2010_07_17

Page 1

ISSN 1827-8817 00717

Se non ci fosse gente cattiva,

he di c a n o r c

non ci sarebbero buoni avvocati

Charles Dickens 9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 17 LUGLIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

È ancora aperto il fronte con Fini: ma a Palazzo Grazioli il vero incubo sta diventando il titolare del Tesoro

Cesare sospetta di Giulio Non l’ha mai amato: ma oggi il Cavaliere lo ritiene un nemico. E nel Pdl molti pensano che Tremonti lavori a un’intesa tra Lega, Di Pietro e parte del Pd, pronta a “rilevare”il premier di Riccardo Paradisi

La manovra era necessaria: ma non lo era l’iniquità

he cosa ha in mente Giulio Tremonti? Nel Pdl le accuse fioccano: vuole farsi paladino della ricostruzione post-berlusconiana mettendosi a capo di un governo a trazione federalista che comprenda mezzo Pdl, la Lega e le opposizioni. Sì, tutte: Di Pietro compreso. Fantapolitca? Intanto c’è un appuntamento importante che potrebbe preludere a tutto ciò: la finanziaria che - di fatto - dovrà correggere la manovra abborbidita dal Parlamento. a pagina 2

C

Signor ministro, lei non vede la crisi sociale di Savino Pezzotta dati sulla povertà, le dichiarazioni del Governatore della Banca d’Italia e la manovra economica approdata in Parlamento m’inducono a qualche riflessione. Volendo riassumere il «Rapporto annuale dell’Istat sulla povertà in Italia», potremmo scrivere: «Oltre due milioni di famiglie povere, peggiorano le condizioni degli operai e dei giovani». Insomma, i numeri sembrano dirci che i poveri nel 2009 non sono aumentati. Verrebbe quasi da rallegrarsi. Ma se siamo attenti vediamo che le cose non sono esattamente così. I dati Istat ci mostrano che quelli che stanno meno peggio e che escono dalla categorie di povero relativo si trovano nella condizione reddituale di un anno fa.

I

segue a pagina 3

Sovranità elettorale e parlamentare

Sul coinvolgimento dei magistrati, Alfano chiede subito chiarezza

Ritorna Ghedini e annuncia la linea sulla nuova P3: «Quello di cui parlano non è Silvio»

Le lotte intestine e l’esempio inglese

Difesa costituzionale Pdl: il potere è ormai una partita a tre di un governo di “responsabilità” (ma senza Cameron) di Francesco D’Onofrio

di Gennaro Malgieri

a questione di fondo che il dibattito politico sta affrontando in questi giorni, soprattutto sull’onda della proposta originaria di Pier Ferdinando Casini, concerne proprio la possibilità stessa che si dia vita ad un governo diverso dal governo “legittimato” dal voto elettorale ma “legittimato” dalla Carta Costituzionale. a pagina 7

avid Cameron e Nick Clegg, rispettivamente leader dei conservatori e leader dei liberaldemocratici, dunque premier e vice-premier britannici, hanno pubblicato nei giorni scorsi un articolo-manifesto nel quale hanno reso noto le linee-guida del loro programma di governo che prelude ad una possibile fusione tra i due partiti. a pagina 6

L

D

Alessandro D’Amato • pagina 8

Un agguato e un kamikaze nello stesso giorno

DROGA E TALEBANI

Le due guerre di Kabul

Attacco agli italiani Paura in Afghanistan

di Enrico Singer ono due le guerre in Afghanistan. Quella contro i talebani e quella contro i trafficanti di droga. Sono guerre che si sovrappongono, che scavalcano le ideologie e che s’intrecciano alle faide tribali, che alimentano gli eserciti irregolari dei tanti signori locali e che foraggiano anche i terroristi di al Qaeda. Agli italiani schierati a Bala Murghab è toccato il compito di combatterle tutte e due perché questa cittadina al confine con il Turkmenistan è proprio al centro del micidiale groviglio. a pagina 26

S

seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO

Berlusconi chiede (e per ora ottiene) fedeltà assoluta dai suoi ministri: «Anche stavolta vogliono solo delegittimarci»

Nuovi attentati contro i militari: tre feriti di Osvaldo Baldacci oppio attacco contro gli italiani ieri in Afghanistan. E nel secondo, tre sono rimasti feriti, uno dei quali in modo grave. Ma sono tutti fuori pericolo di vita. L’episodio più grave, quello con i feriti, è consistito in un vero e proprio scontro a fuoco nella famigerata zona di Bala Murghab. In precedenza, invece, a Herat, un’autobomba era stata lanciata contro il comando Isaf

D

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

137 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

sotto la responsabilità italiana, ma i feriti dell’attentato erano tre poliziotti afghani. È da segnalare l’escalation di attacchi anti-occidentali in Afghanistan in questi ultimi giorni, con una decina di soldati Nato uccisi in poche ore e un bilancio che negli ultimi mesi si è avviato a diventare il più pesante dall’inizio delle operazioni nel 2001. a pagina 26

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 17 luglio 2010

Manovre estive. L’asse del nord, gli ammiccamenti della sinistra, i conti da sistemare: la lunga marcia del ministro

La tela di Giulio

Tremonti alla guida di una grande intesa tra Lega, parte del Pd e persino Di Pietro: è questo il vero incubo che tiene sveglio Berlusconi e i suoi fedelissimi di Riccardo Paradisi i certo, Gianfranco Fini: l’antagonsita palese di Silvio Berlusconi è evidentemente lui, il riottoso presidente della Camera che fa il controcanto quotidiano – come lamenta il sofferente Sandro Bondi – che causidico solleva eccezioni su giustizia e intercettazioni, che chiede più democrazia nel partito carismatico, che calendarizza la sfiducia al sottosegretario Cosentino. Fini, certo…

S

Però chi ha accesso ai più reconditi pensieri del Cavaliere – in quella dimensione della mente dove s’annidano i sospetti e le paure più ataviche, i riflessi condizionati che d’impulso codificano schmittianamente l’amico e il nemico – ti dice che c’è una realtà più complessa di quella che appare. Ti dice che certo Fini è un problema – eccome se lo è, lo è talmente che Berlusconi trascorrerà l’agosto a concepire un piano per ridimensionare il potere di veto dell’ex leader di An – ma è un problema circoscritto, palese appunto e il cui peso – ti spiega ancora l’insider – è relativo in fondo alla pattuglia combattiva ma sparuta dei suoi uomini. C’è un problema più profondo, più insidioso e più pericoloso di quello costituito da Fini. Un problema su cui da giorni si muove la mobile sceneggiatura mainstream di quel teatro delle ombre che sono i retroscena politici quotidiani, un problema che si chiama Giulio Tremonti. Sceneggiatura che legando gli sparsi episodi del divenire politico abbozza in effetti una trama verisimile quanto basta a materializzare un ulteriore ipotesi di fuoriuscita dal berlusconismo per

via interna, verso l’inveramento di quelle larghe intese che sono diventate il tema dominante di questa lunga estate calda. Vediamoli questi episodi, a partire dal meno considerato e sottaciuto mentre è qui che più plasticamente si staglia l’archetipo di ciò che il ministro dell’Economia, secondo i suoi esegeti, vorrebbe vedere incarnarsi. Giovedì scorso al convegno promosso da Aspenia con Ispi su “Il federalismo e la sfida del Sud” l’evento era Giulio Tremonti e il parterre, che stava li ad applaudirlo era per il novanta per cento sicuramente non governativo: da Innocenzo Cipolletta a Luigi Paganetto, da Marta Dassu a Franco Bassanini, dal presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello a Enzo Bianco. C’è questo piccolo episodio ma significativo e c’è il colloquio tra Tremonti e Umberto Bossi al Senato – “il patto del sigaro” l’ha già battezzato la fervida paroleria giornalistica italiana – dove l’asse del nord ha siglato un patto d’acciaio per blindare la fiducia alla manovra senza cedimenti alle regioni, il federalismo fiscale e il sostegno al disegno di legge sulle intercettazioni.

C’è la r ifle ssione di Pier Ferdinando Casini – «Se avessi parlato di un governo di responsabilità nazionale guidato da Tremonti invece che da Berlusconi avrei trovato più disponibilità» – sollecitaraccolta mente da Massimo d’Alema che dice «Si, senza Berlusconi le larghe intese si possono fare…». E senza Berlusconi significa, ca va sans dire, con Tremonti. C’è la precedente chiacchierata tra il leader leghista e il segretario Pd Bersani il quale ha tentato di convincere Bossi che in caso di caduta

Il «pretesto» della rottura sarà una manovra bis?

Bossi avverte: conta solo il federalismo di Francesco Pacifico

ROMA. Un conto è qualche rallentamento, un altro far slittare a data da destinare il federalismo fiscale. Ieri Umberto Bossi è stato molto chiaro con Silvio Berlusconi, quando per mezz’ora i due si sono accordati sui successivi passaggi di una riforma ogni giorno più difficile da realizzare. E non soltanto per la crisi, le tensioni tra Tremonti e le Regioni e le crepe nel Pdl. Nel centrodestra sono in molti a interrogarsi gli effetti che avrà questa manovra sulla coesione sociale del Paese. Anche perché da più parti si teme un ulteriore intervento sui conti pubblici, visto che sarà complesso recuperare i 9,5 miliardi sui 24,9 totali che Tremonti vuole ottenere dalla lotta all’evasione. Il presidente della commissione Finanze del Senato, Mario Baldassarri, ha ipotizzato che sarà «necessario un aggiustamento di quasi 15 miliardi». E la cosa potrebbe avere ripercussioni sia sulla ripresa del Belpaese sia suoi equilibri politici. La fase è delicata, come dimostra l’ennesimo crollo registrato a Piazza Affari (-1,56 per cento). Al riguardo Bossi avrebbe detto ai suoi: «Il governo terrà perché Berlusconi sa cosa deve fare. E in ogni caso io vigilerò». Di conseguenza, l’obiettivo principale è blindare quello che i giornali hanno definito il “patto del toscano”(con il Senatùr a fumare alla Camera nonostante i divieti dell’aula, mentre concordava i tempi). Al Consiglio dei ministri di giovedì prossimo dovrebbe arrivare il decreto attuativo sui costi standard per Province e Comuni. Entro il 30 luglio è atteso quello sull’autonomia fiscale, con il nuovo tributo Imu, che dovrebbe riempire nelle casse dei municipi il buco lasciato dall’Ici, la cedolare secca sugli affitti e il trasferimento del catasto ai primi

cittadini. Va da sé che in questa agenda mancano rispetto alle promesse e agli annunci fatti nei mesi scorsi dai ministri competenti – Calderoli,Tremonti, lo stesso Bossi – due pezzi non meno importanti: la fiscalità per Regioni e per le Province, il calcolo dei fabbisogni della sanità e dei costi standard per le prestazioni, non fosse altro perché vanno a cadere su quasi 130 miliardi di euro dei 170 che compongono la spesa delle Regioni. Per questi due pezzi di federalismo fiscale si dovrà attendere settembre, ma non è escluso un ulteriore rinvio. E i tempi si sono dilatati anche perché gli enti del Sud non hanno prodotto tutta la documentazione chiesta dalla Copaff e dal governo per chiarire la quantità e la qualità della propria spesa sanitaria.

I tecnici del governo che stanno scrivendo questo decreto vorrebbero affidarsi – come già fatto per Province e Comuni – a un meccanismo simile agli studi di settore per calcolare i fabbisogni. Ma su questa decisione si attende il placet dalle Regioni. Le quali attendono ancora uno storno dei tagli previsti da Tremonti nell’ultima manovra. Al riguardo il maxiemendamento votato giovedì al Senato ribalta lo scenario e al posto di riduzione dei trasferimenti alle materie devolute dalla Bassanini (trasporti, aiuti alle imprese e assistenza sociosanitaria) ecco estendere il perimetro dei tagli anche ai fondi per la sanità e quelli per la coesione. Di conseguenza, c’è chi ipotizza che in quest’infinita trattativa il governo metta sul piatto la fiscalizzazione di queste risorse, con la possibilità di raccogliere direttamente il necessario sul territorio, senza dover aspettare i trasferimenti da Roma.

del governo, si potrebbe fare un governo tecnico che porti a casa il federalismo. E nella mente di Berlusconi, in quella dimensione dove lavora la memoria profonda, il trauma del ribaltone del ‘94 ha lasciato una traccia profonda. Acuita dalla consapevolezza che la Lega ha una sola magnifica ossessione: il federalismo; un solo radicamento: il territorio e una sola collocazione: la propria, essendo la storia del Carroccio al di qua della destra e della sinistra. Né costola del movimento operaio dunque – come la sognava D’Alema – né stampella d’un centrodestra nazionale come la vorrebbe Berlusconi. Certo, le cose sono diverse rispetto al ‘94 e in pochi nel centrodestra, ma anche nel Pd, credono nella favola bella della nuova spallata del Senatur.

Però nessun sostegno è gratis, come insegnavano i Chicago boys e la Lega questo sostegno al governo lo farà pesare, come del resto ha fatto finora, avendo nell’esecutivo il suo ago della bilancia proprio in Tremonti. Il cui breve orizzonte è la nuova manovra economica di dicembre, la vera manovra economica, su cui Tremonti farà di nuovo il brutto e il cattivo tempo coi cordoni della borsa, lui che oltretutto è davvero l’unico a poter tenere insieme il Lega e Pdl mentre Berlusconi è impegnato col suo antagonista palese Fini. E comunque ad ogni sostegno c’è un limite e Bossi – come raccontava nei giorni scorsi un dirigente della lega – sta esaurendo la sua pazienza: «O Berlusconi si decide a mettere ordine in casa sua, anzitutto con Fini, oppure siamo noi a far saltare il banco». E insomma l’ultima frecciata del ministro Calderoli scoccata proprio al convegno Aspen al rispettoso cospetto di Tremonti suona come un nuovo avvertimento: «La strada per l’attuazione del federalismo è ancora in salita. Tutti a parole sostengono il federalismo io e Tremonti, che con Bossi sta condividendo questa avventura, ci siamo resi conto che tutti dicono di volerlo fare a parole ma in sostanza sono più i frenatori che gli acceleratori. Nonostante tutto siamo andati avanti».


prima pagina

17 luglio 2010 • pagina 3

C’è tutto questo insomma e c’è l’ambizione che Tremonti accarezza da quando in questo Paese si parla di Grosse koalition e di grandi intese, come garantisce chi lo conosce bene, ricordando la sua sapida battuta dell’estate del 2008: «Facciamo la grande coalizione e mandiamo in pensione i due nonnetti». Dove i due nonnetti erano Prodi e Berlusconi che a quei tempi l’ancor vivo Bagaglino sceneggiava sulle panchine di un giardino. Siamo di nuovo a quel tornante? Chissà. Chi lo conosce bene però garantisce che è proprio quel tornante che Tremonti spera di scorgere nel prossimo orizzonte dopo anni di sofferta marcia in tandem con quel Berlusconi che nelle panchine di Arcore proprio non si vuole accomodare.

A Tremonti piacerebbe che in questo tornante la sua storia si incrociasse con quella del Paese, una storia il

cui copione è già scritto nel cassetto dei suoi sogni. Un nuovo assetto di potere che lo vedrebbe alla guida d’un governo allargato insieme alla Lega naturalmente, al Pd della disponibilità dalemiana sicuramente ma persino all’Idv di Antonio Di Pietro, il quale, guarda un po’, dice che con questa legge elettorale, se cadesse il governo, proprio non si potrebbe andare a votare.

Letteratura politica estiva? Può darsi, ma i sogni sono le forme che ha la realtà prima di incarnarsi. E se le ipotesi di nuovi scenari si moltiplicano e si ramificano sarà anche perché l’assetto di potere dell’oggi appare cosi aereo da dar l’impressione di esser fatto di quella sostanza di cui son fatti i sogni. Soprattutto se sono sogni d’una mezza estate così tormentata. E poi se gli occhi son tutti puntati a scoprire da quale buco spunterà il coniglio ci sarà un perché.

La situazione internazionale rendeva indispensabile un intervento immediato, però occorrevano equità e sviluppo

Ma il ministro non vede la crisi di Savino Pezzotta segue dalla prima Utilizzando, come suggerisce di fare la Fondazione Cancan che ogni anno con la Caritas Italiana redige l’importante «Rapporto sulla povertà ed esclusione sociale», i criteri di valutazione praticati dalle banche e dal credito al consumo i poveri sarebbero circa 800.000 in più. Ma il dato più rilevante del rapporto Istat è il calo dell’occupazione per l’80% i giovani e in particolare quelli che vivo nella famiglia di origine. Peggiorano le condizioni delle famiglie povere al sud mentre cresce la povertà assoluta delle famiglie operaie.

Mettendo in relazione i dati sulla povertà, e di come questa colpisce i giovani , le famiglie del sud e quelle operaie, emerge con chiarezza come al centro di tutto ci sia la questione della carenza di lavoro e della disoccupazione. Gli effetti di questa situazione non sono ancora drammatici perché sono stati attenuati da due ammortizzatori sociali: la cassa integrazione guadagni e la famiglia, anche se quest’ultima deve fare i conti con la diminuzione del reddito e l’indebitamento. Il rischio che si avverte, dopo la crisi finanziaria e quella dell’economia reale, è che si stia entrando in una crisi sociale di notevole portata. Inoltre la crisi economico-occupazionale sta accentuando le distanze sociali e amplia le disuguaglianze. Dopo che si era fatto l’elogio di Robin Hood che toglieva ai ricchi per dare ai poveri ci troviamo in una situazione esattamente contraria. In questi anni abbiamo sentito e letto molte critiche e osservazioni sulla scarsa mobilita sociale e premialità del merito. Tutte ragioni condivisibili, ma mi domando: se la ricchezza si contrae, si distribuisce in

modo ineguale e tende a concentrarsi nei portafogli di pochi, con cosa si può generare, mobilità verticale e remunerazione del merito? Questa non è una domanda retorica, ma pone due questioni di fondo: l’uguaglianza e la crescita. Può a prima vista apparire paradossale cercare di collegare queste due questioni, viceversa è sempre più chiaro che il loro collegamento è indispensabile. Esiste oggi in Italia una forte disparità di redditi che preoccupa e che può essere foriera di grandi tensioni sociali. La disuguaglianza palese e magari ostentata mette in movimento un’esigenza di giustizia che può essere accompagnata dal formarsi di sentimenti negativi come l’invidia, il rancore e il risentimento. Non è un caso che le nostre società siano attraversate da diverse forme di rancorosità sociale e personale e che questo sentire vada pari passo con il crescere delle disuguaglianze (su questi temi andrebbero riprese a approfondite le analisi di René Girard sul risentimento e quelle di Aldo Bonomi sul rancore). Se a tutto questo si aggiunge quanto stiamo vedendo e leggendo in merito alla “cricche ridenti”, alle P3 e all’intreccio tra affari personali e politica, le tensioni non possono che aumentare e la rancorosità tenderà sempre più a sfociare in forme diffuse di conflitto o di menefreghismo civico.

se una società democratica può restare ed essere tale se non affronta con rigore il tema dell’uguaglianza e delle pari opportunità, se no si da strumenti e politiche che rimodulino e ricalibrino costantemente questo problema. Non si può entrare nell’Agorà se le disuguaglianze sono troppo forti, perché alla fine qualcuno deciderà di ritirarsi sul Monte Mario e rompere la coesione sociale e politica. E siccome non vedo tra noi nessun Menenio Agrippa, i rischi possono farsi forti. Vittorio Valletta, mitico presidente della Fiat, nel 1966 guadagnava 60 volte più dei sui operai, oggi l’amministratore delegato della Fiat , Sergio Marchionne, uomo di qualità, guadagna 435 volte di più dei suoi operai. Questo è solo un piccolo esempio di come le cose sono cambiate. Il problema di fondo che questi temi ci pongono è quello della ripresa e questo ci introduce alle problematiche della manovra economica del Governo. La sua inelluttabilità non è in discussione, ma le modalità con cui viene attuata ci sembrano inadeguate alla situazione e alle esigenze di uno stretto raccordo tra risanamento e politiche per la crescita. Ho la metta impressione che si sia scelto di seguire i canoni dell’economia neoclassica il cui obiettivo è raggiungere un determinato equilibrio e una volta raggiunto lasciare che agiscano gli eventi endogeni. Questo significa che la manovra non produrrà momenti di crescita, ma semmai una stasi che potrebbe sfociare in recessione. Questa impostazione

Il rigore, se non punta anche all’equità, serve solo a creare nuovi, possibili, squilibri sociali: è questo il limite maggiore della politica economica del governo

Non ho mai fatto il tifo per le società egualitarie e il socialismo mi è sempre apparso come una proposta strana. Fatta questa considerazione mi chiedo anche

è evidenziata in modo eclatante dai cosiddetti tagli lineari e dalla carenza di riforme strutturali. I tagli alla Regioni, province e comuni bloccheranno le possibilità di innovazione territoriale e limiteranno l’erogazione di servizi pubblici accentando gli elementi di disuguaglianza, di restrizione di servizi come quelli dei trasporti accentando le difficoltà dei territori periferici e marginali, che senso ha andare da Milano a Roma in tre ore se poi per andare a Sondrio ci impiego il doppio? È chiaro che il non ammodernamento dei servizi di trasporto regionale penalizzerà i lavoratori pendolari , ma anche la piccola e media impresa. Una manovra che rivede il tema del sostegno ai disabili, ai non autosufficienti che non mette risorse sulle politiche famigliari finisce per consolidare e produrre disuguaglianze. Nel frattempo si bonificano gli agricoltori che non hanno rispettato le regole sulle quote latte. E cosa possiamo dire sul Mezzogiorno che è il grande assente dopo che si sono depredati i fondi per le aree sottosviluppate ( Fas)?

Mentre plaudo alle brillanti operazioni della polizia su mafia e n’drangheta in Lombardia non posso non sottolineare la contraddizione della riduzione delle risorse alla sicurezza , il blocco dei contratti e il rinvio del riordino delle carriere. Inoltre voglio sottolinarare che mentre paesi come la Germania e l’Inghilterra puntano a una riduzione delle spese militari l’Italia si appresta al all’acquisto di costosissimi caccia bombardieri. Insomma, siamo di fronte a una manovra necessaria ma inadeguata rispetto alle sfide che l’economia mondiale pone al nostro Paese, alle Tensioni sociali e al crescere delle disparità tra i cittadini. Sono convinto che serviva più rigore , più equità e uno sguardo più acuto verso il futuro.


il ritratto

pagina 4 • 17 luglio 2010

Famiglia liberale, gioventù socialista: nel ’94 viene eletto con Segni, ma passa subito a Forza Italia

Il ragazzo che vinceva a Monopoli (e che ora sogna il Bingo) Una chiromante un giorno gli predisse il Quirinale. Ma lui, da sempre, si “accontenta” di puntare alla presidenza del Consiglio. Storia, vita e miracoli del più sospettato ministro di Berlusconi di Maurizio Stefanini i famiglia liberale, Giulio Tremonti entrò in politica dopo l’Università da socialista: un socialista di sinistra che era ostile a Craxi e scriveva anche sul Manifesto, con lo pseudonimo di Lombard. Ma la sorella Angiola assicura che fin da piccolo la sua passione erano i soldi, anche fasulli. «Da ragazzini, giocavamo a Monopoli e lui era forte. Oltre a essere sempre più ricco. Il nonno, ci dava 10mila lire quando si prendeva 10 a scuola, e 50 lire per un 9 o un 8. Ci compravamo le figurine. L’unico anno in cui vinsi su di lui fu quando al ginnasio zoppicava un po’, e io alle magistrali volavo». Sempre Angiola ha testimoniato su un suo primadonnismo che a 15 mesi lo vide prodursi in una crisi di gelosia alla notizia della nascita di lei, manifestata col correre inferocito per casa ad agitare minaccioso un mestolo. Storie di fine 1948, dal momento che lui è nato il 18 agosto 1948. A Sondrio, ma da genitori cadorini, e sul Cadore la madre ha scritto varie poesie, mentre un dna artistico ha portato invece Angiola verso pittura e scultura. Insomma, ecco qui i vari e spesso ossimorici ingredienti della ricetta che ha dato un risultato così peculiare. L’interesse per il denaro, e un uzzolo vagamente anticapitalista. La trasversalità, e le radici nordiste. L’egocentrismo, e un peculiare richiamo per l’estetica. Docente di Diritto Tributario a 27 anni dopo essersi laureato in Giurisprudenza, non è in realtà un economista formatosi in ambiente giuridico nella tradizione degli Einaudi o dei Modigliani, ma

D

un tributarista con un senso quasi artistico del modo in cui far pagare ai suoi clienti il meno tasse possibile. Per lo meno, sul suo senso dell’arte testimonia in modo in cui nel 1986 trasformò un argomento ostico come quello tributario in un best-seller dal titolo Le cento tasse degli italiani.

“Cento tasse” che poi proposte di ridurre a sole otto in un altro libro del 1995: La riforma fiscale. Otto tasse, un unico codice, federalismo (vedo, pago, voto). E sulla sua bravura dice tutto la differenza tra il suo reddito lordo e l’imponibile netto che ne è riuscito a ricavare: nel 2009 da ben 176.897 ad appena 39.672, il più basso di tutto il Parlamento. Eppure, questa sua specializzazione in riduzioni fiscali si unisce a un’ostilità teorica feroce per lo strumento del condono fiscale: «In Sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe. In Italia lo si fa prima delle elezioni, ma mutando i fattori il prodotto non cambia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge», scrisse ad esempio sul Corriere della Sera del 25 settembre 1991 (in quel giornale era stato chiamato dal liberale ortodosso Piero Ostellino, e ci collaborerà dal 1984 al 1994). Salvo che poi questo nemico delle tasse è diventato un ministro delle Finanze che invece le fa pagare a tutto spiano. Ma spremendo soldi dagli evasori anche con condoni fiscali pratici in quantità. Tremonti è stato pure uno che ha lavorato negli anni ’70 in una società di consulenza e revisione internazionale. Ma è anche colui che dal 2005 in poi ha cominciato a scrivere pamphlet contro la globalizzazione dei commerci, invocando dazi contro la Cina. Meritano anche di essere ricorrdati i titoli dei due libri che scrisse tra 1997 e 1999: Lo Stato criminogeno. La fine dello Stato giacobino. Un manifesto liberale; Meno tasse piu sviluppo. Un progetto per uscire dalla crisi. Salvo poi un decennio più tardi trasformarsi in colui che ha voluto re-

suscitare all’atualità politica quel Colbert ministro del Re Sole, che non era propriamente un fautore dello stato minimo. E meno che mai del decentramento. In più, Tremonti ha avuto anche un percorso politico inquieto. Tra 1979 e 1990 si riavvicinò infatti a Craxi come stretto collboratore di Franco Reviglio e Rino Formica. Nel 1987 fu candidato nelle liste del Psi come uomo di De Michelis. Con la fine della Prima repubblica transitò in Alleanza Democratica. Nel 1994 fu eletto deputato con il Patto Segni, contro l’asse tra Forza Italia. Lega Nord e Alleanza Nazionale, e dopo una campagna elettorale in cui era stato durissimo contro il programma fiscale di Berlusconi. «Miracolismo finanziario». «Panzane». Dell’idea dell’aliquota unica del 33% sul reddito disse che gli ricordava «la favola di Voltaire, che diceva “voglio diventare svizzero, maledetta l’imposta unica che mi ha ridotto in miseria”. Quell’idea fa pagare meno ai poverissimi e ai super-ricchi, ma penalizza proprio la classe media, l’uomo della strada. E poi le proposte vanno lette nel loro insieme. Il federalismo fiscale di Forza Italia toglie qualunque potere di imposizione allo Stato nazionale, di fatto cancella l’Irpef che è un’imposta nazionale, è come se riducesse con una mano qualcosa che con l’altra cancella».

Ma subito dopo il voto passò invece a Berlusconi, che in cambio lo fece ministro delle Finanze. E la sua posizione evolvette al punto da essere l’artefice della riappacificazione fra Forza Italia e Lega Nord, da cui la vittoria che nel 2001 lo proiettò di nuovo alle Finanze, ora unite all’Economia. Ma a quel punto il suo nemico divenne Fini, che lo accusò di “conti truccati” nella legge finanziaria del 2003, per due miliardi di differenza tra la manovra annunciata e riduzioni effettivamente ottenute. «Ragioni contabili», disse. Ma il 3 luglio del 2002 fu costretto alle dimissioni. Dal declassamento lo salvò però la


17 luglio 2010 • pagina 5

Le Idi di agosto Noi di liberal vi avevamo avvertito il 1° luglio: «Attenti allle Idi di agosto». Certo, ancora non sapevamo che per i fedelissimi della nuova lobby politica e affaristica (Carboni, Verdini, Marra, Dell’Utri, Cosentino e compagnia bella) «Cesare» era Berlusconi, ma era già evidente che qualcosa di importante si stava preparando. Ora bisogna capire chi sia il Bruto delle Idi di agosto (proprio a Bruto ieri faceva rifierimento Il Riformista): Tremonti o Di Pietro? Comunque sia, auguriamo a Berlusconi di non rispondere sempre e solo «O Cesare o nessuno» come diceva il grande attore Edmund Kean: fece una brutta fine, Kean.

L’Idv: «Un esecutivo per fare la nuova legge elettorale»

E Di Pietro disse no Ma anche un po’ sì

L’ex magistrato tuona contro le «larghe intese» ma chiede un governo istituzionale di Marco Palombi

sconfitta elettorale del centro-destra, alle regionali del 2005. Una botta da cui si salvò in pratica solo quel LombardoVeneto in cui Tremonti era popolarissimo, per essere considerato dai leghisti alla stregia di un esponente del loro partito con la tessera di Forza Italia.

Il 23 aprile torna dunque alla vicepresidenza del Consiglio, proprio in coppia con Fini. E il 22 settembre torna alll’Economia e Finanze, proprio per preparare l’ultima finanziaria della Legislatura. Dopo di che, si permise pure il bel gesto di cedere l’interim a Berlusconi negli ultimi 9 giorni. Vicepresidente della Camera in rappresentanza dell’opposizione tra 2006 e 2008 intanto che distillava le sue nuove idee colbertiane, anti-cinesi e global-scettiche, la nuova vittoria di Berlusconi gli ha infine concesso di provare a metterle in pratica: di nuovo da ministro dell’Economia e Finanza. «Non possiamo fer-

Nel 2002 fu costretto alle dimissioni. Dal declassamento lo salvò però la sconfitta elettorale del centrodestra, alle Regionali 2005 mare la modernità, ma non possiamo nemmeno subirla in modo passivo», è un suo slogan. Considerato ormai un vero e proprio ideologo del centro-destra e un possibile delfino di Berlusconi,Tremonti ha contro di sé la nomenklatura del Pdl, cui garba sempre meno il suo asse di ferro con Bossi. A favore, la previsione di una chiromante, almeno secondo il racconto della sorella. «Un giorno, avremo avuto 6 o 7 anni, una vicina di casa ci aveva portato a farci leggere la mano da una conoscente. A me disse che sarei diventata una grande artista, a Giulio che sarebbe diventato presidente della Repubblica». Anche se molti sospettano che lui preferirebbe Palazzo Chigi.

Nel frattempo Tremonti ha però fatto un’altra giravolta: lanciando sì slogan contro le banche, ma anche ta-

gliando risorse a tutto spiano in modo molto poco colbertista. Anche se è proprio in virtù di questo “rigore” se l’Unione Europea lo considera una sorta di garante della tenuta italiana, malgrado non si tratti propriamente di un euroentusiasta. È solo un’imitazione di Corrado Guzzanti che abbia decurtato perfino le gambe delle sedie: ma certamente tanto parlare di federalismo fiscale non si riscontra nei feroci tagli alla finanza locale, e pure le limitazioni ai fondi dell’editoria che rischiano di far chiudere il Manifesto non rivelano una gratitudine particolare, verso il giornale in cui cominciò a mettere le sue idee e le sue analisi nero su bianco. I maligni hanno invece detto che di favoritismi ne avrebbe fatti in compenso verso Angiola, forse per indennizzarla delle mestolate in testa che voleva darle appena nata.

Lei, che una volta si è candidata con Forza Italia ma ha un marito leghista, non nega di aver avuto a disposizione una struttura della Guardia di Finanza per una mostra dei suoi quadri. Ha però spiegato che la richiesta l’aveva fatta ben cinque anni prima che il fratello diventasse ministro. Il quadro della famiglia è poi completato dal terzo fratello Pier Luigi, che è il più grande, e che in quanto primogenito ha infatti ereditato la farmacia di famiglia. Lui però è stato segretario della Fiamma Tricolore, e in quella veste ha più vole appeso e fatto appendere manifesti contro le politiche “di Tremonti”. Firmato: Tremonti. Ed è stato Gian Antonio Stella a immaginare i Natali in casa Tremonti, paragonandoli a quella famiglia di Trilussa con un padre democratico cristiano e tre figli socialista “rivoluzionario”, monarchico e repubblicano. A parte la politica, i tre si dividono equamente anche nei gusti sportivi: Pier Luigi è presidente di un club di auto d’epoca; Angiola era maestra di tennis; Giulio ha fama di sciatore spericolato. E forse per questo viene giù spesso a valanga quando deve parlare. «Prima di parlare assicurati d’ avere collegato il cervello», disse una volta in tv a Ottaviano Del turco, peraltro ex-compagno di partito. «Sud cialtrone, prende i soldi e non li spende», è stata la recente sua sparata contro gli amministratori meridionali. «Testa di cazzo», disse semplicemente al giornalista di Bloomberg Steve Scherer che nel corso dei una conferenza stampa gli aveva fatto una domanda sullo scudo fiscale. «Tornatene in Turchia!», gridò a un Forum di Davos all’economista americano di origine turca Nouriel Roubini.

ntonio Di Pietro, ormai, è rimasto l’unico a non scommettere sulla crisi di governo. È certo che Silvio Berlusconi resisterà a palazzo Chigi consentendogli di continuare a lucrare la sua rendita di posizione elettorale, di abbaiare contro i ladri, le caste, i piduisti, di isterizzare le masse col pericolo del golpe dei ducetti in sedicesimo, della dittatura del partito padronale che è tanto la sua ossessione rispetto al Pdl quanto l’unico modo in cui riesce a gestire Italia dei Valori. È per la sicurezza con cui vede il Cavaliere (per così dire) in sella, che si consente di irridere a Pierluigi Bersani – per non dire del “mercato delle vacche” riservato alle posizioni dell’Udc – mentre il segretario democratico tenta di incunearsi nelle contraddizioni della maggioranza con l’intento di togliere di mezzo non il centrodestra, ma l’anomalia Berlusconi. «Il Pd faccia quello che vuole – scandiva l’ex pm qualche giorno fa – ma chi vuole allearsi con noi non può stare con i piedi in due scarpe. O sta con noi o con quelli delle “cene” e della casta». L’unica strada di fronte al fallimento del governo è, insomma, «il ritorno al voto». Chiaro e deciso. «Che ciazzeccano le larghe intese?», ha scimmiottato se stesso davanti alle telecamere di Repubblica Tv giovedì: «Larghe intese vuol dire fare una maggioranza in Parlamento con quelli che hanno votato la fiducia alla manovra, votano le intercettazioni e le altre leggi di questo governo. E io mi dovrei mettere insieme a queste persone per fare un governo? Chi lo fa, vuole solo mantenere il proprio cadreghino». Pensiero un po’ grossier (Idv, per dire, ha votato a favore del poco commendevole federalismo demaniale), ma che ha almeno il dono della intellegibilità.

A

più: è favorevole non solo in camera caritatis, come spesso accade in politica, ma persino in pubblico.

Di Pietro si limita a giocare con le parole, per quanto glielo consentono vocabolario e attitudine ludica: «Noi di Italia dei Valori riteniamo immorale e inopportuno che si scelgano strade diverse dalle elezioni, ma prima bisogna risolvere due problemi della nostra democrazia: conflitto di interessi e legge elettorale». E come si potrebbe fare? Non con le larghe intese, per carità, ma con un bel «governo istituzionale, che è una cosa diversa». Certo che lui, comunque, non si fida che i «parlamentari nominati da Berlusconi vogliano fare norme così fondamentali». Insomma, Idv è favorevole ad un governo di scopo, esattamente come gli altri partiti d’opposizione ma senza, alcuna ovviamente, idea sul futuro del Paese: al nostro interessano solo la legge elettorale, che gli serve, e quella sul conflitto d’interessi, dipinta come una sorta di pozione magica che regalerebbe agli anti-berlusconiani quella cospicua parte di elettorato che gli manca per essere maggioranza. Come che sia, il modello comunicativo è semplice: le chiacchiere per il suo incazzoso elettorato e la sostanza per i rapporti politici. Bersani, d’altronde, ha già affrontato l’argomento con l’ex magistrato: ha agitato davanti al suo naso il profumo del modello tedesco – che lo svincolerebbe da qualunque stabile legame di coalizione – e il profilo oscuro d’una minaccia. Se Berlusconi dovesse cadere e IdV si sfilasse da un eventuale esecutivo di scopo - gli ha spiegato il segretario democratico - poi dovrebbe anche scordarsi qualunque forma di coalizione col Pd. Non solo: l’obiettivo a quel punto sarebbe la costruzione di un centrosinistra anti-dipietrista. L’uomo di Montenero di Bisaccia ha preso atto e, sfruttando la naturale confusione del suo discorso pubblico, ha cominciato a dire «no ma anche sì». Come un ex leader che un tempo si divertiva a prendere in giro.

«Le poltrone non ci interessano, ma davvero sarebbe immorale tornare a votare con queste regole», continua a ripetere

Ma davvero il padre padrone di Italia dei Valori – partito e associazione – è contrario ad un governo di scopo che, caduto Silvio Berlusconi, risolva alcune questioni prima di portare il Paese alle urne? La risposta è no. Di


pagina 6 • 17 luglio 2010

l’approfondimento

Alla luce del nuovo “manifesto di governo” di conservatori e liberaldemocratici un’analisi dei partiti nostrani

Fino all’ultimo respiro

Berlusconi, Fini, Tremonti (con Bossi): chi vincerà la partita per la conquista del centrodestra? Intanto l’unico dato certo è che il Pdl non esiste più. Proviamo a immaginare come poteva andare se i leader fossero stati Cameron e Clegg di Gennaro Malgieri avid Cameron e Nick Clegg, rispettivamente leader dei conservatori e leader dei liberaldemocratici, dunque premier e vice-premier britannici, hanno pubblicato nei giorni scorsi un articolo-manifesto, ripreso in Italia da liberal, nel quale hanno reso noto le linee-guida del loro programma di governo che prelude, secondo molti osservatori, ad una possibile fusione tra i due partiti.

D

Non è un documento ideologico che inevitabilmente si sarebbe interrotto dopo poche righe, ma un riassunto degli interventi che i due uomini politici intendono attuare per far uscire la Gran Bretagna dalle difficoltà economiche e sociali nelle quali si dibatte. Ma anche per porre le basi della modernizzazione del loro Paese compatibilmente con le aspirazioni dei cittadini i quali, nonostante la crisi, molto si attendono dalla collaborazione tra le due forze politiche al potere. Il tutto, mentre David Miliband si ap-

presta a riformare il Labour Party con l’intento di dargli una fisionomia diversa da quella lasciatagli in eredità da Tony Blair e da Gordon Brown. Insomma, grandi movimenti politici nel Regno Unito seguendo i percorsi tipici di una grande democrazia la quale non rinuncia ad essere tendenzialmente bipolare anche quando tutto lascia intendere che il bipolarismo, o meglio il bipartitismo, sia al tramonto come ha dimostrato il successo di una terza forza che è entrata a far parte addirittura del governo mettendo responsabilmente da parte tutte le possibili idiosincrasie e comprensibili contraddizioni.

In realtà, tanto Cameron che Clegg sono consapevoli che soltanto affinando le sensibilità programmatiche, piuttosto che intestardirsi nel coltivare pregiudizi ideologici, la Gran Bretagna potrà avere un esecutivo solido all’insegna di un nuovo bipartitismo, composito e plurale, dunque diverso da quello che per decenni ha dominato la

politica londinese. Non è scandaloso né per loro, né tantomeno per l’avversario laburista se i due avversari alle elezioni hanno deciso di collaborare dando vita ad una inedita coalizione e si trovano ora sul punto di fondersi, anche se l’operazione presenta difficoltà che vanno adeguatamente ponderate da entrambi e dalle componenti più radicali dei conservatori e dei liberaldemocratici .

Se il progetto che Cameron e Clegg coltivano senza farne mistero (al punto da stilare un manifesto comune) dovesse andare in porto non ci si troverebbe di fronte ad una “fusione a freddo”, come è avvenuto in Italia sommando varie forze sul versante del centrosinistra e del centrodestra, ognuna restando sostanzialmente uguale a se stessa e perciò destabilizzante per il partito-coalizione messo in piedi, ma ad un vero e proprio soggetto politico germinato da una valutazione spassionata delle cose da fare piuttosto che dalle questioni di

leadership da sistemare come è avvenuto da noi.

Insomma, il bipolarismo o bipartitismo britannico sembra avere ragione sugli egoismi di parte, in virtù di un razionalismo politico improntato ad un riformismo perfino radicale per certi aspetti, come si capisce dal documento che Cameron e Clegg hanno stilato, in particolare dove si legge che il loro programma «non dice solo che siamo impegnati a riformare, ma anche che ogni azione per concordare le nostre politiche ci ha resi più radicali sulla necessità di decentralizzare il potere. Questo unisce il pensiero conservatore su scelta e competizione con il pensiero tipicamente liberal-democratico, che le democrazie locali possano creare una visione realmente radicale per il sistema sanitario nazionale, dando autorità di delega ai medici generali e dando ai pazienti molto più controllo, e garantendo una responsabilità democratica a quei consigli che si assumono più oneri, soprat-

tutto in tema di sanità pubblica». È questo soltanto uno dei molti aspetti di convergenza fattiva e a-ideologica che testimonia dell’adozione di un criterio pragmatico nell’immaginare un’unione da estendere ad altri settori critici della società britannica. Un esempio calzante, insomma, di come ci si può approcciare alla costruzione di un soggetto politico disomogeneo nelle premesse storiche, ma assolutamente omogeneo nell’approdo senza indulgere nei bizantinismi o nell’acriticità plebiscitaria che ha caratterizzato la formazione dei nuovi partiti politici in Italia destinati, come si vede, ad implodere nel volgere di poco tempo. Quanto è avvenuto nel Pd è fin troppo noto per soffermarcisi ancora. Quanto sta avvenendo nel Pdl è ancora più drammatico poiché esso è il partito-guida della coalizione di governo. Le guerre fratricide che ne stanno segnando la fine erano fin troppo prevedibili, come testimoniano i numerosi interventi apparsi su questo giornale. In un contesto bipolare


17 luglio 2010 • pagina 7

Una risposta a chi obietta sulla correttezza della proposta lanciata da Pier Ferdinando Casini

Difesa “a la Carta” di un governo di larghe intese La nostra Costituzione non prevede in alcun modo che sia solo il voto popolare a dare legittimità all’esercizio della funzione esecutiva di Francesco D’Onofrio a questione di fondo che il dibattito politico sta affrontando in questi giorni, soprattutto sull’onda della proposta originaria di Pier Ferdinando Casini, concerne proprio la possibilità stessa che si dia vita ad un governo diverso dal governo “legittimato” dal voto elettorale.Vi è infatti chi afferma che solo il voto popolare legittima all’esercizio della funzione di Governo dell’Italia, sulla base del programma che si afferma essere stato posto a fondamento del voto popolare medesimo. Questa opinione, fortemente sostenuta all’interno del Pdl, trova consensi per ragioni molto diverse tra di loro anche in esponenti della Lega Nord, dell’Italia dei valori, e del Partito democratico. In qualche modo si può ritenere che si tratti di un’opinione largamente maggioritaria, almeno allo stato degli atti.

detto “voto utile”, ed ha conseguenzialmente proposto la possibilità politica della formazione di un governo di “responsabilità nazionale”, diverso dal governo dell’alleanza Pdl-Lega, che è risultata vincitrice alle ultime elezioni politiche, quelle del 14 aprile 2008. Si tratta nella sostanza dell’affermazione di principio in virtù della quale il soggetto partito politico riconosce evidentemente il valore costituzionale e politico del risultato elettorale, ma non attribuisce soltanto ad esso la legittimazione anche costituzionale del governo che si fonda sul voto degli elettori.

L

La stessa legge elettorale vigente finisce con il fornire a questa opinione una qualche veste di legalità, in quanto essa attribuisce un pur significativo premio di maggioranza alla Camera dei deputati, al partito o alla coalizione che sia risultata comunque vincente nella com-

Soltanto in assenza del consenso parlamentare per un nuovo esecutivo, si “deve” tornare alle urne petizione elettorale, ponendo come sola pregiudiziale la previsione che si sia ottenuto almeno il quattro per cento dei voti su base nazionale. Si tratta dunque di una questione di fondo che concerne contemporaneamente l’ordinamento costituzionale quale esso è ancora oggi (sistema parlamentare fondato su partiti politici); la legislazione elettorale vigente per l’elezione della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica; l’opinione espressa da esponenti dei diversi soggetti politici che si sono presentati alle elezioni, facendo parte o meno di coalizioni di governo.

L’Unione di centro – che si è presentata alle elezioni da sola – si è scontrata anche elettoralmente con la pretesa di Pdl e Pd che invocavano allora il cosidAccanto, Pier Ferdinando Casini. In alto, l’allora presidente della Repubblica, Enrico De Nicola firma la Costituzione democratica che entrò in vigore nel 1848

Questa opinione è rigorosamente in linea con il sistema costituzionale vigente, che vede nel voto elettorale una fonte necessaria per il rapporto di fiducia che lega Parlamento e Governo, ma non anche la fonte esclusiva della legittimità a governare. Questa affermazione stabilisce pertanto una sostanziale continuità costituzionale nel passaggio dalla cosiddetta Prima Repubblica alla cosiddetta Seconda Repubblica: fin quando rimarrà vigente il sistema costituzionale di governo, disciplinato dalla Costituzione medesima, l’affermazione in base alla quale solo il voto elettorale legittima all’esercizio della funzione di governo, rimane necessariamente ancorata al mondo delle opinioni certamente legittime, ma non anche al mondo del diritto costituzionale. Se pertanto ci si chiede se si possa dar vita ad un governo diverso da quello che si è formato sulla base del voto elettorale, la risposta – almeno dal punto di vista della teoria costituzionale – dovrà essere necessariamente positiva. Altro evidentemente è il problema del quale possa essere il motivo della formazione di un siffatto governo: la transizione istituzionale; la trasformazione dello Stato; la congiuntura economica straordinaria; lo stadio del processo di integrazione europea, o altro ancora. Si possono pertanto ritrovare tutte le opzioni che in questi ultimi tempi sono state indicate: responsabilità nazionale; unità nazionale; larghe intese; transizione e altre ancora: sul se di un governo diverso da quello legittimato dal voto popolare, non sembra pertanto che possano esservi dubbi di ordine costituzionale; sul perché e sul come il dibattito politico è ovviamente aperto ad ogni ipotesi che risulti capace di coagulare il necessario sostegno parlamentare. Soltanto se manca il consenso parlamentare necessario per la formazione di un nuovo governo, il ricorso a nuove elezioni sarà la conseguenza istituzionalmente conseguente allo scioglimento delle Camere.

non metabolizzato culturalmente, era fatale che si spegnessero sul nascere le velleità di quanti immaginavano l’unione tra soggettività diverse senza aver provveduto ad un lavorìo di omogeneizzazione preventivo. Insomma, invece che al programma condiviso, rivolto alle esigenze dei cittadini, ci si è fatti prendere la mano dal gigantismo politico derivante da un calcolo aritmetico.

Hanno poche ragioni coloro i quali denunciano la deriva monarchico-anarchica del Pdl poiché sapevano benissimo che le modalità dell’operazione non erano congrue allo scopo che intendevano perseguire. E così si trovano tutti in un guado impantanati, guardandosi in cagnesco, in attesa della maturazione degli eventi. Berlusconi, Fini e Tremonti (gli altri soggetti sono in misura diversa funzionali a questi tre) stanno giocando una partita di potere i cui esiti sono incerti. Di certo c’è solo che il Pdl, di fatto, non esiste più, ma con onestà bisogna ammettere che si tratta di una provvisoria coalizione di forzecorrenti, mascherate da associazioni, fondazioni, centri culturali, e via seguitando, che stanno cercando di posizionarsi per quando lo show down si verificherà. Altro che bipolarismo. Chi lo ha messo in crisi, immaginandolo muscolare ed intollerante, vale a dire al contrario di come dovrebbe essere, sono stati proprio i soggetti che se ne sono fatti, magari in buona fede, portatori. Mai immaginando, a differenza di Cameron e Clegg, che soltanto su un programma di governo è possibile rinunciare a parti considerevoli non della propria storia, ma dei propri pregiudizi in vista della salvaguardia del “bene comune”. Non sappiamo, francamente, al punto in cui sono le cose, che idea si abbia tra le varie componenti del centrodestra proprio del “bene comune”, tante e tali sono le differenze tra i duellanti delle cui intenzioni concrete poco si sa, ma molto si intuisce almeno del percorso di Tremonti il quale potrebbe essere l’espressione come candidato premier di un partito con accentuate tendenze autonomiste, per non dire separatiste, come la Lega, su cui convergerebbero movimenti dello stesso tipo, seppure di minor consistenza che pure si muovono nervosamente nel Mezzogiorno d’Italia. Tra Berlusconi, Fini e Tremonti che esito avrà la partita per la conquista del centrodestra innanzitutto? Su questo interrogativo la calda estate italiana è destinata a diventare rovente. Se poi ci si mettono le questioni legate alla disarticolazione del potere, è il caso di interrogare gli aruspici. Troppa fatica. E pensare che basterebbero dei Cameron e dei Clegg a risolvere la partita. Ma noi non siamo inglesi, con tutto quel che segue...


pagina 8 • 17 luglio 2010

politica

Cricche. Maggioranza in fibrillazione per l’inchiesta sulla truffa eolica. In Consiglio dei ministri il Cavaliere chiede (e per ora ottiene) fedeltà assoluta

I Cesaroni di Ghedini L’avvocato del premier grida all’ennesimo complotto E Berlusconi spiega: «Vogliono solo delegittimarci» di Alessandro D’Amato

ROMA. «Vogliono delegittimarci». In questo virgolettato attribuito ieri a Silvio Berlusconi durante il Consiglio dei ministri traspare tutta la sua irritazione per l’ennesimo scandalo in cui viene tirato in ballo il suo nome: l’inchiesta eolico/P3, che all’inizio pareva coinvolgere soltanto marginalmente il Pdl a causa delle “allegre” consuetudini del coordinatore Denis Verdini, è scoppiata come un bubbone con le accuse di associazione segreta a carico dei“tre vecchietti”(Carboni, Lombardi e Martino), e soprattutto con la pubblicazione delle telefonate intercettate nelle quali, a quanto sembra, il presunto sodalizio chiamava in causa il Cavaliere con il nomignolo di Cesare. «Non date retta ai giochi di palazzo. Non c’è da essere preoccupati, occorre continuare a lavorare con tranquillità. Dobbiamo concentrarci sulle cose concrete, parliamo dei fatti e dei risultati che abbiamo raggiunto», avrebbe suggerito il presidente del Consiglio ai suoi ministri. Il Cavaliere, riportano le stesse fonti, ha fatto un accenno alle ultime inchieste giudiziarie quando ha spiegato che si tratta solo di «chiacchiere che non ci scalfiscono. C’è un disegno per delegittimarci. Noi andiamo avanti per la nostra strada». E ha annunciato poi di volersi concentrare sul partito, rinunciando anche alle vacanze, e ha invitato i ministri a non presta-

L’ipotesi più fantasiosa per la possibile pace nel Pdl è un triumvirato femminile con Gelmini, Carfagna e Meloni re il fianco a polemiche sterili, soprattutto con i finiani. Secondo alcuni, il progetto del Cavaliere sul Pdl investirebbe tre donne come coordinatori nazionali al posto dell’attuale triumvirato composto da Denis Verdini, Sandro Bondi e Ignazio La Russa. In una fase di empasse dell’azione di governo il restyling del Popolo della Libertà, che passa necessariamente attraverso una revisione degli incarichi di partito, troverebbe nel “triummullierato“, una delle soluzioni meno indolori.Tra le papabili coordinatrici sarebbero certe i ministri Mariastella Gelmini e Mara Carfagna. Mentre per occupare la terza casella sono in corsa Stefania Prestigiacomo, Giorgia Meloni e Michela Vittoria Brambilla. Anche se in realtà lo statuto Pdl è di intralcio all’iniziativa: secondo le regole in vigore i tre coordinatori attuali dovrebbero fare un passo indietro e dimettersi, operazione che Bondi e La Russa non sono certamente propensi ad accettare di buon grado.

Tornando all’inchiesta, le parole di Berlusconi hanno dato fuoco alle polveri nel partito e nel governo. «C’è un’operazione politica e mediatica che punta a offuscare e a stravolgere i risultati ottenuti dal governo Berlusconi al punto tale da aprire un dibat-

Franceschini chiede il voto per sette emendamenti alle intercettazioni

Il Pd corteggia i finiani ma Bocchino non ci sta di Andrea Ottieri

ROMA. Nelle pieghe della legge sulle intercettazioni, ieri il Pd ha tentato (sembra inutilmente) un abboccamento con i finiani del Pdl. Tutto è cominciato con la presentazione di sette emendamenti targati Pd ma di chiarissima ispirazione «finiana».

Le correzioni presentate dal presidente dei parlamentari del Pd, Dario Franceschini, riguardano vari punti della legge: innanzi tutto, l’eliminazione delle sanzioni agli editori, l’equiparazione delle intercettazioni ambientali extradomiciliari a quelle telefoniche, con un requisito più stringente solo per quelle domiciliari. Per quanto concerne le riprese visive, poi, l’ultimo emendamento chiede vengano sottoposte ai presupposti delle intercettazioni solo quando hanno contenuto «captativo di conversazioni» o «siano effettuate nei luoghi di privata dimora». C’è poi un emendamento sul segreto investigativo: la proposta del Pd è che le intercettazioni restino «coperte dal segreto - si legge nell’emendamento - fino al momento della notifica ai difensori dell’avviso che le intercettazioni sono state depositate in segreteria». Dopo l’udienza di selezione delle conversazioni, invece, «acquisiscono il carattere della segretezza le sole comunicazioni che siano state stralciate in quanto manifestamente irrilevanti rispetto al procedimento o invalidate».Naturalmente, in questo contesto risultano sempre coperte dal segreto «le intercettazioni illecite». Franceschini stesso non ha fatto mistero della funzione strategica degli emendamenti: « Modificano profondamente la legge sia dal punto di vista della libertà di stampa che da un punto di vista della tutela delle intercettazioni come strumento di indagine. Per questo ci rivolgiamo direttamente ai finiani: questa volta siamo noi a chiedere qualcosa a loro e vorremmo, se possibile, un si o un no su

ciascuno di questi emendamenti». Apriti cielo, nel Pdl si è scatenato un putiferio con Cicchetto lì ad accusare preventivamente i compagni di partito di tradimento («Se i finiani diranno sì agli emendamenti presentati dal Pd dovremmo considerare sciolti il partito e il gruppo»). E d’altra parte è possibile che qualche idea del genere sia passata nella testa di qualcuno: proprio l’adesione (minacciata) alla mozione di sfiducia all’ex sottosegretario Cosentino, aveva dato corpo a un’inedita alleanza Pd-finiani all’inizio della settimana. Ma stavolta la minoranza Pdl non è arrivata a tanto: «Cicchitto può star tranquillo che il nostro voto favorevole andrà soltanto agli emendamenti del capogruppo Costa e della presidente Buongiorno» ha chiarito Italo Bocchino. «Il nostro lavoro all’interno del Pdl ha aggiunto - ha come unico obiettivo quello di spingere il partito a varare un buon testo sulle intercettazioni evitando gli abusi ma tutelando la legalità. Il nostro obiettivo resta quello di rafforzare il partito facendolo uscire dalle secche in cui si trova e abbiamo la necessaria esperienza politica - assicura - per non abboccare alle proposte di Franceschini».

Chi vivrà vedrà. Gli emendamenti sono sul tavolo e prima o poi andranno votati. Anche se non è ancora chiaro quale sarà il calendario del provvedimento nei prossimi giorni. Di sicuro, mercoledì il governo aveva chiesto 48 ore per «leggere» gli emandamenti s aturiti dalla mediazione con Fini. Le 48 sono passate e il governo sta ancora leggendo…

tito sulla sua imminente dissoluzione, come ha fatto ieri D’Alema la cui ipotesi di un governo di transizione è chiaramente un’esca lanciata verso qualche ipotetico settore della maggioranza» dice il presidente dei deputati del Pdl Fabrizio Cicchitto. Poi tocca al legale del premier Niccolò Ghedini, che critica «la parziale pubblicazione di atti di indagine, in palese violazione di legge», denunciando il tentativo «di gettare discredito nei confronti del presidente Berlusconi» e negando che il premier sapesse qualcosa sulle mosse degli uomini della cosiddetta P3. Il legale del presidente del Consiglio minaccia: «È evidente che saranno esperite tutte le azioni giudiziarie del caso»: non è del tutto chiaro se ce l’ha con il Corriere e Repubblica che hanno riportato ampi stralci delle intercettazioni o con Carboni, Verdini e Co che si sarebbero permessi di alludere a Berlusconi chiamandolo Cesare... Nel primo pomeriggio, poi, sono arrivate le parole del ministro della Giustizia da Bruxelles:


politica

17 luglio 2010 • pagina 9

Polemiche dopo la decisione del Tar piemontese di ricontare 15mila schede elettorali

«Cota sub judice, Udc pronta a sostenere la governabilità» Teresio Delfino invita il governatore a riaprire a un confronto più ampio con le opposizioni in attesa dei giudizi definitivi di Franco Insardà

«Abbiamo una certezza: che il sistema-giustizia ha dentro di sé tutti gli anticorpi per reagire», ha detto Alfano riferendosi al coinvolgimento di magistrati nell’inchiesta. «Non si può fare di tutta un’erba un fascio e non si può dare la caccia alle streghe. Ciascuno faccia il proprio dovere»«, ammonisce poi «sia dal punto di vista inquirente che dal punto di vista di chi è chiamato a difendersi». Dal canto suo, Formigoni si limita a negare ogni coinvolgimento nella vicenda che lo vorrebbe autore di forti pressioni sulla P3 per far riammetere la sua lista alle scorse Regionali.

Il Partito Democratico si fa sentire con un’intervista all’Unità del senatore Luigi Zanda: «A fronte di questi fatti è necessario acquisire la certezza che il presidente Berlusconi sia al sicuro da qualsiasi ipotesi di ricatto: sarebbe necessario e urgente un dibattito parlamentare. Berlusconi non l’ha mai accettato. Non si presenta mai in Parlamento. In tutta la legislatura è venuto in Senato una sola volta». L’Italia dei Valori invece se la prende con Ghedini: «È vergognoso e molto grave - dice il portavoce Leoluca Orlando - che il responsabile giustizia del Pdl e legale del presidente del Consiglio parli di un tentativo di screditare Berlusconi. I giornalisti, che questo regime vorrebbe imbavagliare, hanno svolto semplicemente il loro mestiere di cani da guardia della democrazia. C’è da chiedersi invece - prosegue Orlando - se l’onorevole Ghedini, collega di partito dei vari Scajola, Brancher e Cosentino, non sia stato in qualche modo a conoscenza delle riunioni in casa Verdini per fare pressioni indebite sui membri della Consulta che stavano per giudicare la costituzionalità del Lodo Alfano». A stretto giro di posta arriva la replica: «Le parole dell’Onorevole Orlando sono palesemente diffamatorie. Agirò immediatamente in giudizio auspicando che l’onorevole non voglia avvalersi dell’art. 68 della Costituzione», ovvero dell’immunità parlamentare.

ROMA. La sua vittoria aveva dato il là alla progressiva conquista del Nord da parte del Carroccio, con la Lombardia prossima tappa di un processo a detta degli osservatori ineludibile. Quarantott’ore fa il Tar del Piemonte – accogliendo due ricorsi su quattro presentati dalle opposizioni – non ha soltanto rimesso in gioco la permanenza di Roberto Cota alla guida della regione Piemonte, ma ha innescato l’ennesima mina nei delicati equilibri all’ombra del Cavaliere. Insomma se Roma piange Torino non ride. Il Tar del Piemonte, infatti, ha deciso che vanno riesaminate le schede elettorali attribuite alle liste “Al centro con Scanderebech” e “Forza consumatori” per verificare se gli elettori hanno espresso la loro preferenza per Roberto Cota. I giudici amministrativi hanno cioè ritenuto che i voti attribuiti alle due liste vanno annullati, perché le due formazioni non sono valide a causa di alcune irregolarità, ma se l’elettore ha anche espresso una preferenza per il candidato presidente, quella va salvata. Saranno, quindi, ritenuti validi soltanto i voti espressi a favore del presidente. Il Tar non ha accolto il ricorso contro la lista “Verdi Verdi”, che quindi è stata ammessa definitivamente e ha fissato la nuova udienza per il 7 ottobre. Slitta, invece, al 18 novembre la discussione del ricorso più controverso, quello relativo alla lista “Pensionati per Cota” di Michele Giovine, il Tar ha accolto parzialmente le ragioni degli avvocati di Mercedes Bresso, chiedendo loro di presentare una querela di falso al tribunale civile e di portarne copia. Sulle presunte irregolarità nella raccolta delle firme a sostegno di quest’ultima lista è in corso anche un procedimento penale a carico di Giovine, indagato dalla Procura di Torino, che ha già chiuso l’inchiesta e ha chiesto per lui il giudizio. Secondo Teresio Delfino, esponente di spicco dell’Udc piemontese che in Regione ha due consiglieri, il Tar «è stato chiaro. Sulla lista “Al centro con Scanderebech” avevamo espresso tutte le nostre perplessità, così come per la lista dei consumatori. Per i “Verdi verdi” ha chiuso la questione, mentre per i pensionati ha rinviato in attesa degli altri procedimenti».

In questo momento particolarmente penalizzante per le Regioni Delfino lancia un segnale politico a Cota: «Aver fatto accordi elettorali con liste senza requisiti è stata un’incauta alleanza. Ora bisogna prendere atto della diversa situazione politica e la maggioranza, essendo sub judice, per evitare che si determini un vuoto governativo dovrebbe aprire un confronto più ampio con le opposizioni, nelle more dei giudizi amministrativi (Tar e Consiglio di Stato). Questo quadro complessivo condizionato dalla irregolarità delle elezioni dovrebbe rendere il centrodestra più disponibile a confrontarsi sulle decisioni da prendere, nel rispetto dei ruoli

che il capogruppo del Pd in Regione Piemonte, Aldo Reschigna, secondo il quale la decisione del Tar «apre una nuova fase, transitoria e delicata, nella situazione politica regionale. L’autorevolezza politica della giunta Cota è ridotta e il centrodestra non può procedere come se nulla fosse successo, ma è necessario a questo punto che compia un cambio di rotta, aprendosi a un maggiore dialogo con l’opposizione». Davide Gariglio, presidente del Consiglio regionale durante l’amministrazione Bresso, ha giudicato «saggia la decisione del Tar, perché in questo modo i giudici garantiscono che venga rispettata la volontà degli elettori, limitandosi a verificare - e penso ad annullare i voti attribuiti a Roberto Cota solo indirettamente, cioè attraverso il voto alle liste non ammesse e senza una espressa croce sul suo nome. Come Pd abbiamo annunciato la massima disponibilità a collaborare al governo regionale per evitare che questa fase di incertezza, che capita in un periodo di grave crisi economica, possa arrecare danni alla nostra comunità».

Ma Cota è di tutt’altro avviso e, annunciando il ricorso al Consiglo di Stato, ha detto in modo perentorio: «Io governo, devo governare, sono stato eletto e continuerò a farlo. Non ho mai preso in considerazione le dimissioni perché costa 23 milioni di euro e i piemontesi hanno appena votato». L’idea di un ritorno alle urne ha, però, già scatenato tensioni e una ridda di ipotesi. Nel centrosinistra avanza la candidatura di Sergio Chiamparino. Il sindaco di Torino sarebbe pronto a scendere in campo e sul suo nome sarebbe d’accordo la stessa Mercedes Bresso. Ma Teresio Delfino getta acqua sul fuoco: «Il mio essere piemontese mi porta sempre a ragionare a bocce ferme. Oggi non è importante avere una definizione del nuovo quadro di candidature e alleanze, ma aspettare la decisione definitiva della magistratura su queste vicende. Se, poi, si dovesse arrivare a elezioni anticipate ci sarà una discussione anche all’interno dell’Udc e daremo le nostre indicazioni. Oggi la cosa mi sembra prematura

Ma il presidente della Regione ribadisce: «Io governo, devo governare, sono stato eletto e continuerò a farlo. Non ho mai preso in considerazione le dimissioni» di maggioranza e opposizione. Le dichiarazioni a caldo del presidente Cota, purtroppo, vanno in direzione opposta con un atteggiamento poco rispettoso delle decisioni dei magistrati e che politicamente non tiene in alcun conto la legalità. Questo comportamento non mi meraviglia visto quando ha fatto la Lega sulla vicenda delle quote latte, dimostrando che sono gli interessi a guidare la sua azione, più che il rispetto della legge. La sentenza del Tar può piacere o meno, ma se si accertano delle pesanti irregolarità in uno Stato di diritto non si può venir meno al rispetto delle funzioni e degli organi democratici». Una posizione simile la annuncia an-


economia

pagina 10 • 17 luglio 2010

Operai. Grande tensione tra le organizzazioni sindacali. Bonanni accusa Landini: «Stavolta l’ha fatta grossa»

Fiat, la Fiom contro tutti

Sciopero solitario ieri a Melfi: «I lavoratori non sono sabotatori» ROMA. Questa volta la Fiom

nanni, più a un movimento politico che a un sindacato».

di Vincenzo Bacarani

l’ha fatta davvero grossa. Così pensa il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, che ieri ha stigmatizzato - nel corso di un suo intervento alla Conferenza nazionale sulla contrattazione - il comportamento dell’organizzazione dei metalmeccanici della Cgil nell’ambito della vertenza Fiat su Pomigliano e sulla vicenda di Melfi (ieri c’è stato uno sciopero di 4 ore contro i licenziamenti di tre delegati Fiom dello stabilimento lucano) e che ha invitato il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, a intervenire ufficialmente. «Negli ultimi due anni – ha detto il leader della Cisl - si è interrotto tra Cisl e Cgil la costruzione di un percorso comune di mediazione per effetto di questa presenza della Fiom che sembra estranea alla Cgil ma che di volta in volta la ingravida e ne influenza tutte le scelte».

E poi ha aggiunto: «La vicenda della Fiat di Pomigliano – ha spiegato Bonanni - è il simbolo di questa posizione contraddittoria della Cgil, perché non si può dire da un lato che l’investimento va fatto e dall’altro avanzare tutta una serie di congetture sulla violazione della Costituzione e sui diritti. Ma in passato a Melfi, a Gioia Tauro, o in tantissimi accordi aziendali di start-up siglati unitariamente non abbiamo fatto, forse, lo stesso tipo di intesa? Lo abbiamo già detto al congresso della Cgil: noi siamo pronti a collaborare con la Cgil, ma invitiamo Epifani a riportare la Fiom sulla retta via.Tocca a lui tornare ad

a capo del sindacato in qualche modo si riusciva a ragionare, ma ora con Landini è impossibile parlare. Mi sembra tanto prigioniero del leader radicale del sindacato, cioè di Giorgio Cremaschi».

Lo sciopero della Fiom contro i tre licenziamenti di Melfi è stato un flop come dice Bonanni? «È stato un flop, ma anche i nostri scioperi per il premio di risultato in tutti gli stabilimenti da Torino Mirafiori a Pomigliano d’Arco sono stati altrettanti flop. La mentalità dell’operaio

Naturalmente, le sigle hanno litigato anche sulla partecipazione alla protesta: «È stata un flop assoluto», dicono alla Cisl indicare la strada alle sue categorie per farle rientrare nei canoni della confederalità. La Fiom da tempo non è più un sindacato, è solo un movimento politico». «E meno male che Bonanni se n’è accorto adesso che la Fiom è un movimento politico e non un sindacato – ha esclamato Roberto Di Maulo, leader della FismicConfsal, sindacato autonomo particolarmente forte in Fiat – noi lo diciamo da più di un anno. Io non capisco il loro nuovo leader Maurizio Landini. Finché c’era Gianni Rinaldini

Fiat ormai è cambiata e questo nessuno lo vuole comprendere. L’operaio ha capito che non esiste più la contrapposizione tra padrone e dipendente, ha capito che se lo stipendio è basso, la colpa è della pressione fiscale e non del padrone cattivo. Lo ammetto: anche i nostri scioperi sono stati un fallimento. La gente ha capito che il posto di lavoro va tenuto stretto». «Purtroppo – spiega a liberal Rocco Palombella, segretario generale della Uilm-uil – le agitazioni organizzate dalla Fiom fanno pensare, proprio come dice Bo-

L’Istat: crescono le importazioni in Italia

Il deficit resta alto ROMA. L’Istat registra per gennaio- maggio 2010, un aumento di esportazioni e importazioni in Italia. A maggio 2010 le esportazioni italiane sono cresciute del 17% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Forte rialzo anche per le importazioni che registrano un incremento del 31,1%. A maggio 2010, si rileva un andamento positivo per entrambi i flussi commerciali con il resto del mondo, con un incremento maggiore per le importazioni rispetto alle esportazioni e un peggioramento del disavanzo commerciale rispetto al corrispondente mese dell’anno precedente. Nei primi cinque mesi dell’anno il deficit commerciale, pari a 11,2 miliardi di euro, è più ampio di quello del corrispondente periodo del 2009 (3,9 miliardi di euro). Per la tipologia dei beni esportati, a maggio 2010 si registrano, andamenti posi-

tivi, con aumenti superiori alla media per energia (più 49,4 %), prodotti intermedi (più 23,6 %), beni di consumo durevoli (più 23,2 %) e beni di consumo non durevoli (più 18,2 %). Anche per le importazioni le tendenze sono positive, con andamenti superiori alla media per prodotti intermedi (più 52,5 %) ed energia (più 37,1 %). Al netto delle l’energia, esportazioni aumentano del 15,9 %, mentre le importazioni del 29,9 %. Il deficit della bilancia commerciale dei 16 Paesi dell’eurozona con il resto del mondo e’ salito a maggio a 3,4 miliardi di euro, contro i 2,2 dello stesso mese dello scorso anno. Per quanto riguarda, invece, i 27, il deficit della bilancia commerciale è schizzato a 15,1 miliardi, contro gli undici del mese precedente e i sette del maggio del 2009. A incidere sono i prezzi dell’energia.

Ma Landini non si arrende e appare sempre più come “l’ultimo dei Mohicani” e dice: «Dai dati che ci arrivano siamo in presenza di adesioni molto forti allo sciopero (70 per cento secondo Fiom, ma solo 19 per cento secondo Fiat, ndr). Lo sciopero è riuscito, credo sia chiaro che su questa linea la Fiat non ha il consenso dei suoi dipendenti. Sarebbe un atto saggio se ritirasse questi licenziamenti e riaprisse la trattativa anche sul salario. È inconcepibile che non venga dato nulla ai lavoratori che ci hanno già rimesso, mentre la Fiat continua a erogare risorse economiche ai suoi dirigenti, che non hanno ragione di esistere». Landini replica anche al presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, che riferendosi ai licenziamenti aveva parlato di “sabotaggio”. Il segretario della Fiom non ci sta: «Gli unici sabotatori sono quelli che attaccano la Costituzione del nostro Paese. Prima di parlare sarebbe meglio che la Marcegaglia avesse l’umiltà di informarsi. L’unica cosa che i lavoratori hanno fatto è stata quella di difendere il diritto di poter lavorare in condizioni previste dagli accordi aziendali». Sulla complessa vicenda Fiat interviene anche l’Italia dei Valori. «La vicenda sta assumendo una dimensione tale da coinvolgere il governo, le istituzioni e le forze politiche che, come l’Italia dei Valori, hanno a cuore il futuro dell’industria, dell’economia e dell’occupazione sana del nostro Paese». Così il presidente dell’IdV, Antonio Di Pietro, e il responsabile welfare e lavoro del partito, Maurizio Zipponi, in una lettera aperta inviata all’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, ai delegati sindacali e ai lavoratori dell’azienda. La questione Fiat ovviamente non finisce qui, ma appare sempre più evidente un distacco tra lavoratori e sindacati: gli scioperi poco riusciti – qualunque sigla sindacale li abbia indetti – dovrebbero essere un segnale per le organizzazioni di categoria.


mobydick

INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

NOSTALGIA DELLA POLIS

Ventitré scrittori raccontano il Bel Paese

di Pier Mario Fasanotti

essere apolidi (etimologicamente: senza città) è un’assurda astraziovicoli, le urla e i sussurri, «ruba» dal proprio sentire immagini e storie locali ne, e come tale non ha alcun riscontro con la realtà di ognuno di per poi trasformarle, con l’ausilio - per nulla posticcio o casuale - del frulMilano noi. Ha a che vedere con il passaporto e la burocrazia dellatore immaginativo. Per questa ragione lo scrittore e saggista Filipslabbrata, l’anagrafe. Il timbro dell’appartenenza, a una città o a po La Porta ha scandagliato fondali italiani dando la parola Torino vivace, Roma una regione, è impresso nella nostra mente e nessun liquiagli scrittori. In Uno sguardo sulla città (Donzelli, 123 paincompiuta, Firenze gine, 16,00 euro), ha cercato di individuare quello che do magico può cancellare la carta di identità dell’anidi precipuo permane ancora delle città, invase ma. Chi scrive romanzi o poesie è come se, attiun cadavere, Napoli tragica, Bologna dalla tentazione-obbligo di somigliarsi tutte, mo dopo attimo, ponesse in evidenza quel discretissima, Trieste mai abbastanza italiana... assediate che ormai ha assunto una musicalità lessicale come sono dai centri commerciali, È quanto emerge dal viaggio ricognitivo di cemento e di mente, che si risolvono poi a esseretorica: le radici. Intrisa su ogni pagina c’è la filigrana di un luogo, quello natio o quello adottato. Se vore topos della non-memoria, dell’obnubilamento devadi Filippo La Porta attraverso lessimo indagare sull’intima essenza di Roma, Milano, Toristante sulla spinta del quasi-vivere e del consumare come lo sguardo no, Napoli, eccetera, la tentazione sarebbe quella di porre domandell’agire e dell’essere. Pur tenendo conto di una sordei narratori ta dicondizione de a storici o a sociologi. Ma sarebbe inesatto, o comunque i risultati «controtendenza» che La Porta individua nella «riscoperta di sarebbero approssimativi per difetto. Solo il narratore assorbe il suono dei centri storici e piazze tradizionali».

L’

Parola chiave Città di Sergio Belardinelli Apocalittica Laurie (col suo alter ego) di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

Cosmologia di Romeo e Giulietta di Roberto Mussapi

Così parlò Athanasius Kircher di Mario Bernardi Guardi Solomon Kane e la saga dei Predators di Pietro Salvatori

Nitido e naif… ecco Fellini di Marco Vallora


nostalgia della

pagina 12 • 17 luglio 2010

Inevitabile ricordare il famosissimo Viaggio in Italia di Guido Piovene, cui hanno fatto seguito abbozzi come quelli (tra stizza e veleno in bello stile) di Guido Ceronetti e quelli severi ma anche affettivi di Sandro Onofri. L’obiettivo è sempre quello di stanare un paese «assente a se stesso», con le immaginabili ricadute sull’identità nazionale, un concetto e un affetto erosi dal frazionismo del «viva il nostro cortile» dei leghisti. La scelta di Gianni Biondillo come testimone di Milano è fortunata, anche perché l’autore giallista è anche architetto. Spietata la sua diagnosi: «Abbiamo fatto coriandoli dei nostri piani regolatori, sono anni che manca una progettazione del territorio a lunga gittata». Questa definizione dello slabbramento urbano meneghino trova conferme nei commenti di chi viene da altre città: che agglomerato casuale, si dice di solito, magari affascinante per certi aspetti, ma sfuggente all’idea della polis, ci si gira attorno senza trovare un baricentro, oppure un’intenzione capace di armonizzare pietre e persone. All’inevitabile domanda sulla Milano capitale morale, sulla Milano «da bere» e dei paninari, sulla città che aveva alla sua periferia la mastodontica tradizione tipo Stalingrado (Sesto San Giovanni), riflette Biondillo: «Se la attraversi incontrerai mondi che spesso si sovrappongono e altrettanto spesso non si incontreranno mai. La più antica tradizione di Milano è voler continuamente cambiare pelle, cercare di essere sempre al passo col mondo, aggiornata, affamata di novità. Questo porta alla perdita del suo patrimonio urbanistico, o alla sua quasi indifferenza per quello artistico».

Molti stranieri, racconta Biondillo, si sono sorpresi venendo a sapere che il Cenacolo vinciano non era a Firenze, ma qui. A parte l’arte, per la quale Milano ha occhi strabici o distratti, c’è anche da dire che la città «ha azzerato la sua eredità di fabbriche, quasi fosse una colpa». Le trame narrative Biondillo le colloca a Quarto Oggiaro, non sopportando l’etichetta «criminaloide» che assiduamente si dà a questo brutto borgo. Dove tuttavia il sottoproletariato non è sinonimo di «inferno in terra». Ci sono ancora i cortili, le voci, lo stare insieme, allorquando nei fine settimana i milanesi sentono l’obbligo di fuggire dalla città, «come se la odiassero». E lontano dalla Madonnina questi fuggiaschi si rendono insopportabili perché pretendono «che il resto del mondo si adegui ai loro ritmi, alle loro abitudini, alle loro necessità efficientistiche». Non che sotto il Duomo manchino le «eccellenze». Ci sono, ma entro limiti ristretti. Un premio Nobel si può sempre invitare: ovviamente in centro «e come in un salotto da canasta». E Torino, tradizionalmente rivale di Milano? La Porta ha scelto bene anche stavolta interrogando Giuseppe Culicchia. Il quale fa considerazioni generali molto interessanti: «Le nostre città stanno seguendo più o meno consapevolmente il modello Las Vegas». Certo non è prerogativa solo italiana visto che è marcata la tendenza di trasformare le città postindustriali «in luoghi di intrattenimento più o meno culturali». Le «notti bianche» per esempio, a significare che se mancano tradizioni culturali, anche in provincia, basta inventarle. Secondo Culicchia, che ha ben chiaro il panorama urbano internazionale, Torino è oggi «una delle città più vivaci dal punto di vista culturale». Numerose le iniziative, questo è indubbio. E i milanesi, frullati dalla gio-

stra della moda e da poco altro, avvertono una certa invidia per i sabaudi che decenni fa nutrivano complessi di inferiorità rispetto all’agire meneghino. Rapporto capovolto, dunque. Ma il rischio, dice Culicchia, è quello che ognuno vada per la propria strada. Tante buone volontà, ma poco coordinate.

Edoardo Albinati risponde per la sua città, Roma.Accennati con malumore gli scempi compiuti dopo l’unità d’Italia e anche nel secolo successivo per l’avidità affaristica e speculativa, si è arrivati ai «progetti micidiali» di edilizia pianificata (malissimo): vedi Tor Bella Monaca. Lo scrittore ammette d’essere stato diffidente verso Roma quand’era ragazzo: città pigra e corrotta, immersa in un tono fintamente conciliante ma sostanzialmente freddo. Così diceva e si dice. Ma le facili etichette possono sbriciolarsi se si tiene conto della «incessante ruminazione d’una città erbivora, che tritura coi molari». La Capitale ha sani anticorpi. Merito anche di un territorio circostante che ha il pregio di odorare di mucche, cavalli ed erba: cose che a Milano manco le ricordano. La moda? Non esiste, salvo certi occasionali bagliori televisivi. La gente ha l’aria sempre un po’ arretrata, disinformata. Non è un peccato capitale: «certi personaggi non attecchiscono, l’originalità è accolta da folate di scetticismo». Sarebbe troppo idiota dimenticare il peso e la suggestione culturale delle pietre antiche, «quel passato che mi esalta e mi inorgoglisce… certi giorni la bellezza di questa città mi ferisce e mi leva l’aria, mi strozza, anzi sono io a impiccarmici, a strozzarmici da solo come la recluta di Full Metal Jacket». E le rovine storiche non sono cose messe lì e fatte rimanere lì, semplicemente. Respirano. Sono anche occasioni per riflettere sulla caducità umana. Pensieri ed emozioni che sorgono passeggiando tra i romani «che per definizione sono incompiuti, privi di un destino». Ci credo: il presente ha una potenza inaudita, soprattutto se avvinghiato a un passato di incomparabile fascino. Il giallista Marco Vichi è fiorentino di nascita, ma vive distante dal nucleo antico. Che definisce «un bellissimo cadavere». Non si muove, non è riuscito ‘sto corpo stecchito a «dare continuità alla sua storia culturale, e ormai da molto tempo si occupa solo di «vendere» ciò che esiste già. Del resto, come può essere creativo un cadavere? Se si muove, lo fa per commercio. E l’arte e la letteratura, che pur dovrebbero impregnare l’aere che scivola sopra l’Arno? Firenze, dice Vichi, «non trasuda queste cose, in realtà trasuda commemorazione di arte e di letteratura, che non è la stessa cosa». Ci sono scintille, talvolta, ma non diventano falò. Valeria Parrella fa il suo «faccia-a-faccia» con quella città-corpo, terminale e porosa che è Napoli, agglomerato sempre «sovraesposto» che è perennemente in guerra, almeno nelle menti più illuminate, con la condanna dello stereotipo. «Ma non me ne importa niente» dice la scrittrice nata a Torre del Greco. «Non ci penso mai allo stereotipo. L’ho, diciamo, genetizzato, sta là. Se ci pensassi non potrei scrivere… lo stereotipo va avanti, si neologizza. Potremmo affermare che per assurdo dopo Roberto Saviano lo stereotipo è la stessa camorra, ma la camorra è prima di tutto camorra, e cioè il problema di Na-

polis

poli, il secondo è l’atteggiamento camorristico di chi non è della camorra». Filippo La Porta inevitabilmente le ricorda quel che diceva Domenico Rea: a Napoli, città che è anche tragica, è impossibile esprimere letterariamente il tragico perché alla fine vi prevale sempre la commedia, la macchietta. Parrella scatta come una molla: «Noo, Napoli è tragica, lo è profondamente, ce lo ha fatto vedere Anna Maria Ortese, ce lo fanno vedere Martone, Capuano. Certo oggi deve essere raccontata di nuovo, dopo che la Ortese e La Capria dopo la guerra ne hanno rappresentato lo sfacelo e poi sono fuggiti». A lei interessano principalmente le donne, «insieme forti e rassegnate». E si vede, leggendo i suoi libri.

Marcello Fois, nuorese che vive a Bologna da tanto ci indica un aspetto della «dotta» che può sorprendere: «È una città segreta e al contrario di quanto si crede discretissima. I giardini nascosti tra i palazzi sono una meraviglia per pochi eletti». E come parlare di Trieste, «mediterranea e nordica», con colori smorzati come si vedono sul Baltico, ma all’improvviso sfavillanti più che al Sud? È il caso di dire che Trieste la descrive meglio La Porta che non lo scrittore che qui ci vive, Mauro Covacich. Bisogna dargli atto che pone in evidenza due cose importanti. La prima: la città ha il complesso di non essere mai abbastanza italiana. La seconda: città di anziani, è vero, ma di anziani che escono di casa, che non si nascondono. Tutto qui? Mi pare davvero poco. Già il cognome Covacich dovrebbe richiamare il crogiolo delle etnie, i drammi dell’esodo, l’avanzata dei «nuovi» sloveni e croati. C’è poi la Trieste che si sente ancora asburgica, che diffida di Udine e Pordenone, considerandole «contadine» ma che ora, invece, sono poli culturali di tutto rispetto. Ci sono i triestini che parlano quasi esclusivamente in dialetto, e se non li si capisce se ne fregano (una volta, chi scrive questo articolo a una signora che fraseggiava in triestino obiettò: «Mi perdoni, sono italiano e non la capisco»). Covacich «corre a perdifiato» - tanto per parafrasare il titolo di un suo romanzo ma pare che abbia gli occhi bassi, che gli sfuggano molte cose: la felice eredità di Franco Basaglia che ha fatto scuola nel mondo, l’andirivieni di etnie, i vecchi e mai trattenuti pregiudizi verso gli «slavi», la forte abitudine al bere, il senso di superiorità che s’aggrappa al passato in stile Maria Teresa, la decadenza economica di una città che un tempo era l’unico e sfavillante porto dell’impero austro-ungarico. Conviene rileggere le pagine del compianto Fulvio Tomizza senza per questo limitare le corse a perdifiato sulle Rive corteggiate dai gabbiani, dove lo sbattere delle funi sugli alberi delle navi producono musica e allegria. “La città ideale” attribuita a Francesco Laurana. A sinistra, dall’alto: Edoardo Albinati, Gianni Biondillo, Giuseppe Culicchia e Marco Vichi. Al centro, Valeria Parrella. A destra, Mauro Covacich. Sopra, la copertina del libro di Filippo La Porta

anno III - numero 28 - pagina II


MobyDICK

parola chiave

inché le parole conserveranno ancora il loro senso, la parola città rimanderà sempre alla polis, quindi alla politica, al potere, all’essere cittadini di una comunità, al luogo dove abitiamo, dove abbiamo la nostra casa e dove tutto ciò che è stato costruito - case, palazzi, monumenti, chiese, campanili, biblioteche, piazze o ponti - costituisce precisamente il registro materiale e simbolico di un mondo, la civitas, la quale, a differenza della semplice natura, è un artificio, una costruzione umana. Come ha mostrato in modo suggestivo Martin Heidegger, nel suo saggio su Costruire, Abitare, Pensare, esiste un nesso inscindibile tra il «costruire», l’«abitare», il «prendersi cura» e tra questi e la speciale natura dell’uomo. Le case e la città non sono semplicemente luoghi; esprimono piuttosto una modalità di essere e di esistere dell’uomo, un abitare, grazie al quale l’uomo è e si manifesta per ciò che è: un essere che non è semplicemente «natura», ma anche cultura, capacità di costruire e di custodire, riconoscendosi nella permanenza degli oggetti e delle opere che lui stesso ha prodotto e costruito. È nella casa e nella città che si sedimentano la politica e la storia, tutto ciò che gli uomini hanno creato col loro lavoro, la loro intelligenza e la loro immaginazione, la stessa identità dei singoli, dei popoli e delle culture. Ma se questo è vero, che cosa succede nel momento in cui la nostra casa o la città che abitiamo perdono, come sembra accadere oggi, la capacità di essere un elemento di identificazione?

F

Già all’inizio del secolo scorso, Georg Simmel sottolineava con preoccupazione il grande scarto simbolico verificatosi allorché le case cittadine vennero identificate con un numero civico, anziché con un nome proprio, come avveniva nel Medioevo fino al secolo XIX. Un conto sono i numeri che si ripetono uniformemente in ogni strada, altro conto sono i nomi propri; l’identificazione dell’individuo con la sua casa viene indebolita già a questo livello. Se poi pensiamo ai quartieri sempre più anonimi e privi di punti di riferimento, all’agglomerato urbano, dove le strade sembrano essere tutte uguali, dove le case diventano appartamenti e le piazze cessano poco a poco di essere luoghi d’incontro; se pensiamo a questo, dicevo, allora non possiamo non pensare a Trude, la «città continua» di Italo Calvino. La cosiddetta metropoli sembra essere diventata in effetti una sorta di fluido, dove la marcatura dello spazio non ha più senso né all’interno, né verso l’esterno, rispetto, poniamo, agli orti suburbani e alla campagna. Con un’immagine di Marx, potremmo anche dire che in questa città «tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria», producendo una sempre maggiore estraniazione. I pensatori della cosiddetta crisi d’inizio secolo XX, tra i quali troviamo sicura-

17 luglio 2010 • pagina 13

CITTÀ È il prodotto più grande della cultura umana, costruito dall’uomo per sottrarsi alla natura, dandosi una dimora stabile dove far nascere i propri figli ed essere «cittadino». Ma oggi è il luogo dell’estraniazione

Tornando a casa di Sergio Belardinelli

Quando le case cittadine vennero identificate con un numero civico anziché con un nome proprio, come avveniva nel Medioevo fino al XIX secolo, si verificò un grande scarto simbolico. Ma recuperare il senso di anonimato e di anonimia e abitare di nuovo in modo umano le metropoli è, nonostante tutto, possibile mente anche Simmel, sono particolarmente attenti a questa trasformazione della città; avvertono la tragedia culturale che in essa si consuma. Il prodotto più grande della cultura umana, ciò che l’uomo ha costruito per sottrarsi alla natura, ai suoi cicli sempre uguali, e darsi in questo modo una dimora stabile, una casa, dove far nascere i propri figli, e una piazza dove essere «cittadino»; questo artificio, dicevo, si trasforma poco a poco in una sorta di «seconda natura», qualcosa in cui diventa sempre più difficile per l’uomo riconoscersi, un nemico, che bisogna nuovamente assoggettare. Come ebbe a dire un altro autore della crisi di cui stiamo parlando, Osvald Spengler, «l’uomo della civiltà, che era stato formato spiritualmente dalla campagna, diviene proprietà e stru-

mento della sua stessa creatura, della città, e infine viene a essa sacrificato». È la famosa diatriba tra cultura e civilizzazione, tra quello che Spengler chiamava «il corpo vivo» di un’anima, la cultura, e la sua «mummia», la civilizzazione. Ma è anche la «gabbia d’acciaio» di cui parlava Weber e il passaggio dalla «comunità» alla «società», da una situazione in cui gli individui erano uniti «nonostante le separazioni», a una situazione in cui gli individui sono «separati anche quando sono uniti», di cui parlava Toennies. La città metropolitana appare insomma come l’espressione più radicale di quello spirito illuministico che, volendo trasformare gli uomini in «cosmopoliti», finisce per renderli dappertutto stranieri. Essa non ha più nulla della bellezza che traspare ancora in città

come Roma, Firenze o Venezia; il senso di unità e armonia che si genera quasi per miracolo da una molteplicità di elementi architettonici impregnati di vita umana sembra scomparso; la città metropolitana è sempre più anonima e «anomica» e i suoi abitanti, per sopravvivere, debbono inibire le proprie emozioni, le proprie convinzioni, e trasformarsi, come diceva Simmel, in semplici blasé, disincantanti, estranei e indifferenti al mondo che li circonda. Riprendendo la terminologia heideggeriana usata all’inizio, potremmo dire molto semplicemente che, nella città metropolitana, «abitare» diventa sempre più difficile; le «costruzioni» e la stessa vita pubblica sembrano perdere poco a poco il loro carattere intenzionale, la loro dipendenza dalla creatività e dalla libertà degli uomini, e quasi farsi da sole, secondo una logica indipendente da scopi umani. Quanto infine al riferimento che l’«abitare» intrattiene col «custodire», col «prendersi cura», tale riferimento scompare completamente dall’orizzonte del blasé metropolitano. Nell’opaco, uniforme, indifferente e febbrile grigiore della sua vita, questi si limita tutt’al più alla «cura di sé». Un narcisismo sterile e senza speranza.

Che le tendenze socioculturali che ho sommariamente accennato esprimano tendenze reali dell’odierno contesto metropolitano mi sembra fuori discussione, non credo tuttavia che, per questo, si debba necessariamente ritenere che tale contesto non consenta più un «abitare» degno dell’uomo. Contrariamente agli autori della crisi di cui ho parlato finora, la mia posizione in proposito è, diciamo così, meno pessimistica. Di fronte alla frammentazione e al narcisismo imperanti non possiamo certo pretendere che si possa semplicemente ritornare alle forme di vita del passato. Al tempo stesso, però, non possiamo neanche pensare che il processo che si è messo in moto abbia in sé soltanto pericoli e nessuna speranza di salvezza. Non credo insomma che la scienza, la tecnologia e la città siano incompatibili con l’esistenza di valori morali e di relazioni sociali, diciamo pure, di beni «relazionali» (fiducia, amicizia, gratuità, fedeltà, responsabilità), capaci di trasformare la libertà che abbiamo poco a poco conquistato (un bene straordinario!) in scelte che diano senso alla nostra vita. È in fondo soprattutto una questione di cultura e di cultura «civile». E, guarda caso, cultura è parola che viene da colere, coltivare; quel coltivare che, nel linguaggio heideggeriano da cui sono partito, è anche un «aver cura» e che, insieme al costruire come edificare, ha il suo significato «autentico» nell’abitare. Concludendo, mi piace pensare che questo «abitare», che rimanda chiaramente alla polis e alla civitas, per quanto sia difficile, sia ancora possibile anche nella città metropolitana.


pagina 14 • 17 luglio 2010

MobyDICK

Pop

musica

LO SPIRITO REGGAE non si addice a Osoppo di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi itorna, dieci anni dopo Life On A String, a duellare con le parole: cantate, recitate, vivisezionate al punto da evaporare letteralmente dalla sua voce. Spremendo la nuda parola (il suo slogan è da sempre language is a virus: incontro/scontro di concetti e pensieri) e sublimando il cyber-suono, la sessantatreenne Laurie Anderson continua a mettere d’accordo i sommeliers dell’avanguardia e i voraci masticatori del pop. Colta e ironica, seriosa e deviante, la sua arte compositiva decolla nel 1981 con il colpo a effetto del brano O Superman (For Massenet) che soddisfa, appunto, avanguardisti e poppettari. Lei, nata a Chicago e reduce da meticolosi studi sull’antico Egitto, imbraccia il violino dopo averlo genialmente tramutato in tape bowl violin: testine magnetiche a sostituire le corde, l’archetto con un nastro registrato. Dopodiché infila milioni di parole nei teatri, nelle gallerie d’arte newyorkesi, negli oceani audiovisuali delle sue performance surreali, dentro quei prodigi elettronici che sono i suoi dischi: da Big Science (’82) a Bright Red (’94), transitando per Mr. Heartbreak (’84), Home Of The Brave (’86) e Strange Angels (’89). Nonostante lo zero discografico, in questi dieci anni Laurie Anderson non ha come si suol dire battuto la fiacca: ha preferito, semplicemente, giostrare la propria multimedialità sui palcoscenici di mezzo mondo anziché in una claustrofobica sala di registrazione. Il che ha prodotto gli spettacoli The End Of The Moon e Delusion, nonché i venti minuti di Music For Dogs presentati un paio di mesi fa al Vivid Live Festival di Sydney col coinvolgimento della sua cagnolina Lolabelle. In ogni show, ha fatto capolino il compagno di vita (e da due anni mari-

R

Jazz

zapping

genzia santi amministratori. Dopo il caso milanese, quello di Claudio Trotta, promoter di Bruce Sprongsteen che ha rischiato la galera perché il suo artista aveva suonato venti minuti in più, abbiamo anche il caso udinese, o meglio ispano-udinese. Perché c’era una volta il Rototom Sunsplash, il festival reggae più grande d’Europa (6 giorni, 150 mila persone) che si teneva a Osoppo (Ud). E c’è ancora, solo che ora si tiene in Spagna, a Benicàssim, dal 21 al 28 agosto. Motivo: gli organizzatori sono stati bersaglio di proteste e avvisi di garanzia per il fatto che a un festival reggae c’è gente che si fa le canne, e hanno spostato il circo reggae oltre i confini patrii. Ora qui non vogliamo discutere sulle implicazioni psicotrope di alcune musiche anche perché da assidui frequentatori della festa della Madonna di Polsi (Rc), uno dei più folli e devoti rave parties a base di capra e vino, non ci sentiamo l’anima a posto. Non vogliamo nemmeno discutere sulla legge Bossi-Fini, che ci pare bellissima se temperata da un’applicazione intelligente, secondo la pratica tutta italiana dei principi forti con applicazioni duttili. Ci basta qui citare il caso di un musicista calabrese di nostra conoscenza. Arrestato per possesso di cannabis ha pacatamente spiegato al giudice la verità: non deteneva la sostanza in questione per spaccio ma per una sua esigenza spirituale, essendo legato alla cultura reggae l’uso di cannabis era per lui un fatto religioso. Il giudice ha capito e l’ha rimandato a casa. Ecco: i santi amministratori e inquirenti di Udine non potrebbero prendere il raduno come un fatto religioso? Invece di far traslocare in Spagna una manifestazione da 150 mila persone che fa bene allo spirito e anche all’indotto? Troppa o troppo poca santità a Udine?

A

Apocalittica Laurie (col suo alter ego) to) Lou Reed, che nel 2007 non ha mancato d’affiancarla nel labirintico intreccio di letture, canzoni e videoproiezioni intitolato Homeland. Questo pugno in faccia all’America, diretta conseguenza del monumentale United States I-IV che nell’84 satireggiò tutto quel che odorava di stelle e strisce, si è trasformato in un disco bello tosto, paradossale e affascinante le cui tematiche, tiene a precisare l’artista, sono «politica estera, tortura, collasso economico, erosione della libertà personale, malasanità, religione, cinismo». La sua voce, manco a dirlo, la fa da padrona eruttando parole che cavalcano una world music solenne (Transitory Life); la bellezza cameristico/percussiva di My Right Eye; l’impeccabile crescendo sinfonico/elettronico di Thinking Of You; l’irresistibile appeal mediorientale di Strange

Perfumes, con l’efebico controcanto di Antony Hegarty; il coriaceo minimalismo di Falling; le pulsioni funk (stile Talking Heads) di Only An Expert, con la chitarra imbizzarrita di Lou Reed che fa il verso al miglior Robert Fripp; le urticanti sperimentazioni di The Beginning Of Memory; l’ipnosi rumorista di Bodies In Motion, col sassofono in free jazz di John Zorn e la partecipazione straordinaria di Lolabelle al pianoforte; i sottintesi folk di The Lake e così via, con una menzione speciale per l’ambient music apocalittica di Another Day In America, dove compare l’alter ego di Laurie (il già leggendario, baffuto e «chapliniano» Fenway Bergamot: lo vedete sulla copertina del disco) con tanto di voce «mascolinizzata» dal computer. Alla fine, ineluttabilmente, tutto torna al punto di partenza: cioè alla nuda parola, al suono della parola, alla sua voce. Dite a Laurie che l’amo. Laurie Anderson, Homeland, Nonesuch Records, 23,90 euro

Grandezza di Dado Moroni (ma “nemo propheta in patria”) omani, domenica, anche l’edizione 2010 di Umbria Jazz chiuderà i battenti con soddisfazione di tutti, appassionati di jazz, rock, pop, etnica, rhythm’n’blues, ma soprattutto di Carlo Pagnotta, direttore artistico del festival, che anche quest’anno ha visto moltiplicare gli incassi, malgrado la crisi. Dei tanti musicisti jazz ascoltati nelle più diverse situazioni, Morlacchi, Bottega del Vino, Oratorio Santa Cecilia, è del pianista Dado Moroni che vorrei parlare oggi. Perché proprio lui? Perché il pianista genovese è un tipico caso, tutto italiano, di musicista altamente apprezzato dai colleghi, ma a volte ignorato dalla critica e dagli organizzatori che troppo spesso si dimenticano di avere a casa propria uno straordinario grande solista di jazz. Sabato scorso attirati dal nome di Rosario Giuliani in cartellone al Morlacchi è con sorpresa che

D

di Adriano Mazzoletti sul palco di quell’antico Teatro - dove cinquantacinque anni fa risuonarono le note di Louis Armstrong primo musicista di jazz a suonare a Perugia - accanto a Rosario e al batterista americano Joe La Barbera regolarmente annunciati, era presente anche Dado Moroni il cui nome non figurava nei programmi del festival. Dimenticanza o poca considerazione per uno dei musicisti più importanti della scena del jazz europeo? Troppo lungo sarebbe ricordare i grandi del jazz con i quali Dado ha suonato nel

corso della sua ormai lunga carriera in tournées che lo hanno visto esibirsi in ogni parte del mondo. È sufficiente ricordare i nomi di Ray Brown, Clark Terry, Ron Carter, Milton Jackson per comprendere immediatamente quale può essere il suo valore. Ma non solo. Quando nel 1995 Ray Brown, che tanto aveva suonato con Oscar Peterson, decise di registrare un disco con i suoi pianisti preferiti, oltre allo stesso Peterson, Ahmad Jamal e Benny Green invitò anche Dado Moroni a dimostrazione dell’alta consi-

derazione in cui è tenuto presso il mondo musicale americano. Perché allora Dado Moroni non gode da noi, della stessa considerazione mediatica di cui sono oggetto molti altri solisti? La risposta forse è semplice. Moroni suona solo ed esclusivamente jazz, senza essersi mai lasciato tentare da contaminazioni con altre forme musicali come invece avviene nel jazz di oggi. I suoi ultimi dischi lo confermano. Nel primo, in trio con il contrabbassista Peter Washingon e nel secondo di solo piano, su venti brani, dieci sono sue composizioni, gli altri appartengono alla grande storia del jazz. Caso unico almeno in Italia di un musicista che predilige standars e classici. Anche per questa ragione Dado è considerato atipico nel mondo del jazz. E a lui ben si addice, quanto fu scritto molti anni fa: «In un mondo di fuggitivi colui che segue la direzione opposta sembra che fugga».


MobyDICK

arti Mostre Nitido e naif… ecco Fellini

17 luglio 2010 • pagina 15

di Marco Vallora

ia chiaro, non è che non abbia voglia di lavorare - per il caldo, anche morale, di questa smorta estate.Anzi, soffro molto a vedere lo spazio, che mi si divora così, davanti. Ma non resisto alla doverosa tentazione di trascrivere - e non è stato semplice - questa meravigliosa lettera, che per me è tutto Fellini e che ti accoglie alle fauci della bellissima mostra, che il Mambo dedica al mondo del regista. «Firmata» da Sam Stourdzé: complimenti. Una lettera geniale, molto flaianesca (ricorda quelle spedite dallo scrittore abruzzese a Maccari), ironica per la tragedia della vita. Capillarmente capovolta di logica: «Un’ultima cosa, questa davvero seria. Non sarai pagato, ma in compenso tra un mese deve essere tutto pronto». Fellini scrive al vecchio amico riminese Geleng, a proposito del manifesto di Amarcord, e ci pare d’ascoltarlo miagolare, sempre imprevedibile e tagliente d’aggettivi, d’una proprietà ammirevole di lingua e di autoconsapevolezza, al bordo sempre della genialità - c’è poco da fare, usiamo pure il luogo comune! Sacrifico spazio, ma vorrei lascoltaste: «Mi dicono che ieri sera c’eri anche tu alla proiezione di Amarcord e che il film ti sia piaciuto e molto. È ovvio che la cosa mi lascia assolutamente indifferente. Dimentica che hai visto il film e che ti è piaciuto. Pensa piuttosto che l’uscita del film è prevista tra un mese e si tratta quindi di farci venire qualche ideina per il manifesto, perché i bozzetti che m’ha presentato la società distributrice sono da mandato di cattura. Tu hai qualche idea? Ne dubito, comunque se ne hai scordatela. Chissà poi perché io penso a te invece di rivolgermi a un altro pittore (a proposito, hai qualche nome da propormi?). Scherzi a parte, adesso non aspettarti che io mi metta a chiacchierare con te disquisendo, argomentando intorno ad Amarcord, nel tentativo di approdare a una suggestione grafica, che

S

Architettura

lo presenti al pubblico in un modo esatto ed efficace. Comunque non agitarti, prendi carta e penna e segnati questi appunti che sono rozzi, approssimativi, ma se diovuole abbastanza confusi. Allora: il manifesto dovrebbe a colpo d’occhio sprigionare la lietezza squillante di una cartolina natalizia, o meglio pasquale, il colore dovrebbe essere netto, lucido, sonoro, insisto sulla sonorità del manifesto festoso, domenicale. Si potrebbero riprodurre le fattezze di ciascun personaggio secondo un nitido metodo naif, ma un naif rivisitato criticamente, che dissimuli ma non troppo una citazione ironica e bonaria (in fondo questo mi sembra il segno più immediato, per caratterizzare l’individualità esuberante stralunata e inconsapevole dei personaggi del mio film)». Ma dove trovi un regista che abbia più auto-consapevolezza (finto-inconsapevole) del significato sotteso e sotterraneo del suo film (la lezione junghiana) e la sappia esprimere meglio, usando un registro «nitido ma naif» che è quasi un ossimoro, tanto più che questa naiveté (in parte zavattiana) è del tutto cerebrale: «rivisitata criticamente». «Dissimulando ma non troppo?». «Poi dietro a loro potrebbe aprirsi una va-

sta distesa con la campagna, la spiaggia, il mare, e tu che ami tanto i maestri del surrealismo», e qui una disamina assolutamente raffinata (non c’è spazio di citar tutto) sull’idea sbagliata che il mondo s’è fatto del Surrealismo (la «fraintesa vocazione al sovvertimento gratuito») e invece: «Tu potresti badare a cavarci fuori uno dei suoi caratteri più autentici, e cioè la meraviglia, l’incanto liberatorio, quella leggerezza sognante, e minacciosa». Credo, non solo, non ci possa esser visione più lucida e auto-critica del film, insieme con una terminologia infallibile (leggerezza e minaccia, a un tempo) ma l’ulteriore suggerimento, che egli dà al suo «grafico» diventa un concentrato di tutto il mondo immaginario, metafilmico, smagato, di Fellini. È davvero, quasi pittoricamente, la visione grottosa, concettual-vaginale, d’un’immagine abissale, che rode se stessa. Così Fellini suggeriva d’immaginare un’affiche gremita di tipi, in cui quegli stessi tipi s’affacciano a guardare se stessi, dentro il mitico, misterioso rettangolo del cinema. Che è anche quello del manifesto - gorgo oceanico, e poi del rettangolo, sommamente omicida, della Tv castiga-matti, di Ginger e Fred (con spot e pubblicità im-

maginarie). Il gran lettone onirico del Cinema. Scivolando eternamenre giù, per il toboggan, che s’apre sotto il letto della Città delle donne e «s’inabissa», tra le gambone della cameriera d’hotel. E allora tutto rotola di conseguenza, nell’avvitata processione profondo-puerile, che inanella i suoi film. La prodigiosa attenzione di Fellini al sonoro del colore, alle inflessioni del doppiaggio, perché lui regalava sempre un’altra voce ai suoi fantasmi (ormai) d’attore, così come reinventava in studio il Mondo. Fellini intervistato da Delvaux. La solitudine e «l’inavvicinanza» di Federico (e di Mastorna), l’attenzione maniacale al mirino dell’immagine, spettro di luce, cioè tutto (l’importanza divina del dettaglio). Fellini, grande masticatore, che sugge il magma, dalla grande mammella del reale, e spiaggia la sua poltiglia geniale, da profeta folgorante. E da conoscitore lucidissimo della pittura. Peccato che una mostra così, in un luogo come il Mambo (ci voleva Cogeval!) non mostri le sue influenze: Scipione, Ensor, Usellini, Magritte, Kubin...

Fellini. Dall’Italia alla Luna, Bologna, Mambo, fino al 28 luglio, itinerante

I fabricatores e i magistri che edificarono la Sicilia protagonisti della storia dell’architettura sono solitamente i grandi capolavori del mondo del costruire oltre che i famosi e riconosciuti progettisti e artisti, mentre restano quasi completamente ignoti i capi cantieri e le maestranze che materialmente realizzano le opere. Il volume Un altro rinascimento. Architettura, maestranze e cantieri in Sicilia 1458-1558 invece sovverte le regole, infatti la storia delle architetture non viene raccontata né attraverso l’opera degli architetti più illustri, né scorrendo cronologicamente, com’è consuetudine, le architetture più originali e riuscite, ma guardando i manufatti architettonici come risultato di un complesso processo di approvvigionamento, assemblaggio e lavorazione di materiali. Marco Rosario Nobile analizza l’evolversi dell’architettura in Sicilia nei cento anni che intercorrono tra la morte di Alfonso d’Aragona (1458) e quella di Carlo V (1558). L’autore pone al centro della storia protagonisti inusuali: marmorari, tagliapietre, ebanisti, ossia le maestranze che lavorano nei cantieri Quindi già da queste premesse lo sguardo che si getta sulla storia è «altro», adeguata introduzione all’ipotesi fondativa del testo sull’esistenza di un rinascimento al-

I

di Marzia Marandola tro, cioè diverso, da quello che si rispecchia nel canone fiorentino-romano. Le maestranze che lavorano nei cantieri a Palermo, ordinate secondo una rigida gerarchia, definita dall’appartenenza alle corporazioni, sottostanno a ben precise regole, registrate nei Capitoli del 1487: uno statuto di norme stabilite dalle botteghe dei marmorari e dei fabricatores (costruttori), uno strumento per garantire il controllo della qualità costruttiva. Questo sistema di controllo dell’opera delle maestranze, che prescriveva, ad esempio, che i magistri dovessero aver superato un esame per potersi fregiare del titolo, e l’esistenza di corporazioni che servivano anche per risolvere controversie tra committenti e capimastri, risultano strumenti fondamentali del governo dell’edilizia a Palermo, dove operano maestranze delle più diverse provenienze. Inoltre l’insularità della Sicilia non ne fa una terra «isolata»: essa è infatti un crocevia straordinariamente aperto, ricco di con-

taminazioni e permeabile a influenze diverse: così non si può parlare tanto di una sola storia siciliana, quanto di storie intrecciate e parallele vissute dalle città, ognuna con diverse tradizioni costruttive, molteplici come le popolazioni di contatto, delle quali le architetture ancora oggi conservano la memoria. Nobile, nel piccolo ma appassionante volume, ripercorre la «carriera» di scultori e fabricatores: un iter che inizia con un primo periodo di apprendistato nel quale il capomastro deve garantire al giovane vitto, vestiario e gli strumenti base del mestiere - per un muratore, martello e cazzuola -, in un ambiente dove le gerarchie sono forti e non tutti i capomastri sono uguali, dove bisogna dimostrare le proprie capacità e saper realizzare coperture e scale dava gran apprezzamento per un maestro. La ricca documentazione archivistica, riportata copiosa all’interno del testo, conduce il lettore al cuore di un cantiere del XV-XVI secolo in Sicilia, dal quale esce consapevole che fare architettura non è solo ideare un modello, disegnare una pianta, un prospetto, un’assonometria, ma un faticoso e complesso lavoro collettivo che coinvolge molteplici maestranze, di norma lasciate in uno stringente anonimato. Marco Rosario Nobile, Un altro rinascimento. Architettura, maestranze e cantieri in Sicilia 1458-1558, Hevelius, Benevento, 120 pagine, 12,00 euro


MobyDICK

pagina 16 • 17 luglio 2010

hi era Athanasius Kircher? Uno, nessuno e centomila, verrebbe la voglia di rispondere scomodando Luigi Pirandello; oppure si potrebbe far riferimento ad altri scenari dove l’ambiguità regna sovrana, parlando dei volti moltiplicati dagli specchi che comunicavano fascinazione e orrore a Jorge Luis Borges o degli eteronimi di Fernando Pessoa in rissoso e complice confronto nel chiuso di una identità inquieta. «Kircher, antesignano del poeta portoghese - scrive Eugenio Lo Sardo - non è mai uguale a se stesso, se non forse nel genio, e ripensando alla sua vita, alle sue vite, non sa qual scegliere: il distratto e brillante studente, l’avventuroso viaggiatore, lo scienziato, il sapiente? Opta per quello da lui ritenuto il filo conduttore della sua esistenza: la devozione religiosa. Tante passioni lo hanno animato e attratto, solo la fede l’ha veramente nutrito e, guardando al futuro sicuro del Giudizio Divino, e insofferente di quello mondano, si affida a una vocazione forte e sincera. Si ritira mentalmente nel romitorio della Mentorella a cui affida il suo cuore negandosi agli affari di un mondo che ha solo creduto di capire, ma più invecchia più gli sfugge come un volto in uno dei suoi mirabolanti giochi di specchi» (Cfr. «La vita avventurosa di un uomo melanconico e distratto», in Vita del Reverendo Padre Atanasius Kircher. Autobiografia, a cura di Flavia De Luca, La Lepre Edizioni, 121 pagine, 14,00 euro).

C

Di nuovo il volto, gli specchi, la replica degli interrogativi insoluti. E questa strana, elusiva biografia, scritta in limine vitae e pubblicata nel 1684, quattro anni dopo la dipartita. Si tratta, non c’è dubbio, di un documento importante, atto a stimolare la nostra curiosità. Prima di tutto perché un tipo dal multiforme ingegno, uno studioso dalla vocazione «leonardesca» come il gesuita tedesco è oggi, in tempi di frammentazione delle conoscenze e di specializzazione, merce più unica che rara. Poi perché siamo di fronte a un personaggio che - come scrive Ingrid Rowland nella prefazione - «sapeva utilizzare il potere della parola e dell’immagine nei suoi grandi libri di divulgazione, per non parlare del suo “istinto pubblicitario”, spesso criticato dai contemporanei». Degna di ammirazione è anche «l’indipendenza intellettuale che Kircher seppe conquistarsi nella Compagnia di Gesù, in piena Controriforma, in un mon-

mo d’una mente d’alto profilo, vagotonica e distratta come quella di un matematico». Kircher direbbe che nella sua vita movimentata un «Oriente» a dirigerlo, c’era: ed era la fede. E aggiungerebbe che i guai in cui si cacciava si rivelarono tutti provvidenziali, ebbero esiti miracolosamente felici e confermarono la sua devozione a Dio e alla Madonna. E sì che al nostro Athanasius ne capitarono davvero tante da quando venne alla luce «in questo mondo di calamità alle tre dopo la mezzanotte del 2 maggio 1602, proprio nel giorno dedicato a Sant’Atanasio, nella città di Geisa, situata a tre ore di viaggio da Fulda».

Siamo in Turingia: il pargolo appartiene a una famiglia ferventemente cattolica, il padre, Johannes, è teologo, filosofo, docente nel convento di Seligenstadt e balivo di Haselstein, per volontà del principe-abate Balthasar von Dermbach; la madre,Anna Gansekin, è dedita alla famiglia e alle opere pie. Ma tra il cupo infuriare di guerre di religione e di persecuzioni di eretici, o presunti tali, l’abate viene mandato in esilio e Johannes, privato del suo incarico, è costretto a dedicarsi esclusivamente agli studi e all’educazione dei figli (nove: sei maschi e tre femmine). Athanasius è il più piccolo, ma promette bene: a dieci anni ha già appreso i rudimenti della musica, del latino e della geografia, e papà lo invia a Fulda, presso il Collegio della Compagnia di Gesù, perché si apra a tutte le discipline, dal greco all’ebraico. Ma avevamo accennato alle «disgrazie» che accrescono lo «stato di grazia» di Athanasius: una volta si tuffa nelle acque gelide di una chiusa e viene travolto dalla ruota di un mulino; in un’altra circostanza, durante la festa della Pentecoste, pressato dalla folla che assiste a una corsa di cavalli, viene catapultato sulla pista e rischia di essere schiacciato dagli zoccoli delle bestie scatenate; poi, gli capita, naturalmente nel pieno delle tenebre notturne, di smarrirsi in un bosco infestato da briganti e da fiere. E non è finita: corre sul ghiaccio, cade a gambe divaricate e si procura un’ernia; i geloni di cui soffre gli vanno in cancrena; gli capita di dover attraversare luoghi inospitali, immerso nelle neve fino alle ginocchia, tra fame, sete, incomprensioni e persecuzioni come compagni di viaggio. Ma lui va avanti grazie a una fede coriacea che funziona da corazza e gli garantisce interventi salvifici quando parrebbe essere allo

Astronomo, esoterista, matematico, inventore di “mirabilia”, visse a Roma dal 1633 fino alla morte nel 1680, influenzando con le sue teorie la cultura cittadina do spesso repressivo e caratterizzato da angusti orizzonti». Infine, «l’era della globalizzazione non può che riconoscersi in questo tedesco costretto dalle guerre religiose a lasciare la terra natìa per passare la seconda metà della sua vita a Roma, diventando, non diversamente dall’attuale pontefice, tanto romano quanto tedesco, cittadino del mondo e anima vagante, eternamente spaesata». Beh, questo giudizio che lo vuole spirito errabondo e, diciamo, «disorientato», Kircher di sicuro non lo rivendicherebbe e nemmeno gli piacerebbe quel che gli attribuisce Lo Sardo, e cioè «una straordinaria abilità a cacciarsi nei guai». Anche se con l’opportuna precisazione: «Sintoanno III - numero 28 - pagina VIII

stremo delle forze. Dalla devozione all’invocazione, dall’invocazione alla consolazione e al miracolo, l’Autobiografia è una sequenza di episodi edificanti, con uno status intellettuale e, per dir così, «professionale», che vediamo crescere, da incarico a incarico, da libro a libro, attraverso i più svariati interessi e ricerche, a conferma di una vita non solo «ben orientata» ma «benedetta». Naturalmente, alla faccia di chi a Kircher vuol male, perché, se, a confortarlo, ci sono discepoli di sicuro valore come Gaspar Schott, i «colleghi» invidiosi non mancano mai. Solo che nell’Autobiografia, depurata com’è da tutto quello che potrebbe avere i tratti dell’«effetto speciale», della «realtà ro-

il paginone

Credeva al rapporto delle parti con il tutto, all’unità del sapere, agli intrecci tra microcosmo e macrocosmo, a un vastissimo tessuto di connessioni e relazioni che tutto comprende. La straordinaria avventura intellettuale del gesuita tedesco, studioso dalla “vocazione leonardesca”, a partire dalla sua Autobiografia ora pubblicata a cura di Flavia De Luca

Così parlò Athanasius K di Mario Bernardi Guardi manzesca», della pur giustificabile autostima, a certe brutte cose umane, troppo umane, si fa solo fuggevol cenno. Comunque, nella pluralità dei Kircher, questo è quello «firmato» da lui. Sia dunque reso onore al merito di chi ce l’ha restituito, ovvero Flavia De Luca che, studentessa negli anni Novanta del Liceo Classico Visconti di Roma, ospitato in un grande palazzo tardo-cinquecentesco, sede del Collegio Romano dal 1583 al 1870, scoprì l’illustre gesuita grazie a una ricerca promossa dall’allora preside, Dora Marinari, e da un gruppo di docenti.

Il progetto era quello di «far rivivere quanto possibile il Museo Kircheriano, la “camera delle meraviglie” allestita dallo studioso nei locali del Collegio Romano, che spaziava dalla zoologia alla meccanica, dalla mineralogia alla botanica». Fu allora che il gruppo si avvicinò all’Autobiografia dell’illustre gesuita. Il

documento è conservato nall’Archivium Romanum Societatis Jesu, ma i nostri appassionati cercatori poterono consultarlo grazie alla fotocopia fornita loro da padre Giulio Libianchi, allora Rettore emerito della Basilica di Sant’Ignazio, «utilizzandone qualche brano per le mostre che si andavano via via allestendo», col proposito di tornare a lavorare su di esso nella sua interezza.

Come poi è avvenuto: e la puntualità delle Note mostra l’accuratezza del lavoro svolto. Ma la «straordinaria avventura intellettuale» di Athanasius - astronomo esoterista (Cfr. Joscelyn Godwin, «Keplero e Kircher sull’armonia delle sfere», in Aa.Vv., Forme e correnti dell’esoterismo occidentale, a cura di Alessandro Grossato, Medusa 2008, pp. 145-164), matematico, fisico, letterato, egittologo, geologo, musicista, ottico, medico, poliglotta; inventore e costruttore di macchine per


17 luglio 2010 • pagina 17

esperimenti idraulici, ottici, magnetici e matematici; straordinario collezionista e di straordinarie collezioni promotore/accrescitore; esperto di geroglifici, decrittatore di obelischi, curioso di anamorfismi (cfr. «Visionari tedeschi: Kircher e Schott», in Jurgis Baltru\u0161aitis, Anamorfosi, Adelphi 1990, pp. 95-106) e di sapienza ermetica (Cfr. Elémire Zolla, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Bompiani 1975, passim) - è ancora tutta da raccontare. Se si preferisce, da esplorare, lungo un percorso segnato da mirabilia che si chiamano Mundus Subterraneus, De Arte Magnetica, De Arte Magna Luci et Umbrae, Musurgia universalis, Oedipus Aegyptiacus…

Kircher

Del resto, quando nel novembre del 1633, chiamato da Urbano VIII, Athanasius giunge nell’Urbe, per insegnare matematica, fisica e lingue orientali al Collegio Romano, la fama da cui è circondato fa pensare a una sorta di sapiente onnivoro e poligrafo, a un insonne indagatore dell’universo che su tutto posa il suo sguardo e tutto capta col suo intelletto: un mago, quasi. Qualche tempo dopo, Raffaello Magiotti ne dà notizia a Galileo: «Di nuovo vi è in Roma un Gesuita, stato gran tempo in Oriente, il quale oltre a possedere dodici lingue, buona geometria ecc., ha seco di gran belle cose, e fra l’altre una radica, quale si volta secondo gira il sole, e serve per horiolo perfettissimo… Ha portato gran copia di manoscritti arabici e caldei, con una copiosissima esposizione di geroglifici». Come scrive Alfredo Cattabiani, «in pochi anni il gesuita, che sarebbe vissuto a Roma fino alla morte, nel 1680, divenne uno dei più autorevoli esponenti della cultura cittadina influenzando con le sue teorie persino l’architettura e la scultura barocca, tant’è vero che il Bernini si valse dei suoi consigli per la Fontana dei Fiumi di Piazza Navona, allegoria della creazione divina del cosmo, ma anche del processo conoscitivo che sale dagli emblemi animali, raffigurati sotto la grotta e negli anfratti della roccia, fino alla pura contemplazione del divino nell’aurea colomba» (Simboli, miti e misteri di Roma, Newton Compton 1990, p.164 sgg.). Kircher è inesauribile: insegna,

La Fontana dei Fiumi, a Piazza Navona a Roma, per cui Bernini si avvalse dei consigli di Athanasius Kircher. Sopra, un ritratto del gesuita tedesco e alcune illustrazioni delle sue “mirabilia”

scrive (abbiamo ricordato qualche titolo delle sue opere, che sono ben trenta e su tutto spaziano), interpreta i geroglifici, inventa lanterne magiche e giochi ottici che deliziano la corte pontificia, raccoglie dai suoi confratelli, impegnati a evangelizzare l’Oriente, «messi di notizie e oggetti di vario genere sistemandoli nella celebre Galleria del Collegio Romano, sorta per opera sua nel 1652 dalla collezione che Alfonso Donnini aveva donato ai gesuiti». Un museo di arti e di meraviglie messo su in maniera arbitraria? No, Kircher non assemblava casualmente le cose più varie, ma lo faceva causalmente. Credeva al rapporto delle parti con il tutto, alla unità del sapere, agli intrecci tra microcosmo e macrocosmo, a un vastissimo tessuto di connessioni e relazioni che tutto comprendeva, nel senso etimologico del «tenere insieme» sulla base, appunto, di legami necessari tra «alto» e «basso».

Insomma, quella del gesuita era una visione del mondo simbolica, «dove si componevano armonicamente il Platone del Timeo, il Corpus hermeticum, Giamblico e Proclo, con Dionigi l’Aeropagita, Avicenna, Teodorico di Chartres, Cusano, Marsilio Ficino, Agrippa di Nettesheim e Francesco Patrizi». Nel mondo antico c’erano, per dirla con Simone Weil, «intuizioni precristiane»? Di sicuro, osserva Cattabiani, Kircher era convinto che le religioni pagane non fossero politeiste, «almeno nel pensiero dei loro sapienti, perché, come scriveva nell’Obeliscus Pamphilius, “il lume della natura era tanto forte in essi che non po-

La Fede era il suo Oriente, e la sua visione simbolica del mondo lo spingeva a decifrare l’universo intero come visibile alfabeto di Dio. L’importante è saperlo leggere... tevano credere che quell’entità che noi chiamiamo Dio fosse finita, corruttibile e molteplice”». Ermete, Pitagora, Platone, Plotino «credevano in un Dio immobile, infinito e necessario», che già i sapienti egizi avevano rappresentato nelle sue molteplici qualità attraverso Iside, Osiride e Horo. Dunque, secondo Kircher, «la sacrosanta e tre volte benedetta Trinità, massimo e tre volte sublime mistero della fede cristiana, è stata adombrata anche in altri tempi, sotto il velo dei miti enigmatici» e segni, simboli e significati hanno una trama comune. Quanto ai geroglifici di cui Kircher è interprete attento e assiduo, essi sono il linguaggio sacro per eccellenza, procedendo da Ermete, dio della scrittura, dell’astrologia e dell’alchimia (Cfr. La rivelazione segreta di Ermete Trismegisto,Vol. I, a cura di Paolo Scarpi, Fondazione Lorenzo Valla /Arnoldo Mondadori Editore, 2009) e rappresentando la scrittura che fa risuonare le armoniche concordanze tra piante e animali, minerali e astri, terra e cielo. Ed è nel cielo, si legge nell’Ars magna lucis, che brilla il Sole, con la sua valenza trinitaria: il Padre è la Lux infinita ed eterna; il Figlio è lumen de lumine o raggio della sostanza divina; lo Spirito Santo da essi riceve quel calore con cui riscalda l’universo. Insomma, l’universo è il visibile alfabeto di Dio: ma bisogna saperlo leggere. «Chi conoscerà il nesso misterioso che lega il mondo superiore all’inferiore penetrerà negli abissi arcani delle vette». Così parlò Athanasius Kircher.


Narrativa

MobyDICK

pagina 18 • 17 luglio 2010

Brasile caldo… un romanzo in sei racconti di Maria Pia Ammirati rima delle pause editoriali estive si segnala un esordio letterario talentuoso ricco di storie e di sorprese compositive. Il titolo è Brace, che è una parola letterale ma anche allusiva del luogo in cui le storie sono ambientate e cioè il Brasile, il nome Brasile viene infatti dal portoghese brasa, che significa appunto brace. L’ha scritto Attilio Caselli che è regista e sceneggiatore cinematografico, un particolare non ininfluente in una scrittura vivida e in una struttura organizzata per grandi scene calibrate in sei corposi racconti, con un gusto per i particolari dedicati ai personaggi che spesso sono i protagonisti delle singole storie. La scrittura è buona anche se con poche sorprese e con innesti di varie espressioni volgari in lingua portoghese. Il talento e la sorpresa di questo libro appartengono certo alla descrizione di un mondo diverso e lontano, forte ed espressivo, colto nelle sue parti più estreme - le favelas - e la grande borghesia di Rio de Janeiro. Due mondi certo all’opposto, com’è nell’intenzione rappresentativa dell’autore, posti a contrasto tra loro in un’equilibrato bilanciamento di giustapposizione. Il Brasile è

P

Riletture

un mondo facile da pensare nei suoi eccessi, che sono primariamente quelli di una povertà estrema a confronto con la ricchezza spesso frutto di una commistione tra potere e malaffare. La sorpresa di questo libro è, come si diceva, da rintracciare prima nella sua struttura, che procede, per il lettore che principia la lettura, in

tre grandi racconti tra loro autonomi: il primo intitolato Elza e Du, il più compiuto, asciutto e forte, si svolge in una favela. Una storia crudele e sanguinolenta giocata su un perfetto congegno temporale di attese e rimandi a sfondo erotico. Il protagonista è un povero gio-

vane nero della favela che si introduce in casa di un’avvenente vedova. La vedova è l’amante di un poliziotto corrotto, e il clou della scena si svolge nella camera da letto della vedova con il povero Du nascosto sotto il letto e l’arrogante poliziotto, più simile a una bestia che a un uomo, sopra al letto con la sua amante. Il punto di vista da sotto il letto è certo la cosa più originale, ma tutta la storia tra accoppiamenti feroci e sguaiati, paure e pensieri di Du, è un crescendo di tensione. La seconda storia è all’apparenza più algida e meno d’effetto, riassume l’ascesa politica e la nevrosi di un deputato che lancia la sua campagna presidenziale sulla costruzione di un falso scandalo dei suoi avversari. La terza storia, la più commovente, è quella di Joao Baptista, un diseredato che nella vita possiede solo un carretto con il quale trasporta materiali da riciclo. Seguiamo Baptista, fervente religioso, durante una delle sue giornate a raccattare cartoni e insulti dalla gente normale, fino alla fine della giornata quando, è oramai notte, sul carretto Joan trova una donna bellissima. Una sorpresa costruita con suspense che ha la sua rivelazione solo nel quarto racconto, dal quale apprendiamo che ci troviamo (senza svelare oltre) di fronte a un romanzo costruito in sei scene, tutte legate tra loro dalle storie dei personaggi che si incontrano via via. Il romanzo si chiude con una vera e propria apoteosi del suo sistema duale, con la parte intitolata Tre funerali. Tutto in questo «racconto» crudele e magnifico parla della contaminazione del doppio: la vita e la morte, povertà e ricchezza, sacro e profano, amore e morte. Attilio Caselli, Brace, Fazi, 253 pagine, 17,50 euro

libri ALTRE LETTURE

SE L’AMICIZIA È UNA FILOSOFIA DI VITA di Riccardo Paradisi

a Platone a Montaigne, da Emerson a Nietzsche la definizione di amicizia è passata attraverso il pensiero dei grandi filosofi senza arrivare ad assumere contorni ben definiti, proprio per la complessità di vicende ed esperienze che racchiude. Procedendo in modo deduttivo Siegfred Kracauer in Sull’amicizia, (Guanda, 134 pagine, 12,00 euro) analizza le relazioni fra gli uomini cominciando da quelle che, per diversi motivi, non si reggono su vincoli amichevoli: il legame d’amore fra uomo e donna, il rapporto con i colleghi o quello con i conoscenti. Rapporti che si trasformano in amicizia quando scatta l’alchimia della condivisione degli stessi ideali.

D

MAI COME GLI ADULTI CHE HANNO TRADITO *****

orse la giovinezza (A & B, 200 pagine, 17,00 euro) è un romanzo che scorre via veloce e commovente. Perché Claudio Pastena ha la stoffa del narratore autentico. Un ragazzino nello spazio di una stagione, l’estate del 1967, si fa un’idea straordinariamente precisa della vita. E ripercorre le scoperte più emozionanti della sua «educazione sentimentale». Sullo sfondo, il paese del Sud dove è cresciuto, fotografato nel momento di passaggio da un mondo antico a un mondo nuovo, raggiunto dagli echi della contestazione… Stretto tra segreti familiari e l’esaltazione del primo amore, il protagonista smette i panni del bambino senza perderne il candore.

F

Europa, Colombo e l’Ippogrifo secondo Bontempelli ra i libri più belli di Massimo Bontempelli (1878-1960) risplende Il giro del sole stampato nel ’41 e che non credo sia mai stato riproposto ai lettori. Sarebbe una grave mancanza, perché entrare in contatto con questo testo significa permearsi in una grande lezione di stile, di dimensione poetica, di grande e approfondita cultura non solo mitologica, di una capacità mirabile nel raccconto e nel presentarci i personaggi non solo mitici ma reali e pervasi di umanità. Liceale, lessi Il giro del sole appena uscito e ne fui così entusiasta da non averlo più dimenticato fino a questa gratificante rilettura. Alla sua uscita il libro fu accolto da grandi consensi di critici e di lettori, e si ebbe anche un lungo saggio di Giuseppe De Robertis, proprio nel ’41, ora in Altro Novecento (Lemonnier ’62). Bontempelli aderì al Futurismo nel ’18 per poi allontanarsene. Musicologo e musicista scrisse accompagnamenti musicali anche per un’opera di Pirandello che conobbe intimamente. A lui ri-

T

di Leone Piccioni sale il movimento del «realismo magico». Si ricordano romanzi come Nostra Dea del ’25, Gente del tempo del ’37 con un libro di saggi del ’38 su Pirandello, D’Annunzio, Leopardi e Scarlatti. Nel ’24 Bontempelli aderì al Partito fascista ma più tardi si spostò politicamente a sinistra e venne mandato al confine nel ’38 a Venezia. Nel ’48 partecipò alle elezioni per il Fronte Popolare, ma la sua nomina a parlamentare fu invalidata per i suoi scritti precedenti sul fascismo. Nel Giro del sole ci sono tre racconti ed è difficile dare un ordine preferenziale perché tutti sono su un livello di grande capacità espressiva: Viaggio di Europa, La via di Colombo, Le ali dell’Ippogrifo. Il racconto del ratto d’Europa, compiuto da un Giove che prende figura di toro, è preceduto da un bellissimo paragrafo sulla morte e rinascita dell’Araba Fenice («Angelo fenice» come Bontempelli la chiama). Europa, con pochi altri venuta

in pellegrinaggio, assiste al momento più magico e toccante: ogni cinquecento anni l’Araba Fenice torna sullo stesso monte d’Arabia; puntualmente si prepara un rogo di fogliame e arboscelli lasciando che sia il sole ad accenderlo per poi sacrificarsi nel fuoco ardente. Ma dalle sue ceneri immediatamente rinasce l’Angelo fenice. «La prosa di Bontempelli - ha scritto De Robertis - in questa sua raggiunta maturità suggerisce un’impressione di movimento e il segno più forte è una velocità, una libertà di trapassi, che tanto si avvicina al gusto greco e al gusto nostro trecentesco». E valgano queste parole anche per il racconto sulla navigazione di Colombo verso l’America e dei suoi colloqui con il misterioso Garçia. Vengono dunque in mente le pagine delle Operette morali leopardiane sul dialogo di Colombo e su quella che sarà la sorte del nuovo mondo che si scoprirà. Garçia pensa che il viaggio punti sul monte del

Purgatorio dantesco e si prepara a buttarsi in mare per raggiungerlo, suggerendo a Colombo di fare altrettanto per raggiungere subito la santità. Per Garçia la gente che già vive nelle Americhe è felice; la conquista la peggiorerà perché subentrerà la forza e la maledizione dell’oro: «L’oro è miseria, non la povertà limpida che gira cantando lungo i fiumi del mondo, ma miseria sudicia che trascina di prigione in prigione fino all’una e all’altra morte. L’oro porta incendio e infezione e sconquasso». E vengono in mente anche i versi dell’Inno ai Patriarchi dei Canti leopardiani. Le ali dell’Ippogrifo infine, con l’Ippogrifo che trasporta Ruggero verso l’infinito, e fa sosta su una incantevole isola, dove incontra la ragazza di nome Argentina, figura incantevole e di limpida genuinità. Ma, alla fine del racconto, il sole termina i suoi giri e si ferma: quando tocca l’acqua che dovrebbe farlo tramontare si ferma: «Il sole, toccato il circolo del mare, invece d’affondarvisi s’era fermato. Tutta la natura parve ferma con lui».


MobyDICK

poesia

17 luglio 2010 • pagina 19

Cosmologia di Romeo e Giulietta di Roberto Mussapi acconto cosmologico, fu felicemente definita una commedia di Shakespeare, ma la definizione va estesa a tutta l’opera del sommo poeta teatrale. Il teatro di Shakespeare, dalle tragedie alle commedie, finanche ai drammi storici, è una grande racconto cosmologico: nel teatro, nell’illusione scenica, secondo gli archetipi della rappresentazione ancora presenti in Estremo Oriente, l’uomo mette in scena i grandi eventi cosmici. In Occidente ciò ha inizio con la tragedia greca: dalla nascita come rito dionisiaco si trasforma in rappresentazione degli eventi celesti che hanno disegnato il volto del mondo e la realtà dell’uomo: la lotta tra dei e titani, l’enigma della Sfinge, la potenza del fato. In Shakespeare il procedimento è portato al grado estremo, poiché perfetta è l’incarnazione nei personaggi, perfetto l’artificio, la verosimiglianza, come nei quadri di Caravaggio (anch’egli sommo autore di teatro). La Tempesta, il capolavoro dei capolavori, con Amleto, è una commedia romanzesca, una fiaba teatrale in cui assistiamo a una divisione del mondo tra due gruppi di uomini, che culmina con una violenta bufera, un evento tremendo e traumatico, dal quale però ha inizio un miracoloso processo di riconciliazione. Il caos e la conseguente divisione del mondo si ricompongono. La storia del mago Prospero e della figlia Miranda sull’isola caraibica, dei nemici sulla nave colpita dall’uragano, è una storia di perdita e riconciliazione. Così come Amleto, la tragedia delle tragedie, è uno straordinario racconto sull’universo, sulla realtà dell’immagine, sulla sostanza del sogno e della visione, sulla verità del mondo.

R

Qui, nei versi proposti, ci troviamo in un momento topico della più grande storia d’amore di tutti i tempi, Romeo e Giulietta. La tragedia shakespeariana divenne subito mito: grazie a un drammaturgo nato a Stratford on Avon, e operante a Londra nel XVI secolo, un balcone diVerona, il «balcone di Giulietta», è divenuto leggendario in tutto il mondo. Giulietta Capuleti non è mai esistita nella storia, ma è divenuta più viva ed eterna di milioni di altre ragazze come lei belle e amate, grazie alla vita che le diede il più grande creatore di vite in poesia, accanto a Dante.Verona è capitale dell’amore, su quel balcone giovani innamorati di tutto il mondo appongono messaggi amorosi, grazie al genio di un inglese di cinquecento anni fa. Il mito del balcone di Giulietta ha ispirato a Elvis Costello, uno dei grandi della musica contemporanea, Letters to Juliet, un capolavoro, eseguito nei teatri di mezzo mondo con il Brodsky quartet, originalissimo accostamento per il musicista rock. Ma soprattutto ha ispirato un film magnifico, Shakespeare in love, un capolavoro che, oltre a rappresentare con perfetta verisimiglianza il mondo elisabettiano in cui nasce la tragedia di Shakespeare, Marlowe, Kidd, Spencer, Ben Johnson, lo squadrone di poeti che si riappropriano della scena e della voce, come accadde in origine, quando nacque la poesia, oltre a tutto questo e molto altro, ci offre una chiave per entrare nella vicenda di Romeo e Giulietta. L’invenzione dell’autore è profondamente nu-

il club di calliope

trita di poesia: solo se hai vissuto l’amore lo puoi rappresentare, e quindi il teatro, la recita, anche se rappresenta una storia inventata, sta raccontando la verità. È inventata la storia, non la realtà che quella storia esprime, in questo caso la tragedia di amore e morte. E solo con l’invenzione, con il racconto, con la recita, con l’illusione del teatro, noi possiamo attingere a quella verità che altrimenti ci sfuggirebbe nel bailamme della vita quotidiana. Tornando al discorso cosmologico: la vicenda di Romeo e Giulietta rappresenta una comunità che in Shakespeare indica il mondo: qui si tratta di Verona (nel bellissimo film di Baz Luhrmann con Leonardo Di Caprio Romeo + Juliet), in Amleto il Castello di Elsinore, in Molto rumore per nulla (non si perda la magnifica versione cinematografica di Kenneth Branagh) una villa patrizia nei pressi di Messina: città, castello, villa, nel mondo preindustriale, sono piccoli mondi. Ciò che accade a Verona, intende Shakespeare, non sta avvenendo solo a Verona, ma, analogamente a quanto accade nel marcio regno di Danimarca, a Elsinore, sta avvenendo nel mondo. La comunità di Verona è divisa tra due gruppi nemici, i Montecchi e i Capuleti. Si odiano, sulla città, sul mondo, dominano il ferro delle lame e il sangue dei morti. È una comunità dove i vecchi impongono il crudo dettame della morte. E i due giovani più belli delle due famiglie rivali si innamorano. Sono giovani, belli, innocenti: sono i due agnelli. I due agnelli moriranno, crudamente, perché la comunità, per redimersi, rigenerarsi, ha bisogno di un sacrificio. E infatti, dopo la loro morte, le due famiglie, scosse mortalmente dall’evento, si riconcilieranno realmente. Tornerà la pace, prezzo il sacrificio dei due membri più giovani e belli della comunità.

Ma… Ma quale luce appare dalla finestra? È l’Oriente, è Giulietta, è il sole! Sorgi, bel sole, e uccidi la luna invidiosa, già pallida e ammalata per il dolore che tu sua ancella sia tanto più bella di lei. Non essere sua ancella, perché è invidiosa, il suo abito di vestale è verde e spento, e solo le stupide lo indossano. Via! È la mia signora. È il mio amore. Potesse sapere che lo è! Parla. Non dice niente. Che importa? Il suo occhio parla, a lui risponderò. Son troppo audace. Non è a me che parla. Due delle stelle più belle di tutto il firmamento occupate altrove chiedono ai suoi occhi di splendere nello loro sfere fino al ritorno. E se fossero lì i suoi occhi e loro nel suo capo? La sua guancia umilierebbe quelle stelle come la luce del giorno quella di una lampada. Nelle regioni del cielo e dell’aria i suoi occhi sarebbero così luminosi che gli uccelli canterebbero pensando che quella non è la notte. Guarda come posa la guancia sulla mano. Oh fossi un guanto su quella mano, potessi toccare quella guancia…

E che tale sacrificio sia fatale, inevitabile, è sottolineato dalla crudeltà del destino: Romeo che è impulsivo e notturno, ma realmente innamorato, potrebbe esitare un istante, prima di uccidersi, davanti al corpo di Giulietta irrigidito da un sonno che simula morte. Potrebbe esitare, guardarla ancora, non cedere alla morte come chi ne ha compreso il dominio, baciarla «prima», non dopo avere bevuto il veleno. Non dovere uscire dalla scena (ma non dal mondo dove vive eternamente in noi) dicendo: «Così, in un bacio, muoio». Ma attendere, baciarla subito, come il Principe della Bella Addormenata nel bosco, che con quel bacio la ridesta. Ma non è possibile: il principe della fiaba ha consapevolezza del dominio di amore; nella sua vicenda, Romeo ha con-

William Shakespeare (da Romeo e Giulietta traduzione di Roberto Mussapi)

sapevolezza che a Verona la regola è morte, e al lui è chiesto il sacrificio della vita. Per questo Romeo pare sempre agito da una sorta di furiosa disperazione, che contrasta con l’innocente dolcezza di Giulietta. Lei non sa, lei troppo ama. La morte la può schiantare, non sfiorare in vita. Qui la vediamo al balcone, la notte in cui si sono innamorati, come un astro, Lui è in basso, la guarda come Leopardi guardava il cielo stellato, come l’irraggiungibile risposta agli affanni umani.

A TU PER TU CON SORELLA MORTE in libreria

LA COMPAGNIA

di Loretto Rafanelli

aveva preso un cane bonaccione almeno per averne compagnia, ma neanche abbaia è sempre più musone. quando la solitudine è agghiacciante al punto che la luce è uguale al buio, lui nel segreto, ha chi lo conforta: dà la mano alla maniglia della porta. Guido Oldani

el dialetto lucano, con versione italiana, viene pubblicata la raccolta di Assunta Finiguerra Tatemije (Mursia, 110 pagine,15,00 euro), una poesia potente e tragica, versi che sono collocati «nella lacrima della morte». Un «fiume d’ira» che non ha a che vedere con un semplice disagio dell’anima, queste poesie la Finiguerra le ha scritte sul letto di morte, condannata senza soluzioni alla sua fine. La poetessa alterna cupe immagini e neri scenari a squarci di speranza, è la lotta sfinente tra la vita e la morte, tra il sussulto vitale e il «respirare l’aria vergine della malattia». È l’invocazione a una divina salvezza (Tatemije vuol dire padre mio), ma pure la comprensione che «ogni volta che fa giorno è un addio» e sente infine che nel precipitato tempo il «sangue dipinge il tramonto». Feroci stati d’animo, la presa diretta con la disperante «sorella», ma ecco che a sorpresa la poesia diviene canto: «Solo un attimo di vita mi è rimasto/ un attimo più lungo della vita/ più corto del respiro del mare/ più scuro della notte addolorata».

N


Teatro

MobyDICK

pagina 20 • 17 luglio 2010

spettacoli DVD

SMETTERE DI FUMARE IN BUONA COMPAGNIA

di Enrica Rosso

ino al 1° agosto una bella occasione di teatro sotto le stelle per chi si trova a Roma. Una doppia opportunità per godere contemporaneamente della visita ai Fori Augustei e dei nobili versi dell’Eneide di Virgilio liberamente adattati dal regista Roberto Marafante. Una congiuntura ideale che vede il più grande poema della latinità animare i resti del Foro, emblema della grandiosità del regno dell’imperatore Augusto che commissionò entrambe le opere. L’allestimento ha debuttato il 20 giugno scorso, in coincidenza con la Giornata Mondiale del Rifugiato. Marafante sceglie per questa edizione di Passaggi segreti, una chiave di lettura molto attuale in cui spicca l’empatia con il grande popolo dei disperati in perenne fuga dallo sconcerto della guerra, la moltitudine dei diseredati che spendono vite ovunque tranne che a casa loro e che non trovano pace mai. Il poema è suddiviso in tre Frammenti: il racconto; il sogno e la realtà; la morte e la rinascita. Ogni scheggia di narrazione trova un luogo di appartenenza di bella pertinenza e speciale suggestione per questo spettacolo itinerante. Il primo Frammento si sviluppa nell’Esedra di Enea. L’immagine di apertura lascia spaziare lo sguardo sull’imperiosa bellezza del sito archeologico e suggerisce il naufragio dei fuggiaschi troiani in terra cartaginese. Accomodati di fronte a un ipotetico infinito, seguiamo la narrazione di Enea: la presa della città da parte dei Greci introdottivisi con l’inganno del cavallo di legno e la fuga da Troia dopo l’incendio; il conseguente peregrinare per mare nel tentativo di raggiungere le coste italiane; la morte del padre Anchise e la nuova partenza per mare alla volta dell’Italia con la separazione coatta dalla consorte Didone. La dispera-

F

L’Eneide di Virgilio dalla parte dei migranti

Televisione

l contrario della bionda che nuoce gravemente, non può creare danni irreparabili la visione del celeberrimo documentario elaborato da Allen Carr sulla scorta dell’omonimo libro Smettere di fumare è facile se sai come farlo. Armati di sano scetticismo, o animati dalla scaltra logica che mosse a suo tempo la scommessa pascaliana, tutti possono gettare un occhio sul metodo dell’ex tabagista americano, liberatosi da accendini e mozziconi dopo trentatré anni di ferrea militanza. Voce suadente, nessun tono ricattatorio, niente terrorismo radiografico: Carr sa come insinuarsi tra gli impermaliti nervi dell’animus fumandi.

A

zione e morte della regina di Cartagine e la nuova partenza per intraprendere il viaggio in cui perderà la vita Pallante, il timoniere della nave di Enea, fino al’approdo sulle italiche spiagge di Cuma. Ci ritroviamo noi stessi viandanti tra resti di colonne che evocano i relitti delle imbarcazioni. Le luci di Stefano Valentini creano sagome e gli interpreti avanzano proseguendo la loro avventura di sopravvissuti fino a insediarsi al Tempio di Marte per il secondo blocco dello spettacolo. Le imponenti dimensioni della scalinata del Tempio dedicato al dio della guerra saranno testimoni della discesa agli Inferi di Enea per incontrare i suoi cari. Sarà qui che dialogherà con Didone, Palinuro e in ultimo il padre Anchise che lo metterà di fronte al suo destino di fondatore della romana grandezza. Sempre qui avverrà l’incontro con la figlia del re Latino Lavinia, già promessa sposa di Turno con cui

Enea dovrà rapportarsi prima di arrivare al casuale scatenamento della guerra tra Latini e Troiani a opera del figlio Iulo. Ora nell’aria risuonano le musiche composte da Marco Schiavoni che accompagnano i combattimenti plastici e spettacolari eseguiti con perizia da tre coppie di danzatori De Klan: acrobati che volteggiano nell’aria e confrontano le loro abilità sulle pietre sconnesse ancora tiepide dell’Esedra di Romolo. Siamo al III Frammento. Assistiamo alla guerra in cui avverrà l’uccisione di Pallante, amico fraterno di Enea, da parte di Turno, alla morte della madre di Lavinia e al duello finale che vedrà Enea e conseguentemente il suo popolo trionfare su Turno.

Eneide di Virgilio, Roma, Foro di Augusto, fino al 1° agosto. Prenotazione obbligatoria, Info: segreti@labilancia.it www.passaggisegreti.it tel.06 6795130

PERSONAGGI

SUSAN BOYLE CANTA PER BENEDETTO XVI na favola senza fine, quella del brutto anatroccolo dalla voce di cigno. Dopo l’exploit da nove milioni di copie in seguito al trionfo di due anni fa al Britain’s Got Talent, Susan Boyle è riuscita a raggiungere i cuori delle gerarchie vaticane. La signora si esibirà infatti al Bellahouston Park di Glasgow, durante la messa all’aperto che il Papa officerà in occasione della sua visita di quattro giorni il prossimo sedici settembre. In arrivo poi anche il secondo disco, che sarà intitolato The Gift e il nome del fortunato compagno di duetto che la Boyle sceglierà tra migliaia di aspiranti partner.

U

di Francesco Lo Dico

Video Ranger: se il voyeurismo si nutre di tragedia l voyeurismo è costume antico. Ma con la televisione e internet, e l’ingresso in una società superficiale e frivola quasi ex lege, è tornato alla ribalta. Ormai siamo abituati a essere, forzatamente oppure no, guardoni dinanzi a ragazze con fisico mozzafiato e abiti ridotti quasi a un’idea (maliziosissima) e a giovanotti palestrati (oggi si chiamano tutti «tronisti»). Nel suo ultimo libro (A qualcuno piace uguale, Einaudi) la psicoanalista Simona Argentieri giustamente osserva che sono perlopiù caricature di femmine e di maschi, con evidenti, e inquietanti se non previsti dal copione, tratti di ambiguità: infantilismo per le donne e comportamento para-omosessuale per gli uomini. Ma ci sono altri voyeurismi, che puntano sulla voglia del macabro e dell’orrifico magari con la scusa di raccontare storie «al limite» ma finite bene, o abbastanza be-

I

di Pier Mario Fasanotti ne. Il canale Axn di Sky manda in onda Video Ranger. All’ora di fascia cosiddetta protetta. L’uso abile e disinvolto del computer permette però ai ragazzi - e magari ai bambini- di guardare le stesse scene anche dopo pranzo. La fascia protetta diventa un’ipocrisia, dunque. Video Ranger ha come sigla le scene più comicamente tragiche: un motociclista che a

forte velocità sbatte contro un camion a un semaforo, l’eruzione di un vulcano giapponese che travolge tutto, un uomo massacrato da un elefante che usa la proboscide come una scimitarra. Un bel prologo, non c’è che dire. Infine gli episodi di vita vissuta. Il fiume Guadalupe del Texas straripa, un pullman con quaranta adolescenti a bordo si capovolge. I ragazzi escono dai finestrini, affrontano la corrente (100 km l’ora), raggiungono a fatica alcuni alberi e lì restano in attesa di soccorsi. I quali arrivano e fanno quel che possono. Ma per fortuna arrivano anche i militari, con funi adeguate. Suspence, rischi uno dopo l’altro, alla fine la felicità di raccontare la fine di un incubo. Salvo che otto ragazzi sono morti. Altro scenario, sempre americano. Pista per bob, che è una vera scheggia che viag-

gia nei rettilinei anche a 145 km orari. Il commentatore, tanto per aumentare il tasso di drammaticità ci informa che quella pista è considerata «maledetta» per una serie di incidenti. Domanda mia, del tutto ingenua ma eticamente corretta: perché mai non la chiudono? Vabbè: la legge dello spettacolo è tra le più sadiche, e oggi invasive. Partono quattro concorrenti sul bob, che però a una curva sbanda e si capovolge. Per un lungo tratto il veicolo costruito in vetro-resina procede vertiginosamente fino a quando, tra un urto e l’altro, si ferma.Tre atleti, pur avendo corso con la testa e il collo a contatto con il pavimento ghiacciato, e durissimo, si alzano pimpanti. Il quarto è stordito. I paramedici lo controllano e decretano che sta bene. Così bene che dopo una settimana s’impegna in una gara e ottiene la medaglia d’argento. Contenti tutti, almeno fino alla prossima, eventuale, tragedia. Programma morboso, indubbiamente. Che si nasconde dietro la voglia di un reality il più violento possibile. Segno, anche, di una fantasia narrativa in caduta libera.


Cinema

MobyDICK

l periodo che va dalla seconda metà di luglio alla fine di agosto è solitamente il più povero per quanto riguarda le uscite al cinema. Se fate ancora parte della teen-age, vi potrete sicuramente accontentare di uno dei tanti horror o di una delle commedie tirate fuori dal cassetto di un direttore di produzione che vuole riempire la casella «uscite estive». Se invece fate parte di un pubblico appena più smaliziato (del quale pure fanno parte sempre più piccoli spettatori in erba) è tempo di magra. Dopo Che fine ha fatto Osama Bin Laden, che ha portato la garanzia della firma di Spurlock (ma anche tante banalità pseudo-pacifiste) a nobilitare lo scorso week end, dovremo aspettare il 23 luglio per qualche uscita degna di essere attesa. Ieri, le sale hanno offerto di nuovo esattamente quello che ci si aspetterebbe da un pigro fine settimana di metà luglio. Nonostante ciò, da queste parti rimaniamo convinti che la funzione principale del cinema debba essere quella di divertire, di raccontare storie che appassionino, al netto dello snobismo esteta di tanta parte della critica italiana. Per cui ci siamo cimentati con quel che passa il convento, esercizio che per altro è stato molto utile come paradigma esplicativo di quel che accade nei cinema quando fuori le cicale assordano e magari ci si addentra nei meandri di una sala solo per godere di un po’ di refrigerio. Una puntata dark dunque. Tenetevi pronti, una volta tanto, a immergervi nel marasma dei b-movie che danzano sulla sottile linea di confine tra il fantasy, il thriller e l’horror.

17 luglio 2010 • pagina 21

sto in Nel nome del padre), fa sapere a Solomon che se riuscirà a salvare sua figlia, caduta nelle grinfie di Malachia, la sua anima sarà per sempre al riparo dalle grinfie del maligno. Il protagonista è il semi-sconosciuto James Purefoy, che ha bazzicato anche l’Italia: nel 2001 lo si è visto in Domani, per la regia di Francesca Archibugi. Una particina affidata a Max von Sydow (chi è? Andatevi immediatamente a recuperare Il settimo sigillo di Bergman!) completa un quadro costato ben 40 milioni di dollari. Il tema preferito dal cinema americano, che così tante belle storie ha regalato agli spettatori di tutte le età, quello della redenzione, è il filo-conduttore della storia. Che ha il grave problema di non riuscire a chiamare le cose con il proprio nome. Una sceneggiatura scritta così così impone al regista di inserire a ogni piè sospinto mostri, mostriciattoli, feturpazioni, inserti che strizzano l’occhio allo splatter, perdendo la bussola che, invece di preoccuparsi di raccontare le avventure del suo protagonista, è più interessata a tutto quello che gli ruota intorno.

I

Solomon Kane e la saga dei Predators di Pietro Salvatori

Solomon Kane è il classico blockbuster estivo. Sforzo produttivo cospicuo, sforzo distributivo notevolissimo. Nelle grandi città il protagonista, Solomon Kane, per l’appunto, occhieggia cupo da una sfilza di manifesti 6x3. Oltre all’eroe con capello al vento, mantello e spada, la pubblicità ci informa che il film è frutto della fantasia di Robert E. Howard, l’ideatore di Conan il barbaro (come ricordava Gianfranco de Turris su queste pagine il 3 ottobre 2009, preannunciando l’uscita del film, ndr).Ve lo ricordate? Fu l’eroe anche di un b-movie con i fiocchi diretto da John Milius nel 1982, che fece la fortuna di Arnold Schwarzenegger. E di un b-movie si tratta anche questa volta, ma i fiocchi sono stati destinati a incartare altri pacchi. Siamo nel 1600. Solomon Kane è un pirata al servizio degli inglesi, impegnato a portare a termine scorrerie nel Mediterraneo, in particolar modo a danno degli spagnoli. Nella sua ennesima avventura, Kane incontra il «Mietitore del diavolo» (sic!), una creatura che gli comunica che le sue malefatte sono giunte al termine, e che il demonio ha reclamato tutto soddisfatto la sua anima. Dopo un salto di 50 metri da una scogliera e una non meglio chiarita ellissi narrativa, ritroviamo Solomon in un convento. La sua anima si è purificata, ha deciso di affidarsi alla retta via e alla provvidenza di Dio, al di fuori della quale, se cedesse alla tentazione della violenza, sarebbe ineluttabilmente perduta. Ma una nuova minaccia incombe sulle verdi pianure inglesi. Lo stregone Malachia semina distruzione e morte attraverso un esercito che controlla con il pensiero. Un buon diavolo, William Crowthorn (interpretato da Pete Postlethwite, già vi-

È il momento dell’eroe senza macchia e senza paura alle prese con lo stregone Malachia. Un b-movie fantasy costato 40 milioni di dollari che giustifica due ore di refrigerio in una sala cinematografica. E anche i predatori alieni con cui si misura Adrien Brody finiscono per essere un piacevole, orrendo passatempo

Avevamo lasciato Adrien Brody spilungone e allampanato in film come King Kong o, meglio, Il pianista di Roman Polanski. Lo ritroviamo palestratissimo, che esibisce 15 chili di massa muscolare inedita in Predators, film firmato da Nimròd Antal, regista losangelino dalle origini ungheresi tradite dal nome, ricordato (poco) per l’horror Vacancy e altre cosucce del genere. Siamo nel campo dell’horror, nel pieno del cinema di genere dunque. Tre elementi ci segnalano che la qualità del film potrebbe essere superiore alla media. Il protagonista, Brody, come già accennato, il soggettista/sceneggiatore, Robert Rodriguez (quello di El Mariachi, Dal tramonto all’alba, Sin City, per intenderci), e il marchio di una saga, quella di Predator, che ha visto la luce nel lontano 1987. Curiosamente il protagonista del primo episodio è ancora Arnold Schwarzenegger. La Fox, che produce, aveva già provato a rinverdire i fasti della saga unendola a quella di Alien. Ne uscì un Alien vs Predators che riuscì nel difficile intento di scontentare un po’ tutti. Sembra che questa volta potrebbe andare meglio. La trama è semplice semplice, trae lo spunto da un pretesto qualsiasi, come in ogni horror/thriller che si rispetti, per poi mettere in scena azione adrenalinica allo stato puro. Adrien Brody è così Royce, un mercenario che, suo malgrado, viene catapultato, dopo essere stato rapito, nel pianeta dei Predatori alieni (nell’originale erano questi ultimi che facevano visita alla Terra) insieme a un gruppo di gente poco raccomandabile. Lo scopo del sequestro? I Predators si domandano: «Come è possibile che noi, così forti e invincibili, nel 1987 siamo stati sconfitti dagli umani?». I malcapitati sono così oggetto di un macabro studio di forza e di resistenza per dar modo agli alieni di capire cosa diamine ci sia di così valido in esserini così fragili. Pur non raggiungendo i livelli di tensione dell’originale, Predators è un film che ha dalla sua il puntuale e preciso rispetto delle dinamiche del genere: un mostro «celebre», un eroe maledetto, una trama asciugata all’osso. Il risultato è che scorre via in modo fresco e leggero, senza strafare e senza annoiare. Ovviamente si deve essere predisposti al genere per poterlo apprezzare. Il più classico dei finali aperti, probabilmente ci costringerà, l’estate prossima, a raccontarvi il seguito annunciato.


i misteri dell’universo

pagina 22 • 17 luglio 2010

MobyDICK

ai confini della realtà

La donna bianca che “violò”

Lhasa

di Emilio Spedicato ella storia numerosi condottieri hanno costituito grandi imperi, a volte durati per secoli, a volte scomparsi con loro. Nell’ultimo millennio giganteggia Gengis Khan, creatore del più vasto impero noto con certezza, esteso dalla Russia alla Corea e Cina via Siberia, Asia Centrale, Iran e parte del vicino Oriente; impero costato un sessanta milioni di morti. Nel primo millennio a.C. abbiamo l’impero assiro, che con Nino e Semiramide, ora chiamata Assuramat, era forse esteso dal Mediterraneo all’India, verso l’800 a.C., tempo della guerra di Troia e della fondazione di Cartagine... Nel secondo millennio a.C. l’impero, generalmente considerato mitico dagli storici, di Sesostri I il Grande, faraone vissuto all’epoca di Abramo, esteso dall’Etiopia all’India, fallendo il tentativo di conquistare anche quella parte della Scizia che è l’Ucraina attuale.

N

E soprattutto ricordiamo l’impero che Alessandro il Macedone costituì, esteso dalla Grecia all’Egitto e India. Alessandro detto Magno da greci e latini, ma nominato con termini meno nobili dai popoli asiatici, per la sua crudeltà (migliaia di difensori di Tiro furono crocifissi, esempio poi seguito da Tito con i difensori di Gerusalemme) e per avere bruciato straordinarie biblioteche. Ricordiamo quella di Tiro, forse la più antica al mondo, e quella del palazzo reale di Persepoli, dove le fiam-

me distrussero le 12 mila pelli di bue con gli scritti sacri zoroastriani, e i 42 libri sacri egizi asportati da Artaserse Oco pochi anni prima. E, ancora, per avere distrutto un impero unitario bene organizzato e tollerante, sostituendolo con uno effimero, visto che alla sua morte, forse per avvelenamento, fu subito diviso fra gli avidi suoi generali. Alessandro deve gran parte della sua fama ad aspetti della sua personalità quali il coraggio immenso, l’audacia, la visione strategica (se non fosse morto avrebbe forse conquistato le terre

sandra David Néel. Scoprii questa straordinaria donna dalla lettura del suo libro, un bestseller, Viaggio di una parigina a Lhasa. Ho poi letto quasi tutti i suoi resoconti di viaggio e i suoi studi sulla cultura indiana e tibetana, in francese (pochi sono disponibili in italiano). Ho visitato la casa dove passò gli ultimi anni, morendo più che centenaria, situata a Digne, nelle Alpi francesi. Qui si ritirò prima con un lama tibetano, poi con una donna di poca istruzione che da lei molto apprese e che dirige la fondazione a suo nome.

Entrò nel Tibet proibito agli occidentali grazie alla conoscenza perfetta della lingua. E non solo di quella… ma anche della religione, dei miti e degli aspetti magici praticati in quella regione prima del buddismo. Ritratto di Alessandra David Néel, autrice di meravigliosi resoconti di viaggio e di altri studi sulla cultura indiana poco conosciuti in Italia attorno al Mediterraneo occidentale), la personalità romantica, gli aspetti sciamanici ereditati dalla madre Olimpia, sacerdotessa di Dodona di origine epira, ovvero albanese. Decine di libri furono scritti su di lui, vedasi il Deipnosofista di Ateneo, straordinario libro sopravvissuto dall’antichità in un’unica copia. Ricordo il fascino che mi prese nel leggere l’opera a lui dedicata da Curzio Rufo, lettura che feci in latino, al termine del liceo... Alessandro subì due sconfitte. Non potè conquistare l’India gangetica, una volta preso l’attuale Pakistan, a causa della stanchezza e della paura dei soldati. La seconda sconfitta, poi sperimentata da molti altri invasori, fu nella Battriana, attuale Afghanistan. Qui non riuscì a domare le popolazioni locali, sempre agguerrite nella difesa dell’indipendenza della loro terra associata all’Eden (il re della Battriana che bloccò Alessandro era avo del grande studioso Gabriele Mandel, da pochi giorni scomparso, in possesso della genealogia dei suoi avi a partire da lui). Tra gli esploratori di territori sconosciuti agli occidentali e di culture misteriose e ricchissime, come furono anche i grandi conquistatori, Alessandro in testa, vogliamo ricordare Ales-

Alessandra, il cui cognome Néel è spesso erroneamente scritto come Neel e letto all’inglese, era belga e imparentata con il pittore David. Dotata di splendida voce, fu acclamato soprano particolarmente a Tunisi, dove il marito, ingegnere ferroviario, lavorava alle costruende ferrovie (in quell’epoca l’Africa si riempì di ferrovie con una velocità rispetto alla quale oggi dobbiamo vergognarci, per merito in particolare di aziende italiane, della bergamasca e del biellese). Poi attratta dalla filosofia, religione e cultura di India e Tibet, si allontanò per decenni dall’Occidente, manifestando la sua fedeltà al marito scrivendogli una lettera

al giorno. Parte delle lettere sono disponibili in un fascinoso epistolario. Dopo un periodo di studi in India, la terra il cui cielo descrisse come verde, e avere rifiutato l’offerta di divenire una religiosa meditante nuda sotto un albero, entrò in Tibet, allora proibito agli occidentali, avendone imparato la lingua assai bene (e parlava e leggeva il sanscrito perfettamente, ma un po’ preoccupata dell’arrivo sulla scena del grande Giuseppe Tucci, che però non fece viaggi confrontabili con i suoi). Fu la prima donna bianca a entrare a Lhasa. Vari anni dopo, raggiunta la settantina, volle riprendere la strada per Lhasa passando dalla Mongolia, ma fu bloccata per alcuni anni in un convento dallo scoppio della guerra sino-giapponese, che portò al potere i comunisti. Anni che passò a studiare, allora ogni convento aveva una biblioteca anche assai grande. Biblioteche virtualmente tutte distrutte nella Rivoluzione Culturale.

Alessandra, donna di estremo coraggio e forza poetica nel descrivere le immense solitudini a 4000 e più metri di altezza, oltre a raccontare i suoi viaggi, ha scritto su religione, miti (Gesar de Ling) e aspetti magici ancora esistenti presso i bon, piccoli gruppi praticanti la religione che prima del buddismo era quella del Tibet. Lei stessa aveva acquisito doti speciali già in India, non aveva difficoltà a fare germogliare in pochi minuti un seme sino alle foglie, poteva stare nuda sulla neve a 40° sottozero. Sono stato sette volte in Cina per una fruttuosa collaborazione con matematici, ma ho sempre rifiutato di recarmi in quel Tibet incontaminato ai tempi di Alessandra, ora attraversato da una ferrovia che da Pechino va a Lhasa, quasi del tutto scomparsa la straordinaria fauna di yak e asini selvatici, distrutti quasi tutti i monasteri con le loro ricchissime biblioteche.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

Mozzarelle blu e ricotta al bacillo cereus prodotte in Italia Ritiro dal mercato per le mozzarelle di colore blu e distruzione della ricotta con bacillo cereus. Sono le misure imposte dal sistema rapido d’allerta europeo su due prodotti di origine italiana oggi entrambi distribuiti in Italia, ma anche, per la mozzarelle blu, in Francia e Germania, e per la ricotta nel Regno Unito. In Italia tutto tace. Il ministero era stato più loquace nel caso delle mozzarelle blu prodotte in Germania, quando nomi e cognomi dei formaggi ritirati sono stati fatti. Sui prodotti italiani, mutismo assoluto. Altroconsumo chiede alle autorità e al ministero della Salute di fornire informazioni immediate e tempestive, fornendo fin da oggi la lista dei prodotti interessati: sono sulla tavola di chi li ha già acquistati e possono ancora arrivarci, perché i consumatori sono ignari dell’allarme lanciato in Europa. La tutela della salute, la garanzia della sicurezza per i prodotti alimentari sul mercato e il diritto all’informazione dei consumatori sono prioritari e devono essere sempre difesi. Non si possono accettare tentennamenti da parte delle istituzioni nel diffondere il prima possibile informazioni così importanti. Soprattutto se sono già disponibili al resto d’Europa.

Altroconsumo

IL POPOLO DI BERLUSCONI C’È I dirigenti del Pdl erano un po’ preoccupati. Vuoi per le polemiche romane con i “finiani”; vuoi per quelle locali apparse sui quotidiani con il “finiano” on. Giulio Conti e con l’ex-consigliere regionale Ottavio Brini, che contestavano i sistemi accentratori del coordinamento provinciale, il quale - a loro parere - li aveva “tagliati fuori” nelle decisioni riguardanti la rinnovata candidatura dell’ex-presidente della Provincia Franco Capponi. Inoltre, era stato usato un sistema di comunicazione “fai da te”a mezzo telefonate, sms, e-mail, annunci stampa con cui si portava a conoscenza dei pidiellini del convegno provinciale all’Abbadia. In più siamo nel periodo estivo… Per cui i coordinatori provinciali e regionali temevano per la riuscita del convegno. Invece ci si è ritrovati con la grande sala convegni piena fino all’inverosimile, con gente in piedi lungo le pareti e col corridoio stipato. Un segnale questo che il Popolo della libertà c’è, vuole partecipare, vuole contare. È stato un messaggio forte per Berlusconi quello espresso con la loro presenza: tu sei il nostro leader, abbiamo fiducia in te, gestisci al meglio il potere che ti abbiamo dato, scosta da te a da noi gli intralci del tuo e nostro cammino. Nei capannelli che precedevano in convegno veniva detto chiaramente che era giunto il momento di fare fuori Fini e i suoi. Lo

stesso Conti, (con un Brini che aleggiava nella sala solo in spirito) dopo le effervescenti e lapidarie dichiarazioni del mattino, ha sfumato il suo intervento, chiedendo una maggiore democrazia nel partito. Un partito che - sembra - non esista ancora in modo operativo nei coordinamenti locali, ma che dovrebbe essere a buon punto per settembre,“alla rinfrescata”, come diceva Garibaldi, annunciando ai suoi le future imprese per fare l’Italia unita. Gli altri interventi sono stati di completa adesione al partito, con la volontà di partecipare e di decidere la strategia. Soprattutto in previsione della campagna elettorale per le prossime provinciali.

Lettera firmata

STOP AI DOPPI INCARICHI Una testa, un lavoro! Nessuno ha il dono dell’ubiquità. Bisogna scegliere la linea della trasparenza e rispettare il ruolo che si ricopre: deputati nei consigli di amministrazioni di grandi società dove si è nominati dalla politica, deputati che sono anche sindaci o componenti di giunte in spregio alle poche regole sull’incompatibilità e al buon senso. I doppi incarichi portano assenteismo in un ruolo o nell’altro e perciò un danno alla collettività e un accentramento di potere nelle mani di pochi che non giova alla democrazia.

Paola Caselli

L’IMMAGINE

Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti

06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 18278817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

e di cronach

via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 38 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it

Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30

Riti di passaggio Tra tutti i riti di iniziazione dei Kikuyu, una popolazione keniota, uno dei più curiosi è quello che avviene al momento del parto: la madre annuncia il figlio urlando 4 volte se è una femmina, 5 se è un maschio. Il padre taglia altrettante canne da zucchero e ne fa bere il succo a madre e neonato

LE VERITÀ NASCOSTE

Rimanere in vita... volando DENVER. Un giovane di Denver deve sicuramente e decisamente ringraziare la sua buona stella per essere ancora illeso e soprattutto vivo. Anthoney L. Buckner, infatti, improvvisamente, «per un violento e acuto dolore», ha detto alla polizia quando è stato estratto dai rottami della sua macchina, ha perso irrimediabilmente il controllo della sua automobile, volando giù in una scarpata per più di centocinquanta metri. L’automobile, una Toyota due volumi, è andata completamente distrutta, ma il guidatore, fortunatamente, ha sofferto soltanto alcune leggere ferite, guaribili in breve tempo, grazie anche all’uso della cintura di sicurezza. Per poter recuperare l’uomo, i soccorritori giunti tempestivamente sul posto (che non pensavano assolutamente di poter trovare sopravvissuti, e men che meno praticamente illesi) hanno dovuto calarsi con delle corde giù nella scarpata, e l’intervento è stato piuttosto lungo. Ma Anthoney L. Buckner qualche problema lo passerà comunque: infatti, le indagini della polizia hanno dimostrato che l’uomo era probabilmente alla guida con un tasso alcolico sicuramente superiore a quello consentito.

BENE CHE SIANO LE REGIONI A DECIDERE Sono molto soddisfatto che il ministro Giancarlo Galan riconosca alle Regioni il compito di stabilire le regole della coesistenza con gli ogm. Attendo la formalizzazione di questa volontà, nell’ambito del più generale quadro da lui tratteggiato sul fatto che l’agricoltura è di competenza regionale. Galan si dimostra un vero regionalista e sono certo che già pensava di lasciare alle Regioni questa e altre incombenze anche prima che l’Ue lasciasse libertà agli Stati membri di decidere sulla materia. Aggiungo a questo la soddisfazione che dal Brennero, assieme alla Coldiretti, abbia sostenuto la necessità di approvare rapidamente la legge sull’etichettatura, indispensabile per informare i consumatori sull’origine dei prodotti e fortemente contrastata da chi vorrebbe lasciare gli acquirenti nell’ignavia. Quanto alla coesistenza, posso sin d’ora ribadire che per il Veneto della qualità, della tipicità e del valore aggiunto nella biodiversità, è troppo elevato il rischio di una contaminazione delle nostre produzioni a causa degli ogm, magari con l’effetto per gli imprenditori agricoli di sentirsi chiedere le royalty per produrre a più caro prezzo quello che può produrre nel terzo mondo una manodopera da un paio di euro al giorno. Il Veneto sarà ogm free e di questo faremo un elemento di ulteriore valorizzazione per vendere l’ottimo “made in Veneto” e incrementare il reddito delle nostre imprese. Sulla ricerca e sulla sperimentazione sono pure d’accordo col ministro: investiamo, e investiamo di più: per dare però più libertà e più qualità agli imprenditori agricoli, non per metterli nelle mani delle multinazionali degli ogm. Perché il vero punto è questo: la ricerca deve essere libera e altrettanto liberi devono esserne gli effetti.

Franco Manzato


pagina 24 • 17 luglio 2010

grandangolo Dopo il sì del Senato alla riforma finanziaria

Obama perde nel Paese ma vince nei palazzi (a Washington) Il celebre commentatore conservatore Charles Krauthammer ha ammonito i suoi: «Il presidente va a picco nei sondaggi ma sta realizzando tutti i punti del programma elettorale del 2008, dalla sanità per 32 milioni di americani, alle briglie messe a Wall Street. Attenti a cantar vittoria per le prossime elezioni! » di Pierre Chiartano bama perde nel Paese, ma vince a Washington. I repubblicani avrebbero dunque poco da stare allegri, con l’attuale presidenza. Se infatti l’inquilino della Casa Bianca perde consensi tra i cittadini, sta invece inanellando una vittoria dietro l’altra nei palazzi della politica. Dopo il successo di giovedì con il sì del Senato alla riforma finanziaria, incasella un altro obiettivo delle promesse elettorali. Ci troviamo dunque di fronte a un paradosso, a causa di una serie di situazioni che assomigliano a un disastroso allineamento astrale, un annus horribilisa stelle e strisce, da ultimo la marea nera nel Golfo del Messico, Obama sarà costretto a ridurre le ambizioni espresse in campagna elettorale.Nonostante i successi a ripetizione conquistati nella difficile battaglia con le lobby, fuori e dentro i palazzi del potere americano. I sondaggi danno pagelle impietose non solo alla Casa Bianca, ma mostrano una forte sfiducia verso la classe politica in generale. C’è la sensazione che l’economia vada di male in peggio e che il governo federale non abbia le ricette giuste per riprendere in mano le redini del Paese. Gli americani pensano che in fondo anche la riforma finanziaria non incida sui veri interessi di Wall Street. E serve a poco la megamulta da 500 milio-

O

ni di dollari comminata a Goldman Sachs dalla Sec. La diffidenza dei cittadini verso il potere finanziario e la percezione della debolezza di quello politico nel limitare le ambizioni del primo, rimangono altissime.

Negli ultimi 18 mesi Congresso e Camera bassa hanno fatto un gran lavoro per approvare un’agenda politica della

Dalla crisi del ’29, quando si separarono le banche commerciali da quelle d’affari, non si vedeva una riforma simile Casa Bianca che può essere facilmente definita come una delle più ambiziosa degli ultimi decenni e forse rimarrà negli annali della politica Usa. Obama ha fatto ciò che aveva promesso nel 2008. Ha pompato 787 miliardi di dollari nel sistema economico, ha garantito la co-

pertura sanitaria a 32 milioni di americani che prima non l’avevano, ha rimesso in ordine i rapporti tra Stato federale, Wall Street e investitori/consumatori. Ma mentre realizzava tutto questo, il panorama del Paese è cambiato, gli indici di disoccupazione sono rimasti a due cifre, nonostante lo stimulus package, per non parlare dell’incidente alla piattaforma off shore della Bp, che ha sollevato molti dubbi sulla competenza dell’attuale amministrazione. Charles Krauthammer sulle pagine del Washington Post, ieri, però avvertiva i repubblicani di non festeggiare le presunte difficoltà di Obama.

Il Gop (Grand old party) afferma che il governo «sia il problema non la soluzione» e si fregano le mani per le elezioni del prossimo novembre, dove pensano di fare razzia di voti. Gli stessi democratici per ammissione del loro portavoce, domenica, ammettevano che potrebbero perdere la maggioranza alla House of rappresentatives, la Camera bassa americana. La “sinistra” liberale non è soddisfatta dalla politica obamiana, mentre gli indi-

pendenti sono in fuga. Ma, sottolinea Krauthammer, «solo Obamacare renderebbe la sua una presidenza storica» e, come ha affermato il presidente della Commissione finanza del Senato Max Baucus, «ha messo in moto una delle più grandi redistribuzione di ricchezza della storia americana». E giovedì, con 60 voti a favore e 39 contrari, il Senato ha approvato la storica riforma del sistema finanziario.

Un provvedimento di oltre 2.300 pagine, tocca tutti i settori dei mercati finanziari, impone nuove regole al settore bancario, istituisce una nuova procedura per liquidare aziende in crisi e costituisce un nuovo ufficio per la protezione dei consumatori. Si tratta di una delle leggi più importanti degli ultimi anni. Un braccio di ferro che andava avanti da parecchio tempo e la seconda riforma dopo quella della sanità. Il passaggio al Senato è stato possibile grazie all’adesione di tre senatori repubblicani, Scott Brown, Olympia Snow e Susan Collins che hanno ottenuto concessioni importanti per i loro


17 luglio 2010 • pagina 25

Economia e politica estera: i consigli al Gop del direttore del “Weekly Standard”

La crisi è profonda e servono riforme radicali. I repubblicani non abbiano paura dei “Tea Party” di William Kristol opo l’inequivocabile esperienza dell’inefficacia dell’attuale governo federale, siamo chiamati a deliberare su una nuova Costituzione per gli Stati Uniti d’America. L’argomento è della massima importanza. E comprende, tra le sue conseguenze, niente meno che l’esistenza dell’Unione, la sicurezza e il benessere delle parti che lo compongono, il destino di un impero. È stato spesso detto che sembra essere stato riservato ai cittadini di questa nazione, alla loro condotta e al loro esempio, la risposta ad una difficile domanda: se le società composte da uomini siano davvero in grado di costruire buoni governi attraverso la riflessione e la scelta; o se siano per sempre destinati a dipendere, per le loro costituzioni, dal caso e dalla forza. Siamo arrivati a un momento in cui è possibile dare una risposta a questo quesito. E un errore nelle nostre scelte potrebbe provocare una catastrofe per tutta l’umanità». (Alexander Hamilton, Federalist I)

«D

Sopra, Wall Street. A fianco, Paul Volcker. A destra, il direttore di Weekly Standard, William Kristol. Nell’altra pagina, da sinistra a destra, Barack Obama e il commentatore Charles Krauthammer Stati, come l’eliminazione di una tassa di 19 miliardi di dollari sulle banche o esenzioni da alcune regole per certi fondi pensione. La firma solenne di Obama alla Casa Bianca, prevista nel famoso Giardino delle rose – voluto da Jaqueline Kennedy e dove cresce una rosa Giovanni Paolo II – dovrebbe avvenire rapidamente. Anche se sarà un atto formale, si tratterà comunque di una «firma storica», anche questa.

Ricordiamo che proprio giovedì, con una coincidenza che non casuale, la Sec e Goldman Sachs hanno annunciato un accordo extragiudizario che chiude la causa per malpractice, con una megamulta. Sul piano storico, era dal

Ora la Casa Bianca vorrebbe rinnovare il taglio delle tasse bushiano, ma solo per il ceto medio, rialzando le altre aliquote Glass Steagall Act del 1933, che separò drasticamente le attività di banca commerciale da quelle di banca d’affari – dopo la crisi del 1929 – che non si aveva una riforma finanziaria di questa portata negli Usa. Oggi, le imposizioni saranno meno dure e incisive di allora, alcuni blog, come Huffington Post, parlano di «riforma, ma non di trasformazione». Non vi saranno ad esempio «spezzatini» di banche «troppo grandi per poter fallire». L’economista Paul Krugman, ma anche uno degli ispiratori della riforma, Paul Volcker, affermano che non si sia fatto abbastanza. Resta il fatto che, dopo la liberalizzazione del settore, per rispondere alla globalizzazione, cominciata negli anni Ottanta e poi completa nel 1998, nel 2010 si fa marcia

indietro. Le banche commerciali non potranno investire per conto del proprio portafoglio in operazioni di trading o speculative, in operazioni hedge o di private equity, per una percentale superiore al 3 per cento del proprio capitale. Le banche che vorranno fare di più dovranno lasciare il settore commerciale (che consente di raccogliere depositi dai clienti) e concentrarsi su quello di trading. Oppure dovranno creare delle controllate separate. Ci sarà anche una valutazione del rischio e nuovi poteri di supervisione da parte della Fed. Sarà istituita una nuova agenzia per la protezione dei consumatori, per difendere gli ingenui da prestiti facili, attraenti sulla carta, ma molto onerosi in termini pratici, come abbiamo visto nel caso dei prestiti subprime. E non solo negli Usa.Varate anche nuove misure di trasparenza, attraverso clearing house e veri e propri mercati ad hoc, per i fondi hedge e per prodotti derivati. E mille altre regole minori – e ancora per molti versi sconosciute – contenute nelle migliaia di pagine del testo di legge. Intanto i democratici stanno ricalibrando l’intervento legislativo sulla green economy. Un ridimensionamento ragionato col presidente, visto che si sono accorti che così com’è la legge non passerebbe.

Secondo il Nobel Paul Krugman, i tagli sulla pressione fiscale di Bush sarebbero costati alle casse federali un miliardo e ottocentomila dollari in dieci anni, ma secondo altri economisti hanno dato grande impulso alla crescita economica. Il dibattito è ricominciato. Obama vorrebbe rinnovare il taglio delle tasse bushiano, ma solo per il ceto medio, riportando l’aliquota dal 33 al 36 per cento alle famiglie che guadagnano più di 250 mila dollari l’anno e dal 35 al 39,6 a quelle che superano i 370 mila dollari. In mancanza di un rinnovo, il primo gennaio le tasse sui capital gain passeranno dal 15 al 20 per cento, quelle sui dividendi dal 15 al 39,6 per cento, quella sulla successione da zero al 55 per cento. Al Congresso ci sono varie ipotesi in discussione, ma non c’è ancora un accordo. Non si sa ancora se i tagli saranno permanenti o prolungati solo di un anno o due. Il punto più delicato, a pochi mesi dal voto e nel pieno della crisi economica, è quello sull’opportunità di alzare le aliquote più alte.

Non siamo ancora arrivati a questo momento fondante, o ri-fondante. Ma siamo arrivato ad una crisi genuina, o ad un insieme di crisi, che potrebbero essere decisive per il futuro degli Stati Uniti d’America. Questo senso di crisi è ciò che anima di Tea Party. Ho avuto la fortuna di partecipare al “Proud to be an American July 4th Tea Party”davanti alla Independence Hall di Philadelphia. Ho visto discorsi e canti patriottici, oltre al sostegno per le nostre truppe e inni alla nostra nazione. Eppure il mood di gratitudine si mescolava con espressioni di allarme sull’attuale amministrazione che governa il Paese. Questa combinazione di gratitudine patriottica e allarme produce la determinazione ad agire e la volontà di affrontare fermamente le crisi che colpiscono il paese, in politica interna e in politica estera.

Sotto questo profilo, i Tea Party sono molto più avanti dei due maggiori partiti, che rimangono entrambi troppo facilmente attaccati al “business as usual” per occuparsi af-

frontare con efficacia i problemi del momento. Naturalmente, i leader del partito democratico non hanno nessuna intenzione di occuparsi di questi problemi. Impegnati come sono a rafforzare le loro stantie politiche progressiste, stanno anzi facendo del loro meglio per peggiorare la portata di questi problemi, anche se il fallimento delle loro politiche diventa ogni giorno sempre più evidente. Una seria riflessione sui loro fallimenti, a casa e all’estero, sarebbe troppo dolorosa. E richiederebbe ripensamenti troppo profondi per essere intrapresi volontariamente. Dopo tutto, l’esperienza ci dimostra che i liberal sono più disponibili vedere tutti gli altri soffrire, piuttosto che ripensare i dogmi da cui sono affascinati.

Ma è chiaro, sempre di più, che “l’inefficacia dell’attuale governo federale”, nel nostro caso il welfare state liberal, non è più sopportabile. La spesa ormai fuori controllo e l’entità del debito mettono davvero in pericolo il nostro futuro economico. La debolezza e la timidezza in politica estera mette davvero in pericolo un mondo in cui i terroristi e i fanatici possiedono – e usano – armi nucleari. Lo “stato-bambinaia” mette davvero in pericolo l’idea di auto-governo. I dogmi del multiculturalismo mettono davvero in pericolo la forza di una società libera. In un momento come questo, le chiacciere sono inutili. È questa la sfida per il partito repubblicano. Il Gop deve essere il partito del futuro, ma anche quello del presente. Può essere il partito all’interno del quale si svolge una riflessione fondamentale sul futuro, come quello in cui si da vita ad una critica puntuale e quotidiana al governo. Non è un compito facile. Può portare a errori e passi falsi, tensioni e confusioni. Ma questo è ciò che il momento richiede. Non bisogna, dunque, avere paura dei Tea Party, ma essere aperti a riforme radicali. Il rischio, per i repubblicani, non è quello di affrontare la crisi in modo troppo audace, ma quello di non essere abbastanza audaci.


mondo

pagina 26 • 17 luglio 2010

Teatro degli scontri Bala Murghab ed Herat

Afghanistan, doppio attacco agli italiani Tre feriti di Osvaldo Baldacci

oppio attacco contro gli italiani ieri in Afghanistan. E nel secondo, tre italiani sono rimasti feriti, uno dei quali in modo grave. Ma sono tutti fuori pericolo di vita. L’episodio più grave, quello con i feriti, è consistito in un vero e proprio scontro a fuoco nella famigerata zona di Bala Murghab. In precedenza, invece, a Herat, un’autobomba era stata lanciata contro il comando Isaf sotto la responsabilità italiana, ma i feriti dell’attentato erano tre poliziotti afghani. È da segnalare l’escalation di attacchi anti-occidentali in Afghanistan in questi ultimi giorni, con una decina di soldati Nato uccisi in poche ore e un bilancio che negli ultimi mesi si è avviato a diventare il più pesante dall’inizio delle operazioni nel 2001. Verso le dieci e dieci di mat-

D

tina, ora afghana, nella zona di Bala Murghab un numero imprecisato di talebani avrebbe coinvolto in un duro conflitto a fuoco una pattuglia italiana che opera con la Task force nord nella regione occidentale del Paese.

Il comando della brigata Taurinense ha spiegato che i militari erano impegnati in un’attività di supporto delle forze di sicurezza afghane, in quella che è un’area notoriamente pericolosa e diventata ancor più strategica perché luogo di transito e via di fuga per molte attività illegali di talebani e simili, dai percorsi di allontanamento rispetto alle aree meridionali – dove sono in corso gli attacchi anglo-americani – fino al traffico di droga. L’intera area di Badghis è del resto teatro di violenti scontri, soprattutto nel settore nord

compreso tra Bala Murghab e Ghormac, roccaforti talebane e dei narcos che trafficano con il vicino Turkmenistan. Durante lo scambio di colpi, tre soldati italiani sono rimasti feriti. Quello in condizioni più gravi è un ufficiale ed è stato colpito a una spalla forse con una ferita ai polmoni, ma sebbene la prognosi rimanga riservata non versa in imminente pericolo di vita. È stato condotto in elicottero nell’ospedale militare spagnolo del Camp Arena ad Herat. La prova della situazione difficile in quell’area è che anche l’elicottero italiano che trasportava il ferito nella città di Herat è stato attaccato dai talebani e raggiunto da colpi che l’hanno danneggiato. Degli altri due soldati feriti, di cui non è stata subito resa nota l’identità in attesa di informare i loro familiari, uno ferito

Mezzaluna d’oro. Il confine col Turkmenistan è diventato lo snodo di tutti gli scambi illeciti che finanziano i ribelli e al Qaeda

Le due guerre di Kabul I nostri sono nella zona del traffico di droga, perciò non combattono solo con i talebani di Enrico Singer ono due le guerre in Afghanistan. Quella contro i talebani e quella contro i trafficanti di droga. Sono guerre che si sovrappongono, che scavalcano le ideologie e che s’intrecciano alle faide tribali, che alimentano gli eserciti irregolari dei tanti signori locali e che foraggiano anche i terroristi di al Qaeda. Agli italiani schierati a Bala Murghab è toccato il compito di combatterle tutte e due perché questa cittadina ai piedi delle montagne al confine con il Turkmenistan è proprio al centro del micidiale groviglio. È una delle principali porte della nuova via dell’oppio e della cannabis che non passa più verso il Pakistan, a Sud, dove le vecchie raffinerie sono state in buona parte smantellate, ma punta ormai a Nord, in direzione delle ex Repubbliche sovietiche – il Tagikistan e l’Uzbekistan, oltre al Turkmenistan - e verso lo stesso Iran, trampolini di lancio verso l’Occidente che è il vero, grande bersaglio della guerra della droga che ha una strategia autonoma e risponde agli ordini di stati maggiori spesso lontani dai campi in cui si coltivano i papaveri da oppio e le piante di cannabis afgana che diventano poi eroina e hashish. Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ieri, riferendo dell’attacco subito da-

S

gli alpini, ha detto che la zona «è molto pericolosa perchè gli insorti vengono spinti qui dall’attività dei militari americani e inglesi che combattono più a Sud». E, in parte, è vero. Ma l’interesse dei talebani per questa parte dell’Afghanistan è legata soprattutto al traffico di droga che è una delle loro principali fonti di sostegno.

posto anche per la produzione di hashish, superando il Marocco. Antonio Maria Costa che è il direttore dell’organizzazione dell’Onu per la lotta agli stupefacenti (Unodc), ha rivelato che lo sbalorditivo rendimento delle colture di cannabis afghana (145 chilogrammi per ettaro contro i 40 del Marocco) ha trasformato

Più di cento milioni di dollari l’anno finiscono nelle casse dei miliziani fondamentalisti e dei signori locali. Dallo scorso anno il Paese è diventato il primo produttore mondiale di hashish oltre che di eroina Più di cento milioni di dollari l’anno, il dieci per cento del guadagno dei primi corrieri della droga che è, comunque, ancora una piccola parte del totale di questo business in cui un grammo di eroina o di hashish, dopo decine di passaggi, vale mille volte di più di quello che va nelle tasche dei contadini pashtun.

Della guerra della droga non si parla molto. Eppure appena un mese fa l’Isaf ha distrutto quasi otto tonnellate di stupefacenti sequestrate in poche settimane nella provincia di Helmand, una delle zone di produzione. Non solo. Da anni primo, incontrastato, produttore mondiale di oppio, l’Afghanistan arriva ora al primo

l’Afghanistan nel primo produttore al mondo di hashish. Secondo le stime dell’Unodc, l’anno scorso sono stati coltivati a cannabis fra i 10mila e i 24mila ettari di terreno per una produzione di circa duemila tonnellate. Il giro d’affari della produzione di hashish rappresenta ormai il 20 per cento di quello dell’oppio, che nel 2009 ha raggiunto il miliardo di dollari. Rispetto all’oppio, l’hashish è meno caro da coltivare e da raccogliere e rende di più ai contadini afghani: 3.900 dollari per ettaro contro i 3.600 dell’oppio e questo spiega la crescita esponenziale delle coltivazioni di cannabis. Ma, al di là di tutti i calcoli, l’estensione del mercato della droga dall’oppio all’ha-

shish dimostra che anche questa guerra è difficile da vincere per le forze della colazione impegnate in Afghanistan. E gli italiani sono in prima linea su questo fronte perché da maggio, quando si sciolgono le ultime nevi sulle montagne sopra Bala Murghab, è proprio lungo le strade di questa regione che transita la metà di tutta la droga prodotta nel Paese che passa, poi, il confine per perdersi nelle Repubbliche asiatiche che un tempo facevano parte dell’Urss e, da qui, invadere i mercato europei e la Russia.

Proprio a Mosca, il 9 e il 10 giugno, si è tenuto il convegno internazionale Drug protection in Afghanistan. A challen-

ge for the international community in cui i delegati russi hanno protestato con gli americani e con la Nato denunciando «poca determinazione» nella battaglia contro il traffico di droga che, secondo il Cremlino, colpisce in particolare la Russia dove ci sono 30mila morti ogni anno per cause legate alle tossicodipendenze. L’ambasciatore russo presso la Nato, Dmitri Rogozin, è arrivato addirittura a lanciare il sospetto che gli Usa utilizzino due pesi e due misure: «La strategia di Washington in Colombia è una vera guerra contro la droga perché questo Paese è la principale via di transito di cocaina verso gli Usa, ma per quanto riguarda l’eroina prodotta in Afgha-


mondo all’inguine è in condizioni definite serie, l’altro è il meno grave. Questi ultimi due comunque sarebbero stati curati direttamente a Bala Murghab. Poche ore prima, nel cuore della notte, duecento chilometri a sud, nella città di Herat, un attentatore suicida si era scagliato con la propria automobile imbottita di esplosivo contro un’auto della polizia afghana.

17 luglio 2010 • pagina 27

sione né sono stati riscontrati danni all’interno della base, mentre la peggio l’hanno avuta te poliziotti afghani, ricoverati a Camp Arena. Militari italiani e afghani stanno indagando sull’episodio, e non è chiaro se il bersaglio fosse la base Nato italiana oppure

però poco probabile che ci sia una relazione diretta tra l’attentato kamikaze di Herat e l’imboscata di Bala Murghab, a duecento chilometri.

I due episodi si inserirebbero invece nel clima di nuovo attivismo dei guerriglieri. Dopo gli attacchi, comunque, ha sottolineato il portavoce del Rc-W a Herat, Antonio Caliandro, la situazione è rientrata nella normalità. Nel distretto di Farah, in un’altra battaglia condotta dalle forze internazionali, senza gli italiani, ieri sono stati uccisi diversi talebani tra cui un leader locale, il mullah Aktar, responsabile per l’ingresso in Afghanistan dei combattenti provenienti dal confine con l’Iran.

Ieri mattina un commando di guerriglieri fondamentalisti ha impegnato in un duro conflitto a fuoco una pattuglia italiana che opera con la Task Force Nord

Di fronte all’ingresso sud della base del Regional Command West di Herat, il Comando regionale occidentale della Forza di Assistenza alla Sicurezza (Isaf), sotto responsabilità italiana, che si trova sulla Ring road dieci chilometri a sud di Herat City. Ma nessun italiano è rimasto coinvolto nell’esplo-

proprio le forze di sicurezza afghane stesse. Gli artificieri italiani hanno prelevato alcuni reperti per meglio comprendere la dinamica dell’attacco e fornire elementi utili alle indagini. Ai responsabili militari in loco sembra

nistan e il suo traffico in Russia, gli americani stanno facendo praticamente nulla», ha detto Rogozin. Un’esagerazione, certo, perché in Afghanistan la guerra della droga si combatte ogni giorno.

È vero, però, che il problema è complesso. Il narcotraffico rappresenta una delle sfide maggiori per l’intervento internazionale in Afghanistan. Prima di tutto perché senza di esso i talebani non sarebbero stati in grado di rofforzarsi fi-

oppio che passi attraverso l’uso di diserbanti lanciati dagli aerei impoverirebbe una fetta consistente della società afgana creando ostilità verso l’intervento internazionale. D’altra parte, tuttavia, l’aumento del livello della produzione di oppio non può essere tollerato perché, continuando a rafforzare l’iazione dei talebani, anche in questo caso mette a rischio l’esito finale del conflitto che dura ormai da quasi dieci anni. Quando la culla della produzione dell’oppio era nel

Gli stupefacenti vanno a finire sul mercato europeo e su quello russo. Mosca accusa Washington di non agire con la stessa determinazione usata in Colombia contro la cocaina che è diretta negli Usa no al punto di mettere a repentaglio i successi raggiunti dall’intervento militare nel 20012002. Ma anche perché l’economia dell’oppio rappresenta la forma di sostentamento più semplice per centinaia di migliaia di afghani, anche quelli che non hanno nulla a che fare con i talebani, ma che non hanno alternative per provvedere alla loro sopravvivenza. Si è creata, così, una situazione paradossale. Una lotta frontale alle coltivazioni di

mitico «triangolo d’oro» tra Birmania, Laos e Thailandia, soltanto la collaborazione dei governi locali - dopo tante connivenze con i signori della guerra che anche lì controllavano il territorio - risultò decisiva per sgominare il traffico di droga. Adesso che la prodizione di oppio e cannabis si è spostata nella «mezzaluna d’oro» tra l’Afghani-

stan, il Pakistan e l’Iran, tutto si è maledettamente complicato. Anche perché ai narcotrafficanti si sono aggiunti i trafficanti di armi: ai confini dell’Afghanistan il primo scambio delle partite di droga è proprio con gli armamenti destinati ad alimentare la guerriglia dei talebani.

Per questi traffici la condizione necessaria e indispensabile è che i luoghi di produzione e di transito rimangano fuori dal controllo delle autorità statali che si stanno, faticosamente, affermando. Il disordine è il vero concime dei campi di papavero e di cannabis. Per i signori della droga, come per i talebani, l’instabilità è l’obiettivo più importante da mantenere e da alimentare. Con tutti i mezzi, compreso lo stillicidio di attacchi e di attentati contro le forze italiane schierate a Bala Murghab. Anche perché, nella strategia del fondamentalismo islamico, la droga è un’arma in più per la guerra santa contro l’Occidente: perché finanzia i talebani e perché miete vittime direttamente nei Paesi che lo sceicco del terrore, Osama bin Laden, non smette di maledire nei suoi proclami.


quadrante

pagina 28 • 17 luglio 2010

Sicurezza. Sono stati 23mila, dal 2006 a oggi, gli omicidi legati alla droga opo alcune settimane di polemiche con il presidente messicano, Felipe Calderon, il ministro dell’Interno e responsabile della Sicurezza nazionale, Fernando Gomez Mont-Urueta, è stato sostituito da José Francisco Blake Mora. Il motivo di questo cambio della guardia è l’inefficienza della politica adottata dal ministro uscente nel combattere la criminalità organizzata. Secondo i dati forniti dal suo stesso ex dicastero, dal 2006 a oggi, sono stati 23mila i casi di omicidio legati ad affari illeciti, spaccio di droga e al rinnovato sistema di cartelli che gestiscono il narcotraffico e l’immigrazione clandestina verso gli Stati Uniti. Calderon quindi ha preso una decisione drastica, con la consapevolezza però di affidarsi a un uomo esperto in fatto di sicurezza nazionale.

D

Messico, l’esercito contro i narcos Calderon licenzia il ministro degli Interni e al suo posto sceglie un ex militare di Giovanni Radini lotta alla criminalità organizzata e una riforma delle politiche economiche.

Blake vanta un passato in uniforme nell’esercito come ufficiale, nonché un’attività di politica amministrativa di primo livello nello Stato della Baja California. Questo ha elevato automaticamente le sue competenze e gli ha permesso di trasferirsi a Città del Messico. L’obiettivo del governo federale è quello di aumentare la partnership fra Polizia e Forze Armate che, da quattro anni, sono state schierate insieme per combattere i cartelli locali. L’operazione richiama il modello adottato in Italia, all’inizio degli anni Novanta, quando con i «Vespri siciliani» venne realizzato un massiccio dispiegamento del nostro esercito, in cooperazione con Polizia e Carabinieri, nelle stra-

Il presidente messicano Felipe Calderon. Sopra, un arresto di narcos

Gli spacciatori messicani controllano il 70% della cocaina che entra negli Usa

de della Sicilia per intervenire contro la Mafia. Lo sforzo congiunto dei dicasteri dell’Interno e della Difesa messicani che si è tradotto in 20mila uomini dislocati su tutto il territorio nazionale. Tuttavia l’impegno di Mont-Urueta non ha portato i risultati sperati. E le cifre lo dimostrano. Il presidente Calderon ha quindi scelto di intervenire direttamente e di far saltare i vertici dell’apparato di sicurezza nazionale, con la speranza che una repentina virata sul piano operativo possa anche dare i frutti in quello politico. Nel corso della sua campagna elettorale, nel biennio 2005-2006, Calderon aveva puntato prevalentemente sui temi quali la

Da un lato questa avrebbe dovuto migliorare il tenore di vita dell’intera popolazione, sottraendola quindi ai ricatti dei cartelli della droga. Dall’altra avrebbe dovuto consolidare le relazioni con gli Usa, sia a livello di scambi commerciali sia nel contenimento dei flussi migratori. Calderon, ispirato da uno schietto neoliberismo frammisto a un forte sentimento cattolico e conservatore, si era guadagnato il sostegno dell’alta borghesia dei grandi centri urbani, grazie a prese chiare prese di posizione contro i matrimoni omosessuali e soprattutto contro l’aborto. I rilevamenti di We News (www.womenesnews.org) parlano di mezzo milione, forse anche un milione di casi di interruzioni di gravidanza effettuati illegalmente ogni anno nel Paese. Da un punto di vista legislativo i meccanismi antiaborto sono divenuti estremamente complessi.Tuttavia in una realtà sociale difficile com’è quella messicana – vessata da corruzione, prostituzione, sfruttamento minorile e violenza sulle donne – l’aborto più che un’extrema ratio è divenuta una “via breve”per le donne che sono cadute vittima di violenza. Calderon, insieme alla riforma economica e alla lotta al narcotraffico, ha cercato di trasmettere un messaggio di prevenzione all’aborto. La massa di operai e agricoltori però era rimasta legata al mondo progressista. Tant’è che dei 32 Stati che compongono la Federazione messicana solo 8 sono governati direttamente dal movimento conservatore di Calderon, il Partido cccion nacional (Pan). Il resto è invece nelle mani di Governatori appartenenti al Partido Revolucionario Istitutional (Pri) e al Partido de la revo-

lución democrática (Prd). La scelta di Blake Mora è legata a una tattica politica che va oltre le questioni esecutive del governo federale. Nel 2012 gli elettori messicani saranno chiamati alle urne per le presidenziali. Quattro anni fa, il risultato che decretò la vittoria di Calderon contro il suo avversario Roberto Marazo del Pri si limitò a uno scarto dello 0,57 per cento di preferente, 200mila voti.

L’attuale Capo dello Stato messicano vuole arrivare al appuntamento prossimo elettorale con la certezza di essere confermato e soprattutto di poter governare grazie a un appoggio maggiore da parte dell’opinione pubblica. L’obiettivo è realizzabile solo se dimostra quell’efficienza nel campo della sicurezza e negli rapporti con gli Usa che finora, al contrario, si è rivelata essere una promessa elettorale inevasa. Blake Mora è stato nominato non solo per le sue capacità operative, ma anche perché è l’esponente che, all’interno del Pan, ha espresso più volte la necessità di un dialogo trasversale fra tutte le forze politiche nazionali, affinché quello della sicurezza torni a essere un problema sentito da tutto il Paese e non un mero argomento di campagna elettorale. Mont-Urueta, al contrario, si è sempre opposto a un eventuale governo di unità nazionale, che invece si potrebbe prospettare nei prossimi anni. Al di là delle ambizioni di Calderon e del colore politico dei suoi più stretti collaboratori, Città del Messico nutre l’ambizione di dimostrare l’ambizione alla sua popolazione e al potente vicino americano di aver intrapreso una strada di autentica normalizzazione politica e democratica. Questo è possibile partendo dall’affrontare il problema della criminalità organizzata, nucleo centrale di tutti gli altri mali sociali che gravano sul Paese. Attualmente i narcos messicani controllano il 70 per cento della cocaina e il 50 per cento della marijuana che entrano negli Usa. È sempre di loro appannaggio più della metà degli oltre 11 milioni di immigrati clandestini che ogni anno raggiungono gli States. Calderon ha bisogno di Washington – e soprattutto dei 180 miliardi di dollari di importazione dagli Usa – per realizzare le sue riforme economiche. Un obiettivo possibile però solo se il contesto della sicurezza nazionale è tenuto sotto controllo.


quadrante

17 luglio 2010 • pagina 29

L’Olanda blocca la vendita di stupefacenti ai non residenti

Per le autorità kurde un corto circuito avrebbe provocato le fiamme

Corte Ue, no ai turisti nei coffee shop della cannabis

Decine di morti in Iraq nell’incendio di un albergo

L’AIA. Coffee shop di Maastri-

SULAIMANIYAH.

cht vietati ai non residenti. Lo ha deciso la Corte di giustizia dell’Unione Europea, al fine di preservare l’ordine pubblico dai problemi causati dal turismo della droga e per combattere il traffico illecito di stupefacenti in tutta l’Ue. Finisce così il turismo deu tanti cittadni Ue, italiani compresi, che andavano in Olanda per farsi una ”canna” senza preoccupazioni. Nei Paesi Bassi, ricorda una nota della Corte, i coffee shop sono centri di «ristorazione rapida» la cui attività principale è tuttavia dedicata alla vendita di droghe leggere, quali la marijuana e l’hashish. Il loro possesso per uso personale è depenalizzato e la loro vendita nei coffee shop, benchè vietata dalla legge, è tollerata dalle autorità.Tuttavia, in forza delle direttive del pubblico ministero, non possono vendere oltre i cinque grammi di cannabis per persona e per giorno e lo stock non deve superare i 500 grammi.

Alla luce però dei problemi generati dal flusso notevole e crescente di turisti della droga, il comune di Maastricht ha ora deciso di riservare l’accesso ai coffee shop ai soli residenti olandesi. L’intervento della Corte nasce dalla richiesta del proprietario di una di queste ri-

Kamikaze sunniti, strage nella moschea sciita Attacco nel Baluchistan iraniano, colpiti civili e pasdaran di Massimo Ciullo un attacco sunnita in Iran. È stato rivendicato da un gruppo radicale sunnita, l’attentato ad una moschea sciita di Zahedan nel sud-est del Paese, che la scorsa notte ha provocato la morte di 27 persone e il ferimento di 270. Sul sito del gruppo ribelle sunnita Jundallah (soldati di Allah), un’organizzazione armata che opera nelle regioni del Sistan-Baluchistan iraniano, a ridosso della frontiera con il Pakistan, è apparsa una rivendicazione. Nel testo si dichiarava che l’attacco è solo la prima risposta all’impiccagione del loro leader, Abdulmalik Rigi, giustiziato dalle autorità di Teheran, il 20 giugno. Secondo la ricostruzione delle forze dell’ordine due attentatori suicidi si sarebbero mischiati tra la folla dei fedeli sciiti che stava partecipando alle tradizionali celebrazioni in onore di Hussein, nipote del profeta Maometto, presso la moschea Jamia. La città è il capoluogo della regione del Baluchistan, 1.600 chilometri a est di Teheran, all’incrocio con le frontiere di Afghanistan e Pakistan. Il primo a farsi esplodere, all’esterno del luogo di culto, è stato un kamikaze travestito da donna, secondo la testimonianza di un deputato locale, Hussein Ali Shahriari. All’interno della moschea, mentre un religioso stava leggendo alcuni passi del Corano, è stata udita la forte esplosione che ha scosso le mura dell’edificio. Quando i fedeli, attirati dalle richieste di soccorso e dalle urla dei feriti, come documentano le immagini video ritrasmesse dalla Tv di Stato iraniana, hanno cercato di precipitarsi all’esterno, è entrato in azione il secondo attentatore. Una tecnica ben sperimentata dagli estremisti sunniti in Iraq, che ha causato il maggior numero di vittime. Gli attentatori hanno deciso di colpire la moschea Jamia non a caso: tra i fedeli infatti, vi erano diversi appartenenti ai Pasdaran, i guardiani della Rivoluzione, poiché le celebrazioni per Hussein, quest’anno coincidevano con i festeggiamenti annuali dell’elite politico-militare iraniana. Il sottosegretario del Ministero degli Interni, Ali

È

Abdullahi ha confermato all’agenzia Fars che tra i caduti vi sono diversi membri della Guardia rivoluzionaria. I Pasdaran sono considerati il principale obiettivo del gruppo Jundullah, che nel corso di un decennio, ha colpito più volte i paramilitari del regime sciita. Lo scorso ottobre, in un altro attentato rivendicato dagli estremisti sunniti, 40 guardiani della rivoluzione furono uccisi da un altro attentatore suicida. L’attacco dell’altra notte viene interpretato anche come un segnale dell’organizzazione terroristica che, nonostante la perdita del suo leader, rimane la minaccia interna più pericolosa per la Repubblica islamica.

L’Iran ha accusato gli Usa e il Regno Unito di sostenere gli estremisti di Jundallah per cercare di abbattere il regime teocratico iraniano, un’accusa respinta da entrambi i Paesi. Hussein Salami, vicecapo dei Guardiani della rivoluzione, ha detto ai fedeli durante la preghiera del venerdì a Teheran, che le vittime «sono state martirizzate dalle mani di mercenari degli Usa e Inghilterra». Sulla stessa lunghezza d’onda, le dichiarazioni del capo della commissione parlamentare iraniana per la Sicurezza nazionale, Alaeddin Boroujerdi: «l’America dovrebbe rispondere per l’atto terroristico avvenuto a Zahedan». L’influente deputato ha dichiarato che il leader di Jundallah, in passato aveva compiuto attentati grazie all’appoggio di Usa, Gran Bretagna e Israele. Il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha respinto ogni addebito e ha condannato il sanguinoso episodio, «nei termini più forti possibili». In una nota, la Clinton ha espresso la solidarietà degli Usa alle famiglie delle vittime e chiesto «che i responsabili di questo orribile attacco siano chiamati a rispondere delle loro azioni». Per il segretario di Stato l’attentato, «al pari di quelli in Uganda, Pakistan, Afghanistan, Iraq e Algeria, dimostra la necessità per la comunità globale di lavorare per combattere le organizzazioni terroristiche che minacciano le vite di civili innocenti in tutto il mondo».

Quasi trenta morti e 270 feriti nella città di Zahedan nel sud-est, la scorsa notte. Un attentatore indossava il burqa

vendite della città olandese, Marc Miche Josemans. Era stato oggetto di due controlli di polizia, durante i quali era stato constatato che cittadini dell’Ue non residenti nei Paesi Bassi venivano ammessi all’interno del locale. Il sindaco di Maastricht aveva deciso quindi di chiudere temporaneamente il locale. Josemans aveva impugnato la decisione dinanzi al Raad van State, il Consiglio di Stato olandese, investito della causa, chiedendo alla Corte di giustizia se il diritto dell’Ue osti ad una normativa che vieta l’accesso ai coffee shop delle persone non residenti nei Paesi Bassi. Quindi, la decisione della Corte di giustizia.

Lo scenario dell’incendio nell’albergo nel nord del Kurdistan, di ora in ora, si sta trasformando in una vera strage. È di almeno 29 morti, tra cui almeno sette cittadini stranieri, il bilancio provvisorio delle vittime di un incendio scoppiato giovedì sera in un albergo della località irachena di Sulaimaniyah: lo hanno reso noto fonti ospedaliere locali. Oltre ai 29 morti – tra i quali vi sono quattro donne e quattro bambini -– altre 22 persone sono state ricoverate in ospedale. Tra le vittime straniere vi sono quattro cittadini statunitensi, oltre a un filippino, un cambogiano e un cittadino del Bangladesh. Si trattava di ingegneri che lavoravano per la

compagnia di telecomunicazioni AsiaCell; stando ad altre fonti sarebbero morti anche cittadini di Canada, Ecuador, Venezuela e Cina. L’incendio è scoppiato alle 21.30 di giovedì ora italiana nell’hotel Soma, uno dei principali di Sulaimaniyah, seconda città del Kurdistan iracheno: secondo le autorità locali la causa sarebbe un cortocircuito elettrico. I vigili del fuoco, subito intervenuti, hanno impiegato sette ore prima di domare le fiamme.

Molte le donne e i bambini fra i morti, e numerosi anche gli stranieri. Fra questi, ci sono quattro americani, tre ingegneri originari delle Filippine, della Cambogia e dello Sri Lanka che lavoravano per l’operatore di telefonia mobile Asiacell. Secondo le forze di polizia non si tratta di un attacco terroristico, anche se sulle cause del rogo sono in corso le indagini. Ma le probabilità che si sia trattato di un corto circuito sono elevate. La zona dove si trova l’hotel è a maggioranza curda e relativamente tranquilla da mesi, circostanza che fa eslcludere atti violenti. Almeno tre persone sono morte gettandosi dalle finestre del terzo piano, ma la maggior parte è deceduta per soffocamento a causa del fumo.


pagina 30 • 17 luglio 2010

il personaggio della settimana Di nuovo in Iraq l’ex ministro degli esteri , l’unico volto “presentabile” del regime

Torna a casa, Aziz Dopo sette anni gli americani “restituiscono” agli iracheni la controfigura moderata di Saddam Hussein. Ora deve scontare la sua pena ma lui cercherà di ottenere la grazia... di Antonio Picasso

areq Aziz è il cristiano iracheno più famoso della storia contemporanea. Malgrado altre figure della sua stessa comunità meritino maggiori onori. Il suo impegno diplomatico, in qualità di vice Presidente e Ministro degli Esteri di Saddam Hussein, fu a suo tempo molto apprezzato, in quanto cercò di evitare a tutti i costi lo scontro armato con gli Usa. Poi, una volta caduto il regime, anch’egli – indubbiamente compromesso con il rais – fu coinvolto nel processo di “debaathizzazione”del nuovo Iraq. Inizialmente c’è stato chi sperò che il Governo di Baghdad attuale e le autorità militari Usa mostrassero una certa magnanimità nei suoi confronti: fu ventilata l’idea che Tareq Aziz potesse fare la fine di Franz von Papen, il vice Cancelliere del Terzo Reich fra il 1933 e il 1934 e poi Ambasciatore a Istanbul della Germania nazista, il quale uscì indenne dal processo di Norimberga, per quanto con Hitler avesse avuto direttamente a che fare.

T

Era sulla fede cristiana che i sostenitori del diplomatico iracheno avevano impostato la linea di difesa. L’Iraq di Saddam era apparso agli occhi dei più – ma in modo approssimativo nonché errato – legato al fondamentalismo islamico e al jihad promosso da alQaeda. Qual era la connessione fra Tareq Aziz e un simile esempio di estremismo islamico? Le speranze di salvare l’ex ministro iracheno tuttavia erano prive di fondamento. Come altrettanto distorte erano le interpretazioni sui legami fra Saddam e Osama bin Laden. Tareq Aziz è

sempre stato la punta di diamante di un regime autoritario, sanguinario ma laico, che nulla aveva a che fare con il jihadismo. Oggi l’ex gerarca baathista compare nella lista di detenuti di alto prestigio che verranno prossimamente trasferiti da un carcere gestito dagli Usa a un altro sotto la responsabilità di Baghdad. Insieme a lui ci saranno Hussein Abed Hammud, Muhammad Zumam e Amr Muhammad Rashid, rispettivamente Segretario del defunto rais, ministro dell’Interno e del Petrolio del regime.

Mikhail Yuhanna – conosciuto appunto con il nome dal “suono”più islamico di Tareq Aziz – è nato nel 1936, a Qaraqosh, nella provincia di Ninive, nell’Iraq settentrionale, centro di antica tradizione della Chiesa e della cultura caldea. Ad appena 21 anni si è iscritto al Partito Baath e vi ha prestato servizio come giornalista. Dopo la caduta della monarchia hashemita, nel 1958, Aziz è entrato nei ranghi della Polizia del regime. Vent’anni dopo, Saddam lo ha scelto come suo rappresentante diplomatico. Il Presidente iracheno infatti, una volta assunto il potere, non valicherà mai i confini nazionali, se non in casi eccezionali. Sarà sempre Tareq Aziz a fare le veci di Saddam, di fronte a tutta la comunità internazionale, sia in sede Onu, sia presso i governi occidentali, ma anche – e questo fu oggetto di accese critiche – presso i Paesi “fratelli”dell’Iraq membri della Lega Araba. Nei suoi oltre 40 anni al servizio delle istituzioni irachene, Tareq Aziz è riuscito sfoderare rare doti di sopravvivenza e di astuzia diplomatica. È stato uno dei pochi a salvarsi dalle cicliche purghe ordinate dal rais a spese dei suoi collaboratori. Il dittatore iracheno non si fidava di nessuno. Del resto, spesso i traditori gli erano non solo vicini, ma anche parenti. I fratelli Hussein e Saddam Kamel, cugini di secondo grado del rais – il primo ne era anche genero – erano scappati da Baghdad e si erano rifugiati in Giordania. Poi, mossi da chissà quale incoscienza, tornarono in patria e lì furono passati per le armi nel 1996.

Tareq Aziz non è stato un traditore, bensì un fedele esecutore del Governo iracheno, consapevole dei crimini e delle persecuzioni di sui si era macchiato il regime. Tuttavia il fatto di essere cristiano e di mostrarsi spesso non in uniforme ma in costosi abiti di foggia sartoriale gli hanno permesso di frequentare tutte le cancellerie del mondo, senza che su di lui calasse l’ombra di collusione con le violenze del capo. La stima di mediatore Tareq Aziz se l’è guadagnata durante la Prima guerra del Golfo, nel 1991. Egli è stato il solo ad apparire sui canali televisivi occidentali con un atteggiamento conciliante. Ha lavorato per il regime sì, eppure è riuscito a trasmettere una considerazione quasi positiva della sua personalità. Ha fatto dell’arte diplomatica, definita nella Vecchia Europa, un suo biglietto da visita di conciliazione e di disponibilità al dialogo. Tareq Aziz è stato l’ambasciatore iracheno che «non portava pena». È rimasta impressa nella storia la sua udienza con Papa Giovanni Paolo II il 14 febbraio 2003, esattamente un mese prima dell’avvio di “Iraqi Freedom” da parte delle truppe Usa. Il vice Presidente iracheno perorava la causa della pace di fronte al Pontefice. Strumentalizzando le sacre stanze vaticane come palcoscenico personale, Tareq Aziz ha recitato il suo ultimo exploit in qualità rappresentante di Saddam. Rivedendole oggi, quelle immagini appaiono raccapriccianti. Da una parte un papa malato eppure rinvigorito nella sua straordinaria ostinazione a cercare a tutti i costi di evitare la guerra. Dall’altra un uomo che era riuscito a sfruttare la sua fede cristiana – per quanto abbandonata da anni – per presentarsi come un messaggero di pace. In realtà fra le mani di Tareq Aziz non vi erano ramoscelli di ulivo, ma la pistola della Guardia Repubblicana di Saddam. Il regime si sarebbe battuto con le unghie e con i denti pur di vedere l’esercito di George W. Bush affondare nelle sabbie del deserto iracheno. Il Numero 2 di Baghdad era consapevole di questo. Come altrettanto sospettava che comunque, alla


17 luglio 2010 • pagina 31

fine, il suo regime sarebbe stato deposto e che la sua carriera personale di manipolatore stesse vivendo l’ultimo atto proprio di fronte al Papa.

Sconfitto Saddam, lo tzunami della vendetta sciita e di tutti coloro che si erano opposti al Baath ha travolto anche Tareq Aziz. L’ormai ex vice Presidente iracheno si è arreso alle forze Usa il 23 aprile 2003, cercando questa volta di farsi passare come prigioniero di guerra, per non essere sottoposto ad alcun processo. Per ironia della sorte,

Un mese prima dell’attacco Onu, fu ricevuto da papa Wojtyla: del resto, è il più famoso cristiano del suo Paese prima dello scoppio della guerra Tareq Aziz aveva dichiarato che avrebbe preferito morire, piuttosto che cadere nelle mani delle esercito americano. Evidentemente, messo di fronte alla scelta più estrema, il carcere deve essergli sembrato più attraente. La fortuna però gli era girata contro. Perso il potere, anche Tareq Aziz è stato costretto a sedersi come imputato di fronte a un tribunale iracheno voluto dalle nuove istituzioni di Baghdad.

L’ex capo della diplomazia del rais è stato accusato non tanto di correità

con gli eccidi della dittatura, quanto di esserne stato tempestivamente informato e di non aver compiuto alcuno sforzo per evitarle. Il caso del massacro di Dujail è esemplificativo. Nel 1982, questa città sciita irachena di 75 mila abitanti venne stretta nella morsa della rappresaglia di Saddam. Il Rais era uscito indenne da un attentato orchestrato dal Partito Dawa: di orientamento sciita, allora sovversivo, oggi invece al potere e guidato dal Premier Nouri al-Maliki. Dujail pagò con la morte di 150 persone circa per il fallimento dell’attacco. I responsabili della carneficina, Saddam Hussein in primis, sono stati impiccati nel 2006. “Quando uno Stato viene attaccato è suo dovere rispondere e reagire con la massima fermezza”. È stata la dichiarazione di Tareq Aziz, testimone di difesa per Saddam in merito ai fatti del 1982. Anche in quel caso l’ex diplomatico ha ribadito la fedeltà al suo leader e l’attaccamento alle istituzioni baathiste.

Oggi spesso si dice che sia stata proprio la figura di Aziz a compromettere la vita dei cristiani in Iraq. La persecuzione dei caldei, sei siriaci e degli assiri in questa prima parte del 2010 ha vissuto una drammatica impennata. La leggenda mediatica adesso pretende di far passare un senso di nostalgia che i cristiani iracheni nutrirebbero per il deposto regime. Emerge però a questo punto una contraddizione. Nel 2003 gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra contro un Iraq fondamentalista, qaedista e forse addirittura corresponsabile degli attacchi dell’11 settembre 2001. Ora però si dice che Saddam proteggesse i cristiani. I conti non tornano. L’Arcivescovo latino di Baghdad, Jean Benjamin Sleman, ha più volte ricordato che è vero – a differenza dei curdi e degli sciiti – i cristiani non sono stati fatti oggetto di carneficine da parte di Saddam. Tuttavia erano anch’essi soggetti allo stesso regime dittatoriale. Si salvarono dagli eccidi

semplicemente perché adottarono una linea di comportamento di totale passività. Scelsero di non fare politica, si allontanarono dalle istituzioni e non espressero alcun parere né in opposizione né in favore del regime. Salvarono la pelle solo per questo e non per grazia ricevuta attraverso l’intercessione di Tareq Aziz. Ai tempi dell’Impero ottomano, i cristiani in Medio Oriente, Iraq compreso, erano soggetti a uno status giuridico di minoranza protetta ma priva di diritti (dhimmitudine). In un certo senso, lo furono anche con Saddam, il quale – va ricordato – ben si guardò dall’abrogare la shari’a come sistema legislativo del suo regime. Possibile che in questo affastellamento di contraddizioni Tareq Aziz, il cristiano caldeo che aveva abiurato e rifiutato perfino il suo nome di battesimo pur di entrare nelle stanze del potere, abbia salvato la sua comunità religiosa di origine e che ora questa paghi lo scotto di averlo avuto come rappresentante nella Baghdad di Saddam? In realtà la fine del regime ha fatto esplodere gli odi etnici e religiosi che Saddam aveva schiacciato. Il dramma che i cristiani iracheno stanno attraversando oggi è totalmente svincolato dalla figura di Tareq Aziz. Bensì è legato a quella posizione di apatia collettiva, interpretata in parte come ignavia e in parte come implicito endorsement, nei confronti del defunto rais.

Il destino personale di Aziz è diverso da quello della sua comunità religiosa di origine, ma soprattutto è giustificato da cause lontane anni luce dalle attuali persecuzioni. Come uomo del regime, la sua detenzione era inevitabile. Negli anni passati la sua famiglia si è spesa per ottenerne la libertà in seguito alle precarie condizioni di salute. Peraltro riguardo alle accuse a suo carico, è stata emessa solo una parte delle sentenze. Resta infatti da stabilire che ruolo abbia avuto nella repressione dell’insorgenza

Lo aspettano molti anni di carcere Tarek Aziz è lo pseudonimo (di stampo arabo) di Mikhail Yuhanna, nato a Tel Keppe, nel nord dell’Iraq, il 28 aprile del 1936. È di fede cattolica caldea. È stato ministro degli esteri (1983–1991) e vice-primo ministro (1979–2003) dell’Iraq sotto il governo dittatoriale di Saddam Hussein di cui Aziz è stato il più ascoltato consigliere per molti anni. E infatti, pur essendo Saddam sia Primo ministro che Presidente dell’Iraq, Aziz spesso ricoprì il ruolo di capo del governo de facto. È stato uno degli uomini più ricercati dalla coalizione internazionale durante l’invasione dell’Iraq, fino ad arrendersi, il 24 aprile del 2003, benché avesse in precedenza detto che avrebbe preferito morire piuttosto che cadere nelle loro mani. È stato accusato di aver preso parte alla decisione di uccidere 42 persone da parte di un blitz della polizia irachena avvenuto nel 1999. Il 2 marzo 2009 è stato assolto ma dopo pochi giorni è stato trovato colpevole di crinimi contro l’umanità e condannato a 15 anni di carcere. Il 2 agosto, sempre del 2009, è stato condannato per aver contribuito a pianificare la deportazione dei Curdi dal nord Iraq e condannato a sette anni di carcere. Queste pene dovrà scontare ora che è in procinto di tornare nel suo Paese.

sciita del 1991. Finora Tareq Aziz è rimasto sotto il controllo delle autorità Usa. La famiglia ha riconosciuto che la detenzione del loro congiunto è avvenuta nel rispetto dei diritti carcerari e secondo gli standard occidentali. Avverrà lo stesso ora che è nelle mani del Governo di Baghdad, oppure il Dawa approfitterà dell’occasione per vendicarsi dei torti subito quando era un movimento sovversivo?

Nel 2003 Saddam Hussein venne impropriamente bollato come l’Adolf Hitler del Terzo Millennio. Nell’accostamento storico dei due regimi, per quanto errato esso sia, tra von Papen e Aziz emergono molti punti in comune. Il primo è quello di aver mantenuto una posizione di ambiguità nei confronti di due dittature per le quali avevano prestato un ineccepibile servizio. Il secondo è proprio dettato da questa ignavia. Aziz sta pagando con anni di carcere la sua ipocrita devozione a Saddam. Von Papen fu altrettanto rinchiuso a Spandau per otto anni, perché comunque colpevole di non aver fatto abbastanza per frenare il nazismo. Nel 1954 l’ex diplomatico tedesco venne scarcerato e trascorse gli ultimi 15 anni della sua vita nel tentativo di riabilitare la sua immagine. Non è da escludere che un destino simile attenda Tareq Aziz. Sempre che la salute glielo consenta. Entrambi hanno pagato e stanno scontando le scelte politiche dettate più da una sintesi fra timore della persecuzione e l’ambizione personale di conservarsi una propria nicchia di potere. La storia li ricorderà proprio per la loro sinistra ambiguità di fronte a due regimi contro i quali avevano a disposizione tutti gli strumenti per potersi scagliare, ma non li hanno usati.



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.