negli ultimi quattro anni. Nell’isola dove fu inventato il Karate esiste un forte movi-

campagna elettorale, l’attuale primo ministro Yukio Hatoyama promise il trasferimento fuori dall’isola. Diverse migliaia di persone in questi giorni hanno manifestato, chiedendogli di mantenere la promessa. Ma Hatoyama, a seguito di colloqui con gli Usa, ha deciso di spostarla solo dal centro città a una zona della costa meno popolata, presso Nago. Il giappone inoltre contribuisce al mantenimento economico delle basi americane, e l’anno scorso il ministro degli esteri

Nella Futenma vivono oltre 20mila soldati

La base della discordia Quattromila marines e oltre trecento aerei a disposizione: questa è la Marine Corps Air Station Futenma, che si trova nella città di Ginowan nell’isola di Okinawa, la maggior base militare americana in Giappone, con i suoi 480 ettari di estensione. Fu costruita già nel 1945 sull’isola che era stata teatro dell’unica grande battaglia terrestre in territorio giapponese della seconda guerra mondiale, con 230 mila morti. Oltre alla base dei marines, nell’arcipelago esistono molte altre basi militari statunitensi, il 10,7% della superficie dell’arcipelago da diverse basi aeree, navali e di terra.

Per oltre 20mila militari americani (su 47mila presenti in Giappone) cui va sommato il personale civile. Nel 1996 Stati Uniti e Giappone firmarono un accordo che prevedeva di spostare entro il 2014 circa 8.600

uomini dalla base di Okinawa a un’altra base nel Pacifico.

Prevedeva inoltre la restituzione della base militare di Futenma e di parte di altri dieci tra basi, poligoni di tiro e centri di comunicazioni, per un totale di cinquemila ettari di territorio giapponese «liberato». La po-

polazione locale, almeno una parte, non ha mai amato le basi americane, non tanto per motivi nazionalistici o pacifisti, quanto piuttosto per problemi legati ai rumori, all’inquinamento e al cattivo comportamento dei militari. Un cattivo comportamento che alla fine ha costretto alla resa l’ultimo esecutivo dems.

giapponese Hirofumi Nakasone ha firmato un accordo con il segretario di stato americano, Hillary Clinton, prendendo l’impegno di versare da 6,09 a 10,27 miliardi di dollari per favorire il trasferimento di gran parte delle truppe presenti a Okinawa.\\u2028La questione della base non è così semplice. Prima di tutto esistono accordi con gli Stati Uniti, seppur in gran parte risalenti all’occupazione dopo la Seconda Guerra Mondiale, e tali accordi vanno rispettati. Washington poi non è tanto condiscendente nell’ipotesi di ritiro, avendo da difendere i suoi interessi. Negli anni passati gli Stati Uniti hanno provveduto a una razionalizzazione delle numerose basi militari in giro per il mondo, e in questo contesto rientrano anche gli accordi su Okinawa, che però nella nuova strategia era ben lungi dal dover essere smantellata.

Gli Stati Uniti infatti sono sempre più proiettati sull’area dell’Oceano Pacifico, rispetto alla vecchia Europa. E con il presidente Obama questa attenzione privilegiata all’Asia è in costante crescita. Le basi giapponesi sono quindi determinanti, e tanto più lo sono di fronte da un lato alla crescita della Cina a superpotenza mondiale, dall’altro al pericolo concreto rappresentato dalla Corea del Nord. E in quest’ottica la presenza militare statunitense è molto importante per il Giappone stesso. E sebbene la politica di Tokyo nei confronti della Cina, oltre che delle Coree, miri a svincolarsi dalla eccessiva tutela dell’alleato americano, resta il fattto che senza quella solida amicizia il timore di essere fagocitato al momento esiste. Il momento quindi non è il migliore per provocare una crisi su questi temi, e questo vale ancora di più vista la grave situazione economica e finanziaria internazionale da cui il Giappone è tutt’altro che immune. Sarà soprattutto di questo che dovrà occuparsi il nuovo governo, e il possibile successore di Hatoyama, Naoto Kan, che il 4-5 giugno è atteso al G20 finanziario di Busan (Corea del Sud), si è mostrato deciso nell’affrontare la questione deflazione che mina la ripresa economica, esercitando crescente pressione sulla Bank of Japan (BoJ) per maggiori sforzi, oltre a dirsi favorevole alla stretta della spesa e al riordino dei conti pubblici visto il debito che viaggia verso il 200% del Pil.


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Il boss della compagnia contro i risarcimenti post-vulcano

Sembra già fatto l’accordo fra Ods, Top 09 e Affari Pubblici

Ryanair attacca i passeggeri “bastardi”

Praga, pronta una coalizione di tre partiti per il governo

DUBLINO. Le loro pretese sono «ridicole» e loro stessi sono dei «bastardi», perché hanno speso 30 euro per un volo e adesso ne chiedono 3.000 indietro, come risarcimento. È la sobria sintesi del boss della Ryanair, Michael O’Leary, quando annuncia che la compagnia lowcost non solo è pronta a sfidare la direttiva europea in tema di risarcimento per i passeggeri vittime del vulcano Eyjafjallajökul (non dando loro neanche un centesimo), ma sta anche pensando di denunciare a sua volta alcuni governi del continente per la chiusura dello spazio aereo durante l’eruzione islandese, portando il caso davanti alla Corte europea, nella speranza così di spingere il Parlamento della Ue alla totale revisione della legge incriminata, che non pone limiti alle richieste di risarcimento da parte dei passeggeri.

PRAGA. Il probabile prossimo premier ceco, Petr Necas, leader del partito conservatore dei Civici Democratici (Ods), ha annunciato ieri a Praga di avere raggiunto un accordo per una coalizione di governo tripartita.Del futuro governo faranno parte l’Ods e i due nuovi partiti di centrodestra, Top 09 e Affari Pubblici. Alle elezioni del 28-29 maggio l’Ods, benché arrivato secondo, era risultato il solo partito in grado di mettere insieme una coalizione di governo. Assieme i tre partiti dispongono al Parlamento ceco di una solida maggioranza di 118 seggi, su 200 in tutto. Necas ha definito il futuro esecutivo un “governo di responsabilità” di bilancio, di diritto e lotta alla

Una mossa che segue quella della concorrente EasyJet, che si è detta pronta ad una «class action» contro i responsabili di quel divieto di volo che le sarebbe costato una perdita di 90 milioni di euro. Secondo il collerico irlandese, l’orientamento della Ue di offrire vitto e alloggio ai passeggeri rimasti a terra sarebbe «tutto un imbroglio», tanto che già nei primi

Un razzo contro la jirga di Karzai I talebani attaccano la sede del Consiglio degli anziani di Massimo Ciullo on è iniziata sotto i migliori auspici la Jirga (Assemblea) consultiva per la pace che negli auspici del presidente afghano Hamid Karzai, deve condurre alla pacificazione del martoriato Paese asiatico. All’assemblea partecipano 1600 invitati tra deputati, capi dei consigli provinciali, leader tribali e religiosi, convocati dal presidente Karzai nella capitale per autorizzare il suo esecutivo ad intavolare trattative con i leader della guerriglia. Il capo dello Stato però, non ha fatto neanche in tempo a terminare il suo discorso inaugurale ed è stato costretto ad interrompere i lavori a causa di un attacco da parte di un commando talebano, che fortunatamente non è riuscito a colpire i suoi bersagli. Poco dopo l’inizio dell’intervento del Presidente afghano un primo razzo è caduto vicino all’Hotel Intercontinental a meno di un chilometro dalla tenda dove si svolge la tradizionale adunanza, allarmando i delegati presenti. Karzai ha sospeso allora per un attimo la lettura del testo, invitando tutti alla calma perché, ha osservato, «questo è l’Afghanistan di oggi». «Mi ci sono abituato. Tutti si sono abituati», ha detto Karzai, riprendendo il suo discorso. Al primo razzo ne sono seguiti altri due mentre un commando di militanti armati, tre dei quali vestiti con tradizionali burqa femminili, ha aperto il fuoco nel quartiere di Khoshal Khan, a circa tre chilometri di distanza dal luogo della Jirga, con l’impossibile obiettivo di raggiungerlo. Le autorità hanno spiegato che tre razzi indirizzati alla grande tenda dove era in corso la tradizionale adunanza hanno mancato il bersaglio, e i funzionari della sicurezza si sono scontrati con un numero imprecisato di uomini armati, uno dei quali si è fatto esplodere con una bomba. Testimoni presenti sul posto hanno riferito che, a un’ora dal primo attacco, si sentivano ancora sporadici colpi di arma da fuoco. Lo scontro con ingenti forze di sicurezza è durato a lungo ed alla fine due talebani del commando sono stati uccisi ed un terzo è invece

N

stato arrestato. Poco dopo, Ghulam Farooq Wardak, uno degli organizzatori della Jirga, ha comunicato ai delegati che il commando era stato neutralizzato dalle forze di sicurezza. «Tre attentatori suicidi vestiti con dei burqa sono entrati in un’abitazione in costruzione. E hanno lanciato un razzo in direzione del padiglione», ha affermato Wardak.

«Grazie a Dio due di loro sono stati uccisi. Hanno pagato per i loro crimini. Il terzo è stato catturato», ha aggiunto. La rivendicazione dell’attacco non si è fatta attendere. Il portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha chiamato la Reuters e ha detto che «l’attacco è stato condotto dai nostri combattenti». Da tre chilometri di distanza dalla Jirga, un numero imprecisato di militanti talebani si sono trincerati in alcune abitazioni dell’Università di Kabul, a 300 metri da dove sono riuniti i 1.600 delegati. Il capo dello Stato ha comunque abbandonato l’area dell’Assemblea sotto pesante scorta militare, e lo stesso hanno fatto i membri del corpo diplomatico straniero. Nel suo intervento Karzai ha rivolto un appello accorato alla riconciliazione “ai fratelli”talebani che hanno scelto di ritirarsi all’estero, prendendo anche le armi. Karzai, con tono conciliante ha detto di comprendere le ragioni per cui i talebani hanno scelto l’esilio o la lotta armata, arrivando a dire che «così è stato anche forse per colpa di insensibilità nostre. Se si verificherà che abbiamo sbagliato ha aggiunto Karzai proponendo un dialogo di pace senza precondizioni - siamo pronti a pagare una penale. E se ci saranno talebani colpevoli, abbiamo la volontà di perdonarli». Ma da parte degli insorti, che hanno rivendicato la responsabilità dell’attacco, non vi è la minima intenzione di riconoscere la legittimità della Jirga convocata da Karzai, e hanno dichiarato i suoi partecipanti “nemici del Paese”, che riusciranno solo a portare “più guerra al Paese”. I lavori, attentati permettendo, andranno avanti fino al 4 giugno.

Il presidente, che stava leggendo il suo discorso, ha invitato i presenti alla calma: «Sono abituato. Anzi, siamo tutti abituati»

giorni di aprile, quando ci furono i primi disagi, Ryanair si rifiutò di rimborsare almeno 300mila passeggeri, salvo poi fare marcia indietro a seguito di una protesta pubblica. «Rifiuteremo almeno 10 o 20 delle richieste di risarcimento più assurde – si legge sul Guardian– provenienti da quei bastardi che hanno pagato 30 euro per un biglietto e che ora ne vogliono 3.000 indietro. Volete un esempio? C’è un passeggero irlandese che ha speso 34 euro per un viaggio alle Canarie e che ora ne rivuole indietro 2.900 per le spese di vitto e alloggio. Ma questo è solo uno dei tanti casi che riguardano questa vicenda».

corruzione. L’accordo di governo della coalizione tripartita dovrebbe essere pronto entro un mese, massimo due, ha precisato. L’Ods ha ottenuto alle elezioni il 20,2 per cento.

Primi sono arrivati i socialdemocratici (Cssd) con il 22,1 per cento, ma senza i numeri per mettere insieme una maggioranza di governo. Per questa ragione, Necas era considerato dall’inizio il probabile, futuro premier. I due nuovi partiti Top 09 dell’ex ministro degli esteri Karel Schwarzenberg e Vv dell’ex giornalista investigativo Radek John - sono arrivati al 16,7 per cento e 10,9 per cento. Le «consultazioni sono state amichevoli e comprensive, siamo arrivati rapidamente a un accordo», ha detto Schwarzenberg. «L’accordo è buono, abbiamo convenuto di governare assieme nell’interesse dello Stato», ha aggiunto John. Attesa per un ruolo di governo, quello che dovrebbe ricoprire l’ex primo ministro Topolanek. L’esponente politico, praticamente auto-esiliatosi dopo lo scandalo delle foto nudo nella Villa Certosa di Silvio Berlusconi, dovrebbe - secondo un accordo informale fra le parti - rientrare nel prossimo esecutivo della Repubblica.


spettacoli

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Serial tv. Raggiungere il successo della creatura di J.J. Abrams non sarà facile. Perché ha saputo unire la tecnica della continuità al mistero (e a molto altro)

Caccia all’erede di “Lost” Ora che è andata in onda l’ultima puntata della serie che ha conquistato il mondo, a chi passerà il testimone? di Alessandro Marongiu he end: con un doppio episodio intitolato proprio così, The end, trasmesso il 23 maggio negli Stati Uniti e andato in onda sul satellite italiano appena 24 ore dopo già doppiato, è calato il sipario su Lost, fuor di dubbio la serie televisiva di maggior successo e diffusione degli Anni Zero. E va subito detto che, una volta tanto, le fortune di introiti e audience sono andate di pari passo con la qualità: sì, perché se Lost è stata seguita puntata dopo puntata da decine di milioni di persone, generando un ritorno da favola per il canale produttore, la Fox di Rupert Murdoch, e un indotto conseguentemente imponente, è stato anche per gli indiscutibili meriti degli sceneggiatori, che nel mare ormai magnum dei serial tv ne hanno fatto un capolavoro, e degli attori, tutti talmente bravi e in parte che per i prossimi lustri avranno un bel daffare a ricrearsi una carriera al di fuori dei personaggi che li hanno resi famosi.

T

Tutto ciò, a onor del vero, nonostante la prima metà della sesta e conclusiva stagione (calco dell’inglese season, nonché prima parola chiave degli Anni Zero: un tempo si sarebbe parlato di annata) - sia stata ben al di sotto delle aspettative: un abbassamento di livello comunque rimediato in corsa, e che ha traghettato verso una conclusione intensa ed emozionante gli spettatori, i quali l’hanno vissuta con insoddisfazione per il solo fatto che ora verranno privati di quello che era diventato un appuntamento fisso. Chiamatela, se volete, coazione a ripetere: di questo, e poco altro, si tratta, perché in fondo, la fortuna di Lost e di tanti altri serial che in questi ultimi anni hanno invaso i nostri palinsesti, sta esattamente nella capacità di trasformare il passatempo in passione, e la passione in dipendenza, sfruttando un

meccanismo ormai consolidato che, settimana dopo settimana, permette il rinnovarsi del rito della visione - un rito che si trasforma nel giro di poche ore da individuale a collettivo quando, appena conclusa la trasmissio-

La bravura è stata anche quella di aver trasformato un passatempo in passione, e la passione in vera e propria dipendenza

ne, gli appassionati affollano forum e blog per confrontare pareri e scambiarsi opinioni. A conti fatti, però, il “poco altro” cui si accennava prima è ciò che rischia di fare la differenza: cos’hanno infatti Lost, Prison Break, Desperate Housewives, E.R. e compagnia, di così speciale da scatenare vere e proprie manie su scala mondiale, e da offrire in più rispetto a gloriosi predecessori come Chips, Saranno Famosi, Hazzard o

Supercar? La risposta è inscritta in quel recente cambio di denominazione che fa parlare per gli ultimi di “telefilm”, e per i primi di “serial”: e cioè, appunto, la serialità. L’idea dei nostri tempi, banale quanto vincente, è che l’ultima puntata dell’ultima serie di un prodotto debba possedere degli elementi di continuità (continuity, ecco un’altra parola chiave degli Anni Zero) con la prima puntata della prima serie. A segnare la svolta in questa direzione è stato X-files, la creatura di Chris Carter che attraverso ben 200 episodi affollati di alieni, mostri, intrighi governativi e via dicendo, ha raccontato a ben vedere una sola, semplice vicenda: quella, dipanatasi dal pilot del 1993 fino a La verità, il tassello conclusivo del 2002, del passaggio di consegne tra l’ateo Fox Mulder e la religiosa Dana Scully, con lui che scopre la trascendenza e lei che, davanti alle innumerevoli prove di esistenza di altre forme di vita intelligenti nell’universo, è

costretta a riconsiderare il suo rapporto con la dottrina della Chiesa. Un’intuizione geniale risolta nella pratica in maniera quasi

A fianco, un’immagine della serie televisiva “Lost”; in basso, il creatore del telefilm J.J. Abrams e la macchina della vecchia serie tv “Hazzard”. In basso a destra, le locandine di altri due famosi attuali telefilm: “Prison Break” e “Desperate Housewives”

asinina e paradossalmente frettolosa: ma questo, come si suol dire, è un altro discorso. Ciò che importa, in un mercato televisivo in costante evoluzione, in cui anche il veicolo di fruizione ha

un’importanza enorme (si pensi a quanto incidono su programmazioni e scelte editoriali il crescente seguito dei canali a pagamento, l’immediata diffusione in rete dei programmi, l’avvento del digitale terrestre, dell’alta definizione e, a breve, del 3D casalingo), è che X-files abbia rappresentato il cambio di paradigma nel mondo delle serie tv: e se per decenni la gran parte delle produzioni ha vissuto di puntate autoconclusive, e perderne

una, o cinque, o anche dieci, non pregiudicava alcunché per lo spettatore, oggi, mancando anche solo due appuntamenti consecutivi col proprio programma di culto, si rischia di non riuscire più a riprenderne le fila, restando indietro rispetto agli altri membri della comunità o, peggio ancora, venendone esclusi.

All’altezza dei nostri Anni Zero, in cui la parola fan va sempre più riassumendo la connotazione etimologica originaria, quella di fanatic, è un rischio che davvero in pochi si sentono disposti a correre. Sotto questo aspetto, Lost ha saputo raccogliere il testimone di Xfiles meglio della concorrenza, non solo perché ha puntato in maniera decisa sulla continuità, ma anche perché ha creato un sistema di simboli e rimandi esterni che ha letteralmente scatenato la fantasia degli spettatori, che, come posseduti, si sono dati battaglia alla ricerca dei legami tra alcuni personaggi e i filosofi che ne hanno ispirato i cognomi (Hume, Locke, Rousseau), o dei significati reconditi della fantomatica sequenza numerica che ha orientato tutte le vicende della serie (4, 8, 15, 16 23, 42), elaborata dall’altrettanto fanto-


spettacoli

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prima grandezza, della gallina dalle uova d’oro dell’universo supereroistico si sfruttano ormai anche i comprimari dei comprimari, come Dottor Strange e Lanterna Verde. La risposta degli Studios a questa situazione è stata quella di sempre, e per compensare il vuoto di idee si è quindi puntato su quegli effetti speciali che la tv non è in grado di garantire: ecco spiegato il ritorno alla cura per tutti i mali, il 3D. Che almeno a livello economico ha dati i suoi frutti, è vero, ma che l’ha fatto anche per l’ultima volta, visto che l’arrivo del 3D casalingo segnerà inevitabilmente la fine di quello cinematografico. Di questa situazione catastrofica hanno approfittato come mai in precedenza i canali e le produzioni televisive.

matico matematico sardo (!) Enzo Valenzetti, dietro cui non è difficile indovinare un omaggio alla figura del pisano Leonardo Fibonacci. Ma nelle strategie di pianificazione televisiva degli Anni Zero, serialità significa anche altro: significa fare in modo che lo spettatore, senza saperlo, sia come obbligato a sedersi ogni sette giorni davanti alla tv, sempre nello stesso giorno della settimana e sempre alla stessa ora. La trovata, una volta di più banale quanto vincente, è mutuata dalle soap-opera americane, le quali a loro volta l’hanno mutuata alla metà degli Anni Settanta da Chris Claremont, l’autore che per due decenni ha tenuto in mano le redini della serie a fumetti X-men della Marvel, rifondandola e dandole i connotati della saga senza fine: si tratta dell’interruzione di ogni episodio nel suo momento culminante, quando stanno per giungere una rivelazione decisiva o un cataclisma improvviso, o quando un personaggio, sul bordo di un costone, è lì lì per trasferirsi nel regno

qualità della confezione, né le astuzie narrative, né le facilitazioni alla diffusione di una moda che internet consente, sono elementi che da soli possono dar conto del fenomeno dei serial nell’ultimo decennio. C’è un dato aggiuntivo, esterno al piccolo schermo ma fondamentale nel determinare questo stato di cose, ed è lo stato di profonda agonia che sta vivendo il ci-

dei più. Al di là di Claremont e delle soap, che non sono altro che referenti ultimi in ordine di tempo, è chiaro che gli sceneggiatori di oggi abbiano in mente un modello più datato, quello del romanzo d’appendice: e infatti non sbaglierebbe affatto chi vedesse nei serial di oggi, mutatis mutandis, i più accreditati eredi del feuilleton sette-ottocentesco. Eppure né l’elevata

nema americano. Non si parla qui di agonia di incassi, ché se al botteghino Hollywood attraversa un periodo difficile, la causa è da ricercarsi nella crisi economica generale, non certo nella mancanza di spettatori. Ciò di cui si parla è invece della più totale, esasperante, mancanza di idee. Basta gettare uno sguardo alla produzione di genere, che a ogni latitudine ha da sempre costituito l’ossatura dell’industria: una pellicola horror su due non è altro che il rifacimento di un classico, o presunto tale (e se si è arrivati al rifacimento anche di San Valentino di sangue, significa che ormai si raschia davvero il fondo); a fronte di una manciata di film riusciti e originali (Smoking Aces, Crank), ecco spuntare nel campo dell’action pura e dell’azione sposata alla commedia i rimasticamenti di Mission: impossibile, Charlie’s Angels, Hazzard e, buon ultimo, A-Team; in ambito fantastico, esaurite le stelle di

L’eccellenza di regia ed effetti di postproduzione, la possibilità per gli sceneggiatori di sperimentare ed eventualmente correggere il tiro in corsa (più volte, nello stesso Lost, si è avuta l’impressione che gli autori procedessero alla cieca, ma poi ogni cosa ha sempre trovato un suo senso, in un modo o nell’altro), il divismo degli attori, che da sconosciuti possono diventare celebrità, o che hanno una possibilità di rilanciarsi se la loro carriera sul grande schermo era in precedenza naufragata (è il caso tra gli altri di Kiefer Sutherland con 24, James Woods con Shark, Joe Mantegna con Criminal Minds, ma le resurrezioni sono molto più numerose), fanno al giorno d’oggi dei serial tv, semplicemente, il cinema del terzo millennio. Da domenica 23 maggio, intanto, ci si trova ad affrontare un problema di genere diverso: ora che Lost è andato, almeno momentaneamente, in soffitta, i fan(atic) si trovano a dover individuare un nuovo oggetto di culto che faccia loro compagnia (o a cui aggrapparsi) settimana dopo settimana, mentre le emittenti si affannano alla ricerca, forse disperata, di un prodotto che ne eguagli cifre e consensi. Il primo tentativo è andato miseramente a vuoto: il gran battage pubblicitario, un Premio Oscar per protagonista (Ralph Fiennes) e due attori comprimari riciclati proprio da Lost (Sonia Walger e Dominic Monaghan), non sono bastati a lanciare su larga scala Flash Forward, sospeso per mancanza di ascolti per diversi mesi tra il 2009 e il 2010, e a rischio cancellazione già dopo una sola stagione. Peccato, perché in fondo il suo mix di mélo e blandi elementi fantascientifici non è per niente male, e perché già in tanti, sentendosi orfani, ne avevano segnato sul calendario il giorno di messa in onda sperando di farne, settimana dopo settimana, il nuovo appuntamento fisso delle loro vite. La caccia all’erede di Lost, insomma, continua. O To be continued, che dir si voglia.


pagina 20 • 3 giugno 2010

cultura

Libri. Esce per Piano B “Libertà di stampa”, raccolta dei racconti che l’autore di “Huckleberry Finn” dedicò al quarto potere

I giornali alla corte di re Twain di Giampiero Ricci Nella foto grande, e qui sotto, lo scrittore americano Mark Twain, pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens (Florida, 30 novembre 1835 – Redding, 21 aprile 1910). Scrittore e umorista, fu indicato da Faulkner come il padre della letteratura americana. In basso, “Libertà di stampa” e la sua casa natale

razie a una piccola casa editrice di Prato, Piano B Edizioni, arriva nelle librerie un piccolo libello contenente una serie di brevi saggi inediti di Mark Twain, Libertà di stampa (2010, pagg. 117), occasione preziosa per osservare attraverso le lenti della storia e non piegati a una logica strumentale di scontro politico, un tema centrale per la crescita culturale di una autentica opinione pubblica: il ruolo del giornalismo nella società.

G

Samuel Langhorne Clemens, al secolo Mark Twain (1835-1910) visse gli anni della costruzione dell’opinione pubblica americana, un evento che si sviluppò di pari passo al consolidarsi istituzionale, economico e politico di tutta la nazione; del creatore de Le avventure di Huckleberry Finn Hemingway dirà: «Tutta la letteratura moderna statunitense viene da un libro di Mark Twain, Huckleberry Finn... tutti gli scritti americani derivano da quello. Non c’era niente prima. Non c’era stato niente di così buono in precedenza». Oltre ai meriti letterari va detto che Twain fu uno dei protagonisti di quel periodo che – giova sempre ricordarlo – valse non solo la tenuta dell’Unione nordamericana uscita fuori dalla Guerra di Indipendenza dall’Impero Inglese ma anche la prova compiuta che all’interno del concerto delle nazioni democrazia e libertà potevano diventare un opzione possibile. Quegli Stati Uniti pullulavano di giornali locali che dovevano accompagnare con le loro notizie gli avventurieri per i viaggi attraverso la frontiera, il tutto in uno scenario che peccava di infrastrutture inesistenti o alla meglio approssimative, al punto da necessitarsi giorni e giorni per attraversare il Paese; ma i giornali dovevano uscire quotidianamente e così lo sforzo richiesto ai giornalisti sconfinava oltre il limite del fatto in una gara cialtronesca ma creativa a inseguire anche solo parole riportate per chilometri e chilometri e passate di testa in testa. Il libello, con racconti come Giornalismo nel Tennessee o Come diressi un giornale per agricoltori, aiuta a ricostruire quelle pittoresche e paradossali situazioni attraverso lo sguardo sarcastico e malinconico di uno dei padri della letteratura statunitense, ci racconta quell’epoca e quella parte di industria giornalistico-editoriale artigianale e rudimentale di testate schiacciate su tagli parossisticamente grevi, testate che crescevano tumultuosamente per poi con la stessa velocità finire nell’oblio, e il tutto accadeva mentre nascevano e prendevano piede invece, altri giornali che ancora oggi fanno la notizia negli States e nel mondo. Gustoso il racconto Un candidato governatore dove l’autore Mark Twain racconta di un suo tentativo di cimentarsi in politica per la carica di governa-

tore nello Stato di New York, tentativo finito nella farsa sotto i colpi delle deliberate e totalmente infondate accuse della stampa nemica, giunta alle peggiori offese e capace di mobilitare gen-

smo americano il rapporto con il lettore viene ricondotto con ironia a qualcosa di pericolosamente vicino, di minaccioso, con il lettore sempre dietro l’angolo pronto a farsi giustizia per vendicare in

Chi possiede la facoltà di parola sa di poterla esercitare «solo se si è disposti a sopportarne le conseguenze»: mentre l’omicidio a volte viene punito, il diritto d’opinione sempre taglia pronta alle vie di fatto, al punto da spingere Twain a decidere di ammainare bandiera per difendere la propria onorabilità. Nei racconti su quella stagione del giornali-

un modo o nell’altro torti patiti per la pubblicazione di una notizia o l’altra: per l’autore di Le avventure di Tom Sawyer e di libri come Il Principe e il Povero, Un Americano alla corte di Re

Artù, Vita sul Mississippi, alla fine la libertà di stampa si addice solamente ai trapassati. Proprio così. Nel suo breve saggio Il privilegio dei morti: sulla libertà d’espressione, il grande americano arriva a sostenere come la libertà di parola sia posseduta soltanto come vuota formalità: chi la possiede sa di poterne fare uso ma non può essere considerato come un effettivo possesso e in quanto tale il suo esercizio è assimilabile a quello di un omicidio: «si può esercitarlo solo se si è disposti a sopportarne le conseguenze», con la differenza che l’omicidio a volte è punito, la libertà di parola sempre.

Furono gli anni dei mandati presidenziali di Thomas Jefferson ma anche delle riforme economiche di Alexander Hamilton, anni di scontri politici e di interessi accesi tra il primo partito democratico ed il partito federalista, fazioni in lotta acerrima eppure capaci di tenere insieme un New England industriale e il sud rurale, aprendo all’avventura della frontiera, il volto letterario di questo periodo fu Mark Twain di cui restano indelebili le pagine perché capace Twain di votarsi a una fedele ricostruzione dell’umanità varia e spesso molesta, costituita alla fin fine da gente semplice ma profondamente nobile che fu protagonista di quella stagione, così facendo si aprì la strada ad una forma di umanesimo moderna e dalle enormi potenzialità, con capacità di diffusione e di comprensione globale, qualcosa che ancora oggi il romanzo americano non sa dimenticare di poter esprimere.


cultura

3 giugno 2010 • pagina 21

olitically correct parlando, dovremmo forse chiamarli “diversamente alti”? Perché una cosa è certa: i nani sono bassi. E rendono alti, giganteschi, tutti quelli che stanno intorno a loro (o, al contrario, se vogliamo unirci a Eco, anche se parlava d’altro, «siamo tutti nani sulle spalle di giganti»). Qualche mese fa è morto, a soli 21 anni, Pingping, che con i suoi 74,61 centimetri di altezza era l’uomo più piccolo del mondo. “Breve” la sua altezza,“breve”la sua vita.

P

Nella concezione medioevale e rinascimentale il nano è una figura multiformemente complessa, una imperfezione nella difformità: ha, in sé, una concatenazione di potenzialità che rimangono inespresse. Potrebbe essere un uomo, ma non lo è; potrebbe essere un bambino, ma non lo è; potrebbe essere un animale, ma non lo è; potrebbe essere un mostro, ma non lo è. Allora cosa è? Intanto si può dire che è piccolo, è un dettaglio del reale, è un essere in dissidio con la Natura-Norma (se con essa intendiamo la categoria della perfezione nella conformità). Ma nessuno di noi è perfetto in natura: chi è gobbo, chi è zoppo, chi è cieco, chi è sordo… basta guardarci attorno! Diverso lo sguardo con cui nei secoli sono stati osservati, avvicinati, descritti e considerati umanamente e fisicamente questi “scherzi”della Natura: il libro di Cristiano Spila, Mostri da salotto. I nani tra Medioevo e Rinascimento (Liguori Editore 2009), che fa parte della collana “Nuovo Medioevo” diretta da Massimo Oldoni, affronta l’argomento in maniera estremamente dotta, con eruditi riferimenti alla letteratura del tempo e particolareggiati esempi e parallelismi con l’iconografia soprattutto dei secoli dal XV al XVIII. Lo studioso, ricercatore di letteratura italiana, insegue le impronte lasciate dai nani, «controfigure mitiche dei giganti», dall’antichità al Rinascimento. Se Svetonio ricorda che Tiberio ammetteva alla sua tavola un nano per controllare i suoi affari privati e Domiziano si faceva accompagnare da un “puerulus” durante le esibizioni dei gladiatori, nel Medio Evo i nani erano forti e forse affidabili guerrieri: nei 70 metri dell’arazzo di Bayeux dell’XI secolo, secondo la tradizione ricamato dalla regina Matilde, moglie di Guglielmo il Conquistatore, è raccontata la storia della conquista dell’Inghilterra dopo la battaglia di Hastings del 1066 e vi è rappresentato il nano Turoldo, che regge le briglie dei cavalli. Nei secoli successivi, nelle corti rinascimentali principesche i “piccoletti” dovevano far ridere: a Ferrara gli Este nascondevano i nani nella frutta dei banchetti, a Mantova, alla

Pocket. Cristiano Spila indaga la storia del nanismo nel suo “Mostri da Salotto”

Ma non chiamateli “diversamente alti” di Dianora Citi

Sono considerati uomini in miniatura: al piccolo sono dati poteri straordinari di sparire alla vista, di intrufolarsi in anfratti festa per l’incoronazione di Eleonora Gonzaga, una coppia di nani uscì dai pasticci fumanti. Il ricordo della cosiddetta “casa dei nani”, situata secondo la tradizione nel palazzo dei Gonzaga, ed altri preziosi dettagli storici occupano un intero capitolo dal titolo “banchetti, feste e cortei”: perché i nani musici, buffoni, accompagnatori, «entrano nella vita di corte attraverso soprattutto quel complesso cerimoniale che è il banchetto, o la festa». La fenomenologia del nano passa dalla ripugnante creatura medioevale al paggetto rinascimentale. I nani sono la manifestazione del lusso della corte, ritenuti consiglieri e confidenti preziosi. La duchessa di Mantova, nella Camera degli sposi di Mantenga, è ritratta insieme alla sua amata e prediletta nana, peraltro unica figura rappresentata frontalmente con lo sguardo diretto verso l’osservatore: un’allegoria cortigiana in cui si ha una sorta di

contrapposizione tra le figure di profilo della corte (di “sguincio”, ma invero cardini della società) e la figura frontale della nana (in posizione regale ma secondaria lei stessa rispetto alla politica).Tra i numerosi nani della corte di Cosimo de’ Medici, Morgante, il più celebre, fu ritratto nelle sembianze di Bacco dal Bronzino, è il personaggio della fontana del Bacchino, posta nel giardino di Boboli di Firenze, e in un’altra fontana in

bronzo, opera del Giambologna, è rappresentato a cavallo di una chiocciola.

Anche se nel Rinascimento il punto di partenza dell’osservazione e della comparazione antropometrica e antropomorfa è il perfetto uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, nel saggio di Spila sentiamo come una sguardo empatico verso i “diversamente alti”: un elogio dell’imperfezione (ricordiamo già Ci-

Nella foto grande, “Il principe Baltasar Carlos con un nano” di Diego Velázquez. Qui sopra, un nano da giardino e “Mostri da salotto” A sinistra, alto 74 cm, Pingping

cerone che diceva: «... troviamo spesso gradevoli anche dei veri difetti. Ad Alceo “piace un neo sul polso del suo favorito”. Si obietterà che un neo è una macchia della pelle: ma ciò non toglie che a lui sembrasse uno splendore»), di ciò che è posto sul bordo della presunta completezza umana («il nano è per sua natura border-line, un essere liminare. Da una parte, apparentato al fool, al buffone, può contraddire il principe e contrastare la rigida normativa dell’etichetta di corte; dall’altra parte, prossimo alle bestie viene usato metaforicamente per la sua carica simbolica, come fuori dall’istituto umano»). «I nani», osserva lo studioso, «sono uomini in miniatura. Al piccolo sono demandati poteri straordinari, di sparire alla vista, di intrufolarsi in anfratti». Portenta (gli eccessi della naturalità), prodigia (l’imprevedibile della naturalità), miracula (manifestazioni del divino), i nani sono considerati nel Medio Evo mostri nella misura in cui, seguendo Aristotele, la natura in loro si è allontanata dal modello generico riconosciuto, dalla norma. Il disagio che provocano sta nella distanza con la misura rinascimentale: una dismisura rappresentata da una disarmonia. Una disarmonia che è difformità. Una difformità che però vive nella realtà. Il ridicolo nasce nella trasformazione del turbamento che questi “a-normali”della natura suscitano, ponendosi a metà strada tra il mondo “normale”degli uomini e quello degli animali. Diciamo con Spila: «il nano è sempre un essere metamorfico […]: è vicino alla scimmia e al bambino; anzi è egli stesso […] il risultato di un ripensamento ideologico sul rapporto uomo - natura o armonia – difformità, bello – mostruoso, alla luce dei nuovi valori rinascimentali. […] È l’inventore del minuscolo, della concentrazione in uno spazio ristretto delle funzioni rappresentative umane». Prova vivente della coabitazione in uno stesso spazio di difformità e norma.

Il legame ed il perfetto rapporto tra la naturalità umana e il tempo in loro è ulteriormente scompaginato. I nani sono atemporali: dapprima precocemente“vecchi”, sono di colpo incorruttibili dalle degenerazioni della senilità e il loro invecchiamento si inibisce fino alla morte, permettendo loro di restare, talvolta, oggetti di amor “cortese” fino alla fine. In loro la norma rinascimentale esiste in quanto infrazione alla norma stessa. Enigma culturale e fisiologico, furono il principio sparigliatore della perfezione.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Pesca, obiettivi prioritari: occupazione e reddito delle imprese Rispetto alla scadenza comunitaria riguardante la pesca entro le tre miglia, che mette certamente in difficoltà le nostre aziende pescherecce, il comune obiettivo prioritario per tutti deve riguardare l’occupazione degli interessati e il reddito delle imprese. In questo momento cruciale sono poco importanti le accuse e le responsabilità circa il come siamo arrivati alla situazione odierna rispetto ad una questione che avrebbe richiesto un intervento governativo nazionale addirittura prima dell’emanazione del regolamento comunitario del 2006 sullo sfruttamento sostenibile delle risorse di pesca nel Mediterraneo, che vieterà entro le tre miglia dalla costa l’uso di attrezzi trainati e di reti con maglie inferiori ai 12 o 40 mm, a seconda del tipo di pescato. Che ci sia qualcosa che non va tra gli obiettivi del regolamento e le modalità per raggiungerli lo dimostra la dizione aggiuntiva del divieto, che vale anche «all’interno dell’isobata di 50 metri», un’evenienza che sulle coste italiane dell’Alto Adriatico esiste, forse, solo in alcune zone del Golfo di Trieste. Ma il problema immediato è creare una prospettiva reddituale per i nostri operatori, per i quali la pesca di talune specie entro le tre miglia è un fatto normale, al punto che i mezzi da pesca non sono neppure attrezzati per l’alto mare.

Franco M.

NO ALLA PROTESTA, SÌ ALLA PROPOSTA Il discorso del governatore Draghi è condivisibile al 100%, così come le sue considerazioni sulla manovra del governo. Quest’ultima è da molti bollata come incompleta o piena di sbavature. Dobbiamo avanzare delle correzioni? Benissimo, analizziamola e diamo dei consigli, inseguendo il bene del Paese anziché criticarla a vuoto per meri interessi di partito. È finito il tempo della protesta, ora inauguriamo quello della proposta. Da parte sua il governo deve mostrare disponibilità al dialogo. Nei toni del governatore Draghi trovo delle affinità con i discorsi più recenti del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Da entrambi arriva un richiamo alla responsabilità nazionale, quanto mai necessaria prima che la crisi e la corruzione ci affossino definitivamente.

M.C.

PIAZZA DI SIENA A VILLA BORGHESE NON PUÒ SOSTENERE IL “FIFA FAN FEST” Era inevitabile la revoca, da parte del sindaco della concessione, priva di autorizzazione statale, per la discoteca con annessi sulla scalinata “Bruno Zevi” uno degli ingressi principali a Villa Borghese. Ora il sindaco deve delocalizzare anche il Fifa Fan Fest da Piazza di Siena, perché come dice il sottosegretario Francesco Giro «è una follia!». Il progetto è ancora più devastante di quello della discoteca. Villa Borghese è un complesso monumentale tutelato da leggi nazionali, regionali e dallo stesso Prg di Roma, principio spesso volutamente ignorato. Anche le Accademie straniere, nella loro protesta contro la discoteca, denunciano l’utilizzo degli spazi pubblici di pregio «sviliti e svenduti» dal comune per iniziative grossolane. Le ini-

Patate (indiane) in umido Le donne del villaggio di Mawsynram, nello stato indiano del Meghalaya (conosciuto per essere “il posto più umido di tutto il pianeta”), usano ombrelli artigianali per ripararsi dalla pioggia mentre lavorano alla raccolta delle patate

ziative che coinvolgono grandi masse devono trovare spazi fuori dalle ville storiche, dalle aree archeologiche, dai complessi monumentali e ambientali.

Lettera firmata

NON C’È FEDERALISMO SENZA CONCORRENZA E TRASPARENZA Punti cardine per uscire dalla crisi sono la necessità di un vero ed efficace controllo sulla spesa, specie locale, e la lotta all’evasione concepita in funzione di uno svilup-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

po che non può venire se non si allenta l’oppressività del fisco. Il federalismo, poi, non è tale se non valorizza nel suo ambito la concorrenza, perché i cittadini possano “votare con le gambe”, spostandosi nei territori meglio amministrati: ma non c’è concorrenza se non ci sono informazioni chiare e confrontabili sulla qualità dei servizi erogati dai diversi enti. La via è chiara, si tratta di avere la forza, e il coraggio, di seguirla.

Corrado

da ”YnetNews” del 01/06/10

Il ritorno del Klimt razziato lle volte ritornano. Un dipinto di Kustav Klimt è recentemente ritornato nella disponibilità degli eredi di una donna ebrea uccisa durante l’Olocausto. E dopo questo breve passaggio sarà presto messo in vendita dalla famosa casa d’aste Christie’s. Si pensa che le quotazioni possano oscillare dai 14 ai 18 milioni di euro. Si chiama Frauenbildnis (ritratto di Ria Munk III) ed è un’opera del 1917-18 (quindi una delle sue ultime visto che l’artista scopare nel febbraio del 1918, ndr), il terzo tassello di un trittico commissionato dalla famiglia Munk per la figlia Ria. La poveretta era morta suicida, sparandosi un colpo alla testa, dopo una difficile storia d’amore finita male nel 1911.

A

Sua madre Aranka era figlia di uno dei principali mentori dell’artista viennese, Sara Lederer. Fu commissionato un quadro che ritraesse la sfortunata ragazza sul letto di morte. Secondo gli esperti le prime due tele non piacquero molto ai Munk che le rimandarono indietro. Il quadro, considerato un nonfinito (l’abito e il pavimento sono appena tracciati a carboncino), raccoglie tutto il fascino della tecnica, dell’iconografia e dello stile di Klimt, che era solito improvvisare e lasciarsi trasportare, nella creazione delle sue tele. La direttrice dell’asta Impressionist and modern art evening sale, Giovanna Bertazzoni, sostiene che un pezzo così di Klimt non lo si vedeva in vendita da più di 20 anni.Si pensa che Klimt abbia poi rimesso mano alla seconda di queste prove che poi sarebbe diventata Die Tanzerin ora esposta alla Neue gallery di New York. Lo scorso anno la città di Linz aveva caldeggiato che il quadro che stava per essere venduto potesse ritornare

agli eredi della famiglia Munk.Tutto si basava su di una perizie di una esperta indipendente, Sophie Lillie, che confermò che l’opera era stata sequestrata alla famiglia Munk dai nazisti dopo che Aranka era stata deportata in un campo di concentramento, dove trovò la morte nel 1941. L’avvocato Alfred Noll aprì una causa legale, nel 2007, per chiederne la restituzione alla collezione della città di Linz che l’aveva comprata da un mercante d’arte alla fine della seconda guerra mondiale. Questa vicenda è l’ultima restituzione di opere importanti del pittore austriaco. Nel 2006 una sentenza giudiziaria aveva ordinato l’Austria a restituire ben cinque dipinti di Klimt a una cittadina californiana. Maria Altman era l’erede di una famiglia a cui i nazisti, nel 1938, avevano sottratto le opere del artista secessionista. Erano poi diventate patrimonio del Belvedere museum di Vienna. Ronald S. Laud si dice abbia pagato ben 135 milioni per un quadro appartenente a quel lotto di art nouveau. Si trattava del ritratto di Adele Bloch-Bauer. La vendita venne allora organizzata da Christie’s che riuscì a cedere le restanti opere per un totale di 192,7 milioni di euro. Ricordiamo che il principale responsabile di questa deportazione di opere d’arte fu il fedmaresciallo Hermann Goering che, ritenendosi appassionato collezionista e grande intenditore, volle realizzare un «olocausto silenzioso» appropriandosi delle opere più belle e facendo distruggere molti dipinti non figurativi del Novecento che lui considerava «arte degenerata». Alcuni reparti dell’esercito nazista furono addestrati con il compito esclusivo d’individuare e sequestrare ogni oggetto che avesse un valore artistico per poi spedirlo in Germania dove i meno pregiati sarebbero

stati venduti, mentre i più importanti finivano nei musei di molte città tedesche o direttamente nelle collezioni private di Hitler, Goering e nelle case degli altri gerarchi.

Si calcola che oltre un milione di oggetti furono razziati dai reparti speciali della Gestapo. Di quest’immenso bottino, almeno 600mila erano vere opere d’arte: quadri, sculture, arredi sacri, pezzi d’antiquariato in gran parte mai più ritrovati perché distrutti dalle esplosioni o abbandonati da qualche comandante tedesco che volle sbarazzarsene durante la ritirata precipitosa delle sue truppe.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Avrei voluto essere più Beethoven che Mozart

PROTAGONISTI DI UNA STAGIONE DI CAMBIAMENTO PER SCONFIGGERE LA CRIMINALITÀ È arrivato il momento di renderci protagonisti, di fianco alle istituzioni ed alla magistratura, di una stagione di cambiamento che veda finalmente sconfitta ogni forma di criminalità organizzata. Questo è il mio accorato appello, dopo le minacce di chiaro stampo mafioso subite dal procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, e dopo la manifestazione contro la mafia svoltasi a Lamezia Terme. È indispensabile che ognuno di noi si batta apertamente e dia il proprio contributo affinché la cultura della legalità possa radicarsi, sempre più, fra le ragazze e i ragazzi calabresi. In tal senso, il contributo dei Giovani Udc sarà costante, così come l’impegno per isolare, giorno dopo giorno, i poteri criminali che ancora trovano spazio sul territo-

Ho definitivamente cominciato la mia commedia, ma dopo averne disegnate le linee principali, mi accorgo delle difficoltà e questo anima in me una profonda ammirazione per i grandi geni che hanno lasciato le loro opere al teatro. Ieri sono stato a sentire la Sinfonia in do minore di Beethowen. Beethowen è il solo uomo che mi faccia conoscere la gelosia. Avrei voluto essere più Beethowen che Rossini e Mozart. In quell’uomo vi è una potenza divina. Nel suo finale pare che un mago conduca in un mondo meraviglioso, nei più bei palazzi che riuniscono le meraviglie di tutte le arti e là, per suo volere, porte simili a quelle del Battistero ruotano sui cardini e lasciano intravedere bellezze di genere sconosciuto, fate della fantasia sono le creature che vi volteggiano con le bellezze della donna e le ali screziate dell’angelo e si è inondati dall’aria superiore, di quell’aria che secondo Swedenborg canta e sparge profumi, che ha colore e sentimento e che affluisce e bea. No, lo spirito dello scrittore non dà simili godimenti perché ciò che dipingiamo è finito, determinato e ciò che lancia Beethowen è infinito... Balzac a madame Hanska

LE VERITÀ NASCOSTE

Australia, una pioggia di pappagalli ubriachi SYDNEY. L’Australia è una terra strana. Bassissima densità di popolazione, altissimo consumo di alcool. Eppure, che questo problema colpisca anche il mondo animale ne fa una “prima assoluta”. Centinaia di pappagalli apparentemente ubriachi stanno cadendo dagli alberi e dal cielo in una cittadina nel nord dell’Australia. Ed è grande lo sconcerto tra i veterinari che, cercando di curarli, non capiscono cosa stia accadendo. «Sembrano proprio ubriachi. Cadono dagli alberi e non sono così coordinati come al solito: cercano di saltare ma non ce la fanno a raggiungere il ramo successivo», racconta Lisa Hansen, un chirurgo all’ospedale veterinario Ark Animal Hospital, a Palmerston, vicino Darwin. Lo strano fenomeno accade ogni anno nella località, situata nello Stato australiano del Territorio del Nord, ma quest’anno è in proporzioni assolutamente eccezionali. È ancora buio fitto sulle cause dei sintomi: gli esperti non hanno ancora capito se si tratti di un misterioso virus oppure qualche alimento che altera le sue funzioni motrici. L’ospedale veterinario ha curato fino 30 pappagalli “ebbri”in una sola volta: i volatili vengono messi nelle gabbie dove rimangono a lungo immobili come se stessero recuperando da una sbornia; per contrastare i sintomi, viene loro somministrato un porridge dolciastro con frutta fresca. A volte occorrono giorni di “terapia intensiva”prima che siano in grado di volare di nuovo. Insomma, una pioggia di pappagalli ubriachi in via di ripresa: il governo locale non è ancora intervenuto, anche se lo scorso anno le autorità statali furono costrette a bloccare alcune delle arterie più importanti del luogo a causa proprio dei sonnolenti pappagallini. Per evitare che le macchine li investissero.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

COLPO MORTALE PER LE ENERGIE RINNOVABILI L’Anev-Associazione nazionale energia del vento lancia l’allarme ed esprime tutto il suo disappunto e la sua preoccupazione per le misure contenute nell’art. 45 (Terzo Titolo, Sviluppo e Infrastrutture) della manovra economica del governo, che, se approvate, mettono in pericolo decine di migliaia di posti di lavoro nel settore delle energie rinnovabili e la tutela dell’ambiente. La misura prevista dall’art. 45 infatti abolisce, anche retroattivamente, l’unico meccanismo di garanzia del sistema di sostegno alla crescita delle fonti rinnovabili, che serve invece proprio a tutelare il mercato e ad evitare speculazioni derivanti dall’oscillazione artificiosa dei prezzi dei certificati verdi. Il provvedimento proposto rischia di compromettere le iniziative in essere, che ricordiamo nel solo settore eolico al 2009 vedono occupati circa 25.000 lavoratori (con un incremento di circa 5.000 unità nel solo anno 2009), tra settore e indotto. Inoltre la formulazione del medesimo articolo 45 comprometterebbe tutti gli investimenti in corso di finanziamento nel settore delle rinnovabili, che negli ultimi due anni è stato uno dei pochi anticiclici a consentire crescita occupazionale nel nostro Paese. Grave è poi il fatto che tale sistema di stabilizzazione del mercato, fu introdotto a tutela degli investitori nazionali solo in caso di un inadempimento del nostro Paese rispetto al raggiungimento degli obblighi liberamente assunti dall’Italia in sede comunitaria.

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

APPUNTAMENTI GIUGNO VENERDÌ 11 - ORE 11 - ROMA - PALAZZO FERRAJOLI

Consiglio Nazionale Circoli liberal “Verso il Partito della Nazione” SABATO 12 - ORE 10 - PALERMO - VILLA IGEA HILTON

Convegno Circoli liberal Palermo. “Dal Bipolarismo imperfetto a una politica per il futuro”. Conclude i lavori il Presidente Ferdinando Adornato LUNEDÌ 21 - ORE 17,30 - ROMA CAMERA DEI DEPUTATI - SALA DELLA MERCEDE

In occasione dell’uscita del libro “Ho visto morire il Comunismo” di Renzo Foa, ne discutono Ferdinando Adornato, Rino Fisichella, Stefano Folli, Claudio Petruccioli. SEGRETARIO

VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Alessandro Paoletti

Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak

rio. La società civile ha il dovere morale di respingere la criminalità e collaborare, fianco a fianco, con le forze dell’ordine e con la magistratura al fine di combattere e sconfiggere, una volta per tutte, quel cancro che sta demolendo l’economia di questa regione, gravando inesorabilmente sul futuro della società calabrese. Giuseppe Idà C O O R D I N A T O R E RE G I O N A L E GI O V A N I UD C CA L A B R I A

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

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ULTIMAPAGINA Ritratti. Il difensore molla la Juve e va negli Emirati

L’ultimo calcio (italiano) di Cannavaro, di Gabriella Mecucci l calciatore più amato dagli italiani, l’uomo che più di ogni altro colorò di azzurro il cielo sopra Berlino, lascia la vecchia Juventus e se ne va a Dubai. Fabio Cannavaro giocherà in una squadra degli Emirati, Al Ahli, per due anni. Ma prima di lasciarci indosserà ancora la maglia azzurra in Sudafrica. E Lippi gli consegnerà ancora la fascia di capitano. E noi tiferemo per l’ultima volta per lui. In genere i calciatori di una certa età fanno la scelta araba per guadagnare un fiume di petrodollari prima di attaccare le scarpette al chiodo. E lo dicono senza troppi infingimenti. Ma Fabio, il gladiatore, vuole farci credere che abbandona le brume piemontesi per il caldo del deserto in nome dello spirito di avventura e del suo amore per Dubai: «Volevo trasferirmi in questa città che trovo bellissima. Andare lì per me è un sogno». In realtà, o’guaglione prenderà una valanga di danaro. Accarezzerà la pelota col suo magico piede per due anni e, poi, a 39 farà il supermanager. Si farà d’oro.

I

Naturalmente, non c’è nulla di male. Se uno ha i piedi buoni, perché non approfittarne? E del resto che Fabio avesse questa filosofia di vita era già emerso: mollò la Juve per il Real appena la squadra precipitò in B e, subito dopo il Pallone d’oro, cominciò a fare pubblicità a tutto: dalle mutande agli orologi. Tutto il contrario del suo amico e sodale Gigi Buffon che fa dell’attaccamento alla squadra e della permanenza in una città un valore, o del vecchio Ciro Ferrara rimasto alla Juve anche come sfortunato allenatore - col quale giocò sin dai tempi del Napoli, sua prima squadra. Cannavaro ha sempre raccontato, del redi sto, aver fatto parecchia gavetta. Al San Pao-

A destra, il difensore della Nazionale italiana Fabio Cannavaro, che ieri ha annunciato il prossimo ingaggio nella squadra degli Emirati Arabi “Al Ahli”. In basso, un’immagine del famoso hotel di lusso Burj Al Arab di Dubai, conosciuto anche come l’Hotel Vela Dubai

lo SCEICCO Prima di lasciarci per la squadra araba Al Ahli,indosserà ancora una volta la maglia azzurra della nostra nazionale per il mondiale di Sudafrica. E comunque andrà,c’è da giurarlo,«o’ guaglione» ce la metterà tutta e farà di certo una buona figura lo raccattava la palla negli anni in cui trionfava il genio di Maradona. E poi, finalmente, sempre nello stesso stadio, iniziò la vita da terzino, che non è luminosa come quella di un centravanti. Ma il ragazzo aveva buoni numeri e dopo un po’ se nea accorsero in parecchi: prima a Parma, quando i soldi di Tanzi resero grande quella squadra, poi all’Inter, dove però non emerse, e, subito dopo, alla Juve. A Torino il nostro vinse due scudetti: ma proprio quei due incriminati e che furono tolti alla squadra dalla giustizia sportiva. Quando si dice la sfiga: nonostante una carriera straordinaria, Cannavaro non ha mai vinto uno scudetto in Italia e mai una Champions.

Il suo palmarès è diventato straordinario all’estero. Prima di tutto con la maglia azzurra in quella magica notte di Berlino. Per tutto il campionato del mondo giocò in modo sopraffino: gli uomini squadra furono lui e Buffon. Fermò tutto e tutti, un baluardo insuperabile. I tifosi italiani nel delirio tedesco coniarono per lui una divertente definizione: “Il nuovo muro di Berlino”.Tosto, tostissimo, con un fiato inesauribile, Cannavaro dette però anche prova di gran classe. E, come capitano, di una straordinaria tenuta nervosa. Lanciò il suo miglior sorriso a 36 denti quando ricevette

la Coppa del Mondo. Fu un trionfo azzurro segnato dalla bravura del guaglione napoletano. E infatti dopo pochi giorni - la rivista francese France Football lo insignì del Pallone d’oro. Un riconoscimento, strappato sul filo di lana al portierone Buffon, che molto raramente è stato dato a un difensore. Calciatori straordinari come Franco Baresi e Paolo Maldini ci andarono vicino ma non lo raggiunsero. E del resto non sono stati poi tanti gli italiani a farcela. Prima di Fabio ci riuscirono solo Gianni Rivera, Paolo Rossi e Roberto Baggio.Tutti e tre grandiosi attaccanti.

Quel 2006, insomma, fu l’anno della vita. Ma i successi non finirono lì. La Juve annegava nella melma degli scandali, ma Cannavaro trovò posto al Real Madrid, dove vinse due scudetti, uno dietro l’altro. Carico di trionfi, il difensore d’oro - in tutti i sensi - sbarcherà in Sudafrica con la nazionale azzurra. Sarà ancora il capitano e, se le divinità calcistiche “benedicessero”di nuovo la spedizione Lippi, toccherebbe a lui risollevare la Coppa. Comunque andrà - c’è da giurarlo - Fabio ce la metterà tutta e farà una buona figura. Poi un grande inchino davanti al football mondiale e via verso «il sogno di Dubai». Addio per sempre al grande calcio perché negli Emirati non si gioca né come in Brasile né come in Spagna. E nemmeno come in Italia. Fabio ci arriverà già ricco, e ripartirà da sceicco. Finirà così la carriera del capitano (di ventura) Cannavaro da Napoli. Tanta sostanza, tanta fortuna, tanti successi, ma poca poesia. E la leggenda ha bisogno anche di un po’ di poesia.


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