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he di cronac

Qualunque cosa tu possa fare, incominciala. L’audacia ha in sé genio, potere e magia Johann Wolfgang Goethe

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 16 GIUGNO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Garante Antitrust denuncia i ritardi dell’esecutivo sulla concorrenza

La vera manovra: «Bollette libere» Forte richiamo di Catricalà al governo: «Liberalizzare subito tutti i servizi. Solo così l’Italia potrà uscire davvero dalla crisi» di Errico Novi

Discutendo con Marini sul disagio nella sinistra

Non c’è più futuro per i popolari nel Pd

ROMA. Tira fendenti, non fa

Intesa a Pomigliano tra Fiat, Uilm e Fim

Accordo separato Ma la Fiom ha solo torto? Il confine tra diritto di sciopero e diritto al lavoro: Natale Forlani e Marco Revelli a confronto

di Enzo Carra

Mecucci e Paradisi • pagine 8 e 9

arini si è risvegliato, good morning Franco. E in una intervista al Corriere della Sera denuncia lo stato di disagio in cui vivono gli ex popolari all’interno del Pd. Veramente la cosa va avanti da tempo. Per accorgersene, meglio tardi che mai. In questi mesi le polemiche su questioni marginali hanno preso il posto di problemi ben più seri come la libertà di coscienza sui temi eticamente rilevanti. Si è parlato molto di feste de l’Unità che continuano a chiamarsi così. Ci si è appassionati alla storia del Grande Oriente d’Italia e alla presenza dei massoni nel Pd. Ma il vero confronto-scontro all’interno del partito è sui temi etici.

M

complimenti a nessuno. Attacca le banche e il governo, ma il problema centrale affrontato dalla sua relazione annuale è quello delle liberalizzazioni. «Accogliamo con favore le recenti dichiarazioni del governo sulla volontà di aprire una nuova stagione di liberalizzazioni. Ben vengano le riforme costituzionali utili al fine. Condividiamo la necessità di anticiparne gli effetti con legge ordinaria, che garantisca a chiunque il diritto di intraprendere senza oneri burocratici. Negli ultimi mesi abbiamo denunciato che la primavera delle liberalizzazioni si era prematuramente interrotta e il percorso riformatore procedeva con eccessiva lentezza». Insomma, sì alla modifica dell’articolo 41 della Costituzione ma, nell’attesa, ci sono cose che si possono fare anche subito. Riorganizzare poste, trasporti, energia e finanza, per esempio. a pagina 2

Duro attacco della Conferenza degli Enti locali al disegno del governo

«Incostituzionali e irricevibili»: le Regioni bocciano i tagli «La nostra è un’obiezione tecnica, non politica» dicono insieme Errani e Formigoni. Si apre una nuova, pesante grana per l’esecutivo di Franco Insardà

ROMA. Silvio Berlusconi non si sarebbe mai aspettato che i “suoi” governatori facessero fronte comune con quelli del centrosinistra per protestare contro la manovra tremontiana. Ieri mattina, invece, alla riunione straordinaria della Conferenza dei governatori è stato approvato all’unanimità un documento che definisce la manovra «irricevibile e incostituzionale» perché toglie alle Regioni i fondi ma non le funzioni. a pagina 4

Cameron presenta le conclusioni dell’inchiesta voluta da Blair

«Bloody Sunday fu un massacro» La verità arriva 38 anni dopo

PARLA SAVINO PEZZOTTA

«Ora voglio vedere che cosa dirà Bossi»

di Massimo Ciullo

di Francesco Lo Dico

LONDRA. La verità ufficiale arriva dopo 38 anni dai fatti e dopo dodici anni di inchiesta: nel «Bloody Sunday», la sanguinosa domenica del 1972 in cui i parà britannici uccisero 14 manifestanti per i diritti civili a Derry, in Irlanda del nord, furono i soldati ad aprire il fuoco per primi con «un comportamento ingiustificato e ingiustificabile», come ha spiegato il premier inglese Cameron.

ROMA. «Dopo aver inneggiato alla meritocrazia e alla virtù, al federalismo e alle grandi speranze, questo governo mette in atto un egualitarismo penalizzante che punisce tutti senza alcun criterio che non sia il fare cassa – commenta il deputato dell’Udc, Savino Pezzotta. Che a proposito del “pasticciaccio brutto” dei trasferimenti alle Regioni, aggiunge: «Con quest’ultima manovra, è come se questo governo avesse gettato la maschera. E di fronte a tali contraddizioni, non c’è populismo o sorriso d’ordinanza che tenga. Basti pensare che la Lega tace. Ecco, a questo punto, sono proprio curioso di sapere ora che dirà Bossi».

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segue a pagina 10 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

115 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 16 giugno 2010

Mercato chiuso. Dal garante parole dure sul deficit di concorrenza da cui non sono immuni le banche: «Troppi incroci nella loro governance»

Lo schiaffo dell’Antitrust

Ecco la rivoluzione delle bollette (secondo Catricalà): ripensare energia, trasporti, sanità e servizi pubblici per ridare fiato a imprese e famiglie di Errico Novi

ROMA. Tira fendenti, non fa complimenti a nessuno. Alle banche meno che mai. E dopo aver letto nella Sala della Lupa di Montecitorio la sua relazione annuale, il presidente dell’Antitrust Claudio Catricalà non si sottrae ai supplementari: «Alle banche ne abbiamo dette di tutti i colori, non abbiamo risparmiato nulla».Vero: al punto che poche ore dopo l’Abi sente il bisogno di diffondere alle agenzie di stampa una risentita puntualizzazione: non è vero, come dice il garante, che la clientela subisce le conseguenze di un mercato impaludato, vista «la diminuzione media delle commissioni, che è stata del 35 per cento sui conti correnti e del 41 su quelli non affidati». Secondo l’ Associazione degli istituti di credito anche gli spazi di mobilità sono in crescita: «Lo dicono i dati di Bankitalia». Nessuna risposta diretta però sulla questione di fondo sollevata da Catricalà nel suo intervento, svolto davanti al presidente della Camera Gianfranco Fini: quello della governance, degli intrecci societari e personali che frenano «le spinte concorrenziali, la contendibilità del controllo» con conseguente «indebolimento della disciplina di mercato».

Paese «non può pagare più il prezzo». E i settori in questione sono molti: «Le poste, i trasporti, l’energia, la finanza». Con un imputato su tutti, il governo, colpevole «di non aver ancora presentato il disegno di legge annuale sulla concorrenza». Non solo. Secondo il garante del mercato non è più tollerabile la situazione delle utilities “in house”delle amministrazioni locali: i servizi pubblici, dice, «rimangono saldamente in mano alle imprese ex municipalizzate e i meccanismi della competizione per il mercato stentano ad affermarsi». Va bene l’iniziativa assunta dall’esecutivo con la cosiddetta legge Ronchi, «ma il punto di

si disconoscono le buone intenzioni dell’Esecutivo, tanto è vero che all’inizio della relazione Catricalà trova il modo di esprimere il suo «favore» per le «recenti dichiarazioni del governo sulla volontà di aprire una nuova stagione di liberalizzazioni. Ben vengano le riforme costituzionali utili a tal fine», ma intanto, si può partire da una legge ordinaria, come affermato peraltro da Giulio Tre-

«Basta politiche anticompetitive, la legge di settore è in ritardo», secondo l’Authority. Allarme anche sulla banda larga

Lo stesso garante d’altronde rischia di avvalorare la sensazione di un affondo unidirezionale nei confronti delle banche che però non sarebbe aderente al vero. Catricalà se la prende infatti con «le politiche anticompetitive» di cui il

debolezza si nasconde dietro l’angolo ed è la facilità con cui possono insinuarsi proroghe».

In più c’è un passaggio severissimo su uno dei massimi luoghi di concentrazione delle politiche clientelari attuate in spregio dell’interesse collettivo, la sanità. «Non può essere l’albero della cuccagna dei fornitori privati», dice il presidente dell’Authority, che non esita a parlare di «beni e servizi spesso erogati in contesti collusivi, causa di oneri impropri a carico dei cittadini». Una sventagliata di accuse, inevitabile di fronte a una crisi che non consente più di tollerare privilegi, sacche protette, abusi. Non

monti: «Condividiamo la necessità di anticipare gli effetti di un intervento costituzionale con una legge ordinaria che garantisca a chiunque il diritto di intraprendere senza oneri burocratici. Lo strumento c’è», nota Catricalà, «le idee non mancano, occorre tradurle senza ulteriore indugio in norme e fatti concreti».

Ecco, passare dalle buone intenzioni ai fatti: è questo il punto, ed è in questo

Riflettori accesi anche su banche e telecomunicazioni

La relazione punto per punto Vediamo quali sono i punti salienti della relazione annuale prosentata ieri del presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà.

Liberalizzazioni. «Accogliamo con favore le recenti dichiarazioni del governo sulla volontà di aprire una nuova stagione di liberalizzazioni. Ben vengano le riforme costituzionali utili al fine. Condividiamo la necessità di anticiparne gli effetti con legge ordinaria, che garantisca a chiunque il diritto di intraprendere senza oneri burocratici. Negli ultimi mesi abbiamo denunciato che la primavera delle liberalizzazioni si era prematuramente interrotta e il percorso riformatore procedeva con eccessiva lentezza».

Concorrenza. «L’intensità degli intrecci azionari e personali tra imprese concorrenti costituisce una peculiarità nazionale che frena le spinte concorrenziali, riduce la contendibilità del controllo e attenua il

rapporto tra capitale di rischio investito e responsabilità nel settore bancario».

Banche. «Episodi come quello delle commissioni di massimo scoperto, abolite per legge ma sostituite dalle banche con oneri, certamente legali, ma più gravosi, non contribuiscono al recupero della fiducia dei risparmiatori. Anche il collocamento di carte di credito revolving è indicativo di un’attenzione rivolta solo alla redditività dell’impresa e non anche all’interesse della clientela». Banda larga. «Nel settore delle comunicazioni va recuperato il ritardo nello sviluppo della rete di nuova generazione per la banda larga. La dimensione degli investimenti richiede l’intervento di più soggetti privati e di società pubbliche: per tale ragione l’Autorità non è contraria alla cooperazione tra imprese rivali, purché siano garantite l’assenza di pratiche nocive per la concorrenza e la neutralità nella gestione della rete».

senso che la relazione dell’Antitrust può considerarsi critica anche nei confronti dell’Esecutivo. Tanto più che al centro del lungo passaggio dedicato dal garante al tema della concorrenza e delle perduranti politiche anticompetitive c’è appunto l’osservazione sui servizi pubblici locali. Settore nel quale la maggioranza rischia di scontare la posizione molto conservatrice della Lega, se è vero che il presidente dell’Authority vede il rischio delle proroghe, dietro il velo di decoro alzato dalla legge Ronchi. Certo, la riforma ha due punti di forza: «Impone l’obbligo generalizzato della gara e definisce direttamente a livello legislativo una precisa cronologia». Ma anche qui tocca passare alla fase attuativa: nello specifico, a quel regolamento che, come assicura un compiaciuto Raffaele Fitto, non deluderà le attese di Catricalà e che «dovrebbe essere approvato definitivamente prima della pausa estiva». A sua volta l’altro ministro coinvolto nell’iniziativa, il responsabile delle Politiche europee Andrea Ronchi, che alla riforma dà il proprio nome, rileva «l’estrema luicidità con cui il garante ha evidenziato l’obiettivo del governo: rompere i monopoli delle grandi municipalizzate. Un processo che questo Esecutivo ha avviato scontrandosi con veti ideologici e con l’opposizione di coloro che vedono in pericolo le proprie lobby affaristiche».


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Le modifiche che si possono fare senza toccare la Costituzione

Antonio for President La ricetta delle riforme

Se l’esecutivo seguisse le sue indicazioni, la crescita del Paese ne trarrebbe sicuramente grandi benefici di Carlo Lottieri el corso degli anni, l’azione dell’Autorità garante della concorrenza guidata da Antonio Catricalà ha presentato luci e ombre, dato che ad iniziative volte a favorire la competizione se ne sono aggiunte altre di taglio più demagogico, che andavano nella direzione opposta. Dopo una settimana in cui molti si sono interrogati sulle possibili virtù di un’apertura del mercato italiano (a seguito dell’uscita del ministro Giulio Tremonti sull’articolo 41), per il presidente dell’Antitrust la presentazione della Relazione annuale è stata un’occasione assai propizia per la richiesta di un nuovo indirizzo riformatore su tali temi. Catricalà non ha escluso l’utilità di interventi di correzione costituzionale, ma ha egualmente ricordato che su questi problemi moltissime cose si possono fare a Costituzione invariata: e quindi subito.

N

un mix delle due cose. La presa di posizione di Catricalà è importante perché stavolta, più che in passato, si focalizza su questioni strutturali. A ben guardare anche nell’ultima relazione l’Antitrust non manca di contestare esiti “a valle” (come quando mette sotto la propria lente, di nuovo, le commissioni bancarie di massimo scoperto); ma tali notazioni si collocano stavolta entro un quadro generale che contesta in primo luogo gli impedimenti legali alla concorrenza.

Richiamando l’attenzione su poste, trasporti, energia e finanza e sulla loro possibile trasformazione, ha messo il dito nella piaga

È chiaro, i veti ideologici sono quelli del Carroccio, e la loro persistenza non aiuta ad allontanare i timori del garante su una probabile scorciatoia a colpi di proroghe. Di obiezioni d’altronde ce ne sono su una vasta gamma di temi: per esempio sulla bada larga e i ritardi nel suo sviluppo: «Non siamo pregiudizialmente contrari a ipotesi di cooperazione tra imprese rivali, purché siano garantite l’assenza di pratiche nocive per la concorrenza e la neutralità nella gestione della rete». Con la riserva di «valutare le regole di governance». È forse questo uno dei punti sui quali l’Antitrust si mostra più ottimista, atteggiamento che però, secondo il deputato dell’Udc Roberto Rao, rientra in una comprensibile cautela: «La realtà è che il ritardo accumulato nella realizzazione della banda larga rischia di relegarci in una posizione da Paese sottosviluppato», dice il parlamentare, «e questo dalle parole di Catricalà lo si evince chiaramente». Sintonia si registra tra il garante e Luca Cordero di Montezemolo a proposito del settore ferroviario, «chiuso agli stimoli competitivi», come recita la relazione.Va istituito «un sistema di regolazione adeguato, senza il quale i vantaggi della liberalizzazione non potranno affermarsi». L’ex presidente di Confindustria apprezza e chiede che a tutelare l’apertura del mercato sia la stessa Authority di Catricalà: «Un ruolo che sarebbe perfetto». Ma l’amministratore delegato di Ferrovie Mauro Moretti obietta che «nel trasporto pubblico regionale recenti interventi normativi hanno di fatto rinviato sine die l’avvio delle gare e favorito gli affidamenti diretti». Ricordando così che le resistenze da vincere sono ancora notevoli.

Qui sopra, il presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà. In basso a sinistra, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Qui a destra, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi

Quando ha richiamato l’attenzione su poste, trasporti, energia e finanza, e ha domandato interventi legislativi di taglio liberale, il presidente dell’Antitrust ha messo il dito nella piaga. Si tratta infatti di settori in cui un soggetto pubblico continua a godere di protezioni legali insormontabili (è il caso delle poste), oppure in cui il sistema di regolazione e controllo è tale da rendere quasi impossibile l’accesso al mercato da parte di nuovi soggetti (come nel caso del credito), oppure in cui abbiamo

Se il governo seguisse

le indicazioni dell’Antitrust il Paese ne trarrebbe grandi benefici: poiché in linea di massima le famiglie risparmierebbero; perché le aziende si troverebbero ad acquistare servizi migliori e a prezzi inferiori, migliorando la loro competitività; perché si aprirebbero nuovi spazi per l’imprenditoria. A uscirne sconfitti sarebbero i titolari di posizioni protette, ma l’Italia non potrà salvarsi senza mettere in discussione quelle rendite di posizione. Se sul messaggio complessivo («ripartire con le liberalizzazioni») è facile essere d’accordo, è interessante che stavolta anche molte considerazioni più specifiche appaiano fondate. Sono molto corrette ad esempio le notazioni sulle poste – dove si ricorda che a partire da fine 2010 è necessaria l’eliminazione della riserva come strumento di finanziamento del servizio universale (un privilegio detenuto da Poste Italiane); aggiungendo che ora si deve “definire la cornice normativa all’interno della quale potrebbero svilupparsi innovative esperienze imprenditoriali”. Ugualmente opportuno è il richiamo alla necessità, a proposito del mercato del gas, di “aumentare la capacità di stoccaggio” e favorire l’attivazione di nuovi rigassificatori, e anche il via libera a cooperazioni tra imprese per la realizzazione della banda larga nelle telecomunicazioni.

Ma Catricalà va oltre e critica pure gli antichi vizi delle ex municipalizzate (molte colpe, in questo caso, sono delle classi politiche locali, che proteggono i loro poteri lottizzatori contro i diritti e gli interessi dei cittadini), i ritardi nell’apertura delle professioni, le incrostazioni in tema di trasporto ferroviario (un’osservazione che suscitato una stizzita reazione da parte di Mauro Moretti, amministratore di Ferrovie dello Stato). Qua e là riaffiora l’antico vizio dell’Antitrust di voler “costruire”un mercato dall’alto: sulla base di proprie attese, valutazioni più o meno populistiche, logiche da legislatore quando non addirittura da pianificatore. Ma ora che l’Europa dei debiti di Stato è in ginocchio, è positiva questa decisa richiesta di più spazi per l’iniziativa e meno posizioni tutelate. Speriamo che il governo sappia prestare attenzione a suggerimenti tanto opportuni.


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l’approfondimento

«La nostra posizione è solo costituzionale. Non segnata da ragioni corporative o di schieramento politico»

L’asse Errani-Formigoni

No delle Regioni (di destra e di sinistra) alla manovra. La conferenza dei governatori: «Non condividiamo né le misure né l’entità del taglio». Cota prima firma e poi si dissocia. Durissimo il presidente della Lombardia di Franco Insardà

ROMA. Silvio Berlusconi non si sarebbe mai aspettato che i “suoi” governatori facessero fronte comune con quelli del centrosinistra per protestare contro la manovra tremontiana. Negli occhi di tutti c’è ancora l’immagine del Cavaliere che “investe”i candidati, accompagnata da abbracci, sorrisi e strette di mano, e le feste dopo la conquista di Piemonte, Lombardia, Lazio, Veneto, Campania e Calabria.

Ieri mattina, invece, alla riunione straordinaria della Conferenza dei governatori, dedicata alla manovra correttiva, si è parlata la stessa lingua e si è approvato all’unanimità un documento che definisce la manovra «irricevibile e non sostenibile perché il peso dei tagli complessivo si carica sulle Regioni per oltre il 50 per cento e non corrisponde al contributo di ciascun comparto della Pubblica amministrazione». Per i governatori si tratta di una

manovra costruita «senza condivisione né nelle misure né sulle entità del taglio. C’è una situazione di assenza di coinvolgimento diretto pur dopo l’approvazione delle leggi di contabilità e finanza pubblica e di attuazione dell’art. 119 della Costituzione».

La difesa del ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto è sembrata davvero debole nel sostenere, ai microfoni di Sky Tg24, che «le Regioni si lamentano perché il governo con questa manovra, inevitabilmente dovendo aggredire il tema della spesa pubblica interviene con le Regioni, le Province, i Comuni e con i ministeri». Fitto ha sottolineato che «nella spesa dei trasferimenti non è toccata in alcun modo la grande voce della spesa sanitaria. Questo permette di avviare sul tema del federalismo un percorso chiaro. Le Regioni devono dare il loro contributo. L’approccio non deve essere quello di una

finanziaria ordinaria, ma di una manovra straordinaria». Non la pensano allo stesso modo, ovviamente, i governatori che nel documento hanno denunciato la riduzione «dei margini della riforma del federalismo fiscale sia nel percorso istituzionale previsto sia nei fatti con tagli lineari senza nessun concetto di premialità per i comportamenti virtuosi. Questo - si legge ancora nel documento - è un problema gra-

La prima “difesa d’ufficio” arriva dal ministro Fitto, ma è davvero debole

vissimo perché la Conferenza delle Regioni ritiene che occorre dare piena attuazione al federalismo fiscale come previsto dalle legge 42 del 2009 in tutte le sue parti».

Uno dei primi a lanciare l’allarme è stato Roberto Formigoni ribadendo ieri che la manovra così com’è «uccide il bambino nella culla. Mette seriamente a repentaglio il federalismo fiscale, di cui questo Paese

ha bisogno». Il governatore della Lombardia ha rilevato come la manovra contenga «oltre al danno anche la beffa. Ci tolgono le risorse per esercitare le funzioni, ma non ci tolgono l’obbligo di offrire i servizi, con un rischio di incostituzionalità: la Corte costituzionale ha detto che ci deve essere un collegamento diretto tra i servizi e i fondi che sono trasferiti». Per Formigoni si tratta di una manovra «non sostenibile né equa. Credo che il buonsenso e la ragione ci aiuteranno a cambiarla».

Il presidente della conferenza delle Regioni, Vasco Errani, ci ha tenuto a precisare che la loro è una posizione «istituzionale, non segnata né da schieramenti politici né corporativi: non stiamo tutelando le risorse delle Regioni, ma dicendo che i tagli avranno ricadute pesanti sulle persone, le famiglie e le imprese. Noi vogliamo una Repubblica federale in grado di


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Per l’esponente centrista, ormai è giunto il momento della verità sulla strategia economica

«E adesso, voglio proprio vedere che cosa faranno i leghisti» Per Savino Pezzotta, «con questo provvedimento, viene finalmente al pettine il nodo del presunto federalismo dell’esecutivo» di Francesco Lo Dico lle Regioni «vengono tolti i soldi ma non le funzioni: questo contraddice quanto disposto dalla Corte Costituzionale». Il primo potente affondo sui trasferimenti contenuti nella manovra economica è venuto dal governatore della Lombardia, Roberto Formigoni. Ma nel documento approvato all’unanimità dai governatori emerge uno scontento bipartisan: «La manovra è stata costruita dal governo senza condivisione né sulle misure né sull’entità del taglio – hanno fatto sapere i presidenti di Regione – riproponendo una situazione di assenza di coinvolgimento diretto». Un vero e proprio caos, dunque, che il deputato dell’Udc, Savino Pezzotta, aveva preannunciato da tempo. Onorevole Pezzotta, siamo alle solite. È l’ennesima puntata di quel “pasticciaccio brutto”chiamato federalismo fiscale. A questo punto è chiaro che è giunto il momento della verità. È da parecchio tempo che l’Udc denuncia i grandi limiti di una manovra incapace di rilanciare il volano dello sviluppo. Oltre ai tagli, occorreva pensare a crescita e riforme. E quello dei trasferimenti non è che l’ultimo giro di valzer di un governo che si manifesta del tutto incapace nel creare coesione sociale. È un governo che agisce contro se stesso, e la sua linea. Che predica federalismo, e razzola centralismo, lasciando le regioni in agonia. La Corte Costituzionale afferma infatti «che deve esservi un collegamento diretto tra le funzioni conferite e le risorse necessarie per il loro esercizio». Che tradotto, vuol dire che in assenza di modifiche, si fa il federalismo fiscale senza i soldi necessari a servizi primari come sanità e trasporti. Ossia a spese dei cittadini. La situazione lombarda, come quella di molte altre regioni, si fa assai complicata. Ma sono in pericolo anche gli aiuti alle imprese. Come è possibile affidare compiti a enti che non hanno risorse per svolgerli? Le reazioni, probabilmente dettate da motivazioni differenti, accomunano i governatori di centrodestra, come quelli di centrosinistra. Non è proprio così, a voler essere ben attenti. Sui trasferimenti c’è un silenzio quanto mai sorprendente ed emble-

A

matico. La Lega tace, nonostante la sua “ragione sociale”, quella federalista, appaia fortemente in bilico. I governatori padani tollerano senza un cenno di reazione una manovra antifederalista che colpisce i cittadini nei loro rispettivi territori. È come se per la Lega il federalismo fosse diventato

«Quello dei trasferimenti è l’ultimo giro di valzer di un governo allo sbando» il “Sol dell’avvenire”, il grande sogno che giustifica piccoli e grandi orrori sulla strada del “grande avvento”. Ma c’è qualcos’altro di rilevante, dietro questa faccenda. Dica pure. Dopo aver inneggiato alla meritocra-

zia e alla virtù, questo governo mette in atto un egualitarismo penalizzante che punisce tutti senza alcun criterio che non sia il fare cassa. Con quest’ultima manovra, è come se questo governo avessegettato la maschera. E di fronte a tali contraddizioni, non c’è populismo spicciolo o sorriso d’ordinanza che tenga. È come se fosse crollato un enorme palco di cartapesta, allestito per tenere buona la gente. Formigoni ha fatto notare come la manovra taglia completamente i fondi per la famiglia, pari a 130 milioni: «Non erano tanti – ha detto – ma vengono completamente spazzati via». Il governo sbaglia a porre in essere tagli orizzontali. Questa manovra agisce in termini uguali per tutti ed è un errore. Non si può certo pensare che le famiglie abbiano tutte le stesse esigenze; tagliare ad uno statale single è ben diverso che farlo a discapito di uno che ha famiglia a carico. Da questo punto di vista ha perfettamente ragione il cardinale Bagnasco quando ipotizza che la crisi possa avere effetti negativi sul numero di figli nelle famiglie italiane. Ma anche le lamentele di Formigoni, meritano una breve annotazione. Annoti pure. Il governatore ha fatto dei rilievi molto ragionevoli e fondati, certo. Ma a che cosa condurranno queste querimonie, se non a una tiepida contestazione di facciata? Se davvero Formigoni intende spendersi per modificare la manovra, deve mettere in campo progetti concreti, e reazioni vere. Dimostri con i fatti, che ha a cuore una modifica del provvedimento in senso sociale. Forse la manovra era inevitabile. Ma almeno questo strano pasticcio poteva essere evitato? Anche io, è ovvio, sono d’accordo che fosse necessaria una manovra di controllo del debito, ma non si può certo paragonare la nostra situazione a quella della Grecia. Se accadesse a noi quello che è accaduto lì, ci sarebbe stato uno smottamento ben più significativo all’intero dell’Ue. Al netto delle denunce di inconstituzionalità e i gravi pericoli per i servizi di base dei cittadini, qual è la sua opinione sulla politica economica del governo? C’è una sostanziale continuità tra la politica economica del governo Prodi e quella di questo governo. Noi eravamo contrari a quella come siamo contrari a questa. Se i tagli non vengono bilanciati con gli investimenti non andiamo da nessuna parte. E questo federalismo, non fa altro che mandare al tappeto il Paese.

dare risposte al Paese con efficienza e con qualità, sapendo che spetta anche a noi attuare una sorta di autoriforma». Anche Renata Polverini ha usato toni molto duri: «Non ci limiteremo al documento comune e agli incontri con le parti sociali, ma presenteremo una serie di emendamenti». Il governatore del Lazio ha aggiunto che «l’elemento centrale di questa iniziativa è che si è trovato una compattezza e unitarietà rispetto al documento che è stato varato. L’obiettivo delle Regioni non è quello di continuare a tirarsi fuori da una manovra che riteniamo utile, in questo contesto europeo, ma vogliamo vedere partecipare in maniera equa tutti i comparti dello Stato. Oltre metà della manovra è sulle nostre spalle e i tagli che vengono fatti ai ministeri, non mi sento di escludere, potranno ricadere ancora una volta sulle Regioni. Siamo in attesa del tavolo che il governo dovrebbe aprire. Con questa manovra si rischia di vanificare la lotta agli sprechi che molti governatori stanno mettendo in campo. Con questa manovra le Regioni saranno costrette ad aumentare le tasse o a ridurre i servizi. Siccome le tasse non possiamo aumentarle, avremo difficoltà a garantire i servizi».

La riunione di ieri mattina che ha avuto uno strascico di polemiche, sollevate dalle posizioni espresse dal governatore leghista Roberto Cota, che non ha partecipato alla conferenza stampa ed è alle prese anche con il ricorso al Tar per la sua elezione. «È assurdo dire che questa manovra mette a rischio il federalismo fiscale- Quello che mi preme sottolineare – ha detto Cota - è che non vengano colpite le Regioni “virtuose” e che ci siano differenziazioni con quelle meno virtuose. In questo senso abbiamo colto la disponibilità del governo». A queste parola è seguita una secca replica di Errani: «Il documento che definisce “irricevibile” la manovra economica e nel quale si sostiene che questa mette a rischio il federalismo fiscale l’ha firmato anche lui ed è stato discusso riga per riga». Il governatore dell’Abruzzo Gianni Chiodi ha voluto chiarire che «le Regioni virtuose sono quelle che contribuiscono a migliorare la situazione ereditata e contribuiscono al risanamento dei conti pubblici». I governatori di Lazio ed Emilia Romagna Polverini ed Errani, ci hanno tenuto a precisare che nel documento varato dalla conferenza delle regioni si parla di «comportamenti virtuosi e non di Regioni virtuose». I governatori, comunque, sono intenzionati a non mollare e, dopo il confronto di ieri pomeriggio con i sindacati e la Confindustria, questa mattina incontrano i capigruppo parlamentari di maggioranza e opposizione.


diario

pagina 6 • 16 giugno 2010

Bavagli. Ieri ennesime spaccature all’interno della maggioranza. Oggi nuovo vertice del partito a Palazzo Grazioli

Intercettazioni, ancora liti nel Pdl Anche l’Ocse contro il ddl: «Ostacola il giornalismo investigativo»

ROMA. Si comincia subito, ma non per far presto. Questo simpatico enunciato è farina del sacco di Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia della Camera e fedelissima finiana, e si riferisce all’annosa questione del ddl intercettazioni. La terza lettura del disegno di legge Alfano inizierà domani proprio con la relazione sul testo dell’avvocato di Fini e si appunterà sulle modifiche, rilevantissime peraltro, introdotte in Senato. Il problema dei tempi, sollevato lunedì dal presidente della Camera («prima la manovra»), è però in realtà assolutamente secondario: Montecitorio, anche approvando prima il decreto sui conti pubblici, avrebbe tutto il tempo di procedere all’esame del ddl intercettazioni tra l’ultima settimana di luglio e la prima di agosto. La Camera infatti, prima della pausa estiva, dovrebbe lavorare fino a venerdì 6, esattamente come il Senato: Fabrizio Cicchitto, capogruppo di un Pdl con endemici problemi di assenze, ha inviato una lettera a tutti i suoi deputati per chiarire che dovranno restare a Roma finché c’è aula, niente vacanze anticipate. Ci fosse l’accordo politico tra tutte le componenti della maggioranza, il ddl potrebbe persino essere modificato in alcuni punti selezionati in commissione e poi essere approvato a passo di carica dall’assemblea per poi passare al rapido, e definitivo, ok del Senato, sempre prima delle vacanze estive. La legge su Eluana Englaro sta lì a dimostrare che se la maggio-

una revisione del farraginoso meccanismo della proroga delle intercettazioni ogni 72 ore dopo i primi 75 giorni continuativi, un ammorbidimento su multe agli editori e divieto di pubblicare atti di indagine anche quando non coperti da segreto (ieri persino l’Osce ha pianto «la fine del giornalismo investigativo in Italia»), un deciso cambio di rotta sulle intercettazioni ambientali (sottoposte a restrizioni in “luoghi privati”) e l’esclusione dai nuovi vincoli temporali per quelli che chiamano i “reati

All’incontro con Berlusconi saranno presenti i coordinatori e i capigruppo del Popolo della libertà, il ministro Alfano e Nicolò Ghedini ranza è compatta si può approvare di tutto con grande, persino eccessiva, rapidità.

E qui sta il punto. Al di là delle opposizioni, tutte decisamente contrarie a questa legge, il problema è la convivenza tra Fini e Berlusconi e, a sua volta, tra quest’ultimo e l’intero sistema istituzionale repubblicano. Riassunto. I finiani, incoraggiati in questo da una serie di rilievi informali fatti pervenire dal Quirinale al ministro della Giustizia, chiedono altri cambiamenti:

luscones. «Argomenti risibili e inappropriati - ha scandito Bondi - sia quando chiamano in causa il Pdl sia, ancor più, le libere e insindacabili decisioni del capo dello Stato». Un inedito Rotondi è arrivato addirittura a ventilare il «tutti a casa» se non passa subito la legge («ma ci faccia il piacere» gli ha risposto il magazine di Farefuturo). Insomma, la vicenda è complicata. Il povero ministro Alfano, di suo, sarebbe anche un uomo riflessivo e incline al dialogo, ma il Cavaliere non vuole trattare in alcun modo: è convinto che le sue concessioni a palazzo Madama siano state più che sufficienti, ora è il momento di approvare il ddl (anche la Lega spinge in quella direzione: stare sui giornali come sostenitore di una legge del genere non è una pubblicità che Bossi gradisca).

di Marco Palombi

spia” della criminalità organizzata (usura, traffico di rifiuti, eccetera). Il capo dello Stato, peraltro, avrebbe fatto pervenire al governo non solo i suoi rilievi di merito, ma anche tutto il suo disagio per un ddl che - così com’è - coagula attorno a sé l’opposizione di una serie incredibile di categorie sociali, non ultime magistratura e forze dell’ordine. I finiani - Briguglio e Bocchino esplicitamente - continuano a ventilare una bocciatura presidenziale della legge, ma si attirano le contumelie dei ber-

Masi presenta i palinsesti Rai alla Vigilanza

«Dandini a rischio» ROMA. La Rai è contraria a rendere pubblici attraverso i titoli di coda delle diverse trasmissioni, i compensi di conduttori e ospiti. È stato lo stesso direttore generale Mauro Masi a ufficializzare questa posizione dell’azienda durante l’audizione di ieri in commissione di Vigilanza, con tema dominante il nuovo contratto di servizio ma anche gli argomenti di stretta attualità riguardanti le vicende Rai. «Siamo qui per ascoltare le ragioni dell’azienda su una serie di problemi che non sono chiari soprattutto all’opinione pubblica. Non sarà un processo – ha detto il presidente della commissione di Vigilanza, Sergio Zavoli prima dell’incontro con Masi -, è un ascolto e per questo si chiama audizione». L’emendamento che prevede la pubblicazione dei compensi era stato approvato proprio dalla com-

missione di Vigilanza. E prevede che le singole retribuzioni e i costi di produzione dei programmi in onda sulla Rai, che siano approfondimenti, telegiornali o puro intrattenimento, siano trasmessi nei titoli di coda, compresi i pagamenti stabiliti per gli ospiti e gli opinionisti. Poi, parlando del palinsesto della prossima stagione, Masi ha anche detto: «La prossima stagione tornerà X Factor il lunedì o il giovedì se non ci sarà Annozero che come sapete è un tema a parte. Su Rai Tre ha aggiunto spicca il programma Vieni via con me, con Saviano e Fazio, i cui tempi e modi sono da concordare con direttore di rete e conduttore. Per il programma della Dandini la configurazione è da definire, tenendo presente la necessità di trasmettere i programmi sui 150 anni dell’Unità d’Italia».

Oggi si discuterà la strategia in un vertice a palazzo Grazioli, presenti coordinatori e capigruppo del Pdl, Alfano e Ghedini, questi ultimi gli sherpa che stanno conducendo la trattativa con Fini anche sul possibile futuro assetto del partito. Ieri, comunque, non tirava aria di pace. Berlusconi sarebbe convinto - lasciano filtrare i suoi - che alla fine Giorgio Napolitano finirà per firmare la legge: le sue obiezioni, dice in giro l’ala guerriera del Pdl, non sono così importanti da spingerlo a rinviare il testo alle Camere. In ogni caso, è la minaccia che si agita dalle parti di palazzo Chigi ed anche la cosa che più teme Gianfranco Fini, anche se il presidente della Repubblica non firmasse la legge la maggioranza la riapproverebbe tale e quale (e a quel punto la firma è obbligatoria). Per l’arcipelago del presidente della Camera questo scenario sarebbe una catastrofe: i finiani si troverebbero cioè nella condizione di dover scegliere tra crisi di governo (ed espulsione dal partito) oppure il gentile inchino al Cavaliere mentre spara contro il capo dello Stato. «Noi siamo il vero partito di Napolitano», continuano a ripetere quelle. «Sulle intercettazioni non credo proprio che ci saranno modifiche», vaticinava ieri il sottosegretario alla Caliendo. La partita a poker attorno alla firma del capo dello Stato continua ancora per qualche giorno.


diario

16 giugno 2010 • pagina 7

La Corte di Giustizia rigetta il ricorso fatto da Mediaset

Presentato ieri a Roma il rapporto del Centro studi economici

L’Ue insiste: da rimborsare gli «aiuti» per il decoder

Sanità, nel 2009 cure troppo costose per 5 mln di italiani

BRUXELLES. Il conflitto d’interessi che in Italia ormai passa sotto silenzio, continua ad essere sanzionato in Europa. La Corte di Giustizia Ue, infatti, ha respinto il ricorso presentato da Mediaset dichiarando che «il contributo italiano concesso per l’acquisto o la locazione di decoder digitali terrestri costituisce un aiuto di Stato e deve essere recuperato». Un aiutino di Stato del governo Berlusconi all’azienda di Berlusconi. Secondo il tribunale di Lussemburgo, infatti, «la misura non è neutra dal punto di vista tecnologico e attribuisce alle emittenti digitali terrestri un vantaggio diretto a danno delle emittenti satellitari». Come si ricorderà, nell’ambito del processo di conversione dei segnali televisivi al sistema digitale, la legge finanziaria del 2004 aveva previsto un contributo pubblico di 150 euro per ogni utente che avesse acquistato o locato un apparecchio per la ricezione di segnali televisivi digitali terrestri. Lo stesso aiuto veniva rifinanziato, nel 2005, per un importo ridotto a 70 euro. A seguito di denunce presentate da emittenti satellitari (in particolare, Europa 7 e Sky), la Commissione ha avviato un procedimento formale di indagine e, nel 2007, ha qualificato il contributo come

ROMA. Cure «difficili» o un «mi-

La “deregulation” della tessera del tifoso Ecco come i contratti eludono il Garante della Privacy di Maurizio Martucci on è un obbligo di legge, ma i Club ne seguono il programma come se lo fosse: «Le Società potranno accettare la sottoscrizione di un nuovo abbonamento solo da chi è in possesso della Tessera del Tifoso. La mancata attuazione dovrà essere considerata alla stregua di carenze strutturali degli impianti, sino alla chiusura agli spettatori nei casi ritenuti più gravi». Lo dice il ministro dell’Interno Roberto Maroni: se i supporters di Serie A, B e Lega Pro non aderiscono alla Tessera del Tifoso, stadi chiusi! La Direttiva 555/2009 suona più o meno come un ultimatum, anche se la Legge 41/2007, varata per arginare la violenza nel calcio dopo la morte dell’Ispettore Raciti, non disciplina né accenna alla Tessera del Tifoso. Anzi, l’articolo 9 è al vaglio del Tar del Lazio per un dubbio d’incostituzionalità, visto che vieta biglietti e abbonamenti ai destinatari di Daspo e ai condannati (anche di primo grado) per reati da stadio. Ci pensate? Dopo lunghe trafile in tribunale, uno dimostra la propria innocenza con l’assoluzione in Cassazione, ma non entra allo stadio. Un altro prende un Daspo nel 1989 per un fumogeno galeotto, oggi è Direttore di banca e buon padre di famiglia, ma non gli danno l’abbonamento. Alla faccia del garantismo e dello stato di diritto!

N

anni: se sei un ozioso o un vagabondo abituale, un dedito a traffici illeciti, vivi di proventi da favoreggiamento, sei proclive a delinquere e a sfruttare la prostituzione, esercitando il contrabbando o il traffico di sostanze stupefacenti, niente fidelity card. Insomma, allo stadio solo col casellario giudiziale immacolato.

Privacy e micro-chip. Pronunciandosi sugli usi della tecnologia a Radio Frequency Identification (per la identificazione automatica di oggetti, animali o persone), lo scorso 9 marzo 2005 il Garante della Privacy ha affermato che «determinati impieghi possono costituire una violazione del diritto alla protezione dei dati personali ed avere serie ripercussioni sull’integrità e la dignità della persona, anche perché il trattamento dei dati personali attraverso Rfid può essere effettuato all’insaputa dell’interessato, limitandone le libertà. Attraverso l’impiego della Rfid, potrebbero raccogliersi dati sulle abitudini dell’interessato a fini di profilazione e tracciare i percorsi effettuati, individuandone la posizione geografica». Neanche a farlo apposta, come da Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive, la Tessera del Tifoso monta micro-chip a Rfid. Rodotà prescrive le misure a garanzia della privacy, tra cui il principio di necessità (si può usare Rfid solo per le necessità «strettamente necessarie in relazione alla finalità perseguita», cioè solo per tracciare l’ingresso allo stadio e non per spiare gli spostamenti dei titolari) e di informativa («chiara evidenza deve essere data anche alle modalità per asportare o disattivare l’etichetta o per interrompere in altro modo il funzionamento del sistema Rfid»). Cosa dicono i contratti dei Club? Prendiamone dieci: carta Goal Member (Palermo), Samp Card (Sampdoria), Robur Senese (Siena), A.S. Roma Club Privilege (Roma), Cuore Rossonero (Milan), Siamo Noi (Inter), Cuore Rossazzurro (Catania) e poi Varese, Figline, Modena. Nessuna traccia dell’Rfid né delle prescrizioni di Rodotà. Sarebbe stato troppo. Meglio pensare ai Mondiali in Sudafrica e alle telecronache pay-per-view (in Hd).

Non è un obbligo di legge, ma per i Club è come se lo fosse: le Società rilasceranno nuovi abbonamenti solo a chi ha la carta

aiuto di Stato a favore delle emittenti digitali terrestri che offrivano servizi di televisione a pagamento, in particolare servizi «pay per view», nonché di operatori via cavo fornitori di servizi televisivi digitali a pagamento.

Mediaset ha annunciato che «si riserva un’attenta lettura» delle motivazioni della sentenza ma ha l’intenzione di proporre l’impugnazione alla Corte di Giustizia Europea. In una nota, l’azienda di Silvio Berlusocni ribadisce che «i contributi pubblici ai decoder per il digitale terrestre sono stati erogati direttamente ai consumatori e non ai broadcaster».

Contratti all’italiana. Dal vuoto legislativo al caos diversificato il passo è breve. Basta sfogliare i giornali o ascoltare le radio. Se ne dicono di tutti i colori: «La Tessera del Tifoso è obbligatoria per legge.Anzi no, anzi sì, solo per i nuovi abbonati. No, è per le trasferte nei settori ospiti. Solo in A e B. No, pure in Lega Pro. No, anche per i biglietti in casa». Risultato? Una giungla nei moduli di adesione, i contratti per i tifosi poi al vaglio della black list della Questura. Ce n’è per tutti i gusti. Il Modena richiede una dichiarazione sostitutiva per certificare l’assenza di carichi pendenti, scavalcando pure la L. 41/07: basta solo una denuncia, nemmeno una condanna in primo grado, per respingere la richiesta di un aspirante tesserato. Il Varese e il Figline hanno rispolverato la Legge 1423/1956, vecchia di 44

raggio» per colpa della crisi. In tutto «si può presumere che siano oltre 5 milioni gli italiani che hanno avuto problemi di diversa entità nell’accesso alle cure nel corso del 2009». È uno dei dati più significativi del Rapporto Ceis Sanità 2009 presentato ieri a Roma. Giunto alla sua settima edizione, il lavoro del Centro studi economici e internazionali della facoltà di Economia dell’università Tor Vergata della Capitale indica inoltre che la spesa sanitaria italiana «può considerarsi ormai sotto controllo, forse anche troppo». La nostra spesa pro-capite, infatti, è oggi del 17,6 per cento inferiore a quella dell’Europa a 15 e addirittura di quasi il doppio più bassa di Pae-

si extraeuropei come il Canada, il Giappone e gli Usa.

Il rapporto fotografa anche le ripercussioni di questo evidente gap di finanziamento del sistema sanitario, ancor più evidente in considerazione della crisi economica esplosa nel 2008, sul budget familiare destinato alla salute. Tre dati su tutti aiutano a comprendere la situazione. In Italia 338.000 nuclei familiari, pari ad oltre 1 milione di persone, sono stati soggetti a fenomeni di impoverimento a causa di spesa sanitarie o sociali, soprattutto per problemi di non autosufficienza. Altre 992.000 famiglie, per un totale di circa 3 milioni di persone, sono state costrette a sostenere spese per la sanità molto elevate rispetto ai propri redditi. In 2.600.000 famiglie, infine, almeno un componente ha dovuto rinunciare a sostenere spese sanitarie per il peso economico che avrebbero comportato. In tutto, quindi, si può presumere che siano oltre 5 milioni gli italiani che hanno avuto problemi di diversa entità nell’accesso alle cure nel corso del 2009. Per questo, si legge nel rapporto, serve al più presto un «significativo intervento regionale a copertura della spesa» sanitaria.


economia

pagina 8 • 16 giugno 2010

Il caso di Pomigliano e la risposta del sindacato secondo Natale Forlani

«Possibile che solo la Fiom non si sia accorta della crisi?»

«La difficoltà ad attivare imprese in Italia non deriva dall’articolo 41 della Carta. Sono altri i fattori che incidono, a partire dal costo del lavoro» di Riccardo Paradisi

ROMA. Natale Forlani oggi è amministratore delegato di Italia Lavoro, l’agenzia tecnica governativa per le politiche attive dell’occupazione, ma Forlani è stato segretario confederale della Cisl per molti anni. Ne ha viste di trattative delicate, di passaggi stretti per il sindacato, di bracci di ferro come quello che contrappone oggi la Fiat e la Fiom a Pomigliano d’Arco. Forlani non nasconde che la situazione sia pesante ma attribuisce alla Fiom un irrigidimento sulle posizioni del rifiuto alla firma del contratto che rischia di compromettere la permanenza degli impianti produttivi a Pomigliano. La Fiom dice di non comprendere il fatto per cui la Fiat per fare investimenti voglia cancellare i contratti e le leggi del nostro Paese. Ecco, io partirei proprio da questa affermazione che mi pare quanto meno colorita. La Cgil ha una lunga storia di artisti e di drammaturghi che si dilettano sempre a dipingere come attentato ai diritti fondamentali dei lavoratori quelli che sono più semplicemente dei tentativi di riforma. È accaduto con la legge Biagi, con l’articolo 18, con le proposte di riforma del sistema pensionistico e dell’età pensionabile: sarebbero tutti attentati ai diritti fondamentali del lavoro. A me invece appaiono come tentativi di difendere della tutele – sull’opportunità delle quali si può anche discutere naturalmente – non dei diritti fondamentali. Eppure la stretta sugli orari, le condizioni sulle assenze, i giorni di malattia nella bozza di contratto sembrano piuttosto severe. Si ma queste condizioni sono quelli degli operai tessili di tutta Italia per esempio e ci sono precedenti in questo senso nel settore della chimica. Anche in questo caso a me pare che il tema degli orari e dello sfruttamento intensivo della manodopera e della produzione sia brandito in modo improprio. Peraltro Pomigliano d’Arco non ha una storia di azienda propriamente virtuosa. È vero, negli ultimi tempi ha migliorato molto le sue condizioni ma rispetto alle altre aziende Fiat è stata sempre un po’ indietro. Scommettere oggi su Pomigliano d’Arco significa investire anche sulla produttività. Resta tuttavia la denuncia più eclatante della Fiom, i provvedimenti disciplinari fino al li-

cenziamento per il lavoratore che aderisce a uno sciopero che, in qualsiasi modo, metta in discussione l’accordo. Ad esempio perchè contesta i ritmi di lavoro o gli straordinari: «La valutazione – secondo la Fiom – sarebbe a totale discrezione dell’azienda, che in questo modo deroga all’articolo 40 della nostra Costituzione» Quanto al diritto di sciopero c’è sempre una vecchia questione che ha interessato il mondo sindacale e che riguarda il vincolo che pone un accordo particolare come quello di Pomigliano. Come sindacato mi impegno a spendermi nell’accordo che ho fatto mettendo come ultima

Nei periodi di recessione gli elementi delle ristrutturazioni diventano molto più duri rispetto ai tempi ordinari. Si tratta di trovare il punto d’equilibrio

istanza la possibilità di indire degli scioperi, subordinando questa possibilità a un’azione che porta a un contratto collettivo. Ma una parte del sindacato considera questa opzione come la soppressione di un diritto strettamente individuale. Queste contrapposizione tra accordi contrattuali e diritti inviolabili nasconde molto probabilmente un’ idiosincrasia a firmare l’accordo da parte di una parte radicalizzata della Cgil. Si perché nella Cgil c’è anche una tradizione di categorie unitarie che hanno sempre avuto una qualità di relazioni sindacali riformiste, si tratta di quei settori produttivi sottoposti alla concorrenza internazionale che nelle trattative fanno sempre leva sulla reciprocità per restare competitivi. Ecco, nella tradizione della Cgil c’è questo patrimonio, ma quando il confronto sindacale si politicizza accade che una costola di quel sindacato come la Fiom radicalizza le posizioni. Il problema è che il giorno che per caso la mancata firma del contratto si dovesse tra-

sformare nella chiusura di Pomigliano d’Arco la Cgil verrebbe investita da una polemica sociale furiosa. Resta però un dato Forlani, è evidente che il contesto generale di crisi e di rischio recessione ha inciso in termini negativi sulle condizioni del contratto. Se non proponendo una sospensione del diritto di sciopero arrivando comunque a erodere o almeno toccare dei diritti acquisiti. Questo è indubbio ma è una costante che nei periodi di forte crisi gli elementi delle ristrutturazioni diventano molto più duri rispetto ai tempi ordinari. Ma questo è un dato strutturale, un dato negativo naturalmente ma contro cui è sterile darsi all’esercizio della deprecazione. È vero, esiste un movimento generale che fornisce diciamo così spiegazioni o alibi a dei giri di vite sui diritti acquisiti o su alcune tutele. Ma è in questi momenti critici che si deve capire appunto cosa è fondamentale e cosa è vessatorio. Il fatto è che più aumenti il livello di deterioramento più la possibilità di rimontare è problematico. Insomma trattare sotto la spada di Damocle dell’aut-aut, del si firma l’accordo o si chiude la baracca è brutto, però diciamoci la verità: a Pomigliano si poteva fare di meglio nel passato, si poteva fare come ha fatto Melfi, dimostrando maggiore duttilità. Ora si è di fronte al rischio di rimanere fermi in un angolo mentre si tratta di capire qual è il punto di equilibrio. Sta di fatto che l’effetto pratico di un mancato accordo sarebbe devastante. Non dimentichiamoci peraltro che fino a poco tempo fa si dava per scontato che con l’operazione Crysler alcuni stabilimenti italiani come Pomilgiano venissero chiusi e si prospettavano scenari di operazioni draconiane. Adesso non so cosa ha fatto cambiare idea alla Fiat ma temo che davvero l’alternativa all’accordo sia la chiusura. Prima il presidente del consiglio Belrusconi poi il ministro Tremonti hanno sostenuto che la modificazione dell’articolo 41 della Costituzione, che prevede la funzione sociale dell’impresa, sia un ostacolo al mercato. In via generale non credo che le difficoltà ad attivare imprese in Italia derivi dall’articolo 41. Sono altri i fattori che incidono, a partire dal costo del lavoro. E poi se si vuole fare lo sportello unico del lavoro lo fa.

Le analogie con il 1980

C aro Ep ifani , f ai co m e La ma firma questo con tratto… di Giuliano Cazzola e mai Sergio Marchionne volesse un consiglio non avrei il minimo dubbio a suggerirgli di rimanere in Polonia, se la Fiom non dovesse sottoscrivere l’intesa per lo stabilimento di Pomigliano d’Arco alle condizioni previste nell’accordo siglato dagli altri sindacati. A questo proposito è bene fare un po’ di chiarezza, prima di procedere oltre, sulle questioni aperte in quella vertenza. L’Italia è un Paese ammalato di retorica, sempre pronto ad individuare oscure trame, percorsi perversi ad opera della solita reazione in agguato. Ne deriva che certi settori della sinistra immaginano (i loro giornali lo scrivono) che ci sia un «filo rosso» tra le dichiarazioni di Berlusconi sull’articolo 41 della Costituzione, l’inno alla libertà d’impresa intonato da Tremonti e la linea di condotta della Fiat a Pomigliano. In sostanza, secondo loro (ahinoi!) la Fiat fa da apripista ad un disegno che si propone di sovvertire tutto quanto è sovvertibile: dalla Costituzione allo Statuto dei lavoratori. Nulla di tutto questo.

S

Il progetto del gruppo multinazionale è molto pratico, persino un po’ rozzo: Marchionne è disposto ad effettuare un investimento (con risorse del gruppo) da 700milioni di euro in un’area densa di criticità civili e sociali, come Pomigliano d’Arco, rilocalizzando produzioni ora svolte in Polonia ad


economia

16 giugno 2010 • pagina 9

Marco Revelli difende la scelta dell’organizzazione che ha deciso di non firmare

«È vero è un’intesa contro i diritti individuali»

«Marchionne vuole cancellare tutto l’impianto giuslavoristico attuale per applicare un insieme normativo e negoziale inedito» di Gabriella Mecucci

ROMA. La posizione della Fiom su

Il Pomigliano della discordia una semplice condizione: che in quello stabilimento si realizzino prassi di lavoro e di produttività competitive non già come quelle delle maestranze polacche, ma almeno come quelle assicurate – con l’entusiasmo di Barack Obama – nelle fabbriche Usa e canadesi. In sostanza, in Campania non sono in gioco il diritto di sciopero (articolo 40 della Costituzione) o le tutele economiche spettanti ai lavoratori in malattia (articolo 38 della Carta). L’azienda vuole venire a capo dell’abuso - frequente in quello stabilimento - di questi sacrosanti diritti. E lo fa non invocando procedure discrezionali, ma sfidando i sindacati a confrontarsi, insieme, sul contrasto di fenomeni degenerativi che, in quella realtà, sono all’ordine del giorno. L’intesa prevede infatti che siano istituiti dei comitati paritetici chiamati a valutare l’anomalia della conflittualità e dell’assenteismo, sulla cui base sarebbero adottate le previste sanzioni secondo i seguenti criteri: l’azienda potrebbe sospendere la riscossione ed il versamento dei contributi associativi nei confronti dei sindacati inadempienti o non erogare le indennità economiche ai lavoratori «malati immaginari». La posizione della Fiom fa a pugni con ogni elemento di ragionevolezza. E la Cgil non è in grado di imporsi. Nel 1980, dopo la famosa marcia dei 40mila, i segretari generali delle Confederazioni Lama, Carniti e Benvenuto capirono che quella lotta non poteva andare avanti. Chiamarono l’Ad Fiat di allora, Cesare Romiti, e andarono a firmare l’accordo benché il gruppo dirigente dei metalmeccanici (appartenente a tutte e tre le confederazioni) esprimesse dei «mal di pancia».

Oggi, Guglielmo Epifani, ormai prossimo a passare la mano, si comporta come il solito «re Travicello». Che altro dire? Sembra che siano i lavoratori a fare un piacere alla Fiat. Marchionne mi dia ascolto: non consenta alla Fiom di lucrare su due tavoli: giovarsi degli effetti dell’ altrui responsabilità e fomentare, contemporaneamente, la contestazione. La Fiat resti dov’è. Aiuti a far capire agli italiani che certi sindacati fanno il male del Paese. E dei lavoratori.

Pomigliano d’Arco è rimasta isolata. I metalmeccanici hanno respinto l’intesa e proclamato uno sciopero di 8 ore, la stessa Cgil invece è orientata ad arrivare ad un accordo in nome degli investimenti e del lavoro. Una divaricazione profonda del più grande sindacato italiano. Il professor Marco Revelli, che ha lavorato in Fiat e che ha scritto molto su di essa, difende le ragioni della Fiom: «Quell’intesa calpesta alcuni diritti individuali, diritti indisponibili». Professore, in che cosa il sindacato dei metalmeccanici ha ragione? Prendiamo il caso più clamoroso. Il diritto di sciopero è costituzionalmente riconosciuto e nemmeno l’organizzazione sindacale può decidere di farne a meno. È un diritto garantito a ciascun individuo dalla Carta di questo paese, come può un’intesa fra componenti sociali cancellarlo? Credo che non ci sia da parte della Fiom una non volontà di sottoscrivere un accordo, ma una impossibilità. Se qualcuno lo firma, decide su una cosa di cui non ha la titolarità. Ma la Fiom non firma non solo per questo, ma per almeno altre due ragioni. La prima è quella che viene riassunta così: la Fiat vuole colpire il diritto di assentarsi per malattia. Oggi se un lavoratore non va in fabbrica perchè malato, i primi tre giorni sono a carico dell’azienda e i successivi a carico dell’Inps. Vorrei leggere meglio le carte. Che cosa vuole la Fiat? Che i primi tre giorni siano a carico del lavoratore? Un atteggiamento del genere sarebbe lesivo del diritto alla salute. Se fossi un sindacalista avrei dei gravi problemi etici a firmare una simile intesa. E per la verità gli stessi problemi etici mi si presenterebbero anche se fossi un datore di lavoro.Capisco la necessità di fare una lotta efficace all’assenteismo. So che questo per Pomigliano è un grave problema, ma si usino altri sistemi. Non la cancellazione di una clausola di civiltà, e cioè che il lavoratore ammalato non deve perdere reddito. La Fiom è contraria anche a quella parte dell’accordo che prevede il raddoppio delle ore di straordinario obbligatorie stabilite dal contratto nazionale. Questa è materia pienamente sinda-

cale. E quindi è nella disponibilità di un accordo fra le parti. C’è però un problema di coerenza fra contratto nazionale e intese sottoscritte. Ritengo che l’esistenza di un contratto nazionale di lavoro sia un elemento molto importante di civiltà del lavoro. Però su questa questione si può fare un calcolo di opportunità e di convenienze. L’azienda sostiene che se non si arriverà all’intesa da lei proposta, deciderà di chiudere Pomigliano... Questo è il terribile difetto della globalizzazione che offre al datore di lavoro una libertà di movimento che il lavoratore non ha. La globalizzazione ha rotto il vecchio equilibrio di forze spostandolo tutto a vantaggio del capitale, come si sarebbe detto una volta”

mamente muscolare. Quella situazione è finita con l’80 ed è finita anche perchè è tramontato il fordismo. Quanto al terrorismo è venuto parecchio dopo ed ha coinvolto una parte molto esigua di classe operaia. E ora? Siamo difronte ad un’altra svolta storica. Mi sembra che Fiat voglia cancellare tutto l’impianto giuslavoristico attuale e applicare nei propri stabilimenti un insieme normativo e negoziale inedito. Nel contesto extraterritoriale non vengono riconosciuti i diritti: principi, cioè, che prescindano dalle circostanze. Un diritto, per essere tale, non deve essere sottoposto alla contingenza. Quello che chiede Marchionne è l’esatto contrario: la piena effettività di ogni contingenza. Una logica spietata la sua che alla fine verrà inevitabilmente accettata. Il sindacato la dovrà subire, ma non la deve sottoscrivere. Non può firmare la propria cancellazione. Ma dalla sua analisi appare chiaro che il sindacato come lo abbiamo conosciuto è finito... Non c’è dubbio. Il sindacalismo come difesa del lavoro sulla base di un contratto, di regole che sanzionano un certo rapporto di forza e che si appoggiano ad un quadro normativo, non c’è più. È stato superato dalla globalizzazione e oggi anche dalla dinamica delle parti. Rinascerà una nuova contrattazione? Non lo so. Penso che il venir meno di questo elemento, ci fa entrare in una condizione da stato di natura hobbesiano. Di radicale assenza, cioè, di tutele e di certezze, soprattutto per i più deboli, ma in prospettiva anche per i forti. E allude ad un mondo in cui ciascuno è in lotta per la propria sopravvivenza e non riconosce altra regola che il diritto che gli deriva dalla propria forza. Un mondo orribile. La civiltà liberale è nata dal pactum, dal contratto. È questo che ha garantito il passaggio dallo stato di natura alla società liberale. E poi l’individuazione del giudice terzo. Tutto ciò si sta decostruendo. In Italia, poi, vediamo naufragare insieme alla civiltà del lavoro anche quella dell’informazione con le sue libertà, il rispetto della sfera pubblica. Ed è incredibile che un grosso aiuto a un tale trend venga proprio da Marchionne. Un uomo che ci ha sempre tenuto ad apparire aperto e progressista.

Il sindacato dovrà subire questa logica, ma non la deve assolutamente sottoscrivere. Non può certo siglare la propria cancellazione...

Ma perchè la Fiom è rimasta isolata? È successo che ormai la Fiat è un’impresa extra territoriale. Lo era già all’inizio di questo decennio e l’accordo con la Chrysler ha enfatizzato tale caratteristica. Una simile situazione garantisce una totale deregulation: la possibilità cioè di far valere le regole che più convengono all’impresa e meno al lavoratore. Ma l’isolamento della Fiom non è anche figlio degli errori e degli eccessi del sindacato? Guardi che da trent’anni in Fiat il sindacato ha un livello di potere vicino allo zero. Questa è la situazione a partire dalla marcia dei quarantamila e dalla grande vittoria di Cesare Romiti. Alla Fiat è stata garantita un’elevatissima flessibilità del lavoro. Di eccessi sindacali non ne vedo. L’azienda ha avuto mano libera. Se guardiamo però a prima della marcia dei quarantamila, il panorama cambia. Non solo eccessi, ma anche presenze terroristiche. Io la Fiat l’ho studiata bene. La fabbrica fordista era un luogo con una fortissima carica di violenza delle macchine sugli uomini, a cui corrispondeva una forza uguale e contraria, se si voleva resistere a quella pressione. Era una fabbrica estre-


panorama

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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Pannunzio, Croce e un «Mondo» fatto di libertà ario Pannunzio è stato sempre considerato un «crociano per eccellenza». Massimo Teodori nella bella biografia Pannunzio (Mondadori) lo dice «crociano convinto» e presenta Croce come «il nume tutelare» del settimanale di Pannunzio. In realtà, i «numi tutelari» del settimanale di via della Colonna Antonina 52 erano due: Croce e Salvemini che mal si tolleravano. In una lettera a Prezzolini proprio Pannunzio lo faceva notare: “Al Mondo collaborano Benedetto Croce e Gaetano Salvemini, e Salvemini odia Croce. Collabora Cajumi che odia tutti e due. Eppure tutti e tre sono liberali. Che vuol fare? Appunto «Il Mondo è un tentativo di ritrovare alcuni punti comuni tra gli uomini di cultura italiani che non siano né fascisti, né comunisti, né clericali”. Ma se si dovesse, con un metodo alquanto empirico, misurare l’importanza dell’uno e dell’altro “nume”, la bilancia penderebbe a favore di Croce perché fu centrale nella formazione di Pannunzio.

M

La figura di Pannunzio solitamente risponde a un’immagine di maniera in cui il direttore de Il Mondo appare più una leggenda che un intellettuale appassionato quale fu e volle essere. Il merito del libro di Teodori è nella ricostruzione scrupolosa della vita e della formazione di Pannunzio e il lettore resta quasi stupito delle poliedriche capacità del direttore de Il Mondo che prima di diventare Pannunzio già era Pannunzio. Come se all’interno di Pannunzio ci fosse stato da sempre l’altro e vero Pannunzio che si formava su Tocqueville e Croce e attendeva l’occasione giusta per manifestarsi. Avvenne tutto nell’estate del 1943: quando cadde il fascismo, fu arrestato Mussolini, ci fu l’armistizio, e a Roma fu arrestato lo stesso Pannunzio che quando usci nel febbraio del 1944 da Regina Coeli aveva maturato definitivamente la sua metamorfosi e prese a partecipare attivamente e assiduamente alla ricostruzione del liberalismo prim’ancora che del Partito liberale. E il riferimento fu quel Croce che vedeva “soffrire” nelle riunioni romane. Nel novembre del 1945 gli scriveva una “lettera rivelatrice”: «Volevo scriverle con calma, caro Senatore, per manifestarle quello che non ho mai osato dirle a voce, e cioè la mia devozione profonda affettuosa, e se mi permette di dirle, filiale, che da anni nutro per Lei… Dovrei scriverle a lungo, parlarle di quello che i suoi libri sono stati per me, d’insegnamento, di conforto, d’incoraggiamento: dovrei rivolgerle parole che forse sembrerebbero usuali e troppo… giovanilmente appassionate. Questo mi riempie di timidezza e mi spinge a non annoiarla. Spero di poterle meglio testimoniare il mio affetto facendo quel poco che mi sarà possibile per il “nostro”Partito liberale». Quel «poco che mi sarà possibile» sarà Il Mondo: da un lato Pannunzio aderì al crocianesimo «che ci ha insegnato a pensare» cercando così di ostacolare il monopolio comunista della Resistenza ed evitare che Togliatti si annettesse tutta la cultura italiana da Vico al Risorgimento a Gramsci, e dall’altro lato Croce riconobbe a Il Mondo una sorta di patrocinio ideale e il valore di foglio legato al suo pensiero.

Se i popolari perdono le chiavi di casa del Pd Finalmente anche Marini si accorge del disagio dei moderati di Enzo Carra arini si è risvegliato, good morning Franco. E in una intervista al Corriere della Sera denuncia lo stato di disagio in cui vivono gli ex popolari all’interno del Pd. Veramente la cosa va avanti da tempo. Per accorgersene, meglio tardi che mai. In questi mesi le polemiche su questioni marginali hanno preso il posto di problemi ben più seri come la libertà di coscienza sui temi eticamente rilevanti. Si è parlato molto di feste de l’Unità che continuano a chiamarsi così. Ci si è appassionati alla storia del Grande Oriente d’Italia e alla presenza dei massoni nel Pd, con la ridicola sorpresa di qualcuno. Ma è sui temi etici che c’era stato e forse ci sarà ancora il vero confronto-scontro all’interno del partito. È su questi argomenti, del resto, che all’inizio dell’anno si sono verificati abbandoni dolorosi. Poi, c’è sempre la questione delle “chiavi di casa”.

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N e l l a p r i ma a s s e m b le a

ne popolare, Rosy Bindi si dibatte tra la presidenza del partito e la vicepresidenza della Camera, Enrico Letta passa da un convegno economico a un dialogo con la Lega con la leggerezza di un Roberto Bolle, Beppe Fioroni indossa i panni austeri del sindacalista e sostiene le rivendicazioni del suo gruppo, Dario Franceschini è assorbito dalla sua responsabilità di capo del maggior partito d’opposizione in Parlamento. Poi c’è lui, Marini, il quale rileva a giugno che da novembre non è successo niente.Le chiavi, appunto, non gli sono state recapitate. E oggi è costretto a riconoscere che pur con presenze importanti di ex popolari nel partito “non c’è consapevolezza e concordanza tra queste”.

Sembra difficile che il suo appello all’unità possa far breccia. Chi può risolvere se non lo stesso segretario il problema delle chiavi di casa? Eppure, ripete Marini, Bersani non è in discussione. Anzi, sarà lui il candidato al governo prossimo venturo. Tuttavia: “è innegabile che nella gestione del partito c’è quasi un monocolore”, lamenta l’ex presidente del Senato. Ma non si può pensare che Bersani non conosca anche lui qual è la situazione nel suo partito. Se in tanto tempo non ha mosso un dito una ragione ci sarà. Certo la nuova disponibilità di Marini può essere una soluzione: “se ci fossero difficoltà per un aiuto, potrebbero richiamarmi per 48 ore dalla riserva”. Può essere dunque che, dopo mesi e mesi di circolazione a senso unico, le 48 ore di Marini bastino per ripristinare una direzione di marcia più “equa e collegiale”.

È sulle questioni etiche, più che sui problemi di organizzazione, che si consuma la spaccatura nei democratici

nazionale dopo il congresso, Marini le aveva reclamate per sé e per i suoi. Smentito dall’avversario congressuale dell’attuale segretario, Dario Franceschini, che dalla stessa tribuna aveva risolto così la questione: «Area democratica è nata per rappresentare posizioni politiche non per chiedere posti».

Se a distanza di otto mesi Marini non ha ancora trovato le chiavi, non sarà certamente colpa di Franceschini. Piuttosto, l’intervista dell’ex presidente del Senato rivela come gli ex popolari si siano divisi ancor di più nel frattempo. Letta Enrico e Rosy Bindi avevano sostenuto Bersani già nella fase congressuale. Fioroni e Marini avevano sostenuto invece Franceschini. Adesso, evidentemente, anche in Area democratica, la minoranza interna, si sono registrati dei distinguo se non proprio delle rotture. Insomma, a occhio e croce, nelle zone del Pd che non hanno discendenze diessine ciascuno va per conto suo. Pierluigi Castagnetti, saggio e rassegnato, si dedica alla sua fondazio-

Vedremo. In ogni caso si escludono scissioni: “dove dovremmo approdare noi, oggi? Ad una navicella che, sebbene guidata da un nocchiero esperto e capace come Casini, da anni non riesce a prendere il largo?”. Né più, né meno. Fatta questa amara considerazione Marini invece che all’imbarcadero corre a cercare le chiavi di casa. Buona fortuna.


panorama

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Le pressioni europee sull’innalzamento dell’età pensionabile per le donne potrebbero essere un’opportunità

Meno nonne, più mamme Per aiutare la famiglia non servono asili nido, ma più tempo da dedicare ai figli di Paola Liberace eno nonne, più mamme. È questa la formula in nome della quale aderire senza indugi alla richiesta europea sull’innalzamento dell’età pensionabile delle dipendenti pubbliche italiane. Le argomentazioni che hanno finora dettato la conservazione dello status quo vanno ormai deposte: ad esempio, la necessità di “risarcire”con qualche anno di lavoro in meno le donne che si sono dedicate, oltre che al lavoro, anche ai figli - come se fare le madri fosse un fardello, e non una profonda gioia. A patto, però, di non sostituirle con argomentazioni dettate dallo stesso presupposto: come quelle di chi, escludendo la maternità dal novero delle “vere potenzialità al femminile”, la annovera tra le zavorre da cui le donne andrebbero “liberate”, consegnando senz’altro figli e familiari a baby sitter, colf e badanti, e correndo a timbrare il cartellino per emanciparsi.

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prevalenza dei nipoti, non solo per la mancanza di asili nido, ma soprattutto per la latitanza di una politica e di una legislazione che consentano ai genitori di farlo personalmente.

Madri e padri, reclamati da un mercato del lavoro che preme per riassorbirne immediatamente le forze, sono costretti ad abbandonare i figli nelle braccia di

Paese a crescita zero, in cui i nonni si occupano dei nipoti, non avendo potuto curare i figli, mentre le madri rientrano di corsa dopo il parto, come nemmeno certe ministre. Una corsa contro il tempo, che non le abbandonerà più. Nella quale riescono quotidianamente vincitrici solo grazie al sostegno di strutture e figure di assistenza: nonni, asili nido, baby sitter; che le agevolano, sì, nella conciliazione tra ruolo professionale e ruolo materno, ma a tutto discapito di quest’ultimo.

Un “anno familiare” sarebbe finanziabile con un anticipo sul Tfr e dunque poco oneroso per lo Stato altri - parenti o estranei - ancora in fasce; fino al momento in cui, ancora abili, saranno costretti a deporre i ferri del mestiere per fare i nonni, e sopperire alla stessa mancanza di cui sono stati vittime. Il risultato è sotto i nostri occhi: un

Lavorare più a lungo è necessario, e non solo per le donne: significa maturare contributi utili per assicurarsi una pensione decorosa, ed evitare di gravare, ancora vigorosi e attivi, sulle prosciugate casse pubbliche. Ad oggi, gli individui le cui preziose energie vengono precocemente espulse dal mercato del lavoro fungono da surrogati di un welfare che sostiene la terza età a discapito della seconda, e anche della prima; sono i neopensionati a occuparsi in

Il prolungamento della vita lavorativa diventa accettabile, purché sia compensato dalla disponibilità di pari tempo aggiuntivo durante la stessa vita.Tempo da dedicare non solo, com’è già in parte possibile, alla formazione; ma anche e soprattutto alla famiglia, alla cura dei propri parenti, alla soddisfazione del desiderio di maternità – e non di mera natalità. Una differenza impercettibile, o almeno trascurata, nel nostro Paese: nel quale si ritiene tuttora, a torto, che fare la madre equivalga a procreare un bambino, e non anche a allevarlo, educarlo, accompagnarlo durante la crescita – almeno nella delicata fase della prima infanzia. Per costruire serenamente e gioiosamente la loro famiglia alle donne non servono asili nido, ma tempo: un periodo di congedo, quantificabile da uno a tre anni, durante il quale dedicarsi ai fi-

gli senza cedere al ricatto delle dimissioni. Una sorta di parentesi nella carriera, che consentirebbe a chi ne benefici di conservare il posto di lavoro, continuare a maturare contributi, ma senza percepire retribuzione.

L’anno familiare (sulla falsariga di quello sabbatico) sarebbe finanziabile con un anticipo sul Tfr - e dunque relativamente poco oneroso per le finanze pubbliche; e in ossequio al principio paritario tanto caro all’Europa, andrebbe esteso ai dipendenti uomini, parimenti intitolati a beneficiarne. Del resto, è proprio l’Europa ad offrire eloquenti esempi di schemi flessibili di pensionamento, ai quali si guarda meno volentieri che alla pletora di asili nido diffusi oltralpe, ma che non sono meno efficaci ai fini della conciliazione tra famiglia e lavoro. Lo sanno bene i politici, alcuni dei quali con responsabilità di governo, che tentarono di percorrere questa stessa strada qualche anno fa, quando il monito europeo non era ancora diventato un’ingiunzione mandatoria. Ma le loro proposte, improntate all’adesione volontaria, furono prontamente arrestate dalle consuete obiezioni sindacali. Chi si facesse oggi carico di riprendere il progetto, a prescindere dall’appartenenza politica, farebbe opera meritoria ai fini della modernizzazione del paese; oltre a manifestare una volontà non meramente propagandistica di sostenere la famiglia.

Il caso. A Bolzano niente assistenza gratuita per chi ha un tasso troppo alto di alcol nel sangue

L’ambulanza non si ubriaca di Gualtiero Lami

BOLZANO. Vita dura per chi beve troppo, a Bolzano: d’ora in poi, gli ubriachi che dovranno essere portati in ospedale con un’autoambulanza dovranno versare un contributo di 200 euro, anche se sarà verificato lo stato di urgenza. La Provincia di Bolzano, infatti, con una nuova regolamentazione sui trasporti con ambulanza, ha deciso di escludere dai casi considerati urgenti, che darebbero diritto al trasporto gratuito, quelli relativi all’abuso di alcol. In pratica: chi dopo un viaggio al pronto soccorso verrà trovato con un tasso di alcol nel sangue superiore all’1,5 per mille, dovrà pagare il costo dell’ambulanza. «I medici del pronto soccorso ci riferiscono che, nei fine settimana, dopo una certa ora, è ormai normale che arrivi un numero elevato di ubriachi», ha giustificato il provvedimento il presidente della Provincia di Bolzano, Luis Durnwalder. «Purtroppo sono sempre di più anche i casi che riguardano ragazze e giovani donne». Il problema dell’abuso di alcol, in particolare fra i giovani, è sempre più avvertito in Alto Adige, come

ha rilevato, nei giorni scorsi, l’indagine sui giovani dell’Istituto provinciale di statistica, secondo cui «il consumo di alcol è problematicamente diffuso tra i giovani altoatesini». «Capita spesso che un ubriaco, dopo una festa, chiami un’ambulanza. Finora la spesa ricadeva sui contribuenti, ma non è giusto. Chi beve e chiede aiuto, deve an-

tuazioni che non sono di sua competenza». «Per chi esagera con l’alcol, il pagamento delle spese di soccorso potrebbe essere una misura pedagogica», concorda Peter Koler, psicologo e pedagogista, responsabile del Forum prevenzione di Bolzano. «Bisogna, però differenziare tra i casi», avverte, sottolineando che l’alcolismo è una malattia che crea dipendenza e fa perdere il controllo, non semplicemente la conseguenza di una cattiva volontà». Insomma, il sabato sera, la celebre Piazza del Campo di Bolzano e Laubenstrasse, cuore pulsante della movida bolzanina, saranno un po’ meno alcolizzate.

La decisione del presidente della Provincia Luis Durnwalder contro l’alcolismo giovanile, trova tutti d’accordo: dai medici agli psicologi che partecipare alle spese. Chi ha soldi per l’alcol, ne ha anche per le cure», ha proseguito Durnwalder.

Il provvedimento è apprezzato da Mario Costa, presidente onorario della Società italiana di medicina dei servizi: «È una misura che serve a prevenire l’abuso di alcol. Il 118 viene utilizzato troppo spesso per si-


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il paginone

Il maestro svedese è spettatore d’eccezione, sospeso tra frequentazioni compulsive e on c’è un altro caso in cui il cortocircuito tra autobiografia e storiografia, tra vocazione d’autore e storia del cinema s’imponga con altrettanta forza come nell’opera di Ingmar Bergman. Nelle testimonianze dedicate in questi mesi al grande regista scomparso, di cui l’home video continua a riproporre molti titoli rari e meno rari, si dimentica spesso la “Bergman’s List”. Scritta nel 1995 per il Festival di Göteborg, in occasione del centenario della nascita del cinema, è la galleria dei film più amati della settima arte, l’illuminante antologia personale di tenaci predilezioni e di ossessioni ricorrenti. Spettatore d’eccezione, sospeso tra frequentazioni compulsive e prolungate astinenze, il regista si sintonizza con i film degli altri fino a farli propri, altrettanti momenti della storia della sua vita. La scoperta del cinema risale al paesaggio incantato dell’infanzia in cui il piccolo Ingmar cresce circondato da fantasmi, demoni e altri esseri senza nome e dimora, un mondo perduto e sempre ritrovato in cui continua a aggirarsi per tutta la vita, rivivendo luci, odori, persone, oggetti, spazi, gesti, toni di voce.

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La lanterna magica, che fa la sua apparizione prima del proiettore, consiste in una cassettina di metallo con una lampada a carburo con il suo corredo di lastre colorate come Cappuccetto Rosso e il Lupo e altre. Il lupo era un diavolo senza corna, ma con la coda e «una bocca rossa,

«Devo aver visto “Bandito della Casbah” almeno venticinque volte» rivelò il regista. «Quei film francesi erano così diversi da quelli americani. E io sentivo il metodo francese molto più vicino» aperta, stranamente reale e insieme incomprensibile, un’immagine di malvagità e di tentazione sulla parete della stanza dei bambini».Nei confronti del cinema dei primi decenni del secolo il regista svedese dimostra la straordinaria disponibilità di uno spettatore pronto al coinvolgimento e all’applauso. L’incontro più importante è quello con Victor Sjöström, uno dei pionieri del cinema svedese. Il carretto fantasma (1920), il film-rivelazione a cui resterà legato tutta la vita, lo vede per la prima volta all’inizio degli anni trenta: «Almeno una volta all’anno ho bisogno di vederlo, è uno dei film più belli che ho visto nell’arco della mia vita. Ha influenzato la mia professione, perfino nei più minuti particolari». Avverte

come pochi altri l’esigenza di verità, che nasce dall’osservazione del reale: «Non cede mai neppure per un solo momento alla facilità, alla tentazione di semplificare, di aggirare le difficoltà, di barare. Non cede all’estetismo, o semplicemente al brillante». La figura-chiave di Sjöström – che vorrà sul set di Il posto delle fragole (1957) dopo che era stato una specie di consigliere artistico e di angelo custode all’epoca del suo esordio di regista – richiama l’attenzione sull’importanza del cinema muto e sul ruolo che vi ha il primo piano. Non potrebbe essere più profonda la sintonia con il grande Dreyer di La passione di Giovanna d’Arco (1928), che ha sottolineato a più riprese il significato del volto umano nel cinema: «Nulla al mondo può paragonarsi al volto dell’uomo. È un paesaggio che non si finisce mai di esplorare, di particolare bellezza, dolcissimo o aspro che sia. Non c’è esperienza più alta di quella che può offrirsi in uno studio di posa quando sotto la forza misteriosa dell’ispirazione il volto sensibile di un attore si anima e la sua espressione raggiunge le vette della poesia».

L’amore per il cinema francese tra le due guerre è per lui una passione clandestina e contrastata. «Negli anni 1937, 1938 e 1939, sono arrivati i film francesi. La nostra compagnia, la Svensk Filmindustrie li detestava. I film di Marcel Carné, quelli di Julian Duvivier, Il bandito della Casbah, Il porto delle nebbie, Alba tragica. Il mio era un amore segreto. Era assolutamente proibito perché il modo americano di raccontare le storie era la sola maniera possibile di fare il cinema». L’ammirazione maggiore va a Carné: «Alba tragica e Il porto delle nebbie sono dei veri capolavori. Sono così pervasi da una luce eterna, in un certo senso sono assolutamente perfetti». Ma non è meno forte la sintonia con Duvivier, di cui riconosce esplicitamente di aver subito l’influenza: «Devo aver visto il suo Bandito della Casbah almeno venticinque volte. Amo quel film! Posso ancora rivederlo con lo stesso entusiasmo. Sì, quei film francesi erano così diversi da quelli americani. E io sentivo il metodo francese molto più vicino a me. Se qualcuno mi avesse chiesto il perché, sarei stato incapace di spiegarlo, ma, a partire dal momento in cui ho potuto, ho cercato di fare i miei film in stile francese, senza molto successo del resto». Si sa che Lorens Marmstedt – il produttore che viene in suo aiuto dopo il clamoroso insuccesso dei primi film – gli rimprovera brutalmente l’attaccamento ai suoi idoli francesi: «Devi tener presente che Birger Malmsten non è Jean Gabin e soprattutto che tu non sei Marcel Carné». Negli anni del dopoguerra, il cinema americano sembra ripendersi la rivincita nelle predilezioni del giovane cineasta con la suggestione di un genere come il noir, destinato a rinnovare la scandita drammargia del cinema classico americano: «I registi del noir erano i miei idoli all’epoca. Un regista che ha avuto molta importanza per me è Michael Curtiz. Mi ricordo che con Lars-Erik Kjellgren, eravamo molto amici, andavamo a vedere i film di Curtiz per imparare, rivedevamo lo stesso film anche molte sere di seguito, ed era maledettamente utile. Possedeva il dono di raccontare una storia dall’inizio alla fine in manie-

Il cinema sec Da Sjöström a Tarkovskij, passando per Dreyer, Carné, Duvivier, Curtiz, Hitchcock e Fellini: i grandi registi che hanno influenzato la straordinaria carriera di Bergman e la sua opera di Orio Caldiron

ra semplice, chiara e ordinata, esattamente come Raoul Walsh».

Neppure più tardi viene meno la disponibilità a concedersi alla fascinazione hollywoodiana, che incarna perfettamente il meccanismo stesso dello spettacolo cinematografico. Sta a sé un regista come Alfred Hitchcock, che gli sembra per molti aspetti «un personaggio arrogante, sgradevole, cattivo e molto intelligente», di cui non si possono tuttavia misconoscere le grandi qualità di metteur en scène. «È stato un regista magnifico perché ha

saputo sperimentare molto all’interno di un’industria interamente commerciale. Era molto difficile. E se si vede – io posso vederlo e rivederlo – Psycho (1960), quel bizzarro film che amo tanto, è incredibile. Quell’uomo avido l’ha fatto con soldi suoi, una piccola troupe, e una tale logica, una tale precisione, una tale ossessione della qualità cinematografica». Nelle varie occasioni in cui è venuto ricostruendo i tratti essenziali della propria attività creativa, Bergman ha sottolineato con energia il processo di immedesimazione profonda che esiste tra l’autore e i propri film, «con-


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prolungate astinenze

l’eccezione è Federico Fellini, con cui il maestro svedese ha avuto un lungo, discontinuo, altalenante rapporto personale dalla visita sul set di Fellini Satyricon (1969) all’appuntamento mancato alla Mostra di Venezia quando Bergman vede da solo E la nave va (1983) in una saletta del Palazzo del Cinema del Lido: «Ho una grande ammirazione per Fellini, sento ΩΩuna specie di fraterno contatto con lui, non so esattamente perché. Ci siamo spesso scambiati lettere brevi e confuse. È buffo. Lo amo perché è se stesso, è chi è e ciò che è. Il suo carattere è qualcosa che mi commuove, benché sia profondamente diverso dal mio. Ma lo comprendo benissimo e l’ammiro enormemente. Mi si dice che sia affascinato dai miei film. Provo lo stesso sentimento per i suoi». Se il cineasta e lo spettatore rimandano l’uno all’altro sarebbe sviante ricondurre gli interessi e le scelte dello spettatore a una precisa influenza stilistica di un cineasta su un altro cineasta. Si tratta di un nodo problematico della sua inesausta formazione d’autore a proposito del quale la reazione di Bergman è particolarmente intransigente: «Non ho subito influenze stilistiche da nessun altro regista. Ma le influenze non sono tanto quelle che derivano dalle implicazioni professionali. La vita tutta intera ci influenza. I cineasti, meno di tutto il resto. Perché io non vedo il mondo come loro. Beninteso, rimango influenzato largamente dai nuovi modi di fare il cinema dove non si bada agli effetti d’illuminazione e dove si possono ottenere efficaci risultati con il minimo d’attrezzatura. In un certo modo si ritorna, così, al cinema delle origini, quando tutto era semplice».

La passione in videoteca A poco meno di tre anni dalla morte del grande regista svedese, crescono le possibilità per arricchire la “collezione Bergman” della propria videoteca. Rhv edita cinque film, partendo da Piove sul nostro amore e La terra del desiderio, realizzati dal regista non ancora trentenne a brevissima distanza dall’opera prima Crisi (1946). È del ’58, invece, l’ultimo film proposto dalla Ripley’s, Alle soglie della vita, premiato a Cannes per la miglior regia. Fa parte della collana “Il piacere del cinema”di Vieri Razzini, invece, il cofanetto Teodora Film distribuito da Flamingo Video e contenente La vergogna (1967), Passione (1968) e il documentario inedito Images from the Playground: insieme a Persona (1964), i due film compongono la cosiddetta “tetralogia di Fårö”, completata da L’ora del lupo (1966), unico titolo con derivazioni horror diretto da Bergman, interpretato da Max von Sydow e Liv Ullmann (insieme anche ne La vergogna e Passione), distribuito in dvd da Dolmen Home Video.

condo Ingmar cepiti nelle viscere dell’anima, nel cuore, nel cervello, nei nervi, nell’organo sessuale e persino nelle budella». Se il regista in ogni film mette in discussione tutto se stesso, forte della straordinaria possibilità di rappresentarsi da solo i propri destini, è anche perché la regia affonda le sue radici nel tempo e nei sogni, in una stanza segreta dell’anima. «La verità è che io vivo sempre nella mia infanzia, passeggio per le silenziose vie di Uppsala, mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l’enorme betulla a due tronchi. Mi sposto con la velocità di secondi. In verità, abito sempre nel mio sogno, e di tanto in tanto faccio una visita alla realtà».

Il punto d’arrivo del cinema contemporaneo è per lui Andrej Tarkovskij, il più grande di tutti, considerato come l’autore di riferimento e il compagno di strada in nome della sintonia assoluta. «Quando il film non è un documento, è un sogno. Per questo Tarkovskij è il più grande di tutti. Lui si muove con assoluta sicurezza nello spazio dei sogni, lui non spiega e, del resto, cosa dovrebbe spiegare? È un osservatore che è riuscito a rappresentare le sue visioni facendo uso del più pesante e del più duttile dei media». La scoperta di Tarkovskij è un miracolo, l’incoraggiamento e lo stimolo in grado di indicare il

traguardo possibile, di marcare la soglia dell’espressione cinematografica: «Quando scoprii il primo film di Tarkovskij, fu per me un miracolo. Mi trovavo spesso davanti alla porta di una camera di cui allora non possedevo la chiave. Una camera dove io avrei voluto penetrare e dove lui si trovava perfettamente a suo agio. Io mi vidi incoraggiato e stimolato: qualcuno era riuscito ad esprimere quello che io avevo sempre voluto dire senza sapere in che modo. Se Tarkovskij è per me il più grande, è perché porta nel cinema un nuovo linguaggio che gli permette di afferrare la vita come apparenza, la vita come sogno». La linea di tendenza è molto netta: «Fellini, Kurosawa, Buñuel si muovono nello stesso modo di Tarkovskij. Antonioni era sulla stessa strada ma cadde sopraffatto dalla propria noiosità». Ma non è meno forte il rischio della maniera: «Amo e ammiro Tarkovskij e penso che sia uno dei più grandi registi. La mia ammirazione per Fellini è sconfinata. Ma mi sembra che Tarkovskij abbia cominciato a fare film alla Tarkovskij e che Fellini negli ultimi tempi abbia fatto alcuni film alla Fellini. Kurosawa non ha mai fatto film alla Kurosawa. Invece non mi è mai piaciuto Buñuel. Scoprì presto che poteva fabbricare delle artificiosità che potevano essere elevate a una sorta di speciale genialità buñueliana, e

Riguardo ai lavori italiani del dopoguerra non sembrò troppo entusiasta. Anche se ammise di aver girato alcuni dei suoi primi film sotto l’influsso di Rossellini e del neorealismo così ripeté e variò i suoi artifici, con risultati sempre ugualmente graditi. Buñuel fece quasi sempre film alla Buñuel. È quindi tempo di guardarsi allo specchio e domandarsi: che cosa è successo veramente? Bergman ha dunque cominciato a fare film alla Bergman?».

Nei confronti del cinema italiano del dopoguerra non sembra andare oltre un apprezzamento di circostanza. Ammette di aver girato alcuni dei suoi primi film sotto il forte influsso di Roberto Rossellini e del neorealismo italiano. Cita più volte Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica, che considera uno dei suoi film preferiti. Ma

Il problema è tutt’altro che marginale se è in grado di ricondurci al centro incandescente dell’opera bergmaniana, alle sue ragioni profonde, radicate nella soggettività dell’autore, all’intensità di una scelta che rimanda alla magia dell’infanzia, alla magia del cinema. «Nessun’altra arte come il cinema va direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna». Se si temono le contraddizioni – possono essere numerose non solo nella propria opera, ma anche nell’intreccio di percorsi e di atteggiamenti con cui ogni cineasta si incontra con le opere degli altri – l’invito di Bergman ad avere fiducia nelle emozioni sottolinea ancora una volta la forza del sogno, il richiamo alle ragioni più segrete dell’io. «Quando si è artisti, quando si creano film, è molto importante non essere logici. Bisogna essere incoerenti. Se si è logici, la bellezza sfugge, scompare dalle tue opere. Se si ha fiducia nelle proprie emozioni, si può essere del tutto incoerenti. Non fa nulla. Perché si ha il potere di cogliere le conseguenze delle emozioni che hai suscitato. Per sempre». Nel suo ritiro di Fårö, il maestro svedese ha ripreso in mano fino all’ultimo i film della sua cineteca personale o quelli che il Filminstitutet gli prestava, ritrovando il piacere eterno della visione, il fascino inesauribile delle ombre che si muovono. «La sedia è comoda, la stanza protetta, si fa buio e la prima tremante immagine compare sulla parete bianca. È silenziosa. Il proiettore ronza piano nella sala di proiezione ben isolata. Le ombre si muovono, si girano verso di me, vogliono che io presti attenzione al loro destino. Sono passati tantissimi anni, ma l’eccitazione è sempre la stessa».


mondo

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Retroscena. Sul vertice che si terrà domani a Bruxelles pesa l’incognita di una riforma solo promessa da Merkel e Sarkozy

La guerra del debito Dalla bozza del Patto Ue sparisce la parola “aggregato” e l’Italia minaccia di porre il veto di Enrico Singer utto sembrava risolto. Poi il colpo di mano. Dalle cinque pagine delle nuove regole d’interpretazione del Patto di stabilità è sparito proprio quell’aggettivo - aggregato - che tanto stava a cuore a Tremonti e a Berlusconi. E che avrebbe messo al sicuro l’Italia dal rischio di finire subito nel mirino della Ue per colpa dell’enorme massa del debito pubblico. Considerando il debito aggregato - cioè la somma dell’indebitamento dello Stato, delle famiglie e delle imprese non finanziarie - la situazione del nostro Paese diventerebbe migliore di quella della Francia, della Gran Bretagna, della Spagna, della Svezia, dell’Olanda, del Belgio. E, comunque, sarebbe al di sopra della media europea. Questo magico aggettivo c’era nella bozza discussa dal ministro dell’Economia nell’ultimo Ecofin della scorsa settimana. C’era anche in quella mostrata a Silvio Berlusconi dal presidente stabile del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, durante il suo giro delle capitali dell’Unione. Ma ora non c’è più e la delusione è forte. Al limite della rabbia. Come prova l’irritazione del ministro degli Esteri, Franco Frattini, che è personaggio solitamente abituato a misurare le parole, ma che l’altra sera a Lussemburgo non ha esitato a dichiararsi «particolarmente sorpreso» di non averla più trovata nel testo che, domani a Bruxelles, sarà sottoposto al vertice dei capi di Stato e di governo della Ue per l’approvazione. Che, a questo punto, potrebbe anche saltare per un veto dell’Italia che «considera il debito aggregato una linea rossa invalicabile e che è pronta a negare il suo consenso». A questa dichiarazione che suona come un guanto di sfida, sono seguite ore di febbrili trattative. Da Roma ieri sono partite nuove proposte di modifica per reinserire il calcolo del debito privato e - nella logica del

T

IL DEBITO AGGREGATO IN RAPPORTO AL PRODOTTO INTERNO LORDO DEI PRINCIPALI PAESI UE

PORTOGALLO

337,9

MEDIA

SVEZIA

270,5

265,1 IRLANDA

325,9

FRANCIA

237,7

BELGIO

305,7

GRECIA

236,4

GRAN BRETAGNA

294,8

ITALIA

235,9

SPAGNA

284,8

FINLANDIA

216,3

OLANDA

276,4

AUSTRIA

210,4

DANIMARCA

271,9

GERMANIA

206,8

rialzo – anche della sostenibilità della spesa pensionistica. Ma la battaglia si annuncia serrata e il suo esito, probabilmente, si conoscerà soltanto venerdì alla fine del vertice di Bruxelles.

A silurare l’intesa che Tremonti e Berlusconi credevano di avere già portato a casa sono state, manco a dirlo, Germania e Francia che hanno raggiunto, non senza difficoltà e asprezze, un’intesa su come rafforzare il Patto di stabilità. Il perché non è poi così difficile da comprendere. L’estensione del parametro del debito all’indebitamento complessivo di Stato, famiglie e imprese non finan-

ziarie rivoluzionerebbe le classifiche europee che vedono, adesso, l’Italia al penultimo posto con un rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo al 115,8 per cento, superata in negativo soltanto dalla Grecia con il 121 per cento. Calcolando il debito aggregato, l’Italia balzerebbe al 235,9 per cento del Pil (e la Grecia al 236,4), ma ancora più consistenti sarebbero i balzi di Paesi come la Gran Bretagna (il 294,8), della Spagna (il 284,8), della Svezia (il 270,5) e della stessa Francia (il 237,7) , per non parlare del Portogallo (il 337,9) e dell’Irlanda (il 325,9). Soltanto la Germania sarebbe più virtuosa dell’Italia (con il 206,8) in-

sieme alla solita Austria (con il 210,4) e alla Finlandia (con il 216,3). La media europea del debito calcolato in questo modo dall’ultima Ruef (Relazione unificata sull’economnia e le finanze pubbliche) sarebbe del 265,1 per cento del Pil e l’Italia, come pure la Grecia, si troverebbero comunque al riparo dalle procedure d’infrazione che la Commissione europea potrebbe lanciare. Durante l’ultimo vertice Ecofin, almeno secondo quanto aveva riferito Tremonti,

Merkel, considera una «furbata all’italiana». Anche se non è così. Perché le regole di Maastricht sono state fatte per assicurare la stabilità alla moneta comune e la salute di una moneta dipende dalla salute complessiva dell’economia di un Paese - o di un’unione di Paesi, come è il caso di Eurolandia - e questa si giudica non soltanto in base al deficit e al debito pubblico, ma ai fondamentali economici che comprendono l’indebitamento privato, la propensione al ri-

La Commissione promuove a metà la legge Finanziaria: bene le misure per centrare gli obiettivi del 2010, da precisare quelle per il prossimo anno. Osservazioni anche sulle manovre degli altri Paesi il ministro francese dell’Economia, Christine Lagarde, si era detta d’accordo con la proposta italiana.

L’incontro di Berlino tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy ha cambiato le carte in tavola. La Francia è stata costretta a fare molte concessioni alla Germania e tra queste, a quanto pare, c’è anche il dietrofront sulla modifica del calcolo del debito che Frau nein, la signora no, come è soprannominata la

sparmio e, perché no, anche la sostenibilità della spesa pensionistica che adesso il governo vuole mettere sul tavolo della trattativa. Furbate o giuste osservazioni, purtroppo, il problema è di metodo e di meccanismi comunitari. Sul metodo, per esempio, i funzionari della nuova presidenza stabile della Ue giurano che nella bozza portata in giro per le capitali da Herman Van Rompuy, il richiamo al debito aggregato «era tra parentesi quadre», il che significa che non era un punto accettato da tutti.

Di parentesi quadre sono pieni i documenti preparatori europei. Con tanto di indicazio-


mondo

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Intesa franco-tedesca

Niente voto ai Paesi non virtuosi ogliere il diritto di voto in Consiglio europeo ai Paesi che violano le regole comunitarie sul deficit. È questa la «posizione unitaria», come l’ha definita Nicolas Sarkozy, che Francia e Germania presenteranno sia al summit Ue di domani che al G20 che si terrà il 26 e 27 giugno a Toronto, in Canada. È questo il più rilevante dei tre punti d’accordo che il presidente francese e la cancelliera tedesca hanno raggiunto al termine del loro incontro di Berlino, mostrando un’unità d’intenti inattesa alla vigilia. «Siamo d’accordo sul mantenimento e sul rafforzamento del Patto di stabilità - ha riferito il capo dell’Eliseo - e sulla proposta che faremo insieme per la sospensione del diritto di voto a quei Paesi che non rispettano le regole. Gli altri due punti d’intesa riguardano le competenze del G20: l’istituzione di una tassa per le banche e di una sulle transazioni nei mercati finanziari.

T

ne dei Paesi che propongono una certa soluzione e di quelli che si oppongono. A volte questi nodi sono risolti al livello dei reppresentanti permanenti dei singoli Paesi della Ue che si riuniscono a ripetione alla vigilia del vertici nei cosiddetti “Coreper” (Comitati dei rappresentanti permanenti). A volte finiscono all’attenzione dei ministri e altre volte - come sarà in questo caso - arrivano fino alla discussione tra i capi di Stato e di governo. Con il rischio di un veto sempre in agguato. Perché per modificare le regole del Patto di stabilità occorre l’unanimità. E questo è chiaramente un problema che potrebbe, però, ritorcersi anche contro la proposta italiana che di sicuro non entusiasma tutti quelli che perderebbero posizioni in classifica.

Sui conti pubblici e sulle manovre nazionali per rimetterli in carreggiata, ieri, è intanto arrivato il giudizio della Commissione europea. Che è a due facce. Per Bruxelles il consolidamento varatro dai 12 Paesi analizzati, Italia compresa, è sufficiente per raggiungere i target del 2010, mentre le misure per raggiungere gli obiettivi

Tremonti con la sua collega francese, Lagarde. Sotto, a sinistra, Sarkozy e, a destra, la Merkel. A fianco, il ministro delle Finanze tedesco, Shauble; mistereuro, Juncker; il presidente Ue, Van Rompuy e il presidente della Bce, Trichet

U n a le t t e r a c o m un e

dopo il 2010 devono essere «precisate». Una promozione a metà, insomma, come è accaduto spesso anche in passato. L’esecutivo Ue, inoltre, ha annunciato di avere aperto un’azione disciplinare contro tre Paesi - Cipro, Danimarca e Finlandia - per violazione del limite del tetto del 3 per cento del deficit. La Finlandia è invitata a riportare il disavanzo sotto il 3 per cento il prossimo anno, Cipro nel 2012 e la Danimarca nel 2013. A proposito di Spagna e Portogallo, la Commissione ha definito «opportunamente ambiziosi» i programmi di austerità fiscale varati per questo e il prossimo anno. Al momento, di tutti i 27 paesi Ue, soltanto Lussemburgo e Bulgaria non stanno violando le norme comunitarie sui conti pubblici.

sarà inviata da Sarkozy e dalla Merkel all’attuale presidente del G20, il primo ministro canadese Stephen Harper, a conferma che l’asse franco-tedesco continua al di là di tutte le fibrillazioni. Sul rafforzamento del Patto di stabilità, oltre alla sospensione del diritto di voto per i Paesi che violano «insistentemente» le regole, è stata ridimensionata la proposta francese di istituire un segretariato che armonizzi le finanze dei Paesi membri e riequilibri l’economia di chi è in surplus e di chi è in deficit. Sarkozy ipotizzava una governance a livello di Eurolandia, la Merkel era contraria ad affidare a una nuova istituzione il controllo delle finanze comunitarie ed è riuscita a imporre che il coordinamento rimanega al Consiglio europeo che comprende tutti i Ventisette. Sarkozy ha definito l’incontro di Berlino «franco e vivace» e ha assicurato che «nessun problema è stato taciuto durante il colloquio».


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grandangolo Pubblicato dopo dodici anni il Rapporto Saville

Bloody Sunday, una verità nascosta per 38 anni

La “Domenica di Sangue” del 1972 aprì una drammatica parentesi difficile da dimenticare. Ma la strage dei 13 civili falciati dai paracadutisti britannici senza alcun motivo è stata la spinta che ha dato l’impulso decisivo al processo finale di pacificazione dell’Isola di Smeraldo. Ora si consegnino gli autori alla giustizia di Eamon McCann erché la chiamano Bloody Sunday? Nel corso di altri singoli incidenti avvenuti durante i Troubles – gli scontri fra lealisti e indipendentisti – il numero delle vittime è stata maggiore. Quindici sono i cattolici uccisi nel bombardamento lealista del McGurk’s Bar nel New Lodge a Belfast di un mese prima. Diciotto sono i paracadutisti uccisi in un’imboscata dell’IRA a Warrenpoint nel 1979. E, numeri a parte, il massacro dei Provisional di 11 protestanti mentre stavano in riverente silenzio attorno al monumento ai caduti di Enniskillen nella Domenica del Ricordo nel novembre 1989 non era forse malvagio e ingiustificabile come il massacro di Bogside? Una serie di fattori ha reso gli eventi di Derry molto diversi.

P

Non si è trattato di un’atrocità perpetrata nei confronti di una comunità da parte di persone con la pretesa di rappresentare le altre. Non si poteva adattarla al racconto preferito del pensiero britannico ufficiale. Agli assassini erano state date delle uniformi per rappresentare lo Stato. L’affronto è stato ancora più grave se si pensa al fatto che lo Stato, ai suoi massimi livelli, non ha mai definito gli omicidi sbagliati o illegali. In qualsiasi altra atrocità paragonabile, alle vittime è stato riconosciuto di essere state erroneamente uccise e gli esecutori sono stati condannati come trasgressori. Ma alle famiglie della Bloody Sunday è stato detto, in verità,

Il governo laburista di Tony Blair volle dare un segnale nuovo all’Irlanda e agli irlandesi. E la gente in marcia lo ha riconosciuto che mentre avrebbero il diritto personale e legittimo di lamentare la perdita di un caro, non avevano un campo più ampio di dolore o un’aspettativa legittima perché gli assassini fossero condotti a giudizio.Tutte le vittime sono quindi state diminuite di valore. Liam Wray, fratello di Jim Wray, 22 anni, ucciso con un colpo di pistola alla schiena sparato a bruciapelo mentre giaceva ferito in Glenfada Park, ha commentato: «Questo significa che mio fratello era meno di un essere umano». Anche la Bloody Sunday era diversa, in quanto doveva dimostrare un notevole complotto nei racconti dei Troubles settentrionali. Il dolore della comunità col ritorno degli omicidi di massa tendenzialmente sta svanendo, la felicità di coloro che sono rimasti presumibilmente è infranta per sempre ma la vita pubblica non è cambiata in maniera evidente. Anzi, Bloody

Sunday ha catapultato le comunità cattoliche della classe operaia di tutta l’Irlanda del Nord fuori dalle nozioni di costituzionalità, rimuovendo dal parlamento di Stormont qualsiasi legalità che aveva tra i cattolici. Il Parlamento, che aveva governato l’Irlanda del Nord dalla divisione, venne abolito otto settimane dopo la Bloody Sunday, tre settimane prima della pubblicazione delle scoperte di Widgery. Nessun altro cambiamento importante è derivato così direttamente da un singolo incidente. Bloody Sunday si è distinta fra tutte le atrocità anche in quanto è stata perpetrata in pieno pubblico.

La maggior parte degli omicidi nell’Irlanda del Nord si sono verificati con repentino fragore, per strade solitarie o nel buio della notte, con imboscate furtive o bombardamenti. Bloody Sunday si è palesata in circa otto minuti in un’area abitata nel corso di un soleggiato pomeriggio e in circostanze in cui migliaia di amici e vicini delle vittime erano affollati nelle immediate vicinanze. Nel giro di poche ore, anche mentre Jackson stava trasmettendo alla Whitehall il racconto che sarebbe stato poi disseminato dal governo britannico per ingannare la popolazione, la gente a Derry stava raccogliendo i propri ricordi del giorno e la propria incrollabile verità. Erano poche le persone del posto che non conoscevano alcune delle vittime o alcune delle famiglie delle vittime.

È stato ripetutamente argomentato che l’inchiesta di Saville si sarebbe dimostrata futile in quanto «le persone hanno già preso una loro decisione». È vero, inoltre, che i sostenitori non hanno richiesto una nuova inchiesta perché volevano che venisse detta la “loro verità”; ma perché volevano che venisse detta la verità. Nei due anni successivi al massacro, l’Associazione per i diritti civili dell’Irlanda del Nord ha organizzato delle marce commemorative; dal 1975 al 1989 sono state invece organizzate dallo Sinn Fein. Alcune famiglie, che non apprezzavano la colorazione politica, si sono ritirate. All’epoca, la richiesta per una nuova inchiesta non era prominente. I politici nazionalisti militanti, affrontando la questione, volevano liberarsi della giurisdizione inglese; non volevano la giustizia del sistema legale britannico. Nel 1987 un gruppo di familiari delle vittime, insieme ad attivisti di diverse identità politiche, hanno formato l’Iniziativa Bloody Sunday – più tardi rinominata Bloody Sunday Justice Campaign – proprio con lo scopo di ottenere nuove indagini.

Nel 1992, il gruppo ha avanzato tre richieste specifiche: la rimozione di Widgery e l’istituzione di una nuova inchiesta; il formale riconoscimento dell’innocenza delle vittime; la messa in stato d’accusa dei soldati responsabili. Il gruppo si è scontrato con una considerevole ostilità iniziale, ma dopo qualche


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Il premier Cameron: «Sono un patriota, ma il mio Paese ha sbagliato di brutto»

Anche Londra ammette: «Le vittime di Derry erano completamente innocenti. I colpevoli pagheranno» di Massimo Ciullo eri mattina, alcune pesanti casse rosse sono state consegnate al municipio di Derry (il prefisso London è usato solo dai protestanti unionisti). Il loro contenuto, circa 5mila pagine, frutto del lavoro d’inchiesta della Commissione Saville sulla Bloody Sunday, è stato atteso per circa 38 anni dall’intera comunità cattolica e da tutti coloro che sostengono i diritti civili e la causa repubblicana nelle sei contee dell’Irlanda del Nord. Londra ha deciso di concedere ai parenti delle vittime la facoltà di leggere in anteprima i risultati della seconda inchiesta sulla “domenica di sangue”, autorizzata nel 1998 dall’allora premier laburista Tony Blair, che ha incaricato Lord Saville di Newdigate di formare un nuovo team di magistrati per fare luce sugli eventi del 1972. La sete di verità e giustizia dell’associazione dei familiari delle vittime sono state soddisfatte. Ci sono voluti altri dodici anni e 195 milioni di sterline, l’ascolto di migliaia di testimoni e la visione di circa duecento documenti filmati, per far emergere le responsabilità politiche e militari dell’intera vicenda. Le conclusioni non concedono adito ai dubbi: nessun avvertimento è stato lanciato dai soldati prima di aprire il fuoco; nessun soldato ha sparato in risposta al lancio di bottiglie incendiarie o pietre; alcune vittime sono state uccise o ferite mentre cercavano di soccorrere altri manifestanti colpiti; nessuna delle vittime aveva posto in essere comportamenti minacciosi nei confronti dei soldati; molti militari hanno mentito nella loro ricostruzione dei fatti; non c’era alcuna premeditazione negli eventi della Bloody Sunday. Era il 30 gennaio 1972, quando il 1° Battaglione del Reggimento Paracadutisti dell’esercito britannico aprì il fuoco contro una folla di manifestanti per i diritti civili, colpendone 26. Il bilancio finale fu terribile: tredici persone uccise, la maggior parte delle quali giovanissime. La quattordicesima vittima morirà quattro mesi più tardi per le ferite riportate. Due manifestanti rimasero feriti in seguito all’investimento da parte di veicoli militari. Cinque vittime inoltre furono colpite alle spalle, mentre tentavano di fuggire per sottrarsi ai proiettili dei parà. No-

I

Il primo ministro conservatore David Cameron, che ieri ha ammesso le responsabilità di Londra nella Bloody Sunday. In basso Bobby Sands tempo la situazione è cambiata. Il nascente processo di pace, che coinvolgeva anche il governo di Dublino, iniziava a riportare agli irlandesi alcune di quelle prerogative che fino ad allora gli erano negate. Nel 1995, questo modo di fare ha dato i primi frutti: John Bruton incaricò un funzionario del governo proprio per trattare con i parenti delle vittime, mentre il direttore del British Irish Right Watch Jane Winter, e l’avvocato dello Stato di Belfast Patricia Coyle, ottennero le trascrizioni delle conversazioni fra l’allora primo ministro Heath e lord Widgery. Conversazioni precedenti

punto di vista del governo irlandese la richiesta di una nuova inchiesta. Il 29 gennaio del 1998, davanti alla Camera dei Comuni, Blair annunciò al Paese la creazione di un nuovo comitato di inchiesta: le famiglie delle vittime festeggiarono insieme per quella che, dissero, era una vittoria per la loro campagna.

Ma bisogna sottolineare che questa vittoria venne facilitata da alcuni sviluppi politici più ampi: sette giorni prima della firma dell’Accordo di Belfast, lord Saville pronunciò il suo discorso di apertura a Guildhall. Per le famiglie, vi-

La prima inchiesta si concluse in fretta e silenzio, in modo che i familiari delle vittime fossero del tutto tagliati fuori dai risultati alla nomina di quest’ultimo a capo della Commissione d’inchiesta. I documenti sono divenuti la base del Rapporto presentato nel 1977 dal professor Dermot Walsh, intitolato The Bloody Sunday Tribunal of Inquiry: A Resounding Defeat for Truth, Justice and the Rule of Law. Nel giorno del 1997, l’amministrazione di Bertie Ahern presentò all’appena eletto primo ministro Tony Blair altre 178 pagine di nuovo materiale. Una prefazione mise la Bloody Sunday nel contesto del processo di pace in via di sviluppo e, per la prima volta, avanzò dal

vere nel corso di questa inchiesta è stata un’esperienza intensamente emozionale, a volte affascinante e a volte noiosa. Per alcuni, ascoltare le deposizioni in tribunale è divenuta un’occupazione a tempo pieno. Ora, la pubblicazione del Rapporto riapre le speranze: ieri hanno marciato dal luogo del massacro a Guildhall, e hanno saputo per quale motivo i loro familiari sono stati uccisi da un reggimento scelto dell’esercito britannico. E dopo 38 anni, forse, la verità verrà alla luce. Accompagnata dalla giusta punizione per i responsabili.

nostante le numerose testimonianze contrarie, le autorità britanniche preferirono credere ai militari che dissero di aver aperto il fuoco in risposta ad alcuni colpi di pistola provenienti dai manifestanti. Solo le insistenze delle organizzazioni per i diritti civili e la solidarietà internazionale indussero il governo britannico ad autorizzare una prima commissione d’inchiesta sul massacro. La “Widgery Tribunal”, dal nome del suo presidente, Barone John Widgery, è passata alla storia come il tentativo meglio riuscito di insabbiamento delle responsabilità del governo e dei comandanti sul campo, tanto che perfino il premier conservatore David Cameron si è sentito in dovere di chiedere scusa alle vittime e ai loro familiari a nome del Regno Unito, per le mistificazioni contenute nei rapporti dei militari. Presentando ieri il rapporto Saville, il leader dei Tories ha detto: «Sono patriottico e non voglio mai credere a niente di cattivo sul nostro Paese, ma le conclusioni di questo rapporto sono prive di equivoci: ciò che è successo il giorno di Bloody Sunday è stato ingiusto e ingiustificabile. È stato sbagliato». Ieri mattina, una folla si è radunata intorno al monumento che ricorda le vittime della strage nel quartiere di Bogside di Derry, per poi dirigersi in corteo verso il municipio cittadino. Qui, alcuni familiari delle vittime hanno potuto accedere per primi alla poderosa mole di documenti contenuti nelle famose casse rosse. Kay Duddy, il cui fratello Jackie fu tra i primi ad essere colpito a morte durante la sparatoria, è stata la prima persona che ha potuto dare uno sguardo alle carte. La donna ha detto di aver atteso a lungo questo momento, poi ha rovistato nella sua borsa e ha tirato fuori un fazzoletto con ricamato sopra il nome di p. Edward Daly. Si tratta dello stesso fazzoletto usato dal religioso per cercare di tamponare le ferite di Jackie Duddy. È un cimelio che solitamente si trova esposto al memorial del Free Derry Museum, ma oggi Kay lo ha voluto portare con sé: «Mi ha dato la forza per cercare di capire fino in fondo che cosa è realmente accaduto a mio fratello».


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Calcio. L’esordio in Sud Africa del team di Kim Jong-il è pieno di incognite: dall’attaccante schierato in porta al destino dei calciatori in caso di sconfitta

Ricordate Park Doo-ik? Ai Mondiali c’è la Corea del Nord. Vediamo che fine ha fatto la squadra che ci mandò a casa nel 1966... di Vincenzo Faccioli Pintozzi hollima è un cavallo alato, protagonista assoluto della mitologia coreana. Prima della Guerra civile del 1950 e della successiva separazione, quando la penisola di Corea accampava diritti di sovranità persino sulla Cina, Chollima era l’araldo che guidava le truppe del Chosun – l’Impero del Sole – in battaglia. Il suo nome, tradotto un po’ rozzamente, significa “cavallo dalle mille miglia”: la sua icona è un classico equino avvolto da fiamme soprannaturali, che sprigiona potenza e incute timore. E se nell’anno Mille, sotto la sua bandiera, le truppe coreane misero veramente piede in Cina puntando verso la capitale del Sud, Nanchino, nell’anno 2010 l’araldo campeggia su una delle squadre meno conosciute della Coppa del Mondo. Chollima, oggi, è infatti il soprannome della Nazionale di calcio della Corea del Nord. È il team più misterioso, inaccessibile e schivo davanti a televisioni e stampa di tutto il Mondiale: ognuno dei 22 calciatori presenti, così come ogni altro membro della delegazione, ha un agente dei servizi segreti di Pyongyang delegato alla propria “sicurezza”. Di fatto, senza il consenso di questi inquietanti angeli custodi, i nordcoreani in Sud Africa non possono fare nulla. Tanto che il team ha scelto come sede del ritiro lo Zimbabwe, unica fra le 32 squadre presenti alla rassegna. Una decisione che ha scatenato la protesta della popolazione locale, perché Pyongyang è coinvolta nell’addestramento delle truppe di Harare.

C

Egli avrebbe potuto scegliere fra tre diverse nazionalità: Giappone, Corea del Sud e Corea del Nord. Alla fine ha optato per Pyongyang e manifesta ottimismo: «Con il Brasile – ha sottolineato Jong in un impeto di ottimismo – possiamo farcela». Gli scommettitori la pensano in maniera diversa: la squadra di Kim Jong-hun, secondo gli allibratori, non ha alcuna possibilità di vincere. Penultima sulle 32 partecipanti, la vittoria ha una quota che varia da 500 a 2000 a uno. In gioco c’è qualcosina di più del-

scesi in campo ieri contro il Brasile. Park, nominato nel ’66 “Atleta del popolo”, portò la Corea del Nord ai quarti di finale nei Mondiali inglesi. La sua squadra, che vinceva 3 a 0 contro il Portogallo, venne tuttavia eliminata nello stesso incontro, che si concluse 5 a 3.Tornati in patria, i calciatori nordcoreani vennero accolti come eroi dal regime, che li mise ai vertici governativi per circa un anno. Passata l’euforia, però, caddero tutti in disgrazia. Alcuni dirigenti comunisti aprirono alla fine degli anni Sessanta un’inchiesta sull’intera squadra, che venne costretta ad una durissima “rieducazione mentale”: secondo il Partito, infatti, non erano stati in grado di vincere contro il Portogallo per “motivi ideologici”. Alla fine di questo processo, vennero esiliati tutti nelle province. Park finì nel distretto dei lavoratori di Daepyong, dove gli venne assegnato il ruolo di boscaiolo. Rimase nel distretto per dieci anni, fino alla presa di potere di Kim Jong-il. Questi, affascinato dagli “eroi del Mondiale”, richiamò la squadra nella capitale e mise Park alla guida della Commissione atletica Yangkang. Più tardi divenne l’allenatore della squadra di calcio nordcoreana, ma con scarsi risultati. La storia della sua vita è stata anche il soggetto di un film – “Chollima Soccer Team”– girato dal documentarista inglese Daniel Gordon. Nel film si parla molto brevemente di quello che avvenne agli altri membri della squadra: punizioni corporali e morte hanno accompagnato la sorte dei 22. Forse per evitare delusioni come quella del 1966, o più probabilmente per mancanza di denaro, il torneo non verrà visto nel Paese. Il governo di Pyongyang, infatti, non ha comprato i diritti televisivi che permettono la trasmissione delle partite. La mancata visione della Coppa del Mon-

Le partite del torneo non si vedranno nel regime asiatico: i diritti televisivi sono in mano ai sudcoreani, che non vogliono cederli

Una decisione che conferma come la lunga mano del dittatore di Pyongyang non intenda distrarsi neanche in trasferta. E proprio Kim Jong-il, il “Caro Leader”, è universalmente riconosciuto come l’artefice del successo dei Chollima. L’allenatore Kim Jong-hun attribuisce a lui il merito della qualificazione alla rassegna, perché avrebbe fornito suggerimenti tattici per vincere le partite. I successi, ha detto, «sono merito del Caro Leader del popolo Kim Jong-il, che è molto interessato al calcio e ha investito nel team». Il dittatore nordcoreano non ha però spiegato al mister le regole sulle convocazioni: l’allenatore, infatti, ha inserito uno dei migliori attaccanti nell’elenco dei tre portieri. Ora Kim Myong-won, che sognava un gol mondiale, potrà al massimo evitare di subirne. La stella della squadra è Jong Tae-se e gioca in Giappone, nazione in cui è nato.

l’onore: se la nazionale maschile non eccelle nel panorama mondiale, la compagine femminile è quinta nella classifica Fifa e la nazionale Under 19 delle nordcoreane si è laureata campione dell’Asia nel 2006. Quella di Pyongyang è comunque una squadra che riserva sorprese. Se nessuno gli dà molto peso oggi, ancora meno persone credevano in quel team nel 1966, quando però la Corea del Nord riuscì a eliminare l’Italia. Park Doo-ik, autore del gol che costò l’eliminazione degli Azzurri, venne selezionato come il più anziano tedoforo dei Giochi olimpici di Pechino 2008. Ma la sua storia è un monito per i calciatori

do deriva dalle continue provocazioni militari messe in atto nel corso dell’anno da Pyongyang: dai colloqui sul disarmo atomico, oramai abbandonati da tempo, fino all’affondamento della corvetta sudcoreana Cheonan, che ha provocato un’escalation militare che ha portato la penisola sull’orlo di una nuova guerra civile.

Il detentore dei diritti televisivi della Coppa del Mondo per la Corea è la Sbs, che durante il periodo di disgelo fra Seoul e Pyongyang proiettava gratuitamente le partite anche al Nord. Ma l’era della “Sunshine Policy”, la politica di trattative fra i due Paesi, sembra essere finita e il governo del Sud – guidato dal conservatore Lee Myung-bak – non si è addossato le spese per i diritti. Il ministero dell’Unificazione di Seoul, dicastero che si occupa della situazione nel Nord, ha chiarito che «la decisione è stata presa in seguito alle provocazioni militari. Non abbiamo chiesto noi a Pyongyang di costruire la bomba atomica o di compiere attacchi in mare. Dopo l’affondamento della Cheonan, non possono pretendere nulla». La


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L’obiettivo è quello di sfondare nei mercati interni dei due Paesi

Lo “sponsor del Male” arriva da Pompei La Legea, piccola azienda nei pressi di Napoli, è il partner tecnico ufficiale di coreani e iraniani di Pierre Chiartano uando si dice il destino. Correva l’anno 1966, quando la Corea del Nord eliminava dai Mondiali di calcio – in maniera del tutto inaspettata – l’Italia di Rivera, Mazzola e Facchetti e, in quel di Pompei, i coniugi Antonio ed Elena Acanfora fondavano una piccola azienda per la produzione di abbigliamento sportivo. Un legame che quasi mezzo secolo dopo riemergerà, quando saranno gli eredi a guidare la società e a sponsorizzare gli “odiatissimi”coreani del Nord. L’azienda si chiama Legea dal 1993, ma è la stessa impresa voluta da Antonio ed Elena quando l’Italia fu eliminata dalla Coppa Rimet in Inghilterra. Ieri sotto i riflettori degli appassionati di calcio di tutto il mondo, il marchio campano, esportato a livello globale, ha fatto mostra di sé in Sud Africa, sulle magliette della nazionale nordcoreana in campo contro Brasile. Un contratto quadriennale da un milione di euro all’anno, è questo l’accordo stipulato tra Legea e la federazione del rogue state asiatico. Non c’è più il tipografo calciatore Park Doo-ik che al 41esimo ci rifilò «l’insaccata fatale», ma qualcuno c’è rimasto male lo stesso. A Washington non hanno tanto gradito uno sponsor occidentale sulle divise dell’”arcinemico”.

Q

propaganda del Nord ha comunque ancora molte armi da usare, per sfruttare ogni risultato possibile dopo il girone di qualificazione. Il Brasile, primo avversario, potrebbe rappresentare in caso di vittoria l’ennesima affermazione di Chollima nelle mille battaglie che ha dovuto combattere. Ma anche in caso di disfatta, la possibilità è quella di accusare il neo-imperialismo coloniale del governo brasiliano, vittima di diverse punzecchiature nel corso dell’anno da parte di Pyongyang. In seconda battuta, ecco avanzare il ”vecchio nemico”, il Portogallo che riprese i tre gol di svantaggio eliminando la Corea dal Mondiale inglese. In caso di sconfitta, i coreani accuseranno la formazione latina di scorrettezze sul campo e provocazioni fuori dal terreno di gioco.

In caso di vittoria, non è impossibile prevedere una festa nazionale, una sorta di catarsi con cui Kim Jong-il potrebbe far dimenticare per qualche ora al proprio popolo le sofferenze atroci in cui sono costretti proprio a causa del governo. Ultimo invitato nel “girone della morte”, come è stato ribattezzato dai bookmakers inglesi, è la Costa d’Avorio di Didier Drogba. Questa formazione, considera la più forte del continente africano, non preoccupa in alcun modo Pyongyang e la sua propaganda. Essendo una delle popolazioni più razziste al mondo - aspetto spesso ignorato - i nordcoreani non considerano i neri dei veri e propri esseri umani. Che si vinca o si perda, contro di loro, non conta nulla. Neanche per Chollima.

zione commerciale. Ma a Pompei non si scompongono. «Siamo sommersi da fax, mail e telefonate di curiosi che ci chiedono notizie sulla Corea del Nord, questo accordo ci sta garantendo una pubblicità inattesa» fanno sapere dall’azienda campana. A loro non sembra vero. Il brand sportivo è al centro dell’interesse internazionale.

«Non crediamo sia pubblicità negativa legare il nostro marchio ad un Paese impenetrabile come quello nordcoreano – aggiungono gli Acanfora – perché la visibilità è sempre produttiva, come insegnano i grandi esperti di comunicazione». Se lo dicono loro. «In effetti la Corea del Nord è un territorio chiuso nel quale nemmeno i servizi segreti riescono ad entrare, però proprio per questo motivo noi ci sentiamo orgogliosi, come napoletani, per aver concluso un affare difficilissimo» si legge sul loro sito web. È la federazione nordcoreana pagherà per la fornitura del materiale tecnico interamente prodotto e disegnato presso la fabbrica di Pompei. Ma il business non si limita al calcio e nel portafoglio Legea troviamo anche ciclismo, basket, handball, pallavolo e rugby. Sono oltre duecento gli accordi sottoscritti nelle varie discipline per un giro d’affari annuale che supera i dieci milioni di euro. L’azienda oltre ad aver attivato un franchising per l’apertura di punti vendita in Italia, gestisce direttamente degli store in Germania, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti. Forse questi ultimi venderanno di meno in futuro. Legea punta molto sugli eventi sportivi e su accordi con federazioni e società sportive in grado di garantire visibilità al marchio. L’azienda preferisce legarsi alle discipline di squadra piuttosto che scegliere testimonial singoli e privilegia in molti casi realtà di nicchia dove però esiste una forte coesione tra il team ed il pubblico. E alla Espn, il canale tv all sport hanno già lanciato l’allarme ai big di Puma e Adidas: attenti ai campani. E i bulgari del Lokomotiv Plovdiv fanno sicuramente il tifo per gli Acanfora.

La ditta: «Non crediamo sia pubblicità negativa legare il nostro marchio a un Paese impenetrabile»

Un poster della propaganda comunista incita a tifare per la Nazionale del Nord. In alto, una scena da Portogallo-Corea del ’66. Nella pagina a fianco, il gol di Park che costò all’Italia l’eliminazione dallo stesso campionato, il dittatore nordcoreano Kim Jong-il e la festa post-qualificazione

Già non gli era piaciuta la sponsorizzazione della nazionale iraniana. Sì, perché alla Legea vanno forte sui mercati non tradizionali: Algeria, Georgia, Cipro, Bulgaria, Zimbabwe e Croazia portano con orgoglio il brand campano. A onor del vero anche squadre più blasonate, come Olanda, Germania e Spagna rientrano nel programma di lavoro degli eredi Acanfora. In casa nostra il marchio spicca sulle cascche dei giocatori del Livorno, del Noicattaro e del Gela, tanto per fare qualche nome. E poi del Palermo e del Catania, anche se quest’ultima non sembra tanto entusiasta. A loro a quanto pare importa poco delle black list e proseguono per la loro strada. Business is business, lo sanno anche a Pompei. Ma alcuni media statunitensi hanno sottolineato con sdegno l’opera-


cultura

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stato il più potente e misterioso servizio segreto italiano. Campagne di disinformazione, depistaggi, doppiogiochismi, provocazioni: nulla è mancato nella storia dell’Ufficio Affari riservati del Viminale. Eppure, prima dell’uscita de Il cuore occulto del potere, scritto da Giacomo Pacini ed edito da Nutrimenti, una ricostruzione dell’attività di questo organismo non era mai stata scritta, tanto che ancora oggi gran parte dell’opinione pubblica ignora perfino che sia esistito.

È

Il libro di Pacini colma finalmente un vuoto e, attraverso una corposa mole di documenti inediti e approfondite ricerche d’archivio, ripercorre la storia dei servizi segreti del ministero dell’Interno, concentrandosi soprattutto sull’influenza che ebbe nelle vicende nazionali dell’immediato dopoguerra e gli anni di piombo, e fornendo nuove e significative rivelazioni su alcuni dei principali misteri italiani, dalla strage di piazza Fontana al golpe Borghese. Dalla ricostruzione emerge per la prima volta con completezza d’informazioni la figura di Federico Umberto D’Amato, sotto la cui direzione i servizi segreti del Viminale raggiunsero, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, l’apice del loro potere. Anima nera della Repubblica per i suoi detrattori, il più geniale uomo d’intelligence che il Paese abbia mai avuto per i suoi sostenitori, D’Amato trasformò l’Ufficio Affari riservati in un moderno organo di spionaggio, dotato di una rete di infiltrati senza precedenti. Le ombre che gravano sull’attività della struttura ai tempi della direzione di D’Amato sono pesanti. Fu l’Ufficio Affari riservati a instradare artificiosamente le indagini sulla strage di piazza Fontana verso la pista anarchica? Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale e Zorzi, esponente di Ordine Nuovo, ebbero legami con D’Amato? Che ruolo ha avuto, si chiede l’autore, l’Ufficio affari riservati nella drammatica stagione della strategia della tensione? Ma Federico Umberto D’Amato, morto nel

Libri. La storia dell’Ufficio Affari riservati ne “Il cuore occulto del potere”

Il “romanzo Viminale” di Giacomo Pacini di Francesco Capozza D’Amato riceveva spesso i suoi informatori nei più famosi ristoranti dell’epoca. Su tutti, c’era il Papà Baccus, celebre ristorante in via dei Fienaroli, a due passi dal Senato, dove il capo dei Servizi segreti italiani era solito intrattenersi con le spie

sotto lo pseudonimo di Federico Godio (cognome della madre). La più importante spia italiana, dunque, trovava pure il tempo di lavorare come critico gastronomico. Un personaggio davvero eclettico, legato ad un editore progressista nonostan-

Il ruolo del servizio segreto del ministero dell’Interno, dalla strage di piazza Fontana al golpe Borghese, attraverso Federico Umberto D’Amato, figura di spicco dell’intelligence italiana (col pallino della gastronomia) 1996, era un personaggio assai bizzarro, oltre che, probabilmente, uno dei più grandi esperti d’Intelligence del secolo scorso. Un personaggio dalle mille sfaccettature che riusciva anche a coltivare una grande passione: la tavola. Questa passione si evince anche dai verbali emersi dall’archivio segreto del Viminale, dove risulta che

russe. Non solo. Tra le sue amicizie (alcune delle quali più o meno losche e più o meno potenti), c’era anche il principe Carlo Caracciolo, editore de L’Espresso, che si legò a tal punto a D’Amato da offrirgli prima una rubrica di ristoranti sul settimanale, poi la direzione della neonata Guida dei Ristoranti d’Italia, il tutto firmato

te un passato molto vicino al regime fascista (c’è da ricordare che all’interno dei Servizi italiani e dell’Ufficio Affari riservati in particolar modo, molte ex spie fasciste ricoprirono per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta posti di rilievo, se non di direzione). La gastronomia, al pari dell’Intelligence e dello studio delle informazioni

Qui sopra, la copertina del libro di Giacomo Pacini “Il cuore occulto del potere” (Nutrimenti). In alto, un disegno di Michelangelo Pace

riservate era per D’Amato un vero e proprio pallino. Come scrisse in un suo ormai introvabile libro (in cui ritenne di descrivere le abitudini culinarie di tutti i personaggi famosi che aveva conosciuto): «Ogni buon agente segreto, insieme al cifrato o al miniregistratore, ha sempre un taccuino con i buoni indirizzi di forchette nel suo paese e all’estero. Questi ristoranti sono convenzionalmente una specie di campo neutro, dove si parla liberamente, senza timore di registrazioni clandestine o di altri trucchi e dove i camerieri hanno una sorta di nulla osta di sicurezza». E tutto questo, come accennato, non deve apparire come una semplice nota di colore, visto che già negli anni Sessanta D’Amato aveva cominciato a collaborare con la celeberrima Guida francese che porta il nome dei due critici gastronomici Gault e Millau. Da lui, gran parte degli attuali giornalisti eno-gastronomici hanno imparato la cultura dello stare a tavola, Enzo Vizzari, suo secondo successore al timone della Guida dei Ristoranti de l’Espresso e giovane redattore all’epoca della direzione D’Amato, dice: «Era il più grande palato italiano, sensibilissimo all’alta cucina come alla più tipica trattoria. A lui rimprovero solo una cosa: l’aver sempre pasteggiato a Vodka». Prima della sua morte D’Amato fu chiamato a deporre più volte dalle numerose commissioni d’inchiesta che il Parlamento ha negli anni istituito per indagare sulle stragi degli anni di Piombo.

Per capire chi era davvero questo potente personaggio è interessante riportare una lettera che egli stesso inviò all’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni e che non solo in qualche modo dà la misura dell’uomo, ma può anche essere letta come testamento morale di un uomo vissuto per oltre mezzo secolo tra luci e ombre. «Operando in modo autonomo e personale, ho preso contatto e ho sviluppato rapporti in tutti i settori e con ogni persona che ritenevo utile a tali fini. Se le mie frequentazioni dovessero essere interpretate come una scelta, io potrei essere considerato, caso per caso, fiancheggiatore di Autonomia Operaia o del terrorismo palestinese, agente del servizio americano o sovietico, emissario di questo o quel partito politico». (Queste parole sono tratte, come detto, da una lettera riservata che D’Amato scrisse al ministro Virginio Rognoni. In particolare al direttore dell’Ufficio Affari riservati, l’allora titolare del Viminale aveva chiesto di fornire spiegazioni sul perché il suo nome fosse comparso nell’elenco degli iscritti alla loggia massonica P2).


cultura

16 giugno 2010 • pagina 21

Libri&Musica. La straordinaria carriera di Sergio Bardotti raccontata nel volume “Occhi di ragazzo” curato da Nini Giacomelli

Il paroliere della canzone italiana di Adriano Mazzoletti er chi è abituato a pensare che sia fondamentale passare sui media, il mestiere dell’autore di canzoni (o dell’autore televisivo) è sicuramente frustrante. Perché l’autore è inesistente. Può fare anche delle hit o programmi da grandi di indici di ascolto, ma rimane pur sempre invisibile». Con queste parole Nini Giacomelli, amica e collaboratrice di Sergio Bardotti, introduce il suo bel volume su uno degli autori più intelligenti, colti e sensibili che ha attraversato il mondo della canzone italiana per quasi cinquant’anni. Quando Nini Giacomelli descrive l’autore come un «uomo invisibile» non ha tutti i torti. Nel mondo della musica leggera è l’interprete che ha successo e che viene conosciuto e riconosciuto dal grande pubblico e, in second’ordine, l’autore della musica. Perciò se dovessimo chiedere: «Chi ha scritto - ad esempio - i versi di Piazza grande?, in molti risponderebbero Lucio Dalla e Rosalino Cellamare, rispettivamente interprete e autore della musica, mentre nessuno, ne sono certo, farebbe il nome di Sergio Bardotti. E gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Perché il “paroliere” nella canzone italiana e non solo, ha sempre avuto un ruolo nascosto. Ma è questa storia antica. Anche nella grande canzone americana, gli autori dei testi sono spesso dimenticati di fronte aI Cole Porter, George Gerswhin, Irving Berlin, autori delle musiche. Pochi sanno ad esempio che quando Duke Elliington compose Sophisticated Lady, una delle sue immortali melodie, chiese a Mitchell Parish di scrivere i versi. Questi “uomini invisibili” continuarono per molti anni ancora a far scaturire dallo loro fantasia testi poetici che contribuirono a rendere famose molte canzoni.

«P

In Italia un primo sintomo di cambiamento si verificò agli inizi degli anni Sessanta quando giunse a Roma da Pavia, dove era nato nello stesso anno in cui era iniziata la seconda guerra mondiale, un giovanotto che suonava un po’ il pianoforte, ma con in tasca una laurea in Lettere che aveva ottenuto presentando una testi sul “Manzonismo e

un martello diviene subito un grandissimo successo anche se la versione italiana non rispettava il concetto espresso dal cantante americano. Bardotti venne quasi costretto a modificare il testo originale per farlo interpretare da Rita Pavone. Era una canzone di protesta e quel “martello”serviva per martellare i potenti. Dal ’63 al fatidico ’69, scrive o traduce testi per Lucio Dalla, Alain Barrière, Mina, Paul Anka, Edoardo Vianello, Patty Pravo e addirittura Anna Moffo. Poi nel 1969, la svolta. Per Sergio Endrigo scrive il testo di Canzone per te che il cantante di Pola porterà al Festival di Sanremo.

A fianco, uno scatto di Sergio Bardotti. Sotto, in senso orario: la copertina del libro “Occhi di ragazzo” di Nini Giacomelli; la copertina del vecchio disco “La voglia, la pazzia, l’incoscienza”, di Toquinho, Ornella Vanoni e Vinicius de Moraes; una foto di Lucio Dalla

gli Stenterelli” che gli valse un 110 e lode con abbraccio accademico. In precedenza aveva anche inciso come cantante, un paio di 45 giri sotto lo pseudonimo di Sergio Dotti che passarono inosservati - ristampati postumi nel 2008 - ma che denotavano già quell’intensa carica poetica che avrebbe manifestato appieno dal 1963 quando scrisse il testo di La nostra casa, su musica del batterista toscano Flavio Carraresi, interpretata da Gino Paoli e, sempre nello stesso anno, Era d’estate, canzone scritta e cantata da Sergio Endrigo. Quelle due can-

zoni gli aprirono la strada della Rca, grazie anche ai buoni auspici di Lanfranco Caretti, suo professore di letteratura al Collegio di Pavia, non come autore di canzoni, bensì come produttore di dischi letterari. Iniziativa di grande importanza e significato, seguita anche da altre case discografiche quali Fonit-Cetra. Come curatore della collana, Bardotti ebbe subito una idea eccezionale, far leggere le loro opere direttamente agli stessi poeti. Nacquero dischi leggendari con le straordinarie voci di Ungaretti, Quasimodo, Pasolini, Montale. Quasi contemporaneamente alla Rca capirono che quel ragazzo lombardo aveva doti non comuni. La sua prima esperienza fu di seguire la registrazione di tre canzoni cantate in italiano da Chet Baker, accompagnato da una orchestra d’archi diretta da Ennio Morricone. Erano So che ti perderò, Motivo su raggio di luna e Il mio domani. La musica era di Chet, le pa-

Nella preziosa opera scorrono i ricordi delle persone che lo hanno conosciuto: da Luis Bacalov a Gino Paoli, da Massimo Ranieri a Ornella Vanoni

role di certo Maffei, ma non è escluso che Bardotti abbia dato un suo contributo ai testi. Da quel momento la carriera di Bardotti non conosce soste. Per Rita Pavone traduce una canzone importante del folksinger Pete Seeger, If I Had a Hammer. Il 45 giri di Datemi

Ad affiancare Endrigo sul palco del Teatro del Casino è il cantante brasiliano Roberto Carlos. È la scintilla che fa scaturire l’amore per il Brasile, per la musica e per gli artisti brasiliani. Bardotti entra così in contatto di Antonio Carlos Jobim, ma soprattutto con Chico Barque de Hollanda, Vinicius de Moraes e Toquinho. È uno dei primi, se non il primo, a far conoscere la musica brasiliana agli italiani, anche e soprattutto con l’aiuto determinante della televisione diretta all’epoca da Leone Piccioni. Da quel momento il legame che lo unisce alla musica e alla cultura brasiliana, fanno di lui «l’italiano più brasiliano d’Italia». Da “paroliere”- indubbiamente geniale - diventa lui stesso “poeta”. Il primo disco di quel periodo è un autentico capolavoro. La vita, amico, è l’arte dell’incontro realizzato da Sergio Endrigo, Toquinho, Giuseppe Ungaretti e Vinicius de Moraes diventerà un modello per tutte le successive produzioni che omaggeranno la musica brasiliana.Tutto ciò e molto altro è raccontato nel bel volume Occhi di ragazzo. Sergio Bardotti: un artista che non ha mai messo di sognare. A cura di Nini Giacomelli in collaborazione con Lucia Carenino per le edizioni Rugginenti di Milano. In esso scorrono i ricordi e i racconti delle persone che hanno conosciuto Sergio, la cui scomparsa prematura nel 2007, ha lasciato un vuoto profondo nella musica. Da Luis Bacalov, che lo definisce «polifacetico» per la sua grande capacità lavorativa, a suo fratello Massimo, Luca Crovi, Gino Paoli, Massimo Ranieri, Ornella Vanoni, Alberto Bazzurro oltre a Sergio Cammariere e Simone Cristicchi, che lo hanno incontrato negli ultimi anni della sua splendida vita.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

La stampa è la difesa del cittadino. Più spazio alle lettere dei lettori L’uomo della strada ha bisogno della stampa. Ad ogni giornale o periodico si può attribuire l’implicita testata “Difensore del cittadino”. La stampa deve stare e sta dalla parte degli amministrati (non degli amministratori), dei comandati (non dei comandanti) e dei cittadini (non del potere partitocratico). Il cittadino (quasi suddito) è solo e indifeso. Col pretesto di realizzare economie (false), amministratori politici locali hanno eliminato o tendono a eliminare le “difese civiche”, ossia i controllori morali del loro operato (specie di disfunzioni, ritardi e omissioni), a tutela delle persone vessate. Gli amministratori politici possono essere attratti da progetti grandi e dispendiosi, che diano a loro lustro, ma poco utili al popolo. Rischiano di trascurare la soluzione di problemi che assillano la gran maggioranza dei cittadini - come l’efficace difesa dal crimine, l’adeguamento delle fognature, la congrua manutenzione stradale, l’abbattimento degli incidenti e il contrasto della cementificazione e dell’inquinamento. La stampa deve dedicare ampio spazio alle lettere dei lettori. Molte delle lettere pubblicate hanno convinto amministratori locali a provvedere immediatamente a urgenze, altrimenti trascurate.

Gianfranco Nìbale

MONTEPULCIANO, NON VOLTERRA

L’ART. 41? NON È PRIORITARIO CAMBIARLO

Gentile redazione, vi scriviamo per sottoporre alla vostra attenzione un articolo apparso sul vostro giornale che è veramente al limite dell’incredibile per le inesattezze che contiene. (...) Crediamo che l’estensore dell’articolo sia l’unico (ne hanno parlato tutte le televisioni e i giornali italiani ed esteri) a non sapere che il film New Moon non è stato girato a Volterra ma a Montepulciano. Cordiali saluti.

L’art. 41 non è prioritario cambiarlo, è impossibile difenderlo. Non si tratti di una priorità, in particolare quella relativa all’architettura istituzionale dello Stato: basterebbe una revisione dei regolamenti parlamentari per dare efficienza al sistema politico. Nondimeno la Carta fondamentale è ingiallita nella Prima Parte e segnatamente nel Titolo III (Rapporti economici). Infatti all’articolo 41 si parla di iniziativa economica privata, come se ci si riferisse ad una parola malata, ad un valore spurio, in libertà vigilata, con cui il legislatore del 1948 ha stretto un compromesso in attesa di tempi migliori. Il terzo comma recita infatti che «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Non si avverte, forse,

Paolo Paterni presidente Comitato Volterra Eventi

Fermo restando che a noi risulta che alcune scene del film siano state girate nella città di Volterra, non v’è dubbio che la gran parte delle riprese sia stata effettuata in quella di Montepulciano. Ci scusiamo per questa inesattezza sia con i cittadini di Volterra sia con i cittadini di Montepulciano.

Hong Kong by night Hong Kong (in cinese “Porto Profumato”) è una regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese. Formata da una piccola penisola della costa meridionale cinese e da 236 isole nel Mar Cinese Meridionale, fra cui - appunto - l’isola di Hong Kong

un desiderio di “gosplan” quinquennale d’infausta memoria?

Francesco Comellini

RIFORMA, UNA NUOVA STORIA CHE DÀ VOCE ALLE ASSOCIAZIONI DEI CITTADINI Il governo è stato battuto sulla riforma della governance della sanità. Sono stati approvati due emendamenti importanti, tra questi quello che riguarda la diretta partecipazione alla stessa programmazione delle associazioni dei cittadini. Con

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

questo emendamento saranno introdotte modifiche importanti che prevedono un coinvolgimento attivo da parte dei cittadini che potranno assumere un ruolo attivo all’interno del sistema sanitario. Dare più voce ai cittadini è necessario, in quanto possono essere così attivati tutti quegli strumenti di partecipazione previsti dalla legge, tra questi le carte dei servizi, le quali devono essere rimodulate sulla base delle esigenze poste in essere.

Ivano Giacomelli

da ”The Moscow Times” del 15/06/10

Artic Sea, groviglio internazionale a spia che veniva dall’Estonia non è granché come titolo di un libro o di una pellicola cinematografica. Ma l’apparenza inganna. È ciò che è successo, secondo il racconto, meglio dire la deposizione, di un dirottatore. Questa volta proveniente dalla Lituania, altro Paese di quelli là, in alto a destra della cartina geografica dell’Europa. Sotto il braccio a gomito formato dai Paesi scandinavi. Lo riferisce il giornale moscovita. Il lituano si è beccato sette anni di carcere, con l’accusa di aver dirottato la Artic Sea. Un nome che evoca un plot mozzafiato. Il condannato ha alzato il tiro puntando il dito contro l’ex capo dell’intelligence estone di aver ordito il piano criminale. Si chiama Dmitry Savins il dirottatore della nave, Erik Niiles Kross invece e la barba finta estone, già uomo d’affari e storico riconosciuto. In breve, Erik avrebbe promesso, facendo da tramite con la compagnia armatrice della Artic Sea, un milione e mezzo di dollari a Dmitri. Detta così sembra più una truffa che una trama da spy story, ma non è così. Savins che ha subito la condanna venerdì scorso, avrebbe dichiarato di aver ricevuto da Kross circa 200mila euro e che agli altri membri del commando pirata sarebbero stati promessi 20mila euro a testa. Purtroppo per Dmitry non sono state portate prove del coinvolgimento del cittadino estone e un esperto di pirateria come Mikhail Voitenko – sempre secondo le pagine moscovite – avrebbe bollato il tutto come «pulp fiction». Scrivendolo sul suo sito online Maritime Bul-

con valori e denaro. Stranamente l’equipaggio non aveva dato subito l’allarme dando tempo ai pirati di far perdere le loro tracce. A sentire il Gru, l’intelligence militare di Mosca, sull’Arctic Sea sarebbero stati imbarcati tre missili nucleari tattici P-700 Granit, prelevati dal sommergibile Kursk (affondato nel 2001 nell’Artico) e destinati alla Us Nuclear security administration che ne doveva curare lo smantellamento nell’impianto Pantex, in Texas, in base agli accordi del trattato Start-2.

L

letin. Ricordiamo che Voitenko è stato costretto a lasciare la Russia perché si riteneva in pericolo di vita. Era infatti stato il primo a scrivere sulla misteriosa sparizione del mercantile. Una storia che aveva subito assunto l’aspetto dell’intrigo internazionale, legato al traffico d’armi. La nave era scomparsa il 28 luglio del 2009 in Atlantico. I servizi segreti di Mosca, con l’assistenza della Marina, si erano mobilitati per capire cosa fosse accaduto. Un’indagine motivata da quanto era avvenuto il 24 luglio: lo stesso cargo, che trasportava ufficialmente legno finlandese, era stato abbordato al largo delle coste svedesi da un commando. Gli uomini, presentatisi come «agenti di polizia», avevano immobilizzato i marinai, quindi, dopo dodici ore, se ne erano andati via

È possibile tuttavia che la nave, ufficialmente con a bordo un carico di legname finlandese, trasportasse qualcosa di ancora più prezioso dei missili atomici del Kursk. Qualcosa di cui forse si stavano occupando l’intelligence militare russa nella centrale segreta nel complesso idroelettrico di Tambov, sul fiume Dnepr. Un commando del Mossad sarebbe intervenuto pensando che a bordo potessero invece esserci dei missili antimissile S-300, diretti in Iran. Il successivo viaggio del premier Netanyahu, accompagnato da Uzi Arad, al Cremlino sarebbe stato legato all’intera vicenda. Voitenko aveva intuito qualcosa. Gli investigatori hanno trovato un legame tra Kross e Savins. Tempo fa, il secondo affittò un ufficio in un palazzo di proprietà del primo. Kross attualmente si occupa della Trustcorp, una società che fa lobbing e consulenze nel settore intelligence per i Paese ex sovietici, come la Georgia. Kross lega l’accusa proprio alle sue attività in Georgia.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Concediti aria fresca, la medicina del Cielo

PENSIONI DONNE, DUE ANNI DI CONTRIBUTI FIGURATIVI PER LE MADRI L’Ue non lascia margini per la parificazione dell’età pensionabile delle donne a quella degli uomini. Il senso della differenza di età sta nel favorire le donne nel loro lavoro di madri e in famiglia. Questo principio si può e si deve recuperare. Noi proponiamo che alle donne vengano dati due anni di permesso con contribuzione figurativa per ogni figlio, da utilizzare quando la donna ritenga più opportuno, alla fine della carriera o in un momento importante della vita familiare, per seguire i figli o accudire gli anziani. In questo modo andranno in pensione più tardi, ma con una pensione più alta. È una cosa giusta in sé. Il progetto si può finanziare con il Fondo che il ministro Sacconi aveva già istituito a favore della famiglia con i risparmi derivanti dal progressivo innalzamento dell’età pensionabile. Se ci fossero costi in più, ne varrebbe comunque la pena, in quanto la nascita di figli gioverebbe enormemente al sistema pensionistico, compensando nel tempo le spese e riequilibrando un sistema che sta andando verso il collasso proprio per lo squilibrio tra troppi pensionati e pochi giovani lavoratori.

Vorrei poter venire da te come mia madre faceva con me le tante volte in cui mi ammalavo - e come tua madre deve aver fatto con te - come la Vita quando ero vuota di vita - così vivacemente quieta e ristoratrice, come dolce acqua fresca, perché sapevo che mi amava e mi portava nei suoi pensieri, e non avevo paura. E così scendeva sempre un senso di pace sulla mia inquietudine. Bevevo dalla sua presenza qualcosa che andava oltre la mia arsura, e per i momenti in cui si fermava presso di me il ricordo della sofferenza è come quello di un gradino sul quale salivo a una gioia più chiara per il fatto di percepire la sua prossimità, a un più squisito senso di lei. È quello il balsamo che vorrei portarti se potessi: ma so che dalle sue innumerevoli mani e cuori Dio può inviarti più di quanto io possa mai desiderare per te - e perfino i miei occhi riescono a vedere quanto la sua volontà sia benevola nei tuoi riguardi. Così è che pregare per te diventa più semplice. Concediti aria fresca la medicina del Cielo - e quei cibi e quelle bevande che possano farti bene, caro, e non lasciar interferire in ciò considerazioni economiche, te ne supplico. Non ti dispiaccia se ti dico questo: sai di essere nel mio cuore. Con affetto Mary Haskell a Kahlil Gibran

LE VERITÀ NASCOSTE

Nuova Zelanda: golf e porno per i politici WELLINGTON. Porno, golf e champagne: anche la virtuosa Nuova Zelanda, sull’orma della ex madrepatria britannica, è stata colpita da uno scandalo sull’abuso di denaro pubblico da parte di ministri e parlamentari dei due maggiori partiti. Questi avrebbero usato carte di credito ufficiali per spese personali, dall’acquisto di film porno allo champagne francese, dai fiori per la fidanzata al noleggio di un aereo. Mortificati, diversi ministri del passato governo laburista e del presente governo conservatore hanno dovuto affrontare i giornalisti a cui erano state divulgate, in base alle norme sulla libertà di informazione, circa 7000 pagine di estratti conto di carte di credito, che mostrano spese sostenute a partire dal 2003 e rivelano centinaia di acquisti fuori delle regole. La vicenda richiama quella emersa lo scorso anno in Gran Bretagna, dove parlamentari dei due maggiori partiti avevano usato denaro pubblico per costruzione di piscine, ristrutturazioni di casa e altre spese personali. Le spese dei politici neozelandesi sono state invece sostenute durante viaggi ufficiali, principalmente per ristoranti di lusso, vini di qualità e vestiario. Il primato va all’ex ministro laburista degli alloggi Shane Jones, che ha totalizzato l’equivalente di circa 3000 euro in spese personali fra cui l’acquisto di 19 film porno, che guardava in hotel. «Sono un adulto dal sangue caldo», ha spiegato ai giornalisti. Ma almeno, come sottolinea un giornale locale, «i nostri politici si vergognano».

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

SÌ ALL’INIZIATIVA DELLA BRAMBILLA CONTRO GLI ABBANDONI ESTIVI Cresce la cultura del rispetto anche per gli animali selvatici: lo dimostrano i dati dei centri recupero fauna Lipu. Un’iniziativa positiva, destinata a prevenire concretamente il grave problema dell’abbandono degli animali. Il progetto “Turisti a 4 zampe 2010” della ministra Brambilla è costituito da una campagna contro l’abbandono degli animali nel periodo estivo e una guida con indicate le strutture turistiche come alberghi, ristoranti e spiagge in grado di accogliere anche gli animali. È evidente come la cultura del rispetto degli animali stia crescendo nelle istituzioni e tra la società, anche sul delicato fronte degli animali selvatici, grazie anche all’impegno diretto dei cittadini, vengono ricoverati nei rifugi, ogni annoe soprattutto nel periodo estivo, migliaia di animali in difficoltà. Nella sola città di Roma, per fare un esempio, il centro Lipu ospita tutte le estati 1.500 tra pulcini feriti o caduti dal nido, come rondoni, merli, passeri e verdoni, e uccelli nella fase dello svezzamento ma non ancora in grado di volare. È auspicabile che le iniziative come questa del ministro Brambilla si intensifichino e diventino sempre più strutturali, in modo da far sì che la convivenza tra uomini, animali e natura sia sempre più possibile e armonica.

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

APPUNTAMENTI GIUGNO LUNEDÌ 21 - ORE 17,30 - ROMA CAMERA DEI DEPUTATI - SALA DELLA MERCEDE

In occasione dell’uscita del libro “Ho visto morire il Comunismo” di Renzo Foa, ne discutono Ferdinando Adornato, Rino Fisichella, Stefano Folli, Claudio Petruccioli. SEGRETARIO

VINCENZO INVERSO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Danilo Selvaggi

Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak

AL MINISTRO FITTO LA DELEGA PER LA GESTIONE DEI FONDI FAS Auguri personali e dell’intero movimento giovanile al ministro Raffaele Fitto per la delega alla gestione dei Fondi Fas ottenuta dal Consiglio dei ministri. Raffaele Fitto è un uomo del Sud, un uomo della Puglia, un amministratore che saprà sicuramente gestire con fare sensibile, mirato e impeccabile gli stanziamenti dei Fondi Fas alle regioni. Il ministro Fitto conosce profondamente le necessità, le impellenze e le difficoltà del Mezzogiorno e non mancherà di svolgere questo prestigioso incarico con professionalità e cognizione di causa. Adesso però serve deviare i fondi verso destinazioni meritevoli con criterio e rigore: Fitto, soprattutto in quanto ministro della Repubblica italiana con delega ai rapporti con le Regioni, dovrà effettuare un lavoro delicato e serio di attenta analisi delle istanze dei differenti territori e dovrà prestare la giusta e larga attenzione al Sud, al suo e al nostro Sud. I più sinceri e franchi auguri, quindi, di un lavoro intenso, proficuo e incisivo sotto il profilo della coesione territoriale e della crescita e dello sviluppo delle aree più svantaggiate. Sergio Adamo U D C MO V I M E N T O GI O V A N I L E - ME Z Z O G I O R N O

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

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ULTIMAPAGINA Il ritratto. È scomparsa la donna che ispirò Fabrizio De André

A via del Campo nessuno la chiamerà più di Marco Ferrari ra proprio lei a «mettere l’amore sopra ogni cosa»? Liliana Tassio, 88 anni, spezzina, deceduta sabato pomeriggio all’ospedale di Villa Scassi a Sampierdarena si è portata nella tomba l’ultimo grande dubbio legato a Fabrizio De André: l’ispiratrice di Bocca di Rosa” sarebbe proprio quella donna dagli «occhi grandi color di foglia». A testimoniarlo è l’amica della porta accanto, Francesca Perno, che ha raccolto i sussulti conclusivi di una esistenza sofferta.

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Portata a Genova in Via di Mascherona, nel centro storico, all’età di sei anni Liliana rimane sola e incinta all’età di 21. Per mantenere il piccolo cominciano le sue notti insonni e i mille lavori dell’arrangiarsi, barista, cameriera, baby sitter, escort, come si direbbe oggi. Una vita da frontiera nel più vetusto centro storico d’Europa, tra i carruggi degli emigranti e dei portuali. Suo figlio, Gianni Tassio, a tredici anni diventa commesso nel negozio di dischi di Via del Campo, altri luogo mitico cantato da De André, finché non lo acquisisce e lo fa diventare il tempio dei fan del cantautore genovese inondando la lastricata arteria della stessa identica strofa: «Via del Campo c’è una graziosa, gli occhi grandi color di foglia tutta notte sta sulla soglia, vende a tutti la stessa rosa».. Proprio là, infatti, è conservata la chitarra di Faber, i suoi spartiti, le foto da ragazzo, tutte le copie dei dischi e dei Cd usciti. Solo che Gianni Tassio è morto sei anni fa con il ricordo di Fabrizio impresso negli occhi e una frase che ancora risuona tra le arcate dei vecchi e malandati palazzi di Via del Campo: «Lavoro qui perché non voglio dipendere da quella bocca di rosa di mia madre».

tra i carruggi genovesi. Ora, se sarà difficile ricomporre in mosaico delle certezze, di sicuro Liliana Tassio è e resterà l’emblema di quel mondo dove era possibile trovare una consolazione al selvaggio inurbamento del boom industriale, un intrico di stradine da Via Pré a Sant’Agostino passando, appunto, da Via del Campo sino a Via di Mascherona, là dove anche il Vittorio Gassman protagonista di Profumo di donna conosceva gli indirizzi giusti.

Vaghe e indefinite menzioni ci portavano ad identificare Bocca di Rosa ora con un transessuale, ora con più ragazze di strada oppure

notte, aveva portato alla chiusura di 560 postriboli. Molte di quelle prostitute trovarono rifugio nel ventre di Genova, il più vituperato e dimenticato esempio di medioevo marittimo, 40 chilometri di vicoli, duecento palazzi del sei e settecento, dove negli anni Sessanta vivevano ammassate circa ventimila persone. In quella cittadella malavitosa e intrigante si formò la scuola genovese dei cantautori: Luigi Tenco e Bruno Lauzi fondarono la «Jelly Roll Morton Boys Jazz Band», Gino Paoli «ragazzo di Pe-

BOCCA di ROSA

Quella parte di sé mai raccontata, Liliana comincia a sciorinarla nella sua vecchiaia. All’età di 68 anni, infatti, abbandona il centro storico, ora dominio di africani e latino-americani, e va a vivere a Rivarolo dove entra in intimità con la signora Perno, da poco vedova. E là, in quel con conciliabolo di confessioni, Liliana narra la vicenda dell’incontro con Fabrizio, l’ispirazione della canzone del 1967, il prestito del soprannome che le avevano affibbiato

con figure immaginarie (come sostiene l’amico Paolo Villaggio). Ma il simbolo, l’icona amorosa degli anni Sessanta sinora non aveva un’identità precisa. L’Italia si era lasciata alle spalle la Legge Merlin che nel 1958, nel giro di una

gli» strimpellava con Gianfranco Riverberi, Fabrizio De André e Paolo Villaggio scrivevano insieme Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, Umberto Bindi addolciva di note i localini e scriveva commedie goliardiche.

Si chiamava Liliana Tassio, aveva 88 anni: il rapporto tra lei e il celeberrimo personaggio del cantautore genovese è sempre stato avvolto nella leggenda

Per sottrarsi alla rigidità famigliare e per dimenticare il clima di conformismo che regnava nel paese, De André si immerse nella vita quotidiana degli ultimi, dei diseredati, dei dimenticati. Solo con il suo coraggio riuscì a scrivere canzoni sul mondo proibito di Via del Campo, lui che era imbevuto di letteratura maudit, che amava Brassens e Brel, che suonava ballate popolari e dialettali. Oggi quell’ambiente si è quasi completamente disgregato: i re delle bionde e i contrabbandieri non dominano più i vicoli e le prostitute hanno ricevuto lo sfratto dai loro “bassi”a luci rosse. Le lucciole si battono per restare là dove sono, sfilano con mascherine sugli occhi e ombrellini rossi e innalzano cartelli con la scritta “Bocca di Rosa c’è e lotta insieme a noi”. Sentendo quel pezzo di storia svanire, la signora Tassio si è tolta l’imbarazzo dell’ultima verità, lei che ogni martedì si faceva confessare dal parroco, che amava i fiori, sorseggiava caffè con le amiche, aiutava i poveri, dava da mangiare ai gatti e giocava al lotto i numeri con la data di nascita del figlio, quel figlio che le aveva cambiato la vita portandola a passare tante notti da cappuccino.


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