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La forza senza intelligenza
rovina sotto il suo stesso peso Quinto Orazio Flacco
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 23 LUGLIO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Ma il premier è ancora incerto se puntare tutto sui circoli della Brambilla o cedere alla proposta di un congresso “democratico”
Berlusconi cerca un partito In conflitto permanente con Fini e Tremonti,in calo nei sondaggi,il Cavaliere convoca un vertice per provare a tenere «tutti uniti».Ora il Pdl sta diventando un ostacolo al governo del Paese di Errico Novi
Rovesciamo i luoghi comuni
Attenti, ormai tutta l’Italia è Sud di Roberto Occhiuto uando all’Università lessi Edward Banfield, nel suo Le basi morali di una società arretrata, trovai l’analisi sul familismo amorale illuminante per rintracciare i germi della malattia del sottosviluppo nella società meridionale. In una comunità del Mezzogiorno il sociologo americano aveva studiato come tratto distintivo e, al tempo stesso, come causa della sua arretratezza - la tendenza a considerare utili solo i benefici di breve periodo per la propria comunità.
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Dossier. Tutte le guerre che continuano nell’indifferenza
Il fronte legalità è sempre aperto, nel Pdl, ma non c’è solo Fini a turnare i sonni di Berlusconi. Ieri è stato il giorno di una «incomprensione» con il ministro Tremonti. Oggetto: la tassa comunale. «Non esiste» aveva detto il premier. Ma il ministro in conferenza stampa ha detto: «La tassa c’è e Berlusconi è d’accordo». «Colpa dei giornali che ci attaccano» ha tagliato corto, come al solito, il premier. a pagina 2
L’Africa dimenticata (finito il Mondiale è calato il silenzio)
Lettere dall’interno: tre interventi sulla questione morale e sul futuro del movimento
Tra i cofondatori Dobbiamo essere Temo i corrotti, l’autunno sarà il Popolo ma temo di più della Legalità la P1 dei giudici molto caldo di Gennaro Malgieri
di Carmelo Briguglio
di Giuliano Cazzola
l principio di legalità nasce dal senso dello Stato; il giustizialismo è la rappresentazione volgare e giacobina dell’odio politico e sociale nello stadio più primitivo ed elementare. a pagina 3
n questi giorni mi viene chiesto, e da più parti, se è possibile una sintesi tra le posizioni del presidente della Camera Gianfranco Fini e quelle del premier Silvio Berlusconi. a pagina 4
n leader della Prima Repubblica (Rino Formica) che recentemente ha visto riconosciuta la propria estraneità a Tangentopoli, diceva che la politica è «sangue e m...a». a pagina 5
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La Serbia: «Non riconosciamo la decisione». Pristina: «Trattiamo da Stato sovrano»
Sì al Kosovo indipendente Sentenza dell’Onu: «Legale la separazione da Belgrado» di Osvaldo Baldacci
Parla il generale Mini, già comandante Kfor
è uno Stato in più nel cuore dell’Europa. Il Kosovo. Con un pronunciamento più netto del previsto la Corte Internazionale di Giustizia ha sentenziato ieri all’Aja che la dichiarazione di indipendenza del Kosovo non viola il diritto internazionale e non è incoerente con la Risoluzione Onu 1244. Un’affermazione molto importante che può cambiare moltissimi scenari mondiali.
«Esempio pericoloso per molte altre regioni» a sentenza della Corte Onu può essere un esempio pericoloso per molte altre regioni». È il commento rilasciato a liberal dal generale Fabio Mini, già comandante del contingente internazionale Kfor. Il generale parla della situazione nel Paese e della decisione (pericolosa) della Corte Internazionale dell’Aia. Una sentenza che apre le porte a molti altri.
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di Pierre Chiartano
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I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
141 •
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di Maurizio Stefanini u nel 1969 che Catherine Ciquery-Vidrovitch scrisse il famoso saggio Recherches sur un Mode de Production Africain, in cui introdusse appunto il concetto di «modo di produzione africano». Come è noto, era stato Marx a individuare un «modo di produzione asiatico» distinto da quelli schiavista, feudale e capitalista che si erano succeduti in Occidente. Unendo questa idea di un regime economico caratterizzato dal monopolio dei mezzi di produzione da parte del Sovrano, più l’idea classica di dispotismo teorizzata da Platone a Montesquieu, più la critica al totalitarismo moderno in particolare di Karl Popper e Hanna Arendt, più i suoi studi sulla storia cinese, il tedesco ex-comunista e esule antinazista negli Stati Uniti Karl August Wittfogel ne aveva ricavato nel 1957 la famosa teoria del «dispotismo idraulico». Un’idea secondo la quale sarebbe stata la necessità di una direzione organizzata dei grandi lavori di irrigazione necessari alle civiltà nate lungo i grandi fiumi a fornire un modello e uno strumento di controllo totale sulla società, poi sviluppatasi nel dispotismo antico e nel totalitarismo del XX secolo. segue a pagina 11
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 23 luglio 2010
Dal premier appello via internet al “popolo”. Poi dice: «Gianfranco è col nemico»
Silvio rifà il predellino ma gli ex colonnelli di An sono pronti a lasciarlo di Errico Novi
ROMA. Il tavolo è colmo di dossier. Di questioni aperte e difficili da risolvere. Davanti alla scena però Berlusconi viene sopraffatto dalla solita tentazione: ignorare tutto e prodursi nell’ennesima fuga in avanti. Solitaria. Tanto solitaria che nemmeno gli ex An a lui fedeli, Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa, sarebbero disposti a seguirlo. La tentazione, appunto, è quella a cui il Cavaliere ha già ceduto nel 2006 con i circoli della Brambilla e nel 2008 con il predellino: rifare il partito daccapo, e rifarselo da solo. Ancora con Michela. Con i suoi “Promotori”, con un po’ di internet, con una comunicazione martellante e diretta tra lui e il “popolo”. Si spiega così l’ultima trovata, cioè il messaggio partito ieri mattina dal sito forzasilvio.it, in cui il premier parla di «furibonde campagne mediatiche contro il governo e il Pdl». Una formula piuttosto elusiva rispetto alla questione morale squadernata dalle ultime vicende. Berlusconi, che offre l’anticipazione del messaggio al Tg1 tra non poche polemiche, chiede di far conoscere e divulgare «le tante realizzazioni del nostro “governo del fare”». È questa a suo giudizio, «la migliore risposta contro calunnie e campagne mediatiche». Un modo come un altro per lasciare sul tappeto, prive di una vera risposta, i molti nodi relativi alla struttura del partito e alla legalità.
Un modo per bypassare il partito e rivolgersi direttamente vagli elettori. Chiamati, nella lettera del Cavaliere, a seguire le iniziative propagandistiche dei “Promotori”. Torna la formula Brambilla, dunque. Diventa quasi superflua, così, la riunione convocata per pranzo a Palazzo Grazioli, a cui pure prende parte il solito stato maggiore del partito con l’inedita presenza di Schifani. Inutile perché non dà risposte alla questione morale posta dai finiani, anzi. Ne escono nuove accuse a Fini: «È colluso con il nemico», dice Silvio. Sia La Russa che Cicchitto lasciano il vertice con una sentenza unanime: tutti hanno censurato le uscite «sopra le righe» di Fabio Granata, in particolare quella frase sui pezzi di Stato e di governo che ostacolano la verità sulle stragi. Nessuna analisi di merito, dunque. Al massimo irritazione verso Fini che, tiene a precisare Quagliariello, «non è stato neppure nominato». E però i finiani finiscono per arrivare sempre un metro più avanti: perché pochi minuti dopo la scomunica di La Russa, Granata ha gioco facile nel respingere le critiche e contestargli di «aver dimenticato i valori della destra, da cui proviene, profondamente legati alla legalità».
Gasparri ora ipotizza il congresso e il passaggio al coordinatore unico: sono le richieste dei fedelissimi del cofondatore
Passano pochi minuti e un altro finiano, Carmelo Briguglio (di cui pubblichiamo un ampio intervento, ndr), affonda il coltello nella piaga e fa notare che il confronto sulle intercettazioni «è entrato nella discussione pubblica». Sarebbe l’origine di quel 12 per cento che Luigi Crespi attribuisce a un eventuale nuovo partito di Fini. Dato che fa arrabbiare Berlusconi, come l’altro diffuso ieri dal sondaggista sulla perdita di fiducia nei confronti di premier e governo, stimata intorno al 2,5 per cento. Silvio non la manda giù, e già in una cena con alcuni ex An “moderati” (da Amedeo Labocetta al cristiano-riformista Antonio Mazzocchi) mercoledì sera aveva sciorinato i suoi, rassicuranti numeri sulla popolarità dell’esecutivo. In quella sede il Cavaliere aveva pure accennato alla ristrutturazione organizzativa del partito, che dovrebbe costringere in teoria tutta la dirigenza pdl a saltare le vacanze di agosto. Ma è improbabile che in molti siano disposti a dargli una mano, se è vero che il perno del rilancio consisterebbe appunto nell’ennesimo investimento sul movimentismo brambilliano. E così, mentre Bocchino maramaldeggia e parla di partito sudamericano «senza circoli, senza presidenti di sezione o organismi dirigenti eletti dalla base», Gasparri gli dà quasi ragione: in un’intervista pubblicata dal Foglio chiede a sorpresa il congresso, all’uscita dalla riunione di Palazzo Grazioli non solo non esclude che possa tenersi ma ne parla come prodromo del passaggio al coordinatore unico. I finiani hanno ragione: è questa l’idea che si fa strada tra gli ex colonnelli di An separatisi da Gianfranco, Gasparri in testa. Hanno avuto ragione su tutto, finora: Brancher, Cosentino, intercettazioni. Finiranno per vedere premiate anche le loro richieste sull’organizzazione del partito. E se invece Silvio stavolta non desse, seppur tardivamente, loro ragione (come avvenuto finora sul resto, di fatto) e virasse sul populismo senza mediazioni, non è detto che gli ex aennini lealisti continueranno a seguirlo. Tanto più che ormai, come dice Pier Ferdinando Casini «c’è un uomo solo al comando,Tremonti», pronto persino a sconfessare il capo in conferenza stampa sulla tassa comunale.
Lettere dall’interno. Tre interventi sul futuro del Pdl
Un partito, un movimento, un casino? a battaglia sulla cittadinanza, la bioetica e la laicità dello Stato - temi sui quali Gianfranco Fini aveva iniziato a marcare la sua differenza rispetto a Berlusconi - aveva il respiro corto. Non era su quel terreno che poteva consolidarsi la leadership dell’«oppositore interno» Fini: lo sapevano tutti e tutti aspettavano Fini alla prova dei fatti (alla conta dei fedelissimi alla Camera e in Senato). Ma la sfida sulla legalità che il presidente della Camera ha ingaggiato da settimane con il cofondatore Berlusconi è tutt’un’altra cosa e potrebbe rimettere in moto davvero la girandola di nomi e numeri; non solo in Parlamento. Perché ruota su un orizzonte ideale comune a molti esponenti del Pdl (non solo ex-An), e perché ha radici antiche e profonde nella più tradizionale cultura di centrodestra. Come dire: Fini ha trovato il bandolo della sua trama politica; quello attraverso il quale consoli-
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dare la sua leadership in Parlamento e nel Paese. Ma c’è qualcosa di più: c’è un tema vero, profondo, sentito, a dividere Fini da Berlusconi: al di là delle strategie contingenti, delle necessità peculiari del giorno per giorno della politica. Ossia: la legalità divide davvero, e in profondità, le due anime che hanno dato vita al Pdl. È questo ciò che appare drammaticamente evidente in questi giorni sotto la spinta di quotidiane rivelazioni di affari sporchi e corruzione. Ed è su questo che abbiamo chiesto di esprimersi ad alcuni esponenti del partito di maggioranza: la spaccatura nel Pdl, che investe un tema così importante, può essere ricomposta? E se sì, come? Lo abbiamo chiesto a Gennaro Malgieri, Giuliano Cazzola e Carmelo Briguglio. Le riflessioni che ne sono nate, come si vede, prendono strade diverse e arrivano a soluzioni anche molto lontane: segno che il dibattito è stringente e infuoca davvero le coscienze.
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L’EQUIVOCO GIUSTIZIALISTA
Berlusconi e Fini: sarà autunno caldo Il Pdl è nato male perché non si è discusso. Ma non solo di “legalità” di Gennaro Malgieri l principio di legalità nasce dal senso dello Stato; il giustizialismo è la rappresentazione volgare e giacobina dell’odio politico e sociale nello stadio più primitivo ed elementare. La distinzione è quantomai opportuna soprattutto di questi tempi. In primo luogo perché si tende a confondere le due nozioni quando si discute di moralità pubblica. E poi perché legalità e giustizialismo sono concettualmente antitetici in quanto la prima attiene ad una visione comportamentale fondata sull’etica e sulla responsabilità collettive; il secondo vorrebbe giustificare, sulla base di un pregiudizio ideologico l’attivazione degli strumenti più rozzi e violenti di persecuzione contro quanti vengono comunque e a prescindere dalle prove concrete ed inconfutabili, additati come nemici della società e profittatori immorali solo perché appartenenti ad una diversa fazione. Il giustizialismo ha fatto la sua irruzione in Europa con la Rivoluzione francese, mentre la cultura del realismo e della ragionevolezza, oltre che il sentimento della pietas, su cui si fonda la legalità ha dato forma alle più alte espressioni del diritto dal tempo di Roma ai nostri giorni.
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In queste pagine, i maggiori protagonisti della nascita, della vita e delle spaccature nel Pdl. Da qui sopra, in senso orario: Sandro Bondi, Giulio Tremonti, Fini e Berlusconi, La Russa e Verdini. Marcello Dell’Utri, Caludio Scajola e Maurizio Gasparri
Perciò mentre il giustizialismo è appannaggio di pochi che pur possono produrre danni incalcolabili applicando la loro intolleranza nella politica e nei conflitti sociali, la legalità è patrimonio di tutti e in un Paese civile e ordinato non dovrebbe essere neppure ricordato a chicchessia perché si reputa iscritto nel codice genetico delle società che si riconoscono nel primato dello Stato, e dunque della politica, come fonte di garanzia della libertà della persona. Che oggi, come in altri tempi, il principio di legalità venga attaccato da malfattori
di vario genere, ma da nessuno messo in discussione (saremmo alla deificazione della barbarie se accadesse) è incontestabile. Ma altrettanto incontestabile è il suo travisamento per poco nobili ragioni di lotta politica fino a farlo coincidere maldestramente con l’odioso giustizialismo giacobino, questo sì fonte non solo di malessere, ma di vera e propria lesione del principio di legittimità democratica. La lotta per la legalità non può essere episodica. Essa o è costante da parte di chi ritiene di agire nel suo solco oppure è una caricatura. O è praticata da tutti verso tutti oppure è un espediente per camuffare il giustizialismo di minoranze che tendono alla delegittimazione, perlopiù per via giudiziaria, di singoli o di parti consistenti della società civile. Non si esaurisce nel riconoscersi nel trito slogan “legge e ordine”, ma nelle strutture di uno Stato che tra i suoi poteri non ammette conflitti, pena la sua disintegrazione. Non attiene soltanto ai comportamenti individuali, ma anche a quelli collettivi. Soprattutto non è un tema da lasciare nelle mani dei partiti perché la stravolgano a fini di propaganda.
È lo Stato ad incaricarsi di tenere alta la tensione attorno alla legalità, badando che non degradi verso il giustizialismo. Per questo credo che nessuno possa appropriarsi in esclusiva di un tema del genere per il semplice fatto che esso appartiene a tutti. E quando ci si rende conto che una società sta scivolando verso l’illegalità diffusa, non certo per poche mele marce come è stato detto, tutti
dovrebbero reagire al degrado ed alla dissoluzione dell’ordine morale e civile i cui custodi non sono soltanto coloro i quali per dovere sono preposti allo scopo, ma i cittadini in quanto tali, cioè appartenenti alla polis e, dunque, interessati a costringere nel cattiverio coloro i quali abusano della loro libertà soprattutto se ricoprono cariche pubbliche. Che l’Italia sia da decenni afflitta da un sistema di corruzione, non è un mistero. Misterioso è il fatto che tutti e tre i poteri dello Stato non abbiano ottenuto risultati ragguardevoli nella difesa della legalità forse perché la cultura dell’illegalità è penetrata nelle fibre della società stessa e soltanto una rivoluzione culturale, appunto, potrebbe normalizzare la situazione. I partiti possono dare un contributo, certamente. Ma non certo utilizzando, come si diceva, il tema della legalità come arma impropria di delegittimazione dell’avversario. Nel recente passato è stato fatto, ma i risultati sono stati quelli che oggi deprechiamo.
Ci si chiede pure, scendendo nelle vicende che tengono desta la nostra attenzione, se la crisi del Pdl si avviterà al punto tale da provocare una rottura insanabile tra Berlusconi e Fini. E’ possibile. Ma non credo che avverrà sul piano della legalità, come immagina qualcuno poiché il partito, per quanto “sofferente” in ragione dei sospetti e degli inquisiti (nessuno peraltro condannato con sentenza passata in giudicato) sarebbe suicida accendesse una disputa sull’etica pubblica a colpi di accuse reciproche tra le frazioni che animano il confronto. Avere opinioni dissimili, tanto per fare un esempio, sull’organizzazione della magistratura (peraltro unanimemente condivisa fino a pochi mesi fa) nel Pdl, fa parte della dialettica interna ad ogni partito. Non è un buon motivo per giustificare fratture irrimediabili. Le quali potranno essere provocate da una visione profondamente diversa del partito stesso e perfino dall’approssimarsi della fine delle legislatura per prepararsi al dopo-Berlusconi, posto che sia alle viste. E comunque, in tal caso, i contendenti, non sarebbero due soltanto. Il Pdl è nato male non perché il tema della legalità vi abbia fatto irruzione all’atto della sua costituzione, ma proprio perché, né di legalità di molto altro ancora si è discusso nella fase costituente, sicché la “fusione a freddo” tale è rimasta e neppure questi torridi giorni (in tutti i sensi) riescono a riscaldarla. Se ne parlerà in autunno. Anche se tutto lascia presagire che per quell’epoca le strade di Berlusconi e di Fini saranno diverse.
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LIBERTÀ E INFORMAZIONE
Popolo della legalità, ecco l’obiettivo La sfida sulle intercettazioni ha riacceso un dibattito che sembrava dimenticato di Carmelo Briguglio n questi giorni mi viene chiesto, e da più parti, se è possibile una sintesi tra le posizioni del presidente della Camera Gianfranco Fini e quelle del premier Silvio Berlusconi. Non v’è alcun dubbio che trovare un punto d’accordo di questo genere è assai difficile e ad oggi non ne vedo soprattutto l’animus. Il futuro del Pdl si gioca tutto su quanto il Pdl stesso abbia davvero l’interesse e la volontà di diventare Partito della Legalità, ribattezzando, in un certo senso, la propria ragione sociale e soprattutto rivedendo e facendo rivedere i comportamenti individuali e collettivi.
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Ora, facendo un passo indietro, passerei a parlare dell’ultimo punto su cui si è registrata una frattura tra le due posizioni, tranne poi, ed è notizia di questi ultimi giorni, ricucirsi grazie alla mediazione di Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia. Sto parlando, ovviamente, del tanto criticato ddl Intercettazioni. Sul piano politico non si può certo negare che sia una vittoria di Fini. È il commento unanime sulla svolta impressa alla legge sulle intercettazioni. Uso senza abuso: così possiamo sintetizzare l’emendamento del governo frutto della convergenza tra il lavoro della bravissima e già citata Giulia Bongiorno ma anche del ministro Alfano.\u2028 Il nuovo testo, ora approvato anche in commissione col solo voto contrario dell’Idv, è stato sconfessato o quasi dal presidente del Consiglio che pure sembra rassegnato a “subirlo” come male minore. Ci sembra un errore politico il suo. Il premier rischia di delegittimare il governo e i suoi esponenti più esposti, come il ministro della Giustizia, che invece ha fato un buon lavoro. È un risultato che invece farebbe bene a rivendicare per il suo esecutivo e per tutto il centrodestra. Disconoscerlo in nome degli “snaturamenti” impressi
dal confronto politico e parlamentare o dalla moral suasion, stavolta molto forte, del Presidente della Repubblica, oltre che dalle pressioni di stampa ed opinione pubblica, rivela invece un senso di frustrazione una mal dissimulata difficoltà a comprendere quanto l’esercizio del governo sia differente da quello di un’azienda. \u2028Un deficit psicologico che Berlusconi si trascina immutato dal suo ingresso in politica e gli impedisce di accettare in toto il sistema di check and balance su cui si reggono tutte le democrazie del mondo.
Da parte nostra, se, come sembra certo, la nuova legge sulle intercettazioni non arrecherà alcun attentato né alla Costituzione né ai poteri di indagine della magistratura, né alla sicurezza del cittadino e innesterà invece elementi di tutela della privacy, non possiamo che dichiarare la nostra soddisfazione. Abbiamo difeso, con i mezzi propri della politica, un patrimonio di tutti e il
presidente della Camera ha fatto bene ad esternare il suo compiacimento. Non si tratta di una delle tante “vittorie” che nella dinamica democratica vanno e vengono in un’alternanza di successi e sconfitte.\u2028 Ci siamo abituati. Non è l’epilogo positivo, se ci sarà, il successo più importante della legge. C’è un risultato che supera quello di maggiore evidenza. Ed è che la discussione, incluse le polemiche, che ha attraversato il Paese, Parlamento e lo stesso Pdl, ha trasformato la legalità da valore elitario in valore diffuso. Il viaggio è stato ancora più importante della meta, per usare un’antica metafora. Ci spieghiamo. Abbiamo la netta sensazione che il lungo dibattito sulle intercettazioni abbia fatto fare un salto di qualità alla questione della legalità nel nostro paese. Finora era confinata in una discussione chiusa tra giuristi e poli-
tici, tra giustizialisti e garantisti, o sedicenti tali. E fino a quando gli schieramenti si sono contrapposti e combattuti soprattutto in occasione di leggi che l’opposizione ha bollato come semplici “toppe”per favorire il premier, gli italiani non si sono appassionati alla materia. I sondaggi hanno fotografato indifferenza o scarso interesse. La nuova normativa sugli ascolti è invece fuoruscita dagli ambiti ristretti, tecnici o politici. Grazie anche a un oggettivo interesse del mondo dell’informazione, è entrata nella discussione pubblica ed è diventata un fatto popolare. Se ne parla nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, negli ambienti anche distanti dalla politica ufficiale. La preoccupazione che la nuova disciplina possa danneggiare le esigenze di sicurezza, anche sul fronte della criminalità comune e organizzata, prevale nettamente sul la paura di essere ascoltati e spiati.
Così la legalità da oggetto di discussione per magistrati, inquirenti, avvocati, giornalisti, deputati, è diventata valore di tutti, perché capito da tutti. Co-
me non mai. Si è formato un sentimento popolare della legalità. Forse siamo all’inizio di un’etica pubblica che ha del nuovo. Si lega alla questione morale, ma non è la questione morale. È un’altra cosa. È un sentimento ragionato. Nulla di giacobino.\u2028La gente ha accolto il messaggio: le intercettazioni servono a difendere la sicurezza dello Stato e del cittadino. Gli italiani, compresi quelli che votano per il Popolo della Libertà, hanno capito. Se qualcuno puntava a utilizzare la paura in nome di una distorta dottrina liberale (che è soprattutto rispetto delle regole) ha fatto male i conti. Anche sul piano del consenso. Sono pochi gli italiani che temono che la nuova legge possa violare la loro privacy. A questo punto varare la legge sulle intercettazioni, nella versione “corretta”, adesso o a settembre fa poca differenza. A noi interessa avere speso le nostre energie per il “fattore L”. Che oltre a una giusta causa per la quale è valso e vale la pena battersi, può diventare il fattore che apre una nuova stagione politica. Basta sapere aspettare.
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venze della politica con il malaffare e la malavita? Giammai. Dalle origini dei consorzi civili è in corso una battaglia quotidiana per imporre il rispetto della legalità e per contrastare i processi di corruttela, di abuso di potere, di connivenza. È una battaglia che ciascuno di noi combatte innanzi tutto con se stesso, all’interno della propria coscienza: una battaglia che, nel corso della storia dei popoli e dell’evoluzione dei loro modelli di governo, è stata portata avanti con impegno quotidiano nonostante che a tanti, anche da noi, sia stato richiesto il sacrificio della vita.
CORRUZIONE E GIUSTIZIA
Ma io temo di più la P1 dei giudici Meglio i «tribunali del popolo» di una magistratura che si mette a far politica di Giuliano Cazzola n uomo politico della Prima Repubblica (Rino Formica) che recentemente ha visto riconosciuta la propria estraneità ai fatti imputatigli nel contesto di quella brutta pagina della storia nazionale che è conosciuta col nome di Tangentopoli, era solito affermare che la politica è «sangue e m...a». In altri termini, la cosiddetta questione morale è il lato oscuro della politica fin da quando gli esseri umani hanno iniziato a vivere in comunità organizzate. La corruzione accompagna la politica
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come una sorella siamese, come il male è intimamente connesso al bene. E la classe politica - scriveva un intellettuale del Novecento - è così composta: una parte pari al dieci per cento è quella migliore del Paese, una parte in misura eguale è la peggiore, mentre quella prevalente (l’80 per cento) è assolutamente uguale al Paese. Quindi la classe politica non è un popolo degli eletti e non dà luogo al governo dei migliori. I grandi Paesi democratici non cercano la perfezione, si limitano a controllare quelle imperfezioni
che fanno parte di ogni modello di vivere civile.
Negli Usa l’attività lobbistica è ammessa e riconosciuta e deve svolgersi secondo regole trasparenti e precise. Poiché la politica ha dei costi elevatissimi, nessuno si meraviglia se gli uomini politici ricevono dei finanziamenti dal mondo privato dell’economia e se, in qualche modo, essi, una volta eletti, difendono quegli interessi che hanno assicurato le risorse per la loro campagna elettorale. È una regola non scritta che vale anche per i presidenti della più grande democrazia del pianeta. In Italia, ci sono dei nodi di carattere strutturale che stanno alla base dei fenomeni della corruzione. Non c’è da aspettarsi onestà e trasparenza quando più della metà della ricchezza prodotta dal Paese è intermediata dalla “mano pubblica” e quando l’economia di intere regioni è in balia di organizzazioni criminali. Ciò significa che bisogna arrendersi o che si deve rinunciare a contrastare i fenomeni di corruzione e le conni-
Il presidente Gianfranco Fini ha ragione a sottolineare l’emergere di una nuova questione morale (che altro non è se non il riproporsi di una storia vecchia come il mondo) a cui non dobbiamo assuefarci in alcun modo. E non vi è chi non veda l’esistenza di una questione morale enorme ed aperta anche nel Pdl. Ma non è questo dato di fatto, ad avviso di chi scrive, a rappresentare il caso Italia; non è questa l’anomalia che affligge il Paese. Occorre saper distinguere, infatti, dove finisce l’azione di contrasto alla corruzione e dove comincia l’iniziativa «golpista» di settori della magistratura in comunanza di intenti con un apparato di potere economico, mediatico e culturale che ha un solo obiettivo: impedire ad una coalizione di centro destra, messa in campo da Silvio Berlusconi, di governare. Con ogni mezzo possibile. È questa la vera «P1» al cospetto della quale tutte le camarille di politici e affaristi e di politici-affaristi di cui il Cavaliere si è incautamente contornato somigliano davvero a club di pensionati cavalieri di Vittorio Veneto. Si prenda il caso del presidente della Corte d’Appello di Milano. Che la sua nomina sia diventata un caso addirittura sottoposto a procedi-
mento da un Csm meticolosamente lottizzato, dove tutte le nomine sono frutto di accordi tra le correnti e i relativi sponsor, dipende da una sola circostanza: che il magistrato in parola non fa parte delle coorti che si sono assunte il compito di abbattere il tiranno con ogni mezzo. Anche allontanando quei colleghi che non intendono fare parte della congiura. In tale situazione, chi si trova nel mirino deve fare il possibile per dare il meglio di sè. E il Pdl lascia molto a desiderare a questo proposito.
Guai però a limitarsi a fissare l’albero e non vedere la foresta. La democrazia è un sistema più forte della corruzione, ma è indifesa davanti a un potere irresponsabile che disponendo della libertà e dell’onorabilità dei cittadini è padrone anche della loro vita e della loro morte. Molto meglio i tribunali del popolo che rendono giustizia sommaria con i plotoni di esecuzione piuttosto che un magistrato che usa dei propri poteri soltanto per condurre una lotta politica. È illusorio pensare che vi siano degli strumenti legislativi in grado di porre rimedio ai guasti di una magistratura di parte, in alcuni settori. È come respirare aria avvelenata o bere acqua inquinata. Quando sono gli strumenti essenziali dello stato di diritto a cospirare contro di esso, non esiste via di salvezza. Perché non è immaginabile una dittatura più spietata ed inamovibile.
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Conti. Gli effetti della recessione sono ancora fortissimi. E congelano le prospettive di benessere del paese reale
La crisi non va in vacanza
Censis: gli italiani consumano poco e hanno paura del futuro ROMA. Gli italiani non hanno più fiducia nel domani, per colpa della politica. Nella prima parte del 2010 i consumi delle famiglie sono rimasti fermi perché l’incertezza del futuro condiziona i comportamenti degli italiani: questo emerge dall’Outlook sui consumi Censis-Confcommercio, presentato a Roma con il titolo «Clima di fiducia e aspettative delle famiglie italiane». Nella prima parte del 2010 si è registrata una consistente riduzione della percentuale di persone che guardano al futuro positivamente, dice il Rapporto, e l’indice sintetico del clima di fiducia - ottenuto sintetizzando e ponderando le percentuali di ottimisti e pessimisti e i dati sulle spese effettuate e sulle previsioni di spesa - registra a giugno del 2010 un ulteriore peggioramento (a 19,5), posizionandosi al minimo da gennaio 2009 quando era a 29,3. «Per l’immediato futuro - si legge nel rapporto - non si prevede una robusta ripresa (oltre il 68% del campione manterrà stabili le spese nei prossimi mesi); prevale un clima di cautela che spesso porta a rinviare alcune spese in programma come la ristrutturazione dell’abitazione e l’acquisto di nuovi elettrodomestici». Altro settore in stallo è quello degli svaghi. Le famiglie italiane, per le vacanze estive, hanno scelto quest’anno la sobrietà rispetto alla scorsa estate optando per una riduzione della durata del soggiorno sia in Italia che all’estero. Aumentano solo le vacanze brevi entro i confini nazionali e resta elevata la percentuale di
di Alessandro D’Amato
eliminato il superfluo; una quota del 25% non ha mutato in modo sostanziale il proprio stile di consumo, limitando gli sprechi ma concedendosi anche qualche lusso. Ma anche se la parte più dura della crisi sembra essere passata, gli italiani non riescono a guardare al futuro con serenità, perché continua a vedere irrisolti i nodi e i problemi già evidenziati. Rispetto ai «principali problemi per la ripresa economica dell’Italia», ben il 34,4% delle
Secondo Federalberghi, addirittura il 46,3% della popolazione resterà a casa senza fare ferie. Quasi sempre la ragione è che non ci sono soldi chi non farà nessuna vacanza (58%), aggiunge il documento. Il contesto generale di incertezza «si riverbera negativamente sul clima di fiducia delle famiglie determinando un ulteriore deterioramento del relativo indice sintetico, che raggiunge il minimo da gennaio 2009». In particolare, spiega CensisConfcommercio, presso i consumatori è possibile individuare tre segmenti: quasi un quarto delle famiglie a causa della crisi ha dovuto rinunciare all’essenziale; una buona metà ha razionalizzato le spese ed
famiglie parla di una ”classe politica litigiosa” e dunque poco focalizzata sul tentativo di risolvere i problemi strutturali del Paese, quasi il 30% ritiene che un ostacolo alla ripresa sia l’elevata disoccupazione e il 26% segnala la diffusa presenza di corruzione.
A seguire, tra i fattori indicati, l’eccessiva presenza di immigrati (17,7%), giovani poco tutelati (17,3%), troppi evasori fiscali (16,9), tasse troppo alte (16,8), forte disparità tra ricchi e poveri (12,2) e, in ultima posi-
Da domani si attenua l’ondata di caldo
Arrivano le piogge ROMA. Da domani si torna finalmente a respirare: dopo il picco dell’afa, previsto per oggi con 20 città a rischio, 5 a livello di “allerta 3”e 15 a livello di “allerta 2” e temperature che, al centro-sud, toccheranno i 40 gradi. Domani, però saranno solo 3 le città a soffrire il caldo, tutte e tre in Sicilia: Catania con il record di 40 gradi, Palermo con 36, mentre Messina è a rischio ondate di calore con 39 gradi. Un abbassamento delle temperature dovrebbe arrivare invece nel fine settimana, prima nel nord da domani e anche al sud da domenica. Precipitazioni sparse, a carattere di rovescio e temporale, ci sono già state su Liguria,Valle d`Aosta, Piemonte e parte della Lombardia; ma anche su Trentino Alto Adige e settori alpini di Veneto e Friuli, con quantitativi deboli o moderati. La piog-
gia, però, non ha portato variazioni significative delle temperature. Per oggi si prevedono precipitazioni da sparse a diffuse, a carattere di rovescio o temporale anche di forte intensità su tutti i settori alpini e prealpini, sulle pianure centro-orientali, su Liguria di Levante e sull`Appennino toscoemiliano, con quantitativi moderati specie sui rilievi. Precipitazioni da isolate a sparse, anche a carattere di rovescio o temporale sulle restanti zone del nord, con quantitativi generalmente deboli.Venti tendenti a forti si intensificheranno in tarda serata su Sardegna e settori tirrenici centro-settentrionali. Molto mossi il Mar Ligure, il Mar di Sardegna e il Tirreno centro-settentrionale. Temperature in lieve rialzo nei valori massimi al centro-sud e con valori superiori alle medie del periodo.
zione, scuola e università mal funzionanti (7,1). «I dati disponibili - sottolinea Confcommercio - devono essere considerati con una certa cautela: la tendenza attuale al pessimismo dovrebbe essere considerata come una fase passeggera, determinata dal fatto che la ripresa economica tarda a manifestarsi; infatti, già nelle ultime settimane di giugno 2010 alcuni segnali positivi si sono manifestati e il sistema produttivo sembra rimettersi in marcia, innescando, forse, un ciclo migliore di quello registrato negli ultimi mesi». Forse l’ottimismo sta per tornare, insomma. Però intanto aumentano gli italiani che quest’anno non andranno in vacanza. Secondo i dati di Federalberghi il 46,3% delle popolazione resterà a casa, un risultato in crescita rispetto al 43,8% dell’estate scorsa. I motivi sono legati nel 54,9% dei casi a fattori economici, mentre la mancanza di soldi vera e propria è indicata come causa dal 46,8% di quanti quest’anno non faranno le valigie. Andrà in vacanza, invece, il 51,3% degli italiani, un numero in linea con il 51,2% del 2009. Gli indecisi a metà luglio sono solo il 2,4%, rispetto al 5% del 2009. Nella maggior parte dei casi gli italiani andranno al mare, mentre la spesa media stimata per la vacanza estiva cresce del 20% a 853 euro rispetto ai 710 dell’anno scorso.
«Si accresce purtroppo - commenta il presidente di Federalberghi, Bernabò Bocca - il solco tra chi può permettersi un periodo di vacanza estiva e chi no e seppure il giro d’affari si accresca del 20% esso è semplicemente dovuto da un lato alla fiammata inflazionistica di tutto ciò che consente la movimentazione turistica e dall’altro all’incremento (da 10 a 12) dei giorni di permanenza fuori casa». Ben un italiano su quattro non fa vacanza per mancanza di soldi, sancendo la nascita di una nuova malattia del nostro sistema economico, definibile sinteticamente come povertà turistica. Il risultato è una stagnazione complessiva del movimento turistico estivo degli italiani che non si discosta dai numeri dell’estate 2009, se non solo nell’entità della spesa e per l’incremento del 20% determinato dall’incremento delle notti (da 10 a 12).
diario
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Sei arresti per irregolarità negli appalti in Abruzzo
Sì all’emendamento che rende pubblicabili le conversazioni
La camorra voleva “ricostruire” L’Aquila
Intercettazioni, Pd e Udc votano con il governo
NAPOLI. La camorra tentava di
ROMA. La Commissione giustizia della Camera ha approvato l’emendamento presentato dal governo al ddl intercettazioni. La modifica, che introduce lo strumento della «udienza-filtro» per valutare la «rilevanza» e dunque la pubblicabilità delle intercettazioni ai fini delle indagini (una modifica fortemente voluta dai finiani e giudicata da Berlusconi tanto nefasta da annullare l’effetto della “leggebavaglio”) è passata anche con i voti favorevoli dell’Udc e del Pd, mentre l’Italia dei Valori ha votato contro. La commissione, comunque, ha votato anche un emendamento (sempre del Pdl ma sottoscritto anche dalla Lega) che introduce la proroga di 15 giorni in 15 giorni per le in-
infiltrarsi negli appalti per la ricostruzione dopo il terremoto dell’Aquila. È questo il quadro emerso da un’azione della Guardia di Finanza contro i Casalesi, che ha portato all’arresto di 6 persone. Gli arrestati, secondo gli uomini del Gico, il gruppo di intervento delle Fiamme Gialle, sono considerati «espressioni economiche» del clan che abitualmente opera nel Casertano, ma che ha propaggini anche in altre Regioni d’Italia ed in particolare nel Lazio, in Abruzzo e in Toscana. L’operazione, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli, ha impegnato 500 militari e, oltre ai sei arresti per associazione a delinquere di stampo mafioso, ha portato al sequestro di 21 società, 118 immobili ed altri beni e valori per un valore complessivo di 100 milioni di euro. Questa indagine ha consentito di monitorare «in diretta» le infiltrazioni della camorra casalese nelle commesse per la ricostruzione della città di L’Aquila, a seguito del sisma del 6 aprile 2009. Infatti sono stati intercettati i colloqui telefonici
con i quali gli arrestati disponevano l’invio del denaro necessario a finanziare le imprese costituite a L’Aquila, per loro conto, con il fine di aggiudicarsi i lavori per la ricostruzione.
«Le imprese coinvolte in questo sistema stanno lavorando. Non sappiamo in che misura, ma sono tutt’ora operative», ha spiegato il coordinatore della Direzione distrettuale antimafia di Napoli Federico Cafiero de Raho. Che ha aggiunto: «Tra i contatti tra Michele Gallo, uno degli arrestati, e il presidente dell’Unione cooperative aquilane Antonio Cerasoli, indagato c’è un buco’investigativo che sarà oggetto di uno sviluppo successivo. Solo dopo l’esecuzione delle misure cautelari oggi, potremo accertare in che misura le imprese coinvolte siano infiltrate nel sistema degli appalti».
Sky sul digitale? Deciderà Berlusconi L’ultima parola spetterà al «ministro ad interim» di Marco Palombi
ROMA. Le intercettazioni, i finiani, le inchieste su Verdini e la P3, le manovre di Tremonti e le marchette per Bossi.Tutta roba importante, per carità, che sicuramente toglie serenità al traballante Silvio Berlusconi, ma niente a paragone con la determinazione con cui il nostro difende il giardino di casa, vale a dire le aziende di famiglia. Di recente, tanto per dire, ha provveduto a far approvare alla sua maggioranza – finiani compresi, evidentemente – un bel comma che rimette in discussione i 750 milioni che secondo il giudice di primo grado (Mesiano, quello che - a stare alle tv del premier - aveva la colpa di portare i calzini azzurri) la Mondadori guidata da Marina B. deve alla Cir di Carlo De Benedetti a risarcimento del fatto che alcuni amici del babbo fecero in modo di comprarsi la sentenza sul noto “Lodo”. Sistemata questa, però, il nostro non s’è potuto rilassare neanche un po’: l’altroieri, infatti, la Commissione europea ha dato il via libera all’entrata di Sky nel mercato del digitale terrestre italiano. Il broadcasting dello squalo Murdoch, dunque, potrà partecipare all’asta per i cinque multiplex digitali che verrà indetta a settembre con due sole limitazioni: potrà acquisire un solo canale e dovrà trasmettere “in chiaro” per cinque anni. Una scelta che il viceministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, ha definito a nome, si presume, del governo italiano “grave e ingiustificata”, Mediaset ha invece fatto ricorso alla Corte di giustizia dell’Ue. Il diretto superiore di Romani, invece, il ministro dello Sviluppo economico, niente, nemmeno una parola. Strano se si pensa che sarà lui a dover gestire politicamente l’asta per il digitale. È vero, si è insediato da meno di tre mesi, ma è un uomo che conosce come le sue tasche il mondo della tv. Come si chiama? Silvio Berlusconi, titolare ad interim.
re la speciale commissione che attribuisce i punteggi alle domande arrivate stabilendo, cioè, chi ha vinto. «Il conflitto d’interessi di Berlusconi avvelena la democrazia italiana», sostiene il senatore democratico Luigi Zanda: «Lo invitiamo a lasciare al più presto l’interim e, nel frattempo, chiediamo formalmente all’Autorità sulle comunicazioni di rivedere lo schema di regolamento della gara, pubblicato un anno fa quando nessuna persona sensata avrebbe mai pensato che il principale azionista di Mediaset avrebbe amplificato in modo esponenziale il suo conflitto di interessi». Si dirà: siamo tra gentiluomini, figurarsi se il presidente del Consiglio si mette a brigare per evitare che Sky Italia acquisisca spazio nel digitale terrestre, l’orto meraviglioso su cui Pier Silvio ha puntato tutte le sue speranze di sviluppo. Intanto - si sa perché l’ha detto un esperto - a pensar male si fa peccato eccetera, ma anche andando a memoria non c’è da stare tranquilli. A gennaio 2009, quando Fiorello stava per passare a Sky, il Cavaliere lo convocò a palazzo Grazioli: «Mi ha detto: Che fai? Passi al nemico?», raccontò quello uscendo. Non si occupa solo di fare casting, però, il nostro presidente del Consiglio: circa un anno prima del caso Fiorello, il governo aveva pensato bene di raddoppiare l’Iva alle tv a pagamento. Un provvedimento che, al contrario di quanto sostenuto dallo stesso premier, incideva su Mediaset in maniera solo marginale: sulle schede ricaricabili l’imposta era già al 20%. Si tace della legge Gasparri, ormai antica, ma insomma la sfiducia circola, tanto che il portavoce del commissario alla Concorrenza ha chiarito: «Continueremo a controllare» anche per vedere se la procedura sarà «pienamente compatibile con le norme comunitarie». Quanto all’Agcom aspettano e sperano: «La gara la indice il ministro», ha spiegato il presidente Calabrò: «Valuteremo in Consiglio i riflessi sul regolamento di questa decisione europea». Il duopolio traballa e con lui gli introiti pubblicitari, altro che Bocchino o Granata.
Toccherà allo Sviluppo economico disciplinare la gara e nominarne la speciale commissione di valutazione
Il regolamento per le nuove frequenze attribuisce al ministero del Cavaliere i seguenti compiti: indire e disciplinare la gara, deciderne i tempi, le scadenze e, dulcis in fundo, nomina-
tercettazioni telefoniche: fin qui il termine era di 3 giorni in 3 giorni. «Abbiamo votato a favore dell’emendamento del governo perché grazie alle nostre correzioni viene risolto il problema della pubblicabilità ed eliminato il black out totale»: così la capogruppo del Pd in Commissione giustizia Donatella Ferranti ha spiegato il voto favorevole dei democratici all’emendamento del governo. «Alla ripresa dei lavori - ha detto ancora Ferranti - continueremo a votare gli altri emendamenti, il Pd si concentrerà su quelle parti del provvedimento che ostacolano le indagini. Auspichiamo che anche la maggioranza voti le nostre».
Duro, viceversa, il commento del leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro che ha definito il ddl intercettazioni un «provvedimento criminogeno». «La sua approvazione è necessaria per assicurare l’impunità a coloro che hanno commesso dei reati e non vogliono rispondere alla giustizia, anche alla luce di quanto sta emergendo dalle inchieste di questi giorni e delle scorse settimane – ha spiegato Di Pietro -. Per questo, ancora una volta, denunciamo la volontà del governo di voler bloccare le indagini».
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grandangolo La questione meridionale e quella nazionale
Spezzatino Italia. Ormai tutto il Paese è Sud La ragione dell’arretratezza del Mezzogiorno è sempre stata l’abitudine di pensare solo alle soluzioni immediate senza prospettive sul lungo termine. Questo è diventato il vizio dell’intera nazione: le comunità parcellizzate sanno vedere solo le proprie urgenze senza inserirle in un disegno politico, sociale o economico complessivo di Roberto Occhiuto uando all’Università lessi Edward Banfield, nel suo Le basi morali di una società arretrata, trovai l’analisi sul familismo amorale illuminante per rintracciare i germi della malattia del sottosviluppo nella società meridionale. D’altra parte, il sociologo americano aveva studiato proprio una comunità del Mezzogiorno, individuandone come tratto distintivo - e, al tempo stesso, come causa della sua arretratezza - la tendenza a considerare solo i benefici di breve periodo e soltanto per i componenti della propria comunità d’appartenenza.
Q
Da allora ho sempre ritenuto che il motivo prevalente per il quale il Sud non si era sviluppato, si dovesse ricercare soprattutto nella sua incapacità di guardare oltre e di pensare alle conseguenze delle sue scelte in una dimensione più vasta e di prospettiva, che riguardasse anche l’avvenire degli altri territori e delle generazioni future del Mezzogiorno. Certo, era evidente che per il ritardo di sviluppo del Sud ci fossero anche altre ragioni di carattere storico e politico, come le scelte sbagliate dei gruppi dirigenti nazionali o locali; ma ritenevo che pesasse sicuramente di più il limite culturale di una società senza fi-
ducia nello Stato e nelle sue istituzioni, che in alcune realtà considerava naturale, invece, addirittura, il governo delle mafie. Che non aveva un’idea di futuro e che pensava più al presente che al carico di problemi che avrebbe trasferito ai propri figli. Quindi, era per colpa dell’irresponsabilità dei politici meridionali e della loro complicità con i propri
Edward Banfield è stato il primo ad analizzare il rapporto tra famiglia e involuzione sociale al Sud clientes afflitti dal bisogno, se nel Sud l’amministrazione pubblica era stata considerata come un ammortizzatore sociale, per produrre lavoro precario in cambio di voti, e non come l’organizzazione utile a trasformare il denaro di tutti in servizi per la collettività. Ancora,
era a causa del prevalere degli interessi particolari su quelli generali se la spesa pubblica locale, viziata da troppi campanilismi e sprechi, non generava sviluppo, ma, invece, solo debito pubblico e alibi per azzerarla da lasciare in eredità alle generazioni che sarebbero venute.
Oggi non studio più all’Università, sono in Parlamento e leggo Banfield in un altro modo. Oggi mi pare che quegli stessi tratti degenerativi della società meridionale appartengano sempre di più, e pericolosamente, all’intero Paese, che non ha più una visione del proprio futuro, e sembra invece solo l’insieme di diversi egoismi territoriali e sociali tendenti a massimizzare unicamente vantaggi materiali, immediati e parziali. Per questo cresce la Lega o, specularmente, il desiderio di un partito del Sud. Oggi mi sembra che quell’ethos comunitario che è mancato alla società meridionale negli anni, e la cui assenza è stata la causa prevalente della sua arretratezza, stia svanendo anche nel resto del Paese. Lo dimostrano le fratture tra Nord e Sud, tra Regioni e Governo nazionale, tra pezzi delle Istituzioni in guerra perenne fra loro, tra poteri dello Stato. Lo rendono evidente i conflitti sociali, che con la crisi si acuiscono sempre più.
Inoltre, il Paese sembra abbia smesso di pensare a ciò che sarà nel futuro, così come ha fatto finora il Sud. Per questo non trova il coraggio di realizzare le riforme necessarie, di investire, nella scuola e nella formazione, nell’innovazione. Se trovasse questo coraggio, se volesse riformarsi, risolverebbe anche gran parte dei problemi del Mezzogiorno. Di queste riforme si gioverebbe soprattutto il Sud, ed anche il Nord sarebbe nel suo complesso molto più competitivo. Infatti, quasi tutti i problemi del Mezzogiorno sono gli stessi che affliggono anche il resto dell’Italia, ma cento volte più gravi.
Per esempio: il nostro Paese non è sufficientemente competitivo, ha una dotazione infrastrutturale mediamente inferiore a quella degli altri paesi europei, non attrae investimenti stranieri (solo il 6% del totale degli investimenti), ha necessità di riformare la burocrazia, l’università, il sistema della formazione, di accorciare i tempi della giustizia civile, non valorizza a sufficienza il merito. Il Mezzogiorno è ancor meno competitivo, ha un deficit d’infrastrutture molto più grave, è ancor meno attraente per gli investimenti esteri (solo lo 0,6%), ha un livello d’intermediazione politica e buro-
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Non si ferma la battaglia: anche i Comuni se la prendono con il governo
Le Regioni attaccano ancora la manovra. Ma Tremonti non ci crede: «Verranno a trattare» di Francesco Pacifico
ROMA. Neppure di fronte all’ultimo passo avanti nel processo federale – l’avvio dei costi standard per i Comuni e le Province – centro e periferia dello Stato evitano di litigare. «Noi preferiamo i campanili, mentre i governatori sono saliti troppo in alto sui grattacieli», ha accusato di Giulio Tremonti, con un malizioso riferimento alle nuove sedi delle regioni Lombardia, Piemonte e Puglia. «Noi siamo con i piedi piantati per terra», la replica dell’emiliano Vasco Errani.
cratica molto più soffocante, un sistema universitario e della ricerca insufficiente, tempi della giustizia ancora più lunghi, percorsi di mobilità sociale e di selezione quasi impermeabili al merito. Dunque, riformando davvero il Paese si apre la strada per lo sviluppo anche del Mezzogiorno. Così come soltanto sviluppando il Sud può migliorare il Paese. Non vi è, infatti, alcuna possibilità che l’economia italiana possa crescere e competere in Europa se ventuno milioni di persone residenti nel Mezzogiorno d’Italia restano fuori da questo processo.
È indispensabile che il rilancio avvenga nel quadro di una lotta alle mafie e ai comportamenti che le favoriscono Bisognerebbe, poi, mentre si fanno le riforme, avere anche il coraggio di puntare con decisione ad alcune scelte di politica economica e di sviluppo per il Sud. In particolare, si dovrebbe chiedere al Governo e alle Regioni del Sud: 1. di scambiare i contributi a fondo perduto (che costano circa 5/6 MLD di euro l’anno, e che si disperdono in mille rivoli) con l’istituzione di una Low Tax Area, applicando per sei anni un’aliquota di tassazione per le società del 12,5% (costerebbe circa 2mld l’anno); 2. di istituire un’agenzia per l’attrazione degli investimenti dal Mediterraneo (potrebbe essere anche la Banca del Mezzogiorno, della quale non si sente più parlare!), per fare del Sud la piattaforma logistica
del Mediterraneo; 3. un Piano straordinario per il Turismo riprogrammando in obiettivi strategici le risorse regionali, perché non è possibile che il Sud non riesca a intercettare una parte significativa dei turisti che si recano in Italia, nonostante abbia un terzo dei siti Unesco del nostro Paese e sebbene le regioni meridionali investano (male) ogni anno circa 700 milioni nel loro (mancato) sviluppo turistico; 4. una Riforma della Formazione Professionale, che nonostante l’enorme quantità di fondi europei utilizzati non produce alcun posto di lavoro. Per orientarla al potenziamento del sistema dei voucher per i giovani e per le imprese, e affinché i lavoratori si formino nelle imprese più che nelle aule degli enti di formazione; 5. di sottoporre la spesa pubblica regionale a un sistema di controlli sulla qualità e sulla sostenibilità, perché nel corso degli anni alla devoluzione dei poteri ha corrisposto purtroppo un graduale smantellamento dei controlli sull’attività amministrativa, con effetti devastanti sui bilanci locali e sulla dimensione degli sprechi.
Sarebbe necessario, dunque, chiedere al Mezzogiorno e al Governo nazionale una decisa inversione di rotta. Dentro uno scenario in cui, naturalmente, la lotta alle mafie e ai poteri illegali non conosca sosta né ostacoli. Ma soprattutto bisognerebbe, prima di ogni altra cosa, sperare che il Paese smettesse di girare le spalle al suo avvenire, anzi nutrisse, con cura e dedizione, il desiderio di futuro in ogni sua espressione. Perché, se l’Italia sacrificasse ai piccoli egoismi ed ai particolarismi territoriali la sua storia e i valori di fondo, che l’hanno resa una delle nazioni più importanti dell’Occidente, non solo il Mezzogiorno, ma tutto il Paese sarebbe condannato ad una pericolosa involuzione. Proprio com’è accaduto per le comunità meridionali, descritte da Banfield cinquanta anni fa e che somigliano così tanto al Paese di oggi.
I tagli destinati dalla manovra agli enti locali, dieci miliardi nel prossimo biennio, sono invariati. Sul federalismo fiscale – costi della sanità e tributi da devolvere – il Tesoro e la Copaff non lavorano con le Regioni. Ma per capire la tensione tra esecutivo e enti locali, altro che le scaramucce dialettiche tra Tremonti e Errani, è emblematico quanto successo ieri durante la Conferenza unificata. In programma c’era il parere degli enti sulla Finanziaria. Ma accanto al no scontato, seppure con argomentazioni diverse, di sindaci, presidenti di Provincia e di Regione, l’attenzione di tutti è stata conquistata dall’attacco riservato da Errani al titolare della Semplificazione, Roberto Calderoli: «State facendo quattro tavoli diversi sul federalismo. Dobbiamo trattare tutti assieme, noi, l’Anci e l’Upi. Invece alle Regioni la palla l’avete tolta». Gelida la risposta del ministro: «Con Comuni e Province c’è stato accordo perché si sono seduti ai tavoli di confronto». «Ma voi non ci avete neppure invitato», la controreplica. Ma i rapporti sono tesi anche con i Comuni. Ieri il governo, con un decreto ad hoc, ha dato mandato alla Sose e all’Ifel di inviare dei questionari a sindaci e presidenti di provincia per capire le loro necessità finanziarie. In base a questo materiale si delinearanno i costi standard per le prestazioni, partendo da quelle effettuate dagli enti più virtuosi. Dal 2011 al 2016, poi, questi Comuni e Province dovranno rimodulare progressivamente i loro bilanci e fabbisogni fondamentali secondo i nuovi principi contabili. Per quella data la speranza, dice Calderoli, «è interrompere quel vizio del nostro Paese
che aveva trasferito risorse non in base alle effettive esigenze ma sulla base della spesa storica: chi più spende, e male, più riceve». I Comuni hanno concordato lo schema del decreto con il governo. Ma anche su questo fronte si registrano tensioni dopo che le indiscrezioni pubblicate dal Corriere sui dubbi di Berlusconi in relazione all’Imu, l’imposta municipale unificata che dovrebbe rimettere in periferia qualcosa come 4 miliardi e mettere ordine in un caos formato da 24 balzelli. Tremonti ha confermato per la fine del mese la presentazione del decreto sull’autonomia fiscale dei comuni e replicato che «il premier è a conoscenza del lavoro che stiamo facendo. In ogni caso saranno i sindaci a decidere se unificare le tasse, ma non tornerà l’Ici sulla prima casa». Quindi ha sottolineato che va avanti il lavoro con l’Anci: «Abbiamo anche pensato di forfettizzare i trasferimenti per i piccoli comuni, visto che hanno pochi immobili». Non è della stessa idea Sergio Chiamparino: «Ben venga che il governo confermi i tempi del decreto. Ma le riunioni al Tesoro sono state a dir poco interlocutorie».
Calderoli però è sicuro che «alla fine dell’estate saranno approvati tutti i decreti sul federalismo fiscale». Ma a un anno dalla scadenza della delega è ancora molto il lavoro da fare. Vuoi perché i ministeri competenti faticano a raccogliere i dati dalle Regioni sui fabbisogni sulla sanità. «Passeremo tutto agosto a occuparci della cosa, perché c’è molto da discutere», ha ammesso Tremonti. Vuoi perché il governo sul tema è diviso. Nel giro di poche ore prima Tremonti ha dichiarato che «le Regioni tratteranno». Quindi Calderoli ha spiegato che «tutti i livelli di governo vedono ora il federalismo fiscale come una soluzione alla manovra». Poi è toccato a Raffaele Fitto, titolare degli Affari regionali, proporre «un tavolo tra esecutivo e governatori per capire dove fare i tagli». Va da sé che gli enti potranno approfittare di queste divisioni soltanto marciando assieme e ottenendo un unico tavolo di trattative.
politica
pagina 10 • 23 luglio 2010
Il governatore pugliese Nichi Vendola ha preso in contropiede l’intero Pd, non solo candidandosi alla guida del centrosinistra per le prossime elezioni, ma anche schierando i suoi candidati per le comunali di Milano e Napoli, ossia Giuliano Pisapia e Luigi De Magistris. Sotto, i «competitori mancati» del Pd: Bersani, Letta, Renzi e Zingaretti
ROMA. Ci sta che il Pd abbia scelto di rispondere all’intraprendenza di Vendola con sufficienza: d’altronde è già accaduto, pochi mesi fa, alle primarie pugliesi per scegliere il candidato presidente regionale. Dopo aver invocato larghe intese, oggi il vertice del Nazareno si nasconde dietro affermazioni risolute che negano la possibilità che il governo cada domani (e dunque che ci siano larghe intese), allo scopo di motivare l’intempestività dell’uscita di Vendola. La candidatura del poeta-politico a leader del centrosinistra - che segue i romanzieri-politici alla Veltroni e alla Franceschini - non è però stata tarata sulle difficoltà della maggioranza di governo; e qui sta l’errore (classico) di sottovalutazione dei suoi avversari che il Pd puntualmente compie. Vendola ha avanzato la sua candidatura contro l’assenza di iniziativa politica dei democratici, simboleggiata nell’assenza fisica del loro capo impegnato in un imperscrutabile viaggio in America, durante i giorni più caldi della politica italiana. Mentre Bersani passeggiava per l’Upper East Side di Manhattan, Vendola ha deciso di prendere il toro per le corna, denunciando la mancanza di altri matador.
È una strategia politica intelligente, che già da mesi conosce una sua sperimentazione nei grandi comuni che vanno tra pochi mesi al voto. A Milano è già in campo il candidato vendoliano per le primarie del centrosinistra, l’avvocato Giuliano Pisapia, vicinissimo in passato a Bertinotti. Stessa storia a Napoli, dove Luigi De Magistris, in polemica con Di Pietro e in accordo col presidente pugliese, si è ufficiosamente candidato per il dopo Iervolino. E il Pd, meneghino e partenopeo, presi alla sprovvista hanno deciso di rimandarsi a settembre per verificare come contrastare i due balzi in avanti. Il Pd va a Milano e Napoli a rimorchio degli alleati minori, che cinicamente stanno invece a guardare in città come Torino e Bologna, dove la vittoria del centrosinistra è sicura e non conviene creare problemi all’alleato maggiore. Il Pd, partito inventore delle primarie, è costretto a rincorrere sul proprio terreno, subendo candidature esterne. È lo schema, più moderato, dell’elezione regionale laziale, in cui Pannella piazzò la candidatura Bonino nell’ammorbante afasia del Pd laziale. Lo schema Vendola, sperimen-
L’analisi. L’autocandidatura del governatore ha spiazzato il Pd
Tutti contro Vendola (e nessuno glielo dice) Bersani, Letta, Renzi, Zingaretti, Chiamparino: ecco perché non vogliono opporsi a Nichi di Antonio Funiciello tato a Milano e Napoli, tiene al palo i vertici nazionali del Pd. Ma all’iniziale sufficienza con cui Bersani e gli altri hanno reagito all’uscita del presidente della Puglia, comincia a seguire una preoccupazione seria per chi potrebbe contrastare in un’elezione primaria il presidente pugliese. Bersani è l’indiziato numero uno. Anzitutto perché ha già detto esplicitamente che il candidato vuol farlo lui e tutto il partito gli è andato dietro. Quindi, in virtù di quanto sancisce lo statuto del Pd, che prevede la coincidenza tra leadership del partito e candidatura alla premiership per la coalizione. Tuttavia nel Pd sono in tanti a pensare che Bersani non sia l’uomo giusto e rischi seriamente di perdere le primarie
contro Vendola. Il timore è che accada quanto è avvenuto per le primarie pugliesi, in cui pezzi importanti del partito - sia da parte diessina, sia da parte popolare - non hanno seguito l’indicazione di Roma, sostenendo invece Vendola. Un timore confermato da iniziative come quella di Goffredo Bettini di martedì, in cui l’ex braccio sinistro di Veltroni ha disegnato con Fausto Bertinotti e Leoluca Or-
pre sostenitori dell’allievo di Beniamino Andreatta. Ma anche su Letta le perplessità, dentro e fuori il Nazareno, montano. Francesco Boccia, il deputato mandato al massacro nelle primarie pugliesi dal partito, è un esponente lettiano, molto simile al capo corrente romano. Ripetere l’operazione su scala nazionale appare così parecchio azzardato, visto che quel profilo di tecnico prestato alla politica che Letta incarna, è stato già tragicamente provato contro Vendola su scala regionale in Puglia. In più Letta è inviso al grosso dell’elettorato di sinistra del Pd, ad esempio per le sue posizioni sulle questione etiche, che potrebbe così confluire compatto sul laicista Vendola.
Il leader pugliese ha già mandato in campo i suoi candidati sindaci per Milano e Napoli: Pisapia e De Magistris sono già in vantaggio per le primarie lando in confini di un nuovo Pd.
Enrico Letta è l’altro nome forte per la corsa alla candidatura a premier del centrosinistra. Ne è convinto soprattutto D’Alema, che ritiene indispensabile schierare un nome moderato che sappia costruire l’alleanza con l’Udc e garantire che il baricentro della coalizione non sia troppo spostato a sinistra. Vicini al vice segretario democratico anche alcuni settori influenti della finanza e della grande industria, da sem-
Altri nomi sono gettati nella mischia, ma solo per aumentare la confusione. Non esiste la possibilità concreta di candidature Renzi o Zingaretti. Per la semplice ragione che i due sono convinti dell’inevitabile sconfitta del centrosinistra alle prossime elezioni (quando sarà) e non intendono punto intestarsela. Nel 2013 (o prima) Renzi sarà ancora impegnato nel primo mandato sindacale a Firenze e Zingaretti punterà a conquistare il Campidoglio. Solo dopo l’ennesima sconfitta della vecchia guardia, i due intendono porsi seriamente in competizione (o in partnership) per la leadership del centrosinistra. L’unica vera insidia a Bersani e Letta potrebbe venire dal Nord. Tra pochi mesi l’indiano Sergio Chiamparino sarà disoccupato e potrebbe decidere di assaltare il fortino del Nazareno. Bersani e Letta (uniti nell’avversione al sindaco di Torino) sperano che il Piemonte torni al voto, per sistemare Chiamparino alla guida del centrosinistra contro Cota. Se il Tar piemontese non dovesse dare una mano ai vertici del Nazareno, si aprirebbe l’unica vera insidia per le ambizioni di Bersani e Letta. Chiamparino è amato da quello zoccolo duro di sinistra che non gli preferirebbe Vendola, stimato dalla quella stessa grande industria a cui ammicca Letta e, in più, ha un’immagine vincente che accattiva le simpatie fuori dal Pd. Se si aggiunge che ha un ottimo con rapporto Prodi, Veltroni e Casini, si finisce per chiudere un cerchio perfetto.
il dossier
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Dal Ciad all’Uganda, dall’Eritrea alla Nigeria, dal Darfur alla Somalia: la mappa delle “guerre dimenticate” dal mondo
C’era una volta l’Africa Passata la festa, gabbato lo santo. Cioè: spenti i riflettori dei Mondiali, nessuno parla più delle tragedie di un continente che, invece, continua a essere martoriato da aspri conflitti militari e da acuti problemi sociali di Maurizio Stefanini segue dalla prima La Ciquery-Vidrovitch era partita appunto dalla confutazione di alcuni tentativi di applicare il concetto di modo di produzione asiatico alla storia africana fatti in particolare da Jean Suret-Canale, mentre Maurice Godelier aveva distinto un modo di produzione asiatico con grandi opere tipico dell’Asia da un modo di produzione asiatico senza grandi opere tipico dell’Africa. Secondo lei, piuttosto, il modo di produzione africano era caratterizzato dalla coesistenza tra un’economia di sussistenza decentrata a livello di villaggi, in comunità patriarcali; con un importante commercio internazionale e anche intercontinentale in cui invece si manifesta la presenza degli Stati. Stati, però, che possono interagire con le comunità locali anche a livello di conquista militare. Insomma, il sovrano, che fa lavorare le sue donne e i suoi servi domestici, non possiede i mezzi di produzione come nel modo di produzio-
ne asiatico, ma si appropria della ricchezza attraverso il commercio o la razzia. Il che permetterebbe anche di intravedere il rapporto che si crea col colonialismo, in cui le Potenze colonizzatrici si affiancano al sovrano (ipotesi del protettorato) o lo sostituiscono addirittura (ipotesi della colonia). Ma nel post-colonialismo, questa centralità del commercio con l’estero e della razzia come strumento di accumulazione torna in mano a moderni “sovrani” locali: partiti unici, dittatori, ma anche leader democratici eletti in competizioni dove la clientela e l’appartenenza etnica sono più importanti di classi, interessi o ideologie. Oppure, signori della guerra che la razzia non la praticano solo come metafora sull’appropriazione della ricchezza pubblica, ma nel senso più proprio del termine. D’altra parte, in regimi autoritari o di democrazia bloccata da clientele o appartenenza etnica, sono il golpe o la guerriglia il modo più diretto per effettuare un ricambio al
potere. Come ha poi ricordato Dambisa Moyo nel suo recente best-seller La carità che uccide - Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo, anche la cooperazione allo sviluppo e la solidarietà internazionale finiscono per alimentare il bottino da contendere e razziare. Naturalmente, sono tutte tesi che meriterebbero ulteriori approfondimenti. Ma per introdurre il problema dei conflitti che continuano a sconvolgere l’Africa la categoria del modo di produzione africano basato sulla razzia e della sua interrelazione con l’eredità coloniale è probabilmente più feconda delle altre due tesi principali che sono state avanzate. L’una, derivata proprio dalle vicende immediatamente successive alla decolonizzazione in Paesi come il Congo ex-Belga, insisteva in particolare sul carattere “artificiale” degli Stati post-coloniali. Le cui frontiere, fissate a tavolino nel XIX secolo dalle cancellerie europee sulla base dell’equilibrio e della conquista sul campo, avevano
finito per mettere assieme etnie diversissime, e destinate fatalmente a scontrarsi.
Nell’impossibilità tecnica di revisionare la carta ereditata dalla colonizzazione per far coincidere le frontiere con le etnie, i Paesi post-coloniali si erano accordati per congelare ogni irredentismo. Ma a livello interno una conseguenza era che i partiti finivano nella maggior parte dei casi per coincidere con etnie o alleanze di etnie. In qualche caso c’erano anche altri cleavage: in Kenya, ad esempio, la distinzione tra Congresso del Popolo e Partito Democratico corrispondeva a quello protestanti-cattolici, mentre in Sudan i partiti del Nord si appoggiavano alle principali confraternite islamiche. Sempre, comunque, l’identità prendeva il sopravvento, rispetto a interessi, classi e/o ideologie. Per questo negli anni ’60, ’70 e ’80 in Africa imperò il partito unico, come strumento di unificazione nazionale.
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Ma nella pratica piuttosto che assicurare l’integrazione tra le etnie, il partito unico fu strumento del dominio di una etnia sulle altre. Nel 1974 il presidente senegalese Léopold Sédar Senghor ebbe l’idea di pilotare un pluriparitismo ideologico attraverso l’autorizzazione a tre partiti «socialista, liberale e marxista-leninista»: una trovata peraltro motivata essenzialmente dalla voglia di farsi ammettere in un’Internazionale Socialista che non accettava i partiti unici, e che non ebbe sul momento troppi imitatori. Ma il pluripartitismo dilagò invece dopo il 1989, anche per effetto di una serie di rivoluzioni ispirate direttamente all’esempio dell’Est europeo, visto attraverso le televisioni. Con esiti alterni, visto che anch’esso ha finito per combinarsi al modo africano di produzione dell’appro-
miliardo di musulmani, mezzo miliardo di cristiani. Sono dati che il Pew Research Center, noto think tank di Washington, ha stimato in un rapporto, incrociandoli a un’inchiesta che ha avuto luogo tra dicembre 2008 e aprile 2009 su un ampio campionario di 25mila africani, cittadini di 19 Paesi e parlanti 60 lingue. L’Africa è dunque il Continente dove nell’ultimo secolo è più cresciuto il cristianesimo ed è più cresciuto l’islamismo. Mettendoli l’uno di fronte all’altro. In Africa cristianesimo e islamismo crescono non sottraendosi fedeli a vicenda, ma entrambi a spese dei culti tradizionali, che comunque sono ancora seguiti da un africano su quattro. Molto spesso, sovrapponendosi all’ortodossia musulmana o cristiana. Tra gli avamposti islamici sulla costa dell’Oceano Indiano al Qaeda fece i suoi primi grandi attentati, alle
monoreligioso musulmano. E nel Darfur: regione uniformemente islamica. Ma in Ruanda le rivalità si sono inventate i lignaggi hutu e tutsi; in Somalia hanno riscoperto i clan; e nel Darfur il massacro ha contrapposto musulmani pastori di lingua araba a musulmani contadini stanziali e parlanti lingue nilo-sahariane. Nella stessa Nigeria, le rivalità tra cristiani del Sud e musulmani del Nord hanno il carattere informale della rissa e del pogrom, ma la rivolta del Delta del Niger per ottenere una maggior quota di royalties petrolifere è invece una guerriglia formalizzata, e acquisisce i caratteri di un conflitto tra un’etnia cristiana e un governo centrale che negli ultimi anni ha avuto per lo più un Presidente cristiano. D’altra parte, il rapporto del Pew ci dice pure che in Nigeria e Uganda le mutilazioni genitali fem-
Tutta colpa della fede. O quasi Le guerre più feroci sono avvenute in Stati “monoreligiosi” priazione dei beni pubblici. Ma più ancora delle etnie, nell’ultimo ventennio il gioco politico africano e anche la dinamica dei conflitti si è intrecciato a un altro grande cleavage, che in epoche di scontro di civiltà post-11 settembre 2001 ha finito anch’esso per essere giudicato specie dalla pubblicistica spicciola uno dei principali motori dei conflitti africani: quello tra cristiani e musulmani. L’Africa è infatti attraversata da una colossale soluzione di continuità più o meno attorno all’Equatore, tra un Nord islamizzato e un centro-sud che invece rimase animista e dal XIX secolo in poi è stato convertito in massa al cristianesimo dai missionari. Nel dettaglio, c’erano nel 1900 nell’Africa Sub-sahariana 11 milioni di musulmani e 7 milioni di cristiani; 110 anni dopo, i musulmani sono diventati 234 milioni, ma i cristiani 470 milioni. Un cristiano su ogni cinque esistenti al mondo, e un musulmano su sette. Se poi consideriamo anche il Nordafrica, il rapporto nell’intero Continente è di perfetto equilibrio: mezzo
ambasciate Usa di Kenya e Tanzania. E nella zona di faglia del Sahel al Qaeda si sta diffondendo ora. In Nigeria, Sudan, Costa d’Avorio e Ciad le guerre civili tra Nord e Sud hanno spesso acquisito il carattere di una guerra di religione tra cristiani e musulmani, come la rivolta di somali e oromo islamici contro l’Etiopia cristiana, o quella della Casamance cristiana contro il Senegal islamico.
La contrapposizione religiosa, insomma, sovrapponendosi alle rivalità etniche e all’economia di razzia ha finito per renderle più virulente, oltre che più appariscenti dal punto di vista mediatico. Ma proprio la storia dei conflitti africani ci dimostra in modo incontrovertibile come sia la religione sia l’etnia non siano altro che mere sovrastrutture, per usare un linguaggio marxista. Le guerre di genocidio più feroci, infatti, sono avvenute in Ruanda: Paese monolingue in kinyarwanda (oltre che in francese) e monoreligioso cattolico. In Somalia: Paese anch’esso monolingue in somalo e
minili le praticano più i cristiani che i musulmani. Dunque, il conflitto africano più distruttivo tuttora in corso è una faida tra gente che condivide la stessa lingua e la stessa religione. Da ben 24 anni va infatti avanti la Guerra Civile Somala. Tuttora, più che uno Stato fallito, la Somalia è uno Stato scomparso, con il territorio diviso tra almeno sette entità differenti: Governo Federale di Transizione, Shabaab, Hizbul Islam, la repubblica autoproclamatasi indipendente del Somaliland, gli “Stati” di Puntland e Galmudug e l’enclave dei pirati. Ma aggiungendo poi i Signori della Guerra che continuano a impazzare un po’ dappertutto si arriva probabilmente a varie decine. Eppure, l’interminabile Guerra Civile Somala non è stata il conflitto africano più sanguinoso. Tra i tre milioni e mezzo e i quattro milioni di morti è stato infatti il bilancio stimato di quel conflitto congolese che qualcuno ha definito Prima Guerra Mondiale Africana. Prima fase tra 1996 e 1997, con la rivolta dell’Alleanza delle Forze Democrati-
che per la Liberazione del Congo-Zaire (Afdl) di Laurent-Desirée Kabila contro il dittatore Mobutu. Seconda fase tra 1998 e 2003, con la rottura tra Kabila e i suoi antichi protettori Uganda e Ruanda, mentre al fianco di Kabila intervenivano Namibia, Zimbabwe, Angola e Ciad. Seguiva la misteriosa uccisione di Kabila, sostituito dal figlio; una faida nella faida tra ruandesi e ugandesi; un’ulteriore faida tribale tra 1999 e 2006 nell’Ituri; e da ultimo la guerra del
babwe e contingenti Onu. In teoria concluso un un accordo di pace nel marzo del 2009; ma di fatto ribelli tutsi e esercito congolese hanno continuato a combattere anche dopo. Oro, diamanti e coltan sono state le risorse che le varie fazioni si sono contesi, mentre la guerra si saldava con altri conflitti, a catena. In Uganda, ad esempio, continua dal 1987 la rivolta dell’Esercito di Resistenza del Signore: un gruppo tribale espressione dell’etnia acholi,
In Africa, cristianesimo e islamismo crescono non sottraendosi fedeli a vicenda, ma entrambi a spese dei culti tradizionali, che comunque sono ancora oggi seguiti da un africano su quattro 2004-09 che nel Kivu ha contrapposto il Coingresso Nazionale per la Difesa del Popolo, una fazione tutsi appoggiata dal Ruanda, a una coalizione tra esercito congolese, milizie filko-governative Mai-Mai, ribelli hutu ruandesi delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda, Angola, Zim-
mascherato da fondamentalista cristiano e famigerato per i suoi abusi contro bambini sequestrati e mutilati. Nata dal risentimento per il rovesciamento del Presidente acholi Tito Okello da parte della guerriglia di Yoveri Museveni, dell’etnia sudista Nyankole e ancora al potere, appoggiata dal Sudan in
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denza del Sud, sull’assegnazione di alcune aree particolarmente ricche di petrolio. Senza dimenticare che tra 2009 e 2010 varie faide sono avvenute tra gruppi di nomadi rivali nel Kordofan meridionale, con il saldo di 2000-2500 vittime. Tra l’altro, anche le cinque fazioni che tra 2003 e 2007 hanno combattuto nella Repubblica Centrafricana contro il governo del presidente François Bozizé sono state appoggiate dal Sudan, mentre con Bozizé si è schierato il Ciad. Un conflitto anch’esso da varie centinaia di morti, e che continua a produrre violenza anche dopo l’accordo di pace del dicembre 2008. Tant’è che qualcuno ha parla di una sola grande Guerra dell’Africa Centrale, divisa in varie fasi e vari fronti. La guerra in Somalia si è saldata a sua volta alle varie rivolte separatiste in corso in Etiopia, aiutate da un’Eritrea che tresca con l’integralismo islamico, ma è a sua volta minacciata da una Jihad eritrea appoggiata dal Sudan, ed è in contrasto sulla delimitazione dei confini con tutti i suoi conreazione all’aiuto che a sua volta Museveni dava ai ribelli del Sud, questa rivolta ha fatto almeno 12.000 morti.
Il Ruanda a sua volta voleva
IN EDICOLA IL NUOVO NUMERO Ogni anno, in occasione dei G8 e dei G20 si parla di Africa, poi tutto viene dimenticato. In questo 2010, però, l’attenzione è stata fagocitata dai mondiali di calcio sudafricani. E ora, spente le luci degli stadi, il tema è già diventato, come dire, indigesto. Soprattutto se si vuole parlare dell’Altra Africa: non quella che ha brillato a Johannesburg (a cui abbiamo già dedicato un intero numero di Risk) né tantomeno quella che si affaccia sul Mediterraneo, la più vicina all’Italia e dunque più navigata dai media (anche in questo caso abbiamo già pubblicato un numero monografico di Risk), bensì quella centrale e subsahariana, dilaniata da conflitti, corruzione e malattie. Ma anche terra di opportunità e investimenti. A dir il vero, più stranieri che nazionali. La speranza è che si accenda un motore virtuoso, che però, in assenza di una sana governance, è ancora spento... Ne scrivono: Batacchi, Cajati, French, Jean, Miranda, Nativi, Pirozzi e Stefanini.
prevenire la rivalsa dei 2 milioni di hutu che erano scappati in Congo dopo aver perso la guerra coi tutsi, in margine alla quale gli stessi tutsi erano stati vittime di un genocidio da mezzo milioneun milione di vittime. E in Angola si è conclusa nel 2002 una guerra civile tra il governo del Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola e l’Unione per l’Indipendenza Totale dell’Angola: due fazioni a base etnica, mbundu del centro e meticci della capitale Luanda contro ovimbundu del Sud. Ma che all’epoca della Guerra Fredda si erano schierati secondo le parole d’ordine del socialismo e dell’anticomunismo, con l’intervento di Cuba con l’Mpla e del Sudafrica dell’apartheid con l’Unita, e con l’appropriazione delle risorse di petrolio per l’Mpla e di diamanti per l’Unita.
Finita nel 1975 per l’accettazione da parte dell’Unita di un ruolo di partito di opposizione dopo la morte in combattimento del suo leader Jonas Savimbi, la guerra civile angolana aveva provocato dal 1975 mezzo milione di morti. In Ciad la Quarta Guerra Civile è iniziata nel 2005, provocando oltre un migliaio di morti. Quattro gruppi armati si sono opposti alla riforma costituzionale che aveva consentito la terza candidatura presidenziale di Idriss Déby: il Fronte Unito per il Cambio Democratico, le Forze Unite per lo Sviluppo e la Democrazia, il Raggruppamento di Forze per il Cambio, l’Accordo Nazionale del Ciad.
cese in Algeria la rivolta islamista che in 10 anni provocò 160mila morti. Dal 2002 quel conflitto ad alta intensità è stato dichiarato concluso, ma i resti della guerriglia jihadista si sono uniti ad altri elementi qaidisti in un’insorgenza a più basso livello, e che però si è estesa a Marocco,Tunisia, Mali, Mauritania, Niger e perfino le enclaves spagnole di Ceuta e Melilla. E le vittime sono ormai stimate in oltre 6mila. Per controbatterla dal febbraio del 2007 la Operation Enduring Freedom - Trans Sahara, che si estende fino a Senegal e Ciad. E il tutto ha rischiato di saldarsi alla Seconda Rivolta Tuareg che si è accesa in Mali e Niger tra 2007 e 2009, provocando varie centinaia di morti. Anche grazie a un forte intervento multinazionale si sono invece concluse le guerre civili che avevano sconvolto la Costa d’Avorio nel 2002-2007 (quasi 2mila morti), la Liberia nel 1989-96 e 1999-03 (350.000 morti) e la Sierra Leone nel 1991-2000 (75mila morti): tutti conflitti che sono partiti da
Somalia, il Paese fantasma Il territorio oggi è suddiviso in almeno sette entità differenti Sono stati appoggiati dal governo del Sudan e anche alle famigerate milizie Janjaweed del Darfur, in rappresaglia all’altro appoggio che il governo del Ciad ha invece dato ai ribelli del Darfur. Quel Darfur in cui tra 2003 e 2009 un conflitto tra pastori arabofoni e contadini nilotici è degenerato in una guerra aperta.
Da una parte tre gruppi armati. Il Movimento Giustizia e Eguaglianza, il Fronte Nazionale di Redenzione e il Movimento di Liberazione del Sudan-Esercito, appoggiati appunto da Ciad e Eritrea. Dall’altra il governo sudanese, che in campo ha scatenato le già citate milizie Janjaweed,“Diavoli a Cavallo”. I 300-400mila morti del Darfur si aggiungono ai quasi 2 milioni caduti in seguito all’altra rivolta del Sud cristiano e animista durata dal 1983 al 2005. La rivolta del Sud si è poi conclusa con l’accordo di pace che ha portato gli exguerriglieri sudisti dell’Esercito Popolare di Liberazione del Sudan a partecipare al governo, in attesa del referendum che il prossimo gennaio dovrebbe decidere su un’eventuale indipendenza. E anche nel Darfur a febbraio è stata siglata una tregua. Ma ad aprile le elezioni hanno portato a una ripresa di tensione, col boicottaggio di gran parte delle opposizioni, accuse di brogli e scontri armati in zone al confine tra il Nord e il Sud. Inquietante preludio a una deflagrazione che potrebbe aver luogo in caso di indipen-
finanti. In particolare l’insorgenza somalo-islamista del Fronte di Liberazione Nazionale dell’Ogaden, in corso dal 1995, ha provocato tra i 3000 e i 3500 morti. Due, come si è già ricordato, i fronti di tensione in Nigeria. Da una parte, le continue faide e pogrom tra cristiani e musulmani nelle aree plurireligiose: non solo per l’opposizione dei cristiani all’imposizione della Sharia nelle zone a maggioranza islamica, ma più in generale per insofferenza verso le migrazioni interne. Nel luglio del 2009 uno scoppio di violenza particolarmente intenso nel Nord-Est ha ammucchiato oltre 700 cadaveri. Dall’altra nel Delta del Niger continua nel 2004 la guerriglia del Mend: il Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger, espressione dell’etnia Ijaw, e che comunque continua le stesse rivendicazioni del SudEst sui giacimenti petroliferi che già avevano portato negli anni ’70 l’etnia Ibo a tentare la secessione del Biafra e negli anni ’90 l’etnia Ogoni a condurre la campagna di disobbedienza civile che l’allora regime militare aveva stroncato impiccando il suoi leader, lo scrittore Ken Saro-Wiwa. In realtà qui il numero delle vittime non è molto alto: ma in compenso è alta l’attenzione del mondo, per la gran quantità di attacchi a piattaforme petrolifere gestite da multinazionali. Poi c’è il Maghreb. Nel 1992 il golpe che impedì la vittoria elettorale del Fronte Islamico di Salvezza ac-
contestazioni elettorali, si sono complicate con rivalità tribali e sono degenerate in guerre di razzia che hanno però cercato di mobilitarsi con motivazioni nazionaliste contro le forze di peace keeping straniere. Di carattere più propriamente separatista la rivolta della Casamance contro il Senegal (1990-2006, oltre un migliaio di morti) e quella del Fronte Polisario nel Sahara Occidentale: 1973-75 contro la Spagna, 1975-1979 contro Mauritania e Marocco, 1979-1992 contro il solo Marocco, per un totale di 25mila morti.
Dal 1991 nel Sahara Occidentale è in corso un’interminabile mediazione internazionale per un referendum che dovrebbe decidere tra autonomia o indipendenza, e che ogni tanto è inframmezzato da riprese di tensione. Anche in Kenya tra fine 2007 e inizio 2008 la polemica su un risultato elettorale accese una faida etnica che uccise tra le 800 e le 1500 persone. Fortunatamente non si formarono però milizie armate e la crisi fu risolta da un accordo per un governo di unità nazionale. Nel contempo, ci fu anche un’insurrezione tribale per dispute sulla terra nel Distretto del Monte Elgon, che durò dal 2005 al 2008 e provocò 600 morti. Quasi da operetta ma comunque col bilancio di 3 morti e 21 feriti, infine, l’operazione anfibia con cui nel marzo del 2007 le Comore rioccuparono la secessionista isola di Anjouan, con l’appoggio di Unione Africana, Francia e Libia.
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Equilibri. La Serbia minaccia: «Non li riconosceremo mai». Ma preferisce barattare la terra con l’ingresso in Europa
Sì al Kosovo indipendente La Corte di giustizia Onu si pronuncia a favore della separazione da Belgrado di Osvaldo Baldacci è uno Stato in più nel cuore dell’Europa. Il Kosovo. Con un pronunciamento più netto del previsto la Corte Internazionale di Giustizia ha sentenziato ieri all’Aja che la dichiarazione di indipendenza del Kosovo non viola il diritto internazionale e non è incoerente con la Risoluzione Onu 1244. Un’affermazione molto importante che può cambiare molti scenari
C’
Unite, fu fondata con l’obiettivo di dirimere le controversie tra gli Stati che hanno accettato la sua giurisdizione ed è composta di 15 giudici, eletti ogni nove anni dall’Assemblea generale dell’Onu. La Corte, inoltre, offre pareri consultivi su questioni di legalità internazionale avanzate dagli Stati al Palazzo di Vetro, come in questo caso. Il parere dell’Icj non ha valore vincolante, ma ciononostante, per la sua autorevolez-
A decidere sono i 15 giudici del Tribunale, fondato nel 1946 proprio con l’obiettivo di dirimere le controversie tra gli Stati che hanno accettato la sua giurisdizione. Non esiste alcun ricorso mondiali: da ieri, infatti, la situazione del Kosovo è senz’altro migliorata ma comunque continuerà a passare attraverso negoziati diplomatici e tensioni da tenere con attenzione sotto controllo, mentre la giurisprudenza che afferma che dichiarare l’indipendenza non è illegale potrà avere ripercussioni in molti angoli secessionisti del pianeta. Certo, non mancano elementi di riequilibrio a favore della sovranità degli Stati, con l’ambiguità che ci si poteva attendere da una Corte Onu che comunque risente della divisione nella comunità internazionale e della netta e senza appello contrapposizione in materia tra le principali potenze.
Ieri in una seduta pubblica al Palazzo della Pace all’Aja il presidente della massima autorità giudiziaria internazionale Hisashi Owada ha dato lettura del lungo parere consultivo in merito alla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo del 17 febbraio 2008. Era la Serbia, che considera illegale l’indipendenza, a essersi rivolta alla Corte su autorizzazione dell’Onu, cosa che (erroneamente) aveva già interpretato come un buon auspicio per la sua posizione. Nel dicembre scorso la Serbia, il Kosovo e 29 Paesi membri dell’Onu, inclusi Russia e Stati Uniti, hanno preso parte ad una consultazione orale al cospetto della Icj. La Corte Internazionale di Giustizia entrò in funzione nel 1946 ed è il principale organo giurisdizionale delle Nazioni
za, viene considerato il punto da cui far ripartire i negoziati tra Belgrado e Pristina sullo status della repubblica balcanica. Già prima del parere della Corte le forze in campo avevano preannunciato che non avrebbero cambiato idea: la Serbia e i suoi sostenitori (Russia e Cina, ma anche Spagna e Grecia) hanno chiarito che non riconosce-
ranno l’indipendenza, mentre gli Stati Uniti proprio ieri mattina avevano ribadito col vicepresidente Joe Biden che per loro l’indipendenza del Kosovo era cosa fatta, punto e basta. Grande festa tra gli albanesi del Kosovo, tensione tra i serbi al di qua e al di là della frontiera, tanto che già in mattinata il patriarca di Belgrado aveva lanciato un appello alla calma. Il timore di un precipitare della situazione è concreto, almeno per quelle zone miste che ancora esistono in Kosovo, come la città di Mitrovica, e specie nell’area serba del Kosovo a nord del fiume Ibar, per molte cose già separata di fatto: circola una moneta diversa dal resto del Kosovo, sono scollegate le linee elettriche e telefoniche, pensa a tutto la Serbia mentre è assente la contestata autorità di Pristina.
Certamente la sentenza non cambierà radicalmente l’atteggiamento di Serbia e Kosovo, potrebbe però modificare il contesto internazionale, influenzando e magari in parte modificando l’atteggiamento di attori
come Stati Uniti, Russia, Cina e Unione Europea, e soprattutto il pronunciamento potrebbe senza dubbio influire sulla possibilità che ci siano ulteriori riconoscimenti internazionali dello Stato Kosovo, per ora riconosciuto da 69 Paesi. Anche se l’interesse strategico di ogni singolo Paese non si farà troppo toccare dalla sentenza: potrebbero cambiare idea Paesi minori, lontani e poco coinvolti, ma non certo quelli che vedono nella situazione del Kosovo un legame diretto con i propri interessi. È improbabile che Paesi contrari a ogni spiffero secessionista si
facciano commuovere dal Kosovo: non è solo il caso della Cina o di altre realtà di quel genere, ma anche di cinque Paesi Ue su 27, Spagna, Grecia, Cipro, Romania e Slovacchia, irriducibilmente contrari a ogni ipotesi indipendentista. Neanche un voto di un paio di settimane fa del Parlamento Europeo che chiedeva loro a larga maggioranza di cambiare posizione ha sortito il minimo effetto.
E potrebbero non aver torto nel pensare che una delle maggiori conseguenze possa essere l’effetto domino sulle tante altre
Proprio nella Piana dei merli si è combattuta la battaglia più cruenta contro l’avanzata islamica
Un crocevia lungo tre millenni di Antonio Picasso arlare di Kosovo significa parlare di diecimila chilometri quadrati che da tre millenni continua a essere il crocevia di civiltà, culture e religioni. Greci, romani, poi le orde barbariche degli slavi, l’Impero bizantino e infine quello ottomano. Il paganesimo classico portato dagli Illiri, il cristianesimo cattolico e quello ortodosso e per concludere l’Islam. Ognuna di queste civiltà ha lasciato la propria testimonianza nella penisola balcanica. La storia del Kosovo ha però una data che ne costituisce la chiave di volta. Il 28 giugno 1389, a Kosovo Polje (Piana dei merli), venne combattuta una delle più cruente battaglie fra gli eserciti dei principi cristiani dei feudi balcanici e i soldati comandati dal Sultano Murad I. Per i primi si trattava di una coalizione composta da serbi, bosniaci, magiari, albanesi e truppe inviate dal Sacro Romano Impero. Il loro nemico era la testuggine inossidabile di una potenza che, allora, dominava le terre e i mari dell’Asia Minore e del Mediterraneo orientale. La cronaca dello scontro ha attribuito l’alloro del vincitore a Sultano. La leggenda tuttavia ha
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trasformato la battaglia nel primo atto di emancipazione dei popoli balcanici contro la Sublime Porta. Fu in particolare la Serbia a tramandare l’eroismo dei suoi uomini. Nel corso dei secoli la sconfitta cristiana a Kosovo Polje divenne il punto di riferimento del suo nazionalismo. Esattamente sessant’anni dopo, nel 1449, sulla stessa Piana dei merli, furono gli ungheresi a tentare di fermare i turchi. Il risultato fu medesimo però. Le due débacle decretarono la sottomissione del Kosovo e della Serbia al Sultano, il quale frammentò i territori balcanici in sanjak, i distretti amministrativi dell’Impero. Da allora fino allo scoppio della Prima guerra mondiale, la storia di queste terre è segnata da numerosi fallimentari tentativi di emancipazione. Caduto il Sultano nel 1918, la proclamazione di una Jugoslavia indipendente e monarchica, con annesso il Kosovo, apparve come la soddisfazione di un torto rimasto insoluto da secoli. Il passaggio del Paese nelle mani di Tito illuse gli osservatori che i Balcani avessero trovato il loro equilibrio di convivenza multietnica e multireligiosa. La fine
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Parla il generale Mini, già comandante del contingente internazionale
«Esempio disastroso» per molte altre regioni di Pierre Chiartano a secessione unilaterale del Kosovo dalla Serbia nel 2008 non ha violato le leggi internazionali». Lo ha detto ieri la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia. La decisione, che potrebbe avere implicazioni sui movimenti separatisti di tutto il mondo e sui negoziati per l’adesione di Belgrado all’Ue, probabilmente spingerà altri Paesi a riconoscere l’indipendenza del Kosovo e contribuirà ad avvicinare Pristina all’ingresso nelle Nazioni Unite. «Speriamo che non sia il solito verdetto che non risolve il problema» risponde a liberal il generale Fabio Mini – prima di conoscere la sentenza – che le vicende kosovare le conosce bene. È stato infatti comandante della missione Nato (Kfor) in quella regione. Ed è un grande esperto di questioni balcaniche. «Se non dovesse essere una sentenza veramente chiara, con delle prese di posizione specifiche, basate sull’attuale diritto internazionale, finiremo nelle solite ambiguità». Un caso malaugurato, per il generale, perché porterà ad affidarci al «solito senso di responsabilità delle parti» cioè serbe e kossovare «che è una bella formula per scaricare la responsabilità internazionale sulle parti in causa». Quando dei Paesi lottano per la sopravvivenza giuridica nell’ambito internazionale rimettersi al senso di responsabilità significa solo «scaricare la responsabilità internazionale». E il dispositivo della sentenza sarà lungo e articolato, per cui dovrà essere valutato con attenzione.
«L
Una bambina kosovara festeggia con in mano la bandiera anche dell’Inghilterra. Tony Blair, ex primo ministro britannico, ha spinto molto a favore dell’indipendenza del nuovo Stato situazioni complesse e spesso sanguinose di irredentismo nel mondo: dai casi di Abkhazia e Ossezia, a Cipro Nord, ai Paesi Baschi, alla Moldavia, al Tibet, alla Palestina, allo Xing Jang e via così per una serie infinita di regioni. Finora c’era un punto giuridico molto controverso: non esiste un chiaro diritto internazionale in materia di secessione, se si escludono le situazioni coloniali. Anche i sostenitori dell’indipendenza del
Kosovo puntavano sulla sua situazione particolare che ne faceva un caso unico e non un precedente. Ma bisognerà vedere se gli indipendentisti del mondo leggeranno la sentenza sotto quest’ottica limitativa. Ora si aprono varie possibilità, e non si può trascurare quella per la quale il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo passi attraverso la cessione del nord alla Serbia, magari in cambio della regione di Presevo.
della guerra fredda però risvegliò le istanze indipendentiste di tutti i popoli balcanici. Istanze che esplosero nelle guerre di Jugoslavia negli anni Novanta, il cui exploit finale fu appunto quella del Kosovo, nel 1999, tra la Serbia di Slobodan Milosevic e la Nato. Dopo la sconfitta militare, l’incriminazione e la morte di Milosevic, oggi la Serbia ha accettato il compromesso di riconoscere l’autonomia del Kosovo pur di accelerare il proprio ingresso nell’Unione europea. Nel frattempo la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, n. 1244 del 1999, ha formalizzato la nascita di un Governo provvisorio e di un Parlamento kosovari, protetti dai Caschi blu dell’Unmik e dalla Nato. L’Italia è impegnata con circa 1.200 uomini tra Kfor ed Eulex, le due operazioni militare e diplomatica attualmente in corso in Kosovo. Il 17 febbraio di due anni fa però, Pristina ha dichiarato la propria indipendenza.
Mentre il 15 giugno Pristina ha emanato una propria Carta costituzionale. Le due mosse hanno spiazzato la comunità internazionale, in quanto il documento n. 1244 dell’Onu attribuisce a Belgrado la sovranità della regione. Albania e Usa hanno riconosciuto la nascita del nuovo Stato. La Cina e la Russia invece si sono poste di traverso. L’Ue a sua volta si è divisa tra i favorevoli (Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia) e i contrari (Spagna, Grecia, Cipro e Romania) a un Kosovo indipendente. I membri dell’Unione, ognuno per le proprie ragioni interne, hanno lacerato la politica estera di Bruxelles. L’8 ottobre dello stesso anno Belgrado ha presentato un’istanza alla Corte di giustizia internazionale, affinché venga bloccata l’iniziativa di Pristina. La sua richiesta però stata respinta proprio ieri, lasciando insoluta la questione del Kosovo del nord, che vorrebbe restare sotto Belgrado, e creando un precedente di diritto internazionale vincolante per il futuro.
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sti che sembravano spariti con Milosevic e che invece non sono per niente scomparsi». Dovremo quindi aspettarci di aver a che fare con una Serbia «incattivita» e «più debole». A livello internazionale ci sarà invece un «grande buco».
L’esempio «sarà disastroso in molti altri ambiti». La sentenza comunque andrebbe poi ratificata dall’Assemblea generale Onu, in settembre, lasciando un tempo sufficiente per vedere cosa succede sul campo. «Ma non è una procedura obbligatoria, deve essere invece accettata dalle parti che possono ricorrere. Il contenzioso rimane, anzi si aggrava». Se però l’Onu dovesse prendere come fonte la sentenza per emettere un’ingiunzione, la situazione muterebbe.
Dubito che Belgrado agirà militarmente. Forse ci sarà una perdita di prestigio e di potere interno del governo serbo, lasciando spazio a quei movimenti nazionalisti che sembravano spariti
Come riferimento giuridico c’é la Risoluzione Onu 1244 che, ricordiamo, tra le tante premesse affermava: «l’impegno di tutti gli Stati membri per la sovranità e l’integrità territoriale della Repubblica federale yugoslava e degli altri Stati della regione, come indicato nell’Atto finale di Helsinki e nell’Allegato 2. Riaffermando la dichiarazione, già presente nelle precedenti risoluzioni, di una sostanziale autonomia e di una significativa auto-amministrazione per il Kossovo». E per Mini, l’Onu aveva tracciato una posizione chiara nelle linee generali, ma lasciando due grosse zone d’ombra. «La prima sulla possibilità per la Serbia d’intervenire in Kosovo, e la seconda di rimandare, a tempo indeterminato, la questione dell’indipendenza. Due zone grigie che adesso dovrebbero essere risolte» altrimenti la situazione non potrebbe che peggiorare. Ma la domanda più importante e se la Serbia interverrà con le armi per impedire l’indipendenza. «Dubito che Belgrado farà una mossa simile. Probabilmente ci sarà una perdita di prestigio e di potere interno dell’attuale governo serbo. Sarà politicamente più debole , lasciando spazio a quei movimenti nazionali-
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La gestione Onu, che sostituì la Nato, dopo la pacificazione è stata negativa anche da un punto di vista delle condizioni economiche, per il generale. «C’è stato solo il laissez-faire nell’ambito della dichiarazione d’indipendenza. Forse l’unica cosa che doveva giungere a maturazione per conto proprio». Non ci sono però contrapposizioni fra le due gestioni – Nato e Onu – anche perché dovevano occuparsi di ambiti differenti. La Nato ha avuto gioco facile con una Serbia che militarmente valeva «zero virgola, zero». Ma sugli errori dell’Onu il generale diventa un fiume in piena. In Kossovo ci si è mossi come se le Nazioni Unite «potessero agire come una specie di tiranno». Ma è molto prima che si poteva operare per il meglio. Subito dopo la Bosnia, c’erano già dei segnali allarmanti. «Si è lasciata affondare la nave per poter gestire meglio la scialuppa di salvataggio». E le critiche a Richard Holbrooke, l’inviato speciale dell’allora amministrazione Usa, sono pesanti da parte del generale. «Tremo all’idea che abbia messo mano anche al cosiddetto Afpak», chiosa MIni.
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Provocazioni. Erdogan ha dimenticato i massacri della Turchia nell’isola? lla luce delle recenti critiche mosse da Ankara per ciò che viene definita “la prigione all’aperto” di Israele a Gaza, l’anniversario dell’invasione turca di Cipro riveste uno speciale interesse. La politica turca verso Israele, storicamente cordiale e che solo una decina di anni fa ha rasentato la piena alleanza, si è raffreddata da quando gli islamisti presero il potere ad Ankara nel 2002. La loro ostilità divenne palese nel gennaio 2009, durante la guerra fra Israele e Hamas. Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha condannato solennemente le politiche dello Stato ebraico essendo esse «delle azioni disumane che lo porterebbero all’autodistruzione» e ha perfino invocato Dio: «Allah (…) punirà coloro che violano i diritti di innocenti».
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Sua moglie, Emine Erdogan, ha stigmatizzato con enfasi le azioni israeliane asserendo che sono talmente terribili che «non ci sono parole per descriverle». I loro attacchi verbali sono stati forieri di ulteriori ostilità annoverando insulti al presidente israeliano, un contributo a finanziare “Freedom Flotilla” e un richiamo dell’ambasciatore turco. La rabbia turca induce a chiedersi: Israele a Gaza è ben peggiore della Turchia a Cipro? Un paragone che non calza affatto. Prendiamo in considerazione alcune contrapposizioni. L’invasione della Turchia del luglio-agosto 1974 implicò l’uso del napalm e una campagna volta a “seminare terrore” fra gli abitanti dei villaggi greco-ciprioti, secondo Minority Rights Group International. Al contrario, la “violenta battaglia” per espugnare Gaza ha implicato solo l’uso di armi convenzionali e non ha pro-
L’ipocrisia di Ankara fra Gaza e Cipro Le polemiche dopo l’attacco israeliano alla Freedom Flotilla sono strumentali di Daniel Pipes
tica di colonizzazione” negli ex-territori greci di Cipro Nord. Nel 1973, i ciprioti turchi ammontavano a 120.000; da allora, oltre 160.000 cittadini della Repubblica di Turchia si sono insediati nei loro territori.
A Gaza non è rimasta nemmeno una comunità israeliana. Ankara esercita
La parte nord ha dei tratti in comune con la Siria e sembra una “prigione all’aperto” molto più di quanto lo sia la Striscia di Hamas vocato nessuna vittima civile. La successiva occupazione del 37 per cento dell’isola equivalse a “una pulizia etnica forzata” come asserito da William Mallinson in una monografia appena pubblicata dalla University of Minnesota. Al contrario, se si desidera accusare le autorità israeliane di pulizia etnica a Gaza, ebbene questa fu utilizzata contro la loro stessa popolazione ebraica nel 2005. Il governo turco promuove ciò che Mallinson definisce “una sistematica poli-
un severo controllo sulla sua zona occupata al punto che, nelle parole di Bülent Akarcalı, un parlamentare turco: “Cipro Nord è governata come una provincia della Turchia”. A Gaza governa Hamas, un nemico di Israele. I turchi hanno messo in piedi una struttura pseudo-autonoma chiamata Repubblica turca di Cipro Nord”. Gli abitanti di Gaza godono di una reale autonomia. Un muro che attraversa l’isola tiene alla larga i pacifici greci da Cipro Nord. Il muro di Israe-
Il Parlamento turco riduce le pene per i minori
E intanto “assolve” il terrore Il Parlamento turco ha approvato ieri una legge che riduce le pene per i minori accusati di reati connessi ad attività terroristiche e di fatto riforma una legislazione che secondo vari gruppi per i diritti umani non era conforme agli standard dell’Unione europea. Proprio nei giorni scorsi l’Ue aveva sollecitato Ankara a riformare il proprio sistema di giustizia minorile - conosciuto come “la legge per i bambini che tirano sassi” - in base al quale centinaia di minori, la quasi totalità curdi, negli anni scorsi sono stati incarcerati e condannati a pesanti pene detentive. In base alla nuova legge, i minori che prendono parte a manifestazioni di protesta a favore del separatista Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) tirando pietre contro le
forze dell’ordine non saranno più incriminati per “attività terroristiche” e saranno giudicati da appositi tribunali per minori e non da tribunali penali. Negli ultimi tre anni, in base a recenti dati Unicef, oltre 340 minori (per accordo internazionale minore è colui che ha meno di 18 anni) sono stati condannati a pesanti pene carcerarie (minimo cinque anni) per aver preso parte attiva a manifestazioni di protesta anti-governative e filoPkk. Secondo l’Unicef, solo nel 2006, ultimo anno con statistiche certe, sono stati arrestati 304 minori. Nel 2005 i giudici sudorientali della Turchia hanno processato 158.917 minori, 141.102 nel 2006 e 111.278 nel 2007 ma meno del 50% di loro è stato processato da un tribunale per minori.
le tiene alla larga i terroristi palestinesi. E poi c’è la città fantasma di Famagosta, dove le azioni turche eguagliano quelle della Siria degli Assad. Dopo che le forze aeree turche bombardarono la città portuale cipriota, le truppe del Paese della mezzaluna la posero sotto assedio per espugnarla, inducendo in tal modo l’intera popolazione greca (timorosa di un massacro) a fuggire. L’esercito turco recintò immediatamente la parte centrale della città, chiamata Varosha, proibendo a chiunque di risiedervi. Dato che questa fatiscente città greca è reclamata dalla natura, è divenuta una bizzarra capsula del tempo a partire dal 1974. Steven Plaut, dell’Università di Haifa l’ha visitata e ha detto: «Nulla è cambiato (…) la dice lunga il fatto che i concessionari di auto della città fantasma anche oggi hanno un buon assortimento di modelli vintage del 1974. Per anni, dopo il saccheggio di Famagosta, la gente ha raccontato di vedere le lampadine ancora accese dietro i vetri degli edifici abbandonati». Curiosamente, un’altra città fantasma levantina risale anch’essa all’estate del 1974. Solo ventiquattro giorni prima dell’invasione turca di Cipro, le truppe israeliane evacuarono la città di confine di Quneitra, consegnandola alle autorità siriane. Hafez al-Assad scelse, anche per motivi politici, di non permettere a nessuno di risiedervi. Decenni dopo, essa è ancora vuota, ostaggio della bellicosità.
Erdogan sostiene che le truppe turche non stanno occupando Cipro Nord, ma sono lì “come forza garante della Turchia”, qualunque cosa ciò significhi. Ma il mondo esterno non si lascia ingannare. Se Elvis Costello ha annullato un concerto a Tel-Aviv per protestare contro “la sofferenza degli innocenti [palestinesi]”, Jennifer Lopez ha annullato un concerto nella parte settentrionale di Cipro in segno di protesta contro “l’abuso dei diritti umani” in quell’area. In breve, Cipro Nord ha dei tratti in comune con la Siria e sembra una “prigione all’aperto” più di quanto lo sia Gaza. Come è assurdo che un’ipocrita Ankara si lisci col becco il piumaggio morale riguardo Gaza mentre governa una zona molto più lesiva. Invece di intromettersi a Gaza, i leader turchi dovrebbero porre fine alla illegale e disgregante occupazione che da decenni divide tragicamente Cipro.
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23 luglio 2010 • pagina 17
Il regime di Kim Jong-il contro le sanzioni americane
Bufera sul vice primo ministro, Cameron prende le distanze
Pyongyang: Usa e Seoul sono “criminali e terroristi”
Nick Clegg: «È stata illegale la guerra irachena»
HANOI. Le nuove sanzioni contro la Corea del Nord annunciate ieri dagli Stati Uniti «violano la dichiarazione dell’Onu, pubblicata dopo l’affondamento di una nave militare sudcoreana». Lo ha dichiarato Ri Ton Il, portavoce della delegazione di Pyongyang al Forum regionale dell’Asean, in corso ad Hanoi, in Vietnam. Il riferimento è alla pubblicazione dello scorso 9 luglio di una dichiarazione firmata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, in cui l’organismo “deplorava in maniera unanime” l’affondamento della corvetta sudcoreana Cheonan. Nel corso dell’incidente sono morti 46 marinai sudcoreani, ma le Nazioni Unite hanno deciso di non condannare per l’accaduto la Corea del Nord. Pyongyang ha finora negato alcun coinvolgimento nella vicenda, smentendo un rapporto di Seoul che invece punta il dito contro i nordcoreani.
LONDRA. In un imbarazzante
Il portavoce del regime di Pyongyang ha inoltre duramente criticato le preannunciate manovre congiunte Usa-Corea del Sud, che inizieranno domenica a largo della costa orientale della penisola coreana, affermando che esse «costituiscono un grande pericolo per la regione». La Casa Bianca ha annunciato ieri che le
Berlino, dove la crisi ha ucciso la politica Gli ultimi sondaggi sfavorevoli per tutti i partiti di Ubaldo Villani-Lubelli
BERLINO. Brutte notizie per Angela Merkel e la coalizione di governo. Secondo gli ultimi sondaggi commissionati dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung e dal settimanale Stern, il gradimento per l’attuale maggioranza è ai minimi storici. Mai così in basso per l’alleanza tra cristiano-democratici e liberali. Questi dati erano certamente prevedibili. È, del resto, dalle elezioni del settembre scorso che la coalizione perde costantemente consenso. I due sondaggi, anche se con piccole differenze, evidenziano in modo chiaro e netto la crisi di cristiano democratici e liberali. Secondo il sondaggio dell’Istituto Allensbach, la coalizione di governo sarebbe intorno al 39 per cento contro il 48,2 delle ultime elezioni. La perdita più significativa è quella dei liberali, che dal 14,7 oggi scenderebbero al 7 per cento. A guadagnare dalle perdite del centro-destra sono i Verdi ed i socialdemocratici. I primi passerebbero dal 10,7 al 15,5 ed i secondi dal 23 al 29. Sostanzialmente invariato il dato della Linke (estrema sinistra) che dall’11,9 passerebbe all’11. È però interessante notare come la seppur minima perdita di consenso della Linke avvenga questa volta anche nell’ex Gerrmania dell’Est, ovvero la sua roccaforte elettorale. Secondo il sondaggio Forsa commissionato dalla rivista Stern i dati sono ancor più preoccupanti per la Merkel ed i suoi alleati: 34 per cento! La Cdu al momento non supererebbe il 30 ed i liberali scenderebbero addirittura al 4. Ad approfittare della crisi del centro-destra sarebbero soprattutto i Verdi dati ad un sorprendente 19 per cento. La Spd è attualmente stimata al 28. La Linke, anche in questo sondaggio, non andrebbe oltre un buon 11 per cento. Scoraggianti anche i dati relativi alla Cancelliera che sempre secondo il sondaggio pubblicato da Stern sarebbe ad un gradimento di appena il 41 per cento. Negativa l’opinione dei cittadini tedeschi sulla propria situazione economica generale: ben il 46 per cento la considerano peggiorata negli ultimi mesi. A questo punto è però evidente che la
Cdu resterebbe, anche se di poco (1-3 per cento), il primo partito e la Spd con il 28-29 per cento otterrebbe un risultato appena soddisfacente. I Verdi guadagnerebbero un peso politico mai avuto in passato ed i liberali tornerebbero ai margini del quadro politico superati di gran lunga anche dall’estrema sinistra.
Dati dunque estremamente negativi per l’attuale governo tedesco che paga certamente il prezzo della crisi economico-finanziaria internazionale e della crisi greca, gestita, a parere di molti cittadini tedeschi, in maniera equivoca e con poca fermezza dalla Merkel. Ma ciò che però più incide nella costante perdita di voti, consenso e fiducia sono le numerose difficoltà dell’esecutivo negli affari interni. La coalizione di governo, in questi primi mesi, è stata litigiosa ed incapace di proporre un chiaro progetto politico per il Paese. Lo scorso settembre cristiano-democratici e liberali si sono ritrovati un po’ a sorpresa con una maggioranza in Parlamento ed insieme al governo senza però avere delle line guida comuni, ma al con contrario idee diverse su come governare la Germania. Il risultato è una sorta di paralisi che ha portato alla cattiva gestione della crisi greca, ad una cattiva campagna elettorale nel Nord Reno Westfalia con la conseguenza di una brutta sconfitta soprattutto per la Cdu ed, infine, alla fronda interna durante l’elezione di Christian Wulff a Presidente della Repubblica. Wulff sarebbe potuto essere stato eletto già alla prima votazione, ma ha dovuto aspettare la terza. Dopo la pausa estiva, se la Merkel e la maggioranza vogliono sperare di continuare a governare ed ad avere un futuro alla guida della Germania dovranno iniziare a litigare di meno ed a dare vita ad un programma di governo credibile per il Paese. Non sarà certamente facile, considerato che il prossimo anno ci saranno alcune elezioni regionali, ma Angela Merkel non ha più scelta, deve prendere per mano partito e governo.
Pesa l’incertezza elettorale nei Lander e la cattiva gestione dell’emergenza greca: la Cdu tiene (poco) come la Linke
esercitazioni militari, che avranno luogo nel Mar del Giappone, avranno «una natura difensiva, garantiranno un sostegno alla difesa sudcoreana e invieranno un messaggio chiaro di dissuasione alla Corea del Nord». Se gli Stati Uniti sono realmente interessati alla denuclearizzazione della penisola coreana – ha detto Ri Tong Il – «dovrebbero fermare le esercitazioni militari e le sanzioni che distruggono il clima necessario per il dialogo». La Marina americana ha rimandato al mittente le accuse e, dopo la visita a Seoul del Segretario di Stato Clinton, ha fatto sapere che le cose andranno «esattamente come previsto».
scivolone durante un dibattito alla camera dei comuni, il primo intervento facendo le veci del primo ministro David Cameron impegnato in una visita di Stato negli Usa, il vice premier britannico Nick Clegg ha dichiarato che la guerra in Iraq «è stata illegale». Durante un acceso scambio con il ministro degli esteri laburista all’epoca dell’intervento in Iraq, Clegg ha detto: «Possiamo aspettare che esca la sua biografia, ma forse un giorno ci dirà qual è stato il suo ruolo nella decisione più disastrosa di tutte: l’invasione illegale dell’Iraq». Downing Street ha immediatamente tentato di “limitare i danni” diffondendo una nota in cui
specifica che quella espressa da Clegg «è un’opinione personale, e che il governo invece aspetterà i risultati dell’inchiesta Chilcot sulla guerra per esprimersi ufficialmente in proposito». «Il fatto che il governo non abbia una posizione ufficiale - ha spiegato il portavoce - non impedisce a suoi singoli membri di esprimere le proprie idee».
Secondo un professore di legge dell’University College di Londra, Philippe Sands, la questione è tuttavia più complessa: «Una dichiarazione pubblica in parlamento da parte di un ministro del governo - ha detto al Guardian - sarebbe ritenuta interessante da una corte internazionale che indaga sulla legalità o meno della guerra». Nel frattempo, il tempo dell’immagine di David Cameron quale “premier-uomo comune” che va a piedi a lavoro rinunciando all’auto blu, potrebbe concludersi presto poiché sia il primo ministro che la sua scorta cominciano a trovare le camminate a piedi per arrivare a Westminster «sempre pIù fastidiose». Lo rivelano indiscrezioni del Telegraph, secondo cui l’ex vice primo ministro Lord Heseltine ne avrebbe discusso durante una serata a teatro.
cultura
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L’intervista. Per il critico, in libreria col nuovo lavoro “Il romanzo e la realtà”, «il presente continua a essere irraccontabile, e più di ieri è vittima di guasti sempre più certi»
Ritorno al dolce stil vecchio Chiacchierata sullo stato di malattia della letteratura contemporanea con Angelo Guglielmi. Che avverte: «La medicina? Un salto nel passato» di Pier Mario Fasanotti
ROMA. Esco dalla casa di Angelo Guglielmi, sobria com’è d’altronde il carattere di chi l’abita, e ricavo dalla conversazione-intervista sulla letteratura italiana degli ultimi decenni la tentazione di riassumere quel che ho ascoltato in una metafora: il romanzo è come un’auto in riserva o che - e magari è peggio - s’ostina a ignorare di avere nel serbatoio pochissime gocce di benzina, quindi arranca, sbuffa, sporca carburatore e valvole, ed è destinata o a rimanere al margine di una strada o, se l’aiuta la fortuna, raggiungere una stazione di servizio col rischio che i benzinai siano in sciopero oppure siano sprovvisti di quel liquido vivace che fa camminare il motore. Non torno da lui a riferirglielo, ovviamente. Ma ho la presunzione di pensare che sia del tutto d’accordo.Guglielmi è il più severo dei critici, le sue analisi sono taglienti senza mai diventare occasioni di piccoli rancori, meschine rivincite, perfido piacere della stroncatura tout court. Si muove, anche come recensore in quotidiani come L’Unità e La Stampa, lungo il binario, oggi penosamente poco frequentato, della severità e del libero rigore. Certo, si può anche dissentire - in parte o in toto - si può criticare il suo criticato, ma sarebbe arduo se non disonesto ignorare la sua lunga militanza di studioso, la sua continuata voglia d’essere rabdomante di talenti o perlomeno di luci letterarie che non siano fuochi fatui o insegne commerciali al neon.
Guglielmi è stato direttore di Rai 3 (lasciò Viale Mazzini nel 1995) e dal 2005 al 2009 assessore alla Cultura al Comune di Bologna, quando Sergio Cofferati era sindaco.Tutti lo ricordano anche come co-fondatore del “Gruppo 63”, assieme a Umberto Eco ed Edoardo Sanguineti. Insomma fu uno di quelli che ebbero lo sfrontato corag-
gio di asserire che la prosa di Carlo Cassola e di Giorgio Bassani era una poltiglia poco significante, addirittura ammiccante come le pagine di Liala, la narratrice per signorine sognanti, la cantora dei buoni sentimenti, banalmente ondeggiante tra modestia d’inventiva
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È l’attenzione al linguaggio in quanto strumento fondativo dell’opera d’arte che caratterizza gli scrittori di avanguardia
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e sciatteria di stile. E di affermare che il valore di un romanzo lo si misura nella sua innovazione espressiva, nella sua valenza e nella sua sperimentazione linguistiche, al di là delle facili suggestioni di trama. Non a caso Guglielmi cita spesso, come fari di luce e di parole, Céline, Joyce, Gadda e Calvino (tanto per citarne solo quattro). Quando mi sono seduto accanto a lui (col suo cane Gregorio sempre vicino) gli ho chiesto come stava. «Abbastanza bene, grazie». Subito dopo la domanda ch’era poi la ragione della mia presenza annunciata: e
qual è lo stato di salute della nostra letteratura? Risposta: «Quella non sta per niente bene. Non nego che ci siano esempi che si possono anche valutare come corretti e ragionevoli, ma oggi prevale un forte grigiore». Il critico severo non nasconde affatto la sensazione che questa cappa opaca sia destinata a durare anche nel futuro prossimo. Poi ribadisce quanto ha scritto nel suo saggio da poco edito dalla Bompiani (Il romanzo e la realtà, 379 pagine, 21 euro): «Il presente continua a essere irraccontabile, e più di ieri è vittima di guasti sempre più certi».
È evidentissimo un continuum ideologico con Luciano Anceschi, docente e storico dell’Italia che si fa pagina, uno di quegli “antichi maestri”, per dirla con Thomas Bernard, la cui assenza, oggi, è danno grave. Scriveva Anceschi: «Quel che oggi mi pare grave è l’inesistenza di una volontà di recupero e di rinnovamento». Chiedo a Guglielmi che si debba intendere per “recupero” visto che anche lui, nel saggio, insiste su tale concetto. «Le possibilità che ci offriva il contemporaneo sono state consumate e sfruttate negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Quelle occasioni di realismo oggi sono pressoché inesistenti e quindi si fa ricorso ad accorgimenti di vario genere. Che si risolvono poveramente». Il presente è indicibile, sulla carta. E va bene. Ma allora ci troviamo in una strada sbarrata? «È vero, oggi non riusciamo ad avere un rapporto concreto con la realtà. Quindi cerchiamola, questa realtà, nel passato, in tempi in cui i mezzi di comunicazione non avevano ancora avuto tempo di scaricarla di materialità. Per esempio mi augurerei di leggere romanzi autobiografici, ove il testo appare più credibile. Oppure grandi biografie. Ci sono esempi eccellenti che sono riferi-
menti irrinunciabili: le lettere dal carcere di Foa e Gramsci, la prosa di Lussu e Fiore. Insomma si deve andare in terreni che non siano raggiunti da falsificazioni mediatiche». È perlomeno singolare, gli dico, che uno come lei, che oltretutto ha fatto iniezioni massicce di realtà contemporanea nel terzo canale della Rai, ora consideri salvifico il passato. «Vede, il presente è falso, è apparenza, mentre col passato si può avere un rapporto autentico. La realtà è diventata troppa. È iniziata la sua distruzione a metà Ottocento, si è sgretolata con la fotografia e il colpo definitivo gliel’hanno inferto i media di massa, in primis la televisione. Chi vuole scrivere si deve mettere di sbieco, non di fronte». Obietto ancora: ma come, il romanzo non è il frutto di un “a tu per tu” con la realtà? Ma nel formulare questa domanda inevitabilmente confesso di pensare ai Promessi sposi, sublime modo di parlare della contemporaneità, e non solo, con l’ausilio di lenti storiche focalizzate su un epos di secoli prima. «Appunto» spiega Guglielmi. «Mi pare che lo scrittore oggi debba evitare il faccia a faccia con la realtà, che è un falso, una cosa invasa dalla virtualità, priva di tangibilità. È facile avvertire il senso di immaterialità. Si deve accettare il presente o solo come impraticabilità, come sostiene Antonio Scurati, o ammettere l’inazione. Se una strada è inagibile, ecco che fioriscono i mostri, così tanti nel campo della casualità».
Su Scurati e sulle sue intenzioni nutro forti dubbi, visto che lui stesso si cala nel reale, contraddicendo quindi un’astratta teorica, oppure tenta l’approccio con il passato (con Una storia romantica) ma gli esiti sono modesti. Non vale però la pena duellare su un narratore che non rappresenta alcun punto di
Qui a fianco, una fotografia del critico letterario Angelo Guglielmi. A sinistra, un’illustrazione di Antonio Gramsci. In basso, uno scatto di Roberto Saviano. Nella pagina a fianco, lo scrittore Fëdor Dostoevskij
svolta. Guglielmi insiste: «Il presente non consente scelte. Campeggia e primeggia il male. Vuole esempi? Eccoli: il bullismo dei ragazzi, il delitto di Erba, le maestre di Rignano Flaminio». Come dire: oggi ci pensano i giornali e la tv. Sì, ma da piccoli spunti criminali uno come Dostojevskji creava capolavori... Gugliemi taglia corto: «Con Dostojevskji nasce l’esistenzialismo».
Pare di capire che il nostro critico non desideri commistioni di epoche. E aggiunge una cosa che pare, almeno a me,
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so. La realtà, il discorso e l’io stesso si risolvono in un’anarchia di atomi che sconvolge ogni gerarchia...».
molto discutibile: certi avvenimenti storici come il nostro Risorgimento, sequela di fatti elitari, sono poca cosa rispetto alla Rivoluzione francese.
Tuttavia in questi ultimi anni è uscito un romanzo-testimonianza come quello di Roberto Saviano, Gomorra. Un avvenimento letterario che francamente non ci aspettavamo, sul quale lo stesso suo editore credeva, e commercialmente confidava, fino a un certo punto. Saviano ha avuto un sostegno quando è diventato fenomeno politico-letterario, ma poi è scoppiato un rigurgito polemico attorno al nucleo
della sua scomoda creatura quando il padrone della Mondadori s’è sentito in dovere di prendere una distanza politica da quanto è uscito, in forma di parole-verità, dalle sue stesse rotative. Non è forse così? Risposta: «Saviano parte certamente da una sua personale realtà, ossia il porto di Napoli, il lavoro dei cinesi, il via-vai dei trafficanti d’ogni genere.Truffe e sangue. Ma alla fine, pur in mezzo a una così straripante documentazione, il prodotto risulta essere una sorta di romanzo immaginario, dove pagina dopo pagina vince l’incredulità. I pretesti per scrivere oggi sono indubbiamente tanti.
Ma per scrivere che cosa?». Attenzione, aggiunge: «Prendiamo Gadda e ci accorgiamo che per lui, come per alcuni scienziati d’oggi, il presupposto della “scoperta” risiede non tanto nel procurarsi una certa quantità di materiale, quanto una certa intensità di esso».
Nel suo saggio, Guglielmi ci ricorda il dialogo di Platone in “Repubblica”. L’arte è imitazione di apparenza o di verità? Il filosofo greco non aveva dubbi: di apparenza. E Nietzsche, nella sua lucida disperazione, affermava che «la vita non dimora più nella totalità, in un Tutto organico e conclu-
Tenuto conto di queste riflessioni, ecco il credo di Guglielmi: «È l’attenzione al linguaggio in quanto strumento fondativo dell’opera d’arte che caratterizza l’operare degli scrittori di avanguardia. Che torcono la lingua in ogni verso, sfidando la disarmonia e la rinuncia alla leggibilità per ottenere quegli effetti di totalità e di immersione nel corpo dell’esistenza che i loro predecessori perseguivano imitando la natura, della quale era bastevole riflettere la bellezza». Insomma è l’avanguardia, come coraggio e dote di sperimentazione, che ci mette in condizioni di scansare un andazzo fotocopiativo, pallido e piatto. Che in certi casi porta al successo è innegabile, come però è innegabile che l’applauso di un giorno non decreti un bel nulla. Eppure oggi, e da più parti, si invoca il ritorno alla realtà. «Certamente il ron-ron del ritorno alla realtà», ammette Guglielmi, «è sempre più diffuso, tuttavia è un’affermazione priva di senso. Il reale, ossia la realtà, è sempre stato in campo, come obiettivo obbligato, e agognato, dello scrittore. Leggibili? Comprensibili? Molti vorrebbero il romanzo “dei fatti”. Ma sta qui l’equivoco: la realtà della cronaca continua a essere irraccontabile. A meno di consumare fiction poliziesca e televisiva, ma in questo caso i cardini del giudizio sono altri». Cita poi una bellissima frase che Tommaso Landolfi indicò come epigrafe ai suoi fogli di viaggio: «Non hanno più meta le nostre pigre passeggiate, se non la realtà». E dice: «Il proprio dalla realtà è invece scappare, di essere sempre altrove, dove è difficile trovarla e se la trovi scopri che fai fatica a stringerla». Passiamo a certi autori considerati mostri sacri.
Moravia, per esempio. Guglielmi: «Aveva la lingua nel primo romanzo. Lì c’era essenzialità. Ma poi non volle più scoprire niente del mondo. Continuò a descrivere la condizione della borghesia italiana. Ma chi se ne frega! Di Moravia conviene riscoprire semmai le Lettere dal Sahara. In generale lo scrittore romano è buono fuori della denuncia, quando non deve dimostrare che il mondo è cattivo». Gli chiedo di Elsa Morante. E lui: «L’ho letta pochissimo. Mi limito a dire che La storia è un romanzo pessimo». Leonardo Sciascia non l’ha amato mai in modo particolare: «Lo vedo come un moralista, come Pasolini, non appartenente alla tradizione laica dei predicatori francesi. Lui era minacciosamente profetico. Il valore letterario non è quello che fa di Sciascia uno come Sciascia».
In questi ultimi anni si è posto in prima fila un narratore straordinariamente fertile, e di grande successo, come Andrea Camilleri. «È un uomo di eccezionale talento» dice Guglielmi, «e a questo talento tenta di dare un valore letterario. Non so se furbescamente o no. In ogni caso va al di là del senso della storia, racconta qualcosa in più, maneggia abilmente la civiltà, o la non civiltà, siciliana. Una Sicilia molto francese e inglese: in questo senso lui salta l’Italia. In ultima analisi mi pare che Camilleri non sia soltanto un prodotto commerciale perché si pone il problema linguistico». Interrogato su presunti nuovi talenti, a Guglielmi piace citarne due: Walter Siti, «più importante di quanto egli non sia considerato», e Antonio Moresco di cui però non condivide molte cose, «eppure è un totalitario, quindi scrittore ragguardevole». Un’ultima avvertenza: «Rileggiamo il Franco Lucentini de Notizie dagli scavi: un grande esempio di scrittura moderna».
spettacoli
pagina 20 • 23 luglio 2010
AVIGNONE. I personaggi hanno aspettato il loro pubblico immobili, quasi inanimati, seduti su un enorme pilastro di legno parzialmente carbonizzato. Allineati l’uno accanto all’altro, come pezzi su un’enorme scacchiera, sono entrati in gioco uno alla volta; lo schieramento iniziale si è andato via via disperdendo e i personaggi hanno iniziato a segnare l’enorme terreno di gioco, il palcoscenico. La Tragedia di Riccardo II era tornata alla Cour d’honneur du Palais de Papes di Avignone. Il ritorno della tragedia shakespeariana sull’ultimo dei Plantageneti al suo palcoscenico più famoso non poteva e non voleva essere uno spettacolo fra i tanti; l’evento esisteva già, insito nella storia del lavoro shakespeariano al Festival di Vilar, iniziata 64 anni fa. Nel 1947, infatti, il regista francese scelse una delle opere meno note del più famoso drammaturgo inglese per aprire un nuovo festival teatrale nella città dei Papi. Da allora Avignone ha moltiplicato l’offerta al suo pubblico, ma lo spettro di Riccardo II è rimasto tra le strade della cittadina provenzale, immagine sublime quanto subliminale di una rassegna che, un mese l’anno, conduce le rive del Rodano verso un’esplosione di vitalità artistica. A raccogliere la sfida è stato un interessante trio creativo composto da un regista alla sua prima esperienza in territorio avignonese e shakespeariano, Jean-Baptiste Sastre, da un arista visivo al suo debutto nel campo della scenografia, Sarkis, e da un traduttore, Frédéric Boyer, autore della nuova traduzione francese che ha dato l’avvio al tutto. «La mia personale riflessione sul teatro elisabettiano - ha raccontato Sastre durante un incontro con il pubblico - è iniziata molti tempo fa con Marlowe. Per quanto riguarda Riccardo II, invece, parliamo di un vero lavoro a tre avviato nel 2005 dal progetto della nuova traduzione curata da Boyer». Prodotto e sostenuto dalla regione Île de France e dall’Adami, la più importante associazione francese per la gestione dei diritti d’autore, lo spettacolo è stato preannunciato e accompagnato da numerosi incontri e dibattiti con gli artisti, il regista, lo scenografo, il responsabile del suono, e poi ancora, con il regista, il traduttore e lo scenografo insieme, con il protagonista e il regista insieme, il tutto affiancato da una mostra delle opere di Sarkis. Martedì
In questa pagina, alcune immagini dello spettacolo “La tragedia di Riccardo II” del regista Jean-Baptiste Sastre, tratta dall’opera shakespeariana “Riccardo II” e portata in scena martedì sera al Festival di Avignone
Teatro. Ad Avignone, la tragedia shakespeariana del regista Jean-Baptiste Sastre
Un «Riccardo II» convincente. Eppure... di Diana Del Monte sera la tensione era tangibile, l’attesa era stata lunga e costellata di imprevisti - ultimo in ordine cronologico, l’abbandono di Pascal Bongard, il 22 giugno, per motivi di salute - ma finalmente le roi non-roi, unkinged nella versione originale, era arrivato alle scene. Le imponenti mura gotiche del cortile del Palazzo dei Papi erano state
verso l’oscurità. Come contraltare, una luce mobile dai caldi toni aranciati posta direttamente sopra il palcoscenico e puntata sugli attori; sugli attori, ma sopratutto su Re Riccardo che, durante i monologhi, non esitava a rivolgerle lo sguardo. «È davvero molto diverso lavorare per un’esposizione o per la scena - ha detto Sarkis parlan-
lenziosa, alterna e allusiva che sosteneva le figure principali. Con il progredire della rappresentazione, però, la costruzione del quadro scenico cambia, subisce un’involuzione; man mano che il dramma di Riccardo II si intensifica, man mano che l’uomo-Riccardo si rende condo che la sua figura, il suo ruolo e, dunque, il potere della sua
L’opera portata in scena al festival è interessante, il cast è di livello (con un particolare plauso per Denis Podalydès nel ruolo del Re). Ma sono mancati coraggio e determinazione nella scelta della gestualità, limitata a pochi spazi trasformate da Sarkis in maestose manifestazioni spettrali; indefinito, quasi nebuloso, il perimetro del cortile era avvolto da un’emanazione luminosa gelida che costantemente, durante le quasi tre ore di spettacolo, virava
do della nuova esperienza teatrale - vedere delle persone, degli attori, che camminano dentro un mio lavoro e interagiscono con esso è emozionante».
Durante la prima metà della rappresentazione, tutto il cast ha effettivamente e costantemente punteggiato la grande quantità di spazio disponibile con una presenza si-
sovranità vanno sparendo, la scena, in accordo con il testo, diventa più solitaria, più concentrata sulle difficoltà del singolo. Ad accompagnare lo sviluppo dello spazio scenico, il lavoro sul gesto che, partendo grottesco per diventare sempre più intimo, segue lo stesso processo involutivo. La gestualità voluta da Sastre per la
sua Tragedia di Riccardo II richiama chiaramente e comprensibilmente l’origine popolare di quest’opera, accompagnata da una vocalità che alterna momenti forzatamente declamatori ad espressioni più aspre e acute. A ogni personaggio, così come a ogni fase della sua storia all’interno dell’opera, il regista assegna un diverso grado di trivialità; vediamo così che il Riccardo tronfio del suo potere, intento a giudicare il contenzioso fra Mowbray e Bolingbroke, marca lo spazio con una fisicità grottesca e quasi marionettistica, profondamente diversa da quella dell’’uomo abbandonato sul trono, privato delle sue vesti e della sua corona. Sastre non manca, inoltre, di far emergere il lato ironico, parossistico dei personaggi in gioco, concentrandolo soprattutto su alcuni personaggi, Riccardo II, Thomas Mowbray e il Duca di Lancaster in primis. Un lungo capitolo a parte andrebbe dedicato alla sperimentazione sonora curata da André Serré, intento a combattere contro quell’inferno dell’acustica che è la Corte del Palazzo dei Papi. I volumi altissimi e le sonorità scomposte di varia natura e origine - dagli spezzoni della Piaf ai versi dei rapaci - hanno turbato non poco la platea. «Bisognava pur fornire al pubblico dei momenti utili alla fuga», ha scherzato Serré, rispondendo a una spettatrice che lo interrogava sull’aggressività del l’ambientazione sonora, «e poi, pensate che la tragedia di Shakespeare sia meno aggressiva?».
Il lavoro, insomma, c’è e si vede, la ricerca è interessante e il cast di livello, con un particolare plauso per Denis Podalydès nel ruolo di Riccardo II, eppure la ripresa di quella che possiamo ormai definire la tragedia avignonese non convince appieno. Forse c’era bisogno di più coraggio e determinazione nella scelta della gestualità che, limitata a pochi ruoli e a pochi spazi, non sapeva giustificare la sua presenza sul palco; forse andava marcato il lavoro sul simbolo, e sui simboli del potere in particolare, diluiti fino quasi a sparire; ancor più probabilmente, però, La Tragedia di Riccardo II di Sastre è una ricerca appena aperta che deve trovare ancora la sua incisività. Dopo Avignone, lo spettacolo sarà impegnato in una tournée nazionale che si concluderà a Nîmes il prossimo aprile. «Dopo aprile, si va avanti - ha promesso Sastre - il lavoro su Riccardo II, in fondo, è appena iniziato».
società
23 luglio 2010 • pagina 21
Emergenze. Stalking, aggressioni, violenze: il sessuologo Marco Rossi ci parla di quando l’amore diventa ossessione
Consigli a una donna violata di Sabrina de Feudis
ROMA. «L’uomo non accetta l’idea che un altro possa prendere il suo posto. Se la donna amata non può essere la sua, non potrà essere di nessun altro, per questo motivo, spesso, vedono nell’omicidio l’unica soluzione». Questa è l’analisi fatta da Marco Rossi, psichiatra e sessuologo sempre attento alle problematiche che possono colpire l’individuo e la coppia. La violenza sulle donne è aumentata del 300 per cento negli ultimi 9 anni. Il 31,9 per cento delle italiane ha subito una violenza almeno una volta nella vita. I cosiddetti delitti passionali, in Italia negli ultimi quattro mesi hanno falciato 14 donne, 9 in meno di un mese. Questo il triste bilancio di una mattanza ormai senza fine. In una coppia è l’uomo che non tollera l’abbandono, la fine di una storia diventa un’ossessione che non dà più pace. La smania di riaverla, la voglia di stare con lei a tutti i costi. L’amore lascia il posto alla gelosia più assurda che spesso porta a compiere anche il delitto più efferato. Si possono fare anche 800 chilometri se hai deciso di uccidere. Si può partire da un paesino in provincia di Piacenza e, con una Panda, di notte, andare fino a Bari: una spranga come compagna di viaggio per portare a termine un progetto di morte. Questo il triste destino che ha colpito Chiara Brandosino, operaia 34enne. Una conoscenza nata in “rete”, il classico amore virtuale sfociato in una follia reale. Iana, il suo carnefice, doveva fargliela pagare per aver interrotto la loro relazione. La spirale di violenza che ha caratterizzato l’inizio di quest’estate fa impressione: donne uccise dai loro mariti, ex compagni o semplici conoscenti. Una scia di sangue che ha spesso come anticamera episodi di stalking, sono mille e duecento gli arresti dall’approvazione della nuova legge. Cambiano i tempi e mutano i tipi di delitti. Si è passati dal delitto d’onore, la punizione inflitta per una moglie disobbediente alla volontà del marito, al delitto del possesso e della dipendenza. Dal 24 aprile 2009 qualcosa è cambiato. È stata introdotta con l’articolo 612-bis la legge sullo stalking, parola di matrice anglosassone, significa «fare la posta, seguire ossessivamente una preda». Si tratta di veri e propri atti persecutori, spesso compiuti dall’ex coniuge o fidanzato, che non accettando la perdita della compagna, cerca con condotte ossessive di riconquistarla. Il reato è penalmente perseguibile ed è pu-
autonome, per questo gli uomini hanno paura di perdere potere di non riuscire più a controllarle e questo li turba. Dove avvengono maggiormente le violenze? Il maggior numero di violenze avviene all’interno delle mura domestiche. Spesso le donne scambino la violenza dei propri partner come estremi gesti d’amore, ma non è così. Amare vuol dire voler bene all’altra persona. Il vero problema è che nella nostra società manca sempre di più il rispetto per l’altro. Come si possono aiutare queste persone? Come prima cosa l’uomo violento deve essere consapevole di avere un problema. Secondo, bisogna aiutarli non tanto infliggendo loro pene detentive, ma attraverso un percorso di psicoanalisi.
“
L’uomo ha meno capacità di autonomia e fatica molto di più a restare solo. Quando una storia finisce, cerca in tutti i modi di non accettare la realtà
”
Qui a destra, Marco Rossi psichiatra e sessuologo, responsabile della società italiana di Medicina Psicosomatica
nito con la reclusione dai sei mesi ai quattro anni. La persona offesa può porre fine alla persecuzione attraverso una semplice querela. Chiunque può trasformarsi in uno stalker, dal compagno più amorevole, al marito premuroso nessun limite per un reato senza confine. Ma vediamo che cosa dice Marco Rossi.
Dottore, cosa scatta nella mente di un uomo quando una relazione sentimentale finisce? L’uomo ha una capacità minore d’autonomia rispetto alla donna, fatica molto di più a stare da solo. Spesso quando una storia termina, l’uomo non riesce più a gestire il suo potere e lo trasforma nella voglia di possederla come se fosse un oggetto. Quando la donna conclude una storia d’amore, soprattutto quando tradisce il proprio partner, fa scattare nell’uomo un progetto di morte. Se quella donna non può essere sua non potrà essere di nessun altro, allora vede nel delitto l’unica soluzione. Spesso dopo l’omicidio capiscono che la propria vita è finita e si suicidono. Com’è cambiata la violenza sulle donne nel corso degli anni? Paradossalmente prima erano le donne che commettevano più delitti a sfondo passionale. L’essere succube del marito, non avere una propria indipendenza, erano le cause scatenanti di un raptus omicida. Oggi le cose sono cambiate, le donne sono diventate sempre più libere e
Quali sono i campanelli d’allarme per una donna? Un rapporto d’amore inizia a essere malato quando: aumentano le scenate di gelosia, crescono i divieti, no alle mini gonne, no alle uscite con le amiche, no alle vacanze da sole, aumentano i controlli di sms e mail. Si è violenti anche usando questi atteggiamenti di divieto. Poi più si vieta e più si cerca di trasgredire. Quando si vive una relazione così ristrettiva, la prima cosa da fare è troncarla. La donna non deve neanche discuterne, non deve cercare mai l’ultimo appuntamento per chiarirsi, bisogna lasciarsi e basta. Una donna non tradirà mai il proprio partner se intelligentemente stimolata, non sentirà la necessità di guardare altrove perché è consapevole che l’uomo che ha al suo fianco è il migliore. La stessa cosa vale per l’uomo.
Nulla è più complicato di una relazione sentimentale. Trovare l’equilibrio e la sintonia sembra un’impresa epocale, ma ci sono piccoli accorgimenti per una corretta vita di coppia, basta solo seguirli.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Opposizione: uno sciame di cavallette incapace di un progetto comune È noto che gli sciacalli escono dalle tane quando comincia a fare scuro e nessuno riuscirà troppo a meravigliarsi delle spavalde sortite e interviste con le quali i responsabili di sinistra danno Berlusconi allo stato putrefazionale avanzato. È normale. Quello che lo è di meno è la sicurezza con la quale il vasto branco sentenzia che in sette anni il ciclo del berlusconismo non ha portato niente e ha fallito su tutto. Sarebbe forse opportuno suggerire al nostro gaudente sciame di cavallette, compatto nell’andare contro, ma incapace di un progetto comune, indeciso su quali pesci prendere, tra governi di larghe intese ed elezioni anticipate, che nel caso, da non escludere, che i cittadini siano chiamati di nuovo al voto, saranno loro, soltanto loro, e non Franceschini, D’Alema, Di Pietro, Bersani o Rosy Bindi, a stabilire se in materia di politica economica, di misure anticrisi, di sicurezza, di politica estera, di riforma dell’amministrazione, di lotta alla criminalità, di tasse, di scuola, di federalismo e quant’altro questo governo non ha fatto nulla, o se invece, facendo magari un rapido paragone con la biennale paralisi governativa, imposta al paese da Prodi e la sua armata Brancaleone, non saranno indotti, malgrado tutto, a confermare ancora una volta la loro preferenza per colui che ci governa.
Carlo Signore
IL FEDERALISMO FISCALE È UNO STRUMENTO PER SUPERARE LA CRISI È positivo il cambiamento di rotta della Conferenza delle Regioni. È un bene la rinuncia alla restituzione delle deleghe, bene il tavolo per una accelerazione del federalismo fiscale. Il federalismo fiscale non era a rischio a causa della manovra, rappresenta invece uno strumento per superare gli effetti della manovra e della crisi.
R.C.
PIANO CASA: CIOCCHETTI L’ANTISISMICO Mentre all’Aquila scorrono ancora le lacrime c’è chi, come il neo assessore all’Urbanistica della regione Lazio, dimostra di non aver imparato la lezione. Per Ciocchetti, infatti, la norma regionale per l’adeguamento antismico è un ostacolo da rimuovere, un precetto di legge troppo costoso se eseguito
C’è un ghepardo! Scherzavo...
su tutto l’edificio. Per questo lo vorrebbe attuare solo per la sezione di casa che viene ampliata. Eppure quando un terremoto“parte” non partecipa preventivamente ad una conferenza di servizi con la regione Lazio. Di solito il sisma colpisce con violenza inaudita senza chiedere deroghe e permessi. Siamo in mano ad una classe dirigente troppo distratta che, invece di rilanciare l’edilizia per aiutare le famiglie a rendere sicura la propria abitazione, si inventa “fantasiosi” piani casa a favore dell’occupazione.
non è un caso, perché l’asse Berlusconi-Bossi è un asse del Nord che ha vinto le elezioni grazie ai voti del Sud ma che quando c’è la crisi la fa pagare sempre agli stessi.
BERLUSCONI FA PAGARE CRISI AL SUD
SEMBRA GRATIS MA COSTA 96 EURO
L’indice della povertà nel Mezzogiorno è peggiorato, confermando che col governo Berlusconi il divario nord-sud è aumentato e minaccia di trasformarsi in un fossato non solo socio-economico, ma anche politico. E
Easy-download.info. È facile scaricare programmi dalla rete attraverso il link a questo sito che appare sui motori di ricerca. Molto facile e oneroso: 96 euro. Che il consumatore non sapeva di dover pagare, trattandosi di
Ivano Peduzzi e Fabio Nobile
Le antilopi topi sono delle vere ninfomani. Le femmine sono ossessionate dalle necessità riproduttive che arrivano ad aggredire i maschi pur di convincerli ad accoppiarsi. I maschi allora per trattenere le compagne con sé, lanciano segnali di allarme come se avessero avvistato un predatore
Marco Di Lello
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
software il cui download di solito è gratuito. L’ingiunzione a pagare arriva da una società tedesca che gestisce il sito e che ha inviato centinaia di messaggi email dal tono perentorio: «avete accettato le nostre condizioni commerciali generali e vi siete impegnati al pagamento immediato». Coincidenza o scorrettezza: la richiesta via email dei 96 euro arrivava ai consumatori solo dopo 10 giorni, a scadenza del periodo di tempo per far valere il diritto di recesso.
Lettera firmata
da ”Le Monde Diplomatique” 20/07/10
L’Occidente e l’ultimo treno per Kandahar guardare bene la guerra in Afghanistan, sembra di essere ancora molto lontani dalla cosiddetta conquista dei cuori e delle menti di popolazione e insorgenti. In centri come Kandahar trovi una criminalità organizzata diffusa, una corruzione dilagante, conflitti tribali mai sopiti e la gente comune impegnata nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. Insomma nessun lieto fine all’orizzonte. Al Kandahar coffe shop c’è un biliardo, ma per chi non sa giocare di stecca, rimano solo la possibilità di girare qualche immagine della folla che si accalca nelle strade circostanti. Dalla terrazza del caffè si può vedere bene un incrocio. Puoi oservare i militari americani a bordo di grossi blindati, poliziotti afgani controllare una Toyota Corolla bianca (che pare sia l’unico modello in circolazione) in cerca di armi ed esplosivi. Mentre gente armata di ogni categoria e specie sfreccia su Suv e Pick up. Dietro l’angolo c’è l’albergo dove sono alloggiati molti giornalisti. È parzialmente distrutto. All’inizio dell’anno un kamikaze era esploso all’interno. Probabilmente il suo obiettivo era un altro, ma appena la polizia si è accorta di lui ha cominciato a sparare e probabilmente un proiettile ha fatto detonare la bomba che portava. È venuta giù un’intera ala del fabbricato. Ora il proprietario dell’hotel la sta ricostruendo. E sta aspettando il flusso di giornalisti e commerci, legato a quello che, in un primo tempo, veniva definita come «l’offensiva estiva», oppure la «battaglia di Kandahar» e che poi si è trasformato in
A
di Stephen Grey
un «complesso sforzo politico-militare». Tutto ruota attorno a una situazione che è ben descritta dai titoli dell’Abc news: «la campagna di Kandahar è forse l’ultima possibilità per l’America di vincere in Afghanistan». Quando il capo degli Stati maggiori riuniti Usa, l’ammiraglio MIchael Mullen è arrivato qui, ha definito la città come «strategica per l’Afghanistan, come lo è stata Baghdad per l’Iraq durante il surge». Purtroppo per gli americani da queste parti quasi tutti sono vicini ai ribelli talebani. Anche i comandanti della Nato. Uno di loro ha affermato che «se fossi un giovane afghano combatterei al loro fianco». Nel cuore della terra Pashtun, l’idea di esser un collaboratore delle forze occidentali o un fian-
cheggiatore dell’odiato governo di Kabul, non ha alcuna attrattiva per i giovani. A meno che non ci siano di mezzo tanti soldi. La scelta è tra il denaro e gli stranieri o rischiare una morte eroica. Alla gente non piace neanche chi lavora per il governo. All’Isaf dunque rimangono poche scelte per arruolare collaboratori. Tra questi ci sono quelli che gli stessi afghani definiscono «i comunisti». Non credono in Marx o Lenin, ma sono quei cinquantenni che, durante l’occupazione sovietica, erano giovani e decisero di collaborare con gli uomini di Mosca.
«A loro piace lavorare per gli stranieri» spiega una guida locale. Molti di loro hanno anche studiato in Russia, ma la maggioranza degli afghani non si fida di loro. La maggioranza di questi «comunisti» si fanno crescere la barba a dismisura, nel tentativo di far dimenticare il loro passato e seguire la“moda”del momento. I giornalisti tendono alla semplificazione, ma parlando a lungo con la gente del posto, ci si accorge che il male non viene tutto dai talebani. Ci sono altre «forze oscure» all’opera in queste terre.Veri boss mafiosi e signori della guerra che sono in combutta con gente del governo di Kabul. E poi c’è il capito McChrystal, l’ex comandante in capo delle forze Usa e Nato. Aveva introdotto una serie limitazioni all’ingaggio, per proteggere i civili dai danni collaterali. Ma era odiato dalla truppa e dagli ufficiali. «Non ha mai capito questo posto. Qui la gente non rispetta la debolezza. Con questi sistemi non vinceremo mai».
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LE VERITÀ NASCOSTE
Quando vincere ti rovina la vita LONDRA. Qualcuno diceva: «Attento a quello che desideri, perché potresti ottenerlo». Quanti di voi non vorrebbero infilare i 6 dannatissimi numeri e sbancare i tanti milioni del prossimo Superenalotto? Non fate finta, su quelle mani! Sappiate però che gli elenchi delle persone più fortunate (al gioco) e più sfortunate (nella vita) si intersecano molto più spesso di quanto si possa pensare. E quindi raccontiamo ora la storia di una “vincitrice sfortunata”, ossia una persona che del bacio della fortuna, e dei soldi vinti con lotterie e concorsi avrebbe fatto volentieri a meno. Vi presentiamo Callie Rogers, la teenager più fortunata d’Inghilterra. Callie vinse poco meno di 2 milioni
di sterline quando aveva solo sedici anni, sei anni fa. C’è da dire però che la ragazza non è stata particolarmente abile a gestire questa ricchezza, sperperandola in poco tempo in numerose vacanze in varie località esotiche e non, case, ville al mare e in montagna, spese folli, e non poteva farsi mancare anche alcuni interventi di chirurgia estetica, che vista la sua giovane età sono stati sicuramente superflui e inopportuni. Tra le varie vicissitudini di questa giovane donna inglese anche una maternità inaspettata, e quindi un figlio di cui non è chiaro chi sia il padre (ma questo capita a volte anche senza vincere alla lotteria…). Soprattutto, Callie si è lasciata total-
CONDANNATO PRAVISANI: UNA VITTORIA CONTRO IL TURISMO SESSUALE Paolo Pravisani è il primo straniero condannato per turismo sessuale in Colombia. È stato riconosciuto colpevole di pedofilia, detenzione di materiale pedopornografico e induzione alla prostituzione. Finalmente si spezza il cerchio di omertà e complicità che da anni si chiudeva attorno alle tante vittime della prostituzione infantile e copriva gli sfruttatori e i clienti.Terre des homme che in tutti questi anni ha sostenuto i familiari delle vittime, in particolare la madre di Yesid, esprime dunque soddisfazione e manterrà l’impegno affinché da questa sentenza si arrivi a riconfigurare un sistema di giustizia internazionale, nel quale i delitti contro l’infanzia vengano considerati dei veri e propri crimini contro tutta l’umanità. Il giudice fisserà entro un mese la pena da scontare, nel frattempo ha ordinato che venga trasferito nel carcere di Ternera dalla clinica psichiatrica nella quale si era rifugiato durante tutto il processo. Dopo aver scontato la pena Pravisani verrà espulso dalla Colombia. Il caso Pravisani si è aperto a seguito della morte per overdose di Yesid Torres, un quindicenne impiegato da Pravisani ufficialmente come lavoratore domestico e trovato nudo, in preda alle convulsioni accanto a lui il 23 febbraio 2009. Il turismo sessuale è un fenomeno molto diffuso in Colombia, a causa dell’indigenza in cui versa gran parte della popolazione. Il 46,8% dei colombiani infatti vive al di sotto della soglia di povertà; tra di loro ci sono i quasi 4 milioni di sfollati a causa del conflitto tra esercito, guerriglia e paramilitari o per le pressioni dei narcotrafficanti.
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
di Vincenzo Bacarani
ACCADDE OGGI
23 luglio 1972 Gli Stati Uniti lanciano il Landsat 1, primo satellite per i rilevamenti terrestri 1982 La Commissione internazionale per la caccia alle balene decide di porre fine alla caccia alle balene per fini commerciali entro il 1985-86 1984 Vanessa Williams diventa la prima Miss America a rinunciare al titolo, dopo che delle sue foto di nudo apparvero sulla rivista Penthouse 1985 Negli Usa Andy Warhol fa da testimonial al lancio del nuovo computer della Commodore International: l’Amiga 1000 1986 A Londra, il principe Andrea, duca diYork sposa Sarah Ferguson nell’Abbazia di Westminster 1992 Una commissione di alti prelati, presieduta dal cardinale Ratzinger sancisce che è non solo doveroso, ma necessario limitare i diritti degli omosessuali e delle coppie non sposate 2005 Attentato terroristico a Sharm El Sheikh. 63 vittime, tra cui anche 6 italiani
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
mente prendere la mano, e ha speso molto ma molto di più di quanto aveva vinto. Ha abbandonato la scuola, le sue amicizie familiari e ora lavora come donna delle pulizie per pagare un po’ alla volta gli svariati e ingenti debiti.
Città come Cartagena sono circondate da baraccopoli dove le famiglie sono costrette ad accettare e a favorire lo sfruttamento dei propri figli nella prostituzione. Yesid, il ragazzo trovato agonizzante per un’overdose di cocaina a casa di Pravisani, è solo uno dei tanti che proveniva da lì e che purtroppo ha trovato la morte.
Raffaele K. Salinari
LA MACCHINA DEL TEMPO Per alcune datate figure del Pd, come d’Alema, una coalizione di salute pubblica, un nome che sembra un farmaco per una pestilenza diffusa, dovrebbe tenere lontano e al bando il nostro premier. Sembra strano che le vecchie volpi ritengano rispolverare in simili tempi quell’antiberlusconismo atavico, che è stato l’errore principale proprio della campagna della sinistra. Evidentemente sono come quei metereologi che vedono anche il futuro, e male, dal momento che ogni destino in mano al Cavaliere deve essere per loro solo funesto. È per queste persone, per come hanno consegnato l’Italia al futuro che è così il nostro presente?
Bruno Russo
UN CAVILLO NON SI NEGA A NESSUNO Un cavillo non si nega a nessuno: i piemontesi hanno scelto e sembra assolutamente improponibile un risultato negativo da riconteggio come deciso dal Tar. Roberto Cota non solo ha chiaramente prevalso ma in questi primi mesi ha dimostrato forti capacità di governo, affrontando brillantemente una situazione complessa con molte criticità sul piano occupazionale. Schengen.
M.B.
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
SCATTI ANZIANITÀ E ORARIO DUE VITTORIE DAL FRONTE SCUOLA Alla fine la tenacia dei sindacati ha dato i suoi risultati. Il maxiemendamento alla manovra finanziaria e una sentenza del Tar (Tribunale amministrativo regionale) del Lazio hanno riconsegnato agli insegnanti (e anche agli studenti) quello che era stato tolto dal governo per i soliti motivi di bilancio. Il primo punto, che riguardava esclusivamente il personale docente, è stato un successo di tutti quei sindacati che hanno partecipato alla manifestazione al Teatro Quirino di Roma a metà giugno contro i “tagli” proposti dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Erano tagli pesanti per il personale insegnante. Quella manifestazione si è trasformata dunque in una prima e piccola, ma importante vittoria. Con il maxiemendamento alla manovra finanziaria, infatti, è stata salvata la corresponsione degli scatti di anzianità per il triennio 2010-2012. “Quello ottenuto – dice il segretario generale dello Snals-Confsal, Marco Paolo Nigi - è un risultato parziale e in sede contrattuale dovremmo operare per il mantenimento della progressione di anzianità anche oltre il triennio”. Intanto un primo traguardo è stato raggiunto. Il secondo obbiettivo che si ponevano i sindacati della scuola era il ripristino dell’orario completo negli istituti tecnici e professionali, abolito invece dal ministro della Pubblica Istruzione, Maria Stella Gelmini, per economie di spesa. Ma su ricorso dello SnalsConfsal (avvocati Stefano Viti e Michele Mirenghi), il Tar del Lazio con ordinanza del 19 luglio 2010, n. 3363 ha sospeso i decreti con cui il ministero della Pubblica Istruzione aveva unilateralmente deciso la riduzione degli orari di insegnamento negli istituti tecnici e professionali. Quella del Tar non può essere tuttavia una decisione definitiva perché la sospensione è destinata a durare fintantoché il Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione esprimerà il proprio parere sull’iniziativa del ministero. Per espresso ordine del giudice amministrativo, il ministero sarà tenuto a considerare le indicazioni formulate al riguardo dal Consiglio nazionale della pubblica istruzione. Gli effetti di questa sospensione sono importanti perché l’ordinanza comporta il ripristino delle ore di insegnamento e il diritto alla restituzione delle cattedre. In altre parole, molti insegnanti potranno non perdere il loro posto di lavoro. Così, tutti i docenti degli istituti tecnici e professionali che, a seguito della riduzione delle ore di insegnamento nelle classi intermedie, abbiano perduto la cattedra di titolarità, grazie all’ordinanza del Tar, potranno agire per essere reintegrati nella sede di provenienza. Quindi, al di là della questione dell’orario completo, la decisione riguarda anche i diritti del personale docente. bacarani@gmail.com
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ULTIMAPAGINA
Cina. Il governo di Canton ha trasformato la storica Accademia militare di Whampoa in una discoteca alla moda
La rivoluzione è diventata un di Massimo Ciullo ella Cina odierna, che ormai si può definire a pieno titolo “post-comunista”, anche i luoghi simbolo del passato rivoluzionario iniziano cedere il posto a più redditizie attività commerciali. La legge del profitto ad ogni costo non ha mai avuto particolari attenzioni per edifici storici o luoghi carichi di particolari significati simbolici. Non deve meravigliare quindi, che anche le autorità di Canton, capitale della provincia del Guangzhou, abbiano autorizzato l’apertura di un night-club dal nome “Hei Hei” (che ricorda molto qualche bordello di Saigon durante la guerra del Vietnam), laddove un tempo sorgeva il palazzo della storica Accademia Militare di Huangpu. Originariamente conosciuta come Accademia di Whampoa, la struttura era considerata la culla della rivoluzione moderna per aver ospitato l’elite della casta politico-militare cinese, protagonista dell’ultimo mezzo secolo di storia. La ristrutturazione dell’edificio ha provocato qualche malumore sia tra i vecchi leader della nomenclatura comunista, ma anche tra gli esperti di beni culturali che hanno definito “oltraggiosa” la distruzione di un palazzo carico di significati ed eredità culturale di un periodo storico molto controverso. Sulla terrazza della nuova costruzione al numero 239 di Yanjiang Zhong, un tempo proprietà dell’Associazione degli ex allievi dell’Accademia Militare di Huangpu, campeggia ora una gigantesca insegna al neon con la scritta “Hei, Hei”, difficile da non vedere. Anche se il sito di 700 metri quadrati, costruito nel 1924 sulla sponda del Fiume Perla, non si trova nella parte principale del campus, è stato comunque una parte importante dell’accademia, tanto che nel 1987 il governo locale ha deciso di dichiararlo “edificio protetto”. Il palazzo ha ospitato per diversi decenni la sede dell’ufficio provinciale dell’istituto militare, dove ha lavorato (come direttore) il generale Chiang Kai-shek. I lavori di ristrutturazione dell’edificio a tre piani, le cui fondamenta si possono vedere da un buco largo un metro, hanno profondamente modificato il suo aspetto originario. Dal muro del palazzo è stata perfino rimossa la targa che ricordava lo status dell’edificio come “reliquia protetta della Città di Canton”, prontamente rimpiazzata da un avviso di posti di lavoro disponibili nel cantiere. Li
N
Xianheng, direttore del Museo della Storia Rivoluzionaria di Guandong e a capo dell’ala conservatrice che si è opposta alla trasformazione del sito, ha condannato la conversione dell’Accademia in un night-club. Il vice-governatore della provincia dell’Hubei ha dichiarato che la pavimentazione interna e la struttura storica dell’edificio sono state radicalmente modificate. Le cronache locali hanno segnalato un’alta affluenza di clienti per il nuovo locale notturno già nei primi giorni di apertura. Ma la pubblicazione di un reportage del Guangzhou Daily ha scatenato la reazione di un’indignata opinione pubblica cantonese, tanto che un portavoce del club è stato co-
nella disponibilità del suo sodalizio da diverso tempo. Haitao ha comunque ribadito che l’associazione di Canton e il suo quartier generale a Pechino seguono la vicenda con estrema preoccupazione. Il segretario ha anche sollecitato le autorità locali ad intervenire perché «è del tutto inappropriato che un palazzo così importante venga trasformato ed usato come una discoteca». L’altro nodo da sciogliere resta quello della proprietà dell’edificio: nell’articolo apparso sul giornale cantonese non è specificato a chi appartenga attualmente il palazzo, anche se Haitao ha dichiarato che dovrebbe rientrare nella disponibilità del Guangdong Museum of Revolu-
NIGHT CLUB La popolazione è insorta contro la decisione. Qui hanno studiato l’ars bellica tutti gli alti gradi degli eserciti, nazionalisti e comunisti, che hanno fatto grande il Paese stretto a dichiarare che il locale era stato chiuso prima del nuovo Anno Lunare e che non è stata stabilita ancora nessuna data per la riapertura. Sulla Rete intanto, gli internauti cinesi hanno lanciato una campagna di sensibilizzazione per salvare la sede dell’antica accademia.Yu Haitao, segretario dell’Associazione degli ex-allievi dell’Accademia, ha detto che il palazzo non era più
tionary History. Un funzionario dell’Ufficio Beni culturali della terza città cinese per grandezza, si è trincerato dietro ad un imbarazzante “no comment”, precisando però che esistono, a livello municipale, chiare linee guida che sovraintendono alla destinazione d’uso degli edifici protetti. Huangpu è stata per decenni uno dei simboli più importanti della Cina post-imperiale.
Tutti gli alti gradi nazionalisti e non sono stati addestrati in questo istituto militare, tanto che Huangpu ha iniziato a godere della stessa reputazione e fama di cui beneficia la prestigiosa accademia militare statunitense di West Point. L’istituto è stato fondato nel 1924 dal presidente del Kuomitang, Sun Yat-sen, con l’obiettivo di formare l’elite militare cinese. Molti dei comandanti cinesi che hanno combattuto sia la Seconda Guerra sino-giapponese, sia la Guerra Civile, provengono dai suoi ranghi e per un periodo di tre anni, nazionalisti e comunisti si sono ritrovati a studiare gomito a gomito proprio a Huangpu. Uno dei suoi direttori più famosi è stato il leader dell’esercito nazionalista Chiang Kaishek e l’ex-premier Zhou Enlai ha tenuto lezioni presso il dipartimento politico dell’Accademia nei suoi primi anni di esistenza. Gli edifici più importanti del campus dell’accademia furono letteralmente rasi al suolo da un bombardamento giapponese nel 1938. Nel 1996, il governo locale ha investito oltre 36 milioni di yuan per la loro ricostruzione.