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ISSN 1827-8817 00605

he di c a n o r c

Un uomo si giudicherebbe con

ben maggiore sicurezza da quel che sogna che da quel che pensa Victor Hugo

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 5 GIUGNO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il governo pensa di varare una legge costituzionale che, modificando l’articolo 41, preveda l’autocertificazione per le imprese

Come migliorare Tremonti Cinque consigli d’autore al Parlamento sulle modifiche da apportare alla manovra.Il nodo resta quello suggerito da Confindustria e Bankitalia: accompagnare i tagli con lo sviluppo a sfida sulla manovra va avanti. Confindustria, con la sua presidente Marcegaglia, torna a chiedere modifiche, anche per accogliere la richiesta Ue di uniformare il trattamento pensionistico di donne e uomini. Mentre i magistrati tornano ad attaccare Alfano.

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Monete e esportazioni

E meno male che l’Euro è debole di Enrico Cisnetto ei tanti spettri che si sono aggirati per l’Europa, l’Euro debole è forse quello che dovrebbe fare meno paura, almeno a tutti quelli che sono arcistufi di misurare la crescita economica in poveri decimali. Perché se per una volta proviamo a mettere da parte i sudori per l’attacco della speculazione alla nostra moneta, e ragioniamo freddamente sul cambiamento di scenario che il nuovo tasso di cambio Euro/dollaro porta con se, allora la debolezza (politica) implicita nel calo dell’euro lascia il passo alla nuova chance che si apre per l’economia di Eurolandia.

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MARIO BALDASSARRI

L’ULTIMATUM UE

LUIGI PAGANETTO

No agli incentivi, Investire di più Più risorse sì agli sgravi nell’innovazione dalle pensioni Ecco come recuperare risorse improduttive da reinvestire subito in tutti i settori

Ormai è evidente: i mercati non si fidano di un’Europa che tutela solo il proprio passato

GIORGIO GUERRINI

NICOLA ROSSI

Appalti pubblici Prepensionare anche ai piccoli il settore statale Oguno faccia la sua parte, ma è arrivato il momento di fare più attenzione alle Pmi

Più che fare meglio, come si dice, l’amministrazione deve fare meno

Franco Insardà e Errico Novi • pagine 3, 4 e 5

A ventun anni dal massacro

Le madri di Tiananmen: «È ora di dirci la verità»

di Gianfranco Polillo l destino della manovra è affidato all’esile filo del consociativismo. Nel senso buono: quello delle riunioni riservate, nel chiuso della Commissione bilancio, in cui maggioranza e opposizione si spogliano delle rispettive armature ideologiche per discutere con più calma della qualità intrinseca dei numeri. a pagina 4

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Un gruppo di attivisti chiede al regime di «cancellare le bugie su un movimento che voleva diritti umani e democrazia» di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Anche un premio Nobel per la Pace sul mercantile atteso al largo della Striscia

go di frontiera tra Oriente e Occidente. Qui il Santo Padre ha teso la mano all’Islam, chiamando «fratelli» i musulmani e spiegando che con loro la «convivenza è necessaria». E su Gaza: «Dopo la violenza bisogna trovare il coraggio di ricominciare».

Da ventuno anni a questa parte, un sempre maggior numero di persone si riunisce ai primi di maggio per decidere cosa fare il 4 giugno. La data non è casuale: è l’anniversario del massacro di piazza Tiananmen. In quell’occasione, nel 1989, il governo di Deng Xiaoping inviò carri Hong Kong armati contro studenti è pronta inermi: nessuno sa coper dare sa successe dopo. La alle stampe cortina di silenzio e le memorie censura imposta dal governo ha funzionato di Li Peng, molto bene. Ecco perche lanciò ché quel gruppo di peri carri sugli sone - le “Madri di Tiastudenti nanmen” - si riunisce: scrive ogni anno una lettera a metà fra il grido di dolore e la richiesta di giustizia e verità. Una verità che potrà forse essere aiutata dalla prossima pubblicazione dei diari di Li Peng, il “macellaio” della piazza. Ma che fino ad ora è stata negata alla Cina e al mondo.

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Scricchiola il blocco di Gaza Arriva un’altra nave. Obama: «Ora cambiate l’embargo» di Enrico Singer

Benedetto XVI a Cipro: «La convivenza è necessaria»

na giornata di attesa, carica di tensione. Attesa per l’arrivo a largo di Gaza di un’altra nave della Freedom Flotilla, il cargo irlandese Rachel Corrie. Attesa per le possibili manifestazioni attorno alla grande moschea di al Aqsa, a Gerusalemme. Attesa anche per le decisioni del governo di Benjamin Netanyahu che, secondo indiscrezioni insistenti, starebbe considerando la possibilità di modificare il blocco alla Striscia.

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E il Papa tende la mano ai «musulmani fratelli» di Guglielmo Malagodi

NICOSIA. Benedetto XVI ieri è arrivato a Cipro, luo-

a pagina 24 seg1,00 ue a p agina 9CON EURO (10,00

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

108 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Per Emma Marcegaglia «è giusto cambiare le pensioni»

Legge costituzionale per favorire la libertà d’impresa di Alessandro D’Amato

ROMA. Una novità, anzi di più. Addirittura una riforma costituzionale. Il premier Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti sono d’accordo su una misura straordinaria «per la libertà di impresa» che, attraverso la modifica dell’art 41 della Costituzione, porti a una «sospensione di 2-3 anni» delle autorizzazioni per le pmi, la ricerca e le attività artigiane. È quanto ha affermato lo stesso Tremonti a margine del vertice G20 di Busan aggiungendo che «presenterà questa proposta domani al vertice e all’Ecofin di lunedi». «Non si tratta di liberalizzazioni o di privatizzazioni - ha spiegato Tremonti perché non si cambia il sistema dall’interno, ma di una rivoluzione liberale che renda possibile tutto ciò che non è proibito». Tremonti pensa quindi «a una radicale e totale autocertificazione per le pmi, l’artigianato e la ricerca con i controlli e verifica dei requisiti che va fatta ex post». Per il ministro dell’Economia si tratta di una misura che non comporta incentivi fiscali e che «non va in contrasto con il federalismo, anzi». Di certo arriva alla fine di una giornata in cui la manovra e gli altri provvedimenti economici restano al centro del dibattito politico, con una forte polemica tra esecutivo e giudici. Il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, è d’accordo con la richiesta dell’Ue al governo italiano di anticipare al 2012 l’equiparazione dell’età donne-uomini per le pensioni di vecchiaia nel pubblico impiego. «È un tema vero - ha detto incontrando i giornalisti nell’ambito della missione degli industriali in Cina - in un paese dove grazie al cielo l’età di vita è tra le più alte in Europa, e quella delle donne lo è ancora di più, il tema dell’innalzamento dell’età va affrontato». Marcegaglia ha aggiunto che «vedremo se farlo con più o meno gradualità. È un tema sul tappeto - ha concluso non sono spaventata che le donne possano andare più in là in pensione». Qualche critica è invece arrivata dalla leader di viale dell’Astronomia sulla manovra: «Sono favorevole a mettere a posto i saldi di bilancio» ma, ha aggiunto, «mi auguro che a settembre, o in occasione della conversione in legge vengano reintrodotte alcune agevolazioni tra cui quelle per la green economy». Il riferimento è alle agevolazioni al 55% sul risparmio energetico e, in particolare sui certificati verdi.

Epifani avverte: «Non si può combattere l’evasione con una mano e con l’altra fare nuovi condoni per l’edilizia»

In mattinata, poi, il ministro della Giustizia Angelino Alfano è partito all’attacco: «Lo sciopero è politico, il governo chiede ai magistrati un sacrificio così come lo chiede alle altre componenti del Paese», ha spiegato il Guardasigilli, dal Lussemburgo. La replica delle toghe è arrivata a stretto giro di posta: «C’è ben poco di politico in questo sciopero» ha detto il presidente dell’Anm, Luca Palamara. «Il sistema giudiziario - ha aggiunto - versa in una grave crisi di credibilità e questo il ministro Alfano lo sa molto bene poiché è proprio questo il compito che la Costituzione assegna al ministro.Vedendo la manovra - ha concluso - sicuramente emergono degli aspetti che ci portano a ritenere che sia mossa da intenti punitivi». Alfano aveva però concesso un punto sulla trattativa all’Anm: «Ai giovani magistrati si chiede un costo individuale troppo alto a fronte di un gettito complessivo abbastanza basso per il Paese. Mi impegnerò per risolvere nel percorso di conversione questo aspetto del problema». Severo, invece, il giudizio di Guglielmo Epifani della Cgil: «Non vorrei che si mettesse una norma sulle case nel Catasto - ha spiegato - e poi ci si trova un emendamento che dà un ulteriore condono. Non stanno assieme il condono e la lotta fiscale, perché l’uno contraddice l’altro». Per il leader della Cgil alcune misure, come la tracciabilità sono azioni che «andavano già bene prima. Il governo le ha tolte, poi le ha rimesse. Quello della lotta all’evasione è un problema di strumenti, di credibilità e di volontà».

Inchiesta. Come si può emendare il testo che arriva in Aula

Cinque idee per migliorare la manovra Non bastano i tagli: l’economia deve tornare a crescere. Ecco cosa consigliano gli esperti a cura di Franco Insardà e Errico Novi o ha chiesto la Confindustria all’assemblea della scorsa settimana. Poi Bankitalia, con il discorso del Governatore lunedì scorso. Ma prima lo avevano già chiesto le piccole e medie imprese, lanciando la nuova «Rete Imprese Italia» nelle scorse settimane. E anche una parte dei sindacati e l’opposizione moderata: bisogna cambiare la manovra puntando di più sullo sviluppo, sulla crescita dell’economia perché tagliare e basta corrisponde a una mera operazione di ragioneria, non a un progetto di rilancio economico. Il governo, al termine di una trattativa (come al solito) estenuante, ha licenziato un testo (faticosamente controfirmato dal presidente Napolitano che ancora una volta non ha mancato di dare suggerimenti

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preziosi): ora la parola passa al Parlamento. Ebbene, proprio in quel contesto tutti dicono di voler cambiare la manovra, di voler dare maggior respiro alla parte dedicata, appunto, al rilancio; ma si tratterà di modifiche specifiche, concrete. Perciò liberal ha chiesto a cinque esperti (Mario Baldassarri, Giorgio Guerrini, Luigi Paganetto, Gianfranco Polillo e Nicola Rossi) di suggerire un “emendamento” risolutivo, qualcosa di semplice e sostenibile per migliorare la manovra. e renderla più adegiuata a un’economia (la nostra) che uscendo da una fase di crisi deve necessariamente rilanciarsi, non solo comprimersi. Proprio ieri, del resto, l’Ue ha confermato che il nostro Pil sale più della media europea: è un’opportunità che non possiamo perdere.


prima pagina GIORGIO GUERRINI

«E adesso, appalti anche per i piccoli» Ognuno deve fare la sua parte, ma serve più attenzione per le Pmi ROMA. Per il presidente di Confartigianato Giorgio Guerrini la parola d’ordine deve essere: «Responsabilità». E aggiunge: «Da anni abbiamo sostenuto che era necessario per porre le basi per un futuro riequilibrio di andare a operare quei risparmi che possono derivare dai tagli delle spese improduttive. Il nostro giudizio su questo aspetto della manovra è positivo, altrimenti un Paese come il nostro in una crisi come quella che stiamo attraversando non ha la possibilità di mantenere un’impalcatura burocratica come quella esistente, stratificata negli anni che si sovrappone nei livelli e con dei costi eccessivi per i cittadini e per le imprese». A proposito di tagli Guerrini esprime, in un modo un po’ colorito, ma efficace, una preoccupazione: «Come spesso succede il bambino nasce biondo e alla fine rischiamo di ritrovarcelo moro. I sacrifici, però, sono necessari, ma devono essere condivisi, perché, se si ripete la situazione che una parte del Paese, quella rappresentata dall’impresa privata, ha fatto molti sacrifici, perché si sono ridotti notevolmente i margini operativi e di guadagno e per i dipendenti si sono ridotti i salari o si sono persi i posti di lavoro. C’è però un’altra Italia, quella garantita, che per adesso la crisi l’ha sentita ben poco. Anzi qualcuno ha avuto dei vantaggi dal momento che a fronte di uno stipendio garantito ha visto diminuire i mutui e i costi. A questo punto è necessario che ci sia una ripartizione del carco su tutti». Con queste premesse gli artigiani si dichiarano disponibili a fare i sacrifici «ma con una prospettiva di rilancio, altrimenti si sarà trattato di sacrifici inutili e ci ritroveremo un Paese più debole di come era prima della crisi. Nelle aziende quando si decidono tagli e sacrifici si guarda in prospettiva e si rilancia». La ricetta di Confartigianato sulle cose più urgenti da fare e semplice: meno burocrazia, sblocco mirato del patto di stabilità, maggiore attenzione alle piccole e medie imprese per l’affidamento degli appalti pubblici, imporre agli enti e alle società private tempi di pa-

gamento di livello europeo, e fare le liberalizzazioni necessarie. «La burocrazia italiana ha un costo annuo di un punto di Pil e che grava direttamente sulle famiglie e sulle imprese. Occorrono interventi concreti e non i palliativi adottati finora». È necessario, secondo Guerrini «inserire una liquidità necessaria, che di fatto non è un costo, attraverso lo sblocco, in maniera mirata ,del patto di stabilità, consentendo ai comuni che sono in grado di fare degli investimenti di poterli fare». Le piccole e medie imprese chiedono una maggiore attenzione «al settore, riservando una fetta che negli Stati Uniti è del trenta per cento di tutti appalti pubblici. Negli Usa una misura del genere esiste da dieci anni, nel Paese che ha il record mondiale di piccole e medie imprese non è previsto. Anche in questo caso si tratterebbe di una riforma a costo zero». «Avere il coraggio di imporre agli enti pubblici il pagamento di livello pagamenti di livello europeo significherebbe allo stesso tempo non aumentare i costi». Sulle liberalizzazioni Guerrini è ancora più polemico: «Se ne parla da sempre, ma bisognerebbe farle soprattutto nei servi-

zi pubblici locali, nel mercato dell’energia e dei trasporti» Fatte queste semplici operazioni dal punto di vista concettuale, non da quello politico credo e sono convinto che il sentimento dei cittadini che vivono di impresa è molto sensibile su questo fronte: le persone sono disposte a fare i sacrifici, ma vogliono risolvere i problemi». Il presidente di Confartigianato si dice convinto che «continuare a dare incentivi in maniera non mirata sia il peggior modo per far crescere l’economia e la riprova sono negli ultimi sessant’anni di storia della repubblica lo sviluppo del Sud. Si sono dislocate nel meridione risorse ingenti che si sono perdu-

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te e non hanno sviluppato alcuna economia». Sulla lotta all’evasione fiscale Guerrini ci tiene a precisare che «l’incidenza italiana è maggiore rispetto ad altri paesi europei, ma occorre distinguere da regione a regione. Ma va sottolineato che non ci sono settori immuni e altri causa dell’evasione. I capitali rientrati con lo scudo fiscale non erano dei piccoli imprenditori, anzi». Le istanze degli artigiani saranno rese note mercoledì nell’assemblea di Confartigianato e insieme con le altre associazioni di Rete Imprese Italia continueranno a incontrare le forze politiche per esporle. A cominciare dall’Udc che hanno incontrato giovedì.

NICOLA ROSSI

«Prepensionare il settore pubblico» Più che fare meglio, come si dice, l’amministrazione deve fare meno ROMA. Potrebbero trovarsi nello stesso partito. Ne sarebbero l’anima riformatrice. Invece restano inascoltati, nel Pd come nel Pdl. Tra Mario Baldassarri ed Enrico Morando, Benedetto Della Vedova e Nicola Rossi le distanze sono piccole quanto la capacità dei rispettivi schieramenti di valorizzarne le proposte. Del senatore Rossi, appunto, resta scolpita l’immagine di “eretico” del centrosinistra, spinto fin oltre la soglia della rottura e poi recuperato alla causa democratica. Un certo affanno nell’assecondarne le visioni si spiega semplicemente con l’irriducibile inclinazione conservatrice delle politiche economi-

che viste negli ultimi anni. Interpellato sulla manovra del governo, il parlamentare pugliese non ha dubbi: «È troppo blanda nella parte dei tagli alla spesa». Quindi risponde con una retrospettiva lampo alle osservazioni di Romano Prodi sulla strategia che guarda al presente ma non al futuro, come dimostra – secondo l’ex premier – lo storno dei fondi per la formazione tecnica dei giovani sulla cassa integrazione per gli “anziani”: «Resto convinto che qualunque politica di sviluppo trovi il presupposto nei tagli alla spesa pubblica, ma i fatti degli ultimi 15-30 anni parlano chiaro: lo sviluppo è sempre stato finanziato, al contrario, con nuove imposte. Un profilo che ha dato risultati scarsissimi».

Il tabù è difficile da infrangere, dunque: «E invece bisognerebbe cercare tutte le occasioni possibili. In ogni singolo provvedimento, non solo in questa manovra di cui si hanno ancora informazioni approssimative, bisognerebbe tentare di ridurre qualcosa». Comunque anche quest’ultima occasione rischia di non essere colta: «Certo che non sono soddisfatto, dal punto di vista dei tagli. Si poteva fare di più e meglio, sono stati accantonati o ridimensionati interventi che pure erano stati messi sul tavolo. Penso al taglio delle province, di alcuni enti, ma anche al settore previden-

ziale. Si poteva intervenire», appunto, «in maniera meno blanda». Adesso però il presidente del Consiglio annuncia una fase di liberalizzazioni: «Guardi, mentre lo si dice, vedo avanzare in Parlamento uno dei provvedimenti più corporativi che si siano mai visti, la riforma della professione forense. È un intervento segnato da un’impronta corporativa a 360 gradi».

E poi non è così facile immaginare che con una maggioranza tanto condizionata dalla Lega si possa avanzare, per esempio, sulla liberalizzazione delle utilities: «Non solo non me lo immagino, ma vedo che proprio su questo tipo di terreno la maggioranza ha mostrato i suoi maggiori limiti: è capace di trovare un equilibrio solo nel non fare». Quindi nella migliore delle ipotesi l’uscita di Berlusconi è velleitaria. «È semplice: basta guardare a quegli interventi in manovra che pure mostravano segno positivo e che poi però sono stati indeboliti rispetto alle ipotesi di partenza». Il balletto sulle province è emblematico. «La situazione preoccupa perché questa non è una manovra come tante altre, ha una valenza esterna maggiore del solito». Ma allora qual è l’ambito in cui, più che altrove, si dovrebbe intervenire? «Continuo a pensare che il prepensionamento di una porzione significativa di dipendenti della pubblica amministrazione sarebbe una cosa molto saggia. In questo modo ci sarebbe un’effettiva riduzione della spesa pubblica, visto che le pensioni equivarrebbero ovviamente solo a una parte delle retribuzioni». Questa misura “rivoluzionaria”, dice il senatore del Pd, «andrebbe associata a una ridefinizione di compiti: non è vero, come si dice continuamente, che la pubblica amministrazione deve fare meglio, piuttosto deve fare meno». Non è quello che, in ultima analisi, promette il governo di centrodestra? Meno Stato. «Vedremo cosa accadrà». Ma l’ipotesi a cui si allude prevederebbe o no quel turn over tra addetti che, come dicono in molti, assicurerebbe freschezza e dunque superiore produttività alla macchina? «Può anche esserci un piccolo turn over, ma il primo passo è ridurre il peso della funzione pubblica. Si occupi di meno cose e quindi impieghi meno gente». Così lo spazio, per le liberalizzazioni, verrebbe spalancato. Ma tutto sembra suggerire che anche stavolta l’economista Nicola Rossi è un po’troppo avanti rispetto all’inclinazione naturalmente conservatrice del Paese.


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MARIO BALDASSARRI

«No agli incentivi, sì agli sgravi» Così si possono recuperare risorse per favorire lo sviluppo di tutti i settori ROMA. «Non ricominciamo con la tiritera che la mia è una manovra alternativa a Tremonti, si tratta di proposte aggiuntive che saranno discusse nel partito e potrebbero essere contenute in emendamenti. Il problema non è economico, ma politico. Ci troviamo di fronte a una manovra che blocca gli stipendi del pubblico impiego per tre anni e che potrebbe prevedere anche una riorganizzazione degli acquisti della Pubblica amministrazione e il taglio dei fondi perduti alle imprese. Sicuramente ci sarà qualcuno che non sarà d’accordo per tutelare 3/400mila italiani a fronte di 57 milioni di italiani costretti a fare continui sacrifici». Mario Baldassarri, presidente della commissione Finanze del Senato ha ben chiara la situazione e, nonostante un comprensibile disincanto, continua a sostenere con forza le sue idee. «I tagli sono necessari per rispettare il patto europeo e riportare il deficit pubblico al 3 per cento del Pil. Questa cosa era chiara già a ottobre-novembre, bisogna ora capire come si otterrà questo taglio di deficit di 25 miliardi in due anni. Dai numeri della manovra risultano circa 13 miliardi di tagli di spesa e 11 miliardi di maggiori entrate, 9 miliardi dei quali al secondo anno vengono dalla lotta all’evasione e due miliardi dalle entrate non tributarie». Sul rigore finanziario non si discute, i dubbi, però, sorgono quando ci si chiede quali effetti ci saranno sull’economia reale. Baldassari ritiene che «se si verificherà un freno sulla crescita economica, oltre ai problemi in termini di occupazione si metterà a rischio l’obiettivo del deficit pubblico: perché ogni 1 per cento di Pil in meno rappresenterà circa mezzo punto di deficit in più». Accanto al rigore finanziario occorrono incentivi per la crescita economica. Per ottenere questo risultato, secondo l’economista allievo di Franco Modigliani, la manovra

«deve essere maggiore del taglio del deficit per consentire di sostenere l’economia». Tre le proposte di Baldassarri: coefficiente familiare, riduzione dell’Irap alle imprese e lotta all’evasione prevedendo la cedolare secca sugli affitti e la riduzione sugli affittuari. «Questi provvedimenti - secondo il presidente della commissione Finanze - non servono a tagliare il deficit, ma a dare sostegno alla crescita e a rafforzare l’obiettivo del deficit. Le risorse per fare questa operazione debbono venire dal taglio di quelle due voci di spesa che sostengo da anni: gli acquisti della Pubblica amministrazione e agli incentivi a fondo perduto alle imprese. Questo è lo schema che ho proposto per la Finanziaria a dicembre, quando si disse che quella proposta aggiuntiva erano ragionamenti da dottor Stranamore. A conti fatti da dicembre a oggi ci ci sono state manovre per 43 miliardi e non da 35 come avevo suggerito». La proposta per gli incentivi alle imprese è quella di trasformarli da fondo perduto a credito d’imposta perché, in questo modo, secondo Baldassarri, si otterrebbe «un risparmio sulla spesa pubblica, ma si farebbe anche un’opera di risanamento morale. Sappiamo tutti, infatti, che quei fondi sono “perduti”, mentre il credito d’imposta viene riscosso dalle imprese che fatturano e sono sul mercato. L’incentivo andrebbe esteso

anche all’Iva, oltre che dell’Irpeg, ottenendo il risultato di far emergere parte dei fatturati». La Pubblica amministrazione è l’altro punto sul quale Baldassarri punta: «I tagli, in questi ultimi trent’anni, si sono sempre fatti sui tendenziali dell’anno successivo, con il risultato di consolidare gli aumenti. Se si spende 100 e il tendenziale del prossimo anno indica 130 e si taglia 10 si consoliderà un aumento di 20. Altrimenti non si spiegherebbe come mai avendo fatto megamanovre di tagli ci si ritrova con il terzo debito pubblico del mondo. Il criterio, invece, deve essere quello secondo il quale gli acquisti delle pubbliche amministrazioni deve avere come riferimento un valore storico al quale si aggiunge un incremento legato all’inflazione. Con un’operazione del genere si può ottenere un risparmio di spesa di circa venti miliardi». Altrimenti il rischio è di «ritrovarsi con cinquanta miliardi di euro di ritardati pagamenti delle pubbliche amministrazioni alle imprese, che invece dovrebbero essere il primo degli incentivi».

Un taglio da investire nel Sistema Paese

Subito la riforma delle pensioni Bisogna approfittare del «consiglio» che arriva dall’Unione europea di Gianfranco Polillo e prime avvisaglie non lasciano sperare. Se il dibattito politico sulla manovra d’estate seguirà le orme di quanto si è visto ad Annozero, nel duro confronto tra Pierluigi Bersani e Giulio Tremonti, è difficile che qualcosa possa cambiare. Tutto è affidato all’esile filo del consociativismo. Di quelle riunioni riservate, nel chiuso della Commissione bilancio, in cui maggioranza e opposizione si spogliano delle rispettive armature ideologiche per discutere con più calma della

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qualità intrinseca dei numeri. Poi in Aula il confronto ritroverà i toni della virulenza politica. Con accuse reciproche e coup de theatre. Questa è almeno la speranza, che richiede, tuttavia, almeno una condizione. Partire dal fatto che una manovra di quella dimensione è comunque necessaria.

Le proiezioni della Ragioneria generale, contenute nella Relazione unificata, ci dicono che il deficit sta viaggiando a un ritmo ancora eccessivo. È vero che rispetto agli anni pre-


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LUIGI PAGANETTO

«È ora di investire nell’innovazione» I mercati non si fidano più di un’Europa che pensa solo a salvaguardare il passato

cedenti assistiamo a una progressiva riduzione – dal 5 per cento del 2010 al 4,3 del 2012 – ma il rientro è troppo lento rispetto alla turbolenza dei mercati. Con la speculazione alle porte che attacca il debito degli Stati sovrani, indugiare rappresenta un rischio che occorre scongiurare. Eccesso di prudenza? Forse. Ma è meglio prevenire, piuttosto che essere costretti a successivi interventi, il cui costo sarebbe di gran lunga superiore. Se la manovra andrà a buon fine, ridurremmo notevolmente questa esposizione. Per il 2012, infatti, il deficit dovrebbe attestarsi su un più tranquillizzante 2,8 per cento, che dovrebbe calamare i mercati e scongiurare assalti di carattere speculativo. I margini di una possibile discussione si collocano pertanto all’interno di questo perimetro. Riguardano più la qualità delle misure che si intendono adottare, che non lo stravolgimento dei saldi. Si può ad esempio tagliare con maggior decisione la spesa pensionistica – approfittando dell’esortazione di Viviane Reding, commissaria Ue che in-

cita ad accelerare per le donne del pubblico impiego il passaggio ai 65 anni d’età – per recuperare risorse. Oppure rendere ancora più stringenti le norme antievasione. Quel limite di 5.000 euro per la tracciabilità appare ancora troppo alto se riferito al compenso dei professionisti. Quello che invece appare più difficile è suggerire manovre di carattere espansivo – tipo aumento di salari o pensioni – nella speranza che dal maggior consumo interno possa derivare un più elevato tasso di crescita complessivo.

Il modello di crescita, non solo italiano, ma europeo, che si è sviluppato a partire dall’inizio dell’anno, è guidato dalle esportazioni. Le cause sono dovute al progressivo indebolimento dell’euro sia nei confronti del dollaro che dello yen. I nuovi valori di cambio hanno accresciuto la competitività delle merci europee su tutti i mercati. Se puntassimo su una ripresa della domanda interna – a meno che non si tratti di investimenti – entreremo in contro tendenza. Per

questo occorre mantenere la stabilità finanziaria e, al tempo stesso, prepararsi ad intervenire, con tempestività, quando il processo si sarà consolidato. La riproposizione della veccia politica dei “due tempi”: prima il risanamento e poi lo sviluppo? Non proprio. Abbiamo due anni di tempo per intervenire. Lo potremo fare con maggiore tranquillità se, nel frattempo, l’economia italiana si sarà sviluppata a un ritmo maggiore di quello previsto. Al termine di questa strada del resto c’è una scadenza ineludibile: almeno dal punto di vista politico. Nel 2013 vi saranno le elezioni e se si resterà con le mani in mano, la pressione fiscale – sempre che le promesse della manovra in termini di lotta all’evasione vadano a buon fine – sarà pari al 42,8 per cento del Pil. La stessa del 2008. E allora non sarà facile per Silvio Berlusconi presentarsi agli elettori. Ricordate Bush padre. Disse agli americani: read my lips: no new taxes (leggetemi le labbra: nessuna nuova tassa). Non mantenne la promessa e passò il testimone a Bill Clinton.

ROMA. Luigi Paganetto, professore ordinario in Economia internazionale all’università di Tor Vergata, parte da una premessa di scenario:«Quello che sta succedendo mette in evidenza un’attenzione forte che i mercati dedicano alla crescita a medio termine. Si tratta delle tendenze delle diverse aree, misurate nei prossimi anni, che influenzeranno le decisioni di investimento e ne determineranno poi lo sviluppo. In questo senso si sta concretizzando un panorama diverso dal momento che l’Europa non è più la naturale destinataria dell’attenzione degli investitori istituzionali come lo era stata in passato. La riduzione del debito e del deficit deve essere vista solo come un aspetto di un problema più ampio, collegato alla globalizzazione dei mercati che si interrogano sull’evoluzione futura dell’economia internazionale dopo la crisi». In quest’ottica, per il professor Paganetto, non è soltanto il nostro Paese che deve mettere in moto progetti di modifica strutturale della propria economia che rendano credibile una crescita a medio termine «ma è tutta l’Europa che ha lo stesso problema. Un continente che ha significativi problemi di invecchiamento della popolazione e di gestione del welfare assai conosciuti si trova a confrontarsi con una propensione a investire in innovazione rispetto ad altre aree del mondo». È importante, secondo il presidente della Fondazione economia Tor Vergata-Ceis, «dare dei segnali ai mercati che l’obiettivo del maggior dinamismo dell’economia italiana ed europea è una questione a cui si applicano le decisioni di politica economica. Non basta, quindi, intervenire sui sistemi pensionistici, bisogna certamente ridurre la spesa pubblica, ma anche realizzare investimenti a livello europei nei quali l’Italia sia partecipe per la realizzazione delle grandi reti di telecomunicazioni, informatiche ed energetiche che possano creare le condizioni per una nuova fase di sviluppo europea e del nostro Paese, ciascuno per la propria parte».

Tenendo ben presente questa prospettiva l’ex presidente dell’Enea ritiene che «occorra pensare a una manovra assai più consistente, nella quale si riduce il ruolo del settore pubblico in misura maggiore rispetto a quanto prevede la manovra, lasciando una spazio maggiore al privato». Andando nel concreto per Paganetto «si dovrebbe eliminare il sistema degli incentivi a fondo perduto alle aziende, realizzare sistemi automatici di detassazione delle attività di innovazione e facilitare gli investimenti privati nelle grandi opere infrastrutturali. Tutto questo, ovviamente, si collega strettamente all’esigenza di creare occupazione e in questa prospettiva ci sono settori promettenti come quelli dell’efficienza energetica in cui, senza particolari costi, si ottengono risultati importanti in termini di maggiore occupazione come ricaduta degli interventi di efficienza, ma non solo questo. Tutto il settore dell’innovazione nei servizi è decisivo, perché sono proprio i servizi la parte maggiore dell’economia che conta per il 70 per cento del Pil ed è la parte in cui la produttività cresce assai poco». È indispensabile allora «la riduzione del pubblico e spostamento di attenzione sull’innovazione e lo sviluppo può essere decisivo per il prossimo anno. Questo deve essere chiaro che il vero problema non è guardare allo 0,2 in più o in meno del Pil, ma a un dinamismo diverso dell’economia che nel medio termini convinca i grandi investitori che c’è crescita e ci sono interventi strutturali che per un verso riducendo le spese e dall’altro intervenendo su fattori di dinamismo provocano effetti positivi». A questo vanno aggiunti «una quantità di interventi a costo zero, come quelli che riguardano la riduzione delle situazione corporative che si determinano in molte aree della nostra economia, con la conseguente apertura alla concorrenza. In questo quadro i servizi sono i principali candidati a diventare oggetto di una maggiore efficienza, produttività e competitività».


diario

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Equilibri. Lunedì si costituisce in area programmatica il gruppo che all’ultimo congresso ha contrastato Epifani

L’ala sinistra della Cgil si fa partito Obiettivi: alzare i toni con il governo e bloccare le riforme del lavoro ROMA. Una Cgil antagonista all’interno di una Cgil che vuole tornare a essere riformista. Al direttivo di lunedì – quello che deciderà tempi e modalità dello sciopero generale contro la manovra – la minoranza di corso d’Italia chiederà il riconoscimento di area programmatica. Così renderà ufficiale il suo dissenso l’ala sinistra della confederazione. E si darà vita a una corrente che ha come principale missione quella di contrastare una segreteria che ha riscoperto l’importanza dell’unità sindacale e del dialogo con il governo. All’ultimo congresso questo gruppo raccolto nella mozione la “Cgil che vogliamo”(tra i firmatari Gianni Rinaldini, Carlo Podda, Giorgio Cremaschi, Nicoletta Rocchi, Maurizio Landini, Marialuigia Maulucci e Domenico Moccia) ha totalizzato soltanto il 17 per cento dei consensi contro la piattaforma presentata dal segretario Guglielmo Epifani. Ma non per questo è meno agguerrita, come dimostrerà la richiesta di fare del prossimo sciopero contro il governo soltanto il primo appuntamento di una battaglia politica che vada oltre i luoghi di lavoro.

Il percorso però sarà lungo e ancora tutto da costruire. Intanto c’è da scegliere se nominare un unico portavoce (il favorito è Rinaldini) oppure un soggetto plurale per non scontentare nessuno. Eppoi, annuncia Carlo Podda, «vogliamo coinvolgere in questo processo i delegati, che a livello territoriale hanno firmato la nostra mozione per darci un programma e delle regole interne, in un percorso che porti più trasparenza anche a livello nazionale». Non a caso nella loro piattaforma congressuale si discuteva anche di rinnovo periodico delle deleghe e della fine dei finanziamenti indiretti garantiti dalla bilateralità. È impensabile che nel breve termine si possano riscrivere gli

so gli enti bilaterali». Aggiunge Giorgio Cremaschi: «Noi non abbiamo condiviso l’idea di riappacificazione che è alla base dell’esito congressuale. E a darci ragione il fatto che neppure dieci giorni dopo Tremonti sulla manovra ha convocato tutti – Cisl, Uil e Confindustria, tranne noi». Per concludere: «È vero che Epifani ha detto no alla riforma dei contratti, ma a ben guardare la maggior parte delle confederazioni hanno firmato i rinnovi con le nuove regole».

di Francesco Pacifico

equilibri interni. E non soltanto perché il gruppo è, come il suo principale promotore Fiom, forte soprattutto in centro Italia e nelle piccole e medie aziende. Ma se in certe società quotate in Borsa le azioni si pesano e non si contano, in questa rassemblement va considerato il “peso” di Rinaldini e Podda, ex segretario dei metalmeccanici e ex numero uno della funzione pubblica. Cioè dei due dirigenti che con i loro no hanno avuto maggiore potere d’interdizione sulle scelte di Epifani. Tanto da spingere la Confederazione nell’isolamento nel quale si trova oggi. Quasi a mo’di contrappasso, l’imperativo della nuova minoranza è sopravivere, non diventare l’anello sacrificale nel processo che porterà il futuro segretario generale, l’ex ca-

po della Fiom di Milano Susanna Camusso, al riavvicinamento con Cisl e Uil. Questo timore non lo nasconde Giorgio Cremaschi: «A chi mi è più vicino dico che rimpiangeremo Epifani. Il quale, pur distante da noi, ha sempre mostrato capacità di mediazione, mantenuto decente il livello di contraddittorio. Non

per l’altro di un incarico nazionale), hanno deciso a fare un passo che più politico non potrebbe essere. Anche perché se Rinaldini ha vinto l’ultimo congresso in Fiom e ha spinto per la successione il fedelissimo e reggiano come lui Fabrizio Landini, Podda ha perso la sua poltrona di segretario della funzione

I promotori sono l’ex segretario della Fiom Rinaldini e l’ex numero uno degli statali Podda, settori dove il sindacato conta più iscritti vorrei che il nuovo gruppo dirigente, proprio perché nuovo, debba dimostrare in maniera netta la sua distanza dalle aree di dissenso».

Dalla maggioranza del sindacato si raccoglie il fastidio verso un’iniziativa «che va in direzione opposta all’esito del congresso, e che pure dovrebbe dare la direzione. E arriva in un momento nel quale c’è bisogno di stare assieme contro un governo che fa una manovra a scapito di chi guadagna 1.200 o 1.300 euro al mese». Eppoi non piace la scelta di Rinaldini e di Podda, che invece di accontentarsi dei ruoli di solito affidati agli ex segretari (per il primo si parla della fondazione Sabatini,

pubblica raccogliendo comunque il 45 per cento dei consensi. E tute blu e statali, si sa, sono tra i lavoratori attivi due dei principali bacini di tesseramento per la Cgil. Maggioranza e minoranza sono comunque convinte che non ci saranno le condizioni per una segreteria unitaria. E le spaccature vanno ben oltre le diverse strategie di posizionamento. Spiega proprio Fabrizio Landini: «In tutte le misure finora prese o annunciate da questo esecutivo, dalla riforma dell’apprendistato fino al congelamento degli aumenti degli statali e il futuro federalismo fiscale, vedo un lucido disegno da parte del governo e Confindustria: modificare le regole di rappresentanza, superare il contratto nazionale e trasformare il sindacato in erogatori di servizi attraver-

Al netto del giudizio che ne dà, è difficile smentire l’analisi del neo segretario della Fiom. E va da sé che questo nuovo gruppo spingere corso d’Italia a restare sull’Aventino nell’applicazione della riforma dei contratti (al riguardo dovrebbero partire su tutto il territorio nazionale le prime vertenze per confermare le intese in vigore) e rispondere con un no agli appelli all’unità della Marcegaglia o di Bonanni sulla definizione dello Statuto dei lavori o del patto sulla produttività. Ma in questa ottica diventa campale l’intesa sulla riqualificazione dello stabilimento Fiat di Pomigliano, dove il Lingotto è disponibile a portare la produzione della Panda dietro rigide condizioni. «All’incontro di ieri a Torino», racconta Landini, «non ci hanno chiesto soltanto 18 turni, ma deroghe sugli scioperi, sui riposi e la possibilità di firmare accordi individuali. Se passasse questa piattaforma non esisterebbe più la Cgil che fa della centralità del contratto la sua ragion d’essere». Va da sé che se la principale impresa italiana introducesse queste novità sarebbero ribaltate tutte le regole sulla rappresentanza. Quindi finisce sulle spalle del povero Landini – uno che ha sedici anni era già alla catena di montaggio, che ha doti di grandi mediazioni nelle trattative più difficili, non certo l’allure politica del suo amico Rinaldini – il futuro di un sindacato ancora troppo connotato sul vecchio modello fordista e poco aperto al lavoro a minore intensità. Senza contare che se fallisce nell’intento, un migliaio di lavoratori rischiano di restare a casa come i loro colleghi di Termini Imerese, mentre la Fiom potrebbe essere bandita dalle grandi fabbriche.


diario

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Il team di Caldoro scopre uno stanziamento di Bassolino

Nei gadget fabbricati in Cina una sostanza cancerogena

Campania, fondi per insegnare la “differenziata” nei Caraibi

McDonald’s, via 12 milioni di bicchieri al veleno

NAPOLI. Dall’alto di dottissimi studi costati milioni di euro e una fama internazionale di un certo livello, la Campania esporta ad Haiti, Repubblica Dominicana e Cuba le proprie competenze maturate in tema di smaltimento rifiuti. A nostra insaputa, la Regione aveva evidentemente maturato nel settore un rating internazionale prestigioso. Ma forse in difesa del prezioso segreto industriale, la copiosa cifra è stata scoperta solo oggi, grazie agli esperti di Palazzo Santa Lucia incaricati dal nuovo governatore Stefano Caldoro, di passare al setaccio delibere e consulenze dell’ultimo anno, e di individuare eventuali sprechi. Stanziata in felice coincidenza con la notte di San Silvestro, il 31 dicembre del 2009, la decisione è stata deliberata con il decreto dirigenziale numero 214 dell’area generale di coordinamento 12 del settore sviluppo economico. La giunta Bassolino aveva dunque stanziato 662mila euro di fondi europei pur di esportare la filosofia del cassonetto ai Cairaibi.

ROMA. Venduti a due dollari al

Più di un miliardo di vecchie lire, investite in un progetto ambizioso: «Impegno risorse per cofinanziamento progetto europeo Caribbean sustainable waste management for a better life», e cioè “per la gestione delle politiche dei rifiuti ai Caraibi

La mano tesa del Papa ai «musulmani fratelli» «Dialogo in Medioriente, la convivenza è necessaria» di Guglielmo Malagodi

NICOSIA. «Le comunità cristiane di Cipro possono essere come un ponte fra l’Oriente e l’Occidente». Con queste parole, pronunciate nell’omelia della celebrazione ecumenica che ha presieduto nel primo pomeriggio di ieri a Paphos, antica città cristiana dell’Isola, Benedetto XVI ha sottolineato il ruolo centrale che con il suo viaggio intende attribuire alle comunità cipriote nel Sinodo Speciale per il Medio Oriente convocato per contribuire alla pace dell’area. «La via che conduce all’obiettivo della piena comunione - ha spiegato il Papa non sarà certamente priva di difficoltà, ma la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa di Cipro sono impegnate a progredire sul cammino del dialogo e della cooperazione fraterna». Nella conferenza stampa in aereo, durante il viaggio per Cipro, Benedetto XVI aveva anche pronunciato parole nette sull’omicidio di Monsignor Luigi Padovese. «Non può essere attribuito alla Turchia e ai turchi - ha detto il Santo Padre - e non deve oscurare in alcun modo il dialogo con l’Islam». «Di sicuro - ha aggiunto Ratzinger - non si tratta di un assassinio politico o religioso». Nell’omelia pronunciata a Cipro, invece, il Pontefice si è concentrato soprattutto sulla necessità di superare le divisioni tra le Chiese cristine.

menti e irrobustire la nostra determinazione, così che insieme possiamo recare il messaggio della salvezza agli uomini e alle donne del nostro tempo, i quali sono assetati di quella verità che porta libertà autentica e salvezza, la verità il cui nome è Gesù Cristo». Per Benedetto XVI, «la comunione ecclesiale nella fede apostolica è sia un dono, sia un appello alla missione». «In tale contesto - ha tenuto a precisare rivolgendosi all’arcivescovo Chrysostomos che gli era accanro davanti all’antica chiesa di Paphos - l’Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi, che si riunirà a Roma nel prossimo ottobre, rifletterà sul ruolo vitale dei cristiani nella regione, li incoraggerà nella loro testimonianza al Vangelo e li aiuterà a promuovere maggior dialogo e cooperazione fra cristiani in tutta la regione».

«Significativamente, infatti, i lavori del Sinodo saranno arricchiti dalla presenza di delegati fraterni di altre Chiese e Comunità cristiane dell’area, quale segno del comune impegno al servizio della parola di Dio e della nostra apertura alla potenza della sua Grazia che riconcilia». Per il Papa, «l’unità di tutti i discepoli di Cristo è un dono da implorare dal Padre, nella speranza che esso rafforzi la testimonianza del Vangelo nel mondo d’oggi. Il Signore ha pregato per la santità e l’unità dei suoi discepoli proprio perché - ha ricordato - il mondo creda». Dopo aver ricevuto l’omaggio di una decina di monaci e monache all’interno della chiesa di Kato Paphos, il Papa è uscito sul sagrato e ha salutato i fedeli rivolgendosi loro in greco. Il Pontefice si è poi diretto verso l’auto che lo attendeva per portarlo a Nicosia, costeggiando una transenna dietro la quale erano assiepati i fedeli del Patriarcato Latino. In due punti diversi del percorso, alcuni bambini hanno scavalcato la protezione, tollerati dagli uomini della sicurezza, e sono riusciti ad avvicinarsi. Benedetto XVI se li è così trovati davanti e ha potuto salutarli affettuosamente.

Benedetto XVI: «Le comunità cristiane di Cipro possono essere come un ponte fra l’Oriente e l’Occidente»

per migliorare la qualità della vita”. Il provvedimento rientra nel piano regionale Paser, lo stesso che fu bersaglio di scoppiettanti polemiche per via di una certa prodigalità nell’assegnazione delle consulenze. Nonostante dunque la Regione Campania sia in prima linea nel lanciare la raccolta differenziata ai tropici, il modello di sviluppo ha una paternità tutt’altro che rassicurante. Napoli e le altre maggiori città, fanno registrare infatti una soglia di raccolta rifiuti separata che tocca appena il 13 per cento. Un paio di giorni fa, Bertolaso ha precisato che in Campania l’emergenza rifiuti non è ancora finita. Tristi tropici.

pezzo e disponibili in quattro diverse fantasie nella catena McDonald’s, i dodici milioni di bicchieri atti ad accendere le fantasie dei bambini, si sono rivelati mostruosi tanto quanto l’orco che raffiguravano. Il materiale utilizzato per riprodurre l’effigie del popolare Shrek, conteneva infatti il cadmio, sostanza cancerogena comunemente presente nelle pile elettriche, che se ingerita può comportare tra l’altro gravi patologie renali, osteoporosi e osteomalacia. I vertici del noto fastfood americano, già in passato nell’occhio del ciclone per via di inchieste e documentari come Supersize me, hanno immediatamente ritirato lo stock

«Giusto cento anni orsono - ha ricordato il Papa - alla Conferenza Missionaria di Edimburgo, l’acuta consapevolezza che le divisioni fra cristiani erano un ostacolo alla diffusione del Vangelo diede origine al movimento ecumenico moderno». «Oggi - ha aggiunto - dobbiamo essere grati al Signore, il quale, mediante il suo Spirito, ci ha condotto, specie negli ultimi decenni, a riscoprire la ricca eredità apostolica condivisa da Oriente e da Occidente, e, mediante un dialogo paziente e sincero, a trovare le vie per riavvicinarci l’un l’altro, superando le controversie del passato e guardando ad un futuro migliore». «Possa lo Spirito Santo - ha auspicato - illuminare le nostre

tossico dal mercato, diffidando i clienti dall’utilizzo dei bicchieri. L’allarme risparmia però l’Italia, dove, assicura la filiale italiana dell’azienda, i pericolosi gadget «non sono in distribuzione, nè lo saranno in futuro».

Utilizzato per produrre pigmenti, rivestimenti e stabilizzanti per materie plastiche, il cadmio dei bicchieri McDonald’s sarebbe potuto facilmente passare dalle mani dei bambini alla bocca. L’ingestione di soli 10 mg del metallo può provocare gravissimi sintomi, ma esso può rivelarsi devastante anche se assunto per via respiratoria, provocando intossicazioni acute o croniche sotto forma di vapori e di ossidi. «Crediamo che i bicchieri siano innocui per i consumatori – ha commentato il portavoce della Mcdonald’s Usa, Bill Whitman – ma per assicurare che i nostri clienti ricevano da noi prodotti sicuri, abbiamo preso la decisione di fermare la vendita e di richiamare immediatamente questi prodotti dal mercato». Ma nonostante l’ordine di ritiro, i variopinti bicchieri fabbricati in Cina ancora in giacenza sono cinque milioni, mentre sette sono stati già venduti alle famiglie. Succede solo da McDonald’s?


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l’approfondimento

Valditara: solo il presidente della Camera può contenere l’asse del nord. Stracquadanio: ma il premier non è in discussione

Il triangolo del potere

Da un lato l’intesa tra il Cavaliere e Fini sulle intercettazioni, dall’altra la pace con Tremonti sulla manovra. Eppure la maggioranza resta precaria. Si parlava di grandi aperture, ma per ora la vera novità è un triumvirato di Riccardo Paradisi l triangolo Silvio Berlusconi non l’aveva considerato ma adesso deve farci i conti con lo schema a tre punte che sta ridisegnando il centrodestra e che vede differenziarsi o contrapporsi alla sua leadership da un lato l’asse nordista Tremonti-Bossi e dall’altro il presidente della Camera Gianfranco Fini.

I

Deve considerarlo dunque il triangolo il Cavaliere facendo attenzione a restare la base della nuova forma che sembra assumere la coalizione di governo. Anche perché arbitro di questa partita interna sempre più spesso sembra essere il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al quale di volta in volta i singoli attori del confronto si rivolgono per avere copertura. I sorrisi tra il Cavaliere e l’inquilino del Colle alla parata del 2 giugno si spiegano anche con il pressing esercitato da Napolitano su Tremonti per stralciare dall’elenco dei tagli gli enti e

le fondazioni culturali. Un assist al ministro dei Beni culturali Sandro Bondi ma soprattutto una sponda oggettiva per il presidente del Consiglio per arginare l’azione in solitaria del ministro dell’Economia. D’altra parte per poter navigare con sufficiente tranquillità tra i marosi che causeranno i sacrifici richiesti al Paese Berlusconi ha bisogno del sostegno del Quirinale e di ritrovare una sintonia almeno tattica con Gianfranco Fini. L’annacquamento del Ddl intercettazioni, a partire dall’emendamento alla norma transitoria, serve a non ripetere l’esperienza dei due lodi e risponde evidentemente a questa necessità. Un passaggio che rappresenta il nuovo atteggiamento del premier alle prese con una situazione economica critica, resa ancora più difficile per il governo dalla reazione di molte categorie colpite dalla manovra, dagli enti locali al sindacato, dal personale degli enti cosiddetti

inutili ai magistrati. Ma la nuova intesa tattica tra l’area berlusconiana e quella finiana non toglie nulla al dato della precarietà e della mutevolezza degli equilibri sempre più variabili all’interno del Pdl. Non solo perché settori dell’area berlusconiana – soprattutto quelli riconducibili all’area degli ex colonnelli di Alleanza nazionale – su ogni passaggio dirimente, compreso quest’ultimo delle intercettazioni, spingono per la rottura col presi-

Resta il nodo dell’ostilità di Bossi nei confronti dell’ex An

dente della Camera (accusato nell’ultimo ufficio di presidenza del Pdl di lanciare «provocazioni continue, continui segnali di guerra») ma anche perché l’asse del nord sembra sempre più esasperato rispetto a quella che viene definita la progressiva meridionalizzazione del Pdl. Francesco Speroni, eurodeputato e vecchia guardia leghista, auspica che il giorno in cui Berlusconi diventerà presidente della Repubblica Tremonti diventi presidente del Consiglio. Un’ostilità quella nei confronti di Fini che non ha però impedito a Berlusconi di decidere comunque di venire incontro alle richieste che sul ddl intercettazioni vengono non solo dai finiani ma anche dal capo dello Stato che aveva parlato della necessità di una “maggiore condivisione”: «Il presidente Napolitano in questa fase è un interlocutore importante e non possiamo deluderlo», ha spiegato il premier. Se però Berlu-

sconi pare cedere un po’ di corda Fini non si fida ancora completamente.

E se i pontieri dell’ex leader di An Italo Bocchino e Andrea Augello parlano di un risultato soddisfacente raggiunto grazie a una efficace mediazione il finiano Carmelo Briguglio, arriva addirittura a chiedere un Berlusconi-bis e un partito completamente rinnovato perché quel che c’è è «vecchio e superato», mentre i siti vicini al presidente della Camera, Generazione Italia e Farefuturo, chiedono di tenere alta la «bandiera della legalità» e di tutelare il diritto alla prima serata nella Tv pubblica di Roberto Saviano. Un triangolo di interessi confliggenti che Berlusconi fa fatica a tenere in equilibrio. Anche se c’è chi sdrammatizza, come Giorgio Stracquadanio, esponente del Pdl e berlusconiano di prima linea. «È vero che ci sono tre protagonisti in questa partita ma il leader resta uno. Partiamo da Tre-


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Dentro al Pdl sembra cambiata l’aria. Ma anche nei rapporti con le opposizioni

Intercettazioni, sì di Pd e Udc Arriva la grande distensione La battaglia dei finiani ha pagato: la decisione di togliere il tetto dei 75 giorni e quella sugli 007 aprono la strada a un’intesa bipartisan di Errico Novi

ROMA. Una chiave per capire com’è cambiata l’aria nel Pdl? La offre un berlusconiano di rango: «Il presidente ha verificato che gli conviene trattare solo con Fini. Meglio avere a che fare con un solo interlocutore anziché restare impigliato nella rete delle troppe sottocorrenti di An». A partire da questa convinzione («Berlusconi ci è arrivato da solo, nonostante altri abbiano fatto di tutto per spingerlo alla rottura con il presidente della Camera», osserva la fonte anonima), sulla base di un simile rovesciamento tattico, si è concluso l’accordo sulle intercettazioni. Che lo stesso premier definisce «positivo». E pensare che solo giovedì mattina il ministro Altero Matteoli, tra gli ex An non schierati col vecchio capo, ancora definiva «strumentali» le pretese di modifica avanzate dai finiani. Matteoli e i berlusconiani ortodossi sono rimasti oltre le linee nemiche, a cercare bersagli da cogliere quando già si è firmato l’armistizio. Scena inimmaginabile fino a poco più di un mese fa, quando si consumò la rottura in direzione.

Il segreto? In parte sta anche nelle instancabili mediazioni di Gianni Letta. Non è casuale che proprio a intesa raggiunta sulle intercettazioni, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio decida di infrangere la sua rigida regola del silenzio: «Meglio un accordo, come quello sullo stralcio della norma per gli 007, di tante polemiche», osserva. C’è insomma il suo timbro, nel nuovo corso dei rapporti tra il Cavaliere e il cofondatore. Ma c’è soprattutto l’attitudine di quest’ultimo, e dei suoi fedelissimi, a macinare politica. Diversamente da quanto accade nel campo, pur sovrabbondante, dei berlusconiani, troppo preoccupati di ricavare vantaggio dall’ossequio al leader per mettere a punto strategie efficaci. E anzi con il sostanziale via libera a una delle leggi più controverse della legislatura, la scena nel Pdl cambia fin troppo. Appare persino egemonizzata dalla dialettica finiana. Contesto davvero distante dall’habitat naturale del premier, al punto da giustificare il rischio di qualche contraccolpo.

A l c un i

segnali

sembrerebbero attestare proprio questa insofferenza. Lo scarso tempismo con cui il guardasigilli Al-

fano riapre subito un altro fronte polemico, quello con i magistrati: «Il loro sciopero è politico», è l’accusa del ministro. Gli ribatte il presidente dell’Anm Luca Palamara: «C’è ben poco di politico nella nostra decisione». Chiusa una polemica, sembra che il governo non possa proprio fare a meno di riaprirne un’altra, anche se il ministro della Giustizia spezza una lancia in favore delle toghe più giovani «a cui si chiede un sacrificio economico eccessivo». Colpisce anche l’irriducibile Alessandra Ghisleri, sondaggista di fiducia del Cavaliere, che in un’intervista alla web tv di Klaus Davi dà per spacciato Fini in caso di scissione: «Porterebbe via pochi voti al Pdl, visto che il confronto con Berlusconi è impegnativo, e poi la titolarità di molti consensi dell’ex An è dei colonnelli, assai radicati sul territorio». Persino la forza della Lega, dice la Ghisleri, «viene dal presidente del Consiglio». Rivendicazioni quasi indispettite. Forse inevitabili in una situazione in cui tutto sembra alludere a un forzato ripiegamento berlusconiano: non solo il compromesso sulle intercettazioni ma anche quello politico-mediatico con Giulio Tremonti, riabilitato dalla nota del premier di giovedì pomeriggio.

I fatti d’altronde parlano chiaro: con l’accoglimento delle tesi finiane, c’è addirittura la possibilità che sul ddl intercettazioni si trovi l’accordo

con Udc e Pd. Pier Ferdinando Casini non esita a dire che «se resta garantita ai magistrati la possibilità di indagare sul crimine organizzato» la convergenza al Senato «è possibile».Tutto cambiato anche per Massimo D’Alema, coinvolto nel nuovo percorso della norma sul segreto di Stato per gli 007 intercettati e pronto ad ammettere che «il governo ha compiuto una scelta ragionevole e conclude una tormentata vicenda». È proprio il presidente del Copasir tra l’altro a far emergere la valenza chiarificatrice sulle modifiche introdotte in Senato: «All’origine delle incomprensioni c’è stata l’approvazione da parte della Camera di un nuovo testo sulle intercettazioni delle telefonate di appartenenti ai servizi di sicurezza». Quello proposto inizialmente a Palazzo Madama e ora destinato a rifluire in un provvedimento separato dal ddl intercettazioni «è un emendamento indubbiamente limitativo della tutela offerta al personale dei servizi», scrive l’ex premier nella sua articolata precisazione.

Quello di D’Alema è forse l’intervento che segna più di ogni altro il «cambiamento del clima» come lo definisce Nicola Latorre. Fabrizio Cicchitto non può che apprezzare il «rispristino della verità» rispetto alle mistificazioni dipietriste, arrivate al punto di vedere nelle modifiche del Senato sugli 007 «il tentativo di coprire la verità sulle stragi del ’92-’93». Di Pietro resta davvero isolato nella sua ostinata opposizione alla legge, a cui, dice, è stata apportata solo «una lavatina di faccia». E anche questo è di per sé un segnale. Gaetano Quagliariello chiede responsabilità all’opposizione (senza illudersi evidentemente sull’Italia dei valori) ma la capogruppo pd Anna Finocchiaro è pronta nel rammentargli che «sono state proprio le nostre insistenze a provocare il ritorno del ddl in commissione Giustizia, dunque l’opposizione ha già dato notevole prova di spirito costruttivo». Cosicché il tono sempre un po’ ruvido dei berlusconiani è destinato a sciogliersi nel mare di questa quasi inedita trasversalità. I due principali ambasciatori di Gianfranco Fini, Andrea Augello e Italo Bocchino, non hanno difficoltà a dichiarare che «ci sono tutti gli elementi per avviare il dibattito a soluzione», con il conseguente venir meno dell’oggetto del contendere all’ufficio di presidenza del Pdl fissato per martedì. Sembra fuori dal coro la voce di Nino Lo Presti, anche lui vicino al presidente della Camera, di cui circola un’intervista data un po’in differita al settimanale Letf. E comunque anche il deputato ex An tiene a ribadire che «le intercettazioni a strascico sono ingiustificate». Tutta un’altra musica, sempre che non risulti insopportabile per i gusti dei falchi della maggioranza.

monti: parliamo di un politico accreditato nelle elite che però non ha un suo consenso politico. Per questo il suo talento e le sue capacità richiedono sempre l’abbinamento a una leadership, e una relazione forte con Bossi. E oggi qualsiasi governo ha bisogno di forte consenso politico visto che siamo in tempi dove bisogna chiedere più che dare. Per questo è stato lo stesso Tremonti a smentire le voci che parlavano di una freddezza tra lui e Berlusconi». Tra Berlusconi e Tremonti insomma ci potranno essere frizioni, differenze caratteriali, ma Tremonti – ricorda Stracquadanio – «è il regista della saldatura tra Berlusconi e Bossi: un rapporto che può essere difficile e controverso, ma che resta sostanzialmente saldo. Tremonti può diventare il primo ministro forte di Berlusconi con Berlusconi al Colle, ma non sarà mai un competitor del Cavaliere».

Tutto diverso è il rapporto con Fini, perché il presidente della Camera «crede che Berlusconi sia un usurpatore, un’anomalia politica e trova insopportabile tutta la sua costruzione di politico tradizionale». Per questo è dal versante finiano che potrebbero venire le sorprese: «La vittoria sulle intercettazioni di Fini gli frutta evidentemente un riconoscimento politico: se Alfano e Ghedini devono parlare con Bocchino è evidente – dice Stracquadanio – che questo un peso ce l’ha. Ma se qualcuno si illude di fare il partito tradizionale, coi correntoni e i correntini tenendo in piedi la struttura coi voti del Cavaliere, si sbaglia di grosso. In politica serve il consenso, oggi più che mai». Così suona la campana berlusconiana. Quella finiana, per voce del senatore Giuseppe Valditara, è diversa: «All’interno del Pdl c’è una componente che ha le idee molto chiare a partire dall’economia per finire con l’immigrazione passando per il federalismo. Idee con cui ci stiamo connotando in modo molto preciso e che ci rendono politicamente molto efficaci rispetto a chi ha numeri più pesanti ma idee meno chiare. Poi c’è questa soggettività sempre più forte di Tremonti che evidentemente ha bisogno d’essere equilibrata. Il primo ad averlo capito – continua Valditara – sembra proprio il premier: i no feroci di qualche nostro ex colonnello alle modifiche al Ddl intercettazioni sono stati smentiti da Berlusconi». Il prossimo passaggio sarà l’approvazione della manovra aggiuntiva; ebbene i finiani avvertono che non accetteranno blindature. La manovra deve essere discussa in parlamento. «E Berlusconi ha detto che in Parlamento se ne discuterà – dice Valditara – dimostrando di volere una collaborazione positiva con Fini». Per ora.


economia

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Crisi. Se ragioniamo freddamente, il nuovo tasso di cambio con il dollaro apre nuove chances per l’economia del Vecchio Continente

La nostra forza? L’Euro debole

Perché la “svalutazione” non è necessariamente un fenomeno negativo di Enrico Cisnetto ei tanti spettri che si sono aggirati per l’Europa, l’Euro debole è forse quello che dovrebbe fare meno paura, almeno a tutti quelli che sono arcistufi di misurare la crescita economica in poveri decimali. Perché se per una volta proviamo a mettere da parte i sudori per l’attacco della speculazione alla nostra moneta, e ragioniamo freddamente sul cambiamento di scenario che il nuovo tasso di cambio Euro/dollaro porta con sé, allora la debolezza (politica) implicita nel calo dell’euro lascia il passo alla nuova chance che si apre per l’economia di Eurolandia. È un fatto che mentre i membri dell’Unione europea crescono del famigerato “zero virgola”, gli Stati Uniti vedono aumentare il proprio Pil del 3,2%, non sarà la Cina, ma è lo Stato Occidentale che cresce maggiormente.

D

Ed è un fatto che il dollaro è una moneta più competitiva in giro per il mondo. Insomma le aziende e i governi (oberati dal debito) del vecchio continente iniziano a fare i conti su un recupero di competitività che potrebbe essere il calcio d’inizio della ripresa di cui c’è tanto bisogno. Secondo l’Ocse, infatti il 10% di calo dell’euro si tradurrebbe nei prossimi 12 mesi in un punto in più di crescita per l’Europa, al costo di un aumento accettabile dell’inflazione tra il mezzo e il punto

percentuale. Del resto la competizione sui mercati globali è spietata, e in Usa e in molti mercati emergenti basati sul dollaro un euro super apprezzato non aiuta le nostre imprese che in questi anni hanno dovuto patire la miope politica monetaria della Bce.

A causa dell’ortodossia teutonica che da sempre ha determinato la politica monetaria di Francoforte, in questi anni l’euro è arrivato ad un rapporto da fantascienza rispetto al biglietto verde, un cambio che ha raggiunto nel luglio del 2008 – ovvero mentre la crisi finanziaria si abbatteva violentemente sui mercati mondiali – la strabiliante quota di 1,60. Una sopravvalutazione che non rispecchiava nel modo più as-

soluto i rapporti di forza tra le due economie, senza considerare che l’Europa non è un unico soggetto capace di muoversi unitariamente sullo scacchiere internazionale, sia dal punto di vista economico che politico.

D’altro canto un euro debole preoccupa non poco gli americani. Se si dovesse passare per caso a prendere un caffè alla Casa Bianca e si chiedesse al presidente Obama che cosa pensa dell’euro

basso il rapporto tra le due valute, sapendo che le borse scenderanno significativamente ma che, al tempo stesso, avremo un sensibile incremento dell’export? Nel breve medio periodo, secondo alcuni analisti, la bilancia commerciale nei confronti dei paesi extra Ue, e quindi legati al dollaro, dovrebbe migliorare preservando così alcune decine di migliaia di posti di lavoro, un fatto decisamente positivo. Non bisogna infatti dimenticare che le difficoltà ad uscire

Secondo l’Ocse, il 10 per cento di calo della moneta unica si tradurrebbe nei prossimi 12 mesi in un punto in più di crescita per l’Europa debole, il leader americano denuncerebbe una duplice preoccupazione: la prima è appunto il recupero di competitività delle aziende europee nei confronti di quelle americane, Airbus versus Boeing o Finmeccanica versus Sikorsky tanto per fare due esempi; il secondo è che mercati finanziari europei troppo deboli possono innescare un altro effetto domino con conseguenze disastrose a causa dell’interconnessione globale. Ecco quindi un primo paradosso di questa crisi: è meglio augurarsi che l’euro rimanga forte, agevolando gli scambi finanziari, o è preferibile rivedere al ri-

dalla crisi sono state dovute al calo dell’export (negli ultimi 5 anni l’import è sempre stato maggiore), e a sua volta la debolezza dell’export ha due cause fondamentali, un euro troppo forte e il calo della competitività del Sistema Italia, che Emma Marcegaglia ha stigmatizzato con forza all’Assemblea Generale di Confindustria.

Ma attenzione, il benefici di un euro non dopato non sono “l’elisir di lunga crescita”, non più nei mercati di oggi. Innanzitutto perché la maggior parte dell’export dei paesi dell’eurozona avviene tra di loro, e quindi il vantaggio competitivo di una svalutazione ne è automaticamente attenuato, in secondo luogo con un euro debole crescerà il costo delle materie prime, che ci servono per produrre, leggi soprattutto

energia. Inoltre il deprezzamento del cambio si scaricherebbe in gran parte sul bilancio delle famiglie a reddito medio basso costrette a fare i conti con prezzi interni rincarati. Per tornare all’immagine dello spettro dell’euro debole, crediamo che la sua comparsa nel Vecchio Continente non sia così negativa se verranno rispettate alcune condizioni: la prima è che la sua svalutazione dovrà essere graduale e tale da non mortificare l’amor proprio degli europei, e soprattutto non spaventare la Germania, azionista di maggioranza di Eurolandia che storicamente ha il terrore delle spinte inflazionistiche.

La seconda è che, una volta avviata la ripresa, si facciano quelle riforme strutturali necessarie ad innalzare la competitività del ”Sistema Italia”. Se oggi da un lato è doveroso respingere gli sparuti attacchi revanscisti che invocano il ritorno della lira (non capendo che se non ci fosse stato il salvagente dell’euro, l’Italia sarebbe capitolata già da tempo, con un tonfo ben peggiore di quello della Grecia), è altresì giusto interrogarsi sulle politiche economiche da portare avanti. Il contenimento della spesa, doveroso e giustificato, non può prescindere da una serie di riforme strutturali che permettano di avere moneta sonante da investire nell’economia, sempre più ingolfata. Se l’Europa tutta sarà in grado di fare ciò, potremo finalmente dichiararci “eurocontenti”.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“Humpday” di Lynn Shelton

I SEGRETI DEGLI UOMINI di Anselma Dell’Olio

i tempi della contestazione, o della rivoluzione ersatz dei figli dei mio della Giuria), Cannes (Quinzaine des Realisateurs) e gli Independent Spirit Awards (Premio Cassavetes per Shelton). Ben (Mark Duplass) e fiori (e di papà) negli anni Sessanta-Settanta, Lynn Shelton saProduzione Andrew (Joshua Leonard, Blair Witch Project) all’università erano rebbe stata aggredita dalle femministe come «maschiobuoni amici e compagni di baldorie. Due scapestrati con ambiidentificata», all’epoca uno dei peggiori epiteti contro minimalista e rapida zioni artistiche. Poi ognuno va per la sua strada e si peruna donna. La giovane cineasta di Seattle, dove esiste e dialoghi improvvisati una fiorente movida di artisti e filmaker dalla quale dono di vista. Dieci anni dopo Ben è un ingegnere dei nel film della regista di Seattle trasporti con un lavoro regolare, una casa e una lei è nata, è affascinata dai maschi. I ruvidi riti moglie, Anna (Alycia Delmore); stanno setribali, le conversazioni oblique, la tendenza che ha trionfato a Sundance e a Cannes. riamente provando a fare un figlio. La storia a schivare o mascherare i sentimenti; frustraUn azzardato viaggio identitario di due apre con la certezza che Anna è fertile; ma non è zioni e ambizioni di chi, plasmato dal testosterone, amici, la cui mascolinità è narrata il momento. Sono stanchi, ci proveranno domani, e il sente l’urgenza di lasciare un segno nel mondo. Ha già buonumore della decisione condivisa comunica l’armonia trattato il tema in My Effortless Brilliance, in cui mette sotcon grande sensibilità che regna tra due persone a proprio agio e ben assortite. Alle due to il microscopio il machismo di due amici durante un weekend femminile di notte sono svegliati dal campanello: è Andrew, di ritorno dal Mesnei boschi, e ci ritorna su, stavolta puntando alla sessualità maschia sico dopo la fine di una gita-impegno alternativa. con Humpday, appena uscito in Italia dopo trionfi a Sundance (Gran Pre-

A

Parola chiave Grido di Maurizio Ciampa Tracey Thorn, il sound della mezza età di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Le meditazioni (contraddittorie) di Arturo Graf di Francesco Napoli

Newman, il santo del passaggio di Marco Respinti La colpa di Caino secondo Saramago di Pier Mario Fasanotti

Quel mazzolin di fiori dal Seicento a Van Gogh di Marco Vallora


i segreti degli

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to legati. È un tema esplorato molto bene in un film hollywoodiano da noi molto amato e di cui abbiamo scritto in questa rubrica, I Love You, Man con Paul Rudd nel ruolo di un fidanzato spinto dalla promessa sposa a trovarsi un «migliore amico» prima del matrimonio per fargli da testimone. È un’opera non «di» ma «alla» Judd Apatow (Molto incinta, Quarant’anni vergine, Pineapple Express), il nuovo guru della risata sprigionata dalla confusa mascolinità nel Ventunesimo secolo. Mumblecore, per chi ne è ancora digiuno, descrive film americani a bassissimo costo, girati con amici in pochi giorni senza sceneggiatura, che rispecchiano la vacua esistenza e il borbottio senza costrutto di ventenni americani. Ma è un aggettivo troppo pigro per Humpday. Shelton non ha scritto un copione tradizionale, ma un lungo e dettagliato scheletro o sommario dai contorni ben definiti, in base al quale gli attori hanno improvvisato i dialoghi recitando a soggetto. Questo metodo riproduce le esitazioni e l’intercalare di chi pensa mentre parla. All’inizio si nota, ma poi si finisce per apprezzarne freschezza e spontaneità, ben lontane dalla noia abissale di molti film mumblecore.

Ha la barba, una sacca a spalla e l’aria scanzonata dell’hippy giramondo, artistoide e libero. Anna è un po’smarrita e per l’ora e perché Ben non gliene ha mai parlato. Il marito rapidamente accenna al loro antico affiatamento. Lei accetta di buon grado di ospitarlo a casa loro, e se ne torna a letto per lasciarli fare la rimpatriata. Segue il rito macho (forse più anglosassone che latino) di darsi pugni e botte finte al posto di baci e abbracci: «Ehi, tu!». «Oh, allora, hai visto?». «Eccoci qua dopo tanti anni!». «Io con casa e moglie e tu… sempre in giro». «Chi l’avrebbe mai detto?». Il classico metalinguaggio di riavvicinamento. Anna ha voglia di conoscere meglio l’amico del cuore di Ben, ma la sera dopo Andrew si è già parcheggiato a casa di due artiste pansessuali e festaiole.Vivono in una specie di comune di spiriti liberi creativi, e invitano anche la coppia. Ben va, Anna resta a casa a preparare una cena intima; lui dice che arriverà presto. I due non mangeranno mai le braciole di maiale preparate con tanta cura e amore, sballati da birra e spinelli in quantità, dalle discussioni sull’arte concettuale e dall’ambiente dionisiaco. Gasati dall’atmosfera, i due decidono all’istante di girare un video-shock da mandare a Humpfest, un pornofestival amatoriale (esiste veramente) a Seattle. Si chiuderanno in una camera d’albergo e si riprenderanno mentre fanno l’amore: due amici etero senza secondi fini se non quello di épater e di legittimarsi come bohemiens audaci e fecondi. Pregustano il trionfo. «È oltre l’omosessualità!», esultano sull’onda dell’entusiasmo e fatti come cucuzze.

Per fortuna non si tratta d’omosessualità occulta, l’idea che uno stia per uscire dall’armadio. Sono proprio due eterosessuali con pancette incipienti, senza la minima attrazione sessuale reciproca, e le loro motivazioni per fare qualcosa di tanto temerario suonano autentiche. Ben vuole dimostrare a se stesso che avere lavoro, moglie e casa non significa aver perso l’ingegno giocoso di un tempo e la capacità di stupire, mentre per Andrew è impellente portare finalmente un progetto artistico fino in fondo prima della mezz’età, pericolosamente vicina. Deve rassicurarsi di non essere un fallito, un impostore, un falso Peter Pan, ma un cane senza collare che invecchia, uno scansafatica che si atteggia da esteta in giro per paesi esotici per nascondere la sua inconsistenza e mancanza di talento. Anni fa Roberto D’Agostino, ideatore e gestore del sito gossip Dagospia, ha scritto un libro sulle celebrità di casa nostra, un «vizionario» con un titolo che calzerebbe perfettamente a Humpday: Chi è, chi non è, e chi si crede d’essere (Mondadori, 1988). Sopra, alcuni fotogrammi del film. A destra, i due protagonisti insieme alla regista Lynn Shelton

anno III - numero 22 - pagina II

uomini

HUMPDAY - UN MERCOLEDÌ DA SBALLO GENERE COMMEDIA

REGIA LYNN SHELTON

DURATA 95 MINUTI

INTERPRETI

PRODUZIONE USA 2009 DISTRIBUZIONE ARCHIBALD FILM

MARK DUPLASS, JOSHUA LEONARD, ALYCIA DELMORE, LYNN SHELTON, TRINA WILARD

I due amici ritrovati, nel corso del film e in particolare una volta che si chiudono con la telecamera nella stanza di un motel, fanno un viaggio in fondo a se stessi. Qualche critico ha parlato del «progetto artistico» come di un «MacGuffin» - un trucco, coniato da Alfred Hitchcok, che fa girare la trama ma che in sé non ha alcuna vera importanza. Forse c’è qualche grano di verità, ma in realtà no, conta eccome, il programma di due maschi non gay di fare sesso in un filmino che sarà in concorso a un festival erotico, in un’opera che indaga con piglio d’autore e attraverso molto sviscerarsi, le cose che scegliamo per costruire la nostra identità. Il film è stato definito un mumblecore bromance: bromance è una storia d’amore tra due brothers, fratelli spirituali e amici platonici mol-

La quarantatrenne Shelton (battezzata «la Apatow femminile» a Sundance) ha fatto una lunga e variegata gavetta. È scrittrice, sceneggiatrice, attrice (ha fatto molto teatro e ha una piccola parte in Humpday come una delle artiste disinibite della comune), videoartista, poeta, fotografa, direttore della fotografia e a lungo stimata montatrice. Poi è passata alla regia e alla produzione, con film a basso costo prodotti localmente. Al New York Times ha detto con rabbia di essere giunta alla regia tardi, qualche anno prima dei quarant’anni, «perché non avevo fiducia sufficiente in me stessa, e poi mi sono imposta di entrare dalla porta di servizio. Non ho nemmeno frequentato una scuola di cinema: ho iniziato facendo piccoli film e imparando il montaggio». È stata dieci anni a NewYork, e quando è rientrata a Seattle (oggi è sposata con un figlio di dieci anni) ha trovato i soldi per fare il primo lungometraggio, We go Way Back, storia di un’attrice piena di aspirazioni e ambizione, un po’alla deriva, che si confronta con se stessa a tredici anni. Shelton identifica nell’adolescenza l’età in cui ha perso la fiducia nelle proprie capacità creative, espresse liberamente durante l’infanzia. Dopo l’esperienza tradizionale con troupe e macchinari ingombranti, ha incontrato Joe Swanberg, uno dei fondatori del movimento mumblecore, e si è innamorata della leggerezza del metodo: produzione minimalista e rapida e dialoghi improvvisati. È con questo sistema che ha girato My Effortless Brillance, e ha trovato la sua voce come autore. Quando ha proposto Humpday a Mark Duplass, attore e cineasta come lei, lui ha capito che la scommessa era enorme e che avrebbe potuto fallire miseramente. Si è però fidato della regista, apprezzando il suo entusiasmo per un’attiva collaborazione e collegialità artistica, cogliendo la sua affinità per i maschi. La Shelton è una femminista non ideologica attratta dal mondo maschile, e solo un’artista senza agenda occulta poteva mettere due attori sufficientemente a loro agio per trattare un tema scabroso, che poteva andare a finire in vacca. Shelton è affascinata dalla psiche maschile ma sa ritrarre con impressionante delicatezza e profondità quella femminile. La scelta dell’attrice Alycia Delmore (Anna) e il modo in cui l’ha aiutata a creare una moglie seducente, asciutta e piena di sfumature credibili (specie quando viene a sapere del «progetto») rivelano la sua grazia interiore e una femminilità forte, sicura, articolata e dolce. Buona conoscitrice di se stessa e del suo sesso, Shelton ama carpire i segreti degli uomini. Non ha secondi fini, né qualcosa da dimostrare, solo un’infinita curiosità e affetto per il genere maschile. Da vedere.


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parola chiave

n primo legittimo interrogativo credo che emerga del tutto spontaneamente: si può fare storia e narrazione di un grido considerando il grido alla stregua di una parola-chiave del nostro lessico? Non è una forzatura o una superflua manifestazione d’eccentricità? Penso di no: è possibile fare storia e narrazione di un grido, ma a patto di accettare una certa frammentarietà accumulando elementi che non sempre potranno risultare omogenei. Voglio dire di più: si può fare storia e narrazione di un grido solo se si è disposti a esporci al disordine del mondo, solo se portiamo lì, nel ritmo dei suoi battiti sregolati, il movimento della nostra intelligenza. Le ragioni sono ovvie: non abbiamo di fronte una parola organizzata, ma un’irruzione istantanea, talvolta lacerante. Che cosa si può dire di quella fulminea onda sonora apparentemente imprendibile? Poco, ma quel poco, quel «quasi nulla», come direbbe un filosofo dall’acume sottilissimo come Vladimir Jankélévitch, ha un peso assai rilevante o addirittura decisivo. La sequenza istantanea del grido, il suo apice sonoro, ci immette nelle correnti della vita, nel suo tumulto, che non sempre ha una sua ragionevole misura e dunque neppure una discorsività compiuta. Aggiungo poi che se si vuole dare risalto alla parola che sto prendendo in esame, non possiamo dimenticare che molte delle parole del secolo passato, ma anche quelle di questo secolo, spesso risuonano come grida.

U

Allora qualcosa non solo si può dire ma dobbiamo dire, o azzardare, a cominciare dal fatto che l’uomo nasce al mondo con un grido. Non un sorriso di gradimento, ma un grido. Difficile dire che cosa esso sia, se l’irrinunciabile espressione di un disagio o una perentoria constatazione d’esserci. Comunque il salto nell’umano è dichiarato da un grido. Il tunnel che ci conduce nel mondo è attraversato da un suono scomposto, quasi uno spasmo, una contrazione, un sussulto, di cui, è bene ricordarlo, nessuno ha memoria. Ce lo raccontano gli altri - i testimoni - come l’inizio di un’epica domestica di cui tutti siamo protagonisti. Oppure lo ritroviamo nella congerie di documenti visivi - filmati, fotografie - che ritraggono l’esordio nella vita affollando il nostro immaginario e forse confondendolo, perché quanto più quel primo momento è braccato tanto più slitta nel mistero o nell’ineffabile, e quanto più è rappresentato tanto più sfugge. Voglio dire che quel suono, un’eco dell’esistenza che appartiene a tutti, si colloca ai margini di ciò che ha senso, si accovaccia nel cono di un’ombra. La nascita è dunque delimitata, o contenuta, da un grido. E qualche volta anche la morte. Per il tramite di un grido si entra nell’umano e se ne esce. Con un grido si attraversano i passaggi fondamentali, i varchi decisivi, della vita. È troppo poco per concludere che il grido è l’umano? Probabilmente è troppo poco. Occorre mettersi all’ascolto di altre grida, e non solo raccogliere, ma accudire quelle sonorità precarie, fuggevoli

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GRIDO Dal limite del vivente

cante è l’invocazione), il grido con cui ognuno di noi è venuto al mondo. Può essere l’enunciazione di un’invocazione, una desolata invocazione, o un’estrema domanda che viene dal dolore e dal dubbio. Come altrimenti risuona il grido di Gesù sulla Croce, nel racconto evangelico della Passione? «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Un grido terribile, perché rappresenta uno squarcio nel divino. Dio si separa da sé, ha detto un grande teologo protestante, Moltmann, che molto ha riflettuto sul «Dio crocifisso». E un altro pensatore, un filosofo italiano, Massimo Cacciari, ha osservato che la teologia nasce da quel grido, con quel grido deve continuare a misurarsi, non può eluderlo, non può scansarlo. Quel suono lacerante è il suo fondamento. Lì occorre tornare, sul luogo chiamato Cranio, il Golgota, un piccolo monte grande come il mondo, dove si prova la divinità e l’umanità di Gesù.

di Maurizio Ciampa

Pieter Brueghel, nella Salita al Cal-

Un’irruzione istantanea, talvolta lacerante. Un’onda imprendibile, il suono scomposto che ci immette nel tumulto dell’umano e che spesso ci accompagna quando ne usciamo...

Può essere una desolata invocazione o una domanda che viene dal dolore e dal dubbio. Da Giobbe al Golgota, è il fondamento della teologia che non si può eludere. Le voci dolenti di tutti gli oppressi sono il nastro sonoro che attraversa la storia sovrastato dai rumori del mondo che vengono dal «limite del vivente». Guardiamo ai mendicanti di Marrakech, ai loro «arabeschi acustici», raccontati da Elias Canetti in uno straordinario libro di viaggio (Le voci di Marrakech). La cadenza acustica del mendicante, monotona, insistente, misteriosa, attraversa e avvolge il grande slargo della piazza di Marrakesch per ore e ore, «fino a quando - dice Canetti - non restava quest’unico suono, il suono che sopravviveva a tutti gli altri suoni». Il mendicante è il suo grido: «Colui che grida è definito dal suono, conti-

nuamente ripetuto. Ce lo imprimiamo nella mente, lo conosciamo, ora egli è qui per sempre, è lui nella sua caratteristica nettamente circoscritta: il suo grido. Non verremo a sapere niente altro di lui, egli si protegge, il grido è anche il suo confine. In questo luogo preciso egli è ciò che grida, esattamente questo, niente di più, niente di meno, un mendicante, cieco». La voce ostinata, irriducibile, del mendicante, ma anche quella di ogni uomo, il suo grido, raccoglie l’energia necessaria a stare nella vita, ripetendo forse, con modulazioni diverse (per il mendi-

vario, l’ha immaginata come una scena affollata e rumorosa, quasi una festa popolare o una fiera di paese, dove la Passione è ridotta a un reperto teatrale il cui significato originario è ormai lontano e irrecuperabile. Per Mathis Grünewald, nella Pala di Isenheim conservata nel museo di Colmar (un particolare nella foto), nella Passione affiora piuttosto la lotta che ha attraversato il corpo del Cristo. Lotta con la morte: il Dio crocefisso non voleva morire e la tensione muscolare che l’ha scosso ne ha quasi deformato il corpo. Quel Cristo non ha gridato soltanto l’abbandono, ha detto con tremenda forza il suo rifiuto della morte nella quale ora è sprofondato. Dopo il grido, la pace che ne segue, spaventa, disorienta, smarrisce. Dopo il grido, l’incertezza dell’attesa, le speranze sospese sull’abisso del Sabato. Dopo il Sabato… solo chi crede può arrivare fin lì. Per tutti gli altri ci sono le infinite risonanze e variazioni di quel grido che si confonde con la voce disfatta, mortificata di tutte le vittime, «le voci dolenti di tutti gli oppressi» diceva Leon Bloy, un nastro sonoro che attraversa la Storia sovrastato, soffocato dai rumori del mondo. Infinita è la processione d’immagini, di parole, di pensieri che si è mossa dalla scena del grido, infiniti i commenti, gli interrogativi, le questioni che da quel punto hanno attraversato l’Occidente. Ma non necessariamente il grido è l’incubo raffigurato da Edvard Munch alla fine dell’Ottocento, la rivelazione angosciosa che scuote non solo l’uomo, ma anche la natura accedendola di tonalità cromatiche dense e cupe. Penso al grido che fa traballare gli idoli di cui siamo prigionieri. Penso al grido che si alza insieme alle domande di Giobbe. «Io ho bisogno di te», diceva Kierkegaard nella Ripresa, «ho bisogno di un uomo che sappia lamentarsi a voce alta, che faccia ripercuotere gli echi del cielo dove Dio ordisce insieme a Satana i piani contro un uomo». Abbiamo bisogno di voci alte. Abbiamo bisogno di grida. Non solo come Giobbe. Ma come il bambino che nasce al mondo, e, nel grido, dice la somma delle sue necessità. E dice anche che appartenere all’umano è gridare.


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Pop

musica

L’evasione (dal carcere) A TEMPO DI ROCK di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi osa resterà degli anni Ottanta? Un bel revival di glorie bolse e avvizzite che ci sta ronzando attorno. Sadicamente il pensiero corre a Duran Duran e Spandau Ballet, pingui protagonisti di never ending tour alla ricerca dell’adrenalina perduta. Ma gioiosamente (per fortuna) il pensiero rincorre le donne: dopo Sade, rientrata alla grande con la soffice sensualità di Soldier Of Love, è il turno di Tracey Thorn: faccia «picassiana», ugola paradisiaca e un disco, Love And Its Opposite, che la rilancia in grande stile. Entrambe, guarda caso, diedero lustro a quel New Cool che più o meno trent’anni fa si mise a shakerare pop, jazz e soul intellettualizzando la New Wave britannica. Tracey, che a settembre compirà quarantott’anni e ha avuto il pregio di collaborare con Style Working Council, Week, Lloyd Cole and the Commotions e Massive Attack, dal 1982 al 2002 è stata la dolce metà degli Everything But The Girl. L’altra metà, il tastierista Ben Watt, l’ha finalmente sposata l’anno scorso e ora si diverte a fare soprattutto il disc jockey. Insieme, mentre gli anni Ottanta snocciolavano perlopiù suoni stupidi, hanno inciso Eden (che a riascoltarlo è ancora una delizia) e fatto l’occhiolino a George Gershwin e a Cole Porter con Baby, The Stars Shine Bright. Poi si sono tuffati con successo nei Novanta, armati di trip-hop e drum’n’bass. Love And Its Opposite, che per la cantautrice è il terzo lavoro solista dopo A Distant Shore (’82) e Out Of The Woods (2007), è un al-

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i dev’essere un legame sotterraneo tra rock e galera, un qualcosa che le flebili sinapsi di chi scrive non riescono a decifrare bene, ma un tema, un filone, una traccia rockarceraria c’è, è sicura. Rock è evasione appunto, e poi rock è liberazione. I meglio blues sono quelli antichi dei carcerati, come Rosie, raccolta da Alan Lomax negli anni Trenta. E siccome siamo meridionali e «abbiamo stati tutti quanti/educati male» ci mettiamo anche le canzoni di carcere registrate in Sicilia negli anni Cinquanta da Paolo Uccello, e l’amaro blues calabro di Peppe Musolino, il racconto dell’arresto durante il quale i suoi occhi piansero «come due viti» e della fuga «con maniere d’arte». Una versione decente del quale è stata proposta (strano ma vero) da Otello Profazio. Ma per venire dal mito alla storia c’è Jailhouse Rock di Elvis, anche nella magnifica versione nel finale di The Blues Brothers. E finalmente perveniamo all’attualità con i Presi per caso. Il gruppo composto da ex detenuti, guidato dal genio blues-cabarettistico di Salvatore Ferraro, che ha realizzato dischi e spettacoli teatrali, in questi mesi sarà in tournée in tutt’Europa. I classici del gruppo sono spaccati umoristici di vita tra quattro mura e sole a strisce, come Pippo (Walt Disney, non c’entra, è un verbo), lo spiritual Cristo, e l’amaro-esistenziale S’io fossi n’guirty. Ciò che fa del tour dei Presi per Caso un evento è che si tratta di concerti dentro le mura dei carceri di tutt’Europa, dalla Gorgona a Londra. E per pervenire dal presente al futuro, dall’attualità all’anticipazione, c’è anche un disco di Phil Spector in arrivo. Spector, condannato nel 2009 per l’omicidio della modella Lana Clarkson (continua a proclamarsi innocente), potrà chiedere la scarcerazione raggiunti gli 83 anni. Intanto esce un suo disco intitolato Out of my chelle. Evasione. Liberazione. Appunto.

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La vita dopo i quaranta cantata da Tracey Thorn

Jazz

zapping

bum realizzato per hobby: nessun concerto per promuoverlo, s’è tolta lo sfizio e nulla più. Meglio, d’ora in avanti, «pensare al resto della mia esistenza»: ovvero all’amato Ben e ai loro tre figli. «Comunque», tiene a precisare, «questo disco mi ha dato l’opportunità di raccontare la vita dopo i quarant’anni. La mia realtà di donna e quella delle persone che mi circondano». Punti di vista della mezza età. Che intrecciano storie d’amore, divorzi, scaramucce da locali per single, gioie, delusioni. Ogni canzone, che vede impegnati Al Doyle (tastierista degli Hot Chip), Leo Taylor (batterista degli Invisible), Jono Ma (chitarrista dei Los Valentinos), la cantautrice nashvilliana Cortney Tidwell e il cantautore svedese Jens Lekman, equivale per Tracey Thorn a un message in a bottle: come l’introspettiva, malinconica Kentish Town che recita «un secondo oppure un anno, una volta che è trascorso è trascorso», delineando le atmosfere di tutto l’al-

bum. Se la dance che Tracey aveva abbozzato in Out Of The Woods viene sostituita dal technopop di Hormones, il resto svela un’impeccabile, arguta leggerezza: dal valzer tutto arpeggi e carezze pianistiche di Oh, The Divorces!, al pudore country e alle intromissioni soul di Long White Dress, passando per le pennellate rhythm & blues di Why Does The Wind?, il soul e il folk di Singles Bar e la melodia acustico/elettronica che sottolinea Late In The Afternoon e la conclusiva Swimming. Anche le due cover, per la sensibilità con cui vengono rielaborate, sono acquerelli sentimentali: Come On Home To Me di Lee Hazlewood, dalle scansioni morriconiane, vede la Thorn duettare con Jens Lekman; You Are A Lover degli ungheresi Unbending Trees (scoperti da Ben Watt via MySpace) svela un timbro vocale cristallino che ben si addice al pizzicato d’una chitarra acustica. Intanto, fra l’amore e il suo opposto, c’è un sacco di vita che scorre. Narrata da Tracey con grande sincerità. Tracey Thorn, Love And Its Opposite, Strange Feeling Records/Spin-Go!, 16,50 euro

L’uomo che raccontò lo swing ai tempi del nazismo passata sotto silenzio la scomparsa a Parigi il 2 aprile scorso di Mike Zwerin, musicista, giornalista di International Herald Tribune e di Village Voice e scrittore il cui stile possedeva quelle caratteristiche che sarebbero state apprezzate da Jack Kerouac: umorismo che disarma, linguaggio adattato allo stile di vita dei personaggi utilizzando spesso il loro gergo. Ma Zwerin si rivelò anche storico di notevole importanza con il volume La Tristesse de Saint Louis: Jazz Under the Nazis, edito nel 1987 da William Morrow & Co. Come Gunther Schuller, i suoi inizi nel jazz furono quelli di musicista: trombone e tromba bassa. Fu uno dei rari a utilizzare questo strumento, con Cy Touff. Lo troviamo diciottenne nel 1948 - era nato a New York il 18 maggio 1930 - nel complesso che Miles Davis aveva formato per una scrittura

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di Adriano Mazzoletti al «Royal Roost» di New York assieme the Cool. Ma Zwerin, dopo l’ingaggio a un pugno di stelle del jazz, Gerry al «Roost» tornò in Florida per proseMulligan, Lee Konitz, John Lewis, Al guire gli studi e Davis lo sostituì prima McKibbon, Max Roach impegnati a con Kai Winding e successivamente eseguire arrangiamenti innovativi e con Jay Jay Johnson, due fra i più splendidi di Gil Evans oltre che di grandi solisti di trombone dell’epoca, a dimostrazione delMulligan e John l’alta considerazione Lewis. Il Miles Davis in cui era tenuto quel Nonet suonò al giovane musicista fi«Roost» per circa glio di industriali, quindici giorni e il 4 con la grande passiosettembre venne reane per il jazz e la letlizzata una trasmisteratura. Come molti sione radiofonica che artisti suoi contemvenne in seguito pubporanei venne attratblicata su disco. Sei to da Parigi. La capibrani che precedettetale francese negli ro di quattro mesi le anni Cinquanta era sedute di incisione in Europa il centro pubblicate in seguito Mike Zwerin del jazz. Bud Powell, con il titolo Birth of

Lester Young, Kenny Clarke vi suonarono e vi soggiornarono a lungo e Mike Zwerin iniziò a collaborare con musicisti europei, anche attratto dalla ricerca storica legata al jazz del Vecchio Continente, soprattutto di quel periodo, all’epoca ancora così poco esplorato, come quello che veniva eseguito nella Germania nazista. Riuscì a rintracciare molti testimoni, musicisti e appassionati nonché altri sopravissuti ai campi di sterminio. Fu Zwerin il primo a svelare l’esistenza dei Ghetto Swingers, un complesso formato da musicisti ebrei internati obbligati a esibirsi durante le periodiche visite della Croce Rossa internazionale. Quei musicisti non tornarono mai più da quei campi e la loro storia e molte altre Zwerin le ha raccolte nel suo La Tristesse de Saint Louis: Jazz Under the Nazis, primo lavoro dedicato al jazz di quel terribile periodo.


arti Mostre

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di Marco Vallora

iccolo retroscena, o confessione, scostando la raffinata cortina dei fiori, miracolo d’ipocrisia sociale (pensiamolo: tutto passa attraverso il linguaggio dei fiori...) aprendo un buchetto nella decorativa superficie fiorita, e illuminando le ombre del retroscena. Perché non ammettere, che anche le scelte della critica son dovute talvolta a pregiudizi insondabili o imperscrutabili idiosincrasie? (Longhi insegna. Ma anche Baudelaire, il Baudelaire dei «Belgi vi odio» e dei veleni critici schizzinosi, mica scherza! A questo proposito, incocciando, nei benjaminiani Salons parigini, quei pittori d’epoca e di genere botanico, così minuziosi e alla moda, della cosiddetta Scuola di Lione, l’antinaturalistico delibatore dei Paradisi Artificiali arrivava a schernire la programmatica pédantérie insupportable di quei tardi epigoni del dettaglismo petalico fiammingo, deridendo soprattutto la loro monotona tavolozza, giallastra e pisseuse). No, sarei ipocrita se dicessi che concordo con lui e non è perché mi stanno antipatici i fiori, o peggio che mai i fiori dipinti, che non mi sono subito scaraventato a Faenza. Sì, forse una mostra napoletana di pesci e uova e aragoste, che si sgranchiscono ancora le zampe prima del nostro regaluccio dell’acqua bollente, m’avrebbe più immediatamente coinvolto, che non quei bellimbusti fiori impettiti, che Palazzeschi aveva così ben beccato, in una sua lirica satirica. Ma non è questo, devo ammettere invece un peccatuzzo di insofferenza. Dunque: la notizia di questa mostra a

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Quel mazzolin di fiori dal Seicento a Van Gogh venire l’avevo ascoltata dalle parole stesse d’uno dei tre degli ottimi curatori, che sono anche cari amici, Alessandro Morandotti, Davide Benati e nella fattispecie, Fernando Mazzocca, durante un’accesa discussione - per fortuna ci sono ancora, tra gli amici! dovuta al fatto che io sarei troppo solidale con le mostre di Marco Goldin, come noto assai vilipeso e sprezzato dalla casta dei critici nostrani (non gli stranieri). Per il fatto che organizza delle mostremonstre, che hanno un’audience spaventosa e invidiabile (usiamo pure questo gergo televisivo e loro sono pur sempre dei concorrenti) e che va a razzolare puntualmente tra grandi nomi e luccichii impressionisti. Ora, io che le vedo le mostre di Goldin, a differenza dei detrattori, che leggo i saggi degli storici internazionali e serissimi che coinvolge nei suoi cataloghi, sempre scientificamente impeccabili e che verifico de visu quali spesso straordinarie opere riesce a importare da musei di prima qualità, senza nulla avere da dare in cambio, obbiettivamene non posso che dir bene di quelle mostre. Che non demonizzo, soltanto perché trascinano le folle. Sarebbe davvero un vezzo baudleriano troppo snob. Il punto della discussione era questo: di questo passo, si arriva al «Gatto nell’arte». Che mi pare fosse una vecchia idea divertita di Longhi, a partire da Lotto e so che da anni lo scrittore francese D’Ormesson vorrebbe concepire un libro illustrato sul

«cane nell’arte»: ma scusate, che male c’è, se il risultato sarà nutritivo? Certo, quando mi sento dire da Mazzocca che sta preparando una mostra su I Fiori, da Caravaggio a Van Gogh, proprio Van Gogh!, è chiaro che mi scatta la molla del’insofferenza e debbo mordermi il labbro per non dirgli: «ecco che siamo arrivati alla mostra sul gatto». Che cosa hanno di meglio i fiori dei gatti? Questo per dire come siamo stupidi tutti noi e quanto il pregiudizio sia vano (l’amicizia non era venuta mai meno, ma le ombre delle discussioni però restano). Ho visto colpevolmente in ritardo la mostra sui Fiori e ho goduto moltissimo: mi sono riconciliato con un testo originalissimo, a triplice firma degli amici, nel catalogo Silvana, e in più quello d’un altro amico bravissimo, Marco Antonio Bazzocchi, sui rapporti tra letteratura e pittura. Certo, poi uno è anche incontentabile, perché magari del Maestro di Hardtford avrebbe preteso di vedere proprio quella Natura morta che Zeri pubblicò come del giovane Caravaggio. Di Delacroix, quei mazzetti che lui dipingeva nella villa di George Sand (che senso aveva offrirle dei fiori veri, rubati al suo stesso giardino)? Di Gauguin magari un Gauguin più Gauguin e che non sembri un Monticelli (ma interessantissimo). Oppure, diciamolo, quel Van Gogh che viene dal Cairo (nella foto), ma non è che è proprio così magnifico, come si estasia il pubblico davanti. Però che importa: la lezione, autocritica, è questa: c’è sempre da imparare da tutto. E, sempre, giù la spocchia reciproca.

Fiori. Natura e simbolo dal Seicento a Van Gogh, Faenza, Musei di San Domenico, fino al 20 giugno

Architettura

Il segno di Pill’ ’e Mata nel paesaggio della Sardegna Quartucciu, in provincia di Cagliari, in occasione di una campagna di scavi archeologici è stata scoperta una importante necropoli composta da circa 250 sepolture, almeno tante sono quelle fino a oggi rinvenute, risalenti a un esteso periodo storico: dal III secolo a.C. al V secolo d.C.. La scoperta ha portato al ritrovamento di oltre duemila reperti, per la cui conservazione ed esposizione il comune di Quartucciu e la regione Sardegna hanno promosso la costruzione di un museo archeologico da realizzarsi sullo stesso sito dello scavo. Due però sono le richieste delle autorità competenti: primo bisogna costruire un museo destinato a contenere i reperti archeologici e secondo bisogna prevedere anche una copertura di protezione del sito delle necropoli. Seppur questi spazi destinati alle sepolture non hanno una particolare valenza architettonica, ma si presentano come crateri profondi scavati nel terreno, sono stati considerati parte integrante del sito

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di Marzia Marandola archeologico e quindi anch’essi da preservare da ogni forma di degrado. L’area in questione però da Piano Regolatore Generale è destinata ad attività produttive, e l’avvio del progetto ha richiesto quindi un preliminare cambio di destinazione d’uso di un piccolo lotto che per utilità culturale è stato sottratto al settore manifatturiero. Il progetto di protezione e musealizzazione della necropoli di Pill’ ’e Mata, completato nel 2009, è stato affidato allo studio dell’architetto David Palterer, israeliano di nascita ma fiorentino di adozione, con la collaborazione di Roberto Medardi. Palterer propone un progetto semplice quanto accurato, composto essenzialmente da due blocchi: un volume maggiore parallelepipedo, orientato parallelamente al fronte stradale e rivestito in pietra bianca su un basamento cementizio, protegge l’area dello scavo archeologico mentre un piccolo volume rosso acceso, a esso incu-

neato e leggermente ruotato, contiene i servizi e gli uffici del museo. Sul prezioso rivestimento in bianchi masselli di pietra Lessinia del volume principale, nel fronte verso la strada, sono scolpiti i caratteri che compongono il toponimo Pill’ e’ Mata, che al pari di un’epigrafe antica segnala la presenza di un luogo monumentale. All’interno una copertura in lamiera grecata su travi rettilinee di legno lamellare a vista sovrasta i crateri dello scavo archeologico, accessibile ai visitatori attraverso una serie di passerelle e camminamenti aerei. Dal blocco principale si accede a quello minore, un piccolo volume elementare, una «casetta» con tetto a doppia falda asimmetrica, detta «la casa degli spiriti», interamente realizzata in struttura cementizia, che spicca per il colore rosso sgargiante, all’esterno acceso ancor più dall’accostamento al verde cespuglio di fichi d’india che lo circonda. Il progetto, che risponde perfettamente alle due richieste della committenza - museo e copertura dello scavo - è completato da uno spazio di parcheggio raggiungibile attraverso piccole rampe e camminamenti esterni, dove pavimenti in castagno e ringhiere metalliche rifiniscono la struttura portante in cemento a vista. Il complesso archeologico, che rielabora e ricompone le volumetrie dei vicini capannoni industriali, diventa uno straordinario landmark nel paesaggio anonimo e aspro di Quartucciu.


MobyDICK

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il paginone

L’avventura umana e spirituale di John Henry Newman, una delle figure più importanti del cattolicesimo contemporaneo, raccontata in un libro da don Roderick Strange. Un’opera di alta divulgazione sul grande teologo che, sacerdote della Chiesa d’Inghilterra entrato poi nella Chiesa di Pietro, salirà agli onori degli altari il 19 settembre prossimo di Marco Respinti

Q

uella di John Henry Newman (1801-1890) è stata una delle avventure umane e spirituali più appassionanti di tutto l’Ottocento, e il libro John Henry Newman. Una biografia spirituale (trad. it., Lindau, Torino 2010), di don Roderick Strange, rettore del Pontificio Collegio Beda a Roma e grande esperto dell’argomento, la radiografa bene. Il che ci fa pure dimenticare per un attimo, ma solo per un attimo, le notorie tendenze progressiste dell’autore e il suo disaccordo con la Santa Sede su materie delicatissime e importanti quali il sacerdozio (celibato e dintorni compresi) e l’omosessualità. Il volume di Strange offre infatti l’occasione per rivivere i percorsi, rievocare i fatti salienti, apprezzare i vertici di Newman. Sì, perché parlare di Newman significa parlare di una delle menti filosofiche più raffinate dell’evo moderno, di uno dei talenti teologici più accorti dell’«epoca delle rivoluzioni» (come spesso le storie della Chiesa definiscono la lunga e impegnativa stagione culturale in cui la vicenda terrena di Newman si trovò inserita) e di una delle penne più felici che il mondo anglofono abbia mai conosciuto.

Decisamente, Newman ha precorso non tanto i tempi (come troppo spesso si dice con frase fatta e sin troppo

ne Papa Benedetto XVI), deve molto alla corretta impostazione di alcune questioni centrali operata dal grande Newman. Strange le passa in rassegna tutte e di tutte offre narrazioni piane e affascinanti, così da riuscire a coinvolgere sia lo specialista sia il lettore non esperto della materia. Così facendo lo studioso inglese rende un gran servizio di alta divulgazione a una delle figure più importanti del cattolicesimo contemporaneo in pendenza dell’evento più solenne che a un uomo possa capitare e che bene ne suggellerà il cammino intero: dichia-

Si convinse che il “vero anglicanesimo è il cattolicesimo” ma non smise mai di gettare ponti verso i cristiani separati, avendo sempre a cuore una visione non clericale a buon mercato) ma certamente molte delle sensibilità che attraversano il mondo contemporaneo. Se definirlo antesignano del Concilio Ecumenico Vaticano II significa in realtà ben poco (e lo scrivo in piena coscienza anche per parare un giro mentale certamente non sconosciuto a don Strange), certamente si può affermare invece che il Vaticano II autentico (non il suo stravolgimento a opera di forze soi-disant «metaconciliari» che, sovente interne alla Chiesa stessa, si sono inesorabilmente votate alla dissoil Concilio luzione), insomma dell’«ermeneutica della continuità» (come ha avuto occasione di dire beanno III - numero 22 - pagina VIII

rato «venerabile» da Papa Giovanni Paolo II il 22 gennaio 1991, Newman verrà infatti esaltato alla gloria degli altari il 19 settembre prossimo da Papa Benedetto XVI.

Rampollo di una famiglia anglicana, John Henry studiò a Oxford e divenne sacerdote della Chiesa d’Inghilterra nel 1824. Fu la prima tappa di un viaggio importantissimo. L’adesione a quella fede cristiana ricevuta dalla famiglia si trasformò infatti lentamente in una convinzione intima, assunta in prima persona, e su ciò pesarono una serie di avvenimenti decisivi. Newman, cioè, era il contrario di una mente intellet-

Il santo del tuale arida e distaccata, e tutto il suo ragionare, finissimo, è sempre stato strettamente ancorato alla realtà delle cose. Furono i fatti, cioè, e non le teorie a farlo transitare dal «cristianesimo sociologico» alla fede autenticamente vissuta; fatti decisivi, come lo scontro con il razionalismo diffuso anche nei seminari e nella scuole di teologia, e pure fatti profondamente dolorosi, come per esempio la morte della sorella minore, Mary, nel 1828, ma anche fatti pericolosi, come quanto egli si trovò, a causa di una grave malattia, a un passo dalla morte.

Per questo la teologia newmaniana è sempre stata assai carnale anche nelle sublimità maggiori, sempre concreta anche nei ragionamenti più elevati. Ben distante da molti

teologi contemporanei, e forse anche da molti che, sbagliando, si richiamano al suo nome, Newman ha infatti sempre avuto chiara l’idea che la teologia non è affatto una «seconda natura» o addirittura un’alternativa alla fede, ma solo il suo aprirsi con chiarezza a quell’intelligenza dell’uomo che, dono dell’Onnipotente, è lo strumento principe della somiglianza fra l’uomo e Dio. Quindi un mezzo per l’assenso della fede, anzi per la comprensione stessa di quella grammatica del linguaggio orante di cui si sostanzia il rapporto fra umanità e divinità, il quale dopo la Rivelazione, cardine del cristianesimo, diviene contemplazione.

La teologia, dunque, è il modo attraverso il quale la mente umana fatta a somiglianza di


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ra, Newman arrivò insomma a quel punto nodale che gli chiedeva o di lasciar perdere una sfida non umanamente vincibile, oppure di arrendersi per concludere finalmente che l’«anglicanesimo più vero» (cioè più corretto teologicamente, più adeguato storicamente, insomma più «divino» e più tradizionale e più conservatore nella misura in cui l’alternativo progressismo dottrinale ne costituisce solo il palese sfascio) è il cattolicesimo.

rivelato, dunque a combattere le apparentemente impari battaglie contro i deragliamenti latitudinaristi e più che altro svilenti dell’anglicanesimo. Nacque così, negli anni 1820, quel cosiddetto Movimento di Oxford che vide Newman e alcuni altri campioni del conservatorismo filologico-teologico più limpido sferrare una attacco decisivo alla cultura della decadenza. La battaglia del Movimento di Oxford, infatti, nacque certamente con l’intento di preservare la purezza del messaggio cristiano dentro la Chiesa anglicana, ma di fatto si spinse assai oltre sin dall’inizio. La volontà degli «oxfordiani», infatti, di riarticolare con precisione il linguaggio filosofico a supporto della fede entro strumenti logici non panlogisti né razionalisti, il loro insistere sulla necessità di una corretta impostazione epistemologica alla base di qualsiasi confronto dialettico e il ricupero di categorie speculative chiare e distinte, persino tradizionali, dopo la stagione

Quando Newman si arrese definitivamente era il 9 ottobre 1845, di fronte a sé aveva il volto santo del padre passionista dell’Argentario, Domenico Bàrberi, noto come beato Domenico della Madre di Dio (1792-1849), il quale, avendo consacrato l’esistenza alla conversione degli anglicani, lo accolse fra i seguaci di Pietro. Nel 1847 Newman venne ordinato sacerdote a Roma e poi, lasciata Oxford per Birmingham, fondò, innamorato qual era di san Filippo Neri (1515-1595), la Congregazione dell’Oratorio in Inghilterra. Fu creato cardinale, lasciò opere d’importanza capitale, studiò approfonditamente la necessaria riforma delle università mirando a creare quel vir bonus dicendi peritus sempre prodromico al buon cristiano, spiegò magistralmente che la verità rivelata

Concreto anche nei ragionamenti più elevati, sosteneva che la teologia è il modo attraverso il quale la mente umana, fatta a somiglianza di Dio, con Dio parla

l passaggio Dio con Dio parla, anzitutto domandando a Dio in persona di comprendere sempre più Dio stesso con l’intelligenza, il cuore e la volontà. Vive allora, la teologia, nella storia e nella storia essa si svolge, avanza e progredisce, semmai pure muta e si aggiusta, ma il magistero, ovvero la trasmissione continua della fede rivelata da parte dell’autorità, è il suo alveo più che il suo limite. Assurdo, insomma, pensare di giocare teologi contro pontefici, teologia contro dogmatica, e così via, come proprio il cristianesimo più progressista ha malevolmente fatto. Assurdo e lontano le mille miglia dalla sensibilità di Newman, tant’è che, appunto, Newman è così figlio della Chiesa cattolica e non del «dissenso teologico» da finire santo…

Il guadagno di una fede autentica, del resto, lo spinse, dentro l’anglicanesimo, a divenire l’alfiere di una sempre maggiore adesione sincera dell’insegnamento teologico al dato

visione non clericale della Chiesa. Da lui del resto promana una sontuosa filiera di grandi convertiti anglofoni, a cui egli aprì nobilmente la strada. E chi non lo ha seguito nel passo decisivo verso Roma si è autonominato «anglo-cattolico», come a dire «cattolico dentro la storia anglicana», in tutto e per tutto simile ai vecchi «oxfordiani» e alle loro sacrosante battaglie teologico-culturali fino però alla soglia invalicabile della conversione.

dei soggettivismi culturali di cui essi si resero protagonisti operò infatti una grande ripresa di coscienza dei canoni fondamentali della cultura occidentale, la quale, anche se forse non immediatamente percepita come tale, svolse di fatto una grande funzione «controrivoluzionaria» i cui esiti dovevano spingersi ben in là.

Del resto, l’elaborazione di quel concetto di via media (alla latina) con cui tipicamente Newman descriveva l’anglicanesimo come né cattolico né calvinista, nella misura in cui egli mirava precipuamente a depurare tale fede da ogni incrostrazione di carattere ideologico, portò alla fine Newman a un dilemma insuperabile: o l’anglicanesimo come cristianesimo puro e autentico non esiste affatto o esso, finalmente liberato da ogni scoria posticcia, è niente altro che il cattolicesimo. Scavando alla ricerca dell’anglicanesimo più autentico, che nel suo linguaggio significava risalire alla fede cristiana più ve-

non muta affatto nel corso della storia ma che gli uomini comprendono sempre meglio il contenuto divino della Rivelazione dentro quella storia che è l’orizzonte che, da questa parte del Cielo, li definisce senza possibilità di scampo e tornò con decisione a dialogare con gli anglicani non smettendo mai di ripetere loro che il «vero anglicane5simo» è il cattolicesimo. Newman è diventato santo anche sbagliando, come tutti i santi del resto. Si schierò contro la dichiarazione dell’infallibilità papale perché lo riteneva politicamente un punto difficilissimo da fare digerire ai cristiani separati verso i quali non smise mai di gettare ponti, ma non dubitò mai della verità teologica di quel dogma ed ebbe sempre a cuore una

Un’immagine e due ritratti di John Henry Newman. Qui sopra, San Filippo Neri, sua figura di riferimento. A destra, la Teologia secondo Raffaello. A sinistra, lo stemma cardinalizio di Newman

Be’, c’è da ricordare che «anglo-cattolico» lo fu pure Newman, il quale spergiurava che mai si sarebbe convertito… Molti degli «anglo-cattolici» oggi nutrono solo dissensi «giuridici» verso il cattolicesimo papalino romano. Per questo la Santa Sede non ha mai smesso di parlare con loro, anzi con la Comunione anglicana intera. A settembre Pietro regalerà al mondo il «santo del passaggio». Un posto sulla barca per chi osserva dalle bianche scogliere di Dover c’è. La rotta? L’ha tracciata John Henry Newman. www.marcorespinti.org


Narrativa

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i ha l’impressione, leggendo le prime pagine del nuovo e intenso romanzo di José Saramago (Premio Nobel nel ‘98), che la storia di Adamo ed Eva inizi e proceda secondo un ritmo farsesco. Lo scrittore portoghese afferra per la seconda volta la vicenda biblica e la trasforma in occasione per parlare dell’uomo, del suo smarrimento, della sua solitudine interiore, degli affanni terrestri e della lontananza dal Signore, che pure c’è ed è Lui l’imperscrutabile malgrado Egli neghi e attribuisca questa «favola» all’umanità che ha creato. L’autore si concentra poco dopo sulla figura di Caino e lo rende simbolo dell’uomo che rivendica una libertà pur sapendo di non possederla. Dell’uomo che non comprende il mistero del destino e come questo si debba o si possa coniugare con il libero arbitrio. Caino è sbeffeggiato dal fratello Abele, il cui fumo d’arrosto sale dritto verso il cielo e nella differenza tra i due sacrifici in onore del Creatore nasce il dramma tra due esseri diversi. Ma diversi perché? L’enigma attraversa l’intero romanzo. In ogni caso Caino ha il marchio in fronte per aver commesso la più terribile delle azioni: il fratricidio. Il castigo è quello di allontanarsi da casa ed errare in terre arse e brulle, ostili a tutti. Malgrado l’arrogante sfida lanciata a Dio sotto forma di quesito e di condanna, malgrado si ritenga solo un sicario agli ordini di un disegno crudele, o di un «esperimento» (lo stesso che è stato causa della nascita di Adamo ed Eva), Caino vaga nel mondo cominciando a convivere e a tormentarsi con il senso della colpa. Saramago si concede, ammettendole tutte, eccezionali libertà narrative. Per esempio descrivendo unaTerra già popolata. Qualcuno potrebbe scandalizzarsi per la blasfemia, come del resto accadde nel 1991 quando comparve il primo romanzo «religioso» di Saramago, Il Vangelo secondo Gesù Cristo nel quale il nazzareno soffre per l’abbandono del Padre. Ma il narratore non dileggia la storia biblica, anzi dice espressamente che «è vera». Scrive che Caino non è un fantasma letterario. È un uomo che teme d’essere burattino del Signore, col quale tuttavia cerca di mantenere un contatto, ben sapendo che è con Lui che si deve confrontare, non importa se per secoli o per millenni. Caino arriva in una città senza nome, genericamente collocata nella «terra di Nod», ossia terra della fuga o degli erranti. Qui si guadagna il pane facendo il pigiatore di argilla. Lo avvertono: il pericolo non è la fatica smisurata, semmai la brama che la signora del borgo, la bellissima e insaziabile Lilith, potrebbe riversare su di te, rendendoti schiavo della sua lussuria. E così avviene. Lilith, moglie dello sterile e pavido Noah, lo chiama a corte e lo trasforma in «toro da monta». Nella camera da letto della so-

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Il corpo a corpo di Caino con Dio

Nel nuovo romanzo di Saramago il fratricida biblico diventa simbolo dell’uomo che rivendica una libertà sapendo di non possederla di Pier Mario Fasanotti

Autostorie

libri

José Saramago CAINO Feltrinelli, 142 pagine, 15,00 euro

vrana il piacere smodato renderà Caino «un’ombra» di se stesso. Lilith avrà non tanto compassione ma cinismo verso il suo strumento erotico permettendogli di uscire alla luce del sole e riprendere così le forze. Evitato l’agguato ordito dal gelosissimo e vigliacco Noah, Caino, che s’è fatto sempre chiamare Abele (identificazione con la sua vittima: un misto di colpa ed espiazione), rivela il suo nome vero e racconta come andarono le cose con il fratello. Il rapporto tra i due amanti muta radicalmente. Caino chiede a Lilith se abbia ancora voglia di coricarsi con un assassino. Lilith prova tenerezza, forse amore. Ormai lontana dalla frenesia sessuale, chiederà addirittura di essere uccisa. Per la prima volta una donna dissoluta e sfacciatamente libera come Lilith si abbandona alla volontà di un uomo, pur sollecitandola con piglio autoritario. Ma Caino rifiuta, ha orrore del continuo «divorarsi». Lei rimane incinta proprio quando il rapporto carnale si fa dolcissimo. Caino affronta le peripezie dell’uomo errante, con in fronte un marchio destinato ad allargarsi.Vaga, ma non su territori noti, bensì in quelli scivolosi del tempo, un andare e tornare tra i secoli della storia giudaica. Saramago spinge il protagonista dinanzi a quei fatti che ogni lettore della Bibbia ha quasi orrore di accettare come veri: il sacrificio di Abramo, gli innocenti di Sodoma che bruciano nel fuoco, la devastazione di Gerico, il vitello d’oro e l’ira del Signore.Torna, e torna fortemente, nell’animo dello scrittore portoghese lo smarrimento di fronte a quel che sempre gli sfugge: il perché. Caino e Saramago condividono la cupa tristezza dello stupore. Il fratricida torna dopo dieci anni nella città di Lilith e trova la donna ancora innamorata. Alla madre di suo figlio, Enoch, e solo a lei, spiega d’essere stato «in un altro presente, in altri presenti». Non si può parlare di futuro, dice la donna, ma accetto la verità del tuo viaggio e la tua testimonianza. E sarà proprio Lilith a confondere volontariamente il nome di Caino e di Abele: «Nessuno è una sola persona». Saramago alza un urlo di sdegno che al tempo stesso è domanda. Non si volta dall’altra parte, non si fa agnostico, bensì entra nella storia biblica per cercare di afferrarne il senso. Caino accetterà il destino di girovago. Noi uomini, pare dica l’autore, erriamo nel mondo. Per elemosinare una spiegazione nelle pieghe di ciò che pare sia già stato scritto. Si trova un giorno dinanzi al Signore, le cui frasi non ode bene. È un perpetuo ragionare tra l’uomo e Dio. Scrive Saramago: «Quel che si sa per certo è che siano stati lì a ragionare l’uno contro l’altro una e più volte, e che stanno ancora discutendo».

Le mitiche Citroën “targate” Flaminio Bertoni apita a volte di sentir dire che nel mondo delle quattroruote esistono almeno due distinte categorie: i comuni automobilisti e i citroënnisti. A sottolineare che, pur sulle medesime strade, guidare una Citroën significa prediligere l’originalità delle soluzioni tecniche, se non addirittura accettarne le provocazioni estetiche rispetto alle altre auto. Secondo una filosofia aziendale nata il 4 giugno del 1919, quando André Citroën (1878-1935) decise di convertire la sua azienda parigina di componenti meccanici alla produzione di automobili. Conservando, nell’immagine della nuova marca, il double chevron presente nella dentatura a cuspide dei particolari ingranaggi brevettati da Citroën e apprezzati per la loro resistenza allo sforzo. Dettaglio tecnico mantenuto quale emblema di un costruttore che, dopo i modelli dei primi anni, scelse di puntare su vetture decisamente innovative, pur se contrastate dalla necessità degli ingenti investimenti correlati alla stessa arditezza della loro concezione. Come avvenne, quasi paradossalmente e anche per i critici strascichi del

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di Paolo Malagodi 1929, con la rivoluzionaria Traction Avant del 1934 che portò l’azienda sull’orlo del fallimento. Rimediato dall’intervento del gruppo Michelin e con la continuazione di una gestione che fece proprio della Traction Avant un grande successo commerciale, durato oltre vent’anni e rimasto in produzione sino al luglio 1957, con molte modifiche meccaniche ma fedele alla livrea originaria. Una pietra miliare nella storia dell’azienda transalpina dunque, oltre che nella vicenda umana e professionale dell’italiano Flaminio Bertoni; nato a Masnago nella provincia varesina il 10 gennaio 1903 e morto a Parigi il 7 febbraio 1967, dopo essersi trasferito in Francia all’inizio del 1931 per lavorare come disegnatore all’ufficio tecnico della Citroën e mantenendo, nel contempo, la prediletta attività artistica di scultore. Dote che gli permetterà di plasmare rapidamente, di sabato sera nel proprio atelier domestico, un blocco di plastilina. Poi presentato, il successivo lunedì

L’attività del designer italiano nell’azienda transalpina raccontata dal figlio

mattina, ai vertici aziendali quale proposta di forma per una nuova vettura a trazione anteriore. Il gradimento fu immediato, con l’inizio di un lungo periodo di successo per l’allora trentenne Bertoni che, nell’esporre la sua creazione, non nascose un entusiasmo più da artista che da tecnico nella frase: «Con questa macchina vinceremo tutti i concorsi di bellezza». Come racconta il figlio Leonardo Bertoni, nato da Flaminio e Giovanna Barcella il 25 aprile 1932 a Parigi, in un libro da poco uscito (Bertoni-Citroën, Macchione editore, 192 pagine, 20,00 euro), che sin dalla copertina enuncia i propri contenuti nel sottotitolo: Storia e immagini dell’incontro tra l’arte di Flaminio Bertoni e il progetto industriale della Citroën. Temi chiaramente sviluppati, in un lavoro inoltre ben documentato dalle numerose immagini sia dell’ambiente familiare sia delle realizzazioni di tipo artistico o di carattere automobilistico.Tra cui, dopo quello della Traction, lo straordinario successo dell’utilitaria 2 Cv, progettata e pronta già prima della guerra ma in produzione solo dal luglio 1949. Sino all’avveniristica DS 19 presentata nell’ottobre 1955, che porterà alle stelle la fama di Flaminio Bertoni.


Personaggi Quel maschilista di Pablo Picasso D

MobyDICK

ire che Pablo Picasso sia stato uno sperimentatore è cosa ovvia. Ma è interessante applicare questa definizione alla sua vita amorosa, mai disgiunta dalla vena creativa. Misogino e incantatore, entusiasta e malinconico, charmant e sadico, il pittore di Malaga era insaziabile: non solo con le figure che fissava sulle tele ma anche con le donne. Di tanti amori, tredici sono stati veramente importanti anche perché hanno lasciato una traccia nella sua pittura. Picasso nel ritrarre la compagna di turno usò il colore e il disegno per delineare le trasformazioni emotive del rapporto: quando l’amore e l’eros cominciavano a deteriorarsi, l’immagine pittorica dell’amante si sfigurava fino a racchiudere dolore, e persino ripugnanza. Tutte le sue donne (due mogli comprese) furono in un certo senso sue «schiave», riconoscendogli il diritto della tirannia in quanto genio. Un’equazione suggestiva e romantica improntata al maschilismo, ma soprattutto all’errata convinzione secondo cui la crudeltà e il disprezzo siano ingredienti essenziali dell’impasto geniale di una persona. Come capita a molti (si pensi per esempio a Salvador Dalì), tutto va ricondotto all’infanzia. Pablo crebbe in un mondo femminile. Sua padre José era pittore mediocre, che tuttavia ebbe il merito di insegnare al figlio a tenere in mano matita e pennelli. Nei quadri di Picasso tutti gli uomini portano la barba. Come suo padre. Senza parenti maschi, Pablo volse l’occhio artistico quasi esclusivamente alle donne. Si chiamava Fernande la sua prima compagna parigina. Aveva il volto ovale, coerente con il «periodo blu» del pittore. Sincera fu Fernande nel ricordare poi il suo amore: «Compagna fedele nei giorni di miseria, non seppi esserlo

di Mario Donati nei giorni di prosperità». Ma s’intesero davvero i due? Gertrude Stein diede un implacabile giudizio: lei era capace di parlare solo di profumi, cappelli e pellicce. Ma questo era solo un mezzo ostacolo visto che Pablo, a detta della scrittrice, «eccettuata Dora Maar, non scelse mai una compagna che si trovasse anche solo in prossimità del suo livello mentale». La relazione finì, forse prima nei quadri che nel quotidiano, tanto è vero che Fernande si trasformò nella tela in un «personaggio tellurico», con piedi piatti, collo taurino e dita gonfie come salsicce. Insomma, aveva perso ogni femminilità. Ma chi era Dora Maar cui abbiamo accennato? Era fotografa, poi anche pittrice. Per Picasso incarnò la passione erotica fino al parossismo. S’incontrarono nel luglio 1936, quando iniziò la guerra civile spagnola. Ambedue erano di sinistra. Dora diventerò nei ritratti «la donna che piange». La sua gelosia, intrisa di sospetti nevrotici, fece naufragare la vita amorosa. Dora, ex amante di Geroge Bataille, sulle tele fu trasformata in un corpo pieno di spigoli, simboli d’un carattere instabile e conflittuale. Affascinante, ma ombrosa, entrò in una clinica psichiatrica. La seguì Jacques Lacan, amico nonché medico di Picasso. Rimasta sola, s’aggrappò al misticismo religioso. Con tanto buon senso, Lacan disse che quella svolta la tenne lontana dal suicidio.

pamphlet

Paula Izquierdo, Le amanti di Picasso, Cavallo di ferro, 166 pagine, 16,00 euro

E Arthos punta il cannone epistolare hi si nasconde dietro il nom de plume Giulio Arthos è un mistero alla luce del sole, almeno per quegli amici che negli anni hanno imparato ad apprezzare intemperanze, sbuffi e generosità di un «buon vecchio ribelle» che non s’è mai arreso alle convenzioni, alle idee dominanti e alla fiera di ipocrisie che è cifra della cittadella culturale e politica italiana. Invano all’amico Arthos è il ricordare che tra diserzione e irruzione esiste la via mediana della strategia: se certe cose sente di doverle dire lui le dice e basta e chissà che in fondo non abbia semplicemente ragione. Dice: ma usa lo pseudonimo, come è il caso di queste Lettere non spedite comparse negli scorsi anni sul quotidiano Linea e indirizzate a ministri, direttori di giornali, giornalisti di peso, presentatori televisivi, e insomma uomini e donne di potere. Si, è vero usa uno pseudonimo, che però è un segreto di Pulcinella, e lo usa come una guasconata ulteriore, in un gioco di rimandi che riporta a un pensatore tanto demonizzato - il filosofo Julius Evola - dalla di cui sopra cittadella quanto da Giulio Arthos è ammirato e rispettato. Ecco, le lettere non spedite - tra gli altri

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di Riccardo Paradisi destinatari Gianfranco Fini, Alessandro Cecchi Paone, Furio Colombo, Walter Veltroni, Paolo Mieli - sono stoccate che infilzano pose ridicole, che toccano sussieghi napoleonici, che sfidano conformismi paludati, che bucano palloni gonfiati, che smontano sicumere infondate, che polemizzano nel merito di certi temi, a volte - va detto con la franchezza dell’amicizia - anche in punta di filologia, in un eccesso di puntiglio. Ma nel carteggio di Arthos ci sono anche lettere di elogio per chi ha il coraggio dell’anticonformismo. Due esempi. Nella lettera a Concita De Gregorio - ai tempi del carteggio inviata di Repubblica - e a Curzio Maltese, Arthos ricorda ai due giornalisti cos’hanno scritto il giorno dopo la manifestazione dell’Ulivo il 10 ottobre del 2005. «Sarà fortuna, destino, cristiana provvidenza, daimon o più prosaicamente fattore c… Sta di fatto - scrive Maltese - che a un certo punto spunta il sole. Un bel sole dopo tanta nuvolaglia e proprio quando l’ex presidente della Commissione europea è salito sul palco per pronunciare il suo discorso di cinquanta minuti». Il grandangolo della De

Gregorio è ancora più imbarazzante: «Sul palco ci sono più di cento persone c’è anche la figlia della Melandri che la madre ha allattato al ministero», «un vero e proprio comitato di salute pubblica o liberazione nazionale» chiosa Malaparte e si è visto come è andato a finire quando il comitato va al governo del Paese. Il commento di Arthos è sferzante: «Se foste vissuti durante il deprecato ventennio, esimi colleghi, avreste dato filo da torcere agli innumerevoli poeti di Mussolini». Ma come si diceva c’è anche spazio per i riconoscimenti nelle epistole di Giulio Arthos. Uno in particolare va a Vittorio Strada, slavista, storico, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia. «Caro professor Strada, il suo articolo sull’Avvenire per chiedere di istituire una giornata della memoria per le vittime mondiali del comunismo è valso come un trafiletto: nessuno nell’Italia governata dal centrodestra se n’è accorto». Perché il comunismo sarà morto, ma l’egemonia culturale degli ex comunisti sta benissimo dice Arthos. Come l’eterna ignavia della destra. Giulio Arthos, Lettere non spedite, Tabula fati, 125 pagine, 17,00 euro

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ALTRE LETTURE

FUORI DAI VINCOLI DEL CONFORMISMO SOCIALE ome si può capire un’opera d’arte? Come si può comprendere la sofferenza psichica? Come si può accogliere il mistero del sacro? I discorsi e le logiche di cui disponiamo, orientati a misurare l’efficienza e l’utilità, lasciano tutte queste domande senza risposta. Anzi svuotano di senso queste domande che invece sono piene di senso. L’elogio del discorso inutile di Pietro Barcellona invece (Dedalo edizioni, 55 pagine, 16,00 euro) non persegue l’obiettivo di una soluzione pratica ma cerca, nel farsi della parola gratuita, un nuovo spazio mentale in cui ricostruire la relazione affettiva fra essere umano e mondo, fra sé e altro. I discorsi inutili - che sono poi quelli della filosofia, della psicologia, della poesia - liberano lo spazio mentale dai vincoli imposti dal conformismo sociale.

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TUTTE LE DECLINAZIONI DEL VERBO ESSERE *****

intepretazione del verbo essere è come una costante che attraversa tutto il pensiero linguistico dell’Occidente sin dalle prime opere di Aristotele. E nel suo dipanarsi si intreccia con la filosofia, la metafisica, la logica e perfino con la matematica. Andrea Moro in Breve storia del verbo essere (Adelphi, 329 pagine, 36,00 euro) ricostruisce questa storia: dalla Grecia classica, attraverso i duelli tra maestri della logica del Medioevo e le rivoluzione seicentesche, fino al Novecento, quando la linguistica diventa un modello propulsivo per le neuroscienze.

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USTICA A FUMETTI (MA SENZA UN FINALE) *****

l 27 giugno 1980, alle 20 e 59, il Dc-9 I-TIGI della compagnia aerea Itavia, decollato a Bologna e diretto a Palermo, scompare dagli schermi radar nei cieli del mar Tirreno, a nord dell’Isola di Ustica, e precipita in mare. Muoiono tutte le 81 persone presenti a bordo. Decenni di indagini, centinaia di udienze, migliaia di pagine processuali, perizie, ipotesi, depistaggi e decine di decessi giudicati sospetti per uno dei fatti più inquietanti della recente storia d’Italia. A questa tragedia è dedicato Ustica, scenari di guerra (Edizioni Becco giallo, 143 pagine, 15,00 euro), un fumetto di Leonora Sartori, Andrea Vivaldo, Fabrizio Colarieti che torna a narrare una strage spaventosa, avvenuta solo un mese prima della strage di Bologna. «Questa è la storia di un aereo - dicono gli autori nella prefazione - noi non sapevamo come raccontarla, soprattutto ci mancava la conclusione. Perché purtroppo la storia dell’aereo non è a lieto fine. Da allora, quello che continua a mancare sono le risposte. Così questo fumetto non ha una fine che si rispetti. È questo è un peccato. Per tutti».

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una fatica paragonabile a quella di Tantalo quella di presentare libri in tv. Fabio Fazio, in Che tempo che fa (Rai 3) se la cava - e molto bene - intervistando l’autore. Il suo salottino con grandi sfondi luminosi è diventato spesso il più ambìto per gli autori. Essere chez Fazio è oggi il più bel colpo di bravura che diventa fiore all’occhiello degli uffici stampa degli editori. Però verso le 23,30 c’è anche Gigi Marzullo (Sottovoce, su Rai 1). Fa domande dirette, non s’addentra in premesse che tolgono spazio all’interlocutore. A rischio di diventare una macchietta dell’ovvio. Se uno scrittore suo ospite scrive un libro su Zorro, potrei scommettere i miei averi che la prima sua domanda sarebbe questa: «Chi è Zorro?». Un po’ come Alain Elkann quando su La Stampa intervista i suoi (quasi) colleghi. Recentemente Pagina tre, sobrio programma radiofonico di Radio 3, ha messo in rilievo, senza chiassose canzonature, la prima domanda di Elkann: «Che libro ha scritto, lei?». A parte l’aria compassata del viveur, il quesito, nella sua sostanza, è ugualissimo a quello che potrebbe porre un barcaiolo di Chioggia o un pescatore di Positano. Tornando a Marzullo, il suo ciclo di incontri ambisce a una maggior complessità, fatta salva l’elementarità dell’intervista, sempre condotta con grande distacco emotivo, come se volesse congelare sul suo viso tracce di emozione. Certo, con Corrado Augias si va sul sicuro, anche per la sua ironia, per la sua mobilità facciale (a volte istrionica) e la sua ottima preparazione culturale. In una delle ultime puntate, Marzullo ha invitato la sempre «giovanile» Silvana Giacobini, autrice di un libro sulla vita di Sophia Loren. Spezzoni di film, riflessioni su tanto successo. Qualche verità non proprio così nota è venuta a galla: quell’invidiabile monumento di carne partenopea e di sensualità spavalda, si è poggiata anche su una rigida disciplina profes-

È

danza

Televisione Sussurrando con Marzullo su Sophia Loren MobyDICK

spettacoli

di Pier Mario Fasanotti sionale, gavetta umile, determinazione di ferro (per esempio nel voler apprendere bene la lingua inglese). Agli esordi le rimproverarono di avere la bocca troppo larga, il naso un po’ lungo, i fianchi larghi assai. Bisognerebbe conoscere il nome di quel cretino che si credeva veggente. Sophia mise in pratica quella filosofia di vita che ebbe modo di spiegare in pubblico, molti anni dopo, quando era più newyorkese che napoletana: «Seguo sempre quel cordone che mi porta verso l’obiettivo». Caratteristica che in apparenza contraddice quel che pensiamo dei napoletani: spontanei, discontinui anche se geniali, disordinati con la propria e l’altrui vita. Marzullo non s’accontenta del solito «caffè» alla Costanzo. Inserisce altri libri facendo parlare gli autori. Il panino ha troppi strati, è indigesto. Pochi minuti. Si capisce poco, il montaggio è confuso. Il gusto dell’abbondanza rovina una serata fluida. La vetrinetta degli «altri» pare un’elemosina a chi non sta in prima fila. Forse ci vorrebbero le domande di Marzullo, levigate come il marmo di Carrara. Ma perché tanta ambizione di programma onnicomprensivo? L’elastico, si sa, si rompe e può tornarci in faccia. Che male che fa.

DVD

IL TRAGICO SCOOP DI QUELL’11 SETTEMBRE assato in frammenti televisivi tra i più noti di sempre, 11/9 dei fratelli Naudet doveva essere un semplice documentario sui pompieri di NewYork. Le tragiche circostanze di Ground Zero, lo trasformarono invece nello scoop che nessuno avrebbe mai voluto realizzare. Perché quella mattina del 2001, i pompieri dell’Engine 7, Ladder 1, risposero a una chiamata dal World Trade Center: un aeroplano si era schiantato contro una delle due torri. La troupe dei Naudet si spinse fin dentro le Twin Towers e documentò l’indicibile: la polvere, le macerie, lo schianto. Centosettanta minuti, che mostrano come il mondo cambiò per sempre.

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RILETTURE

TUTTE LE ICONE DEI MITICI SIXTIES alla Dolce Vita ai Rolling Stones, da Andy Warhol a John F. Kennedy. E poi Marilyn, i jukebox, il twist e il ’68, i blue jeans e la Fiat 1100. Più scorrono i decenni, e più i Sixties mostrano di aver meritato la fama di «mitici». È possibile riassaporarne ancora una lauta fetta, in Gli anni 60 (Logos, 224 pagine, 15,00 euro), volume illustrato che è un colorito viaggio nel tempo. Le auto, la moda, i capelli, il divismo: niente come quegli anni può essere raccontato meglio dalle immagini che ancora oggi vivono in quell’universo iconografico che è alle origini della società contemporanea. Un piacevole carosello della memoria.

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di Francesco Lo Dico

Melting pot nel nome di Tersicore di Diana Del Monte arrivo, seppur tardivo, della bella stagione accompagna, come ogni anno, l’apertura dei festival e delle rassegne teatrali all’aperto. Che si tratti di anfiteatri romani, come a Verona, di teatri di origine greca, come il Teatro Antico di Taormina, o di siti archeologici di grande rilevanza, come il complesso delle Terme di Caracalla, il connubio tra l’arte presente sulla scena e la possente bellezza del luogo si sposa, in questi siti, con la piacevolezza delle serate estive all’aperto, generando, quasi sempre, eventi che riscuotono un grande successo presso il pubblico più diversificato. Non è un caso, dunque, se a partire dal 1913, anno della prima rappresentazione estiva all’Arena di Verona, manifestazioni di questo tipo sono andate via via aumentando - del ’37 è la prima «trasferta» estiva del Teatro dell’Opera

L’

di Roma presso le Terme di Caracalla. Tra le più recenti acquisizioni di rilievo in questo universo dell’arte sotto le stelle c’è sicuramente il Festival Internazionale di Villa Adriana, organizzato dalla Fondazione Musica per Roma all’interno della Residenza dell’Imperatore Adriano e arrivato quest’anno alla sua quarta edizione. A partire dal 15 giugno, il festival laziale si propone come uno spaccato delle più consolidate tendenze del panorama contemporaneo dello spettacolo dal vivo. I resti della vasta Villa, la più importante e complessa a noi rimasta dell’antichità romana, daranno il benvenuto, tra gli atri, all’Oratorio di Aurélia, luogo magico dove l’impossibile avviene di fronte ai vostri occhi; alle «danze plurali» di Akram Khan e Sidi Larbi Cherkaoui, due coreografi che hanno fatto della loro personale multiculturalità un’identità danzante manifesta, e alla Cloud Gate Dance Theatre of Taiwan, compagnia di danza contem-

poranea della lontana isola cinese. L’avanzare delle forme spettacolari «minori», ottimamente rappresentate dal lavoro di magico illusionismo che Victoria Chaplin, figlia di Charlie Chaplin, ha costruito su e per sua figlia Aurélia Thiérée, si accompagna così alla performance di questo ensemble taiwanese che ci ricorda la sempre più presente e valida risorsa delle compagnie di danza contemporanea provenienti dall’Estremo Oriente. A completare il quadro, infine, ci sono Akram Khan, danzatore e coreografo inglese di origini bengalesi, e Sidi Larbi Cherkaoui, belga di padre marocchino, che, mescolando molteplici forme dell’arte di Tersicore, quali la danza contemporanea e la danza tradizionale indiana, si pongono come due eccellenti rappresentanti di quelle danze

definite «plurali», affascinante espressione delle dimensioni della multiculturalità e della glocalità. La fondazione Musica per Roma, infine, offre agli spettatori la possibilità di prenotare una visita guidata di una parte dei resti della Villa, che originariamente occupava un’area più vasta di quella di Pompei, dichiarata dall’Unesco monumento-patrimonio dell’umanità nel 1999. Per parlare d’arte e di teatro antico, ma anche solo per passare una piacevole serata, sperando, magari, di poter guardare le stelle.


MobyDICK

poesia

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Le meditazioni di Arturo Graf

I No, non è vero poeta Chi abbia un’anima sola, Che mutar senso o parola A se medesima vieta.

di Francesco Napoli l tramontare del XIX secolo Classicismo e Romanticismo, che fin lì avevano dominato la scena letteraria più recente, e non solo in Italia, vanno perdendo i loro caratteri antitetici, stemperando la loro influenza: persiste del Romanticismo, e soprattutto dopo la Scapigliatura, l’andatura più disinvolta della poesia cosiddetta borghese, dai tratti veristi in alcuni, familiare in altri, o, se mi è concesso dire, «personalistica» e d’ispirazione civile; e del Classicismo, invece, continua a sopravvivere un che di riscossa carducciana. E allora se l’influenza di Carducci è a tratti ancora evidente almeno fino a tutti gli Ottanta dell’Ottocento, sussiste in Italia un senso di superamento di quella poetica e, più in generale, una voglia di scavalcamento di scuole e correnti, compreso dunque Classicismo e Romanticismo. Salgono gli astri di Pascoli e D’Annunzio, certo, ma si evidenziano diverse costellazioni poetiche, con stelle di minor grandezza dei due testé citati, ma pur sempre di degna levatura.

A

Arturo Graf (Atene, 1848-Torino, 1913) è uno di questi minori dell’Ottocento, forse tra i maggiori del tempo.Vita intensa e travagliata la sua. Nativo della Grecia, da padre tedesco, amante della letteratura, e madre anconetana, a soli tre anni è a Trieste, allora ancora austroungarica, e alla morte del padre si trasferisce in Romania. Solo all’età di quindici anni giunge in Italia e frequenta a Napoli il liceo. Risente della lezione di Francesco De Sanctis, decisivo per la sua formazione critico-letteraria, ma poi si laurea in legge. Quando si stabilisce a Roma conosce Ernesto Monaci, con il quale stringe un saldo legame, accomunati da una viva passione per l’età medievale, in particolare per i suoi aspetti simbolici. Nel 1875 ottiene la libera docenza in Letteratura italiana e riceve l’incarico dall’Università di Roma. Ma la svolta è probabilmente quella dell’anno successivo, quando si reca a Torino fresco di nomina alla cattedra di Letteratura neolatina. La sua prolusione accademica si intitola «Di una trattazione scientifica della storia letteraria» e sette anni dopo diventa ordinario di Letteratura italiana. Le sue lezioni saranno seguite da tutto il gruppo dei crepuscolari di quella città, da Gozzano a Chiaves a Vallini, lezioni tenute fino al 1907. È su Nuova Antologia che avvia la sua attività di poeta pubblicando i primi versi di Medusa (1880) a cui faranno seguito Dopo il tramonto (1893), Le Danaidi (1897), Morgana (1901), Poemetti drammatici (1905) e Le Rime delle Selva (1906). Graf è stato uno dei più

il club di calliope

accaniti portatori delle istanze neospiritualiste del primo Novecento in Italia, una tendenza alla quale attinsero non pochi crepuscolari, Corazzini in primis, e artefice raffinato di un verso denso di pensiero che mal si conciliò con la sua passione lirica. La meditazione filosofica pesò sull’ispirazione, la capacità d’analisi appare spesso troppo fine a se stessa e un pessimismo diffuso permea parte della sua produzione in versi così copiosa da risultare più folta dell’opera omnia in versi di Giosuè Carducci senza averne la varietà timbrica e tematica; liriche degne di essere memorizzate che mancano però di quello slancio e di quel potere fascinatorio non solo del poeta di Pianto antico ma anche di Pascoli e D’Annunzio.

Quegli è poeta che cento Ne chiude ed agita in petto, E ognuna ha vario l’affetto, E ognuna ha proprio talento (…) Arturo Graf (Prologo da Le Rime della Selva)

Heine e Leopardi appaiono i suoi punti di riferimento, mentre avversa D’Annunzio al punto da aver contribuito non poco all’attraversamento dello stesso da parte dei crepuscolari. E la sua opera toccò ferma «Giaccio disteso su l’erba sopra le cime del monte», sono autorizzati da Graf; e l’orologio baudelariano (L’Horloge) batte come un cuore in Graf prima che in Palazzeschi (L’orologio in L’Incendiario) o in Moretti (Elisabetta Verhaegen in Poesie di tutti i giorni); per non parlare del tema corazziniano per eccellenza del poeta che muore ogni giorno un poco, in Graf capovolto ma con lo stesso intento («Se tu non muori ogni giorno,/ Ed ogni giorno non nasci»).

non solo Corazzini. Palazzeschi lo mette, insieme a lui medesimo, a Orsini, Govoni e Corazzini, tra i rinnovatori della poesia italiana; Gozzano qualcosa ne ha avuto se Montale nel giudicare come sottovalutate Le Rime della Selva lo avvicina all’amato poeta torinese. E sul piano delle immagini o dei temi, due esemplari piuttosto evidenti: se Gozzano scrive «Socchiusi gli occhi, sto/ supino nel trifoglio» (La via del rifugio) e Thovez nel Poema dell’adolescenza af-

Sono troppo poche le riprese editoriali recenti dell’opera poetica di Graf. Così, dopo una edizione 1990 di Anna Dolfi della Medusa, è giunta l’ora di una più interessante riedizione, curata con sobria sapienza critica da Adele Dei, delle Rime della Selva (Rocco Carabba Editore). Più interessante non tanto per la qualità dello studio, quanto piuttosto per una maggiore incisività della raccolta nel profondo rinnovamento di inizi XX secolo della nostra poesia. L’opera poetica di Graf risente certo di un gusto cupo e medievaleggiante, con profonde meditazioni sulla morte e sul male del mondo. Abbondano visioni di paesaggi solitari e tragiche esistenze, risolte molto spesso in macabre rappresentazioni e, solo di rado, in un più acuto simbolismo. Proprio con Le Rime della Selva, però, il poeta «sembra scuotere la polvere della propria poesia, raggiungere di fatto il nuovo secolo, sia pure in modo parziale e contraddittorio, sia pure attraverso la discontinuità, le ridondanze e i compiacimenti della sua penna esercitatissima e fluviale» (Adele Dei).

UN SODALIZIO PER RIFLETTERE SUL SACRO in libreria

Bisogna avere cura delle cose perché ci sopravvivranno e poi diranno di noi e delle mani, le gioie, le vergogne. Hai ragione Chiara, a dire un soffio vivere. Ma se potessi non tornerei indietro perché forse non saprei neppure come, se non talvolta sprofondare nel sonno incosciente come febbre. Cadono cose dal cielo che non so descrivere. Un fremito che è tutto. Ma a volte è meglio niente. Nicola Bultrini

di Loretto Rafanelli

associazione Iniziativa Europea, diretta dallo psichiatra Augusto Debernardi, organizzazione triestina che intende porre un ponte, attraverso la cultura, con i paesi dell’Est, propone il libro-catalogo In sacro anima vagans - Arte e poesia (Ellerani editore, a cura di Enzo Santese), che accompagna una serie di eventi culturali a Trieste, Gorizia e Monfalcone. Nel volume compaiono poesie di importanti poeti quali Broggiato, Grisancich, Moretti, Mussapi e pitture di artisti dell’Alpe Adria (Braun, Glinkov, Milic,Tutta). Il sodalizio tra arte e poesia è qualcosa di raro, sostanzialmente è la storia di qualcosa di incompiuto (con l’eccezione del grande itinerario proposto con tenacia da Marco N. Rotelli), seppure l’arte, come dice Bonnefoy, ci permetta di scoprire l’essenza ultima delle cose. In questo caso il tema di riflessione comune per poeti e artisti è il sacro. E il rapito fascino di una immagine racchiusa nelle vie sbilenche del reale, si fa estrema tensione creativa, il gesto caritativo ultimo che proprio il sacro possiede.

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Fantascienza

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on so quanti abbiano fatto caso a uno strisciante fenomeno della narrativa attuale. Non era mai successo prima, neanche nel momento di maggior favore della fantascienza in Italia (gli anni Settanta del Novecento) che il futuro, in particolare del nostro Paese, fosse tenuto così presente dagli scrittori tanto da sollecitarli a scrivere romanzi sul tema. E, altro caso interessante, soprattutto da parte di autori che possiamo definire non specializzati in materia, cioè non usi a scrivere di fantascienza. Perché proprio di questo si tratta: nonostante che forse qualcuno non abbia voglia di sentirsi definire così perché ritiene ancora la fantascienza un genere troppo «popolare» o addirittura ancora squalificato, di essa dobbiamo parlare anche se in alcuni casi sembri piuttosto una riverniciatura per poter parlare del presente pensando al futuro. Ma anche questa è una caratteristica proprio della fantascienza. Oppure di una fantapolitica negativa o di un’antiutopia, dato che le immagini di questo futuro soprattutto italiano sono generalmente negative, di tono molto pessimistico. Prendiamo ad esempio due autori che hanno un loro nome e una loro fama consolidata in ben altri settori: il sociologo Francesco Alberoni e il giornalista e polemista Oliviero Beha che hanno pubblicato romanzi in cui, altra coincidenza, si parla del sesso di domani, ma che a nostro parere non ci sembrano compiutamente riusciti. Nel senso che non riescono a trasmettere nel modo migliore quel che vorrebbero sostenere. Nel suo I dialoghi degli amanti (Rizzoli) Alberoni, per sua stessa ammissione nella rubrica del Corriere della Sera, propone in forma narrativa quanto ha teorizzato nei suoi saggi scritti negli ultimi vent’anni su innamoramento, amore e sesso. Il mondo del XXI secolo immaginato da Alberoni, a causa delle manipolazioni genetiche, dell’ingegneria biologica e della politica di potenza, è diviso praticamente in caste sessuali «omogenetiche», da una parte i Clan genetici femminili e dall’altra le Koiné genetiche maschili, nate - paradossalmente - per «salvare il mondo dall’appiattimento dell’identità» minacciato dalla globalizzazione.

MobyDICK

ai confini della realtà senza coinvolgere granché il lettore nella vicenda. Beha, giornalista cartaceo e televisivo, nel suo Eros Terminal (Garzanti) invece di un dialogo propone in sostanza un monologo interminabile che ancor di meno coinvolge il lettore offrendogli la visione di un’Italia futura la quale, dopo una non ben precisata apocalisse che azzera ogni tecnologia elettronica, è divisa sostanzialmente in due caste: quella che vive in Quartieri Alti ben difesi, e tutti gli altri intorno a cavarsela come possono: una specie di mondo alla Blade Runner, ma molto, molto meno affascinante e coinvolgente: acqua razionata, «rottamazione anagrafica» dei vecchi, non si mangia più carne ecc. Si accenna al surriscaldamento globale, all’impoverimento energetico, alla omologazione generalizzata, ma non di più. Il tutto senza troppa convinzione.

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Sesso e futuro

Una visione per la verità assai confusa che si disperde in una serie interminabile di monologhi ed elucubrazioni mentali che accompagnano le avventure (in genere erotiche) del protagonista e che quindi anche qui, come in Alberoni, fanno perdere di vista lo scenario in cui si svolgono le azioni. Non è obbligatorio che esso prevalga, ma che venga almeno descritto con quel tanto di particolari per far capire bene al lettore di cosa si stia parlando e in che ambiente si svolga la trama. Il protagonista, uno «scrittore» divenuto un «pontiere di uomini» cioè un «Esperto Negoziatore», è affetto da una strana malattia, l’«egopirite» che non si capisce quel che esattamente sia e quali effetti produca: sembra che «bruci» i sentimenti di quanto ha dentro di sé in attesa non si bene di cosa, fra contorti pensieri su denaro, potere, amore, morte e ovviamente sesso mentale (ma anche pratico). Il lettore, francamente, si annoia. Eppure non mancano gli spunti interessanti, ma lasciati allo stato di mugugnamenti interiori, come quello sulle macchine: «L’alibi era quello del fatto che ormai esse ci fossero e dovessero diventare sempre più perfette, numerose, giustificando tutto quello che accadeva per esse e intorno a esse. L’arma era il modo di utilizzarle come fine e non come mezzo, animandole di un significato bellico mostruoso, da “guerra civile” permanente». Bella l’idea di una «guerra civile» fra uomini e macchine (in senso lato), ma non adeguatamente sfruttata. Quando si hanno tesi da esporre - e tutti hanno il diritto di averle - non si può sottomettere totalmente lo stile e la trama a esse, rischiando di essere poco leggibili. Non si chiedono romanzetti «all’americana», che si consumano in fretta e si dimenticano ancora più in fretta, ma di trovare la via migliore per far chiudere al lettore l’ultima pagina soddisfatto per il piacere della storia e per il «messaggio» contenuto in essa. Se non ci si riesce l’autore non ha raggiunto il suo scopo e quanto si proponeva di comunicare rimane chiuso nel suo libro e non giunge all’esterno.

applicati all’Italia

A quanto pare, l’Inferno è sempre lastricato di buone intenzioni, perché il risultato è la creazione di un contrasto fra i sessi «naturali». I due protagonisti, Sakùntala Dely e Rogan Farrell (come dire Oriente e Occidente) sono degli eterosessuali vissuti in ambiente obbligatoriamente «omo» i quali scoprono la loro diversità e sfuggono alle costrizioni dei rispettivi ambienti chiusi. Per di più Farrell è un fisico che ha inventato l’Insula che «produce energia pulita» (non si specifica di più), ha conquistata fama e denaro e con essi cerca, anche a livello di politica internazionale, di scardinare il sistema «omogenetico» ormai diffuso dappertutto e costituito da Confraternite geneticamente specializzate. L’aspetto peggiore di questa so-

di Gianfranco de Turris cietà è che le modificazioni sono del tutto artificiali: si inseriscono nei cervelli farmaci in modo da produrre la «isomorfizzazione genetica» e quindi modificare il naturale erotismo di base. In più, a seconda della nazioni, si creano esseri umani soggetti al potere e condizionati biologicamente. Insom-

Alberoni sul rapporto uomo/donna, amore/sesso. La forma narrativa a differenza di quella saggistica permette così, quasi in un «delirio sessuale» di lui e di lei (come viene anche definito), l’illustrazione dell’atto più antico del mondo alla luce - mi pare - delle teorie indù, specificatamente tantriche. Il sesso spi-

Sempre più frequente rilevare come la narrativa scivoli volentieri su scenari propri della science-fiction. Ma se non si è abbastanza “esperti” si rischia di dosare male gli ingredienti, e di non sviluppare idee suggestive sacrificandole allo stile. Il caso di Alberoni e Beha ma, un mondo dittatoriale solo in apparenza democratico e progressista. Questo lo scenario di fondo, con i due protagonisti che si cercano e si lasciano, si attendono e si ritrovano alla fine dopo anni, come risulta al lettore dai «dialoghi degli amanti» del titolo, ma in cui soprattutto sono esposte le teorie di

ritualizzato e la divinizzazione degli organi sessuali di Sakùntala e Rogan con vere e proprie elegie a quel che li caratterizza come maschio e femmina. Il che, alla fine, non avvince più di tanto, appiattisce l’interessante sfondo futuribile e limita in sostanza la visione al rapporto di coppia fra i due amanti,


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Angelo Maria Sanza

Disoccupazione: se continuiamo così, esporteremo bamboccioni Il dato del 29,5 per cento di disoccupazione giovanile non può passare inosservato al governo, se si pensa che esistono realtà del Sud Italia in cui si supera abbondantemente la media del 50 per cento. Se questo Paese non favorisce l’occupazione giovanile attraverso un forte intervento di politica economica, si ritroverà con un sistema pensionistico incapace di reggere alle sfide del futuro. Chiediamo pertanto al governo di introdurre un sistema che incentivi l’assunzione dei giovani a tempo indeterminato, prevedendo a tal fine un regime fiscale di vantaggio per i primi tre anni post istruzione ed ulteriori agevolazioni per le assunzioni al Sud. Se le nostre istituzioni non si decidono a darsi una mossa, esporteranno un prodotto molto caro alla nostra classe politica: i bamboccioni.

Vito Kahlun

L’ENAC E LA PEC Con riferimento alla lettera del lettore Pietro Yates Moretti, pubblicata il 2 giugno, col titolo “Posta elettronica certificata: su 17 Authority solo 5 sono in regola”, è priva d’ogni fondamento l’affermazione secondo cui l’Enac sul proprio sito non disporrebbe della “Pec”. Infatti è sufficiente collegarsi al sito www.enac.gov.it e in alto a destra della home page si trova facilmente l’accesso a ben 40 indirizzi di Posta elettronica certificata che da molto tempo sono stati attivati dall’Ente nazionale per l’aviazione civile, in ottemperanza al codice dell’amministrazione digitale. A beneficio dei lettori di liberal, Le sarei grato quindi se voleste rettificare la notizia.

Sergio Bruno direttore comunicazione Enac

TROPPE BANCHE E MALE ORGANIZZATE PER DONAZIONI CHE SI DISINCENTIVANO Le richieste di donazione altruistica del sangue del cordone ombelicale arrivate alle banche pubbliche italiane nel 2009 sono state 11mila, di cui solo il 27% è stato stoccato perché rispondeva ai criteri di qualità richiesti. In Italia ci sono ben 18 banche pubbliche per la donazione ma è difficile donare il cordone ombelicale per la scarsità dei punti di raccolta, per le limitazioni di orario o di giorni in cui è possibile accedere alla donazione, per le caratteristiche sempre più selettive, imposte dalle banche pubbliche ai campioni da conservare. L’anno scorso le conservazioni sono state 3.167, con percentuali, sul totale delle nascite, che

vanno dall’1,3 della Lombardia allo 0,16 della Sicilia. Ogni anno crescono le autorizzazioni all’esportazione rilasciate dal ministero della Salute, nonostante il Centro nazionale trapianti si adoperi per informare le persone della sostanziale inutilità di tale pratica. Come sono stati spesi i 10 milioni di euro stanziati per il potenziamento della donazione e per la realizzazione della rete di biobanche, e diminuiranno in futuro il numero di centri di banche pubbliche, razionalizzando il numero? E in alcune regioni (come il Lazio) ha senso mantenerne più di una? Come si intende aumentare i centri di raccolta? Come si intende operare per aumentare le tipologie di fenotipi dei campioni raccolti per raggiungere il numero di 90mila unità auspicato? Come sono organizzate le banche pubbliche, personale, dirigenti e struttura operativa e come si raccordano con tutti i punti nascita delle rispettive regioni, e i relativi costi?

Donatella e Marco

I PACIFISTI SONO SIMILI AI LUPI TRAVESTITI DA PECORE L’attacco alla flotta “pacifista”da parte della marina israeliana ha scioccato mezzo mondo. Ma i soldati di Gerusalemme non vanno condannati per aver sparato sui fan dei terroristi di Hamas, ma per colpevole dabbenaggine! Pensare di bloccare una flotta, carica di amici e sostenitori del terrorismo internazionale islamico, senza intuire che i millantatori pacifisti potessero reagire, è stato invero ingenuo. Se prima di mandare gli incursori, il governo di Netanyahu aves-

L’IMMAGINE

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Se mi “ingioielli” ti sposo Questa ragazza probabilmente è sposata. Lo si intuisce dal fatto che sul suo collo non rimane quasi più un centimetro libero. Presso la sua popolazione, quella dei Samburu, in Kenya, il numero di collane di perline (le mporros) indossate da una donna denota il suo status civile e sociale. Le signore maritate e benestanti sono le più ingioiellate

LE VERITÀ NASCOSTE

Astana, il dittatore ha un cuore ASTANA.È incredibile a dirsi, ma anche i dittatori hanno un cuore. Persino quelli delle remote steppe dell’Asia centrale.Nursultan Nazarbaiev, presidente del Kazakhstan indipendente dal 1991, ha rifiutato di firmare la bozza di legge “sul leader della nazione” approvata un mese fa dal parlamento, che avrebbe garantito l’immunità penale a lui e alla sua famiglia, una protezione speciale alla sua persona e la possibilità di mettere bocca sulla politica interna ed esterna del Paese anche una volta in pensione. La bozza, promossa da alcuni deputati di Nur Otan, era stata vista dagli analisti come un possibile piano di successione, che avrebbe permesso al leader kazako di lasciare la presidenza rimanendo di fatto al potere. La proposta aveva destato forti preoccupazioni nella comunità internazionale, nell’anno in cui Astana detiene la presidenza dell’Osce, e proteste nella sparuta opposizione kazaka. In un discorso, Nazarbaiev ha ringraziato tutti i cittadini per la fiducia accordatagli, spiegando il perché del veto alla legge: tra le ragioni ha citato proprio il ruolo del Paese nell’Osce. «Lo status di leader della nazione - ha spiegato non può essere assegnato solo sulla base di leggi, decreti, o altri atti legislativi». Insomma, dittatori feroci sì, ma con un grande cuore democratico.

se chiamato la sua stessa intelligence, avrebbe scoperto che la miriade di associazioni “umanitarie” e “pacifiste” imbarcate sulle navi turche, a partire dalla ihh avevano legami antichi con esponenti della jihad internazionale, tra cui alcuni militanti transitati dalla moschea milanese di via Jenner ai campi di battaglia in Bosnia, Afganistan e Cecenia. Ovvio quindi che i “pacifinti” avrebbero mosso le mani (e le spranghe) per linciare gli sprovveduti soldati israeliani. È saltato fuori anche che le organizzazioni umanitarie internazionali (tra cui le italiane Onlus Abspp e Comitato Gaza Vivrà) si sarebbero ritrovate (anche se le stesse ong ne erano colpevolmente consapevoli) sotto la regia dell’ihh che, sempre a detta dei servizi segreti, dietro la copertura delle attività umanitarie, avevano il fine di provocare gravi incidenti e di allargare il fossato tra la Turchia e Israele. Le prove? Una tra tante: sul sito dell’Assemblea dei palestinesi in Italia, dal 28 maggio era apparso un comunicato che prevedeva il peggio, e invitava a reagire in vista del blitz israeliano. Eppure, nonostante le avvisaglie, i “pacifisti” italiani kamikaze di casa nostra, hanno voluto partecipare alla battaglia predisposta anticipatamente a tavolino. Tanto per fare un esempio sulla “buona fede”dei “pacifisti” italiani, Angela Lano, direttore del sito di controinformazione (leggasi anche anarchico), non si è fatta problemi a firmare un appello per «aiutare Gaza e Hamas legittimo rappresentante del popolo palestinese». L’opinione pubblica non deve farsi abbindolare dal folcloristico sventolio delle bandierine multicolori, ma rendersi conto che i pacifisti sono simili ai lupi travestiti da pecore citati dai vangeli. E i lupi, da quando il mondo è mondo, si trattano da lupi.

Gianni Toffali - Verona


mondo

pagina 24 • 5 giugno 2010

Gaza. Un mercantile irlandese è atteso questa mattina al largo della Striscia e c’è il rischio di un nuovo scontro

Un’altra nave sfida il blocco Sulla Rachel Corrie anche un premio Nobel Obama a Netanyahu: rivedere l’embargo di Enrico Singer na giornata di attesa, carica di tensione. Attesa per l’arrivo a largo di Gaza di un’altra nave della Freedom Flotilla, il cargo irlandese Rachel Corrie, con nove persone a bordo, che la Marina israeliana è ben decisa a non far passare. Attesa per le possibili manifestazioni attorno alla grande moschea di al Aqsa, a Gerusalemme, dove migliaia di agenti della sicurezza e di militari della guardia di frontiera sono stati schierati sin dal mattino per impedire incidenti e dove è stato vietato l’ingresso agli uomini sotto i 40 anni. Attesa anche per le decisioni del governo di Benjamin Netanyahu che, secondo indiscrezioni insistenti, starebbe considerando la possibilità di modificare il blocco imposto alla Striscia amministrata dall’Autorità palestinese limitando l’embargo soltanto alle armi e permettendo l’ingresso di tutte le merci per uso civile che, del resto, già passano il confine via terra, sia pure dopo accurati controlli. Attesa, infine, per gli

U

sviluppi della crisi diplomatica più acuta - quella scoppiata tra Turchia e Israele - che ieri ha vissuto due momenti cruciali: l’annuncio da parte del vice primo ministro di Ankara, Bulent Arinc, della «riduzione al minimo» delle relazioni tra i due Paesi e quello del premier Recep Tayyip Erdogan che ha chiuso, almeno, il macabro balletto sul numero delle vittime del blitz di lunedì confermando che i morti sono stati nove e

dogan, pronunciate proprio mentre si celebravano gli ultimi funerali delle vittime, non lasciano più spazio a illazioni di questo genere: «Abbiamo controllato le liste delle persone imbarcate e nessuno maca all’appello». Ma la preoccupazione, adesso, è tutta per quello che potrebbe accadere sulla Rachel Corrie che sta navigando verso Gaza e che dovrebbe arrivare questa mattina alla distanza di sicurezza imposta dalla Marina

Erdogan mette fine al macabro balletto sul numero dei morti nel blitz di lunedì. Sono nove, tutte le altre illazioni sono prive di fondamento, ma la crisi tra Turchia e Israele cresce: relazioni minime che tutte le altre ipotesi sono prive di fondamento.

Nelle testimonianze degli attivisti rientrati a casa, comprese quelle di alcuni dei sei italiani, era stato lanciato il sospetto che i morti fossero stati molti di più e che alcuni corpi fossero stati gettati in mare. Le parole di Er-

israeliana a 20 miglia dalla costa. La nave, ieri, aveva ridotto sensibilmente la sua velocità procedendo a circa 9 miglia l’ora - per decisione del comandante che voleva evitare di raggiungere la zona del possibile contatto con le unità israeliane durante la notte. Ma tutte le informazioni sono da prendere

con riserva. Ieri a metà giornata si era sparsa anche la voce di un possibile cambiamento di rotta della nave: non più il porto palestinese di Gaza, ma quello israeliano di Ashdod - lo stesso dove si trovano le altre unità della Freedom Flotilla bloccate nella notte tra domenica e lunedì - dove gli attivisti del Free

Gaza Movement avrebbero scaricato gli aiuti che gli stessi israeliani avrebbero poi trasferito a Gaza.

«Nulla di più falso», ha fatto sapere il gruppo italiano “Rete di solidarietà con il popolo palestinese” che ha confermato che la Rachel Corrie si sta diri-

Nei campi profughi del sud sono riunite decine di identità fortemente anti-israeliane

Ma la paura arriva dal Libano attacco alla flottiglia pacifista ha sollevato un polverone contro Israele in ambito internazionale. Tuttavia i Governi israeliani hanno sempre attribuito poco peso alle tensioni diplomatiche sorte come reazione alle loro decisioni militari. Per Israele è ben più preoccupante un’azione vendicativa da parte di qualche gruppo palestinese. In questo caso ci potrebbero essere tre possibilità. Un intervento diretto da Gaza, con una pioggia di razzi su Sderot e Ashkelon. Una serie di attentati individuali nelle strade del Paese, non orchestrati da nessuno, bensì proditorie iniziative dei singoli. Oppure un attacco alle spalle da Libano del Sud. La prima possibilità ha un punto debole, cioè il fatto che la Striscia è governata da Hamas, il quale tutto desidera fuorché rispondere alle provocazioni israeliane. Il movimento islamico è guidato da uomini che sanno calcolare politicamente quando sia il tempo di passare alla fase operativa. Né Khaled Meshal a Damasco

L’

di Antonio Picasso né Ismail Hanyyeh a Gaza pensano che questa sia l’ora di imbracciare il Kalashnikov. La seconda opzione è quella più pericolosa, perché un singolo attentato potrebbe innescare la miccia per un’escalation generale.

Del resto anche dalle regioni meridionali del Libano può essere sparato un razzo senza che né Unifil, né le Forze Armate libanesi, né le stesse milizie di Hebollah riescano a impedirlo. Il “Paese dei cedri” infatti ospita ob torto collo circa 15 campi profughi palestinesi, dove risiede una popolazione di circa 200mila unita (il 5% degli abitanti del Paese), composta non solo da palestinesi della diaspora post-1948, ma anche dalle generazioni successive, rifugiati iracheni e cittadini siriani. In queste realtà demografiche difficilmente gestibili, si annidano gruppi di miliziani che non fanno parte di nessuna corrente ufficiale della cosiddetta resistenza palestinese. Quindi non sono né sotto il controllo di Hamas e tanto meno di al-Fatah. Si tratta di fedayn che

sposano cause di varia tipologia, da quella filo-palestinese alla salafita, fino ad appoggiare al-Qaeda, o essere esponenti di una criminalità organizzata che nasce spontaneamente in simili contesti. Proprio di tutto questo Israele deve tenere conto. Perché la sicurezza interna dei campi profughi è prerogativa della popolazione che vi abita. I Caschi Blu e i soldati del Governo Hariri non si arrischiano ad entrarvi. Gli stessi uomini di Hezbollah hanno difficoltà a entrare in contatto con l’interno di ciascun campo. Una cellula non controllabile potrebbe far degenerare una situazione tesa com’è quella di attuale. L’altro giorno un caccia israeliano che sorvolava proprio il Libano del Sud - peraltro violando la Risoluzione Onu n.1701 - è stato preso di mira da una “contraerea” non meglio identificata, ma non è stato colpito. L’aereo era impegnato in una delle tante e illegittime missioni di ricognizione effettuate da Tzahal per verificare la possibile presenza di miliziani di Hezbollah. L’incidente non ha avuto seguito. Tuttavia, con il timore di una terza Intifada, Israele deve sapere chi controlla.


mondo

5 giugno 2010 • pagina 25

Ahmadinejad ricorda l’Ayatollah morto 21 anni fa e rilancia sul nucleare

«In memoria di Khomeini distruggeremo Israele» di Giovanni Radini l 3 giugno di ventun’anni fa moriva a Teheran Ruhollah Khomeini. Ieri il padre della Rivoluzione islamica è stato ricordato con una celebrazione pubblica che ha visto partecipi la Guida Suprema degli Ayatollah, Ali Khamenei, e il Presidente della Repubblica, Mahmoud Ahmadinejad. È passato tanto tempo dalla scomparsa del “grande vecchio”, ma il regime iraniano ha voluto dimostrare quanto sia vivo il messaggio del suo fondatore e solide le basi delle istituzioni del Velayate-Faqih, il principio teocratico che ispira Teheran per cui è solo dal Corano – peraltro secondo l’interpretazione sciita – che può nascere un buon governo. Con l’avvenimento le massime autorità iraniane hanno colto l’occasione per sfoderare la loro retorica più banale, sulla forza dell’Iran e sulla sua capacità di resistere di fronte alle prevaricazioni straniere. Nel suo discorso pubblico, che Khamenei ha pronunciato dopo la preghiera del venerdì, è stata spolverata la minaccia contro Israele. Sulla base dei fatti di questi giorni è tornato a presagire il “destino finale” dello Stato israeliano. Ha poi puntato l’indice contro gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che a suo giudizio sarebbero i manovratori dei tentativi di sovvertimento del regime, che si sono verificati lo scorso anno dopo le elezioni presidenziali di giugno. Khamenei ha quindi ribadito che l’Iran resta impermeabile alle ingerenze straniere e che le istituzioni di cui egli è Guida restano solide contro qualsiasi attacco. Sulla stessa linea è apparso l’intervento di Ahmadinejad, il quale si è soffermato sulle eventuali manifestazioni che potrebbero essere organizzate nelle prossime settimane, in ricordo proprio dell’“Onda verde”, il movimento spontaneo e di piazza che denunciò i brogli elettorali di un anno fa. In questi dodici mesi sono stati centinaia gli oppositori e i manifestanti uccisi durante i cortei, oppure arrestati e condannati sommariamente alla pena capitale. Il Capo dello Stato iraniano ha detto che la Polizia, ma soprattutto i Pasdaran e i Basiji sono pronti a spegnere sul nascere le eventuali commemorazioni dei caduti. Effettivamente il prossimo 12 giugno ci si può attendere una nuova Onda, i cui organizzatori, tramite blog e social network, non sono mai stati zittiti. C’è da dire però che il regime, dopo un primo sussulto nell’estate 2009, è riuscito a passare al contrattacco, utilizzando gli stessi strumenti di comunicazione, tradotti in repressione e censura. Ahmadinejad quindi ha ammonito gli oppositori che questa volta il suo governo saprebbe come anticipare le loro mosse.

I

gendo verso la Striscia. La nave, che porta il nome di un’attivista uccisa da un bulldozer israeliano a Gaza nel 2003, ha un carico di materiali da costruzione e di carta. A bordo ci sono l’irlandese Mairead Maguire, premio Nobel per la Pace nel 1976, il suo connazionale Denis Halliday, che è stato assistente del segretario generale dell’Onu dal 1994 al 1998, e due parlamentari della Malaysia più cinque uomini dell’equipaggio, quattro malaysiani e un filippino. Nell’ultimo contatto radio di ieri, Mairead Maguire ha annunciato che la nave forzerà il

Militari israeliani controllano a distanza la moschea di al Aqsa a Gerusalemme. Sotto, un soldato delle forze dell’Onu di stanza in Libano. A destra, l’ayatollah Khomeini vono anche i primi passi per ricucire il dialogo tra le parti che è, e resta, l’unica strada per risolvere la crisi. Così, in un’intervista alla Cnn, Barack Obama ha detto che «anche una tragedia può diventare un’opportunità di pace perché dimostra a tutti che lo status quo è insostenibile», che Israele «nutre legittime preoccupazioni di

Per il presidente Usa anche una tragedia può essere «trasformata in un’opportunità per la pace» perché dimostra che lo status quo è insostenibile per tutti. E Tony Blair chiede «una svolta politica» blocco. «Non abbiamo contatti con gli israeliani, né loro ci hanno contattato. Vogliamo distribuire gli aiuti alla gente di Gaza e rompere l’assedio», ha detto la Maguire sottolineando che a bordo ci sono soltanto aiuti umanitari: «Siamo disposti a farci ispezionare da personale internazionale. Funzionari irlandesi, l’hanno già fatto alla partenza a dimostrazione delle nostre buone intenzioni».

In questo clima di attesa e di massima incertezza su quello che avverrà - e che quando leggerete questo articolo, potrebbe essere già successo - si muo-

sicurezza per la Striscia di Gaza amministrata da Hamas, ma allo stesso tempo il blocco impedisce la vita normale ai palestinesi». Il presidente americano ha anche chiesto «un’indagine efficace per conoscere tutti i fatti». Il suo emissario per il Medioriente, George Mitchell, ha già incontrato Nethaniahu per studiare come modificare l’embargo. E anche Tony Blair, inviato speciale del quartetto Ue-Usa-Russia-Onu, ha detto che il blocco deve essere ripensato e che «serve una politica diversa per Gaza». Parole che s’intrecciano all’appello alla pazienza lanciato dal Papa.

Passando alla questione nucleare, vera arma propagandistica che tiene in piedi il regime, sia Khamanei sia il suo fedele Presidente hanno replicato che il processo di arricchimento di uranio presso gli impianti nucleari di ricerca proseguirà e che nessun impedimento da parte dell’Onu potrà bloccarlo. In realtà la situazione sembra essere nuovamente ferma su ambo i fronti. Le Nazioni Unite non si sono più espresse su un eventuale irrigidimento delle sanzioni, alle quali Teheran è già sottoposto. Ciò non esclude l’ipotesi di una ripresa del dialogo, come ha sempre pro-

posto la Cina.Tuttavia proprio ieri è stato ufficializzato l’ennesimo rinvio della attivazione della prima centrale iraniana, a Bushehr.

Il progetto risale ancora al 1998, quando la Russia firmò un accordo di cooperazione nel settore con l’Iran. Inizialmente si prevedeva che il lavori potessero terminare nel 2006, ma poi è seguita una lunga catena di dilazioni. Contestualmente il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, e il Ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, si sono consultati al telefono per riportare il “Dossier Iran” in sede del Consiglio di Sicurezza alle Nazioni Unite. Entrambi i fatti non tornano a favore di Teheran. Il rinvio dell’inaugurazione di Bushehr è indi-

La Guida Suprema ha citato Mousavi e Karoubi: «Hanno servito bene il loro Paese, ma adesso è giusto che siano ostracizzati. D’altronde, sono all’opposizione»

ce delle impossibilità tecniche che rallentano le ambizioni del regime. Il confronto Usa-Russia lascia pensare che comunque la comunità internazionale sia decisa a bloccarle sul piano politico. Cina permettendo. Questo significa che l’Iran non è il migliore dei mondi possibili; come invece la sua leadership tenterebbe di far credere. Alle celebrazioni per Khomeini, la Guida Suprema ha citato l’ex Primo ministro Mir Hossein Mussavi e l’ex Presidente del Parlamento, Mehdi Karrubi, che pur vantando di aver servito onorevolmente il Paese, «adesso è giusto che siano ostracizzati, in quanto leader dell’opposizione». Allo stesso tempo, anche Hassan Khomeini, nipote del Grande Ayatollah defunto, è stato criticato per aver assunto posizioni vicine all’Onda. Il regime però non dovrebbe sottovalutare questo giovane esponente del clero, che ha solo 38 anni, porta un nome immacolato e che potrebbe essere lui il vero futuro avversario di Khamenei. Anziché Mussavi e Karroubi, che sono politicamente “bruciati”.


quadrante

pagina 26 • 5 giugno 2010

Strategie. L’Ue incontra la Russia a Rostov e fa di tutto per non irritarla e elezioni presidenziali dello scorso febbraio hanno cambiato decisamente la scena politica dell’Ucraina, facendo oggi sembrare la rivoluzione arancione un episodio appartenente a una epoca decisamente remota. La vittoria di Viktor Yanukovych ha, per impiegare un’espressione dell’epoca sovietica, decisamente mutato la “correlazione delle forze” ai confini orientali dell’Unione Europea. Mosca ha indubbiamente conseguito una serie di successi. In violazione dell’articolo 17 della Costituzione (che vieta la presenza di basi militari straniere sul suolo dell’Ucraina), il 21 aprile Yanukovych ha siglato con l’omologo russo Dmitrii Medvedev un accordo in base al quale la Flotta russa del Mar Nero resterà nella base di Sebastopoli fino al 2042. Medvedev si è affrettato a rendere noto che la flotta russa sarà anche ammodernata. Qualche giorno dopo, il 26 aprile, nell’imminenza della frettolosa ratifica dell’accordo alla Rada - il parlamento ucraino - il primo ministro Vladimir Putin ha fatto tappa a Kiev, quasi un monito a rispettare gli accordi presi in passato: sconto sul gas in cambio della base navale. Il giorno dopo in Parlamento è esplosa violenta la rissa (le immagini sono state diffuse anche dalle reti televisive italiane), ma con un margine risicato (236 sì su 450 deputati) l’accordo è stato ratificato.

L

Putin si è indignato per la contestazione e ha aggiunto che il prezzo pagato dalla Russia è stato fin troppo alto (lo sconto sul gas): «Per una somma simile potrei mangiarmi il vostro presidente e il vostro primo ministro», battuta che rende bene l’idea di come siano mutate le cose nel giro di qualche mese. Ieri mattina, un altro voto della Rada (253 sì) ha cancellato l’associazione alla Nato dagli obiettivi della politica estera di Kiev. Nel documento approvato, l’Ucraina è definita un Paese non allineato intenzionato ad aderire alla Ue. Lo scorso mese Putin ha reso noto l’offerta fatta all’Ucraina da Gazprom di unificazione dei sistemi energetici dei due paesi, offerta respinta da Yanukovych il 14 maggio. Lo stesso giorno la Bbc informava sulla disponibilità dell’Ucraina a ricevere investimenti occidentali nello stesso settore. Si tratta di una opportunità interessante.

La nuova realpolitik di Mosca e Bruxelles L’Ucraina al centro di un nuovo balletto diplomatico fra Oriente e Occidente di Fernando Orlandi

tice di Rostov starebbe nella nuova partnership modernizzatrice fra Russia e Ue. Ma ognuna delle due parti intende la cosa a proprio modo: per l’Ue, la modernizzazione dovrebbe costituire il percorso che conduce la Russia a intraprendere riforme economiche strutturali, fondate su principi di mercato. Per la Russia, invece, sembra essere un modo per ottenere tecnologia occidentale al fine di realizzare i propri obiettivi. Con questi presupposti, la partnership potrebbe non essere reciprocamente vantaggiosa. Ma questo rapporto particolare con Mosca testimonia l’esistenza di una politica di due pesi e due misure nei confronti di paesi che fanno parte della partnership orientale, per i quali è obbligatorio intraprendere riforme: sarebbe indubbiamente un problema e una ingiustizia se Mosca, ad esempio, ottenesse prima di altri l’esenzione dai visti.

In questo contesto, il 31 maggio si è appreso che stanno per essere aboliti i posti di rappresentante speciale dell’Ue per la Moldova (Kalman Mizsei) e il Caucaso meridionale (Peter Sem-

“Indignato” dopo le contestazioni sul gas, Putin ha detto: «Con quei soldi, vi compro tutti» Saranno in grado di avvantaggiarsene le società e le istituzioni europee? A vedere dalla lentezza con cui reagisce l’Unione Europea, non sembra ci sia molto da attendersi. Yanukovych ha dichiarato il suo interesse ad accedere all’Ue, ma da Bruxelles, invece di proposte concrete, di una road map, sono venute solo offerte di colloqui.

Negli ultimi mesi, invece, Bruxelles sta reagendo con una particolare prontezza verso Mosca. Si è appena concluso a Rostov sul Don il vertice Ue-Russia. Negli incontri preparatori i funzionari e i diplomatici europei sono stati particolarmente “discreti”, premurandosi di non sollevare le questioni ritenute “irritanti” da Mosca: violazione dei diritti umani, la situazione nel Caucaso del nord, il promesso ritiro delle truppe russe dalla Trasnistria e la Georgia. Il successo del ver-

La nuova legge esclude l’adesione a blocchi

Kiev: addio alla Nato Nè con l’Ovest nè con l’Est: il parlamento di Kiev ha votato in prima lettura una legge che fa dell’Ucraina uno stato ”non allineato”, affondando il progetto di adesione alla Nato coltivato negli anni “arancioni” di Viktor Yushchenko. Il testo, stilato su proposta del nuovo presidente Viktor Yanukovich, è stato approvato con 253 voti su 450, grazie al sì compatto della coalizione parlamentare fedele al presidente, regista di un riavvicinamento alla Russia a tappe serratissime. Perché Mosca non ha mai mandato giù l’idea che l’Ucraina potesse un giorno entrare nell’Alleanza atlantica. «Il presidente propone di sopprimere dall’ordine del giorno la questione della Nato, che divide la società», ha dichiarato ai deputati il premier Mykola Azarov, presentando il progetto di legge. In realtà, il documento votato delinea “i principi di ba-

se” della politica estera, e tra questi spicca «il mantenimento da parte dell’Ucraina di una politica di non allineamento, il che implica la non partecipazione a unioni politico-militari». La Nato viene citata, come partner «di una cooperazione costruttiva», ma la parola “adesione” non compare mai. Vi figura invece l’integrazione economica con l’Ue, che per Yanukovich resta un obiettivo prioritario. Invano, l’opposizione filo-occidentale è insorta, denunciando «un progetto nato dalla volontà del Cremlino». La coalizione governativa ha i numeri sufficienti per andare avanti da sola e le ulteriori letture prima della firma del presidente non dovrebbero incontrare nessun ostacolo. La nuova legge dovrebbe anche bloccare le avances russe per l’adesione ucraina al Trattato Collettivo di Sicurezza (Csto).

neby). Sono territori particolari, dove si trovano i cosiddetti “conflitti congelati” e dove la presenza russa costituisce un problema. La “ratio” addotta per questa scelta non tiene: in una lettera Catherine Ashton ha spiegato che si è deciso di eliminare i posti geograficamente più lontani. Ma indubbiamenente l’Asia centrale e la regione dei Grandi laghi in Africa sono geograficamente assai più lontani, e non sono stati toccati. Forse non è stato un caso che questa notizia sia stata fatta circolare mentre i rappresentanti dell’Ue e della Russia si incontravano a Rostov. La nuova Realpolitik che sembra germogliare fra Bruxelles e Mosca quali conseguenze avrà per i paesi confinanti a est con l’Ue e più in generale verso gli stati ora indipendenti che un tempo facevano parte dell’Unione Sovietica? Soprattutto, quale sarà il destino dell’Ucraina?


quadrante

5 giugno 2010 • pagina 27

Serve tempo per il verdetto Obama: «Sono infuriato»

La comunità cattolica locale non crede all’instabilità dell’assassino

Louisiana, il “tappo” Bp sembra funzionare

Turchia, poco chiari i motivi dell’omicidio Padovese

WASHINGTON. I tecnici della

ANKARA. La comunità turca fa-

Bp hanno cominciato ieri ad aspirare e convogliare in superficie il greggio in uscita dal pozzo danneggiato, su cui è stata calata una piccola cupola di contenimento. L’operazione, secondo quanto dichiarato dall’ammiraglio della Guardia Costiera,Thad Allen, coordinatore degli sforzi governativi, sta avvenendo a una velocità di circa mille barili al giorno, un ritmo comunque basso rispetto a quello di fuoriuscita del greggio, pari secondo le ultime stime a circa 19mila barili al giorno. Per conoscere l’esito dell’operazione, riferisce la Bp, sará necessario attendere 48 ore.

tica ad accettare che sia stata l’instabilità mentale di Murat Altun a condurlo a uccidere monsignor Luigi Padovese. L’autista del vicario apostolico dell’Anatolia, 26 anni, ha confessato di averlo accoltellato dopo aver udito una voce divina che gli ordinava di compiere quel gesto. La polizia ha confermato che l’uomo, collaboratore del vescovo per quattro anni, soffre di disturbi mentali. Fonti di AsiaNews parlano di un uomo “depresso e violento”, ma allo stesso tempo si fatica a trovare nella sua salute mentale una giustificazione dell’omicidio. Molti attacchi simili, negli ultimi anni, sono infatti stati commessi da giovani definiti in un

Qualche speranza che questo incubo possa volgere al termine proviene dai primi risultati positivi dell’operazione «Cut and cup»: la ”gran parte” del petrolio che fuoriesce dal pozzo sembra infatti che riesce ad essere catturata dall’imbuto che gli ingegneri hanno calato a 1600 metri di profondità. Intanto in Louisiana, ieri, la terza visita del presidente Barack Obama, la seconda questa settimana. Per sottolineare l’impegno del governo di fronte alla catastrofe causata 46 giorni fa dall’esplosione della piattaforma petrolifera della Bp, il presidente ha posticipato, per

Varsavia in festa: beato don Popieluszko Il cappellano di Solidarnosc venne ucciso nel ’84 di Osvaldo Baldacci l sangue dei martiri cambia la storia. È stato sicuramente così nel caso di don Jerzy Popieluszko, cappellano di Solidarnosc, brutalmente assassinato dal regime comunista nel 1984 ad appena 37 anni. Domani, nella piazza intitolata al maresciallo Pilsudski, altro eroe nazionale, il martire polacco sarà solennemente beatificato a Varsavia, dopo che si è conclusa positivamente la causa che ha accertato le sue virtù eroiche dal punto di vista cristiano, prima che politico. Ma certo è difficile non prendere atto che quel tragico episodio fu il punto di svolta per la storia della Polonia moderna e quindi per il seguente crollo del comunismo nell’intera Europa dell’est. Nato il 14 settembre 1947 ad Okopy Suchowola, don Jerzy fu ordinato sacerdote nel 1972. Era molto devoto a un altro grande santo polacco, Massimiliano Kolbe, ucciso in un campo di concentramento nazista. «Per don Jerzy era il più grande esempio di sacerdote», ha ricordato in questi giorni la madre. Nella sua attività pastorale Popieluszko portò la sua opera presso i lavoratori siderurgici, e si unì ai lavoratori del sindacato autonomo di Solidarnosc, fino a esserne considerato il cappellano, che si batteva per garantire migliori condizioni sociali, per la libertà, la giustizia, il progresso. Nelle sue prediche, l’unica possibile forma di espressione, lanciava critiche al sistema e invitava la gente a contestare pacificamente il regime. Gli sgherri del ministero dell’interno polacco più volte lo minacciarono e invitarono al silenzio, finché il 13 ottobre 1984 fu coinvolto in un incidente stradale dal quale però uscì illeso. Pochi giorni dopo però, il 19 ottobre, di ritorno da un servizio pastorale, fu rapito e ucciso da parte di tre funzionari del regime, e il suo corpo fu ritrovato il 30 ottobre nelle acque della Vistola vicino a Wloclawek. Ai funerali parteciparono più di 400mila persone, compreso il leader di Solidarnosc Lech Walesa. La notizia dell’assassinio causò disordini in Polonia, ma il regime del generale Jaruzelski non aveva previsto che

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alcune testimonianze, portate a rischio della vita, avrebbero incastrato gli autori dell’omicidio - i capitani Grzegorz Piotrowski, Leszek Pekala, Waldemar Chmielewski ed il colonnello Adam Petruszka - costringendo il governo a un processo per scaricare su di loro la responsabilità di fronte alla nazione e al mondo, che, ricordiamolo, aveva un grande Papa polacco, Giovanni Paolo II, amico di Solidarnosc ed estimatore di Popieluszko.

Costretto dalla pressioni, il regime giudicò colpevoli coloro che avevano picchiato a morte il sacerdote e li condannò a 25 anni di carcere, sebbene fossero poi rilasciati a seguito di amnistia qualche anno dopo. Ma adesso il movimento pacifico e determinato di Solidarnosc era di fronte all’ennesimo bivio, anzi trivio: cedere alla paura, reagire con la violenza, ispirarsi a don Jerzy Popieluszko per continuare la battaglia pacifica e determinata al tempo stesso. Scelse questa strada prendendo a bandiera il nuovo martire e ottenne la più clamorosa vittoria della storia. Quella polacca di Solidarnosc infatti ha una caratteristica particolare tra le rivoluzioni del mondo: fu una vera e propria controrivoluzione, cioè non una rivoluzione uguale ma di segno opposto a quella che aveva portato al regime precedente, ma piuttosto una rivoluzione di natura diversa. Rinunciando alla tentazione della vendetta, i polacchi scelsero di puntare a una rivoluzione dei cuori, delle coscienze. Sostituirono alle armi la determinazione della verità e della libertà, rifiutandosi di rinnegare la realtà dell’uomo, sia non accettando l’imposizione del modello del regime sia non scadendo nel rischio di negare l’umanità degli altri, anche se avversari. È evidente che questa rivoluzione ha le sue radici nella profonda anima cristiana della Polonia e nelle figure di Giovanni Paolo II, Walesa e Popieluszko, la cui storia un po’ trascurata in Italia potrà però essere ripercorsa nei cinema italiani da mercoledì, con la proiezione del film di Wieczynski.

Rinunciando alla facile tentazione della vendetta, i polacchi scelsero di puntare su una rivoluzione delle coscienze

la seconda volta, il viaggio in Indonesia e Australia che avrebbe dovuto effettuare dal 13 al 18 giugno. In sei settimane è fuoriuscita dal pozzo una quantità enorme di petrolio, le stime del governo americano variano da 75 a 163 milioni di litri di greggio. Obama sta pagando cara la catastrofe ambientale. Accusato di una risposta tardiva e di scarsa iniziativa di fronte all’incidente, ieri sera il presidente ha voluto dimostrare tutta la sua partecipazione al dramma che stanno vivendo gli americani del Golfo esprimendo per la prima volta un sentimento forte come la rabbia. In un’intervista alla Cnn Obama si è detto “furioso”.

primo momento ’instabili’, ma poi risultati collegati a gruppi ultra-nazionalisti e anti-cristiani. Per questo, la comunità cristiana e le ong in Turchia lanciano un appello perché le indagini non si arenino sull’instabilità mentale del killer, ma scavino più in profondità.

A molti analisti pare infatti che i governi, i politici e le autorità civili turche non stiano compiendo indagini serie sugli eventi. Il rischio è che questi episodi violenti vengano archiviati semplicemente con la scusa che si tratta ci casi isolati di persone non sane di mente, il gesto casuale di un giovane fanatico islamico. Ed è tra questi “atti isolati” che sono stati inseriti il ferimento del frate cappuccino italiano Adriano Franchini, avvenuto a Smyrna il 16 dicembre del 2007, la minaccia al frate Roberto Ferrari con un coltello da kebab nella chiesa di Mersin l’11 marzo 2006, il ferimento a un fianco del frate Pierre Brunissen, il 2 luglio 2006 davanti alla sua chiesa a Samsun. Poi ci sono gli omicidi: quello di Don Andrea Santoro, ucciso il 5 febbraio del 2006, del giornalista armeno Hrant Dink, assassinato il 19 gennaio 2007 e la morte di tre cristiani protestanti.


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grandangolo Testi. La lettera integrale delle Madri di Tiananmen

«Il tempo offusca la memoria ma non lede la verità» Il gruppo di attivisti lotta da ventun anni contro la censura del governo di Pechino che, sul massacro del 4 giugno del 1989, cerca di ridurre al silenzio l’intera Cina. Ora però i tempi e il Paese «sono cambiati in maniera radicale, ed è giusto che venga fatta luce su un movimento di piazza che voleva diritti umani e vera democrazia» di Ding Zilin n massacro avvenuto a Pechino ventuno anni fa ha sconvolto il mondo. Un massacro nel quale hanno perso la vita tantissime persone, fra cui 203 nostri giovani congiunti. Ma ci sono molte altre vittime che dobbiamo ancora trovare: non sono state rivelate al mondo, e nessuno sa dove siano o in che condizione. Eppure ancora oggi, ventuno anni dopo, la cricca comunista che governa la Cina continua a gestire il massacro del 4 giugno come un segreto da mantenere a tutti i costi: si comportano come se quei giorni non fossero mai stati una realtà. Il tempo, lo sappiamo, può indebolire le memorie; ma può anche fa sparire la verità? Quell’anno, subito dopo il massacro, la comunità internazionale espresse una dura condanna nei confronti del governo cinese. Deng Xiaoping e Jiang Zemin, i nostri leader del tempo, fecero una promessa ad alcuni ospiti stranieri: i nomi e il numero dei morti sarebbero stati annunciati appena possibile.

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Ma le autorità comuniste che guidano la Cina non sono mai sincere, e non mantengono la parola data; non sanno fare altro che calcolare costi e benefici. Dopo la promessa di Deng e Jiang, la popolazione cinese all’interno e all’e-

sterno del Paese - e soprattutto le famiglie delle vittime e dei feriti in seguito alla repressione - hanno seguito con attenzione le mosse del governo. Ma da allora, nonostante tutti i cambi al vertice, nessuno si è preso la briga di mantenere la promessa. Tutte le informazioni sul massacro del 4 giugno, anche le meno rilevanti, sono divenute un segreto di

Da quando ci siamo alzati in piedi, non abbiamo più intenzione di sederci. Abbiamo superato profonde sofferenze, per farlo Stato. Da quel giorno noi, parenti delle vittime e dei feriti, costretti a grandissimi dolori e sofferenze, ci siamo impegnati per trovare i corpi di coloro che sono stati uccisi e localizzare i feriti. Noi, le Madri di Tiananmen, non abbiamo paura delle minacce e dei soprusi

delle autorità; non temiamo i loro pettegolezzi e gli insulti; per questo continuiamo, passo dopo passo, a cercarli.

Come Sisifo porta la propria pietra sul vertice della montagna, cerchiamo di ottenere ogni volta dei piccoli risultati. La cricca comunista cinese ha sempre seguito questa legge non scritta: una bugia ripetuta migliaia di volte diviene una verità. Anche se si tratta di una cosa di cui tutti sono stati testimoni, se tutti sanno che è bianco ma sostengono che sia nero, alla fine il tempo renderà invisibile la discrepanza. I comunisti al governo hanno praticato, e imposto al resto del Paese, una “amnesia forzata” per molto tempo: non è stato permesso a nessuno di ricordare o menzionare nulla che avesse a che fare con il 4 giugno. Tutto in maniera così efficace che i giovani – nati negli anni Ottanta o Novanta del secolo scorso – non credono neanche che nel nostro Paese sia avvenuta una strage del genere ventuno anni fa. Forse ne hanno sentito parlare, ma la loro conoscenza dell’avvenuto è veramente superficiale. Le autorità comuniste cinesi si considerano “pulite”. Compiendo questa operazione di memoria, pensano sia possibile spingere via il 4 giugno, negli annali di una me-

moria distante: pensano di aver rimosso il debito di sangue che hanno con quel movimento. Hanno iniziato a mentesi nel giugno del 1993, quando dissero che i morti di Tiananmen erano sedici: poi salirono a 96, 115, 186, 196 fino ad arrivare all’attuale numero di 203. Ma ognuno di questi era una persona fatta di carne e sangue, con un nome. Pensano che siano spariti nel nulla? Pensano di poterli cancellare? Il massacro di ventuno anni fa è una verità da cui non si può fuggire. Se avete ancora un’oncia di coscienza, dopo aver passato le giornate nel “mondo armonioso” creato dal Partito comunista al potere, dovete rimanere legati a una infinita paura. Una lunga, lunghissima paura. Nel maggio del 1995 un gruppo di noi, madri delle vittime, si sono incontrate per portare insieme tre richieste all’Assemblea nazionale del popolo: la richiesta principale era quella di ottenere una risoluzione imparziale sulla “questione 4 giugno”.

Le nostre richieste erano: lanciare una nuova inchiesta sull’accaduto, con il pubblico annuncio del numero delle vittime e la proclamazione dei loro nomi; scuse formale alle famiglie di ogni vittima, e un risarcimento secondo i termini di legge; un imparziale processo


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Era «pronto a morire per impedire una nuova Rivoluzione Culturale»

E intanto a Hong Kong si pubblicano i diari del “macellaio” Li Peng, il falco di Deng Xiaoping di Vincenzo Faccioli Pintozzi i Peng, primo ministro cinese nel 1989, era «pronto a morire pur di impedire le manifestazioni di piazza Tiananmen, un movimento paragonabile alla Rivoluzione culturale». La rivelazione viene dai diari dello stesso Li, il “macellaio di Tiananmen”, uomo forte di Deng Xiaoping e capo dell’ala intransigente del Partito durante le proteste di piazza. I diari sono nelle mani dell’editore Kelvin Bao Pu. Questi è il figlio di Bao Tong, segretario personale e amico del defunto Zhao Ziyang, segretario comunista nel 1989 che cercò di impedire il massacro. Intitolato Il Momento critico e sottotitolato I diari di Li Peng, il libro dovrebbe uscire a Hong Kong il prossimo 22 giugno. Secondo l’editore, il testo era finito già nel 2004: Li Peng avrebbe permesso la pubblicazione in occasione del 15esimo anniversario della strage «per fornire anche la sua versione dei fatti». Li è considerato l’ideatore e l’autore del massacro. Secondo il manoscritto, invece, Li avrebbe sostenuto la repressione violenta del movimento studentesco del 1989 «perché era sfuggito di mano, e rischiava di ripetere gli orrori della Rivoluzione Culturale». Per il quotidiano South China Morning Post, che ha ottenuto una copia del manoscritto, ora gli editori attenderanno un mese per stabilire l’autenticità del testo.

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per i responsabili di quel crimine. Hanno ascoltato le nostre voci, ma non hanno risposto. Abbiamo riproposto le nostre richieste ogni anno per quindici anni, ma ancora non hanno risposto.

Non abbiamo paura di questo silenzio e non abbandoneremo quello che abbiamo iniziato. Nel 1999 abbiamo creato un gruppo di dialogo composto da venti persone e abbiamo chiesto a Pechino di incontrarsi con noi, per discutere e cercare una soluzione. Abbiamo chiesto un confronto per quindici anni, ma neanche questa possibilità è stata presa in considerazione. Nel deci-

Non abbiamo paura delle minacce e dei soprusi delle autorità cinesi. Continueremo a cercare solo e sempre la giustizia mo anniversario del massacro di piazza Tiananmen, abbiamo usato le procedure previste dalla legge per presentare un ricorso alla Corte Suprema del popolo; al Procuratorato abbiamo chiesto l’apertura di un’inchiesta contro Li Peng, uno dei principali istigatori della violenza contro i manifestanti. I procuratori hanno accettato la nostra richiesta ma, dieci anni dopo, ancora non si sono fatti vivi. Non hanno risposto neanche alle nostre ripetute sottolineature. E allora noi chiediamo: ma è possibile che Li Peng sia al di sopra della legge? È possibile che abbia il privilegio di essere esente da inchieste? Nel 2001, abbiamo pubblicato Lettere dalle Madri di Tiananmen: abbiamo usato quel testo per annunciare a tutti i nostri compatrioti,

in Cina e nel resto del mondo, e a tutti coloro che seguono con attenzione gli affari cinesi una cosa molto semplice: non saremo più un gruppo apatico, non saremo più un gruppo che maledice la cattiva sorte. Da quando ci siamo alzati in piedi, non abbiamo più intenzione di sederci. Abbiamo oltrepassato profonde sofferenze, ma queste ferite hanno modificato il senso del nostro cuore: non più occhio per occhio, ma una maggiore sensibilità per i temi della giustizia e della responsabilità. È la prima volta, da quando siamo divenuti un gruppo unico, che modifichiamo in maniera sostanziale le nostre vedute e le nostre richieste: le Madri di Tiananmen è un gruppo composto da cittadini, non un’unione di persone risentite. Vogliamo mettere da parte la filosofia che predica l’uso della violenza contro la violenza, comune nella mentalità e nella storia cinese.

Negli ultimi dieci anni, con pretesti sempre più assurdi, il governo cinese ha iniziato a seguirci e a imporci una sorta di regime di arresti domiciliari: siamo stati arrestati in maniera arbitraria, ci hanno requisito beni, congelato conti correnti e privato di ogni altra libertà. Lo scorso anno, gli uomini di Pechino sono arrivati – nel giorno della vigilia dell’anniversario – quando eravamo riuniti a pregare in silenzio in una casa privata. Questo è veramente troppo: non ci si può intromettere persino nel dolore privato. Questo modo di comportarsi è perverso e va contro le dottrine religiose ancestrali, quelle di Confucio e Menciù. Eppure il governo ha creato gli “Istituti Confucio” per tramandarne gli insegnamenti, che però ha tradito per primo. Ora ci rivolgiamo a voi, membri del governo: ogni tre parole citate la “società armoniosa” e usate la retorica della “popolazione al primo posto”. Ma non sentite la rabbia delle vittime di coloro che avete ucciso 21 anni fa? Non vedete le lacrime dei loro parenti? Noi preghiamo affinché i nostri morti possano riposare in pace. Dovreste farlo anche voi.

Li Peng, che oggi ha 81 anni e si ritiene non goda di buona salute, descrive anche il dibattito all’interno della dirigenza del Partito comunista cinese a partire dall’inizio delle manifestazioni studentesche, nell’aprile del 1989, e sottolinea che la decisione di imporre la legge marziale e far intervenire l’ esercito per sgombrare piazza Tiananmen occupata dagli studenti fu presa direttamente da Deng Xiaoping.Proprio la figura di Li Peng è stata messa sotto accusa dalle “Madri di Tiananmen” – il gruppo che riunisce i parenti delle vittime del 4 giugno – nella loro lettera annuale al governo e al mondo. Secondo le “Madri”, «non è possibile che nessuno abbia mai chiesto conto all’allora premier per l’accaduto. È forse al di sopra della legge?». Ma più che Li Peng, il governo cinese sembra occupato a prevenire nuovi

movimenti di protesta riconducibili a quelli del 1989. Come ogni anno, infatti, l’anniversario del massacro di piazza Tiananmen è stato celebrato a Pechino con arresti e “sparizioni temporanee”. Il governo cinese, infatti, continua a rifiutarsi di riconoscere apertamente di aver usato forza bruta contro manifestanti inermi, e costringe al silenzio i cittadini cinesi che intendono commemorare l’accaduto e le vittime. Nel frattempo, almeno 4 degli attivisti che parteciparono ai moti di piazza del 1989 sono ancora in galera.

Lo scorso anno, il governo ha condannato alla “rieducazione tramite il lavoro” 3 attivisti che hanno cercato di celebrare il ventesimo anniversario. Quest’anno, in occasione del ventunesimo, la repressione si è spostata persino a Hong Kong: la polizia ha sequestrato due copie della “Dea della Democrazia” – la statua che venne innalzata dagli studenti in piazza – che i manifestanti del Territorio avevano preparato per la veglia notturna. Si tratta di un atto di interferenza senza precedenti per l’ex colonia britannica, che ha sempre ricordato in piazza il massacro. Le copie sono state poi riconsegnate agli organizzatori, ma allo scultore che le ha fatte, Chen Weiming, è stato proibito l’ingresso nel Territorio. In ogni caso la situazione peggiore è in Cina continentale. Da diversi giorni, la polizia sta seguendo a vista diversi attivisti: questi sono stati avvertiti di non cercare di organizzare eventi o commemorazioni per il 4 giugno. Dalla mattina di ieri, l’avvocato per i diritti umani Teng Biao si trova di fatto agli arresti domiciliari. Sempre ieri, 3 poliziotti hanno minacciato di “gravi conseguenze”lo scrittore Wang Debang.Yang Hai, da Xian, ha invece avvertito i suoi compagni che la polizia “lo sta cercando per portarlo a fare un viaggio”; dall’avvertimento, non si è più riusciti a contattarlo. Sempre a Xian, la polizia ha portato “a prendere un te” Zhang Jiankang: sparito anche lui. Dal 2 giugno è agli arresti domiciliari anche il dissidente Liu Xianbin, di Suining nel Sichuan. Stessa sorte per Mu Jiayu, di Chongqing.


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il personaggio della settimana Vita (e miracoli) della campionessa che a quasi trent’anni è entrata nella leggenda del tennis

Fenomenologia Schiavone

Martina Navratilova le disse: «Sbagli troppo» E lei ricominciò da capo, senza aver paura di diventare troppo “vecchia” per la terra rossa «Perché una sola cosa conta: divertirsi» di Roselina Salemi e donne, certe volte sono destinate ad arrivare tardi. Madri a quarant’anni (o a cinquanta) e campionesse quasi a trenta, come è successo a Francesca Schiavone, milanese, figlia di un dirigente dell’Atm, planata in finale al Roland Garros (incontrerà l’australiana Samantha Stosur), per la gloria del tennis e dell’Italia, in astinenza da 56 anni (nel lontano 1954 c’era stata Silvana Lazzarino). Anche con gli uomini il Roland Garros è stato avaro: soltanto Nicola Pietrangeli e Adriano Panatta... Ma se le donne sono destinate ad arrivare tardi, questo è ancora più vero quando non sono piacione, quando sono difficili, dure, poco femminili, e non portano gonnellini maliziosi con le mutande a pallini o con i volant, come le Williams, (Serena e Venus), quando non puoi metter loro un’etichetta spendibile nel gossip. Niente pettegolezzi significativi, niente servizi fotografici, né spot per Francesca Schiavone, niente mondanità, paparazzate e comparsate. Giusto una sequenza rubata e condita con doppi sensi a Striscia la notizia, un Tapiro d’oro e un’apparizione al Chiambretti Night, dove ha rivelato senza imbarazzo che il posto più strano dove ha fatto l’amore è stato «una cabina al mare». Soltanto tennis e così sia. Dovendole dare un soprannome perché i giornali sono fatti così, l’hanno chiamata “la leonessa”, cosa che neanche lei si spiega, ma guardando qualche fotografia dove ha la bocca spalancata e la criniera al vento, sembra proprio che ruggisca.

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Eppure questa donna appartata, tutta ossa e muscoli (è alta 1,66 e pesa 64 chili), asciutta, elastica e grintosa, una che bacia il campo, si sporca i calzini, si riempie la bocca di terra rossa, adesso è in prima pagina sul Wall Street Journal e all’improvvi-

so, ovunque, non ci sono abbastanza aggettivi per definirla, «geniale e selvaggia come certe femmine di Garcia Marquez», «un miracolo! bravissima! straordinaria!», «un diamante grezzo» , «eroica», «storica», mentre i giornalisti rincorrono i suoi ex alllenatori (Laura Golarsa, Gianfranco Tonello) e rievocano gli anni dell’infanzia, i primi passi, i campi del debutto, al tennis club del Gallaratese, che neppure esistono più. Francesca aveva otto anni e mezzo e viveva nel gigantesco condominio di via Cilea, il secondo più grande d’ Europa, cento e passa appartamenti, rimasti più o meno gli stessi, quando la mamma la portò a giocare per la prima volta. Con Daniela Porzio, ex numero uno d’Italia nel 1953, oggi orgogliosissima dei risultati: «Vedete, se va bene nella vita si può scoprire un campione. Ecco, lei è la mia». Dopo l’ultimo passo verso la finale, dopo aver superato Elena Dementieva, le ha mandato un messaggino sul cellulare: «Come ad ogni vittoria. Di tanto in tanto ci sentiamo, ma oggi lei è la storia del tennis italiano. Sapete una cosa? Non ha mai voluto imparare il rovescio a due mani. Ma lei era così, e ancora oggi lo fa a una mano sola».

Ha frequentato ragioneria, all’Omnicomprensivo. Andava benino, ma collezionava troppe assenze (colpa del tennis) e si capiva che aveva la testa altrove. Allora ha studiato da privatista, diplomandosi a Roma, perché un titolo di studio non si sa mai. E via con i ricordi di quando piangeva, di quando era disordinata, testarda, e con un carattere da leader, di quando faceva le gare di corsa, giocava a calcio con i ragazzi e spesso era capitano. Di quando stava per acchiappare la vittoria e invece perdeva, di quando litigava con gli allenatori e con i giornalisti, di quando i critici sportivi le preferivano qualche altra, più fotogenica e meno spinosa. Certo, è sempre stato difficile inquadrarla. C’è chi pensa che il suo non sia il tennis più bello del cir-

cuito, chi trova più divertente quello di Roberta Vinci (anche se più debole), chi loda il serve and volley della Martinez Sanchez, chi ha sempre amato Falvia Pennetta, amica e anche un po’ rivale, e chi prova una certa attrazione per l’ex doppista occhialuta Samantha Stosur, guarda caso avversaria di Francesca Schiavone nella finale. Adesso dicono: se fosse stata un uomo, si sarebbero accorti di lei molto prima, l’avrebbero cercata, viziata, coccolata. Avrebbero tirato fuori il meglio. Invece è andata avanti da sola, credendo in se stessa. In uno dei suoi grandi exploit, il leggendario quarto di finale allo Us Open del 2003, quello della partita contro Ai Sugiyama interrotta nove volte per pioggia e finita in prima pagina sul New York Times arrivò sul campo con la maglietta bianca, senza scritte: non aveva neanche uno sponsor. Oggi veste Lotto. Oggi, per uno di quei curiosi e inspiegabili meccanismi che governano il vento del successo, vogliamo sapere tutto di lei, vogliamo credere che sia umana, una di noi, e frughiamo un po’ nella sua vita. Regolare, persino monotona, per come la racconta lei: «La mattina un paio d’ore di atletica, poi duetre di allenamento. Pomeriggio almeno altre due-tre orette di allenamento» . Scopriamo che è tifosa dell’Inter, che adora le macchine veloci, che le piace mangiare (beata lei, che brucia calorie!), che legge molto (i legal thriller di John Grisham, le storie misticosimboliche Paulo Coelho, e chissà, forse il Guerriero della Luce le avrà insegnato qualcosa), che tra i tanti film, Il Gladiatore ha un posto speciale nella sua videoteca, che ascoltare la musica è il suo relax, ma non ha gusti troppo sofisticati, mette insieme senza problemi Mina e gli U2, Eros Ramazzotti e Shakira, (nell’ultimo album dedicato alle donne lupo, non alle leonesse, pazienza, ci sono strofe che sembrano scritte per lei). Scopriamo che quanto a uomini, ha la stessa idea di tutte le ragazze: lo vuole «intelligente, ambi-


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zioso, figo». Come una qualsiasi Carrie di Sex and The City. Una cosa è certa: Francesca Schiavone è sincera. Basta riascoltare le parole pronunciate un minuto dopo il trionfo, prima della festa negli spogliatoi, prima di diventare il nome più battuto dalle agenzie di tutto il mondo: «Le emozioni? Vengono dal cuore, fatico a raccontarvele. Un infarto. Ditemi voi cosa si prova il giorno del matrimonio: io oggi mi sono sposata da sola. Mi sono rivista ragazzina, mi sono sentita sola eppure circondata da tanto amore».

«Dicono che è un risultato storico continua - ma io oggi penso a me stessa, a questa vittoria speciale che immaginavo sin da piccola. È da tempo che tocco bene la palla, ma per vincere io devo sentirmi serena. Quando una cosa la ottieni con il lavoro di tutti i giorni, a 29 anni, è ancora più bella. Mangiare la terra è stato come rendere concreto un pensiero». «Francesca può farcela», ha scommesso Martina Navratilova, sua allenatrice prima di Wimbledon 2007. «Ora è più solida mentalmente, e quindi il suo tennis è più solido. Glielo dicevo: giochi bene, ma fai troppi errori. Adesso non sbaglia più i colpi che non deve sbagliare. E quello da sempre è il confine fra le fuoriclasse e le bravi giocatrici». In effetti, Francesca Schiavone avrebbe meritato di vincere altre volte e invece ha nel curriculum otto finali perse, a volte per un soffio, le più clamorose quelle di Mosca nel 2005 e di Sydney e Lussemburgo nel 2006. Oppure ai quarti di finale a Parigi e a Roma nel 2001, ai quarti di finale persi agli Us Open nel 2003, contro Jennifer Capriati alla semifinale. Il 2005 e il 2006 dovevano essere gli anni della

svolta, se lo sentiva. «Voglio vincere un torneo», prometteva. Invece nulla. Nel settembre 2006 ha vinto la Fed Cup, la Davis femminile, contro la Francia. Ma nessun titolo individuale. A 27 anni sembrava aver perso la strada e la grinta. Si sa, il tennis è un meccanismo molto delicato, basta poco per farlo saltare e occorre tempo per ritrovarlo. Ma lei ha tirato dritto, mescolando vittorie esaltanti a sconfitte che la riportavano indietro, salendo e scendendo nella classifica delle prime

la precisione nei colpi. Il commissario tecnico Corrado Barazzutti che lei chiama “the captain” l’ha ribattezzata ”gladiatrice”. E, tanto per rovesciare gli stereotipi, dietro una grande donna ci sono cinque uomini, una squadra. Oltre a Barazzutti («Adoro il fatto che non abbia alcun interesse nei miei confronti», lo ringrazia lei, «dà tanto, senza chiedere nulla in cambio, è in grado di fare del male se sa che questo serve per crescere»), il direttore del Centro Federale di Tirrenia Renzo Fur-

A 27 anni sembrava aver perso la strada e la grinta. Oggi la sua carriera si è ribaltata all’improvviso cinquanta. Diciassettesima.Venticinquesima.

La stagione, e forse la carriera di Francesca si è ribaltata all’improvviso, quando forse non ci sperava più (o forse non ha mai smesso di sperare che l’occasione giusta sarebbe arrivata, anche se circolavano voci di ritiro). Nel 2009 ha superato la Kuznetsova che da lì a poco avrebbe vinto il Roland Garros. Ha ritrovato la lucidità e

lan, l’osteopata Max Tosello, il preparatore atletico Stefano Barzacchi e il mental coach Giovanni Parmigiani («La mente è un muscolo che va allenato ogni giorno, come un bicipite o il dritto e il rovescio»), tutti per una. Attualmente gasatissimi.

Che conclusione può avere questa storia, che piace, perché sa tanto di sudore, onestà e meritocrazia? Di commovente rivincita? Di giusto premio,

Dall’under 18 al sogno-Parigi Francesca Schiavone, 166 cm d’altezza per 64 kg, nasce a Milano il 23 giugno 1980. Diventa professionista nel 1998, incoronata campionessa italiana under-18. Nel 2000 si qualifica per la prima volta in un torneo del Grande Slam (gli US Open) raggiungendo il 3° turno, nel stesso anno arriva in finale nel torneo di Tashkent. Nel 2001 partecipa a tutti i grandi tornei, arrivando ai quarti di finale al Roland Garros e agli Internazionali d’Italia e alle semifinali ad Auckland. Nel 2002 arriva al numero 23 del ranking femminile. Nel 2003 perde in semifinale al torneo di Los Angeles contro Kim Clijsters e arriva ai quarti di finale degli US Open, dove verrà sconfitta da Jennifer Capriati. Nel gennaio del 2004 sale al 14° posto del ranking WTA. Il 17 settembre 2006 vince, insieme alle compagne Pennetta, Santangelo e Vinci, la Fed Cup, sconfiggendo la squadra belga a Charleroi per 3-2. È la prima volta che la squadra italiana vince questo trofeo. Il 29 luglio 2007 vince il suo primo torneo WTA di singolare in Austria, conquistando il “Gastein Ladies”. Il 29 giugno 2009, arriva ai quarti di finale a Wimbledon divenendo la quarta italiana di sempre a raggiungere questo risultato. Il 3 giugno 2010, battendo Elena Dementieva nella semifinale del Roland Garros, diventa la prima italiana in assoluto a disputare una finale di un torneo del Grande Slam.

come spesso non succede? Francesca Schiavone è già sicura di finire il Roland Garros da numero nove del mondo (e Flavia Pennetta, l’amica-rivale tornerà numero dieci). In caso di vittoria nel torneo arriverebbe al sesto posto, un’ascesa che vale più di due Fed Cup. E poi ci sono i soldi, nella migliore delle ipotesi, 700mila euro. Più i contratti, la pubblicità, la visibilità che le è mancata (ma le è mancata davvero?), la felicità di un compleanno indimenticabile (i trent’anni scoccano il 23 giugno). E anche se sente passare il tempo e sta attenta a ogni piccolo segnale, come una bella attrice starebbe attenta alla prima invisibile ruga, continua a ripetere che il segreto, nel tennis è «innanzitutto divertirsi: è un gioco, che può diventare una professione, ma rimane un gioco. Poi l’impegno: la mia giornata assomiglia a quella di un impiegato. Mi nutro bene perché è molto importante, così come è fondamentale il riposo, per recuperare. Certo, è dura, come tutte le professioni, e anche lo stress è forte; bisogna ascoltarsi ed essere pronti per la competizione. A parte gli scherzi, continuerò a giocare fino a quando starò bene. E mi dicono che con questo fisico posso battere ogni record». Le donne, certe volte, arrivano tardi. E alcuni non riescono neanche a capire perché. Francesca Schiavone non ha molto in comune con le star del tennis internazionale: non tira forte, non ha il fisico Terminator, non riempie il campo, ma ha la pazienza. Questa sì è una dote molto femminile.


ULTIMAPAGINA Il caso. Luci e ombre sulla “diavoleria tecnologica” che sta scombussolando il ciclismo

Il giallo della bici di Nicola Accardo l fantasma del doping tecnologico spaventa il ciclismo, a un mese dalla partenza del Tour de France. La bici truccata col motore invisibile esiste, l’indiziato è l’unico che va forte come una moto, il più veloce di tutti, il campione del Mondo e olimpico a cronometro Fabien Cancellara. Prima erano solo rumori del web, ora l’Uci, la federazione internazionale, vuole vederci chiaro: convocata per la settimana prossima una riunione coi rappresentanti dell’industria del ciclismo. «Non è immaginabile un tentativo di inganno con un motore elettrico da parte di un professionista», ha detto il presidente Patrick McQuaid, ma l’indagine è aperta.

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Tutto cominciò venerdì 28 maggio, prima della tappa del Giro d’Italia a Brescia, quando l’ex corridore e commentatore tv Davide Cassani mostra alla Rai la diavoleria tecnologica: «L’ho provata, vi posso assicurare che con questa bici potrei vincere delle tappe al Giro nonostante abbia 50 anni». È una bicicletta apparentemente uguale alle altre, ma all’interno del tubo verticale del telaio c’è un motore silenzioso, lungo 22 cm, che aziona la pedalata assistita. Si avvia con un tasto situato sul manubrio. «Questa bici è stata certamente usata da professionisti, ma non so né quando né da chi». Gliela ha consegnata personalmente l’inventore del dispositivo. Le conferme arrivano da altri ex ciclisti: «Certo che esiste, l’ho vista l’anno scorso a Las Vegas, impossibile che i costruttori non ne siano ha conoscenza», ha detto il belga Johan Museeuw. La rivelazione di Cassani ha scatenato l’apoteosi sul web. Un giovane appassionato toscano, Michele Bufalino, posta un video in cui si osserva l’azione di Fabien Cancellara nelle due classiche di aprile, la Parigi Roubaix e il Tour des Flandres, entrambe vinte in sprint solitario dallo svizzero. Nelle due occasioni Cancellara sposta la mano destra sul lato del manubrio, fa un movimento netto con l’indice, come ad azionare il tasto scoperto da Cassani. Attenzione: Cancellara cambia marcia sempre con l’anulare, senza cambiare posizione alle mani. Quindi fa il vuoto dietro il suo avversario, accelera senza neppure sollevarsi dal sellino. Così il suo inseguitore al Fiandre Tom Boonen: «Andavo a 50 all’ora dietro di lui e non riuscivo ad avvicinarmi, era qualcosa d’incredibile». In una settimana su Youtube la versione in inglese del video fa un milione di contatti, e alcuni direttori sportivi ammettono: «I rumori circolavano già all’indomani del Tour des Flandres». Sono tutte ipotesi, bollate come «stupide» da Cancellara e respinte con forza dal suo team danese Saxo Bank, guidato Bjarne Riis, famoso per aver ammesso di essersi dopato per vincere il Tour de France nel 1996. Ma i sospetti non si limitano alle manovre sul manubrio e alle micidiali accelerazioni. Le due classiche, durissime, corse sul pavée tra pioggia e polvere, Cancellara le ha vinte fermandosi e cambiando bicicletta. Perfino il quotidiano ginevrino Le Temps ieri pubblicava un’inchiesta su questa pratica insolita. A Roubaix, Cancellara si giustifica con un problema a un raggio. Ma in tal caso, di solito, si cambia solo la ruota, precisa il giornale. Cancellara ostenta tranquillità durante il cambio di bici: «Sono sempre sereno, lo si vede sul mio volto, so come gestire queste peripezie». E infatti una

a MOTORE Tutto comincia il 28 maggio, prima della tappa del Giro a Brescia: Davide Cassani la mostra alla Rai. Da allora, sono forti i sospetti sulla performance di Cancellara alla Parigi Roubaix e al Tour des Flandres settimana dopo Roubaix, a Bruges, raddoppia: un cambio di bici è filmato dalla televisione, il secondo da un video amatoriale.

E succede qualcosa di strano: il suo meccanico non è sull’ammiraglia, come previsto dal regolamento, ma camuffato tra i tifosi in un punto del percorso che il corridore conosce bene. Cancellara si ferma, e con calma i due si scambiano le bici. Increduli alcuni direttori sportivi, tra cui Didier Rous, della francese Bouygues Télécom: «Sono momenti tesi, in cui è in gioco l’esito della gara. Si sa che un incidente meccanico può costare molto caro nelle corse classiche. Possibile che un direttore sportivo integro non chieda

quindi al suo corridore perché vuole cambiare bici senza motivo?». Davide Cassani non immaginava di scatenare una tale tempesta su Cancellara. Raggiunto al telefono mentre pedala con amici a Barcellona, si tira fuori dal gruppo dei sospettosi: «Le prove contro di lui sono superficiali, non bastano per tali accuse». Ma è fiero che il suo messaggio abbia funzionato: «Da persona che ama il suo sport, sentivo il dovere di avvisare i vertici del ciclismo dell’esistenza di questo dispositivo invisibile». Certamente scoprire un motorino è più facile di individuare nuovi farmaci dopanti. «Ora che ho lanciato l’allarme sarà difficile per i ciclisti fare i furbi. L’Uci farà sicuramente attenzione, basta pesare una bici per capire che qualcosa non va». E infatti l’Uci si è mossa: «Saremo obbligati ad accelerare le ricerche per trovare il modo di scannerizzare le bici», ha detto Wauthier, specialista tecnico della Federazione. Che avverte: «Abbiamo la certezza che circolano dei sistemi che funzionano a batteria. Ma sappiamo anche che vengono sperimentati meccanismi senza pile, di tipo fotovoltaico». Di solito, a luglio in Francia c’è il sole, il Tour è avvertito...


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