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La grande politica è soltanto quella delle risoluzioni audaci. Cavour
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QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 14 LUGLIO 2010
di Ferdinando Adornato
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Un incontro tra Franceschini e Casini non cambia l’atteggiamento di chiusura dei democratici alla provocazione centrista
Ma il Pd fa ancora politica? Bersani dice no al governo di unità nazionale perché «bisogna superare il berlusconismo». Però il partito è immobile, senza idee. Solo propaganda. Così il premier dorme tranquillo LARGHE INTESE
PARLA BIAGIO DE GIOVANNI
Se un ciclo è finito, l’attendismo è sbagliato
«La solita malattia: la vocazione minoritaria»
Dall’Onda Verde al caso Sakineh
Nessuno capisce la rivoluzione degli iraniani
di Enzo Carra
di Riccardo Paradisi
li altri si chiedono: perché a quella cena c’era Draghi? Oppure: perché c’era il cardinal Bertone? Le risposte sono più che ovvie. Il primo era lì perché candidato alla Bce e anche come memento a Tremonti. Il secondo, il segretario di Stato Vaticano, beh, era seduto a tavola in qualità di proprietario di casa. Allora sarà più interessante chiedersi: quale è stato il ruolo del Pd nel siparietto seguito alla cena e nel quale tutti gli italiani, Berluscones compresi, hanno visto che il re è nudo? La risposta è che tutti, o quasi, i più autorevoli dirigenti del maggior partito d’opposizione sono corsi a ridimensionare la portata dello scandalo. a pagina 2
a diagnosi del filosofo della politica Biagio De Giovanni sul Pd di questi ultimi mesi è davvero impietosa: il partito è immobile, politicamente ininfluente. «La pressione di Di Pietro impedisce ogni colpo d’ali. La verità è che a sinistra hanno sempre pensato che Berlusconi fosse un’anomalia a cui avrebbe pensato la magistratura» E, a proposito del no alla proposta di un govenro di larghe intese, continua: «Intendiamoci, io non considero questa ipotesi molto realistica, penso che in assenza di eventi clamorosi non possa verificarsi, ma occorre agire». a pagina 4
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L’accusa di Corradino Mineo
«Vi spiego perché in Rai non si può essere liberi» Il direttore di Rainews24: «Resistere alla cricche si può. Ma così non si va avanti» Pierre Chiartano • pagina 11
di Michael Ledeen ite la verità: non sapete realmente cosa sia una rivoluzione, vero? Se qualcuno ve lo chiedesse, evochereste la presa della Bastiglia, il grande assalto al Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo e cose simili.
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Il manifesto comune dei due leader
Tam tam nel Pdl: sarà Frattini il prossimo coordinatore unico
«Il vero federalismo cambierà «Chi vota la sfiducia al sottosegretario è fuori dal partito» la Gran Bretagna»
Berlusconi, scudo a Cosentino di Francesco Capozza
I dati dell’Istat sull’economia sommersa
ROMA. Proprio alla vigilia
Siamo un Paese con il deficit in nero
del 14 luglio, il giorno della presa della Bastiglia, Berlusconi riscopre i giacobini. «Il clima giacobino e giustizialista nel quale alcuni stanno cercando di far ripiombare il Paese non è certo d’aiuto. Ma ancora una volta metterò tutto il mio impegno». Il nodo è il convolgimento del sottosegretario Cosentino nell’inchiesta sulla truffa eolica. I finiani ne chiedono la testa e il premier tuona: «Chi volta la fiducia è fuori dal partito».
ebito e “sommerso” in crescita. Dati correlati anche se non omogenei da un punto di vista temporale. I primi si riferiscono ai primi 5 mesi del 2010, i secondi a tutto il 2008. Nel primo caso la crescita è stata del 3,7 per cento, contro il 5,4 del precedente periodo. Il fabbisogno dello Stato è in, seppur lenta, flessione. L’andamento dell’economia sommersa mostra, invece, un profilo diverso. E più grave.
uando abbiamo costituito la nostra coalizione, lo abbiamo fatto perché condividevamo l’idea che il nostro Paese avesse bisogno di un governo forte e stabile per andare avanti in un momento di difficoltà.
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di Gianfranco Polillo
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
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• CHIUSO
di David Cameron e Nick Clegg
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Pd. Le confessioni di Francesco Boccia, Luigi Bobba, Stefano Ceccanti, Ignazio Marino, Andrea Orlando e Francesco Sanna
«Sì, aspettiamo Godot»
Non sempre i quadri del partito capiscono l’immobilismo dei leader «Le dichiarazioni ai giornali non bastano, servono consultazioni» di Franco Insardà
ROMA. Sono in attesa che il “principale esponente dello schieramento avversario” prenda atto del suo fallimento. A quel punto “il principale partito d’opposizione” si farà avanti per proporre un’alternativa. Più di tanto non si può chiedere al Pd. L’idea lanciata da Pier Ferdinando Casini di un governo di larghe intese passa. Ma secondo il vicesegretario Enrico Letta tutto passa «per le dimissioni di Berlusconi e per le decisioni del Quirinale». Prima di allora, quindi, inutile parlarne, anche se Pier Luigi Bersani ha ammesso in un’intervista a Repubblica che è «in vista il superamento del berlusconismo». Andrea Orlando, responsabile giustizia del Pd, rivendica che il partito da tempo «ha offerto la sua disponibilità a collaborare per superare la crisi. Ma con l’utilizzo della fiducia alla manovra la posizione del governo è chiara». Così non resta che «lavorare per costruire l’alternativa di governo, visto la proposta avanzata da Casini ha trovato il primo e sostanziale ostacolo proprio in Berlusconi».
Fortuna per il Pd che gli uomini più vicini Cavaliere non perdano occasione di creare problemi al problemi. Sul presunto complotto di Nicola Cosentino ai danni del governatore campano Stefano Caldoro, per esempio, il Partito democratico è stato lesto a presentare una mozione di sfiducia, che questa volta registra l’appoggio anche dell’Udc. Ma l’iniziativa langue. Luigi Bobba, uno degli ultimi teodem rimasto al Nazareno, ribatte che «il nostro ruolo di opposizione, quindi, non viene meno. FRANCESCO BOCCIA Se questa maggioranza non avrà più la forza in Parlamento per andare avanti, allora si dovrà ragionare sulla proposta avanzata da Casini. Ma senza Berlusconi
C’è il rischio che il centrodestra venga travolto da una vera e propria valanga. E se Cosentino non si dimetterà, presenteremo una mozione di sfiducia come abbiamo fatto per Brancher». Ma sempre giocare in difesa è. «La proposta avanzata da Casini è sensata sulla carta, ma irrealizzabile nei fatti, perché presuppone che Berlusconi sia disposto a fare un passo indietro. A meno che la valanga non travolga tutto, perché allora si dovrà valutare come e con chi fare un governo di larghe intese». Il riformista Francesco Boccia nota che «il Pd ha già dimostrato che su questioni di in-
Il «no» all’idea di Casini, di fatto ha rimesso in gioco il premier
Caro Pierluigi, non vedi che stai salvando il Cavaliere? di Enzo Carra li altri si chiedono: perché a quella cena c’era Draghi? Oppure: perché c’era il cardinal Bertone? Le risposte sono più che ovvie. Il primo era lì perché candidato alla Bce e anche come memento a Tremonti. Il secondo, il segretario di Stato Vaticano, beh, era seduto a tavola in qualità di proprietario di casa. Allora sarà più interessante chiedersi: quale è stato il ruolo del Pd nel siparietto seguito alla cena e nel quale tutti gli italiani, Berluscones compresi, hanno visto che il re è nudo? La risposta è che tutti, o quasi, i più autorevoli dirigenti del maggior partito d’opposizione sono corsi a ridimensionare la portata dello scandalo. Non c’è un passante che non abbia capito la suprema provocazione di uno degli invitati al desco vespiano, Pier Ferdinando Casini. Si può mai credere che un Berlusconi ammetta la propria nudità (politica) e chieda a tutti i partiti, al Pd e magari anche a Di Pietro, di partecipare a un incredibile governo di unità nazionale presieduto da lui? Ma no che non si può. Soltanto i dirigenti del Pd hanno finto di crederci e dunque ne hanno parlato con sussiego e inverosimile preoccupazione.
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anzi cinque: no, mai! Per dire la stessa cosa gli altri ci mettono un po’ di più. Non gli va bene un Berlusconi bis (figurarsi!) e neanche un governo Tremonti. «Aspettiamo che ci proponga Rotondi», Bersani scherza su Casini. Al posto del leader Udc, io Rotondi glielo proporrei subito, così per fargli un piccolo regalo al loquace ministro con delega à la Brancher. Bersani sa benissimo che infilarsi in un discorso come questo è tempo buttato e se lui lo perde è per evitare altri argomenti. Il Pd, bloccando un movimento non si sa perché considerato insidioso, ha dato una mano a Berlusconi. “Oggettivamente” si sarebbe detto in altri tempi.
Se un ciclo è finito, l’opposizione non può sfilarsi in attesa che «le formalità di rito» siano svolte da altri
Inverosimile la loro preoccupazione a meno di non pensare che siano stati presi in contropiede e abbiano temuto una crisi fulminea nella quale non si sarebbero trovati in condizioni di agire. Uomini politici di grande esperienza, da Bersani a Franceschini a Letta Enrico hanno commentato quasi con disgusto il falso movimento di metà luglio, mese da sempre traditore per la politica e per i politici. Un moto di disgusto il loro che, forse, cela l’impreparazione ma anche una inspiegabile timidezza. Per bocciare un governo che significherebbe comunque la fine del quasi ventennio berlusconiano, Dario Franceschini usa due lettere,
Eppure se il potere berlusconiano
ha aperto un’«autostrada per la corruzione», parole di Bersani, se il governo ha fallito, se siamo alla possibile chiusura di un ciclo, i partiti di opposizione non possono sfilarsi in attesa che le formalità di rito vengano svolte da altri. «Se tutto finisce con manovre di palazzo, Berlusconi si salverà un’altra volta», avverte un Letta evidentemente estraneo ai palazzi. Nei quali altri Letta resteranno ben saldi al loro posto finché non si comprenderà che per prendere il topo l’importante non è il colore del gatto. Consoliamoci tuttavia pensando che se con una intelligente mossa tattica il Pd avesse sostenuto l’impresa dannunziana di Pier Ferdinando Casini, la maggioranza piuttosto che un’ulteriore spaccatura avrebbe dimostrato una qualche unità. Per fortuna c’è Europa, uno dei due giornali del Pd. «L’alleanza con Casini che fu il cuore della proposta di Bersani nelle primarie non è più un’opzione. Un’altra non ce n’è». Allora, la prossima volta, sarà bene che il Pd si concentri di più sull’obiettivo da colpire piuttosto che sui paracaduti o altri oggetti da negare a Berlusconi. Fosse per noi, altro che paracaduti!
teresse nazionale si schiera a favore degli interessi collettivi. Altra cosa fare un governo senza passare dalle urne. Cosa che abbiamo pagato sulla nostra pelle nel 2001, quando abbiamo perso le elezioni nonostante il governo D’Alema sia stato uno dei più innovativi della storia repubblicana». Per l’economista, «se questa maggioranza non ha la forza per andare avanti, ha ragione Casini. E la sua proposta può coincidere con i paletti che il Pd ha segnato, par-
STEFANO CECCANTI Il Pd dovrebbe far risaltare maggiormente le sue prese di posizione. Invece finiamo per risentire della presenza di minoranze che provano a dettare la nostra agenda politica
tendo però dal principio che il governo non potrà essere guidato da Berlusconi. Che ha fallito sia come statista sia come leader di partito, dal momento che Bocchino fa opposizione quanto Di Pietro. Il tutto, va da sè, con la prospettiva di nuove elezioni». Di conseguenza, oggi, «l’unico appoggio che si può chiedere al Pd è quello di sostenere un governo istituzionale. Ma in questo caso, come ha ricordato Enrico Letta, la questione chiama in ballo il presidente della Repubblica».
Stefano Ceccanti spiega che il partito «dovrebbe comunque prepararsi all’eventualità di elezioni anticipate, con una proposta di governo credibile. Qualora ci si trovasse di fronte a una situazione di crollo della maggioranza, ma con l’impossibilità ad andare immediatamente a elezioni anticipate, bisognerebbe ragionare sul da farsi. Ma partendo da alcuni parametri. Il Pd dovrà prima di tutto chiarire al suo interno che cosa vuole fare per governare il Paese e quali iniziative sono compatibili con questo progetto». Conclusione? «Mettere il carro davanti ai buoi senza aver chiaro che cosa vogliamo, rischia di farci apparire subalterni alla maggioranza. Si possono anche prendere delle decisioni emergenziali, ma sulla base di parametri chiari. La proposta di Casini, per come è formulata, non prevede una discontinuità netta rispetto al fallimento del centrodestra». Il costituzionalista segnala «che su tutti i principali problemi dovrebbe risaltare in maniera più netta la proposta del Pd. Invece finiamo per risentire della presenza di gruppi minoritari, che provano a dettare la nostra agenda». Una voce fuori dal coro la fa registrare Ignazio Marino. Il terzo incomodo nella
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Il nuovo scenario politico accentua le ostilità interne
Sì, no, nì: il Nazareno sfoglia la margherita Bersani e Franceschini a fare diga, D’Alema e Letta aspettano il Quirinale, Fioroni e Fassino sono i pontieri di Antonio Funiciello
In alto, il segretario sfida alla segreteria ricorda a Bersani che del Pd, Pier Luigi certe scelte dovrebbero essere collegiali. Bersani, secondo «Riunisca il coordinamento politico e la diil quale è vicino rezione nazionale che sono gli organismi «il superamento nazionali deputati». Come i suoi compagni del berlusconismo». di partito, ammette che «è la crisi del partito di maggioranza che deve determinare A destra, l’ex premier Massimo D’Alema una spinta nel Pd. Che però deve decidere verso quale direzione andare e non affidarsi alle dichiarazioni di singoli leader». Il cardiochirurgo non ritiene «che il governo Berlusconi cadrà. Ma se dovesse accadere, al Pd non resta che “un governo tecnico di scopo” per rifare la legge elettorale ed eliminare il conflitANDREA ORLANDO to d’interessi».
A Casini il senatore Francesco Sanna ricorda che il Pd «già un anno fa aveva dato la sua disponibilità al governo Berlusconi per affrontare la condizione economica». Ma all’invito non è mai seguita un’adesione e neppure una «telefonata del premier al capo dell’opposizione per esporgli provvedimenti da condividere». Per lui due gli scenari possibili: la tenuta di Berlusconi o l’esplosione del Pdl. «Nel primo caso il Pd dovrà presentare una proposta che tiene conto della protesta sociale e della frustrazione della parte produttiva del Paese. Nell’altro il Cavaliere deve fare un passo indietro. Nel Pdl si maneggia con superficialità materiale esplosivo tanto che il partito potrebbe saltare per un kamikaze. Succede questo quando il capo innesca un processo che sa più come gestire».
Il ricorrere di frequente alla fiducia del centrodestra dimostra il grado di volontà del Cavaliere a collaborare con l’opposizione. Non ci resta che lavorare per costruire un’alternativa
ROMA. Col nuovo protagonismo di Casini, la strategia difensiva di Tremonti e Bossi, le continue incursioni di Fini e la melina di Berlusconi, il Pd finisce ancora una volta per giocare di rimessa. Fosse compatto sulla strategia di gioco, riuscirebbe a sfruttare al meglio le poche palle giocabili. Invece il nuovo scenario politico acuisce quelle ostilità interne che accompagnano il partito dall’indomani della sconfitta elettorale di due anni fa. Sulla possibilità di un governo di larghe intese il Pd è percorso da una divisione profonda, che mette l’uno contro l’altro i suoi principali dirigenti tra favorevoli, contrari e pontieri. Un’articolazione di posizioni che azzera gli schieramenti congressuali. Non è tanto sull’eventualità del governo di unità nazionale che i democratici si dividono: il punto critico è rappresentato dalla guida di questo governo, che alcuni ammettono possa pure essere, in uno scenario emergenziale riconosciuto tale dal Quirinale, Silvio Berlusconi, mentre altri rigettano nettamente questa ipotesi. Bersani, dall’America, ha precisato che all’ombra del governo Berlusconi si annida un tale crogiuolo di corruttela e malavita che neppure il Watergate americano. Così solo se Berlusconi fa un passo indietro, il Pd sarebbe disponibile ad assumersi le sue responsabilità nel sostenere un governo per le riforme. Il che significa che Bersani è disposto a schierare il suo Pd con chi sta intorno e vicino a Berlusconi (dunque pure con chi sta alla sua ombra), a patto che il cavaliere si faccia da parte. Il più sodale dei democratici in soccorso al segretario e niente poco di meno che il capogruppo alla Camera Franceschini, che appena otto mesi fa gli contese la segreteria del partito. Oggi i due ex contendenti sono i maggiori alleati - meraviglie del Pd... - dell’approccio politico che ammette la possibilità di un governo di unità a patto che l’attuale premier rinunci ad ogni ambizione di leadership.
se aprirsi, è evidente che il maggiore interlocutore di Napolitano resterebbe Berlusconi, il capo del partito vincitore delle elezioni. L’iniziativa dello stesso Casini si muove in tale solco di coerenza politica, visti i rapporti di forza degli attuali gruppi parlamentari e ben considerato che Napolitano è il tipo di Presidente all’opposto di Oscar Luigi Scalfaro.
Letta non è meno accorto di Casini e, infatti, nelle sue aperture su possibili scenari post crisi afferma che dovere del Pd è attendere l’iniziativa di Napolitano. Se queste sono le premesse, è ovvio che a un invito del Quirinale a sostenere un governo di unità nazionale, pure guidato da chi ha più diritto di guidarlo (Berlusconi), dovrebbe secondo Letta essere prudentemente considerato dal Nazareno. E, a conti fatti, accettato. Contro l’attendismo di Letta si schiera al Nazareno Rosy Bindi, che non ammette in nessun caso una collaborazione istituzionale tra Pd e attuale maggioranza. Anche i popolari sono piuttosto contrari. Marini in particolare resta ostile a larghe intese, poiché metterebbero a rischio il ruolo della sua componente: il Pd finirebbe per fare la gamba di sinistra del nuovo esecutivo, funzione che disdice l’ambizione centrista che i popolari richiedono per il partito di cui sono parte. A differenza di Marini, però, Fioroni si mostra più preoccupato di una marginalizzazione del Pd in caso di governo di unità nazionale. ritaglia così per sé il ruolo di pontiere e tiene aperto, in questi giorni un, canale diretto col vice segretario Letta, con cui pure in passato i rapporti non sono stati idilliaci. Anche Fassino è vicino all’appeasement lettiano, mentre Veltroni pare schierato su una linea di tenace contrarietà ad ogni soluzione di esecutivo tecnico o istituzionale. Il più silenzioso in questi giorni tanto turbolenti è Massimo D’Alema. Il presidente del Copasir non parla da un po’ con Bersani, mentre ha ripreso a confrontarsi più assiduamente con Enrico Letta. Proprio come il vice segretario democratico, D’Alema ritiene doveroso non escludere alcuno scenario, in ciò condividendo il rischio di marginalizzazione paventato da Fioroni. Con Bersani e Franceschini a fare diga contro Berlusconi, D’Alema e Letta ad ammettere ogni soluzione se espressamente richiesta dal Quirinale, Fioroni e Fassino a fare da pontieri, il Pd attende, come sempre diviso, l’evolversi della situazione.
L’articolazione delle posizioni azzera ogni schieramento congressuale e mette uno contro l’altro i principali dirigenti, divisi ormai su tutto
Il vice segretario del Pd Letta è, d’altro canto, più prudente. Naturalmente non dice chiaramente che il Pd, una volta aperta la crisi, dovrebbe valutare il sostegno a un governo di larghe intese indipendentemente da chi sia il suo premier. Ma il suo continuo rimando al Presidente della Repubblica lascia trasparire esattamente questo. Se difatti una crisi doves-
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l’approfondimento
Le ragioni che hanno portato al “no” pregiudiziale opposto dai democratici al «governo di larghe intese» proposto da Casini
La vocazione minoritaria
La paralisi democrats nella diagnosi di Biagio De Giovanni «La pressione di Di Pietro impedisce ogni colpo d’ali. E poi hanno sempre pensato che Berlusconi fosse un’anomalia che spettava alla magistratura risolvere» di Riccardo Paradisi a prima chiusura ad ogni ipotesi di governo di responsabilità nazionale o di larghe intese arriva dal capogruppo alla Camera del Pd Dario Franceschini: «Qualsiasi soluzione possibile per garantire un governo al Paese che affronti le emergenze per noi non può che passare attraverso il superamento e la chiusura dell’era di Berlusconi».
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A stretto giro arriva da Washington anche il no deciso del segretario del Pd Pierluigi Bersani: «Casini dice che Berlusconi ha vinto le elezioni. Sì, ma è anche quello che ha fallito. Questo fatto è insuperabile. Dobbiamo chiudere il ciclo del berlusconismo che in sette anni non ha portato niente». Il terzo rifiuto ufficiale del Pd giunge infine de Enrico Letta: «Stanno esplodendo le contraddizioni di una maggioranza Il peggiore dei mali sarebbero tre anni di contorsioni sul declino di Berlusconi con un Paese senza guida in uno dei momenti piu’ difficili della sua
storia. Ma gli italiani devono vedere l’epilogo del film, cioè il fallimento di questo governo. Altrimenti, se tutto finisce con manovre di palazzo, Berlusconi si salverà un’altra volta. Non si è mai visto che un capo del governo eletto con una maggioranza di parte fallisca e poi risorga a capo di un governo di larghe intese». A differenza degli altri almeno Letta ipotizza una via d’uscita politica – non bisogna escludere nulla, comprese le elezioni anticipate che non sarebbero un’ipotesi da scartare – ma insomma… Il triplice no del Pd all’ipotesi di larghe intese ha la metrica rituale della solennità e dell’inappellabilità. Quasi un esorcismo culturale verso quella che viene percepita dalle parti di via del Nazareno più come una tentazione diabolica che come un’opzione politica. Un rifiuto tanto netto quanto incomprensibile almeno per quegli osservatori, tra tutti Stefano Folli, che hanno registrato come una stravaganza il fatto che il Pd non approfitti della
possibilità di rimettere in circuito il proprio peso politico. Biagio de Giovanni, filosofo della politica e già esponente del Pci e poi dei Ds, ha un giudizio preciso sull’atteggiamento del Pd: «È la linea del tanto peggio tanto meglio – dice – una condotta politico culturale miope e sterile». Premessa di De Giovanni: «Intendiamoci io non considero questa ipotesi delle larghe intese molto realistica, penso che in assenza di eventi clamorosi non possa verificarsi. Anche
«Per Bersani sarebbe più utile entrare nel gioco politico che non chiamarsi fuori»
perché ove mai il governo mostrasse di non farcela più, di non saper più far fronte alle sue contraddizioni interne e alle difficoltà politiche dall’interno della maggioranza si comincerebbe a spingere per il voto anticipato. Detto questo – continua De Giovanni – le ragioni per le quali il Pd pronuncia questo “no” a-priori, questo no pregiudiziale allo scenario ipotizzato da Casini, si riassumono e si spiegano nell’irresponsabilità politica di questa opposizione. Opposizione – e mi ri-
ferisco al Pd naturalmente (dell’Idv non è il caso nemmeno di parlare) – che mostra di ritenere prioritari i propri interessi prima di quelli del Paese». Già gli interessi di bottega. Ma è proprio così? Anche rimanendo nell’ottica cinica della cura del proprio particolare è davvero interesse del Pd restare immobile in una posizione d’opposizione impotente, stretto nell’abbraccio mortale con il partito di Di Pietro?
Non sarebbe più proficuo per il Pd rilanciare la palla dall’altra parte del campo e andare a vedere le carte come si fa al poker? «Sono perfettamente d’accordo con questo ragionamento. Ma quando parlo di interesse di bottega intendo proprio un egoismo piccino, miope, in altri termini parlo dell’assenza nel Pd di un pensiero e di una visione strategica. Ma insomma guardiamo la situazione per quella che è, la realtà effettuale del partito di Bersani. Il Pd non è nelle condizioni oggettive per fare un salto, per li-
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La storia del Pci è piena di cambi di strategia improvvisa, ogni volta legati al carisma
C’erano una volta i leader, quando la sinistra faceva politica Da Salerno, al compromesso storico alla Bicamerale: la lunga tradizione delle scelte rischiose di “capi” come Togliatti, Berlinguer o D’Alema di Gabriella Mecucci a che strana razza di partito è il Pd? Bersani e i suoi non sono più in grado di fare una scelta politica. Se crea loro qualche problema con la propria base e con una parte dei propri dirigenti, si bloccano subito. Eppure Bersani, D’Alema, Veltroni e molti altri provengono dalle fila del Pci, dove i leader non avevano certo il timore di fare una battaglia politica per cambiare la strategia anche dall’oggi al domani. Gli esempi sono molteplici.
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Capitò a Salerno quando Palmiro Togliatti sbarcò, proveniente dall’Urss, e spiegò ai compagni che bisognava entrare nel governo Badoglio. I dirigenti che erano rimasti in Italia, Eugenio Reale in testa, non volevano accettare la monarchia e tantomeno appoggiare il maresciallo. Ma Togliatti non ebbe un attimo di esitazione e la “svolta” passò. Certo quella scelta non poteva non essere accettata, doveva passare per forza perchè a volerla – Togliatti lo sapeva bene – era stato nientemeno che Giuseppe Stalin. Così, il cambiamento di linea fu rapido e le opposizioni travolte. Figurarsi come dovettero sentirsi gli antifascisti comunisti, che erano stati 10 e più anni in carcere, o i partigiani, messi di fronte al fatto che occorreva accettare non solo la monarchia, ma persino Badoglio, il maresciallo che aveva costruito l’impero e che ne era diventato vicerè. Se lo ricordavano accanto al duce a celebrare i fasti del regime. Quel gesto significava anche la presa d’atto che l’Italia era nella sfera d’influenza americana e che di insurrezioni come quella greca nemmeno a parlarne. Quanto alla rivoluzione era quanto meno rinviata a data da destinarsi. Eppure tutti questi rospi vennero ingoiati e digeriti. Col centralismo democratico si faceva presto: fatta la scelta, anche a chi non era d’accordo, non restava che applicarla. L’allora leader comunista dette il via con Salerno alla famosa «via italiana al socialismo» e tutti quelli che erano contrari, ad un o ad uno, vennero epurati e comunque persero ruolo e peso politico. Insomma, non si tratta di celebrare quell’epoca come l’età dell’oro. Tutt’altro. E’ evidente, infatti, che ci troviamo di fronte ad un partito senza alcuno spazio di democrazia. Dove il dissenso viene tacitato. Palmiro Togliatti fa il buono e il cattivo tempo e, con buona pace, della base co-
munista e dei comitati per l’epurazione, capeggiati da antifascisti storici e da eroici partigiani, prepara anche una bella amnistia per i reati comuni e politici. Il leader del Pci, da ministro della Giustizia, libera collaborazionisti e persino qualche assassino. Mugugni sì, ma critiche esplicite nemmeno una. Lo stalinismo imperversava. Ma scelte molto impopolari vennero fatte e accettate anche quando nel partito si poteva dissentire apertamente e organizzare una vera e
Per il suo appoggio alla Bicamerale con Berlusconi, D’Alema fu chiamato «l’uomo degli inciuci» propria battaglia politica contro le decisioni del segretario. Enrico Berlinguer fece il governo delle astensione e poi quello di unità nazionale fra il 1976 e il 1979, urtando e di molto la sensibilità della”base” e di un pezzo del gruppo dirigente. Per non dire di quanto fosse impopolare la scelta del compromesso storico del 1973. Contro questa si mosse apertamente un dirigente storico come Umberto Terracini.
Proprio lui, uno dei fondatori dell’“Ordine Nuovo” polemizzò apertamente con quella strategia, che ipotizzava la collaborazione con la Dc,“mancipia – così la definì - dell’imperialismo americano”. Anche Ingrao e i suoi non erano d’accordo, ma usarono maggiore diplomazia. Nelle sezioni del partito e nei comitati federali lo scontro fu molto aspro: parecchi “quadri intermedi”sparavano a zero contro la nuova “linea”, ma Berlinguer non mollò di un centimetro per anni e anni. Solo alla fine del ’79 quando un gigantesco corteo di metalmeccanici attraversò Roma, il segretario del Pci tolse il suo voto al governo presieduto da Andreotti e nato il giorno del rapimento di Aldo Moro. E che dire dell’ “strappo”? Per quanto fosse insufficiente e in ritardo, restava parecchio difficile far digerire a due milioni di iscritti che “era finita la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”.
Enrico Berlinguer, insomma, andò contro l’opinione maggioritaria nel suo partito. Produsse svolte radicali e impopolari portandosi dietro sia la base che l’elettorato. Quest’ultimo – proprio nel periodo del compromesso storico – sfiorò il 35 percento. Eppure all’epoca lo stalinismo era finito da un pezzo. E nel Pci cominciava a spirare il vento della democrazia. Achille Occhetto nel 1989 fece la svolta della Bolognina. La scelta di cambiare nome al partito era inevitabile, anzi veniva fatta con forte ritardo. Non muoversi in quella direzione avrebbe significato condannarsi ad una sicura fine. Eppure fu una decisione difficile, molto contrastata: il partito – per la prima volta nella sua storia – si spaccò. Nacquero sia il Pds che Rifondazione comunista. A Occhetto non riuscì il miracolo compiuto da altri segretari. Altri tempi certamente, ma anche altri uomini. A lungo si è discusso sul modo in cui venne fatta la svolta: su ritardi ed errori. Ma fu un grande cambiamento a cui si opposero in molti: quelli che lo dissero esplicitamente, ma anche coloro che tacquero per puro opportunismo. Prima che finisse il secolo, un’altra importante scelta impopolare, quella di dar vita ad una Commissione Bicamerale per le riforme. La promosse Massimo D’Alema. Da allora venne bollato come l’uomo degli “inciuci”. Eppure ben altri furono i suoi errori. Nel passato dei dirigenti del Pd c’è dunque la capacità di elaborare linee politiche nuove e di spendersi per affermarle. Adesso tutto ciò è finito. Non c’è più una strategia nè una trasparente battaglia politica. E non c’è più nemmeno un leader.
berarsi dall’abbrraccio con l’Idv. Ammesso anche che Bersani, che è una persona seria e pragmatica, fosse disposto in cuor suo ad aprire una finestra sulla possibilità immaginata da Casini, accettando persino la condizione di non porre nessun veto in una guida berlusconiana di un nuovo governo di responsabilità nazionale, ammesso anche questo sono la mentalità e il corpo del partito a non essere in grado di dare un colpo d’ali». Ancora più chiaramente e duramente: «Il Pd non è in grado di rendersi conto del proprio interesse e ove magari se ne rende conto sa di non poterlo esercitare perché nell’immediato verrebbe svuotato dall’idv». Insomma il Pd sembra votato alla paralisi della volontà e all’impossibilità di scegliere sul proprio destino.
Un’immensa statua di sale votata alla lenta decomposizione? «Il Partito democratico non esiste – incalza Biagio De Giovanni – del resto come entità politica unitaria non è mai stato in grado di offrire un’unità politica. Intendiamoci: non è che fare un governo insieme al Pdl sia facile e si possono pure capire le idiosincrasie, le pregiudiziali, i timori. E non ha torto Enrico Letta a dire che chi ha vinto le elezioni deve governare e non può fare affidamento ai salvagente. Ma insomma, a parte il fatto che se il problema delle larghe intese finisce sul tavolo politico si deve essere in grado di affrontarlo senza tabù e isterie preventive. Qui non si tratta di salvagenti, si tratterebbe di sancire, con un nuovo governo allargato, la fine dell’autarchia berlusconiana, il tramonto definitivo dell’autosufficienza di questa maggioranza. Un azzardo? Certo e infatti solo un grande partito – come dovrebbe essere il Pd – potrebbe accettare una simile sfida, mettendo a rischio qualcosa della sua rendita di posizione». Un grande partito, dice De Giovanni, come a suo modo lo seppe essere il Pci del compromesso storico. Ma è la capacità d’analisi, la cultura politica a far difetto al Pd: «Non ci si è mai posti a sinistra il problema di una battaglia politica nei confronti di Berlusconi. Si è preferito battere la via della delegittimazione – Berlusconi come anomalia – o della criminalizzazione: Berlusconi come fenomeno di malcostume. Un’anomalia, un difetto morale a cui avrebbe pensato la magistratura e l’indignazione popolare che si sarebbe trasformata prima o poi in vasto consenso popolare. Un errore fatale che ha generato l’imperdonabile errore politico di Veltroni di dar fiato, forza e legittimazione con un’alleanza sciagurata al movimento di Di Pietro, una cosa che non ha mai smesso di scavare la fossa del Pd». Mentre appunto il Pd, come le stelle di Cronin, sta lì a guardare.
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politica
Contrattacco. Dopo le incertezze, Palazzo Chigi sceglie la strada del complotto: «Il governo è legittimato dal voto»
La Bastiglia del Cavaliere Alla vigilia del 14 luglio, Berlusconi riscopre i giacobini e avverte Fini: «Se i tuoi votano la sfiducia a Cosentino, siete fuori dal partito» ROMA. Proprio alla vigilia del 14 luglio, il giorno della presa della Bastiglia, Berlusconi riscopre i giacobini. «Il clima giacobino e giustizialista nel quale alcuni stanno cercando di far ripiombare il nostro Paese non è certo d’aiuto. Ma ancora una volta metterò tutto il mio impegno personale, assieme a quello del Governo e della coalizione da me guidati e legittimati costantemente dal sostegno dei cittadini, per impedire ritorni ad un passato che gli italiani non vogliono più». È questo il pensiero del premier Silvio Berlusconi, affidato ad una nota diffusa nel tardo pomeriggio di ieri da palazzo Chigi. «Personalmente, intendo restare fuori dalle artificiose burrasche scatenate dalla vecchia politica politicante e da quanti, in maniera irresponsabile, giocano una partita personale a svantaggio dell’interesse di tutti» aggiunge il presidente del Consiglio, spiegando che «il Paese, in questa fase di uscita dalla crisi economica globale, ha bisogno di scelte precise e di responsabilità e quindi di una piena governabilità». E ancora: «il Governo ha a cuore l’interesse dei cittadini e perciò intende portare a rapida approvazione la manovra che stabilizzerà il bilancio pubblico come ha chiesto l’Europa, pure in presenza di una situazione migliore dei nostri conti rispetto agli altri partner europei». Il premier ha preso carta e penna dopo che nei giorni scorsi ha visto crescere sotto i suoi occhi la bufera politica - soprattutto nel proprio partito, il Pdl - intorno all’inchiesta sull’eolico che vede indagati,
Anche Vietti dell’Udc valuta la possibilità di aderire alla richiesta di dimissioni del sottosegretario all’economia tra gli altri, Marcello Dell’Utri, il sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino e uno dei tre coordinatori del Pdl, Denis Verdini. Una bufera, quella che si sta abbattendo sulla maggioranza che è alimentata dal fuoco nemico soprattutto interno, con Italo Bocchino, fedelissimo del Presidente della Camera Gianfranco Fini che è arrivato a non escludere la partecipazione dei deputati Pdl finiani alla mozione annunciata e presentata dal Pd con il sostegno dell’Italia dei Valori per le dimissioni di Nicola Cosentino. «Non vogliamo esprimerci, forse è opportuno che su questo si riuniscano il gruppo del Pdl alla Camera e i vertici del partito per decidere» ha detto il presidente di “Generazione Italia”, la fondazione di riferimento del numero uno di Montecitorio, da Berlusconi considerata come una delle correnti interne al Pdl da cancellare. La posizione di Bocchino certo non attenua le polemiche all’interno del Pdl, tant’è che il coordinatore Sandro Bondi si è preso la briga di attaccare personalmente Bocchino per la seconda volta in
di Francesco Capozza
Frank La Rue, relatore speciale, chiede di «abolire» il progetto
Legge «bavaglio», arriva il no dell’Onu ROMA. Forte presa di posizione dell’Onu contro il ddl intercettazioni. Il governo italiano, ha detto il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà di espressione, Frank La Rue, deve «abolire o modificare» il progetto di legge sulle intercettazioni perché «se adottato nella sua forma attuale può minare il godimento del diritto alla libertà di espressione in Italia». Perplessità espresse attraverso un comunicato, che hanno scatenato lo «sconcerto» del ministro degli Esteri Franco Frattini. «In tutti i Paesi democratici il Parlamento è sovrano e decide. Le proposte legislative prima vanno lette» ha aggiunto il titolare della Farnesina. Nella nota, La Rue si è detto «consapevole» del fatto che il disegno di legge sulle intercettazioni vuole rispondere alle preoccupazioni relative «alle implicazioni della pubblicazione delle informazioni intercettate per il processo giuridico e il diritto alla privacy». Ma ha precisato che «il disegno di legge nella sua forma attuale non costituisce una risposta adeguata a tali preoccupazioni e pone minacce per il diritto alla libertà di espressione». L’esperto ha quindi raccomandato al governo di non «adottarlo nella sua forma attuale, e di impegnarsi in un dialogo significativo con tutte le parti interessate». E si è detto pronto «a fornire assistenza tecnica per
garantire» che il ddl «rispetti gli standard internazionali dei diritti umani sul diritto alla libertà di espressione». Intanto, sugli emendamenti messi a punto dal Pdl è intervenuta in maniera chiara la presidente della commissione Giustizia della Camera, Giulia Bongiorno: le modifiche presentate dalla maggioranza al ddl intercettazioni sono senza dubbio un passo avanti, ma si può fare di più. Così, dopo aver avuto una lunga riunione ieri mattina con il presidente della Camera Gianfranco Fini, la Bongiorno ha annunciato di voler presentare ulteriori proposte di modifica su responsabilità giuridica dell’editore, intercettazioni dei parlamentari, intercettazioni ambientali e intercettazioni dei reati che riguardano ignoti. Per l’Udc il testo è «migliorabile»,così è stato messo a punto un pacchetto di circa 40 proposte di modifica, con l’intento di limare e approfondire alcuni dei punti più caldi. Il Pd ha depositato più di 400 emendamenti. L’Idv, guidata dal capogruppo in commissione Federico Palomba, ne ha presentati invece 170, annunciando «un’aspra battaglia». (s.d.f.)
due giorni, affrettandosi a giudicare «nefasto il ruolo di Bocchino nel dibattito interno al nostro movimento politico». Immediata la replica del vicepresidente dei deputati Pdl che domanda «come si fa a considerare nefasto l’atteggiamento di chi chiede trasparenza e pulizia morale e difendere autori di episodi imbarazzanti per il Pdl?». In un clima politico incandescente, la questione aperta dall’inchiesta sull’eolico finisce per intrecciarsi con il dibattito di questi giorni sull’allargamento della maggioranza all’Udc e sul delicato confronto sulla riforma delle intercettazioni, per la quale ieri in commissione Giustizia alla Camera si è chiuso il termine per il deposito degli emendamenti. I centristi hanno reso noto la loro scelta di votare per la mozione che chiederà le dimissioni del sottosegretario Pdl all’Economia, ed è Michele Vietti ad osservare che «l’incompatibilità è evidente». Mentre, a proposito d’intercettazioni, i deputati Udc in commissione apprezzano lo spirito degli emendamenti della maggioranza ma non nascondono le loro riserve sul nodo della libertà dell’informazione e degli ostacoli alle indagini. Tutto questo nel giorno in cui arriva la censura dell’Onu sul provvedimento, ulteriore motivo di scontro tra maggioranza e opposizione.
«Sembra di essere alla fine di un impero, tutto crolla», dice Dario Franceschini che ribadisce: «I sottosegretari Cosentino e Caliendo devono dimettersi o non esiteremo ad adottare tutte le iniziative parlamentari». Non manca di farsi sentire Antonio Di Pietro che annuncia la presentazione della mozione perchè «non si può tirare il sasso e nascondere la mano, è il momento in cui ciascuno deve assumere le proprie responsabilità». Roberto Calderoli torna sui rapporti tra Berlusconi e Fini osservando che si tratta di una questione che «devono risolvere loro», consigliando un faccia a faccia tra due leader che, osserva, hanno entrambi «due caratteri molto forti». Tornando al fronte della guida del Pdl è invece Franco Frattini a prendere posizione: «Ho confermato in molte occasioni la mia preferenza per il coordinatore unico dopo un periodo di esperienza del cosidetto triumvirato», afferma il ministro degli Esteri dicendosi intanto disponibile «a lavorare per il rafforzamento del Pdl, anche con iniziative culturali che hanno un valore importante, riconosciuto anche ieri dal premier», ma rilevando anche che «il compito di rappresentare l’Italia nel mondo è assorbente ed esclusivo». E, osserva, «si può fare una cosa sola alla volta».
politica
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Malgrado la difesa a oltranza, l’inchiesta giudiziaria continua a pesare ROMA. «Il ministro ha deciso di scendere in politica». Il messaggio dello staff di Franco Frattini ai direttori di agenzie e giornali è arrivato la settimana scorsa; si dice dalla diretta voce dell’uomo comunicazione del titolare della Farnesina, Antonio Bettanini, professore di sociologia a Genova e portavoce di ministri e gran commis da una ventina d’anni, cioè da quando prestò i suoi servigi all’allora vicepresidente del Consiglio Claudio Martelli (di cui Frattini era consigliere giuridico). Per quanto bizzarro (non fa già politica, un ministro?), il senso delle telefonata era che l’ex commissario europeo, di recente convolato a nozze, ha deciso di pesare di più nel partito di Silvio Berlusconi. Prima la corrente lealista “Liberamente” fondata con Mario Valducci e i ministri Sandro Bondi e Mariastella Gelmini – che però «non è una corrente, ma una fondazione culturale» - poi l’improvvisa furia dichiaratoria sui temi del giorno, segnalano che questo ragazzo di 53 anni assai ben portati, alle spalle una militanza nel Psi e una sbandata per Lamberto Dini ai tempi del ribaltone, si sta giocando la sua partita per non morire gregario. Che l’atteggiamento del nostro fosse cambiato s’è capito giusto una settimana fa. Mercoledì scorso, infatti, s’è presentato a palazzo Grazioli per partecipare al vertice di guerra sulle intercettazioni con coordinatori e capigruppo: al termine è stato lui - che tra i berluscones di stretta osservanza è di certo il più versato nell’educato rimpallo di quei messaggi istituzionali che alla fine la suocera deve intendere – a comunicare ai giornalisti che il ddl sugli ascolti «non è immodificabile». Di più, «terremo conto di tutte le perplessità», scandì
E Frattini punta a sostituire Verdini Il ministro vuole contare di più nel Pdl in vista del cambio al vertice. A settembre di Marco Palombi perché la suocera – che poi è maschio e abita al Quirinale – capisse proprio tutto.
Da lì, un’escalation. All’indomani delle ricostruzioni sulla famosa cena a casa Vespa e della proposta di Pier Ferdinando Casini di un governo di unità nazionale, fu proprio il buon Frattini a bocciare l’apertura del leader Udc: “Mi pare improponibile”, disse, ma i centristi possono entrare in maggioranza quando vogliono. L’altroieri, poi, s’è beccato anche l’unzione del Signore in prima persona: dopo qualche scaramuccia, il premier gli ha fatto pervenire i sensi della sua stima via comunicato stampa. «Per creare nel Paese un clima favorevole alle riforme e all’azione del governo – ha scritto Berlusconi - serve il contributo di tutti e mi sembra che “Liberamente”, che non è certo una corrente e non dovrà mai esserlo, stia facendo un buon lavoro promuovendo incontri e dibattiti interessanti su molti temi». Una benedizione in piena regola. Ieri mattina Frattini, che evidentemente ci
ha preso gusto, ha discettato su nuova P2 e assetto del partito: «Siamo garantisti – ha spiegato da Milano – i processi non si possono fare sui giornali, né si possono anticipare le condanne. Ma Berlusconi è stato chiaro: se vi è chi ha commesso qualcosa, non verrà coperto e questa è anche la mia opinione». Quanto al Pdl, «sono convinto che un coordinatore unico sia una scelta importante e possibile». E qui s’arriva al centro della questione. Nono-
dossieraggio contro un collega di partito (Caldoro), non può dimettersi come se fosse un criminale: lascerà a settembre, davanti ad una profonda revisione della struttura di comando del Pdl. Il coordinatore unico, in sostanza, che consentirebbe peraltro ad Ignazio La Russa di “concentrarsi”, per così dire, sul ruolo di ministro e - giubilato il coordinatore ex An sgradito al presidente della Camera - chiudere una pace con Gianfranco Fini che potrebbe ottenere, a quel punto, un vicecoordinatore per il suo arcipelago da indicare tra quanti hanno lavorato alla mediazione. Il coordinatore unico, peraltro, è una proposta cara ai finiani da tempo. Persino il “nefasto” Italo Bocchino l’aveva rilanciata dalle colonne del Corsera di lunedì: «È il momento di un nuovo grande patto di legislatura tra i due leader del Pdl, si passi a una nuova fase con un coordinatore unico tale da rappresentare sia Berlusconi sia Fini e rilanciare il partito». La pace è talmente vicina che ieri persino Gianni Alemanno, rom-
Il nuovo strumento si chiama «Liberamente», la fondazione prima guardata con lieve sospetto ma poi approvata anche dal premier in persona stante lui sostenga di essere “troppo preso”dalla Farnesina, Franco Frattini è il candidato principale tra gli ex Forza Italia per quella poltrona.
Al capitolo dell’assetto interno del partito, hanno deciso Silvio Berlusconi e i suoi durante il fine settimana, si metterà mano dopo l’estate. Denis Verdini, nonostante sia ormai inquisito dalle Procure di mezza Italia persino per attività di
pendo il rigido fronte anti-finiano degli ex colonnelli, ha aderito all’appello alla pace dai pontieri di “Spazio Aperto” riuniti in Senato da Andrea Augello: «Non esistono scorciatoie o separazioni consensuali: la strada da percorrere è quella di una nuova unità» tra Berlusconi e Fini. Per farlo serve un incontro diretto tra i due che, si dice, potrebbe tenersi a fine agosto.
«Dopo l’estate», insomma, per il momento dentro al Pdl si preparano a «resistere, resistere, resistere, come su una immaginaria linea del Piave», se è concessa la citazione, che poi sarebbe Denis Verdini. «Mi domando perché dovrebbe dimettersi – sostiene Gelmini Noi siamo sempre stati garantisti e lo saremo anche adesso». Di “terrorismo giudiziario” parla invece il pasdaran berlusconiano (forse assai più dello stesso Berlusconi) Giorgio Stracquadanio: «Verdini deve restare al suo posto perché, allo stato attuale, non esiste alcuna intercettazione che possa costringerlo alle dimissioni». Rimarrà, infatti, fino a settembre, ma i passi falsi, le mosse azzardate, gli errori del banchiere toscano prestato alla politica cominciano ad essere troppi anche per il Cavaliere. Tutto intorno al Re Sole, però, ci si abbrutisce nell’incomprensione. Daniele Capezzone, portavoce del Pdl in quota Verdini, ha denunciato addirittura complotti di «ben precisi ambienti non solo italiani», mentre il ministro Rotondi se la prende senz’altro coi giudici: «Vi rendete conto di chi davvero comanda in Italia? Mentre il Parlamento arriva al dunque, qualcuno sbatte sui giornali pagine di colloqui rubati per reati che non esistono». Domani, con calma, diventeranno colombe.
mondo
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L’analisi. L’Occidente crede che una dittatura possa crollare solo sotto il peso delle armi o di un leader carismatico. Ma non sempre è così, anzi...
La rivoluzione di Teheran L’Onda Verde erode il regime dal basso. Nessuno lo ammette, ma possono vincere di Michael Ledeen ite la verità: non sapete realmente cosa sia una rivoluzione, vero? Se qualcuno ve lo chiedesse, con ogni probabilità, voi evochereste immagini quali la presa della Bastiglia, il grande assalto al Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo e cose simili. Una grande, melodrammatica scena che vede folle immense assalire leader corrotti e che culmina con lo sventolio dei vessilli rivoluzionari dai bastioni. A volte è veramente così, ma nella maggior parte dei casi, tali imponenti scene o non si verificano o giungono solo dopo un lungo lavoro preparatorio, buona parte del quale non è affatto dramma-
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Mikhail Gorbachev dal Cremlino. Aveva ragione, ma nessuno sapeva quando o come di preciso quella rivoluzione avrebbe avuto luogo. Sapevamo però che essa era destinata a verificarsi. Era così ovvio che scrissi addirittura un libro in cui ne prevedevo l’avvento.
Per buona parte della storia moderna si diede per scontato che non si potesse passare da una dittatura alla democrazia senza un conflitto violento. Tale tesi era giustificata dalla constatazione che i tiranni erano caduti o dopo aver perso una guerra (re Giorgio, lo zar Nicola, Hitler, Mussolini) o per mano di un’in-
La presa della Bastiglia, il grande assalto al Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, l’idea di rivolta per noi è questa qui. Ma basta pensare all’89 e alla Spagna di Franco per capire che tutto è cambiato tico, come la stesura dei documenti, il discutere con i ranghi rivoluzionari, lo sfidare l’autorità nell’ambito dei tradizionali confini politici e via discorrendo. Le rivoluzioni si dipanano lungo una linea o con un ritmo costante; fluiscono e refluiscono: i coloni americani sfidarono per anni il re d’Inghilterra - le prime proteste contro la tassazione inglese ebbero luogo più di dieci anni prima della Dichiarazione d’indipendenza - e vi furono molte occasioni in cui agitatori come Tom Paine e Sam Adams agognarono di conquistare la libertà di cui oggi godiamo. Similmente la Rivoluzione francese procedette a spasmi, iniziando con richieste moderate di potere politico per le classi medie, ed evolvendo solo lentamente in aperta rivolta e regicidio. In realtà esiste una corposa letteratura dedicata al tema della “situazione rivoluzionaria”, e tale letteratura si estende dagli studiosi accademici ai policy planners. Ricordo che una volta discussi con un funzionario della Cia particolarmente talentuoso circa l’impero sovietico, e fui sorpreso e lieto nel sentirlo dire: «Se stilassimo una lista degli ingredienti della rivoluzione sociale e politica nell’Unione Sovietica, probabilmente li spunteremmo tutti». Ciò fu dieci anni buoni prima che Boris Yeltsin rimuovesse
surrezione violenta. Tutto ciò cambiò nell’ultimo quarto del XX secolo, prima in Spagna e Portogallo, quindi in America Latina e infine nell’Unione Sovietica, in Europa centrale e orientale e in alcuni Paesi africani. In seguito si è dato per scontato che la violenza non fosse più necessaria per una fortunata rivoluzione democratica, ed esiste una letteratura sempre maggiore sulla rivoluzione non-violenta. Ritengo che non vi siano regole ferree riguardo la violenza e la rivoluzione. E ritengo altresì che dipenda più dalle circostanze che, ad esempio, dalla cultura. Negli anni antecedenti la morte di Francisco Franco, per esempio, quasi tutti gli esperti di Spagna, e invero quasi tutti gli spagnoli, sostenevano che quando il dittatore sarebbe morto, si sarebbe verificata una replica della guerra civile spagnola. «Dopo tutto», dicevano, «in Spagna uccidiamo i tori». E tuttavia, vi fu una rivoluzione di velluto in Spagna, e violenze di ingente portata in Portogallo, dove non si uccidono i tori.
Gli studiosi delle rivoluzioni amano parlare anche di leadership. Molti di loro vi diranno che non vi potrà essere una rivoluzione di successo senza un leader carismatico. Una simile asserzione rappresenta in buona
Stop alle lapidazioni
Tre ayatollah a favore di Sakineh Tre ayatollah iraniani di tendenze riformiste, tra i quali l’ex procuratore generale della Repubblica, si sono schierati contro la pena della lapidazione, intervenendo sul caso di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna condannata a questo supplizio per la cui salvezza si sono mobilitati governi e organizzazioni umanitarie in Occidente, tanto da spingere il regime a sospendere l’esecuzione (vedi liberal di ieri). A dirlo, il sito iraniano Kaleme, del leader dell’opposizione Mir Hossein Mussavi. L’ayatollah Hassan Mussavi Tabrizi, procuratore generale nei primi anni dopo la rivoluzione, ha affermato che fu lo stesso fondatore della Repubblica islamica, ayatollah Ruhollah Khomeini, a dargli l’ordine di porre fine a queste esecuzioni. La testimonianza è stata confermata dall’ayatollah Mohammad Mussavi Bojnurdi, a quel tempo membro del Consiglio per la giustizia, secondo il quale un ordine in tal senso fu «trasmesso a tutti i giudici» del Paese. Da parte sua un altro leader religioso, l’ayatollah Bayat Zanjani, ha detto che l’Islam prevede effettivamente la lapidazione per gli adulteri, ma ponendo delle condizioni che la rendono quasi impossibile. Tra queste, il fatto che l’adulterio debba essere confermato dalla testimonianza oculare di «quattro uomini giusti» e confessato «per quattro volte senza alcuna costrizione».
Sopra: supporter dell’Onda Verde. A lato: Sakineh, condannata per adulterio. Sotto, il leader Moussavi. A destra: l’ambasciata pakistana a Washington e Amiri
parte un’eredità del XX secolo, che ha visto parecchi capi carismatici, da Hitler a Lenin, e da Reagan a Papa Giovanni Paolo II. Ma anche nel XX secolo, tale regola non è stata in ogni caso assiduamente osservata. Havel era carismatico? E Walesa? Di sicuro Boris Yeltsin era l’opposto, e l’appello degno di nota di Nelson Mandela difficilmente si avvicina a quel tipo di carisma a cui si allude. Da notare che la teoria del leader cari-
smatico è decisamente nonmarxista. La visione marxista della rivoluzione asserisce che essa si genera spontaneamente, nel momento in cui le circostanze sono propizie. Secondo tale visione la storia fa l’uomo, e non il contrario. Ancora una volta, non penso che esistano regole fisse. Sono, al contrario, convinto che le circostanze siano estremamente importanti, ma ritengo altresì che vi siano momenti in cui i grandi uomini possano superare ostacoli apparentemente insormontabili e avere la meglio. E possono prevalere in modi diversi, a volte imponendo il proprio volere con la forza della propria personalità, a volte con la forza delle armi. Dipende.Tutto ciò mi riconduce, come avrete indubbiamente capito, all’Iran.
Per almeno dieci anni, l’idea stessa di una rivoluzione iraniana è stata accantonata, in quanto fantasiosa, tanto dagli esperti accademici quanto dai legislatori governativi (e in special modo nell’ambito dell’intelligence). La dittatura di Teheran sembrava ap-
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L’uomo, scomparso nel 2009 in Arabia Saudita, ha raggiunto l’ambasciata pakistana
Lo scienziato di Teheran rapito dagli Usa è scappato di Osvaldo Baldacci he figura, che schiaffo per l’amministrazione Obama e i suoi servizi di intelligence. Se è vera la storia dello scienziato nucleare iraniano “ricomparso” ieri, difficile ricordare una situazione pubblica più imbarazzante in materia. Talmente clamoroso che viene da pensare che dietro ci sia molto altro rispetto a quanto è divenuto di dominio pubblico, e i più appassionati di spy stories potrebbero pensare chissà a quale macchinazione dietro le quinte, dall’una o dall’altra parte. O magari solo uno scambio di prigionieri, mediaticamente gestito molto peggio del caso delle spie russe. Una fonte dell’Amministrazione Usa infatti ha subito richiesto l’immediato rilascio degli americani detenuti in Iran. Shahram Amiri, che ha studiato nell’università Malek Ashtar legata ai Guardiani della Rivoluzione, è un importante scienziato nucleare iraniano, e scomparve un anno fa durante un pellegrinaggio in Arabia Saudita, nell’estate 2009. Sulla sua vicenda si sono rincorse molte voci. Trascurate quelle meno appassionanti, come possibili incidenti o fatti privati, ci si è subito concentrati sulle possibili implicazioni di spionaggio internazionale. La stessa Arabia Saudita non è certo felice del programma nucleare iraniano, contro cui è (abbastanza) compatta tutta la comunità internazionale.
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parentemente sotto ferreo controllo, e quantunque vi fosse un’evidente miseria economica e un diffuso malcontento sociale, nessuno - eccetto alcuni di noi avrebbe previsto il sorgere di un movimento rivoluzionario, né quel tipo di leadership carismatica necessaria a guidarlo. Tutto d’un tratto, in seguito alle elezioni farsa della scorsa estate, un vasto movimento è improvvisamente emerso, e si sono verificate grandi manifestazioni in tutto il Paese, con le quali si è chiesta la fine della Repubblica islamica. I capi di quel movimento sono decisamente anti-carismatici. Il più famoso, Mir Hossein Mousavi, risulta assolutamente noioso, sebbene abbia una consorte molto dinamica. Mousavi ha insistito sul ricorso a metodi non
defilati. La settimana scorsa, le proteste contro il regime hanno raggiunto il Bazar, e cioè la classe dei mercanti e sebbene l’originaria protesta del Bazar fosse stata indetta contro l’imposizione di nuove tasse, ha chiaramente assunto una dimensione più prettamente politica, e il regime ha improvvisamente proclamato due giorni di ferie. E di nuovo lo ha fatto ieri, apparentemente per via del caldo, ma in realtà, come molti iraniani sospettano, per coprire lo sciopero e spegnere qualsiasi eventuale scintilla di sfoghi di massa e proteste pubbliche. L’azione dei commercianti, iniziata la scorsa settimana, rappresenta una chiara e potenzialmente pericolosa sfida all’autorità e alla linea dura del presidente. Nel frattempo, i lavo-
I capi dell’Onda sono decisamente non-carismatici. Il più famoso, Mir Hossein Mousavi, è assolutamente noioso, (sebbene abbia una consorte molto dinamica). Il mio parere? Che sia una tattica violenti, e quando il regime ha dimostrato la propria volontà di picchiare, torturare e uccidere gli oppositori, egli ha chiesto ai suoi sostenitori dell’Onda verde di astenersi da un confronto diretto per le strade. Ciò appare un mutamento di tattica, ma non un abbandono degli obiettivi rivoluzionari. Anzi: l’Onda spera di deporre il regime aumentando senza sosta la pressione dal basso, e negli ultimi mesi ha ottenuto il sostegno dei lavoratori e della maggior parte dei gruppi etnici, che in precedenza erano rimasti
ratori protestano e scioperano in tutto il Paese. Nessuno sa se l’Onda verde riuscirà ad abbattere quel malefico regime, o quando e come si potrà palesare tale possibilità. Come sapete, credo che il regime sarebbe crollato già da un bel pezzo se qualche leader occidentale avesse sostenuto l’opposizione, ma nessuno lo ha fatto. Se Dio vuole, ciò cambierà, poiché le rivoluzioni moderne di maggior successo hanno goduto di un sostegno dall’esterno. Chiedete pure a George Washington.
fosse sotto custodia di guardie armate. Nel primo affermava di essere sotto la custodia della Cia in Arizona, nel secondo diceva di essere riuscito a sfuggire al controllo dei suoi carcerieri, fuggendo da una prigione della Cia in Virginia, e di temere per la propria vita. Poi lunedì notte l’uomo è stato portato nella sezione d’interessi iraniana a Washington, da dove ha chiesto il rimpatrio nella repubblica islamica e ha affermato che gli americani sono “gli sconfitti” di questo sequestro. «Dopo la vergogna di questo sequestro volevano che me ne tornassi discretamente in Iran», ha dichiarato a un giornalista della radio iraniana dall’ambasciata pakistana, «ma alla fine non ci sono riusciti, fin da quando ho lanciato i miei messaggi su Internet si sono visti come gli sconfitti in questa vicenda».
«Hanno cercato di imbarcarmi su un aereo di un altro Paese per farmi tornare in Iran senza clamore e nascondendo il fatto che ero stato rapito, ma non ci sono riusciti», avrebbe detto Amiri. Secondo l’agenzia semi-ufficiale iraniana Fars alla fine Amiri sarebbe stato
Le due ipotesi principali erano ovviamente di segno opposto: la fuga all’estero dello scienziato, pronto a collaborare con i servizi arabi e occidentali in cambio di asilo, protezione e magari agiatezza, oppure un rapimento. Inutile negare che nonostante le denunce da parte del regime di Teheran, era molto più credibile l’ipotesi di una diserzione di Amari, che così sfuggiva a un regime repressivo e sotto assedio per trovare una nuova vita la cui qualità poteva essere tanto maggiore quanto le notizie che lui, scienziato nucleare, era in grado di portare. A marzo la Abc aveva riferito che Amiri era fuggito negli Usa e stava collaborando con la Cia e fornendo informazioni sul programma nucleare di Teheran. Ma ieri il colpo di scena che ha rovesciato la situazione e portato alla ribalta la soluzione più imbarazzante: fu un rapimento e non è neanche riuscito.
Lo scienziato dell’organizzazione iraniana per l’energia atomica era riapparso nelle settimane scorse: in giugno la televisione di Stato iraniana ha mandato in onda due filmati di un uomo che si presentava come Amiri. Questi due filmati più un terzo sono apparsi su Youtube, e Amiri sostiene di essere riuscito a postarli lui su internet, nonostante a suo dire
Lo studioso ha affermato di essere stato tenuto prigioniero per 14 mesi da gente armata, ma di essere riuscito a postare su Internet un video “consegnato” dagli stessi americani, che lo hanno scortato con proprie forze fino all’ambasciata pakistana. «L’amministrazione americana - afferma la Fars - è stata costretta a consegnare lo scienziato rapito in seguito agli intensi sforzi dell’Intelligence e dei media della Repubblica Islamica». Il ministro degli Esteri iraniano, Manuchehr Mottaki, ha detto agli Usa di “non ostacolare” il rientro in Iran dello scienziato nucleare. E in effetti una fonte dell’Amministrazione Usa, la stessa che ha chiesto il rilascio dei tre americani detenuti in Iran, ha fatto trapelare che Amiri torna in Iran di sua libera volontà. «Il signor Amiri è stato negli Usa secondo la sua libera volontà e ha deciso di tornare in Iran secondo la sua libera volontà», ha precisato la fonte anonima, aggiungendo che la situazione dello scienziato è differente da quella dei cittadini americani detenuti in Iran, inclusi i tre escursionisti accusati di spionaggio, che «dovrebbero essere immediatamente rilasciati e messi in condizione di tornare negli Usa».
panorama
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ebito e “sommerso” in crescita. Dati correlati anche se non perfettamente omogenei da un punto di vista temporale. I primi si riferiscono ai primi 5 mesi del 2010, i secondi a tutto il 2008. Nel primo caso la crescita è stata del 3,7 per cento, contro il 5,4 del precedente periodo. Un dato, in parte positivo, vista la crisi e le tensioni esistenti sui mercati internazionali. Il merito, se così si può dire, è soprattutto della “stretta di cassa”. Il fabbisogno dello Stato, dopo la punta toccata a metà dello scorso anno, è in, seppur, lenta flessione. Se rallentano i pagamenti, rispetto alla più forte contrazione delle entrate, dovute al crollo del Pil, il Tesoro ricorre meno all’indebitamento e di conseguenza la dinamica del debito rallenta.
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L’andamento dell’economia sommersa mostra, invece, un profilo diverso. La sua latitudine in tutti questi anni – la base è il 2000 – era progressivamente diminuita: con una caduta di quasi due punti di Pil. Nel 2008 è invece nuovamente cresciuta (0,3 punti) sull’anno precedente. I dati riflettono alcuni movimenti sotterranei. Si è ridotta, per effetto della crisi, l’area grigia del doppio lavoro, come mostrano, del resto, i dati sui pensionamenti anticipati, oggi meno appetibili. È invece cresciuta la platea di chi, stando in cassa integrazione, arrotonda con lavoretti in nero. Ancora una volta è il volto sfuggente di questa crisi: grandi privazioni e l’arte nell’arrangiarsi. Anche se queste risposte individuali hanno una ricaduta maggiore sugli equilibri del sistema economico, nel suo complesso. L’Istat stima che l’economia sommersa sia pari a una percentuale compresa tra il 16,3 ed il 17,5 per cento. Ne deriva un’evasione fiscale
Siamo un paese con il «debito in nero» Istat: il sommerso copre l’intero deficit pubblico di Gianfranco Polillo (erario più contributi sociali) pari a circa il 7,5 per cento del Pil. Sempre nel 2008, la spesa per interessi è stata del 5,1 per cento del Pil. Se tutti avessero pagato, non solo avremmo finanziato l’intero debito pubblico, ma sarebbe rimasto qualcosa per far fronte ai gravi problemi del Paese. Naturalmente si tratta di calcoli teorici. Il “sommerso” esiste in tutti i Paesi occidentali: quel che varia è la sua dimensione.
In testa a tutti è la Grecia – e le conseguenze si sono viste – poi viene l’Italia. Ma negli stessi Stati Uniti, dove il sistema fiscale può essere considerato un vero e proprio modello, esiste almeno un 8 per cento di quell’economia che sfugge agli ispettori federali. Facendo quindi la tara ai dati Istat, resta comunque una bella fetta, che ci consentirebbe di alleviare di non poco i nostri disastrati conti pubblici.
Ma è così importante contenere il debito? La sua dimensione – il terzo debito del Mondo, secondo il continuo refrain di Giulio Tremonti – ci espone continuamente se non alle ire, almeno al sospetto, dei mercati internazionali. Basterebbe un nonnulla – una crisi politica al buio ad esempio - per trasformare quel disincanto in un diluvio di vendite, con conseguenze incalcolabili. Questo spiega l’ansia
Fini accusa: «Quote latte? Sono un esempio di cattiva politica»
Dalla Ue primo ok alla manovra ROMA. Nessuno sconto alle Regioni, blindatura dell’emendamento sulle quote latte e la voglia di chiudere già oggi la manovra. Perché lo vuole l’Europa, preoccupata che la speculazione lambisca il Belpaese – e il declassamento da parte di Moody’s dei bond portoghesi e l’ultimo record sul debito pubblico, 1.827,1 miliardi di euro, le danno ragione – perché il centrodestra ha altre priorità, come giustizia e intercettazioni.
Ieri è stato presentato dal governo il maxiemendamento che di fatto blinda le modifiche concordate in Senato da Pdl e Lega con Tremonti. Con Berlusconi che ha spento ogni speranza delle Regioni: «Intendo restare fuori dalle artificiose burrasche», mentre Gianfranco Fini ha definito «esempio di cattiva politica e malcostume» la moratoria alle multe per gli allevatori cara al Carroccio. Sempre ieri il ministro ha incassato il placet di Bruxelles alla sua Finanziaria da
24,9 miliardi. Per Tremonti la Ue ha voluto premiare l’Italia per le sue «misure effettive e adeguate, perfettamente in linea con gli impegni presi e con i calcoli fatti», come la decisione di legare l’età pensionistica al livello di invecchiamento della popolazione.
Tanto che di fronte all’allarme debito dice: «La crisi ci ha indicato che i debiti privati possono essere più pericolosi dei debiti pubblici. I debiti privati contagiano i debiti pubblici. Noi abbiamo un grande debito pubblico ma anche un enorme risparmio privato e un sistema pensionistico stabilizzato». Quindi, guardando al Portogallo, ha notato: «Lisbona ha una debito pubblico del 76 per cento sul Pil, eppure non siamo stati noi a essere declassati» Unico rammarico la bocciatura dell’emendamento che alzava l’asticella del pensionamento oltre i 40 anni di contributi. «Non (f.p.) è stato un refuso».
con cui, ogni mese, si attendono le rilevazioni della Banca d’Italia. Si può continuare a vivere con questa continua spada di Damocle pronta ad abbattersi sul debole collo dell’economia italiana? Domanda, solo in apparenza, retorica. Nel 1995 il debito pubblico del Belgio era superiore a quello italiano: 129,8 per cento contro il 121,5 per cento del Pil. Oggi è di molto inferiore: 89,6, contro il 105,7. Un miracolo? Semplice buon governo e una classe dirigente che è stata capace, nonostante i conflitti storici – linguistici tra valloni e fiamminghi, di guardare oltre il proprio naso. Risultato? Un carico d’interessi molto più sostenibile. Se si guarda alle quotazioni dei mercati internazionali, il rinnovo dei titoli belga costa circa 50 punti base in meno di quelli italiani.
Se si fosse seguita quella strada, oggi il risparmio nel nostro Paese sarebbe di circa 3 miliardi di euro all’anno: quasi un terzo della manovra finanziaria in discussione in Parlamento. C’è quindi molto autolesionismo nella politica italiana. Prima del crollo del muro di Berlino, la mancanza di coesione nazionale era il riflesso delle condizioni imposte dalla “guerra fredda”. L’equilibrio di Yalta aveva determinato una divisione dell’Europa e uno scontro che si manifestava su piani diversi: politico, economico e sociale. Era difficile, allora, resistere a quel rullo compressore. Ma oggi quella fase storica è superata. La guerra, tuttavia, continua in chiave domestica, sebbene ogni ragione oggettiva sia venuta meno. È soprattutto questo il clima che non consente le necessarie riforme che ci porterebbero definitivamente in Europa. La spirale del debito ne è solo una logica conseguenza.
panorama
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Media. Il direttore di Rainews24: «La politica cerca di controllare tutto. Ma a volte basta opporsi per impedirlo»
«Rai, non si può essere liberi» Col piede sulla porta, Corradino Mineo racconta i vizi di potere e informazione di Pierre Chiartano tampa e democrazia, sembrano due paroloni da dover coniugare ormai solo nei temi in classe e sui tavoli di qualche conferenza. Pare non appartengano più alla vita quotidiana, alle passioni, alle conquiste di un Paese e di cittadini che non vogliano sentirsi sudditi. Corradino Mineo, direttore – non si sa per quanto ancora – di RaiNews24 intervistato da liberal, parla col senso di responsabilità degno di uno statista: «Non scherziamo sulla libertà di stampa, c’è ancora nel nostro Paese». E col realismo di vecchio del mestiere: «Ci sono pressioni potenti sui media e se fosse passata la legge bavaglio, con le caratteristiche che aveva, ci saremmo avvicinati a un confine pericoloso». Ma è completamente scevro da ogni tendenza alla faziosità: «Non è un problema tecnico sulla legge – di cui si può anche discutere – ma il segnale negativo dato al giornalismo».
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Non disturbare il manovratore, insomma, e dimenticatevi la storiella del giornalismo come cane da guardia della politica. Casomai «cane da compagnia», come aveva scritto, qualche tempo fa, un illustre collega. RaiNews24 è un canale che funziona e la rubrica il Caffè, la rassegna stampa ragionata condotta da Mineo, con un ospite in studio, una trasmissione di successo. Nell’inserimento della finestra mattutina su RaiTre ha più che raddoppiato gli ascolti che
Corradino Mineo, direttore di RaiNews24. Sotto: in alto, Vittorio Feltri, direttore del Giornale; in basso, Maurizio Belpietro, direttore di Libero. Secondo Mineo, «alla maggioranza sono saltati i nervi, perché a un certo punto proprio l’auto-censura non ha più funzionato. Ogni giorno si leggeva sul Giornale e su Libero il forte fastidio per gli affari della cricca e per le coperture ipocrite»
non vuole proprio sentirne parlare. «È un offesa alla mia intelligenza. Magari fosse così, ormai siamo arrivati a trame da P3, da cricche, da compagni di merende. Meno ancora, da frequentatori di divano che influenzano tutto: politica, informazione, economia».
I partiti non esistono, ormai ci sono solo gli interessi di po-
«A una parte della maggioranza sono saltati i nervi, perché l’auto-censura nei media non ha più funzionato neanche per il Giornale e Libero» erano precipitati al cinque per cento di share. «E con un costo irrisorio, se pensiamo che Buongiorno regione, la trasmissione messa in piedi dalle redazioni Rai locali era molto dispendiosa» spiega Mineo. Tanto che il progetto non è sopravvissuto alla mannaia dei tagli di Tremonti. Alla Rai non sanno fare neanche più i conti, in tempi di crisi, e si parla di un veloce cambio alla direzione del canale all news. Si vocifera dell’arrivo di un “padano”. Ma di manuale Cancelli, cioè di lottizzazione, Mineo
chi «che spesso millantano», è lo sfogo un po’ amaro del direttore. Poi si entra nello specifico della legge “ammazza notizie”. «Si voleva tentare di mettere un bavaglio ai magistrati, per impedirgli di fare una serie di inchieste scomode e di vietare assolutamente di parlarne. Avrebbe permesso alle varie cricche di proliferare sotto protezione. Sarebbe stato uno sfregio tremendo al diritto-dovere di informare e soprattutto di essere informati». E la legge poteva risolversi con un accordo di tipo tecni-
co, come già avviene in molti tribunali, dove accusa e difesa si mettono d’accordo su cosa portare in dibattimento, intercettazioni comprese? «Assolutamente sì, ma ciò che è pericoloso nella legge e in tutta la polemica che si è svolta intorno – ancora di più del dettato – era il segnale, l’intimidazione. Mi dispiace per il presidente del Consiglio che lo sostiene, ma non è affatto un problema di difesa della privacy», spiega il direttore.
Il messaggio era abbastanza chiaro «non rompete le scatole ai mille comitati d’affari fra imprenditori, politici e – purtroppo in alcuni casi – anche magistrati e giornalisti. Nati e cresciuti nel Paese e che fanno e disfano a loro piacimento la politica nazionale e locale». Per non parlare del meccanismo di auto-censura nella categoria dei giornalisti che la legge avrebbe innescato. Ma vediamo come si è arrivati a tanto. «A una parte della maggioranza sono saltati i nervi, perché a un certo punto proprio l’auto-censura non ha più funzionato. Si vedevano sempre più spesso inchieste sco-
mode condotte da magistrati che, in nessun modo, potevano essere definiti di sinistra. Ogni giorno si leggeva sul Giornale e su Libero il forte fastidio per gli affari della cricca e per le coperture ipocrite che venivano fornite. Così abbiamo avuto una maggioranza sull’orlo di una crisi di nervi che ha tentato il colpo di mano». Cioé mettere un grande tappo sull’informazione.
Un fastidio profondo per quei rompiscatole di magistrati e giornalisti, ben condiviso anche da una parte del centrosinistra. «Il berlusconismo – la cattiva sopportazione per i poteri di controllo – ha messo radici anche a sinistra» conferma Mineo. È la democrazia che si ferma alla prima stazione, al voto popolare, con buona pace di Montesquieu e di tre secoli di storia, d’evoluzione politica e della regola della legge. Cancellati da una visone di democrazia pret à porter. Per carità, che perdita di tempo preservare la libertà di stampa, avrà pensato qualcuno nell’attuale maggioranza. Mineo però è più attento nel giudizio: «Diciamo che è fastidio per i poteri di controllo. Una tendenza esasperata nel presidente del Consiglio, ma presente anche in vasti settori dell’opposizione». Uscire da questo marasma, da questo pantano in cui si è infilato il Paese, potrebbe però essere più facile di quanto sembri, secondo l’analisi del giornalista Rai. «In realtà questo sistema – chiamiamolo della P3 – è piuttosto fragile, basato su velleitarismo e millantato credito. Basterebbe contrastarlo. Io ho resistito più di un anno». Ci sarebbe dunque una somma di debolezze anche all’interno del Pdl. «C’era sempre qualcuno che diceva “ma siete sicuri di voler mandare via Mineo?”». Non si trovavano delle ragioni valide per farlo. Come dire: c’è del buono anche nel Pdl. «Alle volte basta opporsi e uno riesce a farcela». E questo potrebbe essere vero per il mondo dell’informazione, ma anche per il resto del Paese. L’immagine di un Italia, somma dei singoli comportamenti, potrebbe essere lo scavallamento di un secolo d’ideologia. Ma forse stiamo peccando d’ottimismo. In bocca al lupo direttore.
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a cosa che più stupisce, a dire il vero, è lo stupore. Non tanto del pubblico o degli osservatori, ma di coloro che si chiamano “gli addetti ai lavori”, che poi non sai se e di che addetti (o meglio, additivi: come negli yogurt che scadono) e di quali lavori, poi. Come se non avessero mai lavorato. Ma soprattutto nemmeno mai assistito a qualche lavoro reale. Di che parliamo? Dello stupore che ormai corre i fogli a stampa, ed informa le opinioni appunto correnti, e domina, in particolare, commenti ed elzeviri, e le reprimenda sempre più violente, che da un po’ di tempo in qua toccano e condannano le vistose (diciamo almeno così) architetture, che si propongono come nuovi sedi museali o tout court come star-musei del momento. Quanto più si può starlette, appunto, e luccicanti-glamour, monumenti autoreferenziali e celebrativi del segno demiurgico e divinatorio della cosiddetta Archi-star di turno. Ma che bella scoperta, certo: è una deriva che non è di oggi, questa, e che già da qualche anno si poteva prevedere se non addirittura vidimare, ancor prima di quel monumento-simbolo e paletto ormai proverbiale ed epocale, per la storia dell’architettura, che è stato ed è, tuttora, e per fortuna, il Guggenheim Museum di Bilbao di Frank Gehry.
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Anche perché si posson sempre prendere le misure, fare i confronti, articolare pensieri, “a partire da”, appunto. Ma perché noi ci stupiamo, un po’ risentiti, dello stupore, quasi fossero lagrime di coccodrillo e ben mascherate? Perché provengono da quei criticonzoli, il più delle volte (li chiamiano volentieri così, perché c’è sempre qualcosa di nanesco e di favolistico, in loro, di ridotto culturalmente, quasi fossero sempre vissuti nel giardinetto stregato dei nanetti kit-
La cosa più divertente e stupefacente è che non sono tanto gli estetologi o i critici ad avanzare questi lamenti o questi “j’accuse” corporativi sch, in attesa del bacio fatale della biancaneve architettonica) per ignavia ed ignoranza, avendo sempre più accettato che l’arte s’azzerasse, s’assottigliasse, perdesse ogni spessore, non solo di dimensione, ma anche di importanza e d’autorità/autorevolezza. Visto che il loro lavoro (o sport-dopolavoro) è sempre stato, pedissequamente, inanimatamente - per pavore e voglia di esserci, per
il paginone gola di raggranellare qualche soldino o soldone, perduto per la strada mercantile, per paura di non essere abbastanza “assolutamente moderni” e abbigliati prada, pur senza mai aver letto una riga di Rimbaud - di dire sempre e disperatamente di sì, a chiunque avesse un po’ di favore in più di loro: pseudo-artista, o gallerista od assessore che fosse. Di accettare insomma sempre tutto quel che passa il convento mediatico-commerciale, di deglutire e svilire ogni cosa che esiste, di adulare, scodinzolando, ogni nullità. Vogliamo dirla, con De Dominicis? ogni patetica “mozzarella in carrozza”, visto che puntualmente si fanno abbindolare da carri e carrozze, sperando di saltarci sopra, al chiudersi di ogni vernissage, ed essere pure invitati alla greppia del ristorante-dopo?
Lo ripetiamo sempre, perché non fingano di travisarci o facciano i furbetti: li abbiamo letti anche noi (anzi, forse solo noi, perché i critici nostrani, e forse non solo nostrani, non leggono, per definizione. Salvo che i bollettini parrocchiali, tipo Flashart, da cui tutti son stati propulsi, curators e strimpellatori di recensioni-on-line; li abbiamo ben letti, gli studiosi giusti e sani dell’estetica. I Goodman, i Rosenberg, i Baudrillard, i Nancy, i Didi-Huberman, i Lyotard, i Vattimo, persino il, da loro vigliaccamente disprezzato, Jean Clair, che tante cose in più ci hanno spiegato, e dunque lo sappiamo bene che l’arte non può essere più... Non può essere più (liturgia a memoria:) né Bello né Espressione o Sentimento,Verità, Turbamento, Profondità, Investigazione, Utopia, nulla. Non è che siamo “mica per caso” nel periodo Postmodern. Anzi, proprio lì ci sentiamo gettati, come diceva Lyotard. Ma “qualcosa” dovrà pur esser l’arte, salvo che il loro pasto quotidiano e il vano pretesto, per una prebenda ed un vernissage in più. Beh, allora è inevitabile che l’architettura abbia, in parte hegelianamente, preso il suo posto, si sia sostituita ad un’arte che non ha più senso né senso del senso, proprio mentre gli architetti (vedi l’ultimo interessante libro di Antonio Monestiroli, La ragione degli Edifici, Christian Marinotti) si re-interrogano, a partire da Gregotti in poi, sulla necessità di recuperare l’architettura ad un rapporto con il senso, con una sua “ragione”, se non addirittura ad un dialogo con la verità (disturbando la filosofia di Derrida e il famoso saggio di Heidegger sulle scarpe di Van Gogh). Certo, il problema più delicato è che cosa possa (e rischi di) fare l’archiettura - che da sempre ha avuto tra le mani, sin
Le proteste si moltiplicano, ma il vero problema è che l
L’architetto e l’artista inv
Sempre più spesso i musei rubano la scena ai pittori. Ma questi scatti di gelosia sono davvero insopportabili di Marco Vallora
In alto, il Guggenheim di Bilbao. A sinistra, Il Maxxi di Roma, inaugurato a fine maggio, che ospita alcune tra le più rappresentative opere di arte contemporanea, tra cui lo scheletro di De Dominicis (a destra)
il paginone
le avanguardie si sono arrese
o-star vidioso
dall’antichità, che gli ha regalato questo nome “museale”, una simile, delicata patata bollente (di dover sistemare, in modo razionale e non mortifero, vitale, le opere d’arte: insomma di trovare loro una casa adeguata e confortevole) - che cosa mai possa e debba fare, trovandosi di fronte un’arte che, per lo più, ha derogato al proprio dovere istituzionale, diciamo pure intenzionale, e che volentieri si balocca tra nascondimento e scemenzaio. Fermo restando che ci sono opere che, proprio heidegerianamente, hanno saputo fare del nascondimento e del depauperamento, della potenziale disparizione di sé, opera altissima (pensiamo al cammino che da Giacometti, via Klein, arriva sino a Parmiggiani, per dirne uno). Ma appunto, e concretamente. Pensiamo ad un’opera emblematica del concettualismo, e pure molto importante per la storia dell’estetica (forse un po’ meno per quella dell’allestimento) quell’opera iper-minimalista e mentale d’un artista di nome (il nome è superfluo) che il mattino,
avendo in odio ovviamente il senso della materia e dello sporcarcisi le mani, avendo in gran dispitto tutto quanto è perizia artigianale, abilità manuale e pure disprezzando in sommo grado il risultato artistico, vile e mercantile, telefona al suo gallerista il progetto di un’opera che vorrebbe realizzare, ma che resterà sulla carta.
Anzi, abbiamo usato una formula sbagliata: si tratta di raccontare un’opera, che ti piace solo d’immaginare mentalmente e che al limite il gallerista ha il diritto di vendere, al suo collezionista. Ma non come opera concreta, ovviamente, realizzabile: soltanto come immodificabile progetto virtuale. Tutto bene, ma a questo punto che guscio mai, che recipiente degno, che involucro realistico, può immaginare di proporre, può architettare, un architetto pur geniale, anche se d’animo non necessariamente archi-star (pensiamo per esempio al sommo Piano della Beyeler)? È inevitabile, non soltanto che gli venga la voglia, ma che gli nasca, imprescindibile e comprensibile, la tentazione di abbandonarsi alla libido della sostituzione, del rimpiazzo, della grandiosa supplenza. E se poi ne fuoriescono dei giocattoloni ambiziosi e divertiti, che cercano di occultare la povertà delle opere contenute e di sostituirsi alla penuria delle promesse interne, quasi mai mantenute, si può davvero incolpare gli architetti, assolvendo ed anzi difendendo i “poveri” artisti, vilipesi ed offesi? La cosa più divertente e stupefacente è che non sono tanto gli estetologi o i critici d’architettura ad avanzare questi lamenti o questi lestofanti j’accuse, del tutto corporativi, ma proprio quegli stessi artisti, che han provocato una simile lamentevole situazione od ancor peggio quei critici a-critici, che non hanno mai preteso di collaborare con alcun giudizio avveduto e serio al rischio di quanto è accaduto. Cioè al rischio che l’arte si riducesse a quello che oggi spesso è, universalmente: inessenziale e quasi inavvertibile, o trash. Si ricordi un esempio eloquente: di quando, all’inaugurazione di quel grande, simbolico monumento-scultura che era, per la sua prima agnizione, il Guggenheim di Bilbao, si doveva passare tristemente dallo spettacolo riverberante e sapientissimo del titanio d’involucro di Gehry (titanio: un termine visionario, da Sogno di una notte di mezz’estate) alla cracia dilettante e assai autunnale, altro che Shakespeare, al massimo Come le foglie di Giacosa! d’un vero quadraccio pasticciato di Cucchi, indimenticabile nella sua modestia d’immaginario... allora a quel punto, meglio mettere un Sassu, se non altro più onesto, nella sua penuria espressiva, come qualcuno aveva scritto. Ma vuoi competere con Gehry?! E non sarà mica colpa dell’architetto se l’arte ha espresso in questo ultimo di secolo solo queste pochezze (con pastigliette-prozac di Hirst)! E questo non per attaccare un artista fin troppo appoggiato come Cucchi (scelto proprio per non limitarsi soltanto alle miserie di certo concettualismo da tinello... ma è pur vero che la vecchia finta-pittura, pseudo-trasgressiva, che si fregia della coccarda della bad painting,
è, alla fine, ancora più insostenibile) ma per dimostrare che la statura d’un architetto (pur discutibile, per altri versi, e discussa, come Gerhy) non è lontanamente paragonabile o commisurabule ad un fenomeno fittizio e gonfiato, come fegato d’oca per fois gras per allocchi, quale quello della transvanguardia. E ci sono anche le controprove: è ormai da anni e anni che alle grandi, autentiche fiere internazionali, come Maastricht, Basilea o Miami, quelle cioè che danno il polso della verità, anche mercantile, non s’intravvede più un quadro che sia uno della transvanguardia, tranne forse qualche Paladino, che s’è sfilato presto dalla cordata, e Clemente, che ha ancora un po’ di pallida, non credibilità, ma udienza nercantile in Usa, mentre invece gli indiscutibili Melotti o Marini, Fontana o Burri, Manzoni o soprattutto l’Arte Povera non perde un colpo, anzi.
Poi, sarà banale dirlo, ma è ovvio che l’architettura, che è anche dispendio di tecnica e di fantasia, investimento di forze e di talento, studio d’abitabilità e di messa al prova dell’istinto inevitabile, e costruttivo, alla concretezza, non può certo abbassarsi a competere con il respiro corto dell’arte. Che purtroppo in questo decennio, snervata dalle innovazioni folgoranti ma pericolose delle avanguardie, s’è arresa: perdendo per lo più la grande partita. È sufficiente fare il confronto tra la Biennale Arte e quella d’Architettura, per avvertire l’abisso di sensatezze. Ovviamente esageriamo, tentiamo un discorso-limite, perchè il problema, che indubbiamente esiste, risulti meglio profilato. E del resto un “prodotto” in fondo, se non totalmente convincente, ma per lo meno effervescente, come il Maxxi, dimostra che è forse il contenitore giusto, inevitabile, per le opere che propone, così che la mi-
È ormai da anni che alle grandi fiere internazionali, che danno il polso della verità (anche mercantile) non si vede un’opera di transvanguardia scela di collaborazionismo impari è in fondo azzeccata. Sia per quanto riguarda le opere più delicate e se vogliamo dire “tradizionali” di De Dominicis, sia per quanto riguarda le idee installative o le ideuzze, video o terra-terra, d’alcuni gregari-riempitivi ammessi. Ma anche qui: l’obiezione che più sorprende è quella che proviene dagli artisti, con rivendicazioni giudiziose e reprimende che più banali e sconfortanti e perbeniste non si potrebbe (pari a quelle d’un giovane rivoluzionario su barricata in una casa occupata, che pretenda d’avere i calzini stirati giusti, dalla sua colf di famiglia). Sono spesso artisti non convocati o comunque pedanti nell’anima, che sostengono che questi grandi transatlantici dell’arte (in effetti il Maxxi è un museo ben calcolato, ma potrebbe anche essere, altrettanto funzionale, un aereoporto o una discoteca rock) non sarebbero adatti alle opere
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(che noia!), non han pareti sufficientemente caritatevoli per i loro capolavori, risultano invasivi e vampireschi, spropositati e concorrenziali. Ma allora, che avrebbero dovuto dire i “poveri” artisti dell’action painting o i nascenti provocatori della pop art, di quelle pareti sinusoidi ed in salita, del rivoluzionario Guggenheim di Wright?! Oppure della geniale “grotta”, dalle pareti in movimento, progettata da Kiesler, per la Galleria del XX Secolo di Peggy Gugghenheim, a New York, ma parliamo di anni Quaranta e Cinquanta?!
Che declino e deriva, davvero, nel mondo dell’arte di oggi! Apri un giornale, in queste ore, e scopri che persino il “pre-pensionato” dello scandalo, Maurizio Cattellan, che si fa sorprendere in quel gesto eroico, solo per lui ancora trasgressivo, e davvero anemico d’intelligenza, di servire una tomba a Craxi, da sostituire al monumento di Mazzini a Carrara e poi fa pure il gran censurato, perchè sovrintendenti e anarchici non glielo permettono.Come a dire che di autentico anarco-craxiano c’è rimasto solo lui, ebbene, in un’intervista che è deprimente, per quanta burocrazia di banalità della trasgressione impiegatizia veicola, casca puntualmente nella trappola: «Prendiamo gli spazi accartocciati, molto simpatici da fuori di Frank O. Gehry, l’architetto superstar del momento, non sai dove piazzare il tuo lavoro, ogni spazio è un ego, divora se stesso». Basta quell’aggettivo a dire tutto: “spazi simpatici”! Stiamo ovviamente dalla parte dell’ego divorante dell’architetto, piuttosto che dell’eghino rival-geloso degli artisti, come se poi ci volessero chissà quali spazi, alla Giulio Romano, per valorizzare il suo zigurattino di ammonticchiate riviste Flashart (guarda caso), il ditone che insulta i bancari o, eventualmente, il suo Craxi, con puttini alla Serpotta! Si ha l’impressione che Gehry per fortuna abbia altri parametri a cui rapportarsi, infischiandosene di queste melmette da tg regionale, ante-lucano. Certo, se poi si apre una buona silloge, anche fotografica, della storia della museografia novecentesca, ci si stupisce di vedere come il concetto stesso di museo, da teca-altare all’antica (Pergamo insegna) sia evoluta e forse in parte si sia inebriata, nell’arbitrio più totale, nell’assenza di contenuti interni. Si leggano le ghiotte pagine di Arbasino sulle costruzioni delle istituzioni Getty, in Le Muse a Los Angeles, per capire come le radici del problema siano antiche. Da un lato sembra pretenzioso protestare solo per i musei, quando Gehry ha osato costruire un negozio-binocolo o una casa-pesce. Ma anche qui, nessuno è mai contento. Se Meier progetta, per l’Ara Pacis, una teca troppo squadrata e intescambiabile, yankee, fiumi di proteste. Se Libeskind rischia la sua visione simbolica ed espressionista, pollici verso. Se Gehry ruba il mestiere agli scultori, che non vogliono più esserlo, ostracismo. Davvero, che ognuno reciti il sua mea culpa.
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l’approfondimento
Ed e David Miliband, Andy Burnham, Ed Balls e Diane Abbot si contenderanno la poltrona che fu di Tony Blair e Gordon Brown
La carica dei quarantenni
Il Labour prepara il Congresso di settembre che eleggerà il leader della «rivincita». Una battaglia dominata dai giovani state calda quella che attende il Labour Party alle prese con la scelta del leader che nel 2015 - o prima, come presumono molti tornerà a sfidare David Cameron. L’accordo tra i conservatori e i liberaldemocratici di Clegg è, infatti, un’incognita di quelle destinate a pesare con la sua ombra lunga sulla conduzione del governo inglese. Non solo i bookmakers, ma anche gli osservatori e gli analisti più attenti sono poco inclini a puntare molto sulla possibilità che l’anomala alleanza arrivi a fine legislatura. E allora il congresso del Labour di questi mesi finisce per destare molto più interesse di quanto ne avrebbe suscitato qualora al governo ci fosse oggi il solo partito Tory. Lo scadenziario del congresso, che in UK chiamano timetable, ha aperto ufficialmente le danze il 24 maggio scorso e concluderà tra quattro mesi, con l’annuncio del vincitore alla Conference 2010, il prossimo sabato 25 settembre.
E
Il Rule Book del Labour prevede che ogni candidato per poter concorrere debba ottenere l’appoggio almeno del 12,5% dei gruppo parlamentare alla Camera dei Comuni: 33 deputati. Entro il 26 luglio il timetable prevede la possibilità che le varie candidature in pista siano ulteriormente supportate dai
di Antonio Funiciello coordinamenti laburisti dei 635 collegi uninominali, dalle 14 Trade Unions, dai 13 deputati europei del Labour, dalla 15 Società Socialiste aderenti al partito (la Fabian Society è la più celebre tra queste).
Nel prossimo mese si potrà così già capire dove penderanno i pronostici, misurando l’orientamento della complessa base del partito. Il sistema elettorale adottato per la scelta del nuovo leader laburista è quello australiano, applicato ad un corpo di aventi diritto formato per un terzo dai parlamentari, un terzo dagli iscritti e un terzo dai partiti federati. L’australiano è un modello che interseca l’uninominale a turno unico con quello a due turni. Gli aventi diritto cioè votano una volta sola ma sulla scheda debbono esprimere una sorta di classifica di preferenze e non soltanto il nome del candidato preferito. Se c’è un candidato che ottiene il 50% più un voto di piazzamenti in prima posizione, l’esito è scontato. Nel caso in cui nessuno dei contendenti dovesse riuscire a scollinare cima 50%, il sistema s’incarica di scegliere il nuovo leader con un meccanismo di esclusioni e riconteggi. L’estate sarà utilizzata per far conoscere i candidato nei vari territori.
In carico alla struttura del partito saranno promosse una serie di iniziative pubbliche di confronto tra i candidati nei collegi elettorali, nelle sedi di partito, in quelle sindacali o di fondazioni o associazioni culturali, come anche nei luoghi di lavoro. L’obiettivo è quello di offrire agli aventi diritto tutte le informazioni possibili sui candidati e le loro proposte. A tale scopo saranno promossi decine di confronti tra i candidati stessi che non potranno sottrarvisi. I cinque pretendenti faranno molti chilometri in questa estate 2010, scorrazzando con i loro staff per tutto il Regno Unito, isole comprese.
Quattro sono quelli della fortysomething generation: la generazione dei quaranta e qualcosa. Sono i quarantenni Ed Miliband e Andy Burnham, il quarantatreenne Ed Balls e il quarantacinquenne David Miliband, tutti cresciuti a pane e New Labour negli anni felici di Blair e Brown. Ma oltre loro quattro, che si sono candidati a sprezzo di reciproche radicate amicizie, nonché dei più importanti legami di sangue, c’è un gran bel numero di quarantenni che li circonda e fa campagna per loro, coi più vecchi rimasti a fare da comprimari. Così come negli anni a guida
Neil Kinnock fu preparato il passaggio di consegne alla generazione Blair-Brown, allo stesso modo, negli anni più recenti del Labour al governo, il partito ha selezionato alcuni dei migliori giovani britannici per quel futuro che oggi corrisponde al presente. Giovani provati già trentenni in ruoli di governo e di direzione politica del partito, testati nei collegi elettorali uninominali e lasciati liberi di costruire una propria soggettività culturale e politica.
Il favorito David Miliband, blairiano, è il più “vecchio” dei contendenti. Nel 1994, appena eletto, Blair lo scelse per affiancarlo nel suo staff a uomini come Philip Gould, Peter Mandelson e Alastair Campbell, che erano stati vicini a Kinnock. David aveva ventinove anni: un’età in cui nel nostrano Partito Democratico al massimo guidi l’inutile organizzazione giovanile. Figlio di un intellettuale marxista riparato dalla Polonia in UK, David si era fatto le ossa nell’Institute for Public Policy Research, fondato alla fine degli anni Ottanta sul modello dei think tank americani da Patricia Hewitt, punta d’attacco dello staff di Kinnock. Scelto giovanissimo da Blair, David Miliband ha guidato la sua policy unit fino al
2001, quando è entrato in Parlamento ed è diventato vice ministro dell’Istruzione. Per poi in seguito ricoprire altri rilevanti incarichi ministeriali fino alla nomina, con Brown premier, a ministro degli Esteri tra il 2007 e il 2010. Attualmente è ministro ombra per gli affari esteri del Labour, nello shadow cabinet guidato temporaneamente da Harriet Harmann. Il fratello di David, il browniano moderato Ed Miliband, è al momento il più agguerrito sfidante del favorito. Ed è il “veltroniano” del gruppo, va pazzo per Bob Kennedy, è terzomondista, ambientalista e il suo libro preferito è Il giovane Holden di Salinger. Attualmente è ministro ombra per l’Energia e il Cambiamento climatico, ministero che ha tenuto sotto Brown tra il 2008 e il 2010. Entrato in Parlamento nel 2005, è stato da subito tra i più stretti collaboratori di Brown e uno dei più risoluti sostenitori del passaggio di testimone da Blair al successore poi sconfitto alle elezioni.
L’altro quarantenne in corsa è il super-blairiano ministro ombra alla Salute Andy Burnham, già ministro della Cultura, a Westminster dal 2001. Segue un altro browniano, Ed Balls, ministro ombra della Scuola, stesso incarico che ha avuto tra il 2007 e il 2010 nel governo Brown. Balls è in Parlamento dal 2005 e
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Dalla vecchia politica centralistica ai «nuovi strumenti di responsabilità dal basso»
«Con un vero federalismo cambieremo la Gran Bretagna» «Libertà e decentramento»: in un articolo-manifesto, i leader dei due partiti al governo disegnano la strategia di uscita dalla crisi. E non solo di David Cameron e Nick Clegg
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uando abbiamo costituito la nostra coalizione appena nove settimane fa, lo abbiamo fatto perché condividevamo una visione secondo cui il nostro Paese aveva bisogno di un governo forte e stabile per andare avanti in un momento di enorme difficoltà. Il Paese sta attraversando il più alto deficit in tempo di pace della sua storia, e l’inevitabile ottica a breve termine di una minoranza instabile di governo non avrebbe portato sufficienti benefici. Quindi dobbiamo mettere da parte le nostre differenze per lavorare insieme per l’interesse del Paese e dobbiamo lavorare per affrontare il debito della Gran Bretagna. Tuttavia, per entrambi, risolvere il problema delle finanze pubbliche è una questione di responsabilità, non una passione. Non siamo entrati in politica solo per far quadrare i bilanci. Entrambi nutriamo ambizioni per la Gran Bretagna: vogliamo cambiare il nostro paese nel modo migliore.Vogliamo vedere che le migliori scuole aprano i loro portoni anche ai bambini più poveri, vogliamo un servizio sanitario che sia di “serie A”per tutti, che le strade siano sicure, che le famiglie siano stabili e che le comunità siano forti.
Qualsiasi siano le differenze fra noi e i nostri partiti, entrambi crediamo fortemente che sia necessario dare alle persone maggiore potere sulle loro vite. È diventato sempre più evidente che possiamo essere un governo forte e riformatore se costruiamo partendo dagli istinti che condividiamo. Tuttavia il nostro impegno di delegare i poteri non è frutto di soli istinti; è frutto di un processo che si è rafforzato dalle prove del passato. Per decenni i governi hanno dato per scontato che l’unico modo di migliorare le cose fosse centralizzare. Certamente, il governo centrale ha un ruolo cruciale da svolgere, ma non può e non dovrebbe cercare di fare tutto. È tempo che lo stato centrale favorisca l’innovazione anche delle zone rurali, incoraggi le diversità e la sperimentazione. Sappiamo che non sarà facile. Sappiamo che la macchina politica ha una tendenza innata a centralizzare. Per questo motivo stiamo introducendo un nuovo modo di coordinare l’azione di governo. La corsa settimana abbiamo cominciato a pubblicare gli Structural Reform Plans (programmi di riforma strutturale), uno per ogni dipartimento di governo. Non fatevi ingannare dal nome secco. Si tratta di documenti radicali che cambieranno il funzionamento del governo. Ogni dipartimento
di governo ha il proprio programma, con una lista di obiettivi e scadenze da raggiungere. Fino ad ora, sembrerebbe che questo sarà l’ultimo governo con i propri Public Service Agreements (Accordi del Servizio Pubblico) e Prime Minister’s Delivery Unit (Ufficio di Distribuzione del Primo Ministro).
La differenza sta in quello che chiediamo che facciano i dipartimenti: non chiediamo loro di controllare le cose dal centro ma di realizzare strutture che permettano alle persone e alle comunità di acquisire il potere e il controllo per loro. Al posto dei vecchi strumenti di responsabilità burocratica - regolamentazione e obiettivi dall’alto in basso - ci sono nuovi strumenti di responsabilità democratica dal basso, quali la scelta individuale, la competizione, le elezioni dirette e la trasparenza. La decentralizza-
«Se riusciremo veramente a valorizzare individui e comunità, avremo un grande futuro a cui guardare»
zione comporterà diverse novità in diversi servizi. Nel programma per l’istruzione pubblicato la scorsa settimana identifichiamo il compito maggiore del Dipartimento per l’Educazione: rendere le scuole gratuite, incoraggiare le diversità e permettere alle persone di aprire nuove scuole, allargando quindi il monopolio di stato sull’istruzione. Al posto di insegnanti che pensano di dover far impressione sul dipartimento, vogliamo insegnanti che vogliano far impressione sui genitori che finalmente avranno la possibilità di scegliere dove mandare a studiare i propri figli. I bambini più svantaggiati potranno beneficiare di un“premio allievo”per cui le scuole che li accoglieranno potranno godere di incentivi, piuttosto che di incentivi concessi per allontanare questi bambini.
Oggi lanciamo il nostro Libro Bianco sulla salute. Siamo impegnati a aumentare le risorse del servizio sanitario nazionale in termini reali ogni anno di questo parlamento, ma siamo anche impegnati a riformare il sistema sanitario nazionale. Per contribuire a fare in modo che ogni centesimo venga usato in maniera efficace, taglieremo un miliardo di sterline all’anno entro il 2014/2015 dalle spese di burocrazia e sprechi. Il programma per la sanità, come tutti gli altri, la dice lunga sulla Coalizione, non dice solo che siamo impegnati a riformare, ma anche che ogni azione per concordare le nostre politiche ci ha resi più radicali sulla necessità di decentralizzare il potere. Questo unisce il pensiero conservatore su scelta e competizione con il pensiero, tipicamente liberal-democratico, che le democrazie locali possano creare una visione realmente radicale per il sistema sanitario nazionale, dando autorità di delega ai medici generali e dando ai pazienti molto più controllo, e garantendo una responsabilità democratica a quei consigli che si assumono più oneri, soprattutto in tema di sanità pubblica. Affrontare la questione del deficit sarà doloroso, ma se faremo in modo che la riforma vada di pari passo, la Gran Bretagna sarà più forte, più libera e più corretta. Noi speriamo e ci aspettiamo che le persone quando ripenseranno al periodo in cui il governo centrale deteneva tutto il potere lo considereranno arcano e bizzarro. Se continueremo su questo cammino avviato da questi programmi, se saremo abbastanza audaci da lasciare i controlli del governo e se riusciremo veramente a dare i poteri alle persone e alle comunità, questo paese avrà un grande futuro a cui guardare.
ha fatto in tempo ad avere incarichi minori anche nell’ultimo esecutivo Blair. Si è fatto le ossa nel più vecchio tra i pensatoi del circuito laburista, la Fabian Society, che però gli ha voltato bruscamente le spalle nel congresso in corso. Nel voto registrato a metà giugno, però, Ed Balls è finito ultimo: primo Ed Miliband, secondo il fratello David.
Un quinto incomodo si è inserito nella corsa per la leadership laburista: la deputata cinquantasettenne Diane Abbott. Prima parlamentare nera di Westminster, la Abbott è una specie di Rosy Bindi britannica. Collocata all’estrema sinistra nel partito, è stata una dei più feroci accusatori di Blair sui fatti iracheni e, durante l’intero decennio blairiano (19972007), non ha mancato di osteggiare strenuamente dall’interno l’azione riformatrice dell’ex premier. La Abbott, il cui massimalismo la rende incompatibile con la leadership, doveva essere un candidato senza nessuna speranza di successo, ma essendo l’unica donna in campo e conducendo una campagna molto battagliera, è in predicato di ottenere un buon risultato. In verità, la sua candidatura è un colpo di perfetta strategia politica del giro di David Miliband. Mancando difatti la Abbott della grande parte di quei 33 parlamentari indispensabili per candidarsi al congresso, è stata soccorsa niente meno che da David Miliband, che ha firmato personalmente per la Abbott assieme a una ventina di suoi sostenitori. La motivazione ufficiale del suo giro giustifica la cosa in virtù della necessità di avere in campo una contendente donna. In realtà David Miliband ha voluto ingombrare lo spazio politico della sinistra interna del Labour a danno del fratello. L’affollamento di ben tre candidati (Ed Miliband, Balls, Abbot) in quello spazio del partito, va tutto a danno del più forte tra i “sinistri” (Ed Miliband), favorendo per la vittoria finale David, che occupa il centrodestra del partito con una certa facilità, vista la debolezza di Burnham che dovrebbe fargli da questa parte concorrenza. Il congresso è, insomma, già entrato nel vivo dalle sue fasi preliminari e promette di avvincere il mondo politico britannico. Chiunque vincerà imporrà certo al sua linea politica, come fecero Blair e Brown nel ’94, ma terrà in squadra (cioè nel governo ombra che andrà a presiedere) gli altri quarantenni sconfitti. La reattività del Labour che, dopo la sconfitta elettorale, ha immediatamente messo da parte i vecchi per fare spazio ai giovani, dimostra che il partito è in salute e pronto a sfruttare anche il più piccolo passo falso della strana coppia Cameron-Clegg.
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Parigi. Il disegno di legge sarà esaminato dal Senato a Settembre on una schiacciante maggioranza, 335 sì e un no, l’Assemblea nazionale francese ha approvato in prima lettura il divieto del velo integrale in pubblico. A favore ha votato in blocco la destra, mentre la quasi totalità dell’opposizione di centrosinistra ha rifiutato di partecipare al voto. Adesso il presidente Nicolas Sarkozy punta a far passare la normativa anche in Senato (e senza modifiche) a settembre, il che secondo un po’ tutti gli osservatori dovrebbe effettivamente accadere. La normativa prevede una multa di 150 euro e/o l’obbligo di corso di educazione civica per le donne che portino il velo integrale in pubblico, e 30mila euro di multa per gli uomini che obblighino donne a indossare l’indumento. La sanzione può salire a 60mila euro se le vittime dell’imposizione sono minorenni.
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Non mancano problemi, però, soprattutto dal punto di vista giuridico. Sono in molti a dubitare che questa legge possa superare il vaglio della Consiglio Costituzionale (l’equivalente della nostra Corte Costituzionale). Del resto, in un parere non vincolante, il Consiglio di Stato (la più alta corte amministrativa del paese) ha espresso forti riserve sul divieto generalizzato, raccomandando di limitarlo solo ad alcuni luoghi pubblici (amministrazione, trasporti, negozi). Non a caso il capogruppo della stessa Ump, il partito di Sarkozy, JeanFrancois Coppè (detto il Sarkò bis), ha avvertito di voler egli stesso rivolgersi al Consiglio Costituzionale per verificare che la normativa sia conforme alla carta fondamentale francese. La legge, già prospettata a gennaio
La Francia di Sarkozy si toglie il burqa
la sua buona parte della Francia: Secondo un sondaggio commissionato da Le Point, l’opinione pubblica francese è d’accordo con il presidente: il 57 per cento del campione interpellato si sarebbe infatti pronunciato contro l’utilizzo del burqa.
Con 355 sì e un no, l’Assemblea nazionale impone multe salatissime a chi non si adegua
il velo integrale è allo studio, oltre che in Francia, in diversi Paesi europei, fra cui l’Italia, l’Olanda, la Danimarca. Da noi, una legge del 1975, varata per ragioni di ordine pubblico, vieta di coprirsi il volto (con fazzoletti e caschi da moto) nei luoghi pubblici. Appellandosi a questo, la scorsa estate alcuni sindaci della Lega Nord hanno chiesto di vietare, con disposizioni amministrative locali, tanto il velo integrale che il “burkini” (un costume da bagno che copre interamente il corpo della donna). Infine, la Lega ha presentato un disegno di legge nell’ottobre scorso che prevede fino a due anni di carcere e 2mila euro di ammenda per coloro che «in ragione della propria fede religiosa rendono difficile o impossibile la propria identificazione». Nei Paesi Bassi sono allo studio diversi progetti di legge sul divieto del niqab e del burqa, in particolare nel settore dell’istruzione pubblica e dei servizi amministrativi. In Danimarca il governo conservatore sta discutendo l’opportunità di limitare l’uso del velo integrale negli spazi pubblici, a scuola e nei tribunali. Nel Regno Unito non esiste alcuna legge che vieti il burqa o niqab e il governo ha riaffermato di recente che non intende legiferare in materia. Il ministero dell’educazione ha comunque emesso delle direttive che consentono ai direttori delle scuole pubbliche di vietare il niqab. Possibilità a cui i presidi hanno attinto a piene mani. Anche in Austria si è aperto il dibattito, su proposta del ministro socialdemocratico della famiglia, Gabriele Heinisch-Hosek, preoccupata dal crescente numero di donne velate nel paese. In Belgio, dopo anni in cui numerosi comuni (praticamente il 90 per cento) hanno vietato il velo integrale nei luoghi pubblici, basandosi su regolamenti municipali che vietano di indossare maschere al di fuori del periodo di carnevale, è stata approvata una legge in materia lo scorso maggio. Eh sì: non è stata la Francia laica e anticlericale a legiferare per prima in materia. Ma il Belgio monarchico, di tradizione cattolica e ben poco laicista.
di Luisa Arezzo
sta dallo stesso Nicolas Sarkozy, che sin dal giugno 2009, intervenendo davanti alle Camere riunite in sessione straordinaria a Versailles (non accadeva dal 1848) aveva definito contrario ai valori della Francia l’uso del velo integrale: «Il problema del burqa non è una questione che investe la religione, ma la dignità delle
Se porti il velo non sali sull’autobus, non vai a parlare con i professori di tuo figlio, non vai né alle poste, né all’ospedale, né a lavorare dalla Commissione di studio istituita dal Parlamento francese un anno fa (la cosiddetta commissione burqa) che sta portando la Francia verso il definitivo divieto del velo integrale nei luoghi pubblici, non fa sconti di sorta. Se porti il burqa o il niqab non sali sull’autobus, non vai a parlare a scuola con i professori di tuo figlio, non vai né alle poste a spedire una lettera né all’ospedale a farti curare. E tantomeno puoi lavorare in un ufficio pubblico. Una misura richie-
donne - aveva detto il presidente. È il simbolo dell’asservimento e della sottomissione. Il burqa non sarà mai il benvenuto nella Repubblica francese». I limiti imposti al provvedimento (Sarkozy avrebbe preferito un divieto totale ma non ha avuto la sponda dei socialisti) sono dovuti al timore che il Consiglio costituzionale possa bocciare la normativa in quanto lesiva del fondamentale esercizio delle libertà di culto e di opinione. Ma è anche vero che Sarkozy ha dal-
Caso Bettencourt: il ministro rinuncia all’incarico Ump
Woerth pronto a lasciare Il ministro del Lavoro, Eric Woerth, lascia l’incarico di tesoriere dell’Ump, il partito del presidente francese, Nicolas Sarkozy. Lo ha annunciato lui stesso ai giornalisti al termine di una riunione di governo. «Devo guardare il calendario, naturalmente lo farò», ha detto Woerth rispondendo a una domanda su quando avrebbe lasciato l’incarico. È stato Sarkozy a “consigliare”a Woerth di lasciare l’incarico che manteneva da otto anni, per arginare lo scandalo Bettencourt, in cui il ministro e tesoriere è accusato di avere ricevuto dall’ereditiera dell’Oréal finanziamenti illeciti per la campagna elettorale di Sarkozy nel 2007. Lunedì sera, nel suo intervento televisivo sull’emittente pubblica France 2, il presidente della Repubbli-
ca francese e leader dell’Ump ha difeso il titolare del Lavoro, ma al contempo gli ha “consigliato”di abbandonare l’incarico di tesoriere del partito per «dedicarsi esclusivamente alla riforma delle pensioni» (riforma varata proprio ieri dal governo). Sarkozy ha inoltre sottolineato che l’ispettorato delle Finanze ha “prosciolto” Woerth dall’accusa di aver favorito fiscalmente Liliane Bettencourt. Woerth è coinvolto in uno scandalo relativo a dei presunti finanziamenti illegali del partito: nel 2007, in qualità di tesoriere, avrebbe ricevuto 150mila euro da Liliane Bettencourt, ereditiera dell’Oréal e considerata la donna più ricca di Francia, per finanziare la campagna elettorale di Sarkozy.
La prospettiva di vietare
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Usa, a 4 mesi dalle elezioni sondaggi a picco per il presidente
Volgograd la vuole alla Duma, i blog innamorati di lei
Sei americani su dieci non credono più a Obama
Anna la rossa, (la bella spia) spopola fra i russi
WASHINGTON. Sondaggi a picco per il presidente degli Stati Uniti Barack Obama a quattro mesi dal voto di metà mandato. Secondo l’ultimo rilevamento AbcNews/Washington Post quasi sei americani su dieci non hanno fiducia nella capacità del presidente di prendere le decisioni giuste per il paese. «Yes we can» e «Hope we can believe in» (una speranza in cui posiamo credere, ndr), gli slogan dell’entusiastica campagna elettorale del 2008 per la Casa Bianca, sono insomma lontani anni luce. Una chiara maggioranza di americani disapprova inoltre quello che sta facendo Obama per l’economia. Il presidente raccoglie ancora la stima dei membri del Congresso, ma anche su questo fronte la forbice si sta chiudendo. Sette elettori registrati su dieci dicono di non aver fiducia dei parlamentari democratici e una percentuale analoga ha altrettanto bassa stima dei colleghi repubblicani.
MOSCA. Continua in Russia e in America la guerra delle spie innescata il 27 giugno con l’arresto negli Usa di dieci 007 russi, mentre uno era riuscito a fuggire e un altro, un giovanotto di 23 anni, sarebbe stato preso proprio ieri. Ma fra i protagonisti del caso è padrona indiscussa Anna Chapman, amata e ammirata dai compatrioti russi come “Anna la Rossa”,“l’Agente 90-60-90”,“Anna la Bella”. La città di Volgograd, sul fiume Volga (ex Stalingrado), dove l’avvenente spia ha vissuto a lungo prima di farsi agente dei Servizi segreti russi, le ha dedicato una immensa quantità di iniziative, compreso l’offerta di un seggio parlamentare. Tutti i giornali moscoviti scrivono di lei, tutti i frequentatori dei siti
Oltre un terzo degli americani - il 36% - non si fida della classe politica, sia che occupi la Casa Bianca che Capitol Hill. Tra gli indipendenti la delusione è ancora più alta: due terzi degli elettori si dicono insoddisfatti o addirittura arrabbiati per come sta funzionando
Le mogli dei dissidenti esultano a L’Avana
La svolta di Cuba, liberi sette dissidenti È la prima “tranche” del cosiddetto Gruppo dei 75 di Antonio Picasso a oggi inizia una nuova pagina di storia per tutti i cubani». È con questa breve dichiarazione che il primo gruppo di sette dissidenti cubani, arrivati ieri a Madrid, si è presentato alla stampa. Secondo gli accordi presi fra il governo di Cuba, quello spagnolo e la Santa Sede, dovrebbero essere 52 gli oppositori del regime prossimamente rilasciati dalle carceri dell’Avana. Ricardo Gonzalez Alfonso, Antonio Villarreal Acosta, Lester Gonzalez Penton, José Luis Garcia Paneque, Pablo Pacheco Avila, Omar Moisés Ruiz Hérnandez e Julio Cesar Galvez Rodriguez, questi i nomi dei prigionieri che, accompagnati dalle rispettive famiglie, sono arrivati nella capitale spagnola. Si tratta della prima rappresentanza del cosiddetto “Gruppo dei 75”: un movimento di opposizione i cui membri, nel 2003, vennero condannati a 28 anni di carcere. La scelta di liberare subito queste sette persone è stata dettata dal loro stato di salute. Più volte Amnesty International aveva lanciato un appello affinché le autorità carcerarie di Cuba alleggerissero le catene che cingevano le caviglie di questi dissidenti. Villarreal Acosta infatti era ricoverato da mesi in un ospedale psichiatrico, mentre a Ruiz Hérnandez è stato diagnosticato un attacco di tubercolosi. A scorrere la lista, si nota che essa è composta unicamente da giornalisti e attivisti politici. Non è presente nessun criminale comune, come invece alcuni osservatori filo-castristi in Europa hanno malignamente ipotizzato. Gonzalez Alfonso è forse il più noto tra i rilasciati. Nel 2008, Reporters sens frontières lo ha nominato “Reporter dell’anno”, per il suo impegno come corrispondente da una terra dove non esiste democrazia. Ruiz Hérnandez e Pacheco Avila sono suoi colleghi.Villarreal Acosta, Gonzalez Pentòn e Garcia Paneque sono invece esponenti di gruppi politici. Galvez Rodriguez è un sindacalista. Si tratta di personalità con un’estrazione politica di stampo socialista, lontana quindi dall’atteg-
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giamento filo-Usa che ispira molti altri fuoriusciti da Cuba, ora residenti in Florida. Durante la primavera di sette anni fa, Fidel Castro diede l’ordine per l’esecuzione di una vera propria “purga” repressiva contro l’opposizione. Era la “Primavera negra de Cuba”. Il regime approfittò del fatto che gli Stati Uniti avessero appena cominciato la guerra in Iraq. Il Golfo del Messico quindi era escluso dai riflettori mediatici e della diplomazia mondiale.
Va detto che la giurisdizione cubana non contempla lo status di “prigioniero politico”. Il “Gruppo dei 75” quindi venne incriminato per ragioni legate alla sicurezza nazionale, con una sentenza che etichettava i suoi membri come “prigionieri di coscienza”. Il governo di Cuba sottolinea da sempre che le libere professioni di giornalisti e le opposizioni politiche di vario titolo siano una copertura per gli agenti al soldo della Cia. Adesso la testimonianza di questi dissidenti circolerà sulle pagine della stampa mondiale. Gli accordi con la Spagna e il Vaticano non prevedono che i rilasciati siano vincolati dal silenzio. Anzi, non essendo riconosciuti come esiliati politici, bensì come immigrati, potranno circolare liberamente, rientrare in patria in qualunque momento e raccontare la loro esperienza nelle carceri cubane. Cile e Stati Uniti, a questo proposito, hanno offerto per primi la loro ospitalità. L’episodio segna un nuovo passo nel tramonto del sogno di Castro e Che Guevara. La fine del socialismo reale è dietro l’angolo e il rischio che l’isola ceda al neo-colonialismo made in Usa è quasi una certezza. Raul Castro, alla guida del paese da poco più di due anni, si sta muovendo affinché l’indipendenza cubana venga parzialmente conservata, per opera della Chiesa cattolica e dell’Europa. In questo il ruolo della Spagna - primo investitore occidentale sull’isola - è quello di apripista. Mentre Fidel Castro torna in televisione bersagliando l’America di una retorica antiquata, suo fratello sta cercando di salvare il paese rimettendosi al male minore.
Condannati nel 2003 a 28 anni di carcere sono stati rilasciati per le precarie condizioni di salute. Ieri l’arrivo a Madrid
il governo federale. Solo il 43% adesso approva quel che sta facendo Obama per l’economia, mentre il 54% disapprova. Su questo fronte anche un terzo dei democratici è pronto a bocciare il suo presidente. Sulla questione della leadership il 58% non crede che Obama sia in grado di prendere decisioni giuste per l’America contro un 42% che continua a riporre fiducia nell’inquilino della Casa Bianca. Più in generale, l’inchiesta registra un’enorme diffidenza nella politica: solo il 26% degli elettori è pronto a sostenere i propri rappresentanti al Congresso, il 62% è incline a votare qualcuno di nuovo.
blog targati .ru sono innamorati della loro “Bella Otero”. Con Anna, altri nove 007 sarebbero al momento nel sobborgo moscovita di Iasienievo, ospiti dei Servizi segreti russi (Svr), per risolvere i fatti inerenti alla scoperta americana della rete spionistica. Washington aveva accettato nei giorni scorsi di rilasciare i dieci contro quattro spie filo-occidentali detenute in Russia, e lo scambio è stato effettuato con gli auspici di Vienna.
Un undicesimo russo, Christopher Metsos, di 55 anni e con passaporto canadese, è riuscito a fuggire a Cipro prima di venire colto sul fatto, ma è stato fermato dalla polizia cipriota mentre cercava di partire per l’Ungheria. Un dodicesimo agente, di 23 anni e cittadino russo, al momento senza nome, sarebbe da ieri in mano alla Cia. Secondo le agenzie russe, l’intelligence ha già offerto ai suoi dieci agenti di cambiare nome e città quando avranno finito con gli interrogatori di rito. Mentre le pedine del gioco di spie fra Russia e America fanno il loro corso, è comunque una sola persona ad attirare gli sguardi dei media e della gente: Anna Chapman, nata nel 1982 da un agente segreto dell’allora Kgb sovietico, Vassili Kishenko, nella cittadina di Voronesh.
cultura
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Riletture. Il rapporto travagliato ma solidissimo con la fede sta alla base dei rapporti che legarono due dei nostri maggiori artisti dell’Ottocento
Gioachino, il milanese Sono numerose le tracce dei «Promessi sposi» di Manzoni nei sonetti del Belli. Tutte nel segno del bisogno di conoscenza di Sabino Caronia crive Pietro Paolo Trompeo in Perpetua a Roma: «Il Belli mirava al sodo e per lui il sodo era la superiore eticità del Manzoni che fa tutt’uno con l’arte del narratore e dello scrittore». Belli conobbe il romanzo di Manzoni durante il suo primo viaggio a Milano nell’estate del 1827, o poco poi, mentre della primavera-estate dell’anno seguente dovrebbe essere l’indice che se ne legge nel primo volume dello Zibaldone. Appunto del 1827 è l’esemplare dei Promessi sposi di sua proprietà che reca le sue postille autografe. Sulla guardia del terzo volume di quell’esemplare del romanzo manzoniano Belli annotava «Cavata da tutte le sue parti una sostanza, e, da questa, una idea, io dico a proporzione: questo è il primo libro del mondo» e su tutti e tre i frontespizi un emistichio di Dante: «E quel conoscitor...» (Inferno,V, 9) che, come scrive giustamente Eurialo De Michelis in Il Belli e il Manzoni, «vuole essere tributo di ammirazione al Manzoni come indagatore e giudice dei vizi dell’animo umano – le ‘peccata’ –».
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Per Belli l’attenzione a Dante è sempre l’attenzione all’immagine del poeta come cantor rectitudinis, un’attenzione testimoniata da quanto si legge in nota al sonetto L’aribbartato e dalle cosiddette Annotazioncelle alla Commedia. E qui l’emistichio dantesco sembra voler più precisamente definire la natura dell’ammirazione di Belli per Manzoni riconosciuto come conoscitor, dove il vocabolo tecnico usato per indicare il giudice, dal latino cognitor, non può non avere lo stesso significato che ha nel contesto generale del quinto canto del poema dantesco dove è appunto riferito a Minosse nella sua qualità di giudice. A quella lode, sempre secondo la giusta indicazione di Eurialo De Michelis, si deve riportare anche la postilla di poche parole illeggibili in margine alla lista dei processi agli untori nell’ultimo capoverso del capitolo XXXII. L’ossessione belliana del peccato origina-
le trova significativo riscontro nel capolavoro manzoniano, in quella «nozione del male d’origine che tutto investe» per cui I promessi sposi si possono considerare, scrive Ferruccio Ulivi, un apologo «non già della Provvidenza, […] ma del peccato originale».
Si pensi al commento metanarrativo alla fine del capitolo XXXI, che chiama in giudizio «noi uomini in generale», o meglio come era detto nel Fermo e Lucia «tutti noi figli d’Adamo», con una formula per indicare la comune condizione umana che si ritrova nel sonetto belliano La carità e fa riferimento a una stessa visione
«Questo passo bellissimo del libro I, canto XV dei Re, siccome prova dell’imperscrutabile giustizia di Dio, fa eccellente riscontro alla solidarietà di Adamo con tutti i suoi discendenti». Appunto in conseguenza dell’idea dell’immanente peccato sembra nascere il sentimento del giudizio.
Nel sonetto Er Zignore e Caino è quel motivo popolare di Caino nella luna («non v’ha buona madre che non mostri ai figlioli la luna piena dicendo loro: vedi figlio quella faccia? È Caino che piange») che poi ritorna in La faccia della luna dove è ripresa significativamente la credenza per cui la faccia di Caino è destinata a rimanere esposta fino al giorno del giudizio universale per ricordare all’uomo la colpa del peccato originale. A pro-
Molti critici, nel tempo hanno ricostruito il legame tra il romanzo e i versi, anche a partire da singole parole
angosciosa: «Tutti l’ommini sò fijji d’Adamo». In Belli come in Manzoni è lo stesso riferimento al pessimismo teologico agostiniano, la stessa idea dell’immanente peccato, quell’idea del peccato originale che è sentito come proprio individuale peccato. In Lo sbajo massiccio (son.1433), come mette in evidenza Gibellini, «l’eguaglianza è nel male: nel sentimento enorme dell’umana caduta, che dà a questi versi i riverberi giansenistici del primo Manzoni». E in nota al sonetto Chi fa arisceve (son.1825-1826), uno degli ultimi in ordine di tempo tra i sonetti raggruppabili in una ideale Bibbia del Belli, il grande poeta romanesco poteva commentare sarcasticamente:
posito di quel sonetto, Roberto Vighi ha osservato che l’avvio è «narrato come un interrogatorio giudiziario seguito da sentenza». Ha scritto Silvio D’Amico in Bocca della verità: «Eppure, eppure si guardi bene in fondo: neanche questo pessimismo è a oltranza. Per il poeta c’è nel Romano anche plebeo un senso segreto, ma imperioso e innato: quello della Giustizia. È il senso che gli rende impossibile la rassegnazione passiva all’iniquità: che permane e resiste, pur sotto la maschera virile del suo creduto scetticismo. E ci sono, nelle storture della superstizione in cui la sua ignoranza ha stravolto il Vangelo, residui e fermenti di un’aspirazione all’Eterno. D’una tale aspirazione il popolano del Belli non sa, non può darsi figure diverse da ciò che, alla sua fantasia, suggeriscono le grandi chiese barocche tra le quali è nato e vive. Ma anche la sua è una sorta di
aspettazione messianica; anche lui, soprattutto lui, invoca l’adempimento della promessa essenziale contenuta nel Testamento nuovo, quella del Giudizio riparatore».
E in un breve e penetrante saggio su Belli e Gogol Leonardo Sciascia, a proposito dell’impressione che dovette esercitare su Gogol la lettura dei Sonetti belliani, conclude: «Quella rappresentazione così corale e drammatica, così implacabilmente squarciata, quello ‘spaccato’ di vita investito da una greve luce d’apocalisse, sospeso come dentro l’occhio spietato di un giudice, dovette essere irresistibile per l’autore del Revisore. Se un ‘revisore’ Gogol ha immaginato, - non quello finto e ‘fisico’, ma quello vero e ‘metafisico’, quello che la guardia comunale annuncia nell’ultima battuta della commedia e che troverà inermi e beffati i protagonisti – eccolo quel ‘revisore’ nel salotto della Wolkonski, “con la faccia amara tinta d’itterizia” sulla quale invano avresti aspettato un sorriso. Così lo videro, rispettivamente, lo Gnoli e il Della Spina: e certo anche il grande scrittore russo». Il sentimento del giudizio si collega sempre in Belli ad un anelito di Assoluto. In lui come in Manzoni contro il pericolo del relativismo etico si pone l’esigenza di affermare che la verità è assoluta e non relativa, contro quello che è invece, come scrive Albino Luciani, il futuro papa Giovanni Paolo I, in Illustrissimi, «un autentico schiaffo alla dignità dell’uomo e alla bontà di Dio che ha creato l’uomo capace di certezze».
È stato sottolineato il carattere ‘antifrastico’ dei sonetti belliani soprattutto in materia di religione. In proposito Giuseppe Paolo Samonà, riprendendo la distinzione di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ricordata da Francesco Orlando, può parlare di un Belli «magro» per cui, soprattutto in materia di religione, il non detto conta più del detto. In questa luce si possono intendere meglio le due postille più propriamente religiose apposte dal
Belli al romanzo manzoniano che non a caso sono relative ai capitoli XXII e XXIII, dove è presentata la figura del cardinale Federigo Borromeo. La prima riguarda la considerazione manzoniana sul «non ci esser giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio» a conferma della quale il Belli può scrivere «E così il P. [Papa], padrone di tutti, è il S.S.D. [Servus Servorum Domini]». Non si può fare a meno di richiamare il sonetto L’abbrevi der Papa (1404), segnalato da Vighi: «sce se dichiara nostro servitore / ma servitore a chiacchiere, s’intenne». Ma si deve ricordare anche Er zucchetto der Decàn de Rota (1506). La seconda riguarda il passo dove le lacrime ardenti dell’Innominato cadono «sulla porpora incontaminata di Federigo» e il Belli postilla con tre esclamativi: «Porpora incontaminata!!!». Non si può fare a meno di richiamare i versi noti del sonetto La porpora (761): «Ch’edè er colore che sse vede addosso / A ste settanta sscimmie de sovrani? / Sì, ll’addimanno a vvoi: ch’edè cquer rosso? / Sangue de Cristo? Nò: dde li cristiani». Ma si può citare anche Er bordello scuperto (1384) dove non a caso Belli in nota sente l’esigenza di indicare il nome del cardinale prota-
cultura Qui accanto, un’incisione dedicata ai «Promessi Sposi» di Alessandro Manzoni (qui sotto, nel celebre ritratto di Hayez). Nella pagina a fianco, un altro ritratto famoso: quello del grande poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli
gonista dell’incidente descritto, Domenico De Simone.
Viene naturale, a proposito di quel sonetto, pensare alle pagine iniziali di Todo modo dove il protagonista, un pittore miscredente, capita per caso nell’albergo di un sacerdote imprenditore in cui un gruppo di notabili democristiani si dà ogni anno appuntamento per gli esercizi spirituali e, assistendo all’arrivo delle prime quattro auto da cui scendono quattro prelati, osserva: «Quando furono insieme, mi accorsi che uno dei tre aveva lo zucchetto rosso invece che viola. Un cardinale: e lo distinsi, con scarso rispetto, debbo ammetterlo, per il ricordo di un verso del Belli,“se levò er nero e ce se messe er rosso”: di quando una pattuglia di gendarmi fa irruzione in un postribolo, e il brigadiere che la comanda si vede venire incontro, “serio serio”, un prete che solennemente, togliendosi lo zucchetto nero e mettendosi quello rosso, si metamorfosa in cardinale: con grande confusione del brigadiere». Come non ricordare le parole di Leonardo Sciascia in quella introduzione a La colonna infame che è significativamente intitolata, da una citazione manzoniana, Quel che è sembrato vero e importante al-
la coscienza: «…il moralismo appunto è in Manzoni molto più prepotente delle sue credenze religiose…»? E come non ricordare anche quanto Sciascia scrive subito prima a proposito di Verri e Manzoni: «Più vicini che all’illuminista ci sentiamo oggi al cattolico… La giustezza della visione manzoniana possiamo verificarla stabilendo una analogia tra i campi di sterminio nazisti e i processi contro gli untori, i supplizi, la morte… Il passato che non c’è più - l’istituto della tortura abolito, il fascismo come passeggera febbre di vaccinazione – s’appartiene a uno storicismo di profonda malafede se non di profonda stupidità. La tortura c’è ancora. E il fascismo c’è sempre»?.
È la necessità manzoniana di non arrendersi alla fatalità del male ma di darsene una ragione col riportare l’interrogazione dalla Provvidenza (il tragico dilemma di «negare la Provvidenza o accusarla» come don Abbondio che si sentiva in credito con la Provvidenza perché non ci si era messo da sé in quella situazione) all’uomo, dalla oggettiva responsabilità della storia alla personale responsabilità dei giudici (la coscienza della possibilità delle scelte che in qualsiasi condizione storica
l’uomo ha la facoltà di compiere). Vien fatto di pensare a quanto scrive Mario Pomilio in Lettera a un amico: «Quel che più mi fa paura, a dirtela altrimenti, dello storicismo, è la conseguenza che se ne può trarre della relatività dei valori etici: un atto è “morale”o giustificabile in questa fase storica, il suo valore etico si dissolve, è superato in quest’altra fase. È ‘l giochetto cui ci fanno assistere i poststoricisti odierni, che dietro le corazzature fenomenologiche vanno predicando l’astensione, momentanea o no, dal giudizio: qualcosa che in fondo ne fa soltanto dei feticisti della storia, i nuovi fans dell’atto puro. È chiaro che, data questa mia posizione, io finisco per incontrare la condizione religiosa, o la tematica religiosa, in un ambito particolare, simile, ritengo, a quello dei secentisti francesi, che mi sono del resto molto cari. Potrei forse definire il mio un cristianesimo etico più che metafisico, e diverso quindi dal tuo. Più che il senso dell’es-
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sere, vi sovrasta il senso del fare, e più che una tentazione mistica, un’esigenza di razionalità. Ma è comunque dal sentimento, o dal bisogno, d’assoluti morali che operino nella storia o facciano da poli d’orientamento in essa che nasce la stessa mia mitologia letteraria».
Ma ritorniamo sul tema del giudice e del giudizio, con la contrapposizione tra «drento» e «fòra», messa in evidenza già da Vigolo, significativamente svolto in Er povero ladro (1026): «Nun ce vo’ mmica tanto, Monziggnore, / De stà llì a sséde a ssentenzià la ggente, / E dde dì: “Cquesto è rreo, quest’è innoscente”. / Er punto forte è dde vedéjje er core. // sa cquanti rei,
de drento, hanno ppiù onore / Che cchi, de fòra, nun ha ffatto ggnente? / sa llei che cchi ffa er male e sse ne pente / È mmezz’angelo e mmezzo peccatore?». Ora appunto il tema del decoro (del lascià sarva l’apparenza, della dissimulazione onesta) è toccato in vari sonetti tra cui Er decoro (425: «Possibbile che ttu cche ssei romana / Nun abbi da capì sta gran sentenza, / Che ppe vvive in ner monno a la cristiana /Bisoggna lasscià ssarva l’apparenza!») ed in proposito è stato richiamato il passo dell’indice delle Rivoluzioni d’Italia di Carlo Denina nel nono volume dello Zibaldone, terminato da Belli il 25 novembre 1831, lo stesso giorno non a caso del sonetto Er giorno der giudizzio, data a partire dalla quale compare nei sonetti il tema del decoro: «l’obbligo che essi (i cardinali) aveano, e che doveano pur adempiere almeno esternamente e per rispetto del proprio onor mondano e per decoro, voce propria e natia Romana, serviva d’occa-
sione, di stimolo e d’aiuto alle persone religiose e zelanti a promuovere la vera pietà cristiana e la fede cattolica».
Sul tema del decoro si può vedere Er decoro de la mediscina (1306) con il motivo dell’«ammazzà ppe cconveggnenza» e L’omo de monno (1779): «Le conosco per aria io le perzone, / e nnu le porto in groppa, nu le porto. / Scusateme, er discorzo è ccorto corto: / chi ffa er birbo, io [lo] tengo pe un briccone. // Nun zo, ppenzerò mmale, averò ttorto, / forzi me sbajjerò, sarò un cojjone, / ma mme la stiggnerebbe viv’e mmorto / che ll’omo è ffijjo de le propie azzione. // Io ve parlo da povero iggnorante, / perché ccredo c’ar monno l’azzionacce / siino sempre l’innizzio der birbante. // Nun c’è bbisogno d’èsse ito a scola / pe ddì cche ssi oggni cosa tiè ddu’facce / l’omo de garbo n’ha d’avé una sola». Nella lettera a Melchiorre Missirini del 18 giugno 1834, che costituisce una sorta di cartone preparatorio e si può considerare un ideale commento del sonetto, Belli scrive: «Sulle parole di sconforto, con le quali pure mi avete alcun poco amareggiata la piacevole vista de’ vostri caratteri, io non so che dirvi, al buio qual sono del tenore delle disgrazie onde vi dite travagliato. Queste, già mai non mancano alla vita, e meno a quella de’ buoni e degli innamorati degli uomini e del loro bene. Di qualunque natura poi elle si siano, molto disagevole riesce consolare un sapiente, il quale, a malgrado della sua cognizione del mondo e della trista parte che vi tocca alla virtù, ti dice pure: io sono infelice. Ogni genere di conforto tratto dagli aiuti della filosofia egli già lo conosce, e inutile troppo gli verrebbe da altri quando nol trovò efficace nella stessa propria sapienza. Vergognandomi io pertanto di assumere gli uffici di consolatore con uomo tanto a me superiore per animo e senno, vi farò ripetere due parolette da Seneca, del quale niun saggio che viva sdegnerebbe considerarsi discepolo: “Res humanas ordine nullo / fortuna regit: spargitque manu / munera caeca, peiora fovens”. Io però mai non soglio meravigliarmi de’ fausti successi del malvagio, sommati in confronto de’ buoni successi del virtuoso, e sempre su ciò vado ripetendo a miei amici che delle due strade aperte agli umani desideri per giungere al loro scopo, l’inonesto può batterle entrambe, mentre non avendo scrupolo di mettersi su quella del torto, gli è pur sempre libero l’andare su quella del dritto: laddove all’onest’uomo non essendo scelta da fare, non può egli giungere al bene che per un solo cammino. Pare quindi assai naturale in questo, come in tutto il resto delle umane cose, che più sono i mezzi più facile è il fine».
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Il personaggio. Tornano alcuni scritti dell’economista che (accanto a Luigi Einaudi) contribuì alla rinascita nel Dopoguerra
Corbino, liberista dimenticato di Aldo Giovanni Ricci iberale, liberista sono termini tornati di moda dopo anni di ostracismo. Come tutte le mode, soprattutto quelle leggere, quasi evanescenti degli ultimi anni, vissuti all’insegna del politicamente corretto e del sostanzialmente vuoto, rischiano di consumare le parole stesse, rendendole quasi un intercalare privo di significato. Provare per credere. Ascoltate una qualsiasi delle trasmissioni di commento politico che vanno per la maggiore. Liberale, liberista, moderato, progressista, riformatore, riformista e chi più ne ha più ne metta. Chi può onestamente affermare che questi termini abbiano conservato qualcosa del loro originario peso specifico? Nessuno in buona fede, se la risposta è sincera. Per questo il termine ‘liberista’ va apprezzato in tutta la sua portata nel sottotitolo del bel libretto dedicato a Epicarmo Corbino nel 25° della sua scomparsa; un sottotitolo che suona appunto: “un liberista scomodo”.
L
Corbino appartiene alla ristrettissima schiera dei politici per chiamata del Paese e non di professione, come ricorda il nipote Alberto nella presentazione del volume, che ripropone tre saggi dell’economista molto lontani tra loro nel tempo, ma legati da un filo ideale molto forte. Il primo (Il controllo amministrativo nella mentalità burocratica) è del 1919, uscito su “La Riforma Sociale” diretta da Luigi Einaudi (uno dei maestri del Nostro, con il quale si ritroverà a collaborare per salvare le finanze italiane tra il 1946 e il 1947), è dedicato all’efficienza della pubblica amministrazione e al rapporto tra amministrazione centrale e periferica. Il secondo (Un economista dinanzi a Beethoven) ripropone una conferenza tenuta all’Accademia di Santa Cecilia nel 1953 è dedicato alla musica classica (grande passione di Corbino) ed è un invito a tutti, economisti compresi, a imparare a cercare la felicità anche fuori dai beni materiali. L’ultimo (Finirà la crisi del sistema?) è del 1973 e analizza la crisi dei mercati in una prospettiva globale. Tutti e tre, è inutile sottolinearlo, sembrano scritti con un occhio ai dibattiti dei nostri giorni e ci vengono da un uomo che ha percorso tutto il Novecento, essendo nato nel 1890 e morto nel 1984. A conferma di una verità vecchia e dimenticata: che i problemi dell’economia si ripresentano ciclicamente, sia pure in forme diverse, e che alcuni economisti non dogmatici hanno già dato delle indicazioni utili anche al presente, che vanno riprese, rinfrescate e rimeditate. Un altro esempio di questi giorni per avvalorare questa verità quasi banale: lo storico-economista italo-svizzero J.C.L.Simonde de Sismondi, al quale l’Associazione di studi che ne porta il nome ha dedicato (nel mese di giugno a Firenze, Pescia e Pisa) un convegno da titolo Simonde de Sismondi e la nuova Italia (perché i suoi testi storici, e in particolare la Storia delle Repubbliche italiane nel Medio Evo, hanno formato
Qui accanto, Luigi Einaudi mentre ammira alcune copie di antiche banconote italiane. Il grande economista liberista, nonché ex Presidente della Repubblica italiana, è stato il più amato maestro di Epicarmo Corbino (nella foto in basso)
una generazione di patrioti risorgimentali). Ebbene, nei suoi Nuovi Principi di Economia Politica, usciti negli anni Venti del XIX° secolo, sull’onda delle crisi del commercio inglese, Sismondi, in polemica con le tesi degli economisti che puntano a una crescita economica indiscriminata, puramente quantitativa, parla di sviluppo sostenibile, di crescita compatibile con le risorse, la domanda e l’ambiente. Usa parole che
temente fedele al suo liberismo appreso dai grandi maestri: Giorgio Mortara, Luigi Einaudi, Umberto Ricci e Luigi Amoroso. Amico di Croce (di cui firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti) e Giustino Fortunato. Coerente e quindi a volte, spesso, scomodo. Professore ( presso l’Istituto Superiore di Scienze Economiche di Napoli) senza essere mai accademico nel senso tradizionale del termine.
Nelle sue opere si sente anche il tono dolente di chi sa che esporre la verità non basta: proprio perché prima di lui tante «prediche inutili» erano già andate in fumo sembrano uscite dai vertici economici delle settimane scorse per fronteggiare la crisi in atto. A conferma di quanto sopra si diceva.
Un altro libretto, nella stessa collana, e uscito a seguire, completa il panorama presentato. Il titolo è ancora una volta significativo: Il crepuscolo del liberismo, titolo ripreso da un articolo del 1918, che la dice lunga sulle prospettive che Corbino intravvedeva per la libertà dei mercati dopo la prima guerra, ma che avrebbe continuato a sottoscrivere anche negli ultimi anni di vita. Come ricorda Piero Barucci nella Presentazione, Corbino nella Prefazione alla prima edizione del suo scritto diceva: «Sarò lietissimo se il lettore, sia o no uno studente, dopo essere arrivato in fondo del volume, dirà “ma tutto ciò io lo sapevo”. Mio scopo è stato quello di dire non delle cose nuove ma delle cose vecchie, che tutti sanno o credono di sapere, in forma piana e accessibile a tutti». Insomma verità esposte con la rassegnazione che le tante “prediche inutili” gli avevano insegnato. Corbino quindi sempre e coeren-
Dopo la Liberazione di Napoli, nel novembre del 1943, entra nel governo Badoglio come Ministro dell’Industria. Nell’autunno del 1945 è chiamato a far parte della Consulta Nazionale su designazione della Confindustria. Finalmente, nel dicembre del 1945, si apre la sua più importante esperienza di governo. Quando, dopo la caduta di Parri, De Gasperi vara il suo primo governo, Corbino viene chiamato ad assumere la responsabilità del Tesoro. Qui svolge un ruolo decisivo, in collaborazione con Einaudi, per dissuadere il governo ad avviarsi sulla strada del cosiddetto ‘cambio della moneta’, voluto dalle sinistre anche per avviare una fiscalità straordinaria, che a giudizio suo e della maggior parte degli economisti di scuola liberale avrebbe accresciuto il caos della già disastrata finanza italiana. Altrettanto decisiva la sua azione nella lotta all’inflazione. Inviso alle sinistre, la sua permanenza nel secondo governo De Gasperi, dopo la vittoria repubblicana al referendum istituzionale, dura poco e Corbino, che già da tempo predica la necessità di una rottura dell’alleanza con il Pci, è costretto alle dimissioni nel settembre del 1946. La sua voce continuerà a risuonare sempre fuori dal coro, anche di quel partito liberale al quale pure è sempre stato vicino, prima alla Costituente, poi in Parlamento, sempre sui giornali. Unica pecca, almeno ai miei occhi, la sua opposizione alla legge elettorale maggioritaria varata da De Gasperi nel 1953 e bocciata per pochi voti (tra i quali quelli della lista messa in piedi dallo stesso Corbino) nelle elezioni dello stesso anno. Nel 1961 la laurea honoris causa per questo professore senza titoli e nel 1963 la nomina a socio dei Lincei. Attuale ancora oggi come tutti gli inattuali per vocazione.
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e sue donne sembrano quadri, Sembrano dipinte da Klimt, inventate da Depero, acconciate come in un ritratto dei preraffaelliti. Le sue donne sono avvolte in tessuti preziosi, sete operate, velluti romantici decorati con pietre, perle, merletti.Vivono in un tempo sospeso, lontano dai rumori molesti della modernità. Raffaella Curiel, detta Lella, terza generazione di creatrici d’alta moda, è sempre stata in un caso a parte, troppo chic per piegarsi alle esigenze del marketing. E sempre pronta a definirsi “una sartina milanese”, salvo poi lanciare anatemi contro chi non le dava il giusto riconoscimento.
L
La prozia Ortensia, a Trieste, nel suo atelier stile liberty, accanto alla libreria di Umberto Saba, vestiva il bel mondo austriaco, la mamma Gigliola ha reso più elegante la solida, a volte tetra, borghesia milanese e ha tolto un po’ di polvere dal guardaroba degli aristocratici. Lella, che adesso vede in mostra il suo mondo e i suoi celebri abiti a Trieste, a Palazzo Costanzi (a cura di Marianna Accerboni, fino a domenica prossima) ha presentato la sua prima collezione di pret-à-porter nel 1965 a New York, da Begdorf Goodman, e si è dedicata l’haute couture dal 1970 creando strabilianti, scenografici vestiti con ricami fatti a mano, proporzioni studiatissime, e meravigliosi plissè che tutti, a cominciare da Gucci, le hanno copiato, pensati per belle donne normali e non per modelle altissime taglia 36. Anzi, nel 2007, è finita in prima pagina per aver rimandato indietro un drappello di modelle considerate troppo magre per la sua sfilata («Sotto la 40, non le voglio!»). Ha le sue idee, Lella. Tutto il contrario del minimali-
La mostra. A Trieste un omaggio all’erede di una dinastia di stilisti
Curiel, se la signora va in sartoria di Roselina Salemi vita (no, sussurravano gli snob: era l’occasione per Hillary di andare a un ricevimento con qualcosa di decente addosso, abiti di sartoria, misurati, di buon gusto). C’è evidentemente un passaparola tra primedonne non ex modelle, perché hanno scelto creazioni Curiel sia l’algida Margareth Thatcher, sia la colta e discreta Suzanne Mubarak, moglie del presidente egiziano, sia il sindaco di Milano Letizia Moratti.
Alla fine degli anni Novanta, Hillary Clinton la chiamò alla Casa Bianca per rinnovare il proprio look
Raffaella Curiel segue l’arte, segue l’ispirazione del momen-
ra-estate 2008 è invece la citazione del dipinto “Diego on my mind” di Frida Khalo: giacca in bouclè di lana dipinto a mano e seta ricamata, gonna in organza di seta, il tutto seminato di rose rampicanti, deliziosi gli steli sottili e le corolle, bellissimi i colori, dal rosa pallido al rosso vivace, fusciacca di chiffon e coroncina in Sangallo bianco con piccoli fiori che incorniciano la fronte. Non sappiamo chi nel 1989 ha comprato i pantaloni plissè Fortuny in chiffon di seta e la tunica in lurex stampato, tutto sui toni del blu e dell’azzurro traslucido con minuscole fantasie che virano sul verde o sul violetto, come nel ritratto di Emilie Floge dipinto da Gustav Klimt nel 1902, ma davvero, quello è un abito fuori dal tormentone “che-cosa-si-porta-quest’anno”. E poi ci sono le suggestioni russe del 2002-2003, anni del grande exploit degli oligarchi, e allora ecco le enormi collane di ambra antica, i corpini damascati, le fantasie orientaleggianti.
In generale, Raffaella Curiel è un ripasso della storia dell’arte, la prova di come una suggestione possa trasformarsi in un vestito. C’è di tutto: Egon Schiele, Gustav Klimt, Aubrey Beardsley, Velasquez, Vermeer, Matisse, George Barber, Tolouse-Lautrec, Frida Kahlo, Vincent van Gogh, Sonia Delunay… Ma l’elenco delle citazioni potrebbe essere lunghissimo, potrebbe comprendere anche Marcel Proust e Victor Hugo, gli scrittori mitteleuropei, con le loro atmosfere in bilico tra passato e presente e le memorie dei grandi viaggiatori alla scoperta dell’Oriente. Un anno dopo l’altro, siamo già alla quarta generazione di Curiel. E la mostra di Trieste, dall’impeccabile filologia, mette il sigillo definitivo al destino della bionda e bocconiana Gigliola, figlia di Raffaella, stesso nome della nonna, stesso stile della madre. Pensava di diventare una manager e non è riuscita a
Alcuni dei disegni di Lella Curiel esposti fino a domenica prossima a Trieste, in una mostra a Palazzo Costanzi smo, tutto il contrario della deriva sexy. Perciò si spiega, alla fine degli anni Novanta, l’altrimenti sorprendente telefonata da Washington. Un’assistente di Hillary Clinton, potente, invidiata e malvestita fisrt lady, la invitava alla Casa Bianca per visionare la sua collezione di abiti da gran sera. Un bel colpo per Raffaella Curiel, scrisse qualche giornale, l’occasione della sua
to (e si vede dalla mostra che raccoglie anche disegni, schizzi, fotografie) che le venga da Mantenga o da Balla. Rende omaggio al quadro “Il sogno” di Picasso con un completo nei to-
ni del rosa, del 1992: giacca in crepe de chine dipinta a mano su abito di cady di seta. Cita Degas con un sontuoso scialle di cachemire lungo fino ai piedi che, una volta aperto, rivela la riproduzione, a stampa e ricamo, delle famose, lievi ballerine impressioniste. Sotto, sporge l’orlo denso di una gonna di broccato. Della primave-
resistere alla tentazione di disegnare. Accessori, per ora. Guanti, cappelli e gioielli. Con quel tocco di modernità che Van Gogh e a Frida Khalo sarebbe piaciuta moltissimo.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
L’unico progresso possibile, quello della collettività Vedo spesso mamme (e anche papà) che trattano i propri figli in modo troppo esclusivo, egocentrico, privilegiato, materiale, fanno continue differenze con i figli degli altri (da come vestono a come sono educati a come vanno a scuola o guadagnano) e invece che parlare con le altre mamme e trovare amicizia e punti d’incontro, si chiudono nella critica, nel bisbiglio, ma soprattutto chiudono i loro figli prematuramente tra le mura altissime dello scetticismo, del mal pensare, della sfiducia, quasi come se il successo del prossimo fosse l’insuccesso proprio, il progresso di uno stato il regresso di un altro.. ed insinuano lentamente nelle giovani menti una domanda, una posizione di scelta. Ma è una domanda stupida e ottusa, che non ha senso farsi ed incentivare: l’unico progresso possibile è quello mio e del prossimo assieme, degli individui e della collettività, del mio stato e di quello accanto, chi sceglie o vuole scegliere sbaglia perché i due piani sono legati e non possono che progredire e regredire assieme. I genitori del futuro dovranno perciò essere più aperti alla condivisione, pensare più globalmente, consapevoli di crescere i figli in una grande unica città dai mille quartieri, che è il mondo.
Fabio Barzagli
C’È SEMPRE “SOTTO IL GAMBERO” La tariffa bioraria della luce è un puro trucco: ci si rimette quando la luce è accesa mentre si lavora, ci si guadagna se è accesa mentre si dorme. Quando si parla di voler introdurre un «uso razionale dell’energia», come ho sentito pomposamente esprimersi un professionista dei consumatori alla radio, si può star certi che c’è sotto il gambero, che cioè le tariffe aumentano. Alla faccia dell’uso razionale.
Carla Bontempo
LE FAMIGLIE SONO COSTRETTE A TIRARE LA CINGHIA L’Istat ha evidenziato che nel 2009 le famiglie hanno ridotto i loro consumi dell’1,7% ma anche che la spesa per i generi alimentari è diminuita addirittura del 3%. Questo significa che dopo aver tagliato tutte le spese non indispensabili si è cominciato a
tirare la cinghia anche sulle spese di sopravvivenza ed in particolare sugli alimenti. In Italia una famiglia su tre si è dovuta mettere forzatamente a dieta. Ancora più allarmante è il fatto che tra le poche voci in aumento ci siano le spese per i televisori (passaggio al digitale) e le spese per “i giochi di Stato”: quindi famiglie “costrette” (ma anche liberamente responsabili in prima persona, non si può tacere questo) a considerare più importante la televisione del cibo, ma soprattutto obbligate a sognare sempre di più il colpo di fortuna, anziché basarsi su risparmio, impegno e lavoro. E a pagare più di tutti sono ovviamente le famiglie con figli; l’arrivo del terzo figlio mette il 40% delle famiglie che fanno questa scelta coraggiosa sotto la soglia di povertà. Ma quando a tavola ci sono dei bambini non si possono lasciare i piatti vuoti e le famiglie sono allora costrette a tagliare
Primo Viaggio In assetto idrodinamico, con gli arti anteriori “schiacciati” contro il carapace, questa giovanissima Caretta caretta affronta una delle sue prime scorribande in cerca di cibo. Una volta in acqua, nuotano per ore fino a raggiungere un’area ricca di plancton: qui si rifocillano
sulla qualità. Una situazione in cui i casi di mozzarelle blu sono destinati a moltiplicarsi. Cos’altro deve succedere perché nelle stanze della politica ci si renda conto del livello di drammaticità raggiunto? Si vuole aspettare che l’allarme sociale diventi anche un allarme sanitario? Quanto potrà reggere il sistema economico, se troppe famiglie resteranno escluse? Per questo torniamo ad unire la nostra voce a quella del-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
la Chiesa italiana per richiedere con forza e urgenza una politica che sia orientata ai figli che, sola, può fermare l’Italia nel suo suicidio demografico. Restituire potere d’acquisto alle famiglie con figli deve costituire quindi un obiettivo primario di ogni manovra economica del nostro Paese, per rimettere in moto i consumi e per impedire a tanti nuclei di cadere in povertà.
Francesco Belletti
da ”Asharq Alawsat” dell’11/07/10
Hussein d’America e l’interesse musulmano omen omen dicevano i latini per definire il destino di una persona con qualcosa di irrazionale, ma molto presente nella vita di ognuno. Barack Hussein Obama aveva usato il secondo nome per avvicinarsi, anche psicologicamente, al popolo islamico nel famoso discorso all’università del Cairo. Oggi, sembra che i termini di questa condivisione si stiano ribaltando. In una recente intervista rilasciata a una tv israeliana, il presidente americano sembra abbia voluto prendere le distanze dal suo precedente approccio. E ciò che si è sentito è stato uno shock per tutta la regione ed è diventato chiaro per la maggioranza dei media arabi e mediorientali. In pratica Obama ha affermato che «comprende» quanto il suo secondo nome «Hussein» possa aver creato «sospetti» tra gli israeliani. E il presidente Usa ha ragione quando, nella stessa intervista, afferma che in Medioriente vige la regola che «l’amico del mio nemico è mio nemico». Allo stesso modo, gli israeliani erano rimasti male quando, all’inizio del suo mandato, Obama aveva lanciato messaggi di apertura al mondo musulmano. Oggi, il popolo islamico vive la stessa angoscia, sentendo gli stessi termini di apertura e condivisione espressi dall’inquilino della Casa Bianca nei confronti di Israele. Ma la domanda da porsi è se Obama sia il presidente degli arabi, di Israele, oppure di un Paese che deve perseguire dei propri interessi. All’inizio del mandato, il presidente Usa aveva fatto una visita in Egitto, col
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di Tariq Alhomayed
discorso del Cairo, una in Turchia e un’altra in Arabia Saudita, mentre non ha ancora effettuato una visita ufficiale nello Stato ebraico. Per non parlare della causa palestinese, presente da subito nell’agenda della Casa Bianca. Al contrario di ciò che avevano fatto sia l’amministrazione Clinton che quella di Bush junior che avevano sempre rimandato il problema per arrivare a fine mandato. Il nuovo presidente aveva anche promesso un rapido ritiro dall’Iraq e aveva teso la mano a Teheran, allentando le tensioni con Damasco. Nel tentativo di gestire tutte queste novità la Casa Bianca ha speso circa due anni. E nel frattempo cosa hanno fatto gli arabi per essere utili alla propria causa? Non dobbiamo discutere sul significato delle aperture a Israele,
ma su quello che può essere utile per la causa araba. Occorre essere sinceri, il mondo arabo non ha fatto nulla per rafforzare la posizione palestinese nel confronto col governo Netanyahu. Non è stato capace di sfruttare l’occasione che la Casa Bianca forniva, cambiando gli equilibri del dialogo in Medioriente. Hamas ha continuato a soffiare sulla retorica e in Iraq la formazione di un governo a Baghdad si è rivelata operazione più difficile del ritiro americano.
Ed è successo solo perché si è permesso al «lupo iraniano» di mettere il naso nella vicenda irachena. Il regime sciita ha rifiutato la mano tesa di Obama, senza che il mondo arabo abbia espresso un’opinione sul comportamento dell’Iran. Servirebbe invece rendersi conto di quanto sia pericolosa la presenza iraniana, in Iraq, a Gaza, in Libano e nel Golfo, che ha trasformato molto stampa locale nel megafono della propaganda sciita. Ora in Medioriente, criticare Teheran è diventato difficile come criticare Israele in America. Sappiamo che il ruolo degli Usa è quello di una superpotenza e spesso temiamo ingerenze. Allo stesso tempo abbiamo paura che Obama arrivi alle medesime conclusioni dell’ex segretario di Stato, Colin Powel, che affermava di spendere il «90 per cento del suo tempo per gestire il 10 per cento del mondo». Il mondo arabo è molto più del 10 per cento del mondo e non importa cosa faccia «Hussein» Obama per noi. Conta ciò che siamo in grado di fare «noi» per la nostra causa.
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Uno “sconosciuto” vuole sei miliardi da Facebook SAN FRANCISCO. Se la giustizia gli darà ragione, potrebbe depositare sul suo conto in banca 6 miliardi di dollari. Sostenendo di essere stato in affari con il fondatore di “Facebook” Mark Zuckerberg, Paul Ceglia, residente nello stato di New York e finora sconosciuto alle cronache internazionali, rivendica - sulla base di un contratto firmato nell’aprile del 2003 per progettare e sviluppare il sito web - la proprietà di gran parte (l’84 per cento, per la precisione), del social network che ha rivoluzionato le abitudini degli “internauti”di tutto il pianeta. La causa civile è stata depositata lo scorso 30 giugno in un tribunale californiano, e quindi è stata trasferita alla giustizia federa-
le, dietro richiesta della società coinvolta. «Riteniamo che queste azioni giudiziarie siano totalmente prive di fondamento e ci opporremo con tutte le nostre forze», ha dichiarato un portavoce di Facebook, che si appresta a fare appello contro la decisione del giudice federale Thomas Brown, del distretto di New York, che ha imposto un blocco temporaneo di ogni trasferimento delle proprietà della società I termini del contratto riconoscevano a Ceglia una quota da versare di 1.000 dollari ed il 50% di quote del prodotto, che sarebbe stato poi lanciato come “thefacebook.com”, dice la causa. Il contratto sanciva inoltre che Ceglia avrebbe acquisito un ul-
ACCADDE OGGI
UN ASILO NIDO SCONVOLGE LA TRANQUILLITÀ DI BOLZANO È inconcepibile quanto è successo a Bolzano nei giorni scorsi riguardo alle indagini che sta svolgendo la Procura su un asilo nido, dove alcuni bambini avrebbero subito pesanti punizioni da parte di alcune maestre, in alcuni casi sarebbe stato loro rifiutato anche il cibo. Alcuni dei bambini, secondo quanto denunciato dai genitori, se non prendevano sonno, sarebbero stati rinchiusi in una stanza al buio e obbligati a stare fermi su dei lettini. Altro elemento sconvolgente è che la struttura incriminata è gestita da una cooperativa formata in gran parte da operatrici specializzate, che oltre ad occuparsi della gestione di alcuni nidi, è impegnata anche nella formazione, all’interno di un programma del Fondo sociale europeo, delle Tagesmutter, le donne che accudiscono a casa propria i figli altrui. È scandaloso pensare che persone abilitate a lavorare con i bambini e per di più pagate con soldi che fanno parte del Fondo europeo siano capaci di nefandezze di questo genere. Alla luce dei fatti mi chiedo quali siano stati i criteri di scelta e di assegnazione dei fondi da parte degli enti preposti e cosa quest’ultimi pensano di fare a riguardo.
Lettera firmata
POSTI DI LAVORO E DISCRIMINAZIONE La Commissione europea ha inviato all’Italia una richiesta formale di porre fine alla discriminazione nei confronti dei candidati a posti nella pubblica amministrazione nella provincia di Bolza-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
14 luglio 1948 Antonio Pallante, studente universitario, spara 4 colpi di pistola a Palmiro Togliatti, di cui 3 lo colpiscono 1951 A Joplin (Missouri), il George Washington Carver National Monument diventa il primo monumento nazionale degli Stati Uniti dedicato agli afroamericani 1965 La sonda americana Mariner 4 raggiunge per la prima volta Marte 1969 L’esercito del Salvador invade l’Honduras: inizia la guerra del calcio 2001 Il Comitato olimpico internazionale sceglie Pechino come città ospitante della XXIX Olimpiade 2002 Durante le celebrazioni della Festa Nazionale, Jacques Chirac esce incolume da un tentativo di assassinio 2007 I Genesis si esibiscono al Circo Massimo di Roma: oltre 500.000 persone assistono all’evento 2009 Madonna si esibisce allo stadio San Siro di Milano, è la seconda donna a entrare nello stadio dopo Laura Pausini
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
teriore 1% d’interesse nell’attività, al giorno, sino a che il sito web fosse stato ultimato. Secondo gli avvocati di Ceglia, al 4 febbraio 2004 la quota di Ceglia in Facebook ammontava all’84 per cento. Sei miliardi di dollari, appunto.
no, poiché tale discriminazione viola gli obblighi dell’Italia in merito alla libera circolazione dei lavoratori e alla non discriminazione in base alla nazionalità sanciti nella legislazione dell’Ue. Secondo la legislazione italiana, applicabile nella provincia di Bolzano, l’unico documento accettato per comprovare la conoscenza della lingua per accedere ai posti nella pubblica amministrazione locale è un certificato specifico rilasciato nella provincia. Inoltre, i candidati che risiedono nella provincia da almeno due anni hanno la priorità. In mancanza di una risposta soddisfacente entro due mesi, la Commissione potrebbe decidere di adire la Corte di giustizia dell’Ue. Alla memoria mi torna la battaglia che l’ecologista Alex Langer condusse per anni contro la discriminazione etniche, lui che era un bolzanino doc. L’iniziativa della Commissione europea è anche un ammonimento alla Lega che propone iniziative analoghe nelle regioni del nord, in sostanza, posti nella pubblica amministrazione o per l’accesso ai servizi con priorità per i locali. Si ricordi, a tal proposito, la richiesta di Umberto Bossi che reclamava la presenza di soli insegnanti del nord dopo l’ennesima (tre se ricordiamo bene) bocciatura agli esami di maturità del figlio Renzo. Oggi Renzo Bossi è consigliere regionale in Lombardia e, sembra, futuro segretario dei Giovani Padani. Altri due figli sono stati assistenti di parlamentari europei. Insomma, più che alla Padania e ai suoi abitanti si pensa al proprio casato. Anche Bossi tiene famiglia.
Primo Mastrantoni
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Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
RIDIMENSIONIAMO LA CASTA All’inizio della manovra economica vi è stato un timido annuncio di abolizione di alcune Province. Si disse quattro e furono anche indicate quali. Poi è calato il silenzio e delle Province da abolire non se ne parla più. Per giustificare il repentino cambiamento, vi fu chi disse che il provvedimento avrebbe scatenato delle proteste in difesa della Province. Intanto questi enti continuano a costare ben 17 miliardi di euro l’anno. La loro soppressione era persino nel programma di Berlusconi. Poi è stata accantonata perché la Lega vuole che rimangano. Le Province hanno ormai poche e limitate competenze, tanto da essersi ridotte solo a “casse di risonanza”dei problemi. Prima di chiedere sacrifici ai cittadini, la “casta” dovrebbe cominciare a ridimensionarsi. E il punto di partenza dovrebbe essere l’abolizione delle Province e delle Comunità Montane. ERA NECESSARIO UN ALTRO MINISTRO? La notizia della nomina di un ministro per l’Attuazione del Federalismo è stata presentata da molta stampa filo-governativa come un rafforzamento della Lega. Tale chiave di lettura è stata subito smentita da Bossi, che ha detto che il ministro per il Federalismo è lui, e che non gli è stata tolta alcuna delega. Bossi ha sospettato il pericolo di una diminuzione dei suoi poteri, o peggio un allungamento dei tempi della riforma. Era necessario un altro ministro per l’Attuazione del Federalismo? Non è facile trovarne l’utilità, dal momento che vi sono già un ministro delle Riforme (Bossi) e uno per la Semplificazione legislativa (Calderoni). Con la nomina del nuovo ministro, mi pare che il nostro governo, come numero di ministri senza portafoglio, ha superato qualsiasi precedente. Nulla, quindi, è cambiato, e il tanto decantato nuovo è più vecchio del precedente. A proposito dei ministri senza portafoglio, sarebbe opportuno far sapere di quante strutture e apparati si avvalgono, al fine di conoscere il loro costo. E ciò non solo perché il Paese attraversa una crisi economica, ma anche perché non pochi ritengono che i ministri senza portafoglio vengono denominati così perché sono senza stipendio. Luigi Celebre Circoli Liberal Milazzo
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ULTIMAPAGINA
Il caso. Dopo le polemiche delle eliminatorie, la Spagna ora approva la passione tra il portiere e la cronista
Sara e Iker, quel bacio di Sabrina de Feudis la “fiesta” continua. L’euforia dei tifosi spagnoli non si placa, a tre giorni dalla fine del mondiale, la nuova squadra campione del mondo fa parlare ancora di sé. L’immagine più bella della vittoria spagnola? Il bacio del capitano, Iker Cassillas alla sua fidanzata, la giornalista sportiva di Telecinco, Sara Carbonero. Il portiere delle furie rosse, si commuove e piange stringendo la coppa del mondo, poi scende negli spogliatoi e stupisce il resto del mondo.
l’orgoglio e la soddisfazione della casa reale spagnola per la vittoria appena ricevuta. Al fischio finale dell’arbitro, Iker Casillas scoppia in un pianto diviso a metà fra felicità e liberazione. Poi scende giù negli spogliatoi
Sara Carbonero , 26 anni, occhi verdi profondi, capelli castani e viso perfetto. Eletta dalla rivista americana FHM, come la giornalista più sexy del mondo. Lei è stata il volto e la voce di Telecinco per la trasferta in Sudafrica. La sua presenza a bordo campo per commentare in diretta tv le partite della nazionale, aveva suscitato non poche polemiche. La sfida d’esordio degli spagnoli contro la Svizzera aveva creato alcuni problemi. Nonostante i pronostici favorissero la squadra guidata da Vincente Del Bosque, la prima partita si manifestò come una piccola disfatta per gli spagnoli. Il risultato finale di 1-0 per gli svizzeri aveva riscaldato e preoccupato gli animi. La Carbonero era finita nell’occhio del ciclone dopo questo sfortunato debutto anche a causa di un’incertezza del portiere. La colpa della Carbonero, in quel frangente, fu di aver assistito alla partita da dietro la rete difesa da Casillas.\\\u2028Immediata la reazione della federazione dei giornalisti spagnoli che, con il suo presidente, richiamò la Carbonero a una maggiore attenzione alla deontologia professionale. Tutti i giornali dal Time a El Pais si scagliarono contro la bella giornalista, la sua presenza era vista come una “fattore di distrazione” per la squadra. La replica della Carbonero non tardò ad arrivare. «Tutte cretinate». E di lì a poco la vittoria contro l’Honduras, l’arrivo alla super finale di domenica scorsa e il trionfo finale...
Madrid continua a festeggiare i suoi eroi e la coppia Casillas-Carbonero conquista tutti. Il bacio in diretta tv su Telecinco stupisce i tifosi e frena le critiche. Il capitano della Roja dichiara l’amore per la sua bella in mondovisione
E
La gioia e la felicità degli spagnoli per aver conquistato il loro primo titolo mondiale era visibile anche agli occhi dei telespettatori più distratti. E traspariva dalla tribuna
l’ha baciata. Il secondo bacio di Iker si stampa invece sull’occhio della giornalista, mentre lei prova a divincolarsi. Il capitano è già scomparso, quando Sara, visibilmente emozionata si lascia scappare un «madre mia» e
MONDIALE
per le rituali interviste. Ad aspettarlo il microfono di Telecinco della fidanzata Sara, che con atteggiamento professionale gli chiede: «A chi dedichi questa vittoria?» «Voglio ringraziare le persone che mi sono sempre state vicine, gli amici e i miei parenti», ha detto Casillas in diretta tv. Poi la voce è andata incrinandosi, il calciatore ha distolto lo sguardo, ha mormorato un «desculpe» e
passa la linea allo studio tra gli applausi dei presenti, dicendo «continuiamo dopo, ok?». E proprio dallo studio partono gli elogi dei quattro commentatori a Casillas: «Che grande è questo capitano, sapevo che avrebbe fatto qualcosa».
Di lì a poco il video ha fatto il giro del mondo e oggi resta il più cliccato. Con questo bacio il portiere del Real Madrid, ha voluto mettere a tacere coloro che per molto tempo l’hanno accusato di lasciarsi distrarre dalla presenza a bordo campo della sua fidanzata. Un gesto d’amore giunto all’apice della sua gioia e soddisfazione. Un lieto happy end che ha sciolto anche i cuori più freddi. La giovane coppia, ora diventata famosissima, resta una delle immagini più belle di questo mondiale. I tifosi spagnoli continuano a festeggiare i propri eroi, quegli uomini, che con la loro impresa hanno ridato alla nazione l’orgoglio sportivo che ormai mancava da troppo tempo. Di certo anche la coppia Casillas-Carbonero è riuscita a catalizzare l’attenzione, come se realmente ce ne fosse bisogno.