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Ogni lavoro, anche filare il cotone, è nobile; il lavoro è l’unica cosa nobile Thomas Carlyle
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 22 GIUGNO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Fini durissimo contro la Lega: «La sua propaganda va contrastata o la coesione nazionale è a rischio»
Berlusconi sotto scacco
Il Capo dello Stato: «Ora le Camere pensino solo alla manovra» Napolitano frena il premier sui tempi del ddl intercettazioni. La Merkel lo smentisce sulle tasse europee alla finanza. Perfino Bossi comincia a diffidare. E il Pdl è sempre più spaccato ANNUNCI E SMENTITE
di Errico Novi
Il Superministro e il “giallo” dei condoni di Francesco Pacifico
ROMA. Governatori e sindaci attendevano un alleggerimento alla stretta che fa pagare loro quasi la metà della manovra. Il mondo dell’associazionismo la cancellazione della norma che prevede l’innalzamento al 85% dell’invalidità per ottenere pensioni e assegni di accompagnamento. Invece, a far capolino nella politica finanziaria italiana, è stato il ritorno dei condoni. E in tutte le sue forme: edilizio, fiscale, previdenziale. E pensare che quello di ieri per Giulio Tremonti doveva essere il solito, tranquillo lunedì dedicato alla comunità finanziaria milanese per parlare di credito e aiuti alle imprese.
Marchionne chiude il ‘900
ROMA. Il doppio livello non c’è
Dopo la denuncia per truffa dell’ex Idv, Elio Veltri
Rimborsi elettorali: Di Pietro indagato L’ex pubblico ministero: «È un atto dovuto». Ma si tratta dell’ultimo capitolo di una battaglia legale che dura da anni
Comincia a Pomigliano il secondo secolo Fiat
più. Almeno finché non si sarà finito di allestire tutte le difese necessarie per fronteggiare la crisi, non ci si potrà più concedere il lusso di sprecare tempo in litigi. Lo dice con tono più energico del solito il capo dello Stato. Bisogna concentrarsi, ricorda Giorgio Napolitano ai vertici del Cnel guidati dal presidente Antonio Marzano, sulla manovra, «su questo difficile adempimento che non può non dominare l’agenda parlamentare nel breve tempo che separa la Camere dalla pausa estiva». Perché discutere sui correttivi alla finanza pubblica, fa notare l’inquilino del Colle, è la chiave per venire fuori da questa difficile fase senza lacerazioni nel Paese: «Dall’equilibrio e dall’equità della manovra potranno discendere effetti importanti, in termini di dialogo e coesione sociale».
di Giancarlo Galli
C’è un sapore antico di capitalismo e manager coraggiosi in quel che sta avvenendo in Fiat, a Pomigliano. È un bivio che deciderà il futuro dell’azienda torinese. a pagina 12
Franco Insardà • pagina 7 a pagina 2
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Un intervento del più noto dissidente cinese
Gazprom minaccia il taglio delle forniture entro 5 giorni
Rivalutare lo yuan non basta. Tre consigli per salvare Pechino
L’impero colpisce ancora: Mosca chiude il gas a Minsk
di Wei Jingsheng
di Antonio Picasso
a qualche tempo a questa parte, uno degli argomenti più sviscerati dalla “gioventù patriottica”della Cina continentale è quello della rivalutazione della moneta cinese, lo yuan renminbi. Persino agli agenti inviati dal governo cinese fuori confine è stato detto di cambiare modo di agire, mettendo al primo posto la protezione assoluta del valore della moneta: un ordine che dimostra quanto sia importante la questione, per la quale Pechino non vuole risparmiare alcuno sforzo. Eppure, la domanda è: ma è davvero così importante mantenere svalutato lo yuan? Uno dei primi motivi, una delle scuse più citate, riguarda la fondamentale necessità di garantire l’aumento delle esportazioni: la strada per garantire il lavoro nel Paese. a pagina 8
a strategia russa di ricorrere al gas naturale come suo strumento di potenza è ormai confermata. Nemmeno questa querelle energetica aperta dal Cremlino contro la Bielorussia si può minimizzare a un mancato accordo sul prezzo delle bollette. Al contrario si tratta invece di una manovra politica studiata a tavolino ormai più di cinque anni fa. Ieri il Presidente russo, Dimitri Medvedev, ha accettato la proposta della Gazprom di tagliare le forniture di gas metano alla vicina Bielorussia per un iniziale quantitativo del 15 per cento. Non è escluso però che, nelle prossime settimane, i rubinetti vengano chiusi per tre quarti della loro portata attuale. a pagina 14
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I QUADERNI)
Calcio, metafora del Paese
Questa Italia non sa imparare dai suoi errori
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• ANNO XV •
NUMERO
119 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
di Paola Binetti
Alla fine abbiamo pareggiato: Italia 1-Nuova Zelanda 1, Iaquinta su rigore ha pareggiato il vantaggio di Smeltz. Nessuno però è soddisfatto. a pagina 18
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 22 giugno 2010
Rigore. Lo scontro sulle intercettazioni non condizioni il dibattito, ammonisce il Colle. E il presidente della Camera attacca la Lega
Fine della ricreazione
Napolitano: «Priorità alla manovra fino alla pausa estiva, tutto il resto va accantonato». Dopo la Merkel, Fini e Bossi è l’ennesimo stop a Silvio Napolitano. Anche sulla possibilità che il ddl intercettazioni venga approvato dopo l’estate ci siamo espressi con chiarezza: nessun problema». Se si riuscisse a mettere la legge sugli ascolti in rampa di lancio prima della pausa «bene», così
di Errico Novi
ROMA. Il doppio livello non c’è più. Almeno finché non si sarà finito di allestire tutte le difese necessarie per fronteggiare la crisi, non ci si potrà più concedere il lusso di sprecare tempo in litigi. Lo dice con tono più energico del solito il capo dello Stato. Bisogna concentrarsi, ricorda Giorgio Napolitano ai vertici del Cnel guidati dal presidente Antonio Marzano, sulla manovra, «su questo difficile adempimento che non può non dominare l’agenda parlamentare nel breve tempo che separa la Camere dalla pausa estiva». Perché discutere sui correttivi alla finanza pubblica, fa notare l’inquilino del Colle, è la chiave per venire fuori da questa difficile fase senza lacerazioni nel Paese: «Dall’equilibrio e dall’equità della manovra potranno discendere effetti importanti, in termini di dialogo e coesione sociale». E dunque il dibattito sul provvedimento da pochi giorni all’esame del Senato deve avvenire con la partecipazione di tutti, e anche in un margine di tempo sufficientemente ampio per garantire
UMBERTO BOSSI
ANGELA MERKEL
Un veto italiano sulle tasse anti speculatori? Le conclusioni del vertice Ue sono state approvate da tutti
tutt’altra materia». Fine dei giochi, insomma. Fine delle polemiche. Uno schiaffo al Cavaliere? Difficile attribuire al presidente della Repubblica intenti bellicosi nei confronti del premier. E in fondo il richiamo al senso di responsabilità e alla coesione rivolto dal Quirinale potrebbe addirittura risultare utile al presidente del Consiglio. Adesso infatti non è più Gianfranco Fini – nella doppia veste di terza carica dello Stato e capo dell’opposizione interna – a sancire la sconfitta politica del Cavaliere. C’è un piano più alto, dal punto di vista istituzionale, a reclamare il ritorno del dibattito politico su questioni di assoluta urgenza. Decretata con tanta superiore autorevolezza, la fine delle ostilità sul ddl intercettazioni potrebbe
Il federalismo sono io,Brancher farà il ministro al decentramento. Senza di noi non vanno da nessuna parte rappresentanza a tutte le posizioni, in un quadro di «comune responsabilità nazionale nell’attuale, grave momento».
Più chiaro di così non avrebbe potuto essere, Napolitano. In un passaggio, anzi, il riferimento alla necessità di mettere da parte il tema delle intercettazioni, con tutto il corollario di scontri e polemiche che esso è capace di trascinare, diventa quasi esplicito: va evitato che «il confronto su una materia tanto ardua come quella dei provvedimenti urgenti per la finanza e l’economia sia negativamente condizionato da tensioni politiche già acute su
dunque addirittura trasformarsi in una salutare boccata d’ossigeno per il premier.
«Coesione, crescita e risanamento»
È proprio in questo senso, d’altra parte, che nella cerchia ristretta di Berlusconi viene accolto l’appello di Napolitano. Dice Sestino Giacomoni, giovane deputato tra i più stretti collaboratori del Cavaliere: «Sconfitta? Non ha senso un’analisi del genere. È dalla settimana scorsa che continuiamo a indicare nella manovra la priorità inderogabile. Siamo stati i primi a dirlo, è l’interpretazione venuta dalle riunioni con i capigruppo e i coordinatori: prima il decreto sui conti, poi il resto. È una posizione perfettamente in linea con quanto ha detto il presidente
ROMA. La manovra, secon-
GIANFRANCO FINI
La politica deve contrastare in modo netto la propaganda leghista o l’unità nazionale è a rischio
do il presidente della Repubblica, deve essere equilibrata ed equa per la coesione sociale, coniugando risanamento finanziario e crescita economica. «Dall’equilibrio e dall’equità della manovra ha detto Napolitano ricevendo una delegazione del Cnel che presentava il rapporto sull’attività svolta nel quinquiennio 2005-2010 - potranno discendere effetti importanti in termini di dialogo e coesione sociale». Il capo dello Stato ha sottolineato che è «urgente» bloccare l’aumento del debito pubblico e avviarne la riduzione, anche in Italia, «anche se da noi la situazione si presenta ben più solida dei Paesi più esposti della zona Euro, per aspetti essenziali, come lo stato finanziario delle imprese, a cominciare da quelle bancarie, e delle famiglie». Napolitano ha definito il decreto che contiene la manovra economica «un provvedimento grandemente impegnativo, di inedita ampiezza e minuziosità».
come sarebbe importante dare l’ok alla riforma dell’università, dice Giacomoni. «Ma altrimenti a settembre si riprenderà il discorso». E senza nessun particolare conflitto interno. Sempre secondo la lettura data dal deputato berlusconiano infatti, «buona parte delle presunte divisioni all’interno della maggioranza sono in realtà costruzioni giornalistiche. Alla prova dei fatti, quando si è trattato di votare in aula, la maggioranza si è sempre espressa in modo compatto».
A settembre ci sarà modo di rilanciare l’iniziativa del governo, a cominciare dalla giustizia. Così dovrebbe essere. Tutto a posto? Difficile sostenerlo. L’over rule di Napolitano arriva dopo un fine settimana difficilissimo per il presidente del Consiglio. Segnato dalle critiche nemmeno tanto velate della Lega per la nomina di Aldo Brancher a ministro. Dalle precisazioni della cancelleria tedesca che ha respinto la tesi berlusconiana di un veto dell’Italia sulle tasse alla speculazione finanziaria («la proposta europea sarà presentata al G20», fa notare Angela Merkel). Con il sigillo finale delle dichiarazioni rilasciate in due tempi da Gianfranco Fini: a un giornale israeliano che lo intervista e al quale il presidente della Camera spiega che «da noi una questione belga non esiste» e che «non sono le stupidaggini sulla secessione a portare consenso alla Lega»; a Stefano Folli che nel pomeriggio di ieri lo intervista
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22 giugno 2010 • pagina 3
Conti e sconti. Maggioranza scatenata al Senato con le sanatorie su mattone e fisco
Tornano i condoni. E imbarazzano Tremonti Il governo smentisce le misure. Ma è alta la tensione tra il Pdl e il ministro dell’Economia di Francesco Pacifico
ROMA. Governatori e sindaci attendono un alleggerimento alla stretta che fa pagare loro quasi la metà della manovra. Il mondo dell’associazionismo la cancellazione della norma che prevede l’innalzamento al 85 per cento (oggi è al 74) dell’invalidità per ottenere pensioni e assegni di accompagnamento. Invece, a far capolino nella politica economica, è il ritorno dei condoni. E in tutte le sue forme: edilizio, fiscale, previdenziale. Giulio Tremonti pensava che quello di ieri sarebbe stato il solito, tranquillo lunedì dedicato alla comunità finanziaria milanese, al pranzo con i banchieri per parlare di credito alle imprese. Invece la routine è stata sconvolta da un uno-due che, dopo i malumori raccolti sul prato di Pontida, la dice lunga sulla popolarità del ministro dell’Economia dopo la sua manovra da 24,9 miliardi.
sottosegretario Paolo Bonaiuti pronto persino a scagliarsi anche contro «la sinistra bugiarda che fa passare per legge un emendamento al Senato». Peccato però che l’emendamento in questione sia opera di peones del centrodestra (tra i quali l’abruzzese Paolo Tancredi, il lucano Cosimo Latronico e il piemontese Gilberto Picchetto Fratin) che non hanno brillato per rigore. Ma in queste proposte si va ben oltre la necessità di fare cassa per aiutare lo sviluppo. Per esempio la sanatoria agli abusi edilizi, che riapre i termini di quella del 2003 fino al 31 marzo del
Oggi si tiene il vertice tra l’esecutivo e i capigruppo di Palazzo Madama per allentare la stretta su Regioni e falsi invalidi 2010, viene estesa anche anche alle case «realizzate in aree sottoposte alla disciplina di cui al codice dei beni culturali e del paesaggio». E le amministrazioni dovranno persino accettare le domande anche se in passato «sono state rifiutate».
A dare il via al fuoco incrociato è stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, intimando alla maggioranza sia di dare precedenza alla Finanziaria e non alle intercettazioni sia di guardare allo sviluppo e non soltanto al rigore. Poi ci ha pensato la maggioranza stessa ad avvertire il suo ministro depositando al Senato – e in oltre 2mila e più emendamenti – una serie di richieste di condono, che poco si confanno a un Tremonti paladino delle regole e della lotta all’evasione. Inutile dire che il governo si è subito premurato di smentire la cosa. Con il
durante un convegno di FareFuturo e della Fondazione Spadolini sull’unità nazionale, occasione che Fini coglie per rilanciare l’allarme sulla propaganda separatista del Carroccio: «La politica deve contrastare in modo molto netto certe invenzioni, altrimenti la coesione nazionale rischia di affievolirsi».
Bisogna stare attenti insomma «a non derubricare le affermazioni della Lega come sortite goliardiche fini a se stesse». Anche in questo caso non c’è nulla di nuovo. Ma a pesare è l’impressione che Fini si proponga come unico contraltare interno alla maggioranza di una Lega a sua volta sempre
E se il famigerato trio propone anche un condono fiscale tombale fino al 2008, i leghisti Massimo Garavaglia e Gianvittore Vaccari, lanciano uno scudo contro i falsi invalidi che si autodenunciano all’Inps. Non contento, il senatore Latronico ha depositato un emendamento con il quale chiede che i comuni possano acquistare gli edifici abusivi. Strutture che una volta entrate a far parte del demanio possano essere messe all’asta. Dove, però, c’è una prelazione per il responsabile dell’abuso... In realtà, se ci saranno modifiche, queste riguarderanno una diversa ripartizione dei tagli tra le Regioni e gli altri enti governo e il ritorno al 85 per cento dell’invalidità necessaria per ottenere pensioni e accompagnamenti. Non a caso Roberto Maroni ha riven-
Qui sopra, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Nella pagina a fianco, in senso orario: Giorgio Napolitano, Angela Merkel, Gianfranco Fini e Umberto Bossi
dicato che «la manovra deve essere migliorabile evitando i tagli lineari uguali per tutti e quelli che penalizzino chi si è comportato bene. Senza mettere sullo stesso piano chi si è comportato bene e chi male». In questo clima, e con 2.550 emendamenti che non sembrano seguire la linea del rigore, sarà difficile scongiurare la fiducia. Di conseguenza, decisivo sarà il vertice, previsto oggi a Palazzo Madama, tra i sottosegretari all’Economia, Alberto Giorgetti e Luigi Casero, i capigruppo di Pdl e Lega e il presidente della commissione Bilancio del Senato, Antonio Azzollini.
A ben guardare gli unici emendamenti sui quali si potrà discutere sono quelli presentati dai finiani, perché completi di copertura finanziaria. Come negli anni precedenti li ha scritti il presidente della commissione Finanze, Mario Baldassarri. Il quale ha di nuovo riproposto la cedolare secca al 20 per cento sugli affitti e i tagli per famiglie e imprese su Irpef e Irap. In questa chiave va letta anche la richiesta bipartisan per una proroga al 31 dicembre 2010 della Tremonti-ter, la detassazione degli investimenti in nuovi macchinari. Per il resto c’è di tutto nel calderone degli emendamenti. Il senatore del Pdl Giuseppe Menardi prevede un’imposta straordinaria, con aliquota del 2 per cento, da applicare al patrimonio delle fondazioni bancarie. Il sopracitato Paolo Tancredi propone di coprire la moratoria fiscale per l’Abruzzo aumentando le accise per chi si fa da solo le sigarette. Domenico Nania invece chiede che la sua città, Messina, venga equiparata alle città di frontiera, così da attingere a un apposito fondo alimentato da una addizionale sulla tariffa per attraversare lo Stretto di Messina. Mentre Lucio Malan approfitta del veicolo della manovra per concedere al governo una delega per «la legalizzazione e la tassazione della prostituzione». Il ministro alle Pari Opportunità, Mara Carfagna, ha preso le distanze dalla proposta.
più svincolata dal rapporto con il Cavaliere. Completa il quadro l’immagine di un Tremonti che resta saldo nel ruolo di unico deus ex machina della manovra, dei rapporti con gli enti locali e quindi del federalismo sempre più messo in pericolo dalle asprezze dei tagli. E Berlusconi? Da questa serie di con-
flitti incrociati nella maggioranza, sembra improvvisamente messo ai margini. Con scarsa capacità di incidere e di dettare l’agenda. E con la sola opzione disponibile di non fare resistenza a quello che rischia di essere uno scacco al re promosso da tutte le altre pedine in gioco.
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l’approfondimento
Gianni Alemanno Nuova Italia
Maurizio Gasparri Italia Protagonista
Fabrizio Cicchitto Riformisti & Liberali
Maria Stella Gelmini Liberamente
Mario Valducci Club delle Libertà
Renato Brunetta Free Foundation
Michela Vittoria Brambilla Promotori della Libertà
Marcello Dell’Utri Circoli del Buongoverno
Italo Bocchino Generazione Italia
Gaetano Quagliariello Magna Carta
Mappe. Club, circoli, riviste: ognuno nel Pdl si costruisce la sua parrocchia. Cosa s’agita dietro la leadership del presidente del Consiglio?
Dieci piccoli indiani
Doveva essere il “partito unico”. Di unico, finora, ha solo la grande frammentazione in componenti. Tutti si preparano al dopo-Berlusconi: rischiano però di finire come nel romanzo della Christie... di Riccardo Paradisi on facciamoci del male da soli» ammonisce telefonicamente Silvio Berlusconi al vernissage della nuova fondazione Liberamente a Moniga del Garda. Fondazione nata per iniziativa di Franco Frattini, Sandro Bondi, Mariastella Gelmini e Mario Valducci. Gli esegeti interni del Cavaliere-pensiero garantiscono che destinatari del monito siano i finiani dell’arcipelago movimentista che ruota intorno al presidente della Camera – dalla fondazione Farefuturo di Adolfo Urso al movimento Generazione Italia di Italo Bocchino passando per il Secolo d’Italia e la rivista Charta minuta – ma è una spiegazione consolatoria.
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Consolatoria perché – come sostengono alcuni stretti collaboratori del premier – in realtà il lamento di Moniga del Garda è universalmente rivolto a tutto il Pdl. Anche a quegli ambienti che pur restando al-
lineati e coperti, che pur esibendo fedeltà berlusconiane assolute, s’agitano e non poco per ritagliarsi peso e visibilità interna, dando vita a fondazioni, associazioni, riviste. Certo, il ministro Frattini assicura che l’ultima creatura nata all’interno del partito e di cui è il maggiorente lungi dall’essere una corrente, «perché le correnti dividono mentre noi pensiamo che si debba parlare, buttare sul tappeto le idee, e poi marciare tutti uniti».
sindaco di Roma Gianni Alemanno che dal Campidoglio sogna in grande. Ragionando sullo stato dell’arte del centrodestra Alemanno, a capo anche lui della sua brava fondazione, candida alla futura guida del Pdl dopo Berlusconi una pattuglia di cinquantenni, tra cui se medesimo.
cui le posizioni che stridono tra di loro riescano a essere finalmente armonizzate». Non è per questa via che Berlusconi vorrebbe arrivare all’armonia, e anzi era proprio per mettere un freno alla moltiplicazione delle componenti interne che nel novembre del 2006 nominò l’attuale ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla, presidente dei circoli della libertà, consegnandole anche le chiavi dei circoli di Marcello dell’Utri, poi rinati come Circoli del buon governo.
Il premier teme il calo di consensi per l’immagine di un partito diviso e frammentato
Ma il timore del Cavaliere è che questo caleidoscopio di gruppi, fondazioni, associazioni, correnti (?) restituisca un’immagine del partito frammentata, divisa, dispersa tra rivoli, parrocchie, obbedienze a leader in crescita o che vorrebbero esserlo, sicuramente ambiziosi e scalpitanti. Per carità il velato j’accuse del Cavaliere si spiega anche con le dichiarazioni rilasciate dal
Non solo, parla di un congresso da celebrarsi entro il prossimo anno come del modo più indicato per migliorare il clima del Pdl: «un congresso in
Un’investitura impor-
tante che doveva mettere in moto una rivoluzione dall’alto per ristabilire l’ordine e la purezza del berlusconismo antemarcia e soprattutto scoraggiare autonomie eccessive. L’operazione non ha avuto gli esiti sperati, tanto che oggi Berlusconi è in pratica costretto a replicarla. I promotori della libertà della Brambilla, redivivi dopo le
politiche del 2008, sono l’unica componente del Pdl che ha la benedizione diretta del Cavaliere, l’unica realtà di cui un Berlusconi esasperato dalla dodecafonia dei suoi aspiranti successori, sente di potersi fidare ciecamente. Nemmeno i club della libertà di Mario Valducci, sempre pronto a chiamare alla piazza il popolo della libertà, godono di questo credito. Tanto meno le altre fondazioni malgrado le loro esplicite ammissioni di fedeltà berlusconiana.
Ambienti dentro i quali lavorano bene o male personalità e culture politiche. Per fare un esempio: Italia protagonista di Maurizio Gasparri e Ignazio la Russa, è una componente amica del Cavaliere e a lui indubbiamente molto utile nel confronto con Gianfranco Fini sulla paternità del copyright politico e culturale di ciò che è destra nel Pdl. E però quando gli ex colonnelli finiani riuniscono lo scorso gennaio, ad Arezzo, gli stati
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Quella “concessione”, oggi, autorizza chiunque a mettere in piedi una qualsiasi Fondazione
Ora il Cavaliere si lamenta, ma le correnti le ha create lui Quando il premier sponsorizzò l’«autofronda» interna a Forza Italia attraverso i Circoli della Libertà di Michela Vittoria Brambilla di Marco Respinti iccola cronistoria per ravvivare i ricordi a guisa di premessa.Vivevamo nell’immobilismo politico e abbiamo dato la colpa alla cosiddetta “balena bianca”. Poi sono venute le correnti interne e il grasso del grande cetaceo politico è stato equamente diviso fra i commensali. Dopo di ché è giunta la stagione dei partitelli fiancheggiatori, i quali, sagacemente lavorando di lottizzazione, si son guadagnati posti al sole sproporzionati. Alla fine i grandi partiti di governo si son ritrovati paralizzati dal sottobosco delle sigle e allora si è pensato bene di sbarazzarsene invocando il bipolarismo contro la “prima repubblica”. O il bipartitismo, a riguardare le cronache di allora non è sempre chiaro.
P
La cosiddetta “seconda repubblica” è sorta sotto il segno del nuovo: partiti nuovi, personale nuovo, nomi nuovi. È stata la stagione della grandi coalizioni, favorita da nuove legge elettorali di tipo grosso modo maggioritario invece della superata logica proporzionale di un tempo, e sono stati celebrati matrimoni politici inediti. Quando anche da noi si sono per coagulazione generate alleanze mai viste prima, si è salutata con favore la nascita del “Paese moderno”, della “politica europea”, insomma di quello scontro fra avversari e non più nemici schierati gli uni da una parte e gli altri all’opposto, come più o meno avviene ovunque nelle “democrazie compiute”. Era bipolarismo, cioè convergenza d’interessi analoghi dentro un disegno strategico di contrapposizione tra differenze. Cominciò Achille Occhetto, fondatore della “Cosa” postcomunista, mettendo assieme la “gioiosa macchina da guerra” dei Progressisti, rispose Silvio Berlusconi inventandosi Forza Italia e il patto con Gianfranco Fini, leader di quello che ancora era il Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale. Nacque l’Ulivo poi Unione di qua, sorse il Polo delle libertà, poi Casa delle Libertà, di là. Fine della premessa. Sedici anni dopo, il bipolarismo imperfetto è diventato bipartitismo impreciso; ci sono il Popolo della Libertà, il Partito Democratico, più partitini di prima e al centro si è consolidata una terza forza che sembrava dover essere finita per sempre; il sistema elettorale maggiorita-
rio è stato massacrato e riveduto più volte; la voglia dell’antico proporzionalismo è tornata abbondante. Ma la cosa più importante è che hanno cominciato a scricchiolare proprio i due nuovi partiti unici del Centrodestra e del Centrosinistra. Non si è fatto tempo a fondarli che sono iniziate le lotte intestine, i distinguo duri, i personalismi irriducibili. Certo, se lo domandate ai protagonisti di questo rompete le righe oggettivo – tenuto assieme a destra solo dalla figura comunque carismatica di Berlusconi e a sinistra pure, ancorché in odium ei – nessuno confesserà di meditare soluzioni sfasciste. Faranno tutti a gara a mostrarsi più lealisti del re. Ma questo solo perché il re consente a tutti il caos. Non c’è, infatti, chi dentro i
Succede soltanto in Italia che le iniziative della società civile siano espresse dal ceto politico due grandi partiti unici non abbia la sua bella fondazione, il suo bel circolo o la sua bella rivista. Nella “seconda repubblica” è vietatissimo chiamarle correnti, perché fan venire i reumatismi, epperò altro che quelle oggi la politica non ha. Con esse, si fa politica per sé, si manovra da sé, si pensa al dopo-leader. A destra, le mille iniziative riconducibili a questo o a quel notabile di partito (perché di popolo dietro a queste cose ve n’è costantemente pochino) preparano il dopoBerlusconi; a sinistra, pure, come sempre.
Esemplare è il caso del Centrodestra. Se in quel comparto oggi trionfa il fai-da-te alla
fiera delle vanità dove in passerella sfilano loghi, nomi, etichette e marchi, tutto si deve al dì in cui Berlusconi, assediato da colonnelli e questuanti, brevettò l’“autofronda” per farla alla sua stessa Forza Italia e si buttò sui Circoli della Libertà di Michela Vittoria Brambilla. Azzerando il partito, Berlusconi poté reinventarlo daccapo irrobustendosi come non mai, ma dovette pure concedere di fatto il “movimentismo”a chi altro poi non ha fatto se non imitare il capo, indi per cui a ognuno la sua fondazione.
Ora, radicarsi nella società civile, intersecarne i bisogni e intercettarne le sensibilità è cosa tutt’altro che spregevole. Che nascano, fioriscano e lussureggino ambienti, gruppi umani, tavoli di lavoro, istituzioni sociopoltico-culturali è sempre un gran bene per il Paese. Succede però solo in Italia che le iniziative della società civile siano espresse dal ceto politico; esiste solo in Italia che gli ambienti di aggregazione servano solo per contrapporsi tra simili; esiste solo in Italia che quanto dovrebbe unire invece divide. Prendete quel virtuoso esempio che sono gli Stati Uniti: lì nascono e si moltiplicano sigle, associazioni e fondazioni ogni dì, ma sorgono dai cittadini, dagl’imprenditori, dalle culture e dalle Chiese; si spalleggiano, non litigano in pubblico, fanno quell’unione che è forza (non il contrario, come da noi diceva la sinistra qualche anno), non temono la concorrenza interna. E soprattutto “costringono” la politica a servire i movimenti, non l’opposto. Del resto, è solo in Italia che federalismo vuol dire tot capita tot sententiae, laddove dappertutto significa mettersi assieme rispettando le autonomie per qual cosa di più grande. www.marcorespinti.org
generali della componente – iniziativa a cui partecipa anche il triumviro del partito Denis Verdini – a Berlusconi salta la mosca al naso. Si incarica l’altro coordinatore del Pdl Sandro Bondi di esprimere il fastidio che si respira a Palazzo Grazioli. Il Pdl – dice il ministro dei Beni culturali – è un partito a vocazione carismatica, non è necessaria al suo interno una corrente dorotea che ne medi frizioni e conflitti. I berlusconiani più ortodossi temono che si crei nel partito un centro che releghi alla destra del partito Berlusconi e alla sinistra il suo antagonista dichiarato Gianfranco Fini.
Non contribuiscono alla pacificazione interna nemmeno le riflessioni del vulcanico ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta e della sua Free foundation. A proposito della manovra, in velata polemica con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, Brunetta ha fatto sapere che il Parlamento potrà apportare modifiche alla manovra, e che il «il governo sarà coeso per far sì che la manovra sia confermata nei saldi e resa più raffinata, equa e intelligente nelle modalità». Tradotto Brunetta chiede che la manovra sia più equa su scuola e pensioni: «Dobbiamo premiare gli insegnanti meritevoli e non produrre iniquità rispetto all’attuale sistema degli scatti di anzianità». Sulle pensioni: «Siccome l’Europa ci chiede di accelerare, il governo equiparerà nel pubblico impiego le donne agli uomini in un lasso di tempo congruo ed equo, destinando buona parte dei risparmi al welfare familiare». Proposte per fare ombra al ministro dell’Economia? A proposito di Tremonti: fondazioni lui non ne ha. Però è membro dell’Aspen institute che vuol dire qualcosa di più di presiedere una fondazione propria. E che dire delle fondazioni del capogruppo alla Camera del Pdl Fabrizio Cicchitto e del vicepresidente dei senatori Gaetano Quagliariello? Riformisti e liberali di Cicchitto ha continuato a ripetere da che è nata, che l’unica posizione sostenibile nel Pdl è quella della leadership berlusconiana, semplicemente perché non ce ne sono altre. Ma Cicchitto ha una storia e una cultura politica autonoma, come del resto il professor Quagliariello. La cui fondazione Magna Charta ha prodotto in questi anni riflessioni di peso nel dibattito mentre il quotidiano online L’Occidentale a lui molto vicino, è intervenuto nel corpo a corpo della battaglia politica quotidiana senza risparmiare fendenti anche alla maggioranza del partito. Non c’è solo Fini insomma a far corrugare la fronte del Cavaliere.
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diario
L’analisi. Benedetto XVI vuole approfittare dell’assalto dei media per favorire una “revisione” di vita e di metodi
Scandali, l’opportunità del Papa Ratzinger è consapevole della necessità di fare pulizia nella Chiesa opo il sesso gli affari: continua la bufera sulla chiesa. Il cardinale Sepe, indagato per “corruzione” nell’inchiesta sulle Grandi Opere, respinge gli addebiti e si protesta innocente. Afferma anzi di aver gestito con “trasparenza” il patrimonio immobiliare della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli di cui fu prefetto fino al 2006, quando divenne arcivescovo di Napoli. Al momento non possiamo non credergli, ma resta il fatto che da un paio di settimane il fuoco dei media si va concentrando in quella direzione e che sono ormai quattro mesi che il Vaticano fa da sfondo all’inchiesta che ruota attorno alla figura di Angelo Balducci, Gentiluomo di Sua Santità e Consultore della Congregazione per l’Evangelizzazione fino al momento dell’arresto. In attesa che siano fugate le “ombre” – come ha detto domenica il padre Lombardi, portavoce vaticano – che si sono addensate sulla persona di Sepe e sulla Congregazione di cui fu prefetto, non possiamo non interrogarci sull’imprevedibile destino del Papa teologo che un’emergenza dietro l’altra sembra voler distogliere dalla materia che gli è più congeniale e cioè dalla predicazione sulla figura di Cristo e sul primato della carità, che più volte ha indicato come centrali nella propria azione pontificale. Egli sente fortemente – e da sempre: da quand’era teologo e poi da cardinale – il mistero del peccato che insidia la Chiesa. Già nel suo capolavoro giovanile intitolato Introduzione al cristianesimo, che è del 1968, ci sono pagine tormentate sul Concilio Vaticano II che «si è sforzato di parlare non più soltanto della Chiesa santa ma anche della Chiesa peccatrice» e sulla «sensazione della peccaminosità della Chiesa» che oggi è «tanto profondamente radicata nella coscienza di noi tutti»: queste espressioni sono alla pagina 280 dell’edizione Queriniana 1969.
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Tre pagine più avanti si parla della Chiesa che «si immerge nella sporcizia del mondo per ripulirla a fondo»: c’è già dunque in quell’opera giovanile la parola «sporcizia» che tanto ci colpirà nella Via Crucis del 2005. Trentasette anni prima il cristiano Ratzinger era già mosso da quello stesso tormento. E nella pagina dove già diceva «sporci-
di Luigi Accattoli
La difesa dell’arcivescovo di Napoli, Crescenzio Sepe: «Ho sempre agito secondo coscienza»
I pm di Perugia: «Autorizzazione a procedere per Lunardi» ROMA. Una lettera di tre pagine scritte al computer. È tutta qui la difesa dell’Arcivescovo di Napoli, Crescenzio Sepe, indagato per corruzione aggravata nell’ambito di un nuovo filone dell’inchiesta sugli appalti in mano alla Procura di Perugia. «Prima di consegnarla, nei modi dovuti, nelle mani della giustizia, vorrei che questa verità - ha scandito il cardinale durante una conferenza stampa tenuta nella curia partenopea passasse da una verifica ancora più impegnativa che riguarda il rapporto, anzi il legame del vescovo con la sua gente: voi avete il diritto di chiedere e di sapere e a me resta il dovere di esaudire le vostre richieste». «Tre sono gli addebiti che mi vengono fatti - ha spiegato - per la responsabilità che ho avuto in quanto prefetto della Congregazione di Propaganda Fide gestione del patrimonio immobiliare». «Il primo caso riguada la concessione in uso di un alloggio al dottor Guido Bertolaso la cui esigenza - ha chiarito Sepe - mi venne rappresentata dal dottor Francesco Silvano. In prima istanza gli feci avere ospitalità presso il seminario ma mi furono rappresentati problemi di inconcibiliabilità degli orari per cui incaricai lo stesso dottor Silvano di trovare altra soluzione della quale non mi sono più occupato né sono venuto a conoscenza sia in ordine alla ubicazione e sia in ordine alle intese e alle modalità». L’arcivescovo di Napoli ha poi
parlato di un «altro coinvolgimento che concerne la vendita all’onorevole Pietro Lunardi di un palazzetto in via dei Prefetti. Ebbene - ha spiegato il cardinale - si trattava di un immobile che presentava in maniera evidente e seria segni di vecchiaia e di precarietà rappresentati più volte anche dagli stessi inquilini». «La terza questione interessa i lavori di messa in sicurezza statica di un lato del palazzo di Propaganda Fide in piazza di Spagna a Roma che aveva subito una modificazione strutturale ha detto l’arcivescovo - nel senso che era stato registrato un notevole distacco della parete determianto secondo gli acceramenti tecnici effettuati da infiltrazioni di acqua sotto il fabbricato e dalle continue vibrazioni causate dal passaggio della vicina metropolitana. Fu accertata la competenza dello Stato italiano e furono eseguiti i lavori di ripristino e ristrutturazione con onere parzialmente a carico della pubblica amministrazione e il resto della Fide». «Tutto ho fatto, comunque, nella massima trasparenza - ha assicurato l’arcivescovo - Ho sempre agito secondo coscienza avendo come unico obiettivo il bene della Chiesa». Intanto la Procura di Perugia ha chiesto l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi accusato di corruzione nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti per i Grandi eventi.
zia», che è la 283 dell’edizione citata, qualificava anche – per due volte – la «santità della Chiesa”come “ben poco santa».
Ecco il contesto della seconda di tali qualifiche: «Ve lo confesso apertamente: per me, proprio la ben poco santa santità della Chiesa racchiude in sé qualcosa di infinitamente consolante. Infatti, come non si dovrebbe perdersi d’animo di fronte a una santità che si presentasse assolutamente incontaminata, agendo su di noi solo con piglio giudicatore e fiato rovente?» Dalla consuetudine con gli scritti e le omelie di Papa Ratzinger traggo la convinzione che egli ben poco confidi sulla possibilità di porre riparo con iniziative di governo al danno di immagine che la Chiesa sta ricevendo dagli scandali sessuali e finanziari dei suoi“figli”, o quantomeno dal chiasso mediatico che le loro imprudenze hanno generato o favorito. Egli mi appare invece ben deciso ad approfittare dell’assalto dei media per rendere consapevole la comunità cattolica della necessità di fare pulizia al proprio interno: “penitenza”innanzitutto e poi revisione di vita e di metodi. Ordinando dei nuovi preti domenica in San Pietro ha richiamato a queste verità esigenti: «Chi aspira al sacerdozio per un accrescimento del proprio prestigio personale e del proprio potere ha frainteso alla radice il senso di questo ministero». Egli – discepolo di Agostino – di certo non crede che si possa porre rimedio una volta per tutte al peccato che insidia la Chiesa, ma è deciso a richiamare ogni responsabile di un qualsiasi cedimento ad ammettere la colpa e portarne le conseguenze. Tornando al caso Sepe, è perfettamente ragionevole che si faccia credito – al momento – alla sua dichiarazione di voler collaborare con i magistrati. Il portavoce vaticano gli ha giustamente rivolto «una parola di stima e di solidarietà» in questo «momento difficile». Ma è altrettanto ovvia la necessità – come pure ha detto domenica il padre Lombardi – che «la situazione venga chiarita pienamente e rapidamente». Parafrasando un detto classico riferito alla figura del magistrato, vale anche per gli uomini di Chiesa che «non solo debbano essere irreprensibili» agli occhi del mondo ma che tali anche «debbano apparire». www.luigiaccattoli.it
diario
22 giugno 2010 • pagina 7
Secondo l’accusa avrebbe commesso illeciti per incassare i rimborsi elettorali delle elezioni Europee 2004
Di Pietro indagato per truffa La denuncia è stata presentata da Elio Veltri, ex esponente dell’Italia dei Valori di Franco Insardà
ROMA. Quella tra Antonio Di Pietro ed Elio Veltri è una battaglia che dura da quasi un decennio, ma che non è destinata a finire. Elio Veltri ha abbandonato l’Italia dei Valori e Antonio Di Pietro nel 2001 e da quella data ha iniziato una battaglia, senza esclusione di colpi, con l’ex pm di Mani pulite. L’ultimo capitolo riguarda una denuncia presentata nelle scorse settimane da Elio Veltri, sei anni fa candidato in una lista collegata all’Italia dei Valori, che ha fatto iscrivere Di Pietro nel registro degli indagati della procura di Roma. Il reato ipotizzato, dall’aggiunto Alberto Caperna e dal pm Attilio Pisani, è quello di truffa in relazione a presunti illeciti legati ai rimborsi elettorali delle Europee del 2004. Sulla questione Antonio Di Pietro ha precisato ieri, in una nota, che «quella sui rimborsi elettorali è sempre la solita storia trita e ritrita su cui già, più volte, si sono espresse le varie procure della Repubblica, archiviando il caso. Per cui la Procura della Repubblica di Roma non poteva non procedere, anche questa volta, a seguito del solito esposto». Il leader dell’Italia dei Valori ha poi aggiunto: «Noi porteremo, come abbiamo sempre fatto le carte per dimostrare che tutto è in regola, come per altro hanno accertato ormai da tempo non solo plurime autorità giudiziarie, ma anche, da ultimo, l’Agenzia delle Entrate e gli organi di controllo amministrativi e contabili. Ci vuole pazienza, ci sono persone che non si rassegnano alla propria sconfitta politica e continuano ad infangare gli altri».
Secondo la denuncia di Elio Veltri l’associazione Italia dei Valori si sarebbe sostituita, nella gestione dei fondi elettorali, al movimento politico di cui è leader Di Pietro. E tutto sarebbe avvenuto con una serie di false autocertificazioni. Ambienti vicini all’ex pm ricordano che da un lato fascicoli aperti per altre denunce simili sono finiti archiviate e dall’altro che lo stesso Di Pietro, qualche mese fa, ha firmato davanti a un notaio un atto per sancire che associazione e movimento politico Italia dei Valori sono la stessa cosa. Veltri, però, da tempo ripete le sue accuse nei confronti di Di Pietro e della sua gestione personalistica dell’Italia dei Valori. Qualche anno fa rilasciò una serie di dichiarazioni molto dure a Oliviero Beha, riportate nel libro ”Italiopoli”del 2007. In un’intervista a Radio Radicale del 9 febbraio 2008 spiegò le ragioni della sua uscita dall’Idv, sostenendo che «le persone per bene se ne andavano e arrivavano persone poco raccomandabili. Non era un partito, ma una gestione personale senza meccanismi democratici». E a febbraio del 2010, ospite della trasmissione “L’ultima parola” su Raidue condotta da Gianluigi Para-
gone, in occasione del primo congresso dell’Italia dei Valori ha ribadito le sue critiche contro Antonio Di Pietro. Oltre a ribattere e replicare dalle pagine del suo giornale online “Democrazia e legalità”. Ieri, a botta calda, l’ex pm ha replicato: «Evidentemente, c’è qualcuno che non vuol capire. Metterò sul mio blog,
Roma avesse «confermato la sostanziale correttezza delle determinazioni assunte dalla Camera nell’individuazione dell’Idv quale unico soggetto legittimato alla percezione dei rimborsi», sottolineando anche nell’ordinanza che «il finanziamento pubblico va all’associazione Idv e il tribunale di Roma non ha ritenuto illegittima tale
della minoranza Giuseppe Vattino che dice: «Al di là del profilo penale rimane come punto politico il tema che abbiamo portato al congresso nazionale come “Base Idv”: l’incongruità della presenza dell’associazione Italia dei Valori insieme al partito. Ancor meglio sarebbe opportuno abolirla l’associazione, ma neanche la separazione è stata fatta». Sulla vicenda degli immobili Vatinno aggiunge «sarebbe bene che ci fosse quanto meno l’abbandono di quelle contestate. Abbiamo sempre detto, come partito che i politici dovrebbero essere al di sopra di ogni possibile strumentalizzazione. Lasciarle immediatamente sarebbe un’opportuna forma di pulizia morale». L’Idv oggi, sempre secondo Vatinno «somiglia un po’ a Forza Italia».
Non si fatto sfuggire l’occasione per piazzare una battuta al vetriolo il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri: «Di Pietro dice di avere i conti a posto e che finirà tutto in un’archiviazione. Vedremo che accadrà. E se il suo popolo, dopo questioni antiche di case e scatole di scarpe, non finirà viola...di vergogna». http://www.antoniodipietro.it, entro poche ore, tutta la ricostruzione della vicenda allegando tutti i circa cento
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Ci vuole pazienza, ci sono persone che non si rassegnano alla propria sconfitta politica e continuano ad infangare gli altri
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documenti che provano la realtà dei fatti. Quando un politico viene chiamato a dare spiegazioni, le deve dare immediatamente, anche all’opinione pubblica. E’ importante che questa sappia che il denunciante, l’onorevole Veltri, è stato condannato a risarcire il danno di oltre 50 mila euro per aver sostenuto accuse infondate nei miei confronti. Somma che, per altro, non mi è stata pagata direttamente da Veltri, ma dalla casa editrice di Paolo Berlusconi, editrice de ‘Il Giornale».
I rimborsi elettorali e le denunce dei suoi ex compagni di partito e alleati sono una specie di tallone d’achille per Antonio Di Pietro. In questi anni, infatti, il leader dell’Italia dei Valori si è dovuto già difendere dalle denunce del movimento il “Cantiere”, dove oltre a Veltri, aveva preso parte Achille Occhetto. In quell’occasione il tribunale di Monza ha ricordato come il gip di
condotta». Un altro ex amico di Di Pietro è l’avvocato abruzzese Mario Di Domenico, fino al 2003 vicino al leader dell’Idv, che presentò un analogo esposto, archiviato nel marzo del 2008.
Sul versante Idv si registrano posizioni differenti sulla vicenda. Per Maurizio Zipponi «non c’è alcun illecito e quindi siamo tranquilli. È una vecchia storia di una persona che ha dei grossi problemi personali. Veltri rivendica questo presunto torto perché era stato in passato coinvolto nella vicenda. L’Idv adesso sta viaggiando a cento all’ora verso continui consensi e non ha nessun problema di rimborsi elettorali». Non la pensa allo stesso modo il suo collega di partito ed esponente
A fianco, il leader Idv, Antonio Di Pietro. Sopra, l’ex membro del partito Elio Veltri. Nella pagina a fianco, l’ex ministro dello Sviluppo economico Scajola
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grandangolo Rivalutare lo yuan non basterà a salvare Pechino Tre consigli per fermare la folle corsa della Cina
di Wei Jingsheng
Il più grande dissidente cinese spiega perché la tanto attesa liberalizzazione del renminbi non eviterà un crollo che potrebbe colpire tutto il resto del mondo finanziario. È necessario infatti alzare i salari, permettere la creazione di un mercato interno e smetterla di accumulare debito estero a qualche tempo a questa parte, uno degli argomenti più sviscerati dalla “gioventù patriottica” della Cina continentale è quello della rivalutazione della moneta cinese, lo yuan renminbi. Persino agli agenti inviati dal governo cinese fuori confine è stato detto di cambiare modo di agire, mettendo al primo posto di ogni azione la protezione assoluta del valore della moneta: un ordine che dimostra quanto sia importante la questione, per la quale Pechino non vuole risparmiare alcuno sforzo. Eppure, la domanda è opportuna: ma è davvero così importante mantenere svalutato lo yuan? Uno dei primi motivi, una delle scuse più citate, riguarda la fondamentale necessità di garantire l’aumento delle esportazioni: la strada per garantire il lavoro nel Paese. A prima vista, questo sembra un motivo ragionevole; ma in realtà è una truffa. Cos’è il commercio? Il commercio è uno scambio di beni. Quando le esportazioni sono molto maggiori rispetto alle importazioni, si crea in maniera naturale una scarsità di beni all’interno del Paese. Che, a sua volta, genera inflazione. E come risolvere questo problema?
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Il Partito comunista e i grandi industriali rispondono: «È facile, basta concedere salari bassi e abbassare la spesa interna, in modo da bilanciare lo squilibrio fra import ed export». Ma se vendiamo i beni al normale prezzo di mercato, cosa ne facciamo dei profitti in eccesso? «Basta sistemarli in banca, den-
tro o fuori la Cina». Ed ecco come Pechino è riuscita a comprarsi decine di miliardi di dollari di debito americano, e perché le case vengono vendute a prezzo più alto.Tanto che oggi il mercato immobiliare è talmente fuori controllo che la popolazione non può più permettersi di comprare casa. Anche il denaro chiuso in banca è stato riportato sul mercato, e questo ha causato sia un surriscaldamento del mercato valutario internazionale che un eccesso di capacità di produzione all’interno della Cina. Nel frattempo, i mercati interni ed esterni al Paese si sono ristretti in maniera spro-
Il movimento indipendente dei lavoratori potrebbe essere il vero salvatore dell’economia interna del Paese porzionata. E questo ha causato la recessione economica globale degli ultimi anni. È stata causata da un commercio sbilanciato, da un ingiusto sistema di salari e da uno sbilanciato margine di profitto. Se vogliamo vedere la stessa cosa da un altro angolo, le paghe vera-
mente troppo basse hanno ridotto il mercato interno, mentre Pechino cerca di conquistare e controllare quello internazionale. Accompagnate da un surplus di commercio estero, larghe porzioni di benessere interno sono volate via.
Una parte di questo benessere è reso dai capitali stranieri, mentre il resto è vincolato nei mercati internazionali sotto forma di vari tipi di bond. Quindi, all’interno della Cina, il mercato è ancora al livello di un Paese del terzo mondo; i guadagni della popolazione riescono a essere persino minori di quelli di altre nazioni povere. Ma come si potrebbe cambiare questa situazione deformata? C’è una strada molto semplice, che oggi rappresenta tra l’altro la migliore fra le opportunità: alzare il tasso corrente di scambio dello yuan e aprire il mercato valutario al libero scambio. Quindi, la valuta straniera imballata nei mercati internazionali potrebbe tornare all’interno della Cina per assorbire gli yuan, e questo ritorno potrebbe portare tre risultati: la riduzione della fluttuazione monetaria nel mercato, che a sua volta ridurrebbe la rapida inflazione; una riduzione delle esportazioni e un aumento delle importazioni, che porterebbe un graduale aggiustamento del commercio straniero verso il bilanciamento; una riduzione rapida, in breve tempo, della produzione. Anche se avrebbe in breve tempo ragione della situazione della stagflazione, la ridotta produzione potrebbe innescare un circolo vizioso. E
questa è una delle ragioni per le quali il premier cinese Wen Jiabao non permette il libero scambio di valuta. Dato che è impossibile espandere in tempi brevi il mercato internazionale, rimane un’unica soluzione: espandere il mercato interno del Paese. E a risolvere questo problema è pronto a pensare il movimento dei lavoratori, che si sta espandendo velocemente per tutto il Paese, che chiede l’aumento dei salari. Questo aumento andrebbe a beneficiare le classi medie e quelle basse: insieme alla rivalutazione della moneta, potrebbe fare entrare di diritto queste persone nel mercato interno. Con la rapida espansione dello stesso, che a sua volta sconfiggerebbe la flessione produttiva. In poche parole, il movimento indipendente dei lavoratori potrebbe essere il vero salvatore dell’economia cinese. Alcune persone temono che l’aumento delle paghe potrebbe provocare una riduzione della produzione, così come la rilocazione delle aziende. Questo argomento non regge: anche se si raddoppiasse il salario di ogni singolo operaio cinese, la media di entrate rimarrebbe più bassa di quella delle altre nazioni in via di sviluppo. Ai capitalisti rimarrebbe un buon margine di profitto.
Questa soluzione comporta un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e una riduzione della tensione nella guerra internazionale per il commercio. L’attuale forma del mercato interno dipende dallo sfruttamento del-
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Le oscillazioni di valuta fanno parte di una sorta di propaganda internazionale
E l’apprezzamento della moneta asiatica non impressiona il prossimo G20 di Alessandro D’Amato iniziata l’era del SuperYuan? La moneta cinese ha toccato ieri il livello più alto dalla sua ultima rivalutazione del luglio 2005. L’impennata è arrivata dopo l’impegno delle autorità di Pechino a rendere più flessibile la moneta asiatica. Ieri mattina la Banca centrale ha fissato il punto medio della banda di oscillazione consentita allo stesso livello di venerdì, ma poi lo yuan è salito dello 0,47%, ai massimi da 5 anni e non lontano dal massimo consentito dello 0,50%. La decisione, che di fatto, segna l’addio dell’ancoraggio al dollaro per la divisa cinese, è stata accolta con vera e propria euforia dai mercati finanziari, che hanno visto i listini in rialzo e il petrolio in forte riapprezzamento. Anche se in molti fanno notare che la decisione è arrivata nelle imminenze della riunione del G20 e con la crescente pressione internazionale, in particolare dal Congresso degli Stati Uniti, e già questo potrebbe far capire che la politica monetaria, per il colosso cinese, rappresenterà comunque un mezzo di crescita prima che un metodo di contenimento dell’inflazione. La Cina è consapevole che la rivalutazione è la mossa migliore nel lungo termine per il crescita del potere d’acquisto dei propri cittadini, e tempera le pressioni di inflazione rallentando gli incredibili squilibri del commercio che hanno visto crescere le riserve a 2,4 trilioni di dollari, circa il 70% dei quali in valuta statunitense. Il renminbi ha compiuto un grande passo nell’ottica di diventare una valuta di riserva mondiale e i minori squilibri del commercio significheranno meno acquisti cinesi di Treasuries Usa. Finora, gli investitori stanno prendendo l’impegno della Cina come un segno di fiducia nella ripresa economica globale, dal momento che la sua politica originale di ancoraggio dello yuan al dollaro a partire da metà 2008 è stata una manovra difensiva per proteggere l’economia della Cina dalla crisi finanziaria. Ma c’è chi dice che l’effetto durerà poco: «L’annuncio della Cina sullo yuan spingerà gli asset più rischiosi, quali azioni e bond. Ma gli effetti saranno solo di breve periodo, in quanto i problemi di lungo termine torneranno a
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la classe operaia e colpisce le altre classi nel loro sforzo di migliorarsi: in questo modo, la Cina non può andare avanti. Al momento, la galoppante guerra internazionale per il commercio ha colpito il Paese e le ha già imposto una battuta di stop. Ma questa sarebbe costretta a rallentare, se la moneta venisse rivalutata e i salari ritoccati.
Queste misure si aiutano l’un l’altra, ma non possono fermare l’inflazione. Ecco perché ne serve una terza, l’aumento dei beni di importazione. Un aumento del valore dello yuan basterebbe, per provocarlo. Assorbire la valuta in eccesso diventa così un modo per tenere a bada l’inflazione. Già trascinata dall’aumento del consumo, la produzio-
L’opinione pubblica degli Stati Uniti teme che Pechino voglia cedere le proprie azioni Usa: ma questo è solo un bene ne interna della Cina continuerebbe a crescere: e questo è l’unico modo possibile per l’economia cinese di uscire dal circolo della stagflazione. Una parte dell’opinione pubblica degli Stati Uniti teme che l’economia occidentale possa essere ferita a morte dalla cessione, da parte di Pechino, del debito pubblico americano. E questo perché molti, all’interno del governo e della società cinese, a volte minacciano di colpire l’economia statunitense attraverso il crollo dei margini di sicurezza del Tesoro di Washington. Ma queste minacce nascono da idee idiote prodotte dal settore economico del Partito comunista, che non ha alcuna idea di come funzioni l’economia di mercato. In un certo senso, è più che altro una guerra psicologica. Da
una parte c’è il governo cinese, che spara fulmini senza pioggia tentando di spaventare la popolazione americana. Dall’altra parte, sembra che il governo americano sia preoccupato che Pechino faccia qualche mossa stupida. Quale sarebbe il risultato, se il governo cinese scaricasse il debito estero americano? Si avrebbe una svalutazione di quei titoli e del dollaro. Il valore dei titoli non colpirebbe in alcun modo la capacità del governo americano di ripagare in tempo i propri debiti. Ma la svalutazione del dollaro potrebbe essere ciò di cui il presidente Obama ha bisogno, nello sforzo di raggiungere l’obiettivo di aumentare le esportazioni. Con la svalutazione del dollaro non soltanto lo yuan cinese, ma anche le altre valute compreso l’euro e lo yen salirebbero di colpo, aiutando gli Stati Uniti a ridurre in maniera rapida le importazioni, aumentando nel contempo il volume delle esportazioni.
Questo sarebbe un ottimo colpo per Washington: perché dovrebbero temere una simile mossa da parte di Pechino. Forse perché la riduzione del valore delle azioni del Tesoro si dimostrerebbero nel tempo una sorta di resistenza nel comprarli? No. Svalutare i dollari significa accelerare la crescita economica. Potrebbero comprare con valute ri-apprezzate, perché il credito di quelle azioni è determinato dal credito della situazione economica della nazione che le emette. Ed ecco che quella mossa farebbe vincere, a Washington, la guerra dello yuan. Quello presentato qui, per quanto doloroso per il governo cinese, è l’unico modo plausibile per rimettere a posto l’equilibrio del mercato interno, assorbendo inoltre il surplus monetario. Tutto questo, però, deve accompagnarsi a un secondo intervento: aumentare il potere d’acquisto dei salariati, così che possano creare un vero esercito di compratori interni. Ovviamente, agendo in questo modo si ridurrà in maniera sensibile il profitto degli investitori, cinesi e stranieri; eppure, soltanto così potremo stabilizzare l’economia cinese. Il rischio è quello di un cataclisma finanziario, che stavolta non eviterà nessuno.
prendere il sopravvento», scrive il Wall Street Journal. «Ogni sostanziale reazione verrà probabilmente a meno nel breve periodo perchè ci sono altri fattori macroeconomici di maggiore portata» osserva Anthony Crescenzi, analista di Pacific Investment Management Co,. Si tratta quindi degli stessi fattori che fanno sì che i tassi di interesse si mantengano ai minimi. La Fed si riunirà oggi e mercoledì prossimo renderà nota la propria decisione di politica monetaria, ma non sono attese novità anche alla luce della scelta di Pechino. Anzi: secondo alcuni analisti non è escluso che la Fed possa tornare ad aiutare i mercati attraverso gli acquisti di titoli legati ai mutui. Sempre dagli Stati Uniti, si fa notare che comunque la Cina non ha annunciato la modifica fattuale dell’intervallo giornaliero degli scambi che la banca centrale effettua giornalmente, né ha fornito dettagli su nuovi range per lo yuan. C’è ancora qualcosa che lascia pensare che l’annuncio cinese sia più che altro una mossa preventiva per risparmiarsi le critiche al prossimo G20. Non solo: c’è chi pensa che a questo punto la Cina potrebbe muoversi anche acquistando euro e sterline, per liberarsi dei dollari: questo non potrà che portare, per lo meno nel breve medio periodo, in una rivalutazione “drogata” delle due divise, con tutti i riverberi negativi che si rifletterebbe sull’export della zona euro. Ma la maggior parte degli analisti pensa invece che l’euro soffrirà ulteriormente. Gli esperti di BNP Paribas si aspettano di vedere cadere comune moneta europea sotto la parità rispetto al dollaro. Gli investitori stanno semplicemente aspettando che l’euro cresca un po’ prima di rinnovare le loro scommesse al ribasso nei confronti della moneta. Secondo il consensus di 14 analisti citato dall’agenzia Bloomberg quest’anno la rivalutazione verso il dollaro potrebbe limitarsi all’1,5% , anche perchè la moneta cinese da inizio 2010 ha subito una rivalutazione verso l’euro di circa il 16 per cento. L’era del SuperYuan non è ancora venuta. Ma i suoi effetti li vedremo lo stesso.
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Roger Scruton, Luigi Iannone e Sant’Agata dei Goti Roger Scruton non ha bisogno di essere presentato. Luigi Iannone, invece, che lo intervista in questa pubblicazione appena uscita per Le Lettere - Il suicidio dell’Occidente nella bella collana Il salotto di Clio diretta da Francesco Perfetti - dovrà essere presentato. Una precedente intervista di Iannone a Ernst Nolte è già stata pubblicata due anni fa nella medesima collana. Iannone, dunque, non è nuovo a queste imprese culturali che provano a mettere a fuoco il delicato momento che viviamo e che in particolare vive il vecchio continente. Ancora qualche anno fa Iannone pubblicò una monografia su Prezzolini: Un conservatore atipico. Il campo di studio, ma si dirà meglio di interesse morale di Iannone è proprio questo del pensiero conservatore: Iannone, infatti, ritiene che solo da lì, dalle radici e dall’intelligenza della conservazione intellettuale e morale potrà venire al nostro mondo la “salvezza” ossia la capacità di continuare ad essere ciò che siamo e siamo stati. Eppure, anche dopo aver detto che cosa ha pubblicato e quali sono i suoi interessi di fondo mi rendo conto che non ho detto l’essenziale: chi è Luigi Iannone? Potrà sembrare strano al lettore questo mio ribattere sul medesimo tasto, ma la verità è che conosco Luigi Iannone da un bel po’ di tempo: praticamente dai tempi del liceo. Non abbiamo frequentato i banchi della stessa classe, ma è come se fosse avvenuto: io lo precedevo di un anno, lui era compagno di classe di mio fratello. Lui proveniva da Felice a Cancello, paese della provincia di Caserta e dopo aver frequentato - credo - il liceo di Maddaloni si spostò al liceo classico di Sant’Agata dei Goti. Dopo il liceo, come spesso accade, ognuno ha proseguito per la sua strada, fino a quando le nostre strade, per i comuni interessi, si sono nuovamente incontrate. Pensare che un mio ex compagno di liceo o quasi intervisti oggi importanti storici e filosofi della cultura europea e mondiale come Nolte e Scruton mi inorgoglisce.
Al tempo del liceo non avremmo mai pensato una cosa del genere, almeno io, ma poi, come spesso accade, la vita che ne sa più di noi si mette a improvvisare e a ognuno dà la parte che gli tocca. A Luigi Iannone è stata data in sorte una parte non irrilevante. Le cose che ha scritto e sulle quali lavora hanno un valore che resterà nel tempo. L’intervista di Iannone con Scruton è bella. Le domande hanno la forza di mettere in movimento il pensiero di Scruton il quale non si sottrae non solo al tentativo di risposta, ma al confronto con il radicale pessimismo di Iannone. Sul finire dell’intervista, infatti, proprio Scruton dice: «Lei è più pessimista di me» riconoscendo al suo interlocutore, che viene dalla terra di Gomorra, una parità di grado nel colloquio che del resto presuppone sempre almeno due voci. Mi fa piacere pensare che la capacità di Iannone di pensare la modernità e i suoi limiti derivi anche dagli anni del liceo classico santagatese. Anche questo è pensiero conservatore.
Con Scajola è andato a casa anche il nucleare? Stallo e confusione sul futuro delle centrali in Italia di Alessandro D’Amato
ROMA. Con Scajola è andato a casa anche il nucleare? È una domanda legittima, quella che continuano a porsi molti degli addetti ai lavori sullo sbandieratissimo piano nucleare del governo: con l’addio di Scajola non è che è andato in cantina anche il nucleare all’italiana? I dirigenti del ministero, che non commentano in pubblico, in privato si dicono «preoccupati» per la situazione odierna: Berlusconi, come era lecito immaginarsi, latita; il sottosegretario all’energia Stefano Saglia deve ancora “mostrare i denti”, per dirla con un’espressione in voga negli uffici. Ovvero, deve convincersi di poter andare avanti anche se non è ancora chiaro chi sarà il ministro che sostituirà quello Scajola che sull’atomo all’italiana ci aveva messo la faccia. Ma soprattutto il problema sembra essere a monte, nell’attivismo del ministero dell’Ambiente. «Niente di male se la Prestigiacomo va in solitaria a visitar centrali e firmare protocolli e intese, intendiamoci - rispondono quelli familiari con il “dossier”- ma di certo s’è perso proprio il passo. I tempi erano lunghi anche prima, ma ora sembra di rallentare ulteriormente». E c’è anche chi più esplicitamente dichiara: «Lasciare nei fatti all’Ambiente la regia della programmazione economica è un’inedita inversione dei ruoli che lascia poco spazio a coerenti e razionali politiche di sviluppo».
sarà pronta la mappa dei siti nucleari: l’ha dichiarato in commissione Ambiente al Senato Fedora Quattrocchi, dirigente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.
«La Sogin - ha detto Quattrocchi - ha aperto il 14 aprile l’iter per iniziare le ricerche per la posizione del parco tecnologico nucleare». Nulla, ancora, sul deposito delle scorie, che dovrebbe ospitare quelle che torneranno da Francia e Gran Bretagna tra 2019 e 2020. Con la prospettiva che rischiano il ritorno nei luoghi d’origine, le ex centrali della precedente stagione del nucleare all’italiana. Poi c’è la questione del mercato. Sulla quale ci sono notizie buone e cattive per il programma. Quella buona è che E.on e Suez formeranno la seconda cordata per la costruzione di centrali in Italia. La concorrenza con Enel-Edf significa probabilmente che si lavorerà con scelte tecnologiche diverse (come l’Ap 1000 di Westinghouse); per ora non sono stati messi soldi sul tavolo: l’accordo serve a potersi sedere ai con il governo e la futura autorità (magari allo scopoo influenzarne i primi orientamenti ed evitare standard troppo “chiusi” e favorevoli alla prima cordata), e nel comunicato di presentazione si strizzava l’occhio alle “utility locali e alle società energivore italiane”. A2a e Sorgenia sono avvertite. La nascita del secondo consorzio è la miglior notizia per il programma, già definito “agonizzante” da parecchi addetti ai lavori.Vediamo se è un sussulto post mortem o il segno che “eppur si muove”. Ma c’è anche una notizia cattiva. E arriva da Olkiluoto, località della Finlandia dove l’Areva aveva in programma di far partire il reattore di terza generazione Epr, quello considerato assolutamente sicuro e sbandierato da Scajola nelle sue visite all’estero. Ma i francesi, titolari della tecnologia, hanno deciso di far slittare a fine 2012 l’avvio del nuovo reattore. Una decisione che rallenta anche gli accordi firmati da Areva con Ansaldo in occasione della visita di Berlusconi a Sarkozy, quelli che - spiegava una nota di Finmeccanica all’epoca - dovevano sviluppare una partnership industriale su base progressiva a partire dai progetti Areva esistenti (tra cui proprio Ol-3 in Finlandia) per poi espandersi ai futuri progetti italiani. Il rischio, ragionano dalle parti di Enel e del ministero, è che il futuro tenda a farsi sempre più remoto.
Il problema sembra essere nell’attivismo del ministero dell’Ambiente, che ora ha «la regia della programmazione economica»
Il riferimento, per nulla velato, è alla riforma del codice Ambiente: nello schema del decreto legislativo approvato dal Cdm e prossimamente all’esame delle commissioni parlamentari, che modifica il Codice ambiente sulla base della delega contenuta nella legge 69/2009 nei fatti il ministero si ritrova con un potere di veto su tutti i programmi infrastrutturali e di sviluppo, grazie alla Valutazione Ambientale Strategica. Il decreto legislativo 31/10 prevede che entro domani il governo predisponga un primo schema di strategia nucleare, individuando gli obiettivi di potenza da installare e i benefici in termini di sicurezza dell’approvvigionamento di energia e di minor inquinamento atmosferico da raggiungere con la riapertura del capitolo. Saglia ha fatto sapere che l’elaborazione della strategia slitterà all’autunno. E forse per settembre qualcuno avrà anche convinto i candidati a ospitare le centrali che tocca a loro, e non ad altri. Entro il 23, infatti,
panorama
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L’ad delle Ferrovie, Mauro Moretti: «Io stesso potrei essere nella lista»
Sono circa 500mila gli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori
Viareggio, sono 18 gli indagati per la strage
Maturità, al via oggi con la prova di italiano
VIAREGGIO. Sono diciotto le
ROMA. Circa 500mila studenti
persone ad oggi iscritte nel registro degli indagati dalla procura di Lucca per il disastro ferroviario di Viareggio del 29 giugno scorso, ma il numero potrebbe aumentare. Lo ha riferito ieri il capo della procura di Lucca, Aldo Cicala, in una nota. «A tutt’oggi risultano iscritte nel registro degli indagati diciotto persone», si legge nella nota. «L’individuazione dei soggetti da sottoporre a indagine, tuttavia - in rapporto ai vari profili di colpa identificati non può ritenersi allo stato conclusa».
dell’ultimo anno delle superiori affronteranno oggi l’ultimo grande ostacolo della loro carriera scolastica. Tra ansie e “ripassi” dell’ultim’ora, ecco arrivata la prima prova, quella di italiano. Come per gli altri anni lo svolgimento della prima prova scritta prevede diverse opzioni tra le quali il candidato potrà scegliere. La prova è rivolta “ad accertare la padronanza della lingua nella quale si svolge l’insegnamento”, e consentirà all’allievo di scegliere tra diverse opzioni. Accanto al “classico” tema “su argomento di ordine generale” o a carattere storico o letterario si potrà optare per “l’analisi e commento di un testo letterario o non, in prosa o in poesia”, per la produzione di un articolo di giornale o saggio breve. La seconda prova, prevista per domani, è quella specifica per il corso di studi. Le materie sono state annunciate lo scorso 29 gennaio: i candidati si cimenteranno con Greco al Liceo classico; matematica al Liceo scientifico; lingua straniera al Liceo linguistico; pedagogia al Liceo pedagogico; figura disegnata al Liceo artistico.
«Gli approfondimenti investigativi continuano, in molteplici direzioni, nello sforzo di non lasciare inesplorato alcun elemento nella ricognizione delle cause di quella tragica vicenda e delle relative responsabilità, magrado la notevole complessità del lavoro di acquisizione, anche all’estero, del necessario materiale probatorio, del suo controllo, della verifica dei diversi titoli di responsabilità - distribuiti anche nel tempo - e degli accertamenti tecnici da svolgere», ha sottolineato ancora il procuratore Aldo Cicala.Tra i primi diciotto indagati potrebbe esserci anche l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti. Lo ha riferito egli stesso, ieri, rispondendo alle domande dei giornalisti a margine della cerimonia per il Cinquantesimo anniversario di Ecm, l’azienda di tecnologie per la sicurezza ferroviaria di Serravalle Pistoiese (Pistoia). «A giorni - ha detto Moretti - verranno fuori gli avvisi di garanzia. Non escludo che io stesso sia coinvolto, visto che, ogni qualvolta nella storia ci sono state cose di questo genere, tutti quanti sono stati compresi negli avvisi di garanzia», ha concluso l’ad delle Ferrovie dello Stato.
Le dimissioni fantasma del leghista calabrese La strana storia dell’onorevole Matteo Brigandì di Marco Palombi i dimetto perché non ha più alcun senso fare il parlamentare. Le Camere sono state svuotate di ogni loro funzione. Non hanno più alcun potere di iniziativa legislativa e sono state messe nella condizione di fare solo notaio della volontà del governo». Erano le indignate e ferme parole affidate all’Ansa, lo scorso 17 aprile, da Matteo Brigandì, umorale deputato della Lega di professione avvocato. Lo schifo era tale che il nostro, che parlava di tornare in provincia da più di un mese, a quel punto non ce la faceva a rimanere un minuto di più a fare lo «schiacciabottoni» a Montecitorio: «Martedì 20 aprile la Camera voterà le mie dimissioni», annunciava. Brigandì, classe 1952, capelli e pizzetto bianchi, due metri e un peso indicativo di parecchi chili superiore al quintale, è un leghista nato a Messina, ma cresciuto dall’altra parte dello Stretto, nella Calabria di cui conserva l’accento – venato da padanissime contaminazioni piemontesi – e della quale perpetua in partibus infidelium le gloriose tradizioni giurisprudenziali. Anni fa, arrivò a Torino in cerca di fortuna e trovò sia la fortuna che la Lega: penalista per così dire di peso, il nostro è l’avvocato di Umberto Bossi («l’ho difeso in 199 processi e con me l’hanno sempre assolto»), l’esperto di politica giudiziaria del Carroccio ed è stato pure, in vista della futura indipendenza, nientemeno che Procuratore generale della Padania.
«M
per intascare la diaria». E allora il dipietrista Borghesi: «Chi ha appena parlato ha passato qualche mese nelle patrie galere» (una truffa ai danni della regione Piemonte per cui è stato assolto in appello nel 2008). Apriti cielo.
Un nordico tutto d’un pezzo, insomma, ma fumantino come s’addice all’iconografia del terrone. Restano agli atti le quasi risse nell’aula della Camera con un paio di deputati di Italia dei Valori. La prima volta accadde nell’autunno 2008, durante un dibattito sui cosiddetti “pianisti”, quando stava per entrare in funzione a Montecitorio il nuovo sistema di voto con le impronte digitali (volontario, peraltro, e infatti Brigandì è rimasto al vecchio): «Se i deputati di maggioranza votano per due possono farlo per ragioni politiche – fu la sua bizzarra spiegazione - invece quelli di opposizione lo fanno solo
Il leghista calabrese si spostò alla velocità concessa dalla sua mole verso l’avversario con intenti minacciosi: «Infame! Fascista! Stronzo! Pezzo di merda!», scandiva intanto, contenuto dai commessi. A febbraio di quest’anno invece la pietra dello scandalo fu Fabio Evangelisti, Idv pure lui, che aveva inveito contro le «scimmie leghiste» che lo insultavano dopo una richiesta di dimissioni dell’allora ministro Zaia. Quella volta Brigandì entrò in azione nel corridoio vicino all’aula: «Stronzo, guarda che a me non me ne fotte un cazzo. Non farti vedere in giro, perché appena ti incontro da solo ti spacco la faccia». In mezzo, al solito, i commessi. Un paio di mesi fa, infine, l’eruzione: «Non me ne vado dalla Lega, sia chiaro, semplicemente non sopporto più questa ipocrisia. Fare il parlamentare, adesso come adesso, non ha più senso. Non ti danno la possibilità di poter incidere nel processo di formazione delle leggi. Acquistiamo importanza solo quando dobbiamo schiacciare il bottone per votare quello che ti chiede la coalizione o la forza politica a cui appartieni. Pertanto io mi chiamo fuori da questa situazione e torno a fare solo l’avvocato», metteva a verbale. Di più: «Io, il notaio del palazzo accanto (Chigi, ndr), non lo voglio più fare». E allora dimissioni, irrevocabili, «le votiamo martedì prossimo». Poi il 20 aprile è arrivato e passato e pure il 20 maggio e così il 20 giugno, senza contare i relativi martedì, ma le dimissioni di Bringandì in aula non si sono viste mai e lui è sempre lì che schiaccia bottoni. «Ora che leggeranno queste parole – vaticinava ad aprile – anche i colleghi che mi hanno dato solidarietà voteranno “sì”alle mie dimissioni». E infatti il leghista calabrese Brigandì è un arcitaliano e lo sa benissimo che il problema delle dimissioni è che può essere pure che le accettano.
Ad aprile dichiarò: «Non ha più senso fare il deputato schiacciabottoni». Poi solo un imbarazzante silenzio...
Quanto agli istituti tecnici e professionali sono state scelte materie che, oltre a caratterizzare i diversi indirizzi di studio, hanno una dimensione tecnicopratico-laboratoriale. Per questa ragione la seconda prova può essere svolta, come per il passato, in forma scritta o grafica o scritto-grafica o scrittopratica, utilizzando anche i laboratori dell’istituto. Per le prime due prove scritte le tracce sono quelle indicate dal ministero, mentre la terza prova ha carattere pluridisciplinare e ha l’obiettivo di verificare le conoscenze sulle diverse materie di insegnamento. Sono previste diverse tipologie: trattazione sintetica, non più di 5 argomenti; quesiti a risposta singola, da 10 a 15; quesiti a risposta multipla, da 30 a 40; problemi scientifici a soluzione rapida, non più di due; casi pratici o professionali, non più di due.
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Giovanni Agnelli
il paginone
Vittorio Valletta
omiti Cesare R
A Pomigliano comincia è un sapore antico di capitalicupazione delle fabbriche. Gli Agnelli rismo e manager coraggiosi, caschiano l’espropriazione, mentre la gestiopaci di guardare in faccia la ne è affidata dai sindacati ad un onesto e realtà, affrontarla e vincere rivolenteroso socialista, Giovanni Parodi. schiando, in quel che sta avvenendo in Velleitaria l’occupazione (con nidi di Fiat, col braccio di ferro nei confronti di Fiom-Cgil, a Pomigliano. Può piacere o mitragliatrici sistemati ai cancelli degli meno, arrivare persino a giudicare provostabilimenti), impossibile una normale atcatorio il «prendere o lasciare» di Sergio tività produttiva. All’Unione industriali, Marchionne; eppure coloro (purtroppo in molti consigliano a Giovanni Agnelli pochi) che conoscono la storia spesso d’invocare l’intervento dell’esercito, ma drammatica della nostra maggiore e prelui rifiuta. Sostiene che la Fiat deve lavostigiosa industria, non possono sottrarsi rare “con” e non “contro” i suoi operai. E, alla suggestione dei “ricorsi storici”. Detto innanzi allo stallo, all’improvviso, il miraaltrimenti: in oltre un secolo di vita, marcolo: sono gli stessi occupanti, il 20 setchiato dai successi ma anche da profonde tembre 1920, a chiedere al padrone di torcrisi, in presenza di un quadro politico denare in fabbrica. bole e incapace di autentiche riforme, la Giovanni Agnelli non manca tuttavia di Fiat si è puntualmente mossa. Certo per scaltrezza, consapevole dell’ondivagante salvare se stessa, ma anche umore delle masse, della per liberare, con gesti clapiazza. Liberale, ha perso fimorosi, quelle energie che ducia nel ceto politico dell’esono alla base dell’intrapoca, incluso il conterraneo prendenza industriale. TaGiovanni Giolitti. È però regliando alla maniera gordiastio, a differenza di altri inna quei nodi che hanno finidustriali, a far credito al voto con il soffocare la libera ciante Benito Mussolini. In impresa. Poiché non è la prisostanza ritiene che la Fiat ma volta che la Fiat s’avvendebba innanzitutto marciare tura in una simile, diromsulle proprie gambe, generapente azione, è opportuno re profitti, evitando di schieraccontare. Il passato talvolrarsi politicamente. Davvero ta ritorna... Alla fine della un modello di opportunismo prima Guerra Mondiale, la pragmatico, con un risvolto Giancarlo Galli Fiat (Fabbrica italiana autoda tener presente: porre la è l’autore mobili Torino, fondata nel famiglia Agnelli in sicurezdi “Gli Agnelli. 1899 da un gruppo di aristoza, inventandosi ante-litteUna dinastia, cratici piemontesi riuniti al ram un manager al tempo un impero”: Caffé Burello), è azienda sostesso capace e devoto. 1899-1998 lidissima che con le comSchema sabaudo: un re e un (Mondadori) messe belliche ha fatto soldi capo del governo. a palate. Autocarri, trattori, La scelta cade suVittorioValaerei, mitragliatrici. letta. Classe 1883, ligure di nascita, esperto aviatore, eccezionale ragioniere-contaPadrone assoluto, dopo una serie di ro- bile, nella Torino d’inizio secolo, l’Agnelli cambolesche liti giudiziarie, Giovanni ha avuto varie occasioni per verificarne la Agnelli. Classe 1866, ex proprietario tergrinta. «Stom a fa per mi», confida ai fariero e ufficiale di cavalleria. Ma nella città miliari, dopo una spettacolare messinscedi Antonio Gramsci in cui muove i primi na. All’assemblea Fiat (quotata in Borsa) passi Palmiro Togliatti, che fra breve fondel tardo autunno 1920, Giovanni Agnelli deranno il Partito comunista, la tensione si presenta dimissionario, ragguagliando i sociale è altissima. Sino a sfociare nell’ocpresenti di un suo incontro col deputato
C’
Da Agnelli a Marchionne passando per Valletta, Romiti e Montezemolo: la più grande impresa italiana davanti a un bivio che deciderà del suo futuro di Giancarlo Galli
socialista torinese Giuseppe Romita, del quale condivide il proposito di trasformare la Fiat in una «cooperativa di produzione». Lacrime agli occhi e colpo di scena.
In primissima fila, portatore di un robusto di azioni appena acquistate, Vittorio Valletta. Enfatico, parla di dovere, disciplina, Patria. Afferma che l’Italia, Torino, la Fiat, aspettano da Agnelli il sacrificio di resistere, di non abbandonare le posizioni. Il 1° aprile 1921,Vittorio Valletta entra in Fiat con la qualifica di direttore centrale. Ed ha inizio l’Era Valletta, che si concluderà a metà degli anni Sessanta, con l’arrivo alla presidenza di Gianni Agnelli. Quel che rileva (citando Valerio Castronovo, massimo storico del “Pianeta Fiat”), è il determinarsi di una diarchia ai vertici dell’impero industrial-finanziario torinese. «Quasi un gioco delle parti, col fondatore nei panni del monarca borghese con tanto di blasone derivatogli dal prestigio di cui godeva nell’alta finanza internazionale; lui,Valletta, impegnato nel lavoro oscuro e silenzioso, per far quadrare i conti e allargare i confini dell’Impero». È la logica Agnelli-Fiat. Scomparso Giovanni I, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la Famiglia mette in pista Giovanni II (Gianni, l’Avvocato), che però sino alla metà degli anni Sessanta, s’accontenta della vicepresidenza. Lasciando a Valletta onori e oneri. È ancora il “ragioniere” a mettere nuovamente alla porta i comitati di gestione, a condurre le epurazioni fra i dipendenti troppo politicizzati. Specie i
comunisti. Il rilancio in grande stile della Fiat (anni Cinquanta) fa rima con competitività ed efficienza. Gli accordi sul salario (quelli Fiat ben più favorevoli ai lavoratori di quanto prevede il contratto nazionale dei metalmeccanici), avvengono attraverso l’intesa con Cisl e Uil, isolando la Cgil che, incapace di cogliere i tempi nuovi, è trincerata sui logori schemi della lotta di marxista e gramsciana memoria.
Alla vigilia della contestazione sessantottina, che presto dalle università , che presto dalle università si trasferirà nelle fabbriche, l’anziano Valletta (nel frattempo nominato senatore a vita dal carissimo amico Giuseppe Saragat, socialdemocratico presidente della Repubblica), viene messo da parte. E per un certo periodo Gianni e il fratello Umberto ritengono di poter gestire direttamente l’azienda, nonché l’impero finanziario che sta alle sue spalle. Periodo turbolento, difficile da dominare. La “ricerca di un nuovo Valletta” è però problematica, specie dopo il fallimento dell’intesa con l’ingegner Carlo De Benedetti, che resterà in Fiat appena cento giorni. La Famiglia annaspa. Gianni è tentato dal piantar baracca e burattini, accettando la proposta dell’amico ministro Ugo La Malfa dell’incarico di ambasciatore in Usa. Umberto s’è presentato da indipendente nelle liste Dc, divenendo senatore (1976). Il mitico Enrico Cuccia, dominus di Mediobanca e nume tutelare del capitalismo
il paginone
Luca Cordero di Montezemolo
Gianni Agnelli
22 giugno maggio 2010 • pagina 13
arch Sergio M
ionne
a il secondo secolo Fiat Blocco della produzione. I sindacati: «Un attacco volgare»
Termini, le tute blu incrociano le braccia contro Marchionne di Francesco Lo Dico
TERMINI IMERESE. «Smettiamo di prenderci per i fondelli. Lunedì scorso lo stabilimento di Termini Imerese è andato in sciopero e l’unica ragione era che stava giocando la Nazionale italiana». Le parole con le quali Sergio Marchionne ha liquidato venerdì lo stato di agitazione di 2500 operai siciliani che assai probabilmente perderanno il posto di lavoro a fine 2011, hanno avuto come unico risultato un nuovo blocco della produzione in segno di protesta contro le ardite deduzioni dell’ad del Lingotto.
me volgare e provocatorio», ha commentato il segretario della Fiom Cgil in Sicilia, Giovanna Marano. «Questa è la risposta a Marchionne – le fa eco il segretario della Fiom di Palermo, Roberto Mastrosimone – Qui c’è gente che lavora da trent’anni. Il signor Marchionne non solo sta chiudendo lo stabilimento ma addirittura cerca di screditare il lavoro degli operai. Eppure era stato proprio lui a lodare la professionalità dei lavoratori di Termini Imerese, spiegando che la scelta di chiudere dipendeva da altre cose». Se la fabbrica siciliana è ormai spacciata a meno di nuovi investitori, resta invece problematica la sorte di quella di Pomigliano, in attesa del referendum che oggi (conteggio dei voti a partire dalle 21) molto probabilmente sancirà il sì al piano Marchionne. E sulla fabbrica campana, è arrivato puntuale anche ieri, l’affondo del presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia: «La Fiom preferisce la tutela dei falsi malati e degli assenteisti cronici». Per non parlare di quel sorpassato diritto allo sciopero, che ancora sopravvive nella Costituzione.
L’amministratore delegato del Lingotto aveva accusato gli operai di aver scioperato per vedere Italia-Paraguay in tv. E la Marcegaglia attacca la Fiom
Di concerto con i delegati di FimFiom, Uilm e Ugl, lo sciopero ha spinto fuori dai cancelli della fabbrica isolana alcuni operai che hanno incontrato i segretari i sindacali. Le tute blu hanno incrociato le braccia dalle 9 e 20 alle 10 e 20, mentre dalle 10.30 alle 11.20, si è tenuta un’assemblea, mentre alle 14 è iniziato il consiglio di fabbrica chiamato a decidere in ordine a una nuova ora di sciopero. Anche gli operai del secondo turno si sono poi riuniti dalle 17 e 50 alle 18 e 50 per decidere un’altra ora di sciopero. «L’attacco di Marchionne ai lavoratori di Termini Imerese è insie-
italiano, non è tuttavia disposto ad ammainare la bandiera innanzi alle bordate della contestazione. Chiama a rapporto Gianni e Umberto, invitandoli a restare in trincea. «Per i capitani d’industria, non sono previste dimissioni», dice severo. Gianni e Umberto tornano alla stanga, anche perché lo gnomo della finanza, dopo le bastonate, distribuisce le carote. La ricapitalizzazione della Fiat, che altrimenti potrebbe essere costretta a portare i libri in tribunale, e la nomina di un “uomo forte”, Cesare Romiti. Nell’estate 1980, coi galloni di amministratore delegato, Cesarone ha carta bianca. Re Gianni, all’investitura, è stato di poche prole: «Faccia quel che vuole, ma salvi la Fiat». (Ad uso del lettore: in Fiat, anche ai vertici, il “lei”è d’obbligo). Romiti non se lo fa ripetere. Il 10 settembre, alla riapertura degli stabilimenti, annuncia 14.469 licenziamenti. Il movimento sindacale, immediatamente, si mobilita, minacciando l’occupazione delle fabbriche. Il governo di Francesco Cossiga è spiazzato, il ministro degli Interni,Virginio Rognoni, insegue mediazioni impossibili. Il sindaco comunista di Torino, Diego Novelli, arringa la piazza: «Se qualcuno pensasse di insistere nel far passare con la forza questo disegno, noi non saremo davanti ai cancelli di Mirafiori, ma saremo dentro Mirafiori». Il dì seguente, Enrico Berlinguer tiene comizio alla “porta 5” di Mirafiori. Il 10 ottobre viene dichiarato lo sciopero generale. Cortei, spesso violenti, le catene di montaggio che già marciavano al rallentatore, ferme. Torino teme l’agonia della Fiat! All’improvviso, una controiniziativa. Ispirata da Romiti che pur, che pur ha sempre voluto negarlo. Un anonimo coordinamento dei dipendenti chiama a raccolta, il 14 ottobre, al Teatro Nuovo. Duemila posti in sala. Arriveranno in tantissimi, e sarà la “Marcia dei quarantamila”. Non bandiere, simboli partitici, ma un solo slogan: «Il lavoro si difende lavorando». La Cgil abbassa le armi, Cesare Romiti si guadagna sulla stampa internazionale il titolo di «estremista del capitalismo». Risultato: il Gruppo Fiat, che annoverava nella primavera del 1980, ben 350mi-
la dipendenti fra Italia ed estero, si “smagrirà” sino a 230mila, Riuscendo tuttavia ad aumentare la produzione per il calo verticale dell’assenteismo, la migliore utilizzazione degli impianti. Dopo l’Era Valletta, l’Era Romiti, dunque. Senonché una delle caratteristiche di re Gianni, monarca assoluto capace d’inchinarsi unicamente al Gran sacerdote della finanza, Enrico Cuccia, è caratterizzata anche da forme di egocentrismo. Un Romiti troppo forte, in un certo senso gli fa ombra.
D’altro canto, il settore automobilistico è soggetto a crisi cicliche; e forse un cambiamento può essere positivo. Al tramonto dell’astro Romiti, figura eccezionale comparabile a quella di Valletta, segue la ricerca di una figura adatta a combattere e vincere le nuove sfide. E mentre scompaiono uno dopo l’altro Cuccia, Gianni, Umberto, coi vari manager destinati a ballare poche stagioni, ecco entrare in scena Sergio Marchionne. Con grinta rara affianca il residente Luca Corsero di Montezemolo, figura familiare in ambito dinastia Agnelli. Luca, fedele alla tradizione della diarchia, ha un eccezionale fiuto nel favorire l’opera di Marchionne su un versante e, su un altro, dinastico, l’ascesa di Yaki Elkann, figlio di Margherita Agnelli, primogenita di Gianni. Marchionne al volante, un Agnelli ancora in cabina di regia, insomma. Al momento dell’ennesima battaglia per garantire alla Fiat un secondo secolo di gloria. Comunque, di valida presenza dell’Italia nello scenario di un’economia globalizzata. Così oggi, Marchionne, nel decisivo duello sul futuro di Pomigliano, si ritrova con gli stessi problemi dei predecessori. Valletta negli anni Venti e Cinquanta; Romiti negli anni Ottanta. Con, sostanzialmente, la stessa controparte: Cgil-Fiom. Certo, non si nega la buona fede, il fervore ideologico seppur storicamente retrodatato; eppure viene naturale chiedersi: non avessero vinto Valletta e Romiti, che ne sarebbe stato della Fiat? E, di conseguenza, se Sergio Marchionne non riuscisse a spuntarla?
mondo
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Diplomazia. Gazprom chiede entro cinque giorni il pagamento dei conti, che la Bielorussia sostiene di aver saldato da tempo
L’Impero colpisce ancora Mosca minaccia di chiudere il gas a Minsk È l’ultimo passo nel ritorno alla grandezza di Antonio Picasso a strategia russa di ricorrere al gas naturale come suo strumento di potenza è ormai confermata. Nemmeno questa querelle energetica aperta dal Cremlino contro la Bielorussia si può minimizzare a un mancato accordo sul prezzo delle bollette. Al contrario si tratta di una manovra politica studiata a tavolino ormai più di cinque anni fa. Ieri il Presidente russo, Dimitri Medvedev, ha accettato la proposta della Gazprom di tagliare le forniture di gas metano alla vicina Bielorussia per un iniziale quantitativo del 15%. Non è escluso però che, nelle prossime settimane, i rubinetti vengano chiusi per tre quarti della loro portata attuale. Di fronte a questa minaccia il Governo di Minsk ha replicato la sua intenzione di iniziare a saldare il debito. L’obiettivo di Mosca è, così facendo, cominciare ad assorbire il credito che vanta con la Repubblica a lei satellite. Secondo i calcoli di Gazprom si arriva a 200 milioni di dollari circa. D’altra parte, Minsk è in
L
piena recessione economica e il regime autoritario di Alexandr Lukashenko non permette al Paese un rilancio produttivo. È facile quindi per la Russia prendere questo piccolo alleato per la gola, ribadendo la sua influenza nei confronti di tutte le ex Repubbliche sovietiche che, dopo il 1991, si sono dichiarate
nella cui ripetitività stagionale l’Unione europea si fa prendere puntualmente contropiede. Un circolo vizioso dal quale Bruxelles non riesce a svincolarsi. Per Gazprom giugno è il mese di bilancio della stagione invernale appena conclusa. Tirate le somme, il suo amministratore
Più che una querelle sul mancato saldo delle bollette, la mossa del Cremlino è una manovra politica studiata a tavolino più di cinque anni fa per ribadire la sua influenza sulle ex repubbliche indipendenti. Un’indipendenza sulla carta, però, come si è visto più volte con l’Ucraina, nel Caucaso e soprattutto in Asia centrale.
La debolezza politica ed economica espone questi giovani Paesi agli appetiti dell’Orso del Cremlino, il quale ne approfitta e ribadisce all’Occidente che la “Nuova Russia” dev’essere tutt’altro che sottovalutata. C’è un metodo in questo percorso,
delegato, Alexei Miller, si reca al Cremlino per ottenere il vaglio di Medvedev e del primo ministro, Vladimir Putin. Sulla base dei prezzi di mercato del gas naturale – attualmente intorno al 2,8 dollari al metro cubo – Mosca stabilisce unilateralmente gli importi di produzione, acquisto e vendita della materia prima. È una strategia di mercato che viene poi introdotta con l’arrivo dell’autunno successivo. Ogni volta si ripete
la stessa scena: Gazprom decide il valore del gas estratto dai suoi giacimenti in Siberia, di quello comprato in Kazakhstan, Turkmenistan e Uzbekistan, infine impone la cifra maggiorata ai suoi primi e diretti acquirenti, Bielorussia e Ucraina.
In un secondo momento apre i negoziati con l’Ue. Non appena i rispettivi governi di Kiev e Minsk ammettono di non poter
affrontare simili spese, si apre una serie di trattative fittizie, che Mosca ha già vinto in partenza. La Gazprom infatti preferisce non negoziare sul prezzo, bensì sulla quantità fornita. L’accordo del 21 aprile scorso fra Medvedev e il suo omologo ucraino, Viktor Janukovic, ha previsto una riduzione del 30% delle forniture di metano dalla Russia all’Ucraina. Mosca ha inoltre ottenuto una proroga di 25 anni per l’usufrutto della ba-
Benché esista una struttura ad hoc, una precisa strategia moscovita impedisce qualsiasi forma di collaborazione con l’Occidente
Lotta al terrorismo? Putin “sgambetta”la Nato ndubbiamente, eventi come quelli in Kirghizistan e, prima ancora, le problematiche in Cecenia, Georgia, Abkhazia, Ossezia e Nord Caucaso in generale fanno riflettere su quale ruolo in tutto ciò giochi l’estremismo islamico e, in particolare, il franchising di al-Qaeda. In altre parole, il terrorismo segue, precede o accompagna questi eventi nel proprio sviluppo? In quale misura la lotta per il po-
I
di Mario Arpino tere, il terrorismo e la guerriglia autonomista interagiscono? Il terrorismo metropolitano russo e quello nelle Repubbliche indipendenti sono della stessa natura? Non sono domande di poco conto, se ogni risposta è destinata ad influenzare il rapporto tra quell’Occidente che si riconosce nei principi della Nato, dell’Europa e dell’America, e quell’altro Occidente, vicino ma così lontano, che tutti vorremmo riconoscere nella Russia europea. C’è stato un momento felice in cui, nello “spirito di Pratica di Mare”, sembrava che gli obiettivi potessero coincidere, e fu proprio in vista di un interesse pratico che nacque il Consiglio Nato-Russia (Nrc). Ma, nonostante gli entusiasmi iniziali, a causa di persistenti differenze politiche e culturali – la parola stessa “terrorismo” non ha mai avuto per tutti il medesimo significato – sinora i risultati sono stati piuttosto deludenti. In Russia e nelle Re-
pubbliche il terrorismo c’è, e questo è fuori di dubbio. Episodi come l’attacco dell’anno scorso alla metropolitana di Mosca, o la distruzione suicida della sede del ministero degli Interni a Nazran, in Inguscezia, i numerosi attentati al presidente ceceno Kadyrov, l’attacco al Nevesky Express tra Mosca e San Pietroburgo, l’occupazione della scuola di Beslan nel 2004, il fallito tentativo di azione suicida plurima delle “donne nere” nel teatro di Grozny sono azioni terroristiche inequivocabili, dove la matrice islamista è ben riconoscibile.
Nonostante l’informazione russa cerchi di sorvolare sugli episodi metropolitani e di porre invece in risalto quelli del Nord Caucaso o comunque accreditati ai Ceceni, è dimostrato che in Russia vi sono gruppi di terroristi che con l’islamismo non hanno niente a che fare, ma vengono piuttosto dalle file dell’estremismo politico locale e, presumibilmente, trovano mandanti nelle varie organizzazioni mafiose.Tuttavia, l’intera compagine antiterroristica continua a
mondo
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quello europeo. In questo modo la compagnia riesce a rispondere positivamente alle richieste di idrocarburi che le giungono da Occidente, per le quali le sue riserve in Siberia si stanno dimostrando insufficienti. Eurogas, l’istituto statistico di Bruxelles responsabile del settore, ha calcolato che, nel 2009, la domanda di gas naturale dell’Ue è stata di 480 miliardi di metri cubi, a fronte di una disponibilità di Gazprom non superiore ai 510 miliardi.
Stando così, siamo a un equilibrio di mercato che esclude per la compagnia di Stato russa la possibilità di dotarsi di una riserva in caso di emergenza. «È altamente probabile che in un futuro non molto lontano, la Russia non sarà in grado di rispondere positivamente alla richiesta di idrocarburi che le perviene dalle macchine industriali europee», la dichiarazione è stata rilasciata a Vienna ancora all’inizio dello scorso anno da Alexandr Golovin, mi-
sta pazientemente ricostruendo intorno alla Santa Madre Russia ha come “ariete di sfondamento” la sua compagnia di idrocarburi.
A questo punto non si capisce per quale motivo Bruxelles possa sentirsi non coinvolta nel risiko moscovita che ieri ha annichilito la Bielorussia. È vero, le minacce del Cremlino restano limitate ai suoi satelliti, perché solo nei loro confronti Medvedev e Putin possono permettersi di comportarsi con prepotenza.Tuttavia l’espansionismo russo è sempre stato di carattere difensivo e volto a risolvere la sua paura di accerchiamento. È una psicosi che covava già nella Russia zarista, che si è mantenuta con l’Urss e resta tuttora in vita. Oggi i timori nutriti a Mosca hanno origine nella crescente influenza della Cina a Est e nella volontà della Nato di intervenire come soggetto monolitico nelle varie criticità della comunità internazionale. Non è un caso che la
Minsk è in piena recessione economica e il regime autoritario di Lukashenko non permette al Paese un rilancio produttivo. È facile quindi per Medvedev prendere il piccolo alleato per la gola se navale militare di Sebastopoli, nel Mar Nero. Questa era stata il quartier generale della Flotta meridionale della Marina sovietica e prima ancora per quella gli zar. Dopo il 1991, tutta la Crimea è passata sotto la giurisdizione di Kiev, ma alle sue banchine sono rimasti attraccati i sottomarini e le navi russe. Dalla contrattazione in corso con Minsk, anch’essa favorevole solo per la Russia, il guadagno per quest’ultima è
Sopra, una mamma di Beslan; a sinistra: il primo ministro Vladimir Putin e in apertura un impianto di Gazprom
economico, ma altrettanto strategico. Finché Lukashenko resterà al potere, Mosca sa che la Bielorussia non sarà territorio di conquista per l’Occidente. La totale mancanza di democrazia e Stato di diritto escludono Minsk dal novero degli interlocutori della Nato e dell’Unione europea. Il presidente Lukashenko non può far altro che mettersi sotto le ali protettive del Cremlino e sottostare alle sue decisioni. Da un lato quindi
la Gazprom gli impone una quota di gas ridotto di quantità e a prezzi maggiorati. Dall’altro il territorio bielorusso assume il ruolo di un’appendice strategico-difensiva proiettata nel cuore dell’Europa centrale.
La strategia porta a un duplice guadagno. Per la Gazprom si tratta di un recupero di gas naturale, invenduto alla Bielorussia e quindi reindirizzabile su altri mercati, prevalentemente
focalizzarsi su Cecenia e dintorni. Tradizionalmente, delle indagini si occupano tre organismi, che sono il Comitato Investigativo della Procura Generale (Sk), il Servizio di Sicurezza Nazionale (Fbs) e il dipartimento antiterrorismo del ministero degli Interni (Mvd). Il coordinamento di fatto è inesistente e, per di più, per volere di Medvedev a questi tre enti ora si sovrappone l’attività del neocostituito Distretto Federale per il Nord Caucaso (Ncfd), che nella regione è totalmente indipendente. Come appare evidente, troppi sono gli attori e gli interlocutori perchè il Consiglio Nato-Russia abbia qualche possibilità di attivarsi con successo in materia di terrorismo. Le competenze tra organi federali e regionali appaiono non ben definite, spesso in contrasto tra loro e non è raro che i funzionari di entrambe le parti vengano accusati dall’Sk di corruzione. Nell’incapacità di stabilirle e di porre in essere una strategia generale, c’è la tendenza a chiamare “terrorismo” qualsiasi evenienza negativa sgradita alle autorità. E sem-
nistro plenipotenziario del corpo diplomatico del Cremlino. A fronte di questo, è automatico che Gazprom preferisca vendere ai Paesi ricchi e non alla disastrata Bielorussia, andando a recuperare altri giacimenti fuori dai confini nazionali, vale a dire in Caucaso e Asia centrale. Anche qui i regimi sono quasi tutti assoggettati a Mosca. Questo è il secondo elemento di vantaggio per Medvedev. L’influenza politica che il Cremlino
bra che alla fine la politica continui ad essere quella di Putin, che prevede di «…dare la caccia ai terroristi con ogni mezzo, inclusi carri armati, artiglieria ed aerei, per distruggerli, catturarli e ucciderli senza pietà…». Sebbene criticata da una parte dei media locali e da tutti quelli occidentali, questa domestic policy incontra il pieno favore dell’elettorato, visto che, nei sondaggi, il 75% si esprime con la convinzione che il terrorismo possa essere battuto sola-
Tre organismi si occupano della materia: il Comitato investigativo (Sk), il Servizio di sicurezza nazionale (Fbs) e il dipartimento antiterrorismo mente utilizzando tali metodi. Su questa base, il Consiglio Federale ha anche evocato la possibilità di ritornare - almeno per i terroristi – alla pena di morte. Come risultato, al momento il terrorismo sembra non aver subìto sconfitte clamorose: secondo l’Sk, infatti, da un anno all’altro i crimini per terrorismo sarebbero saliti del 37%, (il 30% nel Nord Caucaso). Su queste basi, una collaborazione Nato-Russia può trovare ben poche possibilità di applicazione:
Russia non abbia mai nascosto il proprio disappunto in merito al fatto che sia l’Alleanza atlantica a gestire la crisi afghana, su mandato dell’Onu. Di conseguenza, per fronteggiare gli avversari occidentali – Nato vuol dire Stati Uniti ed Europa – e quelli asiatici (Cina, ma anche India), Mosca non può che sottomettere i suoi satelliti con l’interminabile ricatto del gas. Di questo l’Ue deve esserne cosciente.
eppure, teoricamente, la minaccia - specie quella islamista - è diretta verso entrambi. Con molta probabilità, gli stessi terroristi che preparano le bombe contro i russi lo farebbero volentieri anche nei confronti degli americani. Le condizioni sopra descritte, tuttavia, pongono una nutrita serie di problemi che andrebbero risolti prima di passare alla pratica della collaborazione. Il primo di questi è una definizione comune di terrorismo, cosa al momento impossibile, visto che Mosca considera “terroristi”anche molti georgiani, ritenuti invece “patrioti” dagli Usa e dalla Nato. Supposto che si riesca a stabilire chi sono i veri terroristi, sorgerebbe subito dopo il problema dell’approccio per trattare la questione in termini operativi. E se i russi ponessero alla Nato il prerequisito di estradare a Mosca tutti i georgiani che loro sospettano di terrorismo? Per combatterlo, dovremmo applicare il metodo Putin o il metodo Petraeus? Ma non c’è da fare una differenza tra i terroristi che operano nei teatri – vedi l’Afghanistan – e quelli che preparano attentati metropolitani? Quali dei molti organi dell’antiterrorismo russo dovrebbero essere gli interlocutori? Ci sono sufficienti ragioni per temere che, anche ammettendo una non scontata buona volontà delle parti, tali quesiti siano destinati a rimanere ancora a lungo senza risposta.
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Golfo del Messico. Il board della compagnia rivela le sue spese ue miliardi di dollari: è quanto la British Petroleum ha annunciato di avere già speso per ripulire il Golfo del Messico dalla marea nera. Ma la cifra, benché enorme, potrebbe rivelarsi la classica goccia d’acqua nell’oceano visto che, secondo gli esperti, il danno potrebbe costare l’esborso di 60 miliardi di dollari. Soprattutto se si rivelerà fondata la denuncia di Tyrone Benton, un dipendente della piattaforma Deepwater Horizon affondata il 20 aprile scorso. Secondo il tecnico specializzato, infatti, alcune settimane prima dell’incidente si sarebbe verificata una fuga di petrolio da un’importante sistema di sicurezza, ma benché avvisato chi di dovere, nessuno si sarebbe mosso per non compromettere l’estrazione del greggio dal valore giornaliero di mezzo milione di dollari. Eh già, perché secondo Benton, la riparazione avrebbe fatto cessare momentaneamente la produzione. «Abbiamo visto una fuga nel blocco di otturazione - ha detto l’uomo alla Bbc - e abbiamo subito informato la società, che ha una sala di controllo dalla quale poteva chiudere questo blocco ed attivarne un altro dello stesso tipo, forse anche senza bisogno di fermare la produzione». E ancora: «Non dovevano fare altro che chiuderlo e passare a un altro», ha insistito Benton.
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Ma evidentemente la Bp non l’ha fatto e pretende invece che ad accollarsi i costi di bonifica siano anche le società partner nello sfruttamento del pozzo danneggiato, fra cui la Anadarko Petroleum Corp, proprietaria del 25 percento dei diritti di sfruttamento. È evidente-
Bp, contro la marea nera spesi 2 miliardi di dollari E un dipendente della società denuncia: «C’era una falla. E non l’hanno aggiustata» di Luisa Arezzo
mane 60mila). La rivelazione è giunta domenica scorsa, nel giorno in cui la Casa Bianca rincarava le critiche al capo della Bp, Tony Hayward, per essere andato in Gran Bretagna ad assistere ad una gara del suo yacht di lusso (arrivato quarto), mentre il Congresso della Louisiana proclamava un giorno di preghiera inter-
La cifra potrebbe rivelarsi una goccia d’acqua nell’oceano: secondo gli esperti il danno potrebbe ammontare a 60 miliardi di dollari mente che se l’accusa di Benton dovesse rivelarsi fondata nessun partner vorrebbe sborsare un singolo dollaro. La malafede della compagnia è oltretutto confermata da una serie di episodi. Ultimo della serie un documento interno della Bp in cui la compagnia petrolifera stima in 100mila barili al giorno la perdita possibile del petrolio nel Golfo del Messico, una cifra molto più alta delle sue stime ufficiali (al principio 20mila barili al giorno, dopo un paio di setti-
confessionale contro il più grande disastro ambientale della storia americana. Catastrofe che prevede la creazione di un fondo di risarcimento di venti (ma potrebbe rapidamente salire a 50) miliardi di dollari, così come stabilito in un incontro alla Casa Bianca tra il presidente Obama e Carl Henric Svamberg, numero uno della Bp. L’ingente somma pattuita sarà gestita da Kennet Feinberg (che ha gestito il fondo di risarcimento per le vittime dell’11 settembre), per ri-
La British Petroleum rassicurerà Medvedev?
Hayward vola in Russia Che lo spettro del fallimento aleggi gravemente sulle teste del board della compagnia petrolifera è dimostrato dal viaggio che Tony Hayward, il (più che) discusso amministratore delegato della British Petroleum, sta cercando di pianificare entro breve. Seppur con scarsi risultati. Suo esplicito desiderio è volare urgentemente in Russia per rassicurare il presidente russo Dmitry Medvedev che la compagnia petrolifera britannica non è sull’orlo del collasso, nonostante la crisi dovuta all’incidente nel Golfo del Messico. Secondo quanto riporta il Financial Times, Hayward - finito nella bufera per alcune gaffe nella comunicazione in queste settimane di crisi - vuole incontrare il presidente Medvedev per rassicurarlo
sulla solidità della compagnia. L’incontro però non è stato ancora organizzato né si conosce la data del possibile viaggio. Tanta fretta da parte di Hayward è presto spiegata: la Russia (assieme agli Stati Uniti) è il paesi dove la Bp ha i suoi maggiori interessi. Un quarto dei barili di greggio dalla prodotti compagnia britannica, infatti, provengono dai pozzi russi. L’incidente della Deepwater Horizon, però, potrebbe costringere Medvedev a prendere delle misure cauteari contro un’eventuale choc della Bp e farlo muovere in un’altra direzione. Esattamente quello che Hayward vorrebbe evitare. Sempre che gli venga data udienza nel breve periodo. Viceversa, le sue paure saranno più che fondate.
sarcire i danni provocati dall’esplosione della piattaforma Deepwater Harizon. Obama ha ben chiarito come questa cifra non è il tetto massimo che la Bp dovrà pagare per i danni recati per la sua negligenza. Ma la notizia della creazione del fondo non ha rasserenato gli animi. Anzi. Ora la preoccupazione si è diffusa dalle coste della Louisiana sino in Gran Bretagna, dove molti si interrogano se la Bp possa correre il rischio del fallimento, provocando uno sconquasso economico dopo quello ambientale. La Bp è infatti la terza compagnia petrolifera più grande del mondo, con ottantamila dipendenti e un valore di mercato che si aggira attorno ai cento miliardi di dollari.
La preoccupazione per un eventuale fallimento serpeggia in Gran Bretagna. Tant’è che lo stesso neo primo ministro Cameron, nei giorni passati, ha cercato una mediazione con la Casa Bianca chiedendo chiarezza con l’obiettivo di mantenere stabile l’azienda britannica. In Gran Bretagna la Bp occupa migliaia di persone, è una delle aziende preferite per i fondi pensione britannici ed è uno dei migliori contribuenti del Regno Unito. Per questo le decisioni americane hanno provocato una dura reazione difensiva da parte di Cameron che ha chiesto venga stabilito un tetto massimo affinché il risarcimento a carico della Bp non arrivi a sproporzioni tali da provocarne il fallimento. Intanto, per creare il fondo, la Bp venderà assets in giro per il mondo e bloccherà gli investimenti di capitale nelle operazioni internazionali. Inoltre, dopo aver già bloccato i dividendi almeno sino a fine 2010, chiederà ai partner americani, tra cui la Halliburton, di contribuire alle spese. Il New York Times, dopo aver chiesto il parere di alcuni esperti, ha previsto che la cifra complessiva del risarcimento dovrebbe aggirarsi intorno ai sessanta miliardi di dollari. Questo perché, con tutta probabilità, la Bp verrà coinvolta in una serie infinita di cause civili e penali. Ecco perché i due miliardi spesi fino ad oggi per i lavori di recupero del petrolio, la perforazione del pozzo di soccorso, le donazioni agli stati rivieraschi del Golfo, i risarcimenti (fino ad oggi Bp ha ricevuto 65mila richieste di risarcimento e ne ha soddisfatte 32mila) e le somme versate alle autorità federali, rischiano di essere nient’altro che un’obolo.
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I funzionari avrebbero divulgato false informazioni sul nucleare
Il delfino di Uribe eletto presidente con i consensi più alti della storia
L’Iran respinge di nuovo gli ispettori dell’Aiea
La Colombia incorona Manuel Santos con il 69% dei voti
TEHERAN. Ci risiamo: inventandosi l’ennesima querelle l’Iran prende tempo e ha deciso di negare l’entrata nel Paese a due ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea). Non solo: ha chiesto all’agenzia delle Nazioni Unite di identificare altri due nomi al posto di quelli appena respinti in vista delle prossime ispezioni. Lo ha reso noto ieri il capo dell’ Organizzazione per l’energia atomica iraniana, Ali Akbar Salehi, citato dall’agenzia Isna, lamentando che i rapporti dei due ispettori erano «non rispondenti alla realtà».
BOGOTÀ. Juan Manuel Santos, il candidato conservatore delfino del presidente uscente Alvaro Uribe, ha vinto le presidenziali in Colombia. Facendo meglio del suo “maestro”. Il nuovo presidente colombiano ha vinto il ballottaggio contro il Verde Antanas Mockus portando a casa più voti di quanti non ne avesse ottenuti il suo popolarissimo predecessore alle elezioni del 2006. Con il 99 per cento delle schede scrutinate, Santos ha superato i nove milioni di voti, “contro” i circa 7 milioni e 300mila voti di Uribe. con un’unica, ma non trascurabile differenza: Uribe aveva vintoo al primo turno, mentre Santos ha dovuto ricorrere allo “spareggio”. Nel 2006, il candidato
Anche se l’episodio appare come un ulteriore segnale di una tensione crescente nel braccio di ferro sul nucleare iraniano, dopo ulteriori sanzioni imposte all’Iran dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu il 9 giugno scorso, Salehi non ha fatto alcun cenno alla possibilità che Teheran decida di mettere fine alle ispezioni ai suoi impianti. Il capo del programma iraniano ha anzi sottolineato che la Repubblica islamica intende continuare ad agire «nell’ambito del Trattato di non proliferazione nucleare» (Tnp). Ma questa frase è stata sentita talmente tante volte da non essere altro che un disco rotto a cui non si può più dare alcun credito. Nel suo ultimo rapporto pubblicato il mese scorso (compilato
Elezioni in Polonia Si va al ballottaggio Kaczynski dietro Komorowski, che non passa al primo turno di Pierre Chiartano ulla di fatto ancora dopo le elezioni in Polonia: serve attendere luglio e il ballottaggio. I polacchi sceglieranno infatti il 4 del prossimo mese il loro nuovo presidente tra il liberale Bronislaw Komorowski e il conservatore Jaroslaw Kaczynski. In base ai risultati parziali del primo turno elettorale, con il 94,3 per cento dei voti scrutinati, il primo sembra in vantaggio di almeno cinque punti. Il fantasma di Lech Kaczynski l’ex presidente - aleggia sulle urne elettorali e sulla Polonia, colpita il 10 aprile scorso dalla maledizione di Katyn. La tragica scomparsa in un incidente aereo del presidente, morto insieme a circa metà del governo mentre si recava a una commemorazione dell’eccidio delle fosse di Katyn, aveva scosso l’ìntero Paese. La sua scomparsa aveva rimesso in campo il gemello Jaroslaw - ormai senza più tante ambizioni politiche - nella corsa alle presidenziali. Nel disastro avevano perso la vita 95 persone. Ora si andrà al ballottaggio. Il presidente ad interim Komorowski, 58 anni, del partito filoeuropeo Piattaforma Civica, (Po) ha ottenuto il 41,22 per cento dei voti, contro il 36,74 per cento di Kaczynski, 61 anni, guida del partito nazionalista Diritto e giustizia (Pis), gemello del capo di Stato morto. La sorpresa è venuta del buon risultato del candidato di sinistra, il socialdemocratico Grzegorz Napieralski, che ha ricevuto il 13,7 per cento dei consensi. E la scelta che faranno gli elettori del giovane esponente di centrosinistra al secondo turno potrebbe essere decisiva, insieme alla partecipazione al voto, che al primo turno si è fermata al 54,85 per cento. «Nella vita come nel calcio e in tutti gli sport, la parte più difficile sono i tempi supplementari», ha affermato Komorowski dopo l’annuncio degli exit poll domenica sera. «Dobbiamo esserne consapevoli e mobilitare le nostre forze e tutta la nostra energia per questo finale della corsa presidenziale». «La chiave della vittoria è la fede, è la convinzione che è possibile e necessario vincere, dobbiamo vin-
N
cere per la nostra patria, per la Polonia» ha invece dichiarato il suo avversario. Secondo il sociologo Edmund Wnuk-Lipinski, «Grzegorz Napieralski ha ottenuto un importante capitale politico che potrà determinare il voto al secondo turno. Già abbiamo potuto assistere alle prime avances da parte dei due principali candidati».
Napieralski ha ringraziato i suoi elettori, senza però indicare per quale dei due candidati ancora in lizza è pronto a indirizzare il consenso. I sondaggi dicono che il 66,5 per cento dei suoi elettori sarebbe pronto a votare per Komorowski al ballottaggio, poco meno del 30 per cento per Kaczynski. Ma c’è un altro Lech che non fa il tifo per Kaczynski. Secondo il fondatore di Solidarnosc ed ex presidente Lech Walesa, infatti, «Kaczynski sono un disgrazia per il Paese». E si dice pronto a dar battaglia per sostenere il liberale Bronislaw Komorowski contro il candidato conservatore al secondo turno delle elezioni presidenziali polacche. L’ex capo dello Stato, figura storica della lotta contro il regime comunista, aveva sperato nella vittoria di Komorowski già al primo turno: «Mi sono sbagliato, nelle previsioni. Ma adesso nel secondo turno sono pronto a scendere fisicamente in campo insieme a Komorowski, perchè i Kaczynski sono una disgrazia per il Paese» ha aggiunto Walesa, sottolineando «non mi faccio convincere dal cambiamento di Jaroslaw Kaczynski». Comunque a Mosca staranno a guardare i risultati polacchi facendo alcune riflessioni storiche. Una dopo l’altra tutte le Repubbliche ex sovietiche e i Paesi appartenenti al vecchi patto di Varsavia, dopo un primo periodo di relativa indipendenza politica e soprattutto fuori dall’influenza determinante del Cremlino, si stanno riacconciando. Dall’Ucraina è partito il segnale più forte di rientro nell’ovile geopolitico russo. La Georgia resiste ancora, nel Kirghizistan c’è un’evoluzione.Vedremo cosa accadrà in Polonia.
Il socialdemocratico Napieralski, che ha ricevuto il 13,7% dei consensi, potrebbe essere l’ago della bilancia
anche sulla base delle informazioni fornite dagli ispettori respinti), l’Aiea denunciava che l’Iran stava preparando nuove apparecchiature per aumentare il livello di arricchimento dell’uranio e non aveva risposto a sue domande circa possibili aspetti militari delle sue attività. Secondo Salehi, i due ispettori, di cui non sono forniti i nomi e le nazionalità, hanno trasmesso «informazioni non rispondenti alla realtà» e hanno «fatto trapelare notizie prima dei tempi stabiliti» dai regolamenti. «In base al Tnp, abbiamo chiesto all’Aiea di non inviare più in Iran questi due ispettori e di nominarne altri due al loro posto». E intanto il tempo scorre: tic tac, tic tac.
sconfitto - Carlos Gaviria - ottenne 2 milioni e 600mila voti, con il 22,04 per cento dei consensi, mentre a Mockus sono andati 3 milioni e 588mila voti. Il presidente uscente, che passerà ufficilmente le consegne il prossimo 7 agosto, ha guidato la Colombia per due mandati consecutivi raggiungendo punte di popolarità vicine all’80 per cento. Tanto che in Colombia si è a lungo discusso della possibilità - poi decaduta - che Uribe potesse presentare una nuova candidatura attraverso un’apposita riforma costituzionale.
Continuità con il passato, misure che aiutino le imprese ad affrontare la crisi economica della Colombia e, soprattutto, linea dura contro il narcotraffico e le Farc. Queste le linee guida indicate dal neo presidente nel suo discorso della vittoria. «Questo è anche il tuo trionfo», ha detto ad Uribe l’ex ministro della Difesa dopo la notizia del suo trionfo “a valanga”. «Oggi la stragrande maggioranza dei colombiani ha votato per continuare il tuo programma» ha detto ancora Santos, continuando a rivolgersi ad Uribe, commentando la percentuale ottenuta, la più alta mai avuta da un presidente eletto in Colombia.
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Mondiali. La Nazionale scesa in campo domenica contro la Nuova Zelanda ha mostrato, ancora una volta, più paura di perdere che voglia di vincere
Italia, bella senz’anima I nostri Azzurri hanno un gioco di squadra solido e concreto ma, oramai, appaiono intrappolati nei loro stessi schemi di Paola Binetti lla fine abbiamo pareggiato: Italia 1 - Nuova Zelanda 1, Iaquinta su rigore ha pareggiato il vantaggio di Smeltz, che ci aveva messo in difficoltà già nei primi 10 minuti. Nessuno però è soddisfatto. Anzi con il passare delle ore il giudizio si fa più critico, gli errori appaiono più pesanti e le conseguenze assumono un profilo più minaccioso. C’è un’idea che comincia ad insinuarsi nelle conversazioni familiari o nelle discussioni fatte in ufficio, al bar o dovunque si raccolga un po’ di gente. Com’è possibile che la nostra nazionale, campione nei mondiali di appena 4 anni fa, sia peggiorata tanto! Eppure i giocatori sono in gran parte gli stessi. Che ne è stato della loro grinta, delle loro capacità sportive, del loro spirito di squadra, dove hanno perso il carisma che aveva determinato la loro identità di campioni e una volta di più aveva confermato che il calcio italiano è il più bel gioco del mondo. Se lo chiedono tutti anche perché sentono l’urgenza di trovare una risposta prima di giovedì, ultima nostra opportunità in questa prima fase dei mondiali.
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È vero che non bisogna smettere di sperare, ma è anche vero che sperare diventa ogni volta più difficile. E la cronaca di una domenica pomeriggio, attesa da giorni, programmata insieme a tanti amici di diversa fede calcistica, per il puro gusto di vedere gli azzurri vincere, evidenzia un morale di basso profilo, schiacciato dalla sorpresa, perché in fondo tutti eravamo convinti che questa volta gli azzurri avrebbero vinto. Le strade vuote, le case piene di gente davanti alla televisione, in città e al mare, complice anche il cattivo tempo. Roma, e sicuramente molte altre città come lei, in mattinata sembrava vestita a festa per questo appuntamento: agli angoli di tutte le strade c’erano baracchini che offrivano sciarpe con i nomi dei giocatori e bandiere italiane, richia-
mando anche lo sguardo dei passanti più distratti, grazie anche a quelle terribili e assordanti trombette che come vuvuzuelas nostrane, ci hanno afflitto tutta la giornata, per piombare nel silenzio appena finita la partita. Abbiamo fatto tutti il tifo per gli azzurri. Incollati agli schermi televisivi, abbiamo cercato di capire fino alla fine quale sarebbe stata la
Limperativo ora è sconfiggere l’opacità del Torneo, restituire onore alla squadra e ricordarle che servono meno tecnicismi e più gioco
mossa strategica che Lippi aveva inventato nel suo misterioso allenamento creativo, quello di cui ci aveva parlato in questi giorni una certa stampa sempre bene informata. Un numero incredibile di giornalisti nei giorni scorsi aveva cercato di capire come si stesse muovendo il Mister della Nazionale, sempre meno disposto a parlare, sempre più chiuso in se stesso ma –tutti ritenevamo- sempre più determinato a trovare la soluzione giusta per vincere. Gli errori delle altre squadre sembravano schiudere prospettive concrete per una nostra rimonta e perfino per ipotizzare una vittoria finale. Inghilterra, Spagna, Francia, Germania,
tutte le grandi squadre in qualche modo messe KO. Eppure eravamo convinti che questa specie di epidemia da insuccesso ripetuto non avrebbe toccato l’Italia. L’Italia si sa è sempre capace di un colpo di genio, anzi nei momenti più difficili è quando dà il meglio di sé. Eravamo critici, come sanno essere gli italiani, convinti di saperne sempre una più del CT, ma eravamo anche convinti che alla fin fine Lippi ci avrebbe sorpresi e ce l’avrebbe fatta a sconfiggere la Nuova Zelanda. Non è stato così e ancora non capiamo perché le cose non siano andate come volevamo, come speravamo, come eravamo fermamente convinti che sarebbero andate.
A poche ore dalla fine della partita ci rendiamo conto però di aver visto ben poche idee originali, un gioco di squadra solido e concreto ma incapace di generare quelle azioni che fanno la vittoria della squadra.Tanta tecnica di gioco, sufficiente per controllare l’avversario, ma poca capacità di vincere. Gli azzurri sembrano prigionieri di se stessi, intrappolati nei loro schemi, e lo stesso Cannavaro, il capitano geniale di una volta, manca di smalto, è confuso, privo di slanci, incapace di dare tono e ritmo alla partita. Meglio di lui fanno De Rossi e Iaquinta, che si distinguono in mezzo ad un gioco collettivo piuttosto anonimo, mettendo a punto l’unica operazione efficace: il goal che permette di superare quella strana sensazione di angoscia che aveva preso tutti noi a sette minuti dall’inizio della partita e che stentava ad abbandonarci. Ora anche il passaggio della fase a gironi è a rischio. Cresce l’ansia, diventa più esigente la voglia di capire cosa stia succedendo e comincia a farsi strada il dubbio che l’errore sia davvero strategico e di impostazione. Un errore a due facce. Da un lato mancano quei pochi, pochissimi
In queste pagine, l’allenatore della Nazionale italiana, Marcello Lippi; il centrocampista Daniele De Rossi; alcune immagini delle due partite finora disputate dall’Italia ai Mondiali del Sudafrica: Italia-Paraguay e Italia-Nuova Zelanda; alcuni scatti delle diverse tifoserie
giocatori che in ogni squadra fanno la differenza perché sanno segnare anche in condizioni complicate. Lippi si difende dicendo: sono in gran parte gli stessi giocatori dell’altra volta, peccato però che siano cambiate tante cose e loro stessi che quattro anni fa erano al culmine delle loro prestazioni sportive,
ora sembrano davvero un po’in declino. Dall’altro manca la magia di chi conduce il gioco e spariglia le posizioni di compagni ed avversari con quel lampo di genio tipicamente italiano, frutto più dell’estro di un momento: di quel momento! che non di lunghi ed estenuanti allenamenti, che rendono noiosamente ripetitivi. Non si tratta solo della mancanza dei “campioni veri”, quelli che fanno la differenza in una squadra; manca anche la squadra che vuole giocare, quella che non confonde il senso e il valore del gioco con la tecnica di gioco. In definitiva manca un’anima alla squadra e Lippi non sembra in grado di infonderla in fase di allenamento, né Cannavaro sembra in grado di risvegliarla sul campo di gioco. Non stupisce che Lippi abbia commentato amaro: «Dovevamo fare qualcosa di più». Ma la domanda può essere capovolta: chi dove-
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mo stati capaci di rompere il loro muro difensivo. Abbiamo imparato solo a metà la lezione di un anno fa... Rimediate le lacune difensive, corretti quegli errori, abbiamo perso per strada l’entusiasmo positivo che va oltre i puri tatticismi. Allora Lippi disse: «È stato un buon allenamento, una buona giornata di lavoro. Abbiamo bisogno di lavorare in questi giorni, per questo non ho fatto giocare la maggior parte dei veterani arrivati in ritardo. Ci sono stati degli errori, li abbiamo
va fare qualcosa di più, chi doveva rischiare e portare in Sudafrica qualche attaccante in più? Chi doveva rischiare su qualche giocatore più creativo, forse non sempre disciplinatissimo, ma pure geniale ed originale nelle sue uscite e nelle sue azioni di gioco. Cercare una tattica che permetta di tenere tutto e sempre sotto controllo impoverisce il gioco, perché lo priva della sua anima, lo rende professionale ma ne capovolge la sua dimensione propria: lo priva della sua dimensione ludica, quella che appassiona ragazzini di tutti i continenti e fa da vivaio naturale per i futuri campioni. Gli azzurri anche questa volta hanno mostrato più paura di perdere che voglia di vincere. L’Italia non ha trovato soluzioni che si trasformassero in goal, perché l’obiettivo era evitare che segnassero gli altri e non metterci in gioco per giocare seriamente.
I minuti sono passati senza che arrivasse il goal e negli ultimi minuti la tensione è salita alle stelle, lasciando tutti col sapore acido in bocca e con un commento rassegnato sulle labbra: «Dovevamo fare qualcosa di più». Ogni italiano durante tutta la partita si è posto la stessa domanda: una buona squadra la si riconosce dalle tecniche di difesa, dalla capacità di controllare il gioco dell’avver-
sario, ma la squadra che vince è un’altra cosa. È quella che ha il coraggio di osare, che sorprende l’avversario e che va a rete prima col cuore e con la passione per la vittoria e poi con i piedi e con la testa. I nostri sono dei professionisti, seri, ben addestrati, capaci di compattarsi contro l’avversario, ma non capaci di quell’azione creativa che può includere anche la trasgressione rispetto allo schema studiato negli allenamenti. È come se mancasse loro l’intuizione dinamica che salta la tecnica e sceglie di rischiare il tutto per tutto pur di vincere. Forse per capire cosa è accaduto domenica pomeriggio agli azzurri dobbiamo ripensare quanto accadde un anno fa, quando a Pretoria in occasione di una amichevole in preparazione di questi mondiali vincemmo a fatica contro la Nuova Zelanda: quattro a tre con molti gravi errori difensivi. Vincemmo solo dopo l’ingresso in campo di Pirlo e Iaquinta e fu una doppietta di quest’ultimo a regalarci la vittoria. Anche allora ci furono al-
meno sessantotto minuti di paura, in cui la formazione di Marcello Lippi rischiò di capitolare a causa di strani cedimenti della difesa. Questa volta la difesa ha tenuto e la Nuova Zelanda nonostante i ripetuti tentativi non è andata oltre il primo goal. Ma neppure noi sia-
pagati ma poi abbiamo rimediato. Gli errori preoccupano sempre ma ci sono state anche cose belle». È vero quegli errori Lippi li ha corretti e ha creato una squadra forte in difesa, ma ha lasciato che affiorassero nuovi errori e certamente non meno gravi. L’altra volta abbiamo subito tre goal, ma ne abbiamo segnati quattro. Questa volta ne abbiamo subito uno e abbiamo segnato una volta. Anche rispetto ad un anno fa il risultato non è esaltante e mostra che in fondo non abbiamo
veramente capito cosa era accaduto l’anno scorso col Nuova Zelanda e non abbiamo saputo reagire adeguatamente.
Ma sembra che questa incapacità di imparare dai nostri errori stia diventando una malattia di tutte le squadre della vecchia Europa, indubbiamente le migliori per tecnica di gioco e perfino per tattica, ma nessuna in condizione di vincere. In compenso si fanno strada squadre nuove, con meno storia e meno teoria, ma capaci di stare in campo con un’unica idea chiara e distinta: giocano per vincere, comunque e a tutti i costi. Sono squadre giovani: nel cuore, nella testa, nei piedi, ma soprattutto nella passione. Sono squadre che si giocano il loro prestigio internazionale, che debbono dimostrare di essere dei campioni almeno potenziali, perché nessuno scommetterebbe su di loro. E per loro diventa indispensabile scommettere su se stessi, mostrare di cosa sono capaci. Noi in fondo ci illudiamo di essere ancora i migliori e non abbiamo accolto fino in fondo la provocazione sportiva che questo mondiale ci offriva. Abbiamo tre giorni per ricominciare a lavorare, a combattere quel tarlo che si annida nella mente di ogni giocatore dopo alcune performance non soddisfacenti: Sarò ancora capace di farcela? Nonostante tutto noi Italiani crediamo ancora di sì, gli azzurri possono farcela e vogliamo mettere al bando dubbi e incertezze; vogliamo accantonare ogni analisi dotta e acculturata, utile solo per spiegare perché potremmo non vincere giovedì prossimo. La parola d’ordine per tutti è sconfiggere l’opacità di questo mondiale, restituire onore sportivo all’Italia e un po’ a tutta la nostra vecchia Europa, ricordandole che forse servono meno tecnicismi e più gioco.
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spettacoli
Teatro. Stasera a Roma l’ultima data del Grand Kabuki di Tokyo, che porta in scena i tre atti dell’opera “Yoshitsune e i mille ciliegi”
Dal Giappone con fervore
di Enrica Rosso abuki mon amour. O se preferite Kabuki forever visto che in patria registra il tutto esaurito ad ogni rappresentazione. Unica tappa italiana, con ancora indosso il fumo di Londra e la vitalità della Grande Mela, dopo 14 anni di nuovo a Roma, per due sole repliche - oggi l’ultima ospitato al Teatro Argentina il fastoso Gran Kabuki Shochiku di Tokyo.“Yoshitune e i Mille Ciliegi” una delle opere maggiormente rappresentative del Kabuki classico. Presentata per la prima volta al Teatro Takemoto di Osaka nel 1746 in forma di Joruri (narrazione per burattini con l’accompagnamento musicale dello shamisen) e messa in scena l’anno successivo in versione Kabuki al teatro Nakamura di Edo, l’attuale Tokyo. Dietro a questo spettacolo straripante, una specie di musical alla giapponese secondo la definizione dell’ambasciatore in Italia Hiroyasu Ando, una grande squadra, perché il Ka: canto, Bu: danza, Ki: tecnica è il risultato del lavoro di molti. Ventisei gli attori in scena a cui aggiungere 22 musicisti più uno staff totale di altre 30 persone tra maestranze e sarte oltre ad un protagonista eccellente. Poco più che trentenne, acclamatissimo in patria, Ebizio Ichikawa XI giovanissima stella del Kabuki, già vincitore di numerosi premi, dotato di una straordinaria forza espressiva è l’ultimo rappresentante della più prestigiosa dinastia di attori dediti a questa forma d’arte. Per lo spettacolo (tre ore di full immersion in uno straordinario altrove) è stata predisposta la traduzione simultanea in cuffia. Unico neo, la difficoltà per procurarsi i biglietti viste le sole due rappresentazioni previste.
In questa pagina, alcune immagini dello spettacolo “Yoshitsune e i mille ciliegi”, portato in scena, dopo ben quattordici anni di assenza, al Teatro Argentina di Roma dal Grand Kabuki di Tokyo. Per i dettagli, prendete contatto con l’Ambasciata del Giappone: 06.48799335 o scrivete a culturale@ro. mofa.go.jp.
K
Nato 400 anni fa in un Paese che fino a poco prima dell’entrata in guerra si è negato alla promiscuità con l’Occidente, il Kabuki ha approfondito il suo repertorio in purezza, senza rischio cioè di inclusioni culturali non perfettamente in linea con la sofisticata poetica nipponica. Proclamato dall’Unesco insieme al No - Teatro da meditazione - e al Bunraku - teatro di marionette - Patrimonio Intangibile dell’Umanità, il termine Kabuki stava ad indicare l’esibizione delle danzatrici di Kyoto guidate da Okuni Izumo sacerdotessa dell’omonimo tempio. Siamo nel 1.603 e a breve il governo deciderà, per motivi di decoro legati alla prostituzione, di proibire l’accesso in scena alle fanciulle sostituendole con i Wakashu, danzatori di età compresa tra i 10 e i 20 anni. Neppure questa seconda scelta si rivelerà però risolutiva del problema; da qui la decisione di far interpretare tutti i ruoli, eccezion fatta per le bambine sotto i 12 anni, a maschi adulti. Gli Onnogata, attori danzatori, possono specializzarsi in interpretazioni esclusivamente maschili o femminili o dedicarsi indifferentemente all’una e all’altra. La loro maturazione artistica viene immediatamente identificata dai cultori del genere attraverso la capacità con cui il segno delle sopracciglia imprime al volto dell’onnogata le caratteristiche del
personaggio che ricopre. Per il trucco, molto specifico realizzato interamente con tinture ad acqua e pigmenti naturali, si parte da un annullamento dei tratti dell’interprete tramite la stesura di una doppia base di bianco. Il grado di chiarore realizzato già segnala il ceto o l’età del personaggio. I colori che verranno utilizzati in seguito per ridisegnare il
cattivi, grigio e marrone per gli Oni e gli Yokai, i demoni e le entità non umane in generale. In ogni caso non è previsto l’utilizzo di maschere se non per personaggi dichiaratamente mascherati. Per meglio incarnare il femmineo gli interpreti aiutati da addetti ora anche di sesso femminile, sistemano un cuscino ad addolcire la linea dei fianchi, sopra cui
È interpretato per la prima volta in Italia dal celebre attore Ebizo Ichikawa XI, trentenne stella in patria e diretto discendente della dinastia di attori dediti a questa forma d’arte volto forniranno al pubblico ulteriori preziose informazioni: rosso per un eroe di indubbio valore, blu per le creature magiche, viola con o senza barba per i
indosseranno il Koshimaki e lo Jubatan le due parti, separate per velocizzare i cambi, che compongono la veste a cui sovrapporre il Kimono. A questo punto, terminata la tintura delle mani, si può finalmente passare alla tradizionale apertura manuale del sipario da destra verso sinistra. Il Kabuki, nato come genere d’intrattenimento di massa, ha come elemento fondamentale la musica che varia a seconda del luogo in cui si svolge l’azione. Nello specifico di Yoshitsune e i mille ciliegi l’opera in tre atti proposta dalla prestigiosa compagnia Shochiku lo shamisen, tipico strumento a tre corde, viene impiegato per dar corpo alle gesta eroiche del guerriero protagonista, insieme ai tamburi giapponesi a forma di clessidra i Siamo Tsutzumi.
quindi in pieno genere Jidaimono vale a dire dramma storico; nello specifico la musica ha la funzione di enfatizzare ogni singolo movimento degli attori impegnati a comporre dei quadri stilizzati dando l’impressione di un movimento al rallentatore (contrariamente a ciò che avviene nello stile del dramma sociale in cui gli onnogata al contrario si producono in movimenti realistici assecondati da una musica vivace).
Potremo ammirare la maestria di Ebizo Ichikawa XI impegnato nei tre atti a dar vita al doppio ruolo del devoto servitore del grande guerriero prima e di una volpe dai poteri soprannaturali dopo. Ad accompagnare lo spettacolo la mostra di Kimono a cura della Compagnia Teatrale Shochiku allestita presso l’ex Chiesa di Santa Marta al Collegio Romano. Otto pezzi di singolare bellezza già utilizzati in scena che ci aiutano a cogliere la magnifica cura che accompagna ogni allestimento a cominciare dalla preziosità dei costumi. Se desiderate un ulteriore assaggio di Giappone il prossimo appuntamento è per il 6 e il 7 luglio all’Isola Tiberina dove nell’ambito della manifestazione dell’Isola del Cinema sono previste esperienze di arte varia - dalla musica all’opera, dal cinema alla culinaria - made in Japan per un ipotetico viaggio sul posto verso“Un Isola del Giappone”. Per i dettagli, prendete contatto con l’Ambasciata del Giappone: 06.48799335 o scrivete a culturale@ro.mofa.go.jp.
spettacoli ostinazione di cercare la felicità dove non possiamo trovarla. Una seduta di psicanalisi consegnando pizze. Una Catania notturna con personaggi surreali che parlano di te. Una pizza, la blu cobalto, che forse nasconde il segreto della felicità che tutti cercano. Questo e tanto altro è Una notte blu cobalto, dal 18 giugno nelle sale italiane, film di esordio di Daniele Gangemi, vincitore del premio per la “Migliore opera prima” al 42° Worldfest International Independent Film Festival di Houston, in Texas, dove ha conquistato oltre alla giuria anche il pubblico americano, registrando il sold out in sala ad ogni proiezione.
L’
Il trentenne regista siciliano realizza il sogno di una vita, vedere nelle sale il suo film scritto e pensato quasi un decennio fa, lontano dalla sua Catania, ma si sa, come dichiara lui stesso, la distanza ti aiuta a mettere a fuoco meglio le cose. Il budget è irrisorio, qualche attore famoso che, credendoci, partecipa amichevolmente a un progetto (anzi, a un sogno) ambizioso per aiutare Daniele ad entrare in un mondo, quello del cinema, ancora troppo chiuso per le giovani promesse italiane. L’esordio di una nuova società di produzione cinematografica Orchidea, che nasce con lo scopo di investire in nuovi talenti e sceglie come prima scommessa il film di Gangemi. Una incantevole e azzeccata colonna sonora, scritta appositamente per Una notte blu cobalto da un cantautore affermato come Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, fa da sfondo poetico a una Catania che per la prima volta un film riesce a dipingere in modo affascinante e profondamente veritiero con tutte le sue contraddizioni. Da cornice tanti catanesi qualunque divenuti attori improvvisati, che riescono comunque a interpretare lodevolmente gli altri sé del protagonista Dino Malaspina (il bravissimo Corrado Fortuna, già attore principale di My name is Tanino). Un inizio che ha del tristemente realistico, la fine di una storia d’amore che si crede la più importante, il difficile e spesso fallimentare tentativo di portare avanti i compiti più disparati, come gli esami universitari o l’igiene personale. Emblematico è il primo piano del fondoschiena di Fortuna dopo una rassegnata e apatica minzione seduto sul water. Nell’estremo tentativo di rendere vivo, almeno nel ricordo, un amore finito, il protagonista non sa e non vuole dimenticare e dunque sceglie l’immobilismo. Ma ecco che, dopo pochi minuti, dall’amara realtà si passa a una dimensione profondamente oni-
Cinema. “Una notte blu cobalto”, l’ottimo esordio di Daniele Gangemi
La ricerca (ostinata) della felicità di Annalisa Bertè
La pellicola ha il grande pregio di far riflettere, dote rara in tempi di facili incassi con effetti speciali o scontate commedie rica, non appena Dino Malaspina entra in una pizzeria e si fa assumere come fattorino per le consegne. Qui incontra un sempre eccelso Alessandro Haber nei panni di Turi, singolare proprietario filosofo, che lo prepara alla battaglia della consegna delle pizze a colpi di citazioni de L’arte della guerra di Sun Tzu.
Già, perché sembra facile consegnare pizze ma non è così. Puoi capitare nella Catania bene, così come tra prostitute e
SCHEDA DEL FILM TITOLO ORIGINALE:
Una Notte Blu Cobalto ALTRI TITOLI:
Cobalt Blue Night REGIA:
Daniele Gangemi (opera prima) ANNO DI PRODUZIONE:
2009 GENERE:
commedia surreale PAESE:
Italia SOCIETA’ DI PRODUZIONE:
Orchidea S.r.l.
In questa pagina, i protagonisti, alcuni fotogrammi e la locandina del film d’esordio di Daniele Gangemi “Una notte blu cobalto”
CAST ARTISTICO Corrado Fortuna (Dino Malaspina) Regina Orioli (Valeria) Valentina Carnelutti (Lucia) Alessandro Haber (Turi) Vincenzo Crivello (Francesco)
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malviventi; ma soprattutto ti puoi imbattere nel tuo amore sbagliato, quello che ti sta distruggendo dentro e che ti distrae dalla tua missione, qualunque essa sia, anche consegnare una pizza. L’amore sbagliato è Valeria, interpretata da Regina Orioli che, come ne L’ultimo bacio, interpreta la ex “stronzetta” ma stavolta saggia, più dell’affranto protagonista, perché ha capito prima di lui che quando una storia finisce bisogna ricominciare da se stessi per andare avanti. Nella ricerca di sé Dino Malaspina sarà aiutato dalla magia di una Catania per una notte tinta di blu cobalto, e da strampalati personaggi a cui consegna la pizza, che sembrano indicargli la via per ritrovarsi e per chiudere con un passato ingombrante e paralizzante. La solitudine e il disagio degli altri diventano egoisticamente lo strumento di salvezza per se stessi. Un percorso che conduce alla guarigione in una notte in cui tutto è possibile, anche scegliere se essere felici. Il mistero della pizza blu cobalto che tutti sembrano anelare, un via quasi iniziatica che porta alla liberazione, al non essere più una biglia che aspetta qualcosa o qualcuno che la spinga a muoversi.
Un film d’esordio che dovrebbe avere poche pretese e che invece ha il grande pregio di far riflettere, dote rara in tempi in cui si pensa solo al facile incasso con effetti speciali o scontate commedie. Una trama che solo inizialmente sembra già vista mille volte, la solita delusione amorosa con le sue conseguenze disastrose, che nasconde in realtà risvolti fantasiosi, inaspettati e a tratti comici. Una fotografia suggestiva che non lascia niente al caso e dipinge di blu cobalto dettagli solo apparentemente insignificanti. Un nuovo Nanni Moretti (tra l’altro chi conosce Gangemi pensa che ne sia il figlio illegittimo per la somiglianza) che in un notturno e fiabesco Caro Diario ci guida in vespone, anziché in vespa, alla scoperta dei quartieri più caratteristici di Catania, anziché Roma. Se proprio bisogna fare un appunto, lo si può fare alla voce fuori campo del protagonista, che in alcuni momenti è inopportuna perché le immagini parlano da sole ed esprimono al meglio i pensieri più di qualsiasi parola. Del resto è un’opera prima e tutto quello che c’è da augurarsi è che non sia l’ultima.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
La scuola del merito e del sapere. Serietà, disciplina e impegno La scuola deve trasmettere il sapere, insegnando a “leggere, scrivere e calcolare”. Occorrono serietà, disciplina e impegno. La tecnica fondamentale di reclutamento dei docenti deve essere il concorso, per arruolare i candidati più preparati. La libertà di docenza va assicurata. L’insegnante autorevole è un maestro studioso, che evita il giovanilismo e lo scambio del confidenziale “tu” con gli allievi. La lezione frontale in classe non va subordinata ad intrattenimenti, gite e attività extrascolastiche. Non si deve cadere nei patologici -ismi: ideologismo, pedagogismo, egualitarismo e assemblearismo.Vanno evitati il livellamento al basso, la manica larga e le promozioni di massa: deresponsabilizzano, premiano la svogliatezza e disabituano dallo sforzo. La scuola facile danneggia i poveri volonterosi e favorisce i privilegiati: questi troveranno agevolmente ambiti posti di lavoro grazie a conoscenze, raccomandazioni, appoggi familiari e appartenenze a clan. Lo studente non è e non può essere solo un “utente”, ossia un semplice fruitore passivo del servizio scolastico. Il titolo di studio non gli è dovuto, senza il merito e senza il superamento di serie prove scritte e orali. Il declino della professionalità e dell’amore per il lavoro deriva anche dall’eclissi della selezione e della meritocrazia nella scuola.
Gianfranco Nìbale
ISPESL, PRESENTATA MOZIONE CONTRO LA SOPPRESSIONE La soppressione dell’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro e il suo accorpamento all’Inail, contenute nel decreto legge 31 maggio 2010 n.78, sono oggetto della nostra mozione. L’Ispesl è l’unico ente pubblico che da oltre trent’anni si occupa di ricerca nel settore della prevenzione e della sicurezza dei lavoratori. È organo tecnico-scientifico del Ssn per quanto riguarda sperimentazione, ricerca, controllo, consulenza, assistenza. L’attribuzione delle funzioni di questo istituto all’Inail produrrebbe il grave danno della scomparsa delle attività di ricerca, svilirebbe le competenze scientifiche dei ricercatori, comporterebbe la perdita del posto di lavoro di quanti non hanno un contratto a tempo indeterminato. Inoltre, i risparmi econo-
mici derivanti da questa operazione sarebbero modesti, considerando che l’Istituto si autofinanzia per circa il 60% del proprio bilancio. La piaga delle “morti bianche”e delle malattie professionali merita un incremento degli sforzi e dei finanziamenti tesi a ridurla, non disposizioni che inevitabilmente conducono nella direzione opposta.
Ivano Peduzzi e Fabio Nobile
TURISMO: SUBITO IL FEDERALISMO METEOROLOGICO Ha ragione il ministro Zaia quando afferma che le previsioni meteo sono fatte in maniera superficiale e provocano grossi danni al turismo. È stata stimata una perdita media del 20% di turisti che disdicono le loro prenotazioni a causa del preannunciato maltempo. Ogni hotel dà lavoro a circa 10 persone. Non è accettabile che una
La Grande Onda In pochi posti, il campione mondiale di surf Garrett McNamara (nella foto) può trovare onde gigantesche come a Maui, nelle Hawaai. ,Oltre alle spiagge di Ho’okipa Beach o Sprecksville, paradiso di surfisti e windsurfisti, l’isola ospita Maui supercomputing center
previsione sbagliata comprometta la salute del sistema turistico. La stagione estiva è appena iniziata e dovremmo discutere di “federalismo meteorologico”, con previsioni più accorte.
Giancarlo Pavan
MANOVRA: DATECI LA MERKEL È MEGLIO DI BERLUSCONI TREMONTI Dateci la Merkel per mettere ordine nei nostri conti pubblici. Sicuramente farà meglio di Berlusconi e Tremonti. Da noi
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
per ripianare il deficit si tartassano i soliti noti a stipendio fisso, gli statali, e si tagliano le risorse per gli enti locali. In Germania progettano di tassare di più i redditi più alti e le società energetiche, di mettere un tetto ai compensi dei manager delle banche che ricevono aiuti dallo Stato. Da noi ancora si ragiona se sia opportuno o meno aumentare dal 12 al 20% l’aliquota su titoli di Stato e le rendite finanziarie come avviene nel resto d’Europa.
Riccardo
da ”Asharq Alawsat” del 18/06/10
Staccando la verità dalle storie effrey Goldberg è un giornalista «di mezza età», come ama definirsi, che vive a Washington scrivendo per il periodico Atlantic. In precedenza aveva frequentato la redazione del Jerusalem Post, del Washington Post e della prestigiosa rivista culturale New Yorker. È conosciuto come esperto di Medio Oriente e questioni africane. È ebreo «anche se non frequentato la sinagoga quanto sarebbe necessario» ha confessato ad Asharq Alawsat. Ha presta servizio nell’esercito israeliano come guardia penitenziaria, durante le prima Intifada.
J
Un’esperienza che lo ha segnato tanto da fargli scrivere un libro: Prigionieri. Una storia d’amicizia e terrore. Si è poi specializzato scrivendo numerosi articoli in difesa dei diritti umani in Kurdistan.Vivere a contatto giorno per giorno con i detenuti palestinesi gli ha fatto sviluppare una particolare sensibilità. Dopo la prima esperienza militare è stato richiamato in servizio in anni più recenti. «Ero in un centro di detenzione nel deserto del Negev, meglio conosciuto dai palestinesi come Ansar 3» spiega Goldberg nell’intervista. «Facevo il consulente dei prigionieri» un ruolo particolare che svolge chi deve assicurare che i detenuti godano dei diritti primari come il vitto, il vestiario, la libertà di professione di fede e l’assistenza sanitaria. «Sono cresciuto pensando fosse giusto sostenere e credere nel progetto d’Israele. Ma allo stesso tempo sono convinto che la costruzione di uno Stato palestinese, libero e
di Mohammed Al Shafey
veramente indipendente sia non solo giusto per quel popolo, ma nell’interesse dello Stato ebraico». «Non avevo mai incontrato, prima della mia esperienza nelle prigioni militari israeliane, tanti palestinesi. Sono diventato amico di molti membri di Fatah, ma anche di un paio di Hamas». Goldberg dopo quelle esperienze è ancora più convinto della necessità di uno Stato palestinese «con piena sovranità e che abbia come capitale Gerusalemme est». Ora il giornalista israeliano lavora per l’Atlantic un magazine specializzato in politica e opinioni che fu fondato appena prima che la Guerra di secessione agitasse le acque del panorama americano. «Una rivista dal nobile passato e dal futuro piuttosto promettente». Uno degli articoli più interessanti che ha
scritto il reporter è stato per il magazine del New Yor Times. «Si trattava di un reportage su di una madrassa nelle zone tribali del Pakistan. Eravamo qualche tempo prima dell’11 settembre 2001. Il problema della radicalizzazione dei giovani islamici era un argomento poco conosciuto. L’insegnante mi fece fare delle domande ai giovani studenti del Corano. Il tema scivolò inevitabilmente anche su Osama bin Laden, anche se all’epoca non era ancora così famoso. Chiesi ai ragazzi se avessero voluto che il capo di al Qaeda possedesse l’arma atomica. La risposta fu un entusiastico coro di sì», racconta Goldberg. L’idea di scandagliare l’animo dell’estremismo è una cifra costante del lavoro del reporter di Atlantic, fin dal suo primo libro sui prigionieri palestinesi. «Ho cercato di far calare i lettori nel clima che vivono sia i sionisti ortodossi, sia gli oltranzistii di Hamas. Sono convinto che più si impara circa i conflitti mediorientali più si evitano analisi e giudizi affrettati».
Una delle tecniche giornalistiche di Goldberg è quella «di rifare la stessa domanda ai miei interlocutori a distanza di qualche settimana. E poi di rifargliela ancora. Solo così si può arrivare a un certo livello di profondità e di conoscenza di un problema». Insomma, chiunque pensa di avere ragione «quando ti racconta una storia». Serve riuscire a far emergere quel pezzo di verità «che è intrappolata all’interno della ”realtà” raccontata da ognuno».
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LETTERA DALLA STORIA
Cari compagni, mi dimetto dal partito socialista...
di Vincenzo Bacarani
Miei cari compagni, io mi dimetto dal partito socialista a causa della sua mancanza di ardore e di combattività, perché non insiste abbastanza sulla lotta di classe. Malgrado il tempo trascorso, il mio stato di servizio di combattente per la causa non è ancora del tutto dimenticato. Sono stato trascinato alla lotta di classe, quale era insegnata e praticata dal Socialist Labor Party, con tutto ciò che vi è di più elevato nelle mie facoltà di giudizio. Ero convinto che la classe operaia, rifiutando ogni compromesso col nemico, potesse emanciparsi. Dal fatto che la tendenza del socialismo negli Stati Uniti sia stata tutta orientata alla pacificazione e al compromesso, mi accorgo che il mio spirito si ribella a vedermi rimanere membro del partito. Da qui le mie dimissioni. Non aggiungerò che poche parole conclusive. La libertà, l’indipendenza sono beni supremi che non possono essere accordati o imposti a razze e classi. Se le razze e le classi non sono capaci di sollevarsi, di lottare con la forza del loro spirito e dei loro muscoli per la libertà e l’indipendenza del mondo, non riusciranno mai, quando verrà il momento, ad accedere a quei beni supremi - e se quei beni supremi saranno loro offerti con condiscendenza, su un piatto d’argento, da individui superiori, non sapranno che farsene, non se ne serviranno e resteranno ciò che sono sempre state in passato: razze inferiori, classi inferiori.Vostro per la rivoluzione Jack London ai suoi “cari compagni”
LE VERITÀ NASCOSTE
In Somalia, l’islam impone la barba a tutti MOGADISCIO. La Umma sognata dal Profeta passa per sentieri imprevedibili. La sua realizzazione sulla Terra, invece, sembra usare sempre le stesse modalità, affrontando come prima cosa la secolarizzazione della società. Lo scopo è quello di annientarla, in barba a chi crede che il Rinascimento islamico possa prima o poi arrivare. Ed ecco che i ribelli del Partito islamico somalo, che controllano parte di Mogadiscio, hanno reso noto di aver istituito l’obbligo per gli uomini della città di lasciare crescere la barba e di accorciare i baffi, come vuole la tradizione islamica salafita. Secondo quanto riferisce il sito informativo locale Mareeg, Moallim Hashi Mohamed Farah, governatore della zona della capitale somala sotto il controllo del Partito islamico, ha tenuto ieri mattina una conferenza stampa nella quale ha ordinato a tutti gli uomini della città di lasciar crescere la barba in modo che diventi lunga e di tagliare i baffi «in base alla tradizione lasciata da Maometto». «Abbiamo imposto la barba agli uomini - ha spiegato lo sceicco Farah - perché in precedenza avevamo imposto alle donne di indossare il velo. Chi non rispetterà questo dettame sarà punito». Il gruppo islamico, guidato dallo sceicco Hasan Daher Aweys e alleato ai cosiddetti Shabaab, è lo stesso che lo scorso aprile ha ordinato alle radio private locali di non trasmettere più alcun tipo di musica. Molte emittenti sono state costrette a sottostare a questo ordine, mentre Radio Shabelle ha deciso di abbandonare la sede del mercato di Bakarat, controllato dal Partito islamico, e di spostarsi verso l’aeroporto dove si trovano le truppe del contingente africano Amisom per evitare ritorsioni. Un piccolo gesto, che dimostra però la divisione della popolazione.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
COMBATTERE LA POVERTÀ Nel mondo un miliardo di persone vive sotto la soglia di povertà, che è associata alla mancanza di occupazione e ai salari troppo bassi ed è aggravata dalle pessime condizioni dei luoghi di lavoro, dal mancato rispetto dei diritti dei lavoratori e dall’assenza di ogni forma di protezione sociale. Sussistono poi i problemi del lavoro minorile, legato all’impossibilità di accedere all’istruzione, e quello dell’assenza di servizi sanitari e strutture didattiche di qualità. Lo sviluppo delle persone, delle comunità e dei Paesi passa attraverso il lavoro e la partecipazione ai processi economici, sociali e politici. Grazie al lavoro le persone possono realizzare le proprie aspirazioni, soddisfare i propri bisogni, e contribuire alla crescita sociale ed economica della comunità e del Paese. Lavoro dignitoso e partecipazione possono dare le risposte ai bisogni individuali e collettivi ed essere lo strumento di re-distribuzione della ricchezza su scala globale.
Lettera firmata
LA FABBRICA DEL MONDO La Cina, definita “la fabbrica del mondo”, affida alla polizia il monitoraggio dei conflitti sociali. Come farà la polizia ad esprimere tale misuratore? Non lo potevano far fare a qualche esperto di statistica e economie sociali? Dovremmo imparare dalla Cina molte cose, soprattutto quando in Italia mettiamo a rischio la sussistenza di una fabbrica come la Fiat di Pomigliano, perché giudichiamo gli accordi pericolosi per i diritti dei lavoratori, o per la libera gestione di permessi medici, sindacali e lavorativi.
Bruna Rosso
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
“STATUTO DEI LAVORATORI”, I SUOI PRIMI 40 ANNI Ha quarant’anni e, secondo alcuni, ne dimostra anche di più. Si tratta della legge n. 300 del 20 maggio 1970, denominata “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, meglio conosciuta come “Statuto dei lavoratori”. Il quarantennio della legge è passato quasi del tutto inosservato: pochissime celebrazioni, peraltro in sordina, e una sorta di quasi indifferenza. Ma a riaccendere l’attenzione ci ha pensato il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, che nel recente convegno di Parma della Confindustria ha annunciato che il governo intende cambiare lo Statuto dei lavoratori e che lo farà in tempi medio-brevi. Sacconi ha anche azzardato un cambiamento del nome in Statuto dei lavori, quasi a far intendere un’inversione di rotta sulla filosofia della legge. Ma, ovviamente, non tutti sono d’accordo. È vero che il mondo del lavoro è profondamente cambiato negli ultimi 40 anni: alcune figure professionali negli anni ’70 non erano prevedibili (almeno nel nostro Paese), i tipi di contratto si sono moltiplicati e la sicurezza del posto fisso sta diventando sempre più un’ipotesi remota. Che fare, allora? Cambiare? Se sì, in che modo? Quasi tutte le parti in causa ammettono che è ormai necessario mettere mano allo Statuto e apportare alcune modifiche. La Cgil è sostanzialmente contraria, mentre Cisl e Uil appaiono più possibiliste con un imprescindibile distinguo: che le modifiche non avvengano per iniziativa parlamentare, ma che nascano da iniziativa sindacale o da un confronto serio e approfondito tra le parti sociali. Del resto, la legge del 20 maggio del 1970 non fece altro che recepire e codificare i contenuti delle conquiste dei sindacati, soprattutto dei metalmeccanici, nelle sedi dei rinnovi contrattuali. «Quella legge - spiega infatti Giorgio Benvenuto, leader della Uil dal 1976 al 1992 e oggi presidente della Fondazione Bruno Buozzi - fu il frutto delle conquiste sindacali dell’autunno caldo, non nacque nelle aule del Parlamento».
E oggi occorre modificarla perché, dice, «ormai lo Statuto dei lavoratori tutela una minoranza dei lavoratori. Pensiamo ai contratti atipici, ai precari». Cambiare, dunque, estendendo l’ombrello protettivo dello Statuto ai lavoratori di nuova generazione? Una strada la indica la Cisl. Il segretario confederale Giorgio Santini parla, infatti, di introdurre il modello europeo della flexsecurity che prevede strumenti di tutela e di opportunità per i lavoratori cosiddetti flessibili agendo su specifici percorsi di formazione e su un’omogeneità della contribuzione: «Bisogna uscire dalla retorica dell’intoccabilità - sottolinea - e occuparsi invece, senza stravolgere il contenuto dello Statuto, delle nuove figure lavorative». Tito Boeri, docente di Economia del lavoro alla Bocconi di Milano, pensa che invece di modificare lo Statuto, occorra invece che il governo introduca «una tipologia di contratto a tempo indeterminato che preveda nei primi tre anni la possibilità del licenziamento». Tante idee, tante proposte. Il ministro Sacconi avrà molto materiale su cui lavorare.
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