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ALL’INTERNO DEL QUOTIDIANO PAGINE SPECIALI DI

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 4 AGOSTO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Oggi il voto a Montecitorio sul sottosegretario che rompe le rigide gabbie di maggioranza e opposizione

Il patto della responsabilità Udc, finiani, Mpa e Api concordano l’astensione sul caso Caliendo. Non è un “terzo polo” ma una normale convergenza parlamentare contro il giustizialismo e l’impunità BIPOLARISMO IN CRISI

di Errico Novi

Così nasce una nuova stagione di moderazione di Enzo Carra n bipolarista sfegatato, lo capisco. Lui dice che anche questa cosa di Fini la sopporta. Anche questa. L’importante è non perdere l’orientamento, non tornare ai “riti” della Prima Repubblica. Sarà. Salus republicae suprema lex. Salus per il nostro interlocutore equivale a bipolarismo. Del bipartitismo anche lui, come noi, ha perso le tracce e forse la memoria. Di questi tempi uno può anche essere nostalgico. Con quel che passa il convento una nostalgia può essere meglio delle visioni contemporanee. a pagina 2

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Riprendono le ostilità sulla Linea Blu: 5 morti

ROMA. Tensione che si ta-

Centrodestra a pezzi, Pd senza strategia

Se son Poli… fioriranno Roberto D’Alimonte, Stefano Folli e Paolo Pombeni analizzano le conseguenze del patto siglato ieri Franco Insardà • pagina 4

glia a fette. Acuita dal fatto che quella di oggi per Montecitorio è l’ultima seduta prima della pausa e che a chiudere la giornata sarà proprio la mozione di sfiducia sul sottosegretario alla Giustizia Caliendo. Così per molte ore gli occhi restano puntati sulla riunione di Udc, Futuro e libertà, Api e Mpa, a consulta nella Sala De Gasperi del gruppo centrista per valutare una linea comune sul documento. Alla fine i rappresentanti dei quattro gruppi si presentano ai taccuini con una versione destinata a deludere le attese dei più agitati: non nasce un Terzo Polo, spiega Lorenzo Cesa, ma «un’area di responsabilità». Con l’auspicio di convergenze non solo sullo specifico caso Caliendo ma anche su altre questioni». a pagina 2

Il procuratore nazionale sui pericoli di un ritorno della “strategia della tensione”

Grasso: «Mafia, rischio attentati» Allarme di Granata: «Infiltrazioni alle Regionali»

Prove di guerra tra Israele e Libano

Beirut condanna “l’aggressione” di Tsahal, che risponde: «Siete voi i responsabili degli scontri». E il presidente pakistano ammette: «In Afghanistan stiamo perdendo» Vincenzo Faccioli Pintozzi • pagina18

A chi giova alzare la tensione? di Luisa Arezzo

di Guglielmo Malagodi

CORTINA D’AMPEZZO. I rischi di attentati «ci sono sempre, soprattutto in momenti di tensioni politiche». A dirlo, durante un meeting che si è tenuto lunedì sera a Cortina Incontra, è il procuratore nazionale Antimafia, Piero Grasso. Il procuratore ha risposto così a chi gli chiedeva se è plausibile pensare a un ritorno della “strategia della tensione” da parte della mafia. «Non dimentichiamo ha ricordato Grasso - che nel ’92 gli attentati sono avvenuti a ridosso di tangentopoli. Può esserci qualcuno che vuole approfittare del momento politico per dare uno scossone. Ho sempre interpretato queste cose come una voglia di conser-

vare più che destabilizzare il sistema». «Spero che non sia così - ha sottolineato Grasso - che si rendano conto che nel momento in cui riaprono una stagione del genere di stragi, di attacco alle istituzioni, sarà ancora peggiore la repressione dello Stato. Lo Stato, le forze di polizia e la magistratura non hanno mai cessato al momento la repressione e continuano a fare opere di bonifica». Per Grasso, inoltre «uno Stato che si definisca tale non può aver paura della verità, accertata con le regole». Uno Stato insomma, «non può sopportare i misteri e i segreti», ha detto.

quattro anni dalla guerra del 2006, torna alta la tensione al confine fra Israele e Libano. Ma benché lo scontro di ieri abbia preteso il suo tributo di sangue in una dinamica ancora fumosa, figlia di delle reciproche accuse scambiate fra i due governi, una cosa è chiara già da tempo. Quella guerra non è mai cessata, fatto salvo che nel suo aspetto più manifesto: il lancio continuo di razzi contro Israele. Ed è legittimo oggi chiedersi non solo se sia pronta a ricominciare, ma se l’attacco di ieri non sia stato un atto premeditato volto a surriscaldare un confine per distogliere l’attenzione dall’Iran - che procede a passo spedito nella sua corsa all’arma atomica -, continuare l’opera di delegittimazione verso Israele (vedi il rapporto Goldstone, così come tutto l’affaire della Freedom Flotilla) e alzare la tensione nell’intero Medioriente, sempre più preoccupato di una nuova guerra nell’area, financo quella di stampo nucleare.

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I QUADERNI)

• ANNO XV •

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NUMERO

149 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 4 agosto 2010

Dialogo. «Non nasce alcun polo», dicono Casini e gli altri leader delle forze moderate, «è l’avvio di un confronto nelle sedi istituzionali»

La sfida dei quattro

Mentre nel Pdl la tensione aumenta, in Parlamento si arriva a un’intesa per l’astensione sul caso Caliendo tra Udc, Futuro e libertà, Mpa e Api di Errico Novi

ROMA. Tensione che si taglia a fette. Acuita dal fatto che quella di oggi per Montecitorio è l’ultima seduta prima della pausa e che a chiudere la giornata sarà proprio la mozione di sfiducia sul sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo. Così per molte ore gli occhi restano puntati sulla riunione di Udc, Futuro e libertà, Alleanza per l’Italia e Mpa, a consulto nella Sala De Gasperi del gruppo centrista per valutare una linea comune sul documento. Alla fine i rappresentanti dei quattro gruppi si presentano ai taccuini con una versione destinata a deludere le attese dei più agitati: tutti d’accordo per l’astensione ma non nasce un terzo polo, spiega Lorenzo Cesa, piuttosto «un’area di responsabilità». Si può auspicare, aggiunge il segretario centrista, che «ci siano convergenze non solo sullo specifico caso Caliendo ma anche su altre questioni». E lo si potrà verificare in Parlamento, nella sede cioè naturale per qualsiasi tipo di convergenza: «A settembre-ottobre speriamo che ci siano posizioni comuni: noi siamo all’opposizione, Fini è nella maggioranza, vedremo», chiarisce Cesa. Alla riunione partecipano i rappresentanti dei quattro gruppi. Come spiega Benedetto Della Vedova, dall’incontro non deriva una scelta apodittica ma «l’invito che farà ciascuno ai propri deputati di optare per l’astensione sul caso Caliendo». Non c’è spazio per interpretazioni libere: il concetto è rafforzato da Italo Bocchino, che poi, sollecitato dai cronisti sulla lealtà dei finiani al governo, puntualizza: «Noi siamo fedeli al patto con gli elettori». Dà un contributo di chiarezza anche Aurelio Misiti, che è presente all’incontro per l’Mpa, insieme con Giovanni Pistorio: «Questa riunione rappresenta un fatto politico rilevante ma non può essere considerata come l’avvio della formazione di un terzo polo, casomai come l’individuazione di un’area di responsabilità istituzionale che potrà trovare in futuro ulteriori momenti di confronto su singole questioni, soprattutto quelle relative al Mezzogiorno del Paese».

Basta a ridimensionare l’impulso distruttivo che percorre il Pdl berlusconiano? Di sicuro nel campo della maggioranza si avvertono fibrillazioni al massimo grado. Parlamentari pure moderati come il neo-alemanniano Mario Landolfi arrivano a dire che di fronte a un’astensione estesa sulla mozione Caliendo, Berlusconi dovrebbe salire al Quirinale. È l’effetto di un finale di partita alla Camera egemonizzato dalla

L’incontro dei gruppi che fanno capo a Casini, Fini, Rutelli e Lombardo

Lorenzo Cesa

Da ieri è iniziata una nuova stagione di moderazione di Enzo Carra n bipolarista sfegatato, lo capisco. Lui dice che anche questa cosa di Fini la sopporta. Anche questa. L’importante è non perdere l’orientamento, non tornare ai “riti” della Prima Repubblica. Sarà. Salus republicae suprema lex. Salus per il nostro interlocutore equivale a bipolarismo. Del bipartitismo anche lui, come noi, ha perso le tracce e forse la memoria. Di questi tempi uno può anche essere nostalgico. Con quel che passa il convento una nostalgia può essere meglio delle visioni contemporanee. Nostalgici però, non ciechi. E il voto di oggi sul magistrato Caliendo (l’unico magistrato che Berlusconi difende, chissà perché), prima ancora l’incontro di ieri tra i non allineati, cambiano davvero la situazione. Non che si vada verso una nuova conferenza di Bandung, anche perché non si vedono in giro sotto mentite spoglie Nehru,Tito, Sukarno e Nasser. Non giriamoci intorno: i nostri non allineati non stanno per formare un terzo polo, una terza forza o qualcosa di simile. Pure se le distanze all’interno di questi gruppi non sono paradossalmente maggiori di quelle che si registrano all’interno del Pdl e del Pd. Si parla di “area della responsabilità”, evidentemente contrapposta a quella ancora vasta della irresponsabilità.

U

L’incontro dei gruppi che fanno capo a Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini, Francesco Rutelli, Raffaele Lombardo ha una sua importanza oggettiva. Qui è la funzione che crea l’organo. La decisione di questi parlamentari inaugura un’altra stagione. Intanto da ieri c’è uno schieramento virtuale capace di reggere il confronto con gli altri due. Quei due che alle elezioni del 2008 erano in procinto di dividersi l’elettorato e filavano

indisturbati verso il bipartitismo, tanto indisturbati che, do you remember?, due dei presenti all’incontro di ieri, Fini e Rutelli, s’erano fatti anche loro convincere della ineluttabilità dell’esito bipartitico. Il primo a infrangere la regola fondamentale della dottrina, il principio di non contraddizione del bipartitismo, l’imperativo di “andare da soli”, fu Walter Veltroni. Il più convinto di tutti quanti delle magnifiche sorti e progressive del bipartitismo. Con la sua tuttora inspiegabile apertura al partito di Di Pietro, l’allora segretario del Pd non dette soltanto un colpo mortale al bipartitismo, ma determinò anche un indebolimento del contesto.

Ancora più forte fu in quelle elezioni lo squarcio procurato a questo disegno dalla sorprendente riuscita della strategia di Pier Ferdinando Casini, l’unico che con coerenza aveva combattuto il disegno bipolare e aveva messo in campo gli strumenti per ridurne la portata. Simul stabunt simul cadent. Le concomitanti effrazioni sul tessuto berlusconian-veltroniano provocate dallo stesso Veltroni e, soprattutto, dal leader dell’Udc hanno avuto una serie di effetti collaterali, il più vistoso e significativo dei quali è rappresentato dal “lungo addio” di Gianfranco Fini al partito del predellino. E c’è anche, sull’altro versante, l’abbandono di uno dei fondatori del Pd, Francesco Rutelli, e quello di altri deputati, a cominciare da me, che hanno lasciato il partito di Bersani per l’Udc. Lo stillicidio ha per il momento una conclusione, se non un fine. La legislatura giunta a metà del suo percorso, sempre che sia la metà e non una vigilia della sua fine, fa i conti con il tramonto della piccola Yalta della Seconda Repubblica. Non è la caduta del muro e non è una rivoluzione. Quella di ieri è semplicemente una novità che può incidere sul futuro del nostro sistema democratico e bloccare iniziative di scioglimento dettate da Berlusconi. Il minimo che si possa fare a questo punto è di riflettere seriamente sull’inadeguatezza del sistema che si è tentato di imporre e di cambiare le regole, a partire dalla legge elettorale. Dato che di “porcate” ne abbiamo abbastanza.

Non nasce oggi il cosiddetto terzo polo ma un’area di responsabilità che speriamo non sia solo sullo specifico caso Caliendo. Speriamo continui su altre questioni. Le convergenze vanno realizzate nei luoghi istituzionali, cioè in Parlamento

sfiducia al sottosegretario, e più in generale dal più sensibile dei temi, per la maggioranza: quello della giustizia. Ci saranno anche le telecamere di Rai Tre a riprendere oggi le dichiarazioni di voto di Montecitorio. Eppure quella dei quattro gruppi moderati – ai quali oggi dovrebbero aggiungersi i repubblicani Francesco Nucara e Giorgio La Malfa, che prima ne parleranno con Casini, mentre i due della Svp dovrebbero uscire al momento del voto – avrebbe tutti i numeri per diventare il principio cardine, sulla giustizia, di un grande partito moderato quale il Pdl presume di essere. Lo spiega in una lunga nota il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione: «La linea dell’astensione si propone di rinnovare il clima sulla giustizia, riportandolo nell’alveo della ragionevolezza per ritrovare un nuovo equilibrio tra il rispetto del lavoro dei magistrati e la presunzione di innocenza degli imputati». Anche perché, dice il vicepresidente della Camera, «l’istituto della sfiducia è straordinario, non se ne può abusare e non si possono imporre dimissioni a presunti innocenti, salvo elementi clamorosi. Ci può essere l’opportunità politica delle dimissioni e l’invito alle dimissioni, che va però comunque affidato alla valutazione della coscienza personale e che non può essere imposto con un atto di forza».

Il contrario ovviamente di quanto afferma Antonio Di Pietro, puntuale nel cogliere l’opportunità di innalzare i toni rivolgendo epiteti che vanno dal padrine-


prima pagina

4 agosto 2010 • pagina 3

Pino Pisicchio

Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini. Nella pagina a fianco, Giacomo Caliendo. Alla riunione di ieri hanno partecipato i rappresentanti di Udc, Futuro e libertà, Mpa e Alleanza per l’Italia. Come ha spiegato Benedetto Della Vedova, dall’incontro non deriva una scelta apodittica ma «l’invito che farà ciascuno ai propri deputati di optare per l’astensione sul caso Caliendo». Il concetto è stato sottolineato anche da Italo Bocchino, che poi, sollecitato dai cronisti sulla lealtà dei finiani al governo, puntualizza: «Noi siamo fedeli al patto con gli elettori»

Italo Bocchino

Terzo polo? Non esiste. E sulla lealtà al governo Berlusconi dei deputati che hanno aderito ai gruppi di “Futuro e libertà per l’Italia”, dico che la lealtà va mantenuta rispetto al mandato ricevuto dagli elettori

sco «quacquaracquà» al più prevedibile «Ponzio Pilato» nei confronti di chi come Udc e finiani si appresta ad astenersi. Oltretutto il leader dell’Idv, ben sostenuto dalla batteria dei suoi, non manca di impallinare Pier Luigi Bersani, inciampato in un’apertura su Tremonti che scuote l’intero Pd. In realtà il segretario demo-

cratico risponde semplicemente che sì, sarebbe preferibile un governo tecnico alle elezioni anticipate, dopo che un cronista gli chiede di un’eventuale esecutivo guidato dal superministro. Basta questo ad arroventare il clima nel centrosinistra, che pure Bersani prova a indirizzare verso ragionamenti più costruttivi quando dice, a proposito dell’intesa tra finiani, Udc, Api e Lombardo, che si tratta «quasi di un meccanismo costituente». È l’effetto di un’inziativa finalmente avviata nella sede naturale del Parlamento, di per sé una novità per la legislatura come ricorda sempre Buttiglione: «Il dialogo inaugurato oggi tra Udc, Api, Fli e Mpa potrebbe segnare l’inizio di una nuova stagione nella politica italiana, ci troviamo di fronte a un gruppo di 80-90 deputati, un numero rilevante per il nostro Parlamento, che rimarranno fedeli ai rispettivi patti con gli elettori ma che decidono di intraprendere la via del dialogo sulla base della comune sensibilità istituzionale e del comune amore per l’identità e l’unità d’Italia».

Discorso fatto proprio dallo stesso Francesco Rutelli, in rappresentanza del quale intervengono all’incontro della Sala De Gasperi Pisicchio, Vernetti, Cesario e Calgaro. Dice il leader di Alleanza per l’Italia: «Abbiamo dato una prova di responsabilità in un momento difficile e potremmo unirci con le forze che propongono saggezza per fare uscire l’Italia dalla crisi economica e sociale. Questo è lo scopo che ci anima per il bene del Paese. La crisi del bipolarismo è evidente ed è legata alla chiusura di una stagione nella quale c’erano due grandi partiti che non sono riusciti a reggere e due coalizioni,

quella vincente in particolare, che non è riuscita a mantenere la larghissima maggioranza parlamentare di cui dispone». Poi però Rutelli chiarisce: «La prospettiva non è quella di aggregazione tra partiti, tra leader, tra gruppi di persone» ma di «cercare di dare all’Italia risposte sulle riforme necessarie. L’unica cosa che a me

Giovanni Pistorio

È emersa una sensibilità comune per una responsabilità istituzionale molto marcata. C’è spazio per un dialogo che può proseguire. Sulla vicenda Caliendo c’è condivisione sull’idea di astenersi perché serve cautela tra gli eccessi

In una dialettica parlamentare è normale guardarsi in faccia e dialogare senza scambi o situazioni di equivoco. Per noi l’astensione ha un significato politico forte. Si va a cogliere un’area di responsabilità istituzionale che è comune

interessa è costruire convergenze come è avvenuto per la riforma dell’università nell’interesse del Paese».

Arrivano compiaciuti commenti dalla parte più moderata del Pd: Beppe Fioroni si spinge però oltre le stesse intenzioni del “patto di responsabilità” stipulato alla Camera e parla di «terzo polo» come interlocutore naturale. È la novità del confronto aperto a provocare di per sé spiazzamento sia nel Pdl che tra i democratici. Così come nella Lega, che si affretta a precisare, con Roberto Maroni, come in caso di caduta dell’Esecutivo «non si potrà che tornare al voto». C’è una sfumatura diversa nella nota congiunta dei due capigruppo del Carroccio, Marco Reguzzoni e Federico Bricolo, che limitano le minacce all’eventuale mancata realizzazione del federalismo. Resta sullo sfondo l’attivismo del Pdl per una risposta immediata all’exploit ottenuto da Fini con i nuovi gruppi. Sandro Bondi si spinge fino a criticare la Stampa ironizando sul «riserbo» del quotidiano torinese rispetto alle notizie sull’appartamento a Montecarlo di cui il Giornale contesta la gestione a Fini. E intanto, a conferma che nel partito di Berlusconi si agitano tensioni sempre più difficili da controllare, si registra anche l’insolito summit degli ex colonnelli presso la Fondazione Nuova Italia di Alemanno: con il sindacp di Roma, si vedono La Russa e Gasparri per discutere del partito, del rischio elezioni anticipate, della scissione finiana ma anche del patrimonio dell’ex An. Non si placa neppure la caccia a eventuali pentiti, tra i seguaci del presidente della Camera, da parte di Berlusconi: suscita clamore la dichiarazione di Francesco Divella, unico di Futuro a libertà che annuncia di voler votare “no”su Caliendo. Ma lo stesso Parlamentare smentisce chi voleva cogliere un primo cedimento nella schiera dei dissidenti: «Con Fli arriveremo al 10 per cento, nella mia Puglia andremo anche oltre». Non sceglie un capogruppo moderato, d’altronde, Fini, pronto a designare Bocchino alla Camera. Alle colombe verrà concessa invece la presidenza del gruppo al Senato, per la quale è favorito Giuseppe Valditara.


l’approfondimento

pagina 4 • 4 agosto 2010

Scenari. La maggioranza dà evidenti segnali di crisi, il Partito democratico non ha una strategia chiara e c’è chi pensa a un’alternativa

Se son Poli fioriranno Roberto D’Alimonte, Stefano Folli e Paolo Pombeni ci spiegano se dal patto siglato ieri può nascere qualcosa che cambierà il sistema politico. «Servirebbe una nuova legge elettorale». «L’azione dell’Udc acquista consistenza» di Franco Insardà

ROMA. Il sistema bipartitico inglese è sempre stato considerato, dai bipolaristi convinti, un modello da seguire e, quando David Cameron e Nik Clegg hanno varato un governo di coalizione qualcuno ha storto il muso. I due leader d’Oltremanica hanno indicato una strada alla quale forse guardano con qualche interesse l’Udc di Pier Ferdinando Casini, il nuovo gruppo di “Futuro e Libertà” di Gianfranco Fini, l’Api di Francesco Rutelli e l’Mpa di Raffaele Lombardo. L’idea di una coa-

lizione che si presenti come un terzo polo in grado di aggregare conservatori, moderati e liberali stimola il dibattito politico agostano che, contrariamente alle passate stagioni, è particolarmente effervescente.

Paolo Pombeni, professore di Storia dei sistemi politici Europei alla facoltà di Scienze politiche dell’università di Bologna considera quella inglese «una situazione diversa dalla nostra perché in quel caso parliamo di due partiti, quello conservatore

e quello liberale, strutturati e con una loro tradizione. La cosa da noi è differente perché, tranne l’Udc, le altre sono formazioni recenti ed è quindi necessario che ci sia un periodo sufficientemente lungo per rendere la coalizione omogenea e rodata. La sua realizzazione è possibile, ma occorrerà il tempo necessario per poterlo organizzare e bisognerà, vedere come saranno sistemati gli equilibri interni. Oggi questo terzo polo ha una capacità di incidere in misura maggiore rispetto

a quando c’era la sola Udc, condizionando sia l’azione del Pdl sia creandosi, con il tempo, spazi di credibilità in alcuni settori dell’opinione pubblica».

L’editorialista del Sole 24Ore Stefano Folli, invece, preferisce guardare alla situazione attuale: «C’è sicuramente un fatto politico nuovo e importante: un pezzo della maggioranza e uno dell’opposizione si sono ritrovati su una scelta convergente, votando l’astensione a un atto, non decisivo per le sorti del go-

verno, ma in qualche modo rilevante. Mi sembra prematuro prefigurare la nascita di un terzo polo, anche se sono evidenti gli interessi a smuovere le acque da parte del Partito democratico che finora non è stato minimamente presente nella partita politica. Perché la cosa possa concretizzarsi occorrono una serie di passaggi complicati, a cominciare da una legge elettorale diversa da questa che cambierebbe tutto lo scenario politico italiano». Meno ottimista sulle possibilità

UN TERZO POLO POTREBBE ESSERE DETERMINANTE

Roberto DÕAalimonte

In caso di elezioni anticipate potrebbe essere determinante per la maggioranza a Palazzo Madama, dal momento che i seggi vengono attribuiti con il sistema dei premi regionali

Paolo Pombeni

Stefano Folli

Potrebbe essere una reale alternativa alla maggioranza di Silvio Berlusconi, sempre più condizionata dalla Lega. Ma occorrerà del tempo per poterla organizzare

C’è sicuramente un fatto politico nuovo e importante: un pezzo della maggioranza e uno dell’opposizione hanno trovato una convergenza, votando l’astensione su un atto rilevante


4 agosto 2010 • pagina 5

Parla il finiano doc, tra i primi a seguire il presidente della Camera nel nuovo gruppo parlamentare

«Le nostre condizioni per un governo di responsabilità nazionale» Carmelo Birguglio: «Il bipartitismo è morto e il bipolarismo è in crisi. L’intesa con l’Udc, in quest’ottica, è fondamentale per il futuro» di Pietro Salvatori

ROMA. È stata una delle pietre dello scandalo. Insieme ai colleghi Bocchino e Granata, è stato deferito al collegio dei probiviri di via dell’Umiltà, per le posizioni «assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Pdl, con gli impegni assunti con gli elettori e con l’attività politica del Popolo della Libertà», come si leggeva nel documento della direzione nazionale attraverso il quale Berlusconi ha deciso l’allontanamento di Fini e dei suoi più stretti sodali dal partito. Stiamo parlando di Carmelo Briguglio, 54 anni, siciliano, dal 2001 in Parlamento, fino a qualche giorno fa vice-capogruppo del partito del predellino, da oggi tra i maggiori esponenti del neonato gruppo «Futuro e Libertà. Per l’Italia». Una vita politica passata a osteggiare le posizioni di Fini dalle fila della Destra Sociale storaciana, mentre oggi è tra gli uomini più vicini al presidente della Camera. Onorevole Briguglio, proprio lei... Guardi, io non sono mai stato finiano nella mia vita politica. Ma Fini oggi rappresenta un enorme patrimonio di valori. Che Berlusconi non riesce a rappresentare, dunque. Berlusconi ha un’altra storia politica, incarna obiettivamente un altro tipo di valori. Valori che sono inconciliabili? Il dato di oggi è che il Pdl, nella forma nella quale è nato, è fallito. E non siamo stati di certo noi la causa di questo fallimento. Sono entrati in rotta di collisione due modi differenti di fare politica, e oggi bisogna semplicemente registrare che ci sono tre soggetti diversi nel centrodestra, mentre prima erano solo due. Ma non si sta creando un terzo polo, come molti analisti suggeriscono? Mi sembra prematuro affermare una cosa del genere. È certo che si possono riconoscere nascenti forme di collaborazione su valori condivisi tra alcune forze politiche.

Si riferisce all’Udc? Il partito di Casini ha fatto parte tradizionalmente dell’area di centrodestra, facendo a lungo anche parte della maggioranza di governo, non più tardi di qualche anno fa. Non è un caso che proprio l’Udc è stato il soggetto politico con il quale Berlusconi negli scorsi giorni ha provato a cercare un’intesa, proponendogli un vero e proprio accordo. I valori che afferma l’Udc non sono molto dissimili dai nostri.

Il dato di oggi è che il Pdl, nella forma nella quale è nato, è fallito. E non siamo stati di certo noi la causa di questo fallimento Quindi l’avvicinamento tra voi e il l’Udc non è solo una casualità... Non bisogna giungere a conclusioni affrettate, ma di sicuro ci troviamo di fronte a un dato politico, anche se per adesso solo relativo alla contingenza del voto su Caliendo. Di sicuro è un’intesa utile in prospettiva. E se la prospettiva dovesse essere quella della formazione di un altro tipo di governo? Un governo di responsabilità nazionale? E perché no, non scarterei a priori l’ipotesi. Certo, la vedrei bene soprattutto nel caso in cui l’Udc partecipasse organicamente, perché è la forza politica nella quale più ravviso valori in comune. Uno scenario che prefigurerebbe un terremoto nell’assetto politico italiano. È prematuro parlare di fine del bipolarismo, se è questo che intende. Anche se un certo cambiamento si può intravedere. In Italia si potrebbe parlare di bipolarismo policentrico. Carmelo Briguglio. Nella pagina a fianco, il premier Silvio Berlusconi

Cioè? Mi spiego: gli italiani hanno chiaramente detto no al bipartitismo. In effetti due soli partiti non ci sono mai stati, nemmeno in questi ultimi anni, e il progetto di chi li voleva come unici attori della scena politica sta fallendo. Il bipolarismo italiano è formato da due compagini, composte però da soggetti differenti. In Italia la strada che porta al bipartitismo è stata definitamene interrotta, e un tale sistema non si realizzerà mai. C’è una disponibilità a valutare la formazione di un governo di responsabilità nazionale. E se invece si dovesse andare a elezioni? Respingiamo nettamente questa ipotesi. Il momento economico che sta attraversando il Paese è grave, e le elezioni in questo momento sarebbero solo dannose. Anche in vista del fatto che ci sarà una seconda manovra economica. Come scusi, Tremonti ha smentito questa eventualità. Lo so, ma sarà inevitabile. Se non in autunno, se ne parlerà per i primi mesi dell’anno prossimo. A proposito di Tremonti e di elezioni, oggi hanno attribuito a Bersani la seguente dichiarazione: «Niente elezioni anticipate, meglio un governo guidato da Tremonti» Mah, l’opposizione fa il suo mestiere. Sicuramente Tremonti, per competenza e capacità, è una risorsa per il Paese. Solo il futuro però ci dirà che ruolo dovrà assumere. Ma nel caso si dovesse andare al voto, che fare con la legge elettorale? Questa è una questione che è all’ordine del giorno, che va di pari passo con l’evoluzione del quadro politico. Io non ho preferenze particolari: l’esigenza è principalmente quella di riavvicinare gli eletti ai propri elettori. Se dovesse scegliere tra maggioritario e proporzionale? Probabilmente preferirei l’uninominale, piuttosto che le preferenze, perché nel passato ha funzionato meglio. Avete criticato il «centralismo democratico» di Berlusconi. Poi lei ha dichiarato al Foglio che per il suo gruppo Fini è un collante indispensabile, un symbolum addirittura. Mi riferivo alla radice greca del termine, che significa tenere insieme. La storia politica di Fini, le sue svolte, da Fiuggi a Gerusalemme, sono impresse nella nostra storia. È questo che ci unisce, nella persona del presidente della Camera. Siamo una comunità, in poche parole, sarà difficile comprarci. Un’ultima cosa: i probiviri si sono fatti sentire? Non ho ancora ricevuto alcuna comunicazione. E questo è particolarmente strano per un partito che si proclama estremamente garantista. Quando e se mi faranno sapere, risponderò. Solamente per principio e per cortesia, ovviamente.

di affermazione del terzo polo è Roberto D’Alimonte, professore di Scienza politica all’università di Firenze, convinto che «in tempi brevi si ritornerà alle urne, senza cambiare la legge elettorale, e che Berlusconi e la Lega riusciranno a riavere la maggioranza alla Camera. Il che non significa avere la maggioranza nel Paese, ma essere una minoranza più organizzata degli altri. Non dimentichiamo che con l’attuale sistema è sufficiente ottenere un voto in più rispetto all’altra coalizione per far scattare il premio di maggioranza. Anche nel 2008 Berlusconi ha vinto con meno del cinquanta per cento dei voti, in ogni caso può contare sulla minoranza più grossa, dal momento che mi riesce difficile immaginare un’alleanza che possa comprendere tutti gli altri».

E al Senato? Per il professor D’Alimonte, editorialista del Sole24Ore, il problema è «proprio questo, perché i premi di maggioranza regionali renderebbero difficile l’obiettivo di ottenere un’ampia maggioranza anche a Palazzo Madama e in questa partita il terzo polo potrebbe essere determinante». Il tempo, quindi, gioca a favore del terzo polo e questa sarebbe uno dei motivi per i quali Silvio Berlusconi vorrebbe bruciare i tempi e ritornare alle urne. Ne è convinto il professor Pombeni, secondo il quale questa formazione «potrebbe essere una reale alternativa all’attuale maggioranza, sempre più condizionata dalla Lega. L’azione dell’Udc acquista più consistenza dal momento che ha sempre sostenuto che questo sistema bipolare era destinato a fallire e può contare su un gruppo che in Parlamento ha una consistenza diversa e che può dare molto fastidio e potrà mettere in difficoltà l’attuale alleanza Pdl-Lega». Anche per il professor D’Alimonte il tempo è un fattore importante dell’attuale scenario politico: «oggi è a favore di Berlusconi e lui sa bene che non può attendere molto per evitare che gli altri si organizzino meglio. I prossimi mesi saranno pesantissimi per i cittadini, ma interessanti dal punto di vista politologico». Mentre si parla di terzo polo rimane ancora incomprensibile la posizione del Partito democratico. Per Paolo Pombeni «deve decidere quale linea politica vuole seguire e quale alleanze fare». Secondo Stefano Folli il Pd è «sempre o in anticipo, o in ritardo. Pensano a governi tecnici o di coalizione, quando ancora non c’è la crisi, dichiarano disponibilità all’eventualità di Giulio Tremonti premier e sono divisi sulla riforma della legge elettorale. Oltre al terzo, bisognerebbe pensare anche al secondo polo: quello della sinistra».


diario

pagina 6 • 4 agosto 2010

Scenari. Ma c’è anche chi dentro al partito fa la guerra al sindaco di Torino per scongiurare una sua eventuale “marcia su Roma”

È Sergio l’anti-Vendola?

Per alcuni sarebbe Chiamparino il leader ideale del Pd. Eppure... ROMA. Le malelingue del Nazareno sparlano di Chiamparino in tutti i modi, e non è una novità. Già l’anno scorso, al congresso, gli entourage di Bersani e Franceschini formavano un sol coro nel dire peste e corna del Chiampa. A guardare come vanno d’amore e d’accordo oggi i due, c’è in effetti da chiedersi se non avesse ragione proprio il sindaco di Torino, quando un anno fa chiese di non fare l’ennesimo congresso finto. L’ostilità nei suoi confronti ha conosciuto il suo picco poche settimane fa, quando Enrico Letta, d’accordo con Bersani, lo accusò addirittura di incompetenza per l’iniziativa intrapresa sulla vicenda San Paolo. Al Nazareno sperano che il riconteggio dei voti piemontesi faccia saltare Cota e riporti alle elezioni regionali in concomitanza con le Comunali di primavera 2011. Sognano di poter piazzare Chiamaparino al governo del Piemonte per fuggire quella che oggi pare la peggiore insidia per il vertice romano del Pd. Altro che Vendola! Il fragile arrocco del Nazareno difficilmente reggerebbe a un’offensiva che arriva dall’unico democratico del Nord che vince e convince, accattivando simpatie e consensi anche a destra. Se Chiamparino decidesse veramente di marciare su Roma, spariglierebbe le carte del Pd come nessun altro potrebbe fare. Il sindaco di Torino ha molte delle caratteristiche giuste che servono per conquistarsi la leadership del partito. Repubblica lo idolatra, e De

Pd) che ha animato tutto il movimentismo di sinistra, dai girotondi al popolo viola, che gli riconosce di non essersi mai “sporcato” le mani con la politica romana. Non bastasse questo, val la pena ricordare che il migliore amico di Marchionne in ambito politico è proprio il sindaco di Torino, un altro che, come Obama, lo chiama “Sergio” e non “dottore”. Chiamaparino, insomma, aggrega mondi di riferimento tradizionali della sinistra, dall’editoria alla grande industria, tradizionalmente vicini

Piace a Prodi, a Veltroni ma anche a certa destra. E aggregherebbe mondi di riferimento tradizionali della sinistra, dall’editoria alla grande industria Benedetti si spenderebbe in prima persona se decidesse di fare sul serio. Si sa che Repubblica non porta molto bene a sinistra, se è vero che tutti i leader che ha patrocinato non sono proprio finiti in gloria. Ma con la patente debolezza del Pd in questa fase politica, Repubblica continua a svolgere un ruolo di supplenza, pretendendo di essere determinante per la scelta di chi capeggerà il centrosinistra alle prossime elezioni. Chiamparino piace poi a quel ceto medio riflessivo (vera sciagura del

parino contro il centralismo dirigista del vertice del Nazareno. Prodi ha mostrato in più occasioni di aver scaricato di Bersani, come quando si rifiutò di correre come sindaco a Bologna dopo l’affaire Del Bono. Se Chiamparino dovesse sciogliere ogni riserva e puntare alla giuda del Pd, Prodi non ci penserebbe due volte ad appoggiarlo esplicitamente. Il sindaco di Torino potrebbe poi veicolare su di sé anche le attenzioni di Veltroni, che lo volle con sé nel governo ombra che inaugurò subito dopo la sconfitta elettorale. Veltroni sa bene che l’opzione Vendola, ammesso e non concesso risulti vincente nelle primarie interne, non avrebbe chance nella corsa per il governo. Meglio Chiamparino, la cui credibilità come uomo del fare non ha oggi eguali a sinistra. Con due alleati come Prodi e Veltroni, è del tutto evidente che il sindaco di Torino potrebbe davvero riuscire nel colpaccio di prendere il Pd.

di Antonio Funiciello

ma in questa fase particolarmente ostili verso la gestione Bersani. A questi sostegni economico-sociali, Chiamparino potrebbe aggiungere una fitta rete di relazioni politiche dentro e fuori il Pd. Quando qualche mese fa, sulle colonne del Messaggero, Romano Prodi lanciò l’idea del Pd partito federale, l’unico a sostenerla a spada tratta fu il sindaco di Torino. Per quanto fosse più una provocazione che un progetto coerente di cambiamento del partito, si creò immediatamente un asse Prodi-Chiam-

La Camera cancella la norma pro-Veronesi

Energia, torna l’incompatibilità ROMA. Camera approva l’emendamento del Pd al decreto sull’energia che stabilisce l’incompatibilità per i ruoli di Presidente e membro dell’Agenzia per la sicurezza nucleare e qualunque incarico parlamentare o ministeriale. La modifica, insieme a quella dalla proposta commissione ambiente sui piccoli impianti di energia eolica, determina la necessità che il decreto del governo in scadenza torni al Senato, per la definitiva conversione in legge. Il via libera di palazzo Madama dovrebbe arrivare oggi. Il Pd esulta per il ripristino della incompatibilità, che era stata eliminata dalla maggioranza dopo la proposta del ministro Stefania Prestigiacomo di candidare alla Presidenza Umberto Veronesi che si era dichiarato disponibile a valutare l’incarico governativo, nonostante la contrarietà del suo partito. «La soppres-

sione - afferma il responsabile Green economy del Pd Ermete Realacci, autore dell’emendamento - è una battaglia vinta. Ripara una grave distorsione che avrebbe pesato in modo inaccettabile sul ruolo stesso dell’Agenzia per la sicurezza sul nucleare. Fermo restando il fatto che il nucleare è una scelta sbagliata e costosa per l’Italia, l’Agenzia deve poter garantire una trasparenza e un’indipendenza a tutela dei cittadini su una materia tanto delicata e importante. L’articolo 3 del decreto energia permetteva un obbrobrio impensabile in qualunque paese occidentale e cioè che gli incarichi del Presidente e dei membri dell’Agenzia fossero ricoperti anche da politici eletti o da dipendenti ministeriali. Per fortuna grazie al Parlamento e al Partito Democratico questo scempio è stato fermato».

In più Chiamparino porterebbe altre doti. I legami creati dirigendo da tre anni la potente associazione dei comuni italiani, rappresenterebbe un valore aggiunto notevole per un Pd a debito d’ossigeno nelle amministrazioni periferiche dopo le sconfitte alle provinciali del 2009 e alle regionali del 2010. Oltre la sua autorevolezza di uomo delle istituzioni, Chiamparino potrebbe imporre nella sfida al vertice romano del Pd il suo essere uomo del Nord, unico democratico settentrionale a godere di largo consenso. Certo il sindaco hai suoi bei problemi coi cacicchi del Pd torinese e piemontese. Altra sua unicità è l’essere l’unico leader “periferico” del Pd a non fondare la sua leadership su un controllo feudale del partito locale, ma sul favore vero che gode tra la gran massa degli elettori. A dirla tutta, Chiamparino è spesso in disaccordo, e di frequente apertamente avversato, dai cacicchi locali. Non a caso, da quando c’è il Pd, ha sempre sostenuto nei vari congressi piemontesi il candidato uscito alla fine sconfitto. Un particolare che dice tutto su questo leader anomalo, che fa proprio dell’anomalia che rappresenta l’elemento di maggiore insidia per chi dal Nazareno lavora per tenerlo lontano dalla capitale.


diario

4 agosto 2010 • pagina 7

La Crui dà il via libera «ma inaccettabili gli stereotipi»

Sequestrati 10 milioni di euro al clan Alvaro

I Rettori applaudono la riforma dell’università

Duro colpo per la ’ndrangheta calabrese

ROMA. Grande soddisfazione

ROMA. L’alba di ieri ha riservato una brutta sorpresa per la cosca Alvaro, una tra le più potenti della galassia della ‘ndrangheta calabrese. Il tribunale di Reggio Calabria nei giorni scorsi ha emanato un’ordinanza di sequestro di alcuni beni di proprietà di affiliati alla cosca, tra i quali, in particolare, quattro ville situate nel comune di Melicucca. Le abitazioni non sono mai state dichiarate al catasto, e erano state costruite in luoghi difficilmente accessibili e celati da sguardi indiscreti. Grande lo stupore dei carabinieri entrati in una delle quattro residenze: la villa è stata progettata in modo da ricalca-

per viale Trastevere e per il ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gemini. Nonostante le turbolenze che in questi giorni il governo è stato costretto ad affrontare, la scorsa settimana il Senato ha approvato con un’ampia maggioranza il testo di riforma del sistema universitario italiano, a lungo caldeggiato dal giovane ministro. Certo, era un’era politica nella quale i gruppi finiani ancora non esistevano, ed ora il testo è atteso alle forche caudine della Camera. Ma il relatore a Palazzo Madama era il finiano Valditara, si osservano fonti vicine al ministro, e tutto dovrebbe andare liscio anche a Montecitorio.

Produttività: 2007-2009, biennio da dimenticare Istat: andamento negativo nell’ultimo decennio di Andrea Ottieri

Oggi viale Trastevere registra un endorsement inaspettato. È quello della Conferenza dei Rettori delle università Italiane, la Crui, che non ha mai lesinato critiche ai provvedimenti del governo. I rettori degli atenei della penisola hanno espresso il proprio apprezzamento «sul rapido e efficace lavoro complessivamente svolto dall’aula che, approvandolo in prima lettura, ha accolto una parte significativa delle proposte migliorative avanzate».

ROMA. Dal 1980 al 2009 la produttività del lavoro è cresciuta in media dell’1,2% all’anno. Si tratta di un risultato attribuibile a un incremento medio dell’1,4% del valore aggiunto e ad un 0,2% delle ore lavorate. Negli anni più recenti (2000-2009), però, come emerge dal rapporto sulle “misure di produttività” diffuso ieri dall’Istat, la produttività del lavoro presenta un andamento complessivamente negativo (-0,5% in media all’anno), che sconta una dinamica sfavorevole del valore aggiunto (-0,2% in media d’anno) associata a una crescita delle ore lavorate (0,4% in media d’anno). Nell’ultimo decennio si evidenziano tre fasi in cui la dinamica della produttività del lavoro presenta andamenti differenziati: dopo un andamento negativo negli anni 2000-2003 (-0,8% in media d’anno), la produttivita’ del lavoro ha ripreso a crescere negli anni 2003-2007 (0,7% in media annua) e ha poi subito nel periodo 2007-2009, pur in presenza di una sensibile caduta del monte ore lavorato, una forte riduzione. Negli anni 19802009 la produttività totale dei fattori (Ptf) è cresciuta dello 0,4% in media annua a fronte di un incremento dell’1,4% del valore aggiunto e dello 0,9% degli input produttivi (lavoro e capitale). Con riferimento agli anni più recenti, nel periodo 2000-2009 la Ptf ha registrato una flessione (-0,9% in media d’anno), imputabile ad un andamento negativo del valore aggiunto (0,2%) e ad una evoluzione positiva degli input produttivi (crescita media annua pari a 0,8 per cento). Anche nel caso della Ptf, a partire dal 2000 si evidenziano tre fasi in cui la dinamica presenta andamenti differenziati: un andamento negativo negli anni 2000-2003 (-1,3% in media d’anno), una dinamica moderatamente positiva negli anni 2003-2007 (0,6% in media annua) e una decisa riduzione nel periodo 2007-2009 (-3,4% in media d’anno). L’analisi del contributo alla dinamica della produttività del lavoro fornito dal capitale per ora lavorata e dalla Ptf fornisce dettagli interessanti. Tra il 1980 e il 2009 alla crescita me-

dia annua dell’1,2% della produttività del lavoro il capitale per ora lavorata ha contribuito per 0,7 punti percentuali (pari al 52% della crescita complessiva). Tale contributo può essere a sua volta scomposto nell’apporto alla crescita fornito dal capitale Information and Communication Technology (Ict), pari a 0,1 punti percentuali (12%) e in quello del capitale Non-Ict, pari a 0,6 punti percentuali (50%). L’apporto proveniente dalla Ptf è stato di 0,4 punti percentuali (pari al 38% della crescita della produttivitò del lavoro). Il calo della produttività del lavoro che ha caratterizzato il periodo 2000-2009 riflette tassi di crescita negativi in tutti i settori ad eccezione di agricoltura, silvicoltura e pesca (+0,7% in media annua). Particolarmente marcata è risultata la diminuzione nelle costruzioni (-1,5% in media annua), mentre i settori nel quale il calo è stato più contenuto sono stati quelli di commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni (-0,2% in media annua). Più nel dettaglio, negli anni 2000-2003 la produttività del lavoro è diminuita in tutti i settori tranne le costruzioni (dove si registra una pur lieve crescita dello 0,2% in media annua).

Il calo ha coinvolto tutti i settori ad eccezione di agricoltura e pesca (+0,7% di crescita media all’anno)

Un plauso che giunge a sorpresa, anche se la nota diramata dalla Crui non si trattiene dal rilevare come, durante il dibattito, alcuni senatori hanno ancora una volta insistito «su stereotipi negativi e inaccettabili» nel descrivere il sistema universitario, «in netto contrasto, peraltro, con la revisione di aspetti importanti della vita universitaria già da tempo in corso presso numerosi atenei». Nonostante il plauso della Crui, in molti osservano che la Gemini non ha avuto il coraggio di introdurre l’unica vera riforma necessaria per far ripartire il sistema italiano: l’abolizione del valore legale del titolo di studio.

Il quinquennio successivo 2003-2007 vede una inversione di tendenza nell’andamento con una crescita a livello aggregato (+ 0,7%) generalizzata a tutti i settori, ad eccezione delle costruzioni, che registrano una consistente diminuzione (-2,2% in media annua). Nel periodo 2007-2009, infine, la dinamica della produttività del lavoro è stata marcatamente negativa in tutti i settori ad eccezione dell’agricoltura (+1,6% in media annua), con una contrazione particolarmente rilevante nel settore dell’Industria in senso stretto (-3,9% contro una crescita dell’1,3% nel 2003-2007). In tutti i settori l’evoluzione della produttività del lavoro nel 2008 e 2009 è da ricondurre principalmente alla dinamica della Ptf, mentre il capitale per ora lavorata ha subito un’accelerazione che ha coinvolto tutti i comparti.

re fedelmente quella di Al Pacino in Scarface, il famosissimo film di Brian De Palma. Il provvedimento è la continuazione dell’«operazione Matrioska», che portò nel maggio scorso al sequestro di ulteriori beni riferibili alla famiglia Alvaro.

Le ville erano tutte intestate a Domenico Alvaro, condannato a tre anni per aver favorito la latitanza del figlio Carmine, considerato il vero boss del clan. Ad insospettire i carabinieri del capoluogo calabrese, l’incongruenza tra il reddito assistenziale registrato da Alvaro, e le tenute, mai dichiarate al catasto ma di effettiva proprietà del capofamiglia della cosca. A seguito dell’operazione «Matrioska 2», ammonta ad oggi a 30 milioni il valore complessivo dei beni sequestrati alla malavita calabrese. Un duro colpo proprio nei giorni nei quali la ‘ndrangheta ha fatto arrivare al presidente del Consiglio regionale Francesco Talarico una busta contenente pesantissime minacce e alcuni proiettili. Dopo il sostegno testimoniato a Talarico da tutti i gruppi consiliari regionali, il colpo messo a segno nei confronti del clan Alvaro è la migliore delle risposte possibili alle minacce del crimine organizzato.


società

pagina 8 • 4 agosto 2010

CORTINA D’AMPEZZO. I rischi

carente collaborazione delle Prefetture stiamo ricomponendo il quadro e riferiremo alle Camere. La politica rompa ogni ambiguità nella lotta alla mafia». «Alcuni partiti e alcuni candidati alla presidenza delle Regioni - ha spiegato Granata non hanno vigilato come era richiesto e doveroso».

di attentati «ci sono sempre, soprattutto in momenti di tensioni politiche». A dirlo, durante un meeting che si è tenuto lunedì sera a Cortina Incontra, è il procuratore nazionale Antimafia, Piero Grasso. Il procuratore ha risposto così a chi gli chiedeva se è plausibile pensare a un ritorno della “strategia della tensione” da parte della mafia. «Non dimentichiamo - ha ricordato Grasso - che nel ’92 gli attentati sono avvenuti a ridosso di tangentopoli. Può esserci qualcuno che vuole approfittare del momento politico per dare uno scossone. Ho sempre interpretato queste cose come una voglia di conservare più che destabilizzare il sistema». «Spero che non sia così - ha sottolineato Grasso - che si rendano conto che nel momento in cui riaprono una stagione del genere di stragi, di attacco alle istituzioni, sarà ancora peggiore la repressione dello Stato. Lo Stato, le forze di polizia e la magistratura non hanno mai cessato al momento la repressione e continuano a fare opere di bonifica». Per Grasso, inoltre «uno Stato che si definisca tale non può aver paura della verità, accertata con le regole». Uno Stato insomma, «non può sopportare i misteri e i segreti», ha detto.

Il Procuratore antimafia è intervenuto anche sul caso Spatuzza: «È un falso mediatico che non sia stato creduto. Non si può dubitare della sua attendibilità. Sono stato il primo a sentire Spatuzza e all`epoca mi disse: non posso più sopportare di vedere i colpevoli fuori e gli innocenti in carcere. È stata la sua famiglia a fermarlo a lungo ma alla fine ha trovato il coraggio, fornendo elementi con un riscontro talmente concreto che non si può dubitare sia attendibile». E, sulle intercettazioni, Grasso è tornato a sottolineare come esse siano strumenti di indagine «importanti, soprattutto quelle ambientali». «Senza microfoni che captino le conversazioni - ha detto-non possiamo sapere moltissime cose. Non a caso Provenzano aveva dato un decalogo da rispettare: non parlate in auto, per esempio ed evitare le telecamere agli angoli dei palazzi». Interpellato dall’agenzia di stampa Adnkronos dopo le sue

Le dichiarazioni di Granata non hanno affatto sorpreso il procuratore antimafia Piero Grasso che, ascoltato sulla questione dall’agenzia di stampa Agi, ha comunque sottolineato che questi «sono problemi politici e che quindi giustamente se ne occupa la politica». «Gia’ nel 1991 - ricorda il magistrato - un fatto del genere era stato accertato dall’allora commissione Antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte». «Io - afferma Grasso - all’epoca ero consulente della commissione e il fenomeno delle infiltrazioni mafiose si registrpò in varie zone, soprattutto del sud». Intanto ieri l’aula del Senato ha iniziato la discussione sul ddl che istityuisce il codice antimafia, già approvato con voto bipartisan dalla Camera. Sono state respinte dall’aula le richieste di sospensiva dell’esame presentate dai gruppi di opposizione che avrebbero preferito migliorare in alcuni aspetti il testo approvato da Montecitorio.

Cosa nostra. «Qualcuno potrebbe approfittare del momento politico»

Grasso: «C’è il rischio di attentati mafiosi» E Granata lancia l’allarme: «Infiltrazioni e zone d’ombra tra gli eletti alle Regioni» di Guglielmo Malagodi guro che non sia così e non penso sia giusto alimentare allarmismi. Ieri ho solo sottolineato che nel passato, durante il periodo delle stragi del ’92, quando la mafia ga deciso di attaccare le istituzioni eravamo in un momento di tensioni politiche, c’era tangentopoli e probabilmente qualcuno voleva dare uno scossone per conservare un sistema, più che per cambiarlo. Ma ad oggi non abbiamo elementi per parlare di rischio attentati». Per Grasso «la mafia è un fenomeno che continua a permanere, nonostante i recenti successi di magistratura e

Per il procuratore nazionale, «uno Stato che si definisca tale non può aver paura della verità accertata con le regole e non può sopportare misteri e segreti» dichiarazioni di lunedì sul rischio di attentati mafiosi, ieri Grasso ha precisato il suo pensiero. «Non ho la palla di cristallo per poter prevedere possibili attentati di Cosa nostra ha detto il procuratore - Mi au-

forze dell’ordine l’abbiano indebolita, come dimostra la difficoltà di prendere decisioni importanti perché tutti i capi sono al 41 bis. Certamente i movimenti antimafia hanno aiutato tanto la lotta perché Cosa nostra si nutre di consenso sociale, quindi meno ne ha più è debole».

Sempre ieri, ha fatto scalpore una nota diffusa da Fabio Granata, vicepresidente della commissione Antimafia e deputato finiano di Futuro e Libertà per l’Italia. «Nonostante la condivisione teorica al codice etico promosso dalla commissione Antimafia - ha dichiarato Granata - sia tra le candidature che tra gli eletti ci sono infiltrazioni e zone d’ombra. Nonostante la

Il vicepresidente della commissione parlamentare Antimafia, il finiano Fabio Granata. In alto, il procuratore nazionale Antimafia, Piero Grasso


L’

otto pagine per cambiare il tempo d’agosto

i m p r e s a

4 agosto (1978)

Sara Simeoni stabilisce il record di salto in alto femminile con la misura di 2,01

La ragazza che sapeva volare di Francesco Napoli

uel giorno non c’era quasi nessuno a vederla: il padre Gregorio e la madre Ilda che la seguivano ogni volta che potevano, l’allenatore-fidanzato, Erminio Azzaro, e pochi altri. La stampa e la televisione erano a Venezia, a seguire la squadra maschile di atletica impegnata in un triangolare con Polonia e Spagna, e con loro anche i manager federali, accompagnatori e tecnici. Gli atleti nostrani stavano preparandosi all’appuntamento con i campionati europei di Praga che di lì a dieci giorni sarebbero andati in scena. A Brescia, invece, pochi intimi a seguire le donne che a loro volta si misuravano con le colleghe polacche. I quotidiani nazionali in quel 4 agosto 1978 dedicavano poche righe alla gara femminile e colonne intere a quella maschile, a quella di Mennea e compagni. Perfino la rosea Gazza non regalava più di tanto e allora solo il quotidiano locale, il Giornale di Brescia, forse per dovere di cronaca e di informazione cittadina più che altro, aveva trovato nelle sue colonne uno spazio più ampio e largo all’avvenimento, auspicandosi naturalmente una bella prestazione delle nostre atlete che partivano già battute nel confronto con la più compatta compagine dell’est europeo. Ma nessuno poteva assolutamente prevedere quello che sarebbe accaduto in quel pomeriggio allo stadio del capoluogo lombardo. Sulla pedana di Brescia si muove Sara Simeoni, classe 1953, da Rivoli Veronese, un paesino anonimo e di poche anime nella valle dell’Adige, salito fino ad allora agli onori della storia una sola volta, il 14 e il 15 gennaio 1797, quando il giovanissimo Napoleone annientò 28mila austriaci del feldmaresciallo Alvinczy invano andati a liberare la loro guarnigione assediata in Mantova dai francesi. Napoleone assegnò poi il titolo di duca di Rivoli a Massena, uno dei suoi generali più amati e che più lo avevano aiutato in quella vittoria, e a Rivoli è dedicata una delle principali vie di Parigi che lambisce in pieno centro il Louvre. continua a pagina 10

Q

LA PERDUTA GENTE - CAPITOLO 2

I TESORI DELLE CIVILTÀ

CINEMA CALDO - IL SORPASSO

Meccanica di un delitto

I rotoli del Mar Morto

Quel giretto con Gassman

di Carlo Chinawsky

di Alessandro Boschi

di Rossella Fabiani

pagine 12-13

pagina 15

pagina 16 pagina 9 - liberal estate - 4 agosto 2010


Sara detiene il record di salto in alto con metri 1,95, primato già raggiunto nel 1970 con la misura di 1,71 e da allora, con un eccellente crescendo, portato alle soglie di un fatidico muro: 2,00 metri. E dire che non aspirava così in alto, visto che apparentemente è una ragazza della specie di chi rimane a terra. Ha una fantasia: ballare in tutù alla Scala di Milano. Si iscrive a una scuola di danza classica, viene anche selezionata per il balletto dei bambini

sganciandosi un po’ dalla famiglia, che va bene, ci si sta benissimo, ma un po’ di spazio ci vuole. Salto in alto, visto le sue doti fisiche, la specialità prescelta. Partecipa a qualche gara, qualcuna la vince e qualcun’altra no. Ha mezzi fisici straordinari, lavora il giusto, senza ammazzarsi in pedana, e ottiene risultati. Non li insegue a qualunque costo, vive con serena partecipazione l’attività agonistica, tutto avviene con gradualità. L’idea di diventare

subito le grandi qualità dell’atleta veneta e decide di rinunciare al suo avvenire di sportivo, che forse qualcosa poteva ancora avere in serbo per lui, dedicandosi esclusivamente al futuro di Sara. Anema e core, insomma. Diventano in breve tempo la coppia più nota sulle piste di mezzo mondo. Si stabiliscono a Formia, dove c’è la Scuola nazionale di atletica leggera Bruno Zauli e perché lì ci sono gli impianti più all’avanguardia e l’aria migliore,

no sempre insistito e si sono imposti? Prime gare federali, primi successi e un record italiano, come detto, che arriva quando è ancora una juniores.

La stella è nata, e alle Olimpiadi di Monaco 1972 con la misura di 1,85, si piazza sesta in graduatoria. Ma nello stesso anno arriva l’amore e la svolta della sua vita. Conosce durante un raduno sulle rive del Mar Nero Erminio Azzaro, classe 1948, del profondo sud campa-

Sara Simeoni salta 2,01 m: nuovo record del mondo

per una rappresentazione dell’Aida all’Arena di Verona.

Il sogno sembra volersi avverare e Sara appare ormai avviata alla prestigiosa scuola del teatro milanese quando arriva una sentenza tanto definitiva quanto raggelante. «Cara, sei troppo alta – le dicono più o meno così – e questa è un arte proibita alle spilungone come te». Come dare torto a questa radiografia tecnico-corporale? A sviluppo ultimato Sara Simeoni avrà ben 1,78 metri di altezza con le gambe lunghissime, oltre il metro; calzerà 41 e peserà 69 chili. Niente da fare: così non si può fare la ballerina, al massimo atletica leggera. La scoperta di questo universo sportivo avviene un po’ casualmente, su invito della sua insegnante di educazione fisica delle scuole medie. All’ultimo anno di quel corso di studi, con le amiche del cuore si iscrive a un gruppo sportivo a Verona. In fondo è un ottimo pretesto per ritrovarsi con le coetanee e andare in città,

un mito e una leggenda dello sport italiano neppure la sfiora. La volontà sì, quella la sorregge oltre la media della sua età, ben oltre la misura. Così, mentre le amiche vanno a spasso e poi a ballare, lei fre-

no, di Pisciotta, abituato ad alzarsi al mattino presto, andare nella vicina Ascea Marina a correre

A Monaco 1972 si piazza sesta, ma nello stesso anno arriva l’amore e la svolta della sua vita, quando conosce durante un raduno sulle rive del Mar Nero Erminio Azzaro

quenta gli stadi e i campi sportivi continuando contemporaneamente a studiare fino al diploma Isef, quello che le può consentire di insegnare educazione fisica nelle scuole. Del resto, come non ascoltare il buon consiglio di mamma e papà che su questo punto han-

pagina 10 - liberal estate - 4 agosto 2010

lungo gli undici chilometri di spiaggia silenziosa e appena umida per la notte. Lui salta ancora ventralmente, alla Valerj Brumel, per intendersi; lei da subito si applica alla disciplina con il salto del gambero, il Fosbury Flop reso celebre dall’eponimo Dick Douglas Fosbury, americano oro alle olimpiadi messicane del 1968. Lui ha un fisico impo-

nente, baffoni scuri e gran sorriso. Bronzo agli europei di Atene del 1969, aveva portato il record italiano maschile di specialità da 2,10 a 2,18. Galeotto fu l’incontro sulle rive di quel mare che gli antichi greci definirono “ospitale”: di lì in avanti i due non si sono mai più lasciati. Si intendono alla perfezione parlando sportivamente lo stesso linguaggio e sono complementari: estroverso e comunicativo lui, riservata e diffidente lei. Azzaro intuisce

dove è possibile allenarsi quasi tutto l’anno all’aperto, respirando a pieni polmoni il salubre salmastro del Tirreno lì vicino. La cura Azzaro dà i frutti sperati: Sara Simeoni è terza alle Universiadi del 1973, terza agli Europei l’anno dopo, seconda alle Universiadi 1975 e, finalmente, argento dietro Rosemarie Ackermann, tedesca dell’Est, alle Olimpiadi di Montreal 1976 saltando 1,91, nuovo record italiano e misura poi limata fino a 1,95, quota raggiunta alla vigilia di Brescia.

Con la Ackermann, di un anno più grande, era iniziata la trepida sfida che caratterizzò la specialità negli anni Settanta-Ottanta. Si rincorro-


no e si rispettano, come avviene tra campionesse autentiche. Alternativamente si consolano e si complimentano tra loro in dipendenza dei risultati. A vent’anni saltavano la stessa misura, 1,85, ma poi Rosemarie rosicchia qualche centimetro a Sara, sollevandosi più in alto. Ma è questione di pochi anni, di qualche centimetro, massimo sei, che nel salto in alto pure son tanti. Ma è anche una questione di stile, tra vecchio e nuovo: Rosemarie Ackermann sfrutta ancora il tradizionale scavalcamento ventrale, più facile da apprendere diceva, e Sara il Fosbury Flop. Sono dunque le 19.56 del 4 agosto 1978 a Brescia e Sara Simeoni è la prima donna al mondo ad andare oltre i due metri nel salto in alto. Un risultato che arriva nel corso di una disputa a distanza proprio con Rosemarie Ackermann che l’anno prima aveva saltato i due metri puliti puliti. Pochi minuti prima, alle 19.53, Sara Simeoni supera 1,98, nuovo record italiano, e pochi minuti dopo diventa davvero spaziale alla prima prova con l’asta posta ancora più in su di tre centimetri. L’impresa è eccezionale, ha una eco in tutto il mondo. Lei ci aveva creduto fino in fondo, se lo sentiva che ce l’avrebbe fatta. Come sempre le accadeva prima dell’impresa c’erano stati tutti i segni premonitori. Tre giorni prima era svenuta, un calo di pressione forse, e il medico della federazione al mattino di quel 4 agosto aveva trovato un 60-100 come valore pressorio per nulla incoraggiante. Ma a pranzo ci pensò Livio Berruti, storico oro alle Olimpiadi di Roma 1960 nei 200 metri piani. Offrì alla coriacea veneta una pozione magica, un bicchiere di bonarda. «Frizzantino quanto basta», aveva detto l’olimpionico nel porgere il calice a Sara. Poi, un po’ per scaramanzia e un po’ per galanteria, il navigato campione aveva offerto alla giovane atleta italiana l’intera bottiglia. «Questa è troppo, la prendo io», deve aver detto Erminio Azzaro, fidanzato-allenatore di Sara e suo Orlando sempre più innamorato. Sarà lui a scolarla, almeno così narrano le cronache del tempo, se aveva gli occhi rossi e lucidi durante la competizione dell’amata. Era forse lui a non crederci.

Sara decolla in pista: rincorsa laterale, passo lungo con quelle sue gambe da fenicottero rosa pronto al volo, e salto a librarsi al primo colpo fino ai 2,01. Atterra incredula sui sacconi posti subito oltre l’attrezzo del salto in alto. Record mondiale e stenta a crederci. Quasi non ricorda il nome della madre, si muove in trance. «Lasciatemi piangere per favore – implora – non fatemi parlare sennò soffoco», dichiara appe-

L

o stesso giorno...

Adriano lancia il guanto di sfida all’avvenire Nasce la società Olivetti di Francesco Lo Dico ltri tempi, altri uomini. Figlio del padre padrone Camillo, Adriano Olivetti si laurea nel 1924 in chimica industriale al Politecnico di Torino. E papà gli trova immediatamente posto nella “prima fabbrica italiana di macchine per scrivere”: come operaio. Alla catena di montaggio, scrive anni dopo, aveva imparato «ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina». Adriano trascorre l’anno successivo negli Stati Uniti, e altri due a leggere libri di economia. Ricerca alacremente la formula scientifica del miracolo tecnologico: impara da Ford l’uomo dell’avvenire, l’operaio consumatore. Riversa l’esperienza libresca nella piccola realtà di Ivrea, dove il suo Ufficio Tempi e Metodi disegna l’Olivetti del futuro. Sotto la sua guida, quelli dal 1926 al 1932

A

na riemersa dai sacconi. La neo primatista piange anche perché con questo record mondiale si compie un lungo inseguimento. La realtà che vivrà da allora in avanti è quello della primatista, tra lei e la Ackermann le parti s’invertono. «Ora è lei la cacciatrice – disse poche ore dopo a mente fredda – e io la preda e questo mi preoccupa un po’, prima di aggiungere scanzonata e felice: «Ma poi chi se ne frega». E non finisce lì. Dopo Brescia, c’è Praga: Europei e scontro vis a vis con Rosema-

Sotto la sua guida, quelli dal 1926 al 1932 sono gli anni della rivoluzione industriale piemontese: profitto, ottimizzazione del lavoro e rispetto della dignità

sono gli anni della rivoluzione industriale piemontese: profitto e ottimizzazione del lavoro nel rispetto della dignità dell’uomo:organizzazione decentrata del personale, direzione per funzioni, razionalizzazione dei tempi e metodi di montaggio, sviluppo della rete commerciale in Italia e all’estero. Il 4 agosto Olivetti il giovane trasforma la fabbrica nella società Olivetti. Il guanto di sfida lanciato al padre, all’arretratezza, alla tradizione, vibra irresistibile nella MP1, la prima macchina da scrivere portatile che è il simbolo della sua rivoluzione. A Ivrea arrivano ingegneri, artisti e designer. E arriva anche l’Ufficio Pubblicità. Scienza, umanità e profitti convivono in un’esperienza irripetibile: alla fine del 1932 Adriano Olivetti diventa Direttore generale dell’azienda. Sotto la sua reg-

lina che accompagnano la gara non la disturbano più di tanto. Saltano tutte e due le atlete, una dopo l’altra, quasi danzano a braccetto in quella competizione che significa il primato continentale, certo, ma anche una sorta di investitura a regina dell’atletica leggera femminile. Poi il guizzo d’estro e la fortuna. Il guizzo d’estro: l’asticella viene posta a 1,97. A sorpresa Sara decide di non saltare quella quota, di attendere i fatidici 2,01 per rimisurarsi con

genza, si scrive il futuro: gli intellettuali in fabbrica, l’economia di impresa, la psicologia del lavoro. «La bellezza – scrisse – insieme all’amore, la verità e la giustizia rappresenta un’autentica promozione spirituale. Gli uomini, le ideologie, gli Stati che dimenticheranno una sola di queste forze creatrici non potranno indicare a nessuno il cammino verso la civiltà». Padrone illuminato. Fece pochi proseliti.

così non è. Trepidamente attende e poi attende ancora. I giudici hanno finalmente posto l’asticella all’altezza che voleva. Rosemarie Ackermann è là, che l’aspetta in pista. Se ambedue sbagliano l’ultima misura, sarà lei, la campionessa tedesca, ad aggiudicarsi l’alloro per aver saltato l’1,97.Tutte e due lo sanno e Rosemarie è sicura del fatto suo ma non quanto il mito di Rivoli Veronese. Un due e tre: busto appena portato indietro e via, la corsa felpata di Sara si conclude allo stacco appena

Pochi minuti prima, alle 19.53, l’azzurra supera 1,98, nuovo record italiano, e pochi minuti dopo diventa davvero spaziale alla prima prova con l’asta posta ancora più in su di tre centimetri. L’impresa ha una grande eco in tutto il mondo. Lei ci aveva creduto fino in fondo, ma dietro il trionfo c’è un ”frizzante aneddoto”...

rie. La sua non è stata un’impresa occasionale, frutto magari di uno stato di forma eccezionale e di circostanze irripetibili. Sulla pedana dell’allora capitale della Cecoslovacchia, si presenta con una sicurezza assoluta. Il freddo e la pioggerel-

le rivali. La mossa desta stupore anche in Azzaro. Il fiato di mezza Italia resta sospeso come il corpo di Sara quando s’innalza nell’aria. Per evitare di raffreddare i muscoli s’infila in un sacco a pelo rosso e finge di disinteressarsi alla gara. Ma

sotto l’asticella. Si tratta di lanciarsi oltre, all’indietro, come scavalcare un furgoncino con la sola forza delle proprie gambe. Decolla alto, soffice si eleva oltre l’ostacolo e atterra con felice convinzione sui morbidi materassi. Ce l’ha fatta.

Tocca a Rosemarie: lei inizia la rincorsa dal lato opposto, così come richiesto dalla tecnica dello scavalcamento ventrale. Forse un po’più arduo per la tedesca, di due centimetri più bassa della nostra. Stacca decisa, ruota sull’asticella portandosi anche lei oltre la misura. Poi la fortuna imprevedibile: dopo l’atterraggio, per un banale errore di distrazione, fa cadere l’asticella e per questo deve accontentarsi del secondo posto. Non si era mai vista una cosa del genere e per lei, un anno prima designata dall’United Press International atleta dell’anno per essere arrivata prima donna ai due metri, fu il segno del declino.

Sara invece continua a volare: si ammanta dell’alloro alle Olimpiadi di Mosca 1980 e quattro anni dopo, all’età in cui ogni sacrificio per lo sport appare troppo pesante per sostenerlo, supera se stessa. Onora il suo ruolo di portabandiera dello sport italiano: fiera e dal passo elegante regge il tricolore nella parata d’apertura di Montreal 1984. Poi si sveste: in pista soffre per un infortunio ma regala a se stessa e ai nostri colori un’ennesima medaglia, la terza olimpica. Si piazzerà seconda e il suo argento brilla ancora. Più di un milione di italiani rimane sveglio davanti ai teleschermi con le immagine dal lontano Canada, affascinato dall’eccezionale impresa: Che notte con Sara! titolano i quotidiani all’indomani. Che vita esemplare da campione, Sara.

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IL GIALLO

CAPITOLO 2 Meccanica di un delitto imperfetto Nell’appartamento di Jorio, un giornalista scomodo ucciso da terroristi. O forse, solo un uomo triste di Carlo Chinawsky

I

o individuai facilmente. Era l’unico carabiniere in divisa all’inizio del binario sette, Eurostar Napoli-Milano, ritardo undici minuti. Ed eccomi lì sotto quella gabbia per uccelli preistorici che è la Stazione Centrale di Milano. Il maresciallo Conforti lanciò uno sguardo alla mia valigia rossa e si avvicinò sorridendo con gli occhi». «Ha fatto buon viaggio, colonnello?». «Sì. A parte i telefonini dei manager, finti manager, aspiranti manager». «Non viaggia in aereo, colonnello?». «Per Roma-Milano mai. E poi sono appassionato di treni, fin da bambino». «Certo, ha il suo fascino», disse il maresciallo, che in pochi secondi non poteva trovare un commento più originale. «Che ne dice, Conforti, se andassimo a mangiare qualcosa così lei mi spiega il caso Jorio?». «Sì, signor colonnello… ». «Tolga subito il “signore”, facciamo prima». «Grazie. Ho con me le fotocopie del fascicolo che riguarda Jorio… prego, a sinistra, colonnello, ho parcheggiato da quella parte, del resto non c’è più scelta, hanno chiuso tutti gli spazi… ». «Lo so. Ma che ne sarà della galleria delle carrozze?». «Carrozze…?». «Si chiamava così quando hanno costruito questo ammasso di pietre. Solennità fascista, a distanza di decenni è bella. La storia leviga tutto. Comunque, nella parte coperta della facciata un tempo sostavano le carrozze».

Conforti era alto e ossuto. Ballava dentro una divisa tagliata maluccio, aveva un incedere da marionetta. Esitava, per soggezione. Il viso era squadrato, ma senza spigoli da pubblicità per profumi maschili. Pensai che sarebbe stato un buon aiutante. La verità della prima impressione, dicono i neurologi, ha un suo fondamento scientifico: sulla tabula rasa del cervello è più difficile ingannare. E Oscar Wilde lo sapeva già. Parlammo dei lavori in corso alla Centrale. Tutto all’insegna dello shopping, Europa che ha in mente i film americani. E fuori una brutta piazza, da geometra di provincia. Odio conversare sulla sociologia urbana, ma gli diedi corda. «Milano improvvisa e arranca. Non ricorda il suo passato o, quel che è peggio, se lo inventa». «Segno di decadenza?», azzardò Conforti. Mi stava annusando come fanno i cani. Dovevano avergli riferito di me alcune cose. Forse le solite: non arrogante, ma capace di arrabbiarsi all’improvviso («a te vien la mosca al naso», mi dice sempre mia sorella), solitario nelle indagini, carattere chiuso con sprazzi di cordialità, uno che disegna grafici nevrotici di simpatie e simpatie. «Sa quel che noto quando sono qui? Un vuoto». «Vuoto chiassoso… ». «Ben detto, maresciallo. Riassume tutto: il made in Italy, gli stilisti, le anoressiche, le feste, gli happy hours, la comunicazio-

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Conforti era alto e ossuto. Ballava dentro una divisa tagliata maluccio, aveva un incedere da marionetta. Esitava per soggezione. Il viso era squadrato, ma senza spigoli da pubblicità per profumi maschili. Sarebbe stato un buon aiutante ne e i suoi azzimati specialisti, i gorilla in giacca nera Armani e altre balle del genere». «Lei è romano, colonnello?». «Di adozione. Sono nato a Rimini. A Roma ci vivo dai tempi dell’università. Mia madre è romana. Si prende dalla madre, come gli ebrei. E lei?». «Nato e vissuto a Torino fino a due anni fa, ma la mia famiglia è modenese». «Un torinese non si trova mai bene a Milano. Se gli togli il Po i Savoia sono niente».

Lui sorrise. La macchina era a pochi metri dal vialone dove scorrevano i filobus. Era grigia, non metallizzata, senza insegne. Perfetta.Volteggiava il polline, l’aria cominciava a essere quella della primavera, la stagione più confusa di tutte che, se te la vuoi ricordare, oggi devi andare al cinema. La mezza stagione di New York è solo nei film di Woody Allen. Extracomunitari si raggruppavano qua e là, fumavano, ridevano, discutevano. Lattine e bottiglie di birra dappertutto. Appog-

giata a un alberello mezzo defunto una donna africana allattava, piegata su di sé come un ombrello. Era il picnic dei penultimi del mondo. Poco dopo entrammo in una saletta con i tavoli sia quadrati che rotondi. A metà strada tra il ristorante e la trattoria, qualcosa di indeciso, proprio come era diventata la città.

A pochi passi il Politecnico, giardini con guardoni e viali con trans. Ci venne subito addosso il frastuono cordiale, una fortuna per coppie in faticoso recupero coniugale, meno per altri. Conforti notò la mia smorfia: «Mi spiace, colonnello, la volta che ci sono stato c’era più silenzio». «Fa niente. Lei magari ha le chiavi dell’appartamento dove s’è ammazzato quell’uomo… ». Annuì. Solerte senza fare troppo lo zelante. «Ma lei, colonnello, sarà stanco…devo accompagnarla poi nel suo appartamentino… ». Diminutivo molto piemontese, pensai. «È sempre in via Palermo?». «Sì. Lei c’è già

stato, quindi». «Sì, tre anni fa più o meno. Dovevo fare il negoziatore tra i genitori d’una ragazza e l’uomo che l’aveva rapita. Quei due s’erano pure innamorati». «Come nel film con Denzel Washington… Inside man … l’ha visto?». Dissi di sì e lui continuò: «Ma lei… se posso… lei ha fatto il negoziatore anche coi terroristi?». «Con quelli non si negoziava un bel niente. L’unica era far saltare piccole connessioni. E poi spalle al muro, non c’era altro da fare. Nemmeno adesso». Mi guardò, come si aspettasse dei racconti. Non avevo voglia. «Il nostro suicida», chiesi, «s’era occupato di terrorismo quando lavorava al giornale?». «No, solo cronaca nera a quanto mi hanno detto». «Però non è da escludere del tutto, vero?». «Mah… ». «Verificheremo», dissi. «Ma lei pensa che ci siano stati fatti o persone del passato… non so… qualcuno della malavita che magari gliel’aveva giurata… collegamenti tra banditi e terroristi?». «Ci vada piano, era solo un’ipotesi». Con un cenno lo invitai ad andare avanti. E lui obbedì, col rischio di infervorarsi: «Jorio aveva seguito un’inchiesta complicata». «Cioè?». Eravamo arrivati alla fine del secondo e avevamo ordinato due caffè. Dal tavolo del compleanno s’avvicinava la minaccia della torta con le candeline e l’happy birthday to you. Bisognava andarsene. L’apparta-


LA PERDUTA GENTE ne tramontata da un bel pezzo. Oddio, anche il nome - Alcide era un elemento che faceva scorrere l’orologio all’indietro. Se avessi avuto tra le mani un ritratto dell’Ottocento non mi sarei accorto subito di un’assurdità temporale. Jorio aveva un viso malinconico. Però c’era una buona dose di ostinazione nello sguardo. Occhi che parevano non posarsi su niente. Erano quelli di un uomo che si perde, o si ritrova, nei ricordi, completamente sganciati dal momento del clic. Poteva essere un uomo a disagio, ma anche uno al quale non importa niente delle cose e delle persone che gli stanno attorno, malgrado la cortesia formale e, forse, la simulazione di un interesse. Nasceva forse da qui la nomea di antipatico.

Scorsi un altro foglio. Avrei po-

Illustrazione di Michelangelo Pace mento di Alcide Jorio era al primo piano di una casa con la facciata a piastrelline color pisello, in Via Casoretto. Quasi all’angolo con via Teodosio, a pochi passi dal deposito dei tram, che era una sbadigliante bocca di balena. Non c’era puzza di chiuso. Le tapparelle erano abbassate ma le finestre erano state lasciate aperte. Mi guidò verso sinistra, dove c’era il soggiorno con balconcino. Posto rumoroso, anche a quell’ora. Figuriamoci di giorno. Sbirciai fuori: a una trentina di metri un semaforo. Alzai le tapparelle: di fronte c’erano alcuni negozi, tra cui uno di giocattoli e la sede di una società di pompe funebri,“Manturi e figli”. Inizio e fine della vita. Vicinanza commerciale. Oltre al divano a due posti e una poltrona, una libreria e una scrivania. Prevaleva il bianco. L’effetto ospedale proveniva anche dal fatto che non c’erano quadri o stampe alle pareti. Attaccata al muro una sola maschera africana, a strisce verticali nere e beige. Perché quella? Di fronte al soggiorno la cucina con balcone che s’affacciava sul cortile striminzito. Sbirciai. Sulla sinistra la facciata interna di una casa con colori lugubri. Di nuovo nel quadrato dell’entrata: due metri avanti, sulla sinistra, la camera da letto. Armadio bianco, pareti bianche, alcuni scaffali bianchi, seggiolina di plastica bianca. Nessun tappeto o scendi-

Nelle puntate precedenti Nicola Stauder, cinquantenne romano, colonnello dei Carabinieri, già esperto nell’antiterrorismo, lavora per l’Arma come jolly. Risolve i casi difficili, spostandosi in varie città italiane. Stavolta è inviato a Milano, dove un giornalista in pensione, Alcide Jorio, è stato trovato senza vita con la testa nel forno di cucina. Suicidio o omicidio? Ci sono “pressioni dall’alto” perché il caso sia risolto. Stauder è stato ferito tempo prima in un attentato in cui morì sua moglie, Catherine. letto. A destra il bagno. Lo stesso non colore, anche lì. Tornammo in soggiorno. «Colonnello, ecco l’incartamento. Qui c’è tutto… ». «Salvo la ragione della sua morte». «Lei è qui per questo…la chiamano il jolly dell’Arma, ma questo lo sa». Lo aprii e vidi come prima cosa la foto del giornalista. Immediata la sensazione di trovarmi di fronte una generazio-

tuto leggerlo nel mio bilocale milanese, ma avevo curiosità. Sintesi dell’uomo di cui dovevo occuparmi: Alcide Jorio, nato a Perugia nel 1943, ex professore di liceo, descritto da “conoscenti” come persona introversa, aveva iniziato la sua carriera come giornalista di nera al quotidiano La Sera, lo stesso dove aveva raggiunto la qualifica di caporedattore. Cinque anni prima, più o meno quando era stata scattata la sua foto triste, era passato a lavorare in uno di quei mensili con carta patinata (Signori e signore, proprio il titolo del film di Pietro Germi, che trovata) che si sfogliano nelle sale d’aspetto. La pubblicità scivola sui canali del superfluo. A far da contraltare allo sciatto esilio dal giornalismo vero, c’era la sua collaborazione a due mensili letterari. Scriveva racconti. Questo mi interessava molto: la fantasia è talvolta la cronaca più attendibile. Conforti aspettava pazientemente, seduto su una poltrona avvolgente e con le molle a pezzi. «Prima quaestio, maresciallo», lo coinvolsi, anche per non farlo sembrare solo un maggiordomo o un autista. «Qualcuno deve pur aver chiuso la manopola del gas… quindi questo qualcuno sapeva, o credeva di sapere, che per Jorio non c’era nulla da fare. Sennò chiamava un’ambulanza. Ma perché ha compiuto quel gesto?». Conforti cominciò a tormentarsi le dita: «Tra i vari misteri di questo caso c’è anche un’altra cosa: chi ha chiuso il rubinetto del gas se n’è andato senza chiudere la porta d’ingresso? Era solo accostata al ritrovamento del cadavere». «Già. Ora un sottoquesito», continuai «Quella persona è entrata da una porta socchiusa o chiusa? E se era chiusa, l’ha aperta con proprie chiavi o si è fatto aprire suonando il campanello? In quest’ultimo caso Jorio l’ha fatta entrare. È stato ucciso dal suo ospite… ». «Senza fare resistenza?». «Qui c’è scritto che non hanno trovato tracce di colluttazione.

Sempre cose discutibili». «In che senso?». «Esami poco approfonditi. Capita sovente, mi spiace deluderla. Fin qui, senza altri elementi, siamo di fronte a un rebus. Roba che mi irrita, come le parole crociate». Conforti ridacchiò con voce un po’ fessa. Forse non ci credeva, pensava fosse un mio vezzo. Sembrava più ragazzo. Pensai che avrebbe potuto essere mio figlio. Anagraficamente poteva. Poi disse: «Chissà se aveva contatti con…». «Con quelli della cronaca nera del suo ex giornale? È questo che vuol dire?». «Sì. Nell’incartamento ci sono le fotocopie dei suoi articoli… sa, l’inchiesta di cui ho accennato…». «Me le leggerò. Da un lato c’è la personalità di Jorio, dall’altro la

li aveva esaminati prima. Dopo qualche minuto tornò a sedersi in poltrona ed espose una cosa ovvia: le indagini erano state fatte in fretta e furia, dando per scontata la tesi del suicidio. «Dall’Arma?». «Sì, ma non lo dicevo per polemica», si scusò, «Mica si può seguire tutto come se fosse l’omicidio Moro… ». «Paragone sbagliatissimo… lasciamo stare… ».Mi alzai anch’io e mi sedetti alla scrivania, ovviamente bianca, modello Ikea, dove Jorio scriveva i suoi racconti. A uno a uno aprii tutti i cassetti. L’ex cronista era ordinatissimo. Con una discreta dose di ossessione. Tre vaschette di plastica nera con clips, matite, temperini, scotch, eccetera. Quaderni di appunti: li aveva letti chi aveva distratta-

Mi chiedo perché uno che è rimasto per anni in un quotidiano importante, che scriveva racconti in mensili di prestigio anche se letti da quattro gatti, abbia deciso di andare a lavorare per un mensile per deficienti. Soldi? Oppure voglia di un qualche rifugio? meccanica del delitto. O del suicidio. Mi chiedo perché uno che è rimasto per anni e anni in un quotidiano importante, che scriveva dei racconti in mensili di prestigio anche se letti da quattro gatti, che aveva degli ottimi libri in casa… li ha notati, vero?… insomma mi chiedo perché abbia deciso di andare a lavorare per un mensile per deficienti. Soldi? Oppure voglia di un qualche rifugio?». «Può darsi… anche se… ». «Dica». «Sa, colonnello, io non conosco bene il mondo della stampa… potrebbe essersi stancato degli orari… ». «Conforti, non c’è bisogno di essere esperti dei mass media. È come se lei, che mi sembra un uomo sobrio, domani si presentasse in caserma con indosso una salopette arancione. Il mensile dove è andato a lavorare stride… stride con tutto. A meno che avesse dei guai. O bisogno di quattrini». A sentire della salopette rise di gusto. Poi mi chiese che cosa pensassi del suicidio. «In generale?». «Sì». «Be’, parecchi hanno uno scarto improvviso, un’impennata… quel che cova sotto vien fuori… pezzi di vita si mettono insieme senza che lo si voglia e alla fine comandano loro, i frammenti di vita, voglio dire… si può arrivare a una sintesi finale, ma è quasi sempre sbilanciato dagli ultimi eventi, che richiamano altri eventi… un gioco di scatole russe… una, magari la più piccola, esplode e tutto va in pezzi. Sono pensieri sparsi i miei». Ovviamente pensai a mio padre, il giudice suicida. «La morte come un agguato?». «Bella espressione, maresciallo. È il secondo complimento che le faccio stasera». Conforti arrossì, si alzò e andò a sbirciare i libri sugli scaffali. Evidentemente non

mente condotto le prime indagini? L’avrei comunque fatto io, dopo. Nell’ultimo cassetto, dentro un raccoglitore arancione con l’elastico, alcuni racconti con la sua firma in alto a destra, in grassetto. Li presi, e con quelli mi sedetti di nuovo sul divano. Il maresciallo mi scrutava.

Probabilmente si chiedeva per quanto tempo volessi rimanere lì. Lo guardai: «Non lo prenda come uno sgarbo, ma io rimango un po’ qui. Mi piace partire dal luogo, stare dentro l’uovo dell’inchiesta, per qualche ora… ». «Capisco… vuole rimanere solo?». «Lei non mi dà fastidio, sia chiaro. È solo che non la voglio costringere… sarà stanco a quest’ora o avrà da fare… ». «Se intende un appuntamento… be’no. Potrei studiare… mi mancano due esami e la tesi, per la laurea». «Prima di andarsene si segni alcune cose… ». «Agli ordini», disse e prese dalla tasca un minuscolo bloc-notes. «Vorrei mettermi in contatto con qualcuno dei nostri a Perugia, città natale di Jorio, e poi… ho letto qui che a Milano ha una ex moglie e una figlia… l’indirizzo della moglie c’è, ci andremo… ma la figlia… Patrizia Jorio, anni venticinque, nubile… qui però non c’è dove abita, o perlomeno c’è un vecchio indirizzo… vedo che i nostri colleghi non sono riusciti a rintracciarla». «Ho capito, colonnello. Domattina cerco un collegamento con Perugia e poi… ». «La raggiungo in caserma. Va bene alle dieci?». «A suo comodo, signore». «Lei sa, e se non lo sa glielo dico io, che a Roma fanno certe pressioni… questa è la ragione per cui io sto qui. Non è il caso Moro, è vero, ma a una spiegazione bisogna pur arrivare».

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DIAMO I NUMERI

Il rebus dei cinque cerchi Le cose non stanno come ce le hanno insegnate a scuola : la divisione della Terra in Americhe, Oceania, Antartide e Eurafrasia non è condivisa. Alcuni ad esempio identificano sette o persino otto macroaree terrestri inque cerchi sulla bandiera olimpica, come i cinque continenti. Nero per l’Africa, verde per l’Oceania, azzurro per l’Europa, giallo per l’Asia, rosso per l’America. Per la verità il Comitato olimpico internazionale ha sempre negato l’abbinamento specifico dei colori, ma che i cinque cerchi rappresentino i cinque continenti è cosa che stabilì Pierre De Coubertin in persona quando nel 1913 disegnò di sua mano il simbolo che entrò progressivamente nella storia delle Olimpiadi, dalla prima apparizione in uno stadio olimpico nel 1920 fino a diventare un uso consolidato solo a partire da Montreal 1976.

C

Ma il fatto è che i continenti non sono cinque. Nel tempo ci sono stati diversi conteggi per i continenti, secondo anche le conoscenze dell’epoca. Ma adesso che la mappa del mondo ci è chiara e completa, non possiamo che prendere atto che il tradizionale modo di dire che si riferisce ai cinque continenti è sbagliato. Non è forse il caso di tirare in ballo una stranota barzelletta scolastica del mitico Pierino: «Signora maestra i 5 continenti della terra sono 4. Però io ne ricordo solo 3. Asia e Africa». Però senz’altro l’argomento è un po’ diverso da come ce lo insegnavano alle elementari. In realtà il primo problema nasce già dalla definizione di cosa sia un continente, derivato dal latino continere, tenere insieme. Si tratta di una regione di terra emersa, ma i criteri per identificarla possono essere vari. Ad esempio il fatto di essere circondato dall’acqua, ma questo porta a considerare un unico

Sul numero dei continenti esistono teorie discordi di Osvaldo Baldacci

continente ad esempio Europa e Asia, mentre ogni isola sarebbe un continente a sé. D’altro canto può essere presa in considerazione la piattaforma continentale, ma anche in quel caso ci sono dei problemi ad esempio per l’Oceania, o comunque per l’area Islanda-Groenlandia che andrebbe insieme, con l’Islanda divisa tra Europa e America oppure a unirle come un ponte. La verità è che la definizione di continente ha dei criteri (col ricorso a diversi tipi di analisi, dalla geo-

La comune accezione di “terra emersa circondata dall’acqua” crea alcune difficoltà di metodo. Ad esempio Europa e Asia dovrebbero essere considerate come un unico blocco... morfologica alla ecologica, dalla storica alla politica), ma quelli prevalenti sono convenzionali. Ma anche queste convenzioni usate da geografi e storici sono mutate nel tempo e ancora oggi non mettono tutti d’accordo.

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Nell’antichità classica i continenti, se di essi si può parlare in senso moderno, erano Europa, Asia e Africa, in realtà più uniti dal Mediterraneo che divisi dalla geografia. Ma anche oggi c’è chi considera che i continenti siano solo quattro: Americhe, Antartide, Oceania, Eurafrasia (considerata un unico blocco di crosta terrestre). All’opposto c’è chi identifica sette o persino otto continenti (Europa, Asia, Africa, America del nord, America del Sud, Antartide, Oceania, più eventualmente Australia e/o America centrale, arrivando inverosimilmente a nove). Altri invece addirittura uniscono America settentrionale, Europa e Asia nel presunto antico continente di Laurasia. Molti poi sottolineano l’evidenza che almeno Europa e Asia siano da considerarsi un unico continente, cosa geograficamente ineccepibile, ma storicamente insostenibile. Il problema principale a questo punto è individuare il confine tra i due continenti, il cui unico punto certo (certo? davvero?) è la linea Ellesponto-DardanelliPropontide-Mar di MarmaraBosforo. A nord di qui invece è tutta una grande pianura dalla Francia alla Mongolia. Tradizionalmente la divisione è posta sui Monti Urali, perché sono il rilievo più utile allo scopo, ma anche perché corrispondono bene alla

funzione di lasciare in Europa il cuore della Russia politica, e considerare asiatico il suo enorme corpo. Anche lungo il Caucaso si crea della confusione, ma generalmente è considerato europeo, più o meno lungo la linea di confine della scomparsa Unione Sovietica (ma ad esempio la regione dell’Azerbaijan si trova a cavallo dei due continenti). Per quanto riguarda l’Africa la linea prevalente è ovviamente di considerarla un continente a sé, ma ben si sa che il Canale di Suez è artificiale, e prima del diciannovesimo secolo Asia e Africa erano in continuità territoriale. D’altro canto da un punto di vista culturale è evidente come il Nord Africa sia molto più omogeneo all’Asia occidentale che all’Africa sub sahariana. Un istmo è anche quello che potrebbe essere preso in considerazione per dividere America del nord e del sud: il Canale di Panama. Ma si tratta appunto di una realizzazione recente e artificiale, e comunque creerebbe una divisione continentale che contrasta con la tradizione e la cultura, perché da questi punti di vista è evidente che l’America centrale, un continuum, viene divisa in due, mentre è sempre più labile il confine tra il Messico ispanico (che comunque tecnicamente secondo molti appartiene al Nord America) e gli Sta-

ti Uniti. C’è quindi chi considera le Americhe un unico continente, mentre all’opposto altri, pochi, arrivano a dividerle in tre: nord, centro e sud. C’è poi il caso dell’Antartide, il più nuovo dei continenti, che tra l’altro ha la caratteristica di un paesaggio ecologico uniforme e disabitato dall’uomo. Però a differenza dell’Artide sotto i ghiacci polari c’è terra emersa, per cui di continente si tratta.

L’Oceania, come dice il nome, è al contrario degli altri unita e non divisa dal mare. Però se l’Oceano Pacifico con le sue isole è su un’unica placca architettonica, l’Australia (che è la terra più vasta di questo “nuovo”continente) si trova su una propria placca. L’Oceania poi è divisa dall’Asia secondo criteri ecologici, lungo una linea che divide nettamente i rispettivi tipi di flora e di fauna. Insomma, un rebus, forse irrisolvibile, però con un risultato finale: se si vuole per forza trovare il modo di far quadrare la cifra tradizionale di cinque continenti, qualche scappatoia stavolta c’è. Ma proprio di fronte a questo grande numero di variabili la cosa più avventata è proprio dare per scontato è il numero cinque, con rammarico per i cerchi olimpici. Una piccola notazione finale: sul tabellone del famoso gioco Risiko, i continenti sono sei, con l’America divisa tra nord e sud. Da notare che l’Oceania ingloba i territori dell’Indonesia e della Nuova Guinea, che in realtà appartengono all’Asia. Due scelte che forse più della scuola hanno segnato l’immaginario di un numero enorme di persone rispetto alla divisione dei continenti.


I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ Manoscritti del Mar Morto sono un insieme amplissimo di testi biblici, datati a cominciare dal III secolo a. C. La loro scoperta, avvenuta a partire dal 1946/47, ha rivoluzionato la conoscenza sulla formazione della Bibbia, del pensiero giudaico e della lingua ebraica nel periodo compreso tra i primi secoli avanti Cristo e i primi secoli dopo. Inoltre, gli evidenti rapporti di un gruppo di questi testi con i primi scritti cristiani hanno, ancora una volta, riproposto il problema dei rapporti tra scienza e fede. Hanno poi messo in rilievo il conflitto che, in questi e casi simili, viene a crearsi tra un corretto metodo filologico e storico e le interpretazioni scandalistiche.

I

Così le relazioni tra scritti del Nuovo Testamento e i manoscritti trovati nella località cosiddetta di“Qumran 1”– relazioni da alcuni considerate strettissime – hanno condotto a molteplici speculazioni, per lo più fantasiose: la pubblicazione dei testi, per esempio, sarebbe stata accompagnata da misteriose “congiure” o, addirittura, divieti e censure, finalizzate a nascondere “verità scomode” che alcuni studiosi non avrebbero voluto rendere note. Insomma, sin dalla loro scoperta i manoscritti sono stati al centro di polemiche e di appassionate controversie, dai toni spesso più che accesi. Negli ultimi anni, però, i responsabili dell’edizione dei manoscritti hanno pubblicato gran parte delle opere e dei frammenti più controversi. Inoltre, sono state rese pubbliche le fotografie di tutti i testi e sono apparse diverse opere d’insieme, scientificamente ben fondate, che illuminano la complessa storia dei documenti – il loro contenuto, le ragioni del dibattito – e ricostruiscono, in maniera essenzialmente concorde, l’identità, i modi di vita, il pensiero e le credenze di chi scriveva e/o utilizzava i manoscritti. Non va dimenticato, inoltre, che sono state poi pubblicate le traduzioni dei documenti più significativi, facendo sì che qualsiasi persona interessata possa rendersi conto dell’entità della scoperta, del suo significato storico generale. A partire dal 1946/47 vennero scoperte ed esplorate alcune grotte di formazione naturale o scavate dall’uomo nella falesia che si affacciano sulla riva occidentale del Mar Morto, all’altezza di un antico insediamento noto con il nome di Khirbet Qumran, le “rovine” di Qumran. Per quasi due millenni queste grotte avevano conservato un impressionante numero di manoscritti – una vera e propria biblioteca – redatti quasi tutti in ebraico o in aramaico, alcuni in greco, vergati a inchiostro su pergamena, in qualche caso su papiro o su ceramica: il clima secco della regione (siamo in una zona desertica, a quasi 400 metri sotto il livello del

QUMRAN L’incredibile ritrovamento dei più antichi manoscritti biblici rimasti sepolti per due millenni tra le rovine

I rotoli del Mar Morto di Rossella Fabiani

riore dei monastero di S. Marco a Gerusalemme, divenne un personaggio chiave nelle vicende che seguirono. I beduini tornarono poi alla grotta e recuperarono altri quattro rotoli, che consegnarono di nuovo a Kendo. Questi si mise in contatto, a Gerusalemme, con Athanasius Ieshua Samuel, superiore (metropolita) del convento di S. Marco, per cercare di individuare quale era la scrittura che compariva sui rotoli. Per pochi soldi il metropolita Athanasius acquistò quattro dei rotoli; li portò all’École Biblique et archéologique francaise de Palestine, mostrandoli a padre Johannes van der Ploeg, allora borsista a Gerusalemme. Il giovane studioso riconobbe immediatamente su un manoscritto il testo ebraico del libro biblico del profeta Isaia e ipotizzò che la sua data fosse molto antica. Intanto, l’instancabile Kando mostrò il frammento di un manoscritto a Eleazar Sukenik, direttore del dipartimento di Archeologia dell’Università ebraica, il quale riconobbe subito l’importanza del ritrovamento.

I documenti sono legati alle credenze degli Esseni, probabilmente una delle principali sette religiose ebraiche dell’epoca

“Ricordi di un dolore” di Giuseppe Pellizza da Volpedo mare) ha permesso che rimanessero intatti, fino al momento del loro ritrovamento. In seguito, altri documenti simili e di altrettanto interesse, sono stati scoperti, in altre località presso il Mar Morto e anche più a nord, nella regione di Gerico. I ritrovamenti di Qumran appaiono legati alle credenze, alle pratiche cultuali e gazzo beduino della tribù dei Ta’all’organizzazione di una parti- mireh, alla ricerca di una capra colare comunità di tipo monasti- smarrita, getta un sasso in una co. I membri di questa comunità grotta e sente un rumore di cocci appartenevano probabilmente a rotti. Torna il giorno dopo con una delle principali sette religio- due suoi cugini: è Muhammad se ebraiche dell’epoca, quella de- edh-Dhib, cioè Maometto “il Lugli Esseni. Il racconto – diventato po” (il suo vero nome era leggendario – della loro prima Muhammad Ahmed el-Hamed) a scoperta ci porta nel periodo in calarsi nella caverna e vi scorge cui la Palestina era ancora sotto alcune giare ancora intatte; le mandato britannico: in un giorno apre. In una trova – avvolti in teli imprecisato tra il 1946/47, un ra- di lino – tre rotoli iscritti. I cugini

Fine anni Quaranta: in una grotta della Palestina inizia una delle più emozionanti avventure archeologiche del Novecento li portano a Betlemme. In realtà sembra che i Beduini Ta’mireh fossero, oltre che pastori, ben noti contrabbandieri e che le loro ricerche nella regione non fossero così casuali come narra la “leggenda”. Comunque sia, gli scopritori mostrarono il loro bottino a un calzolaio – nonché venditore di antichità – di Betlemme, Khalil Iskandar Shahin, detto Kando, un cristiano di rito giacobita. Questo, insieme con il supe-

Nonostante le difficoltà politiche di quel periodo – il Mandato britannico sulla Palestina stava per scadere e le tensione nel Paese era alle stelle – Sukenik raggiunse Betlemme e, dopo lunghe trattative, acquistò tre rotoli; si trattava di una copia incompleta del Libro del profeta Isaia (detto Isaia b), un rotolo di Inni e un testo che, in seguito, fu chiamato “Guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre”. Nel 1948, Sukenik esaminò gli altri quattro rotoli nelle mani del metropolita Athanasius – il cosiddetto “Grande rotolo di Isaia” (Isaia a), la “Regola della Comunità”, il “Commento ad Abacuc” e l’ “Apocrifo della Genesi” – ma non riuscì a convincere il padre a venderli. L’entusiasmo di Sukenik nasceva non soltanto dall’aver identificato il Libro di Isaia, ma soprattutto dalla datazione che riteneva di poter attribuire al manoscritto, e cioè, quella del I secolo a.C. Fino ad allora, infatti, i più antichi codici biblici conosciuti erano due: il “Documento di Damasco”, un manoscritto del X secolo ritrovato nel 1896 in una sinagoga medievale al Cairo e il “Codice di Aleppo” del 926 d.C. La nuova scoperta dei rotoli, dunque, risaliva indietro di quasi mille anni, aprendo così una nuova fase per gli studi biblici.

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CINEMA CALDO

IL SORPASSO DDII DINO RISI

Quel “giretto”con Gassman di Alessandro Boschi l sorpasso, diretto da Dino Risi nel 1962, è uno dei film-simbolo della commedia all’italiana, ed è anche uno straordinario ritratto “in diretta” dell’Italia dei primi anni ’60, che marcia orgogliosa e un po’ incosciente verso il boom economico. Il sorpasso è un film nato quasi per caso, e né il regista Dino Risi né il produttore, Mario Cecchi Gori, si sarebbero mai aspettati un simile successo.

I

Effettivamente il successo del Sorpasso arrivò inaspettato, attraverso il passaparola, dopo che il film era partito in sordina. Risi, Cecchi Gori e Vittorio Gassman, il sommo protagonista, erano convinti di girare un piccolo film. Ed effettivamente le inquadrature iniziali, girate davvero a Ferragosto, fanno capire come le riprese fossero in qualche modo “rubate” per strada. Lo spirito con il quale venne girato Il sorpasso è quello, insolito per il cinema italiano, dei film indipendenti americani. La troupe era molto leggera e nelle scene iniziali c’è il solo Gassman in scena, alla guida dell’Aurelia super-compressa che è la vera co-protagonista del film. Il soggetto originale del Sorpasso si intitolava Il giretto. Era stato scritto per Alberto Sordi, poi la parte passò a Gassman e la storia venne profondamente modificata. Il ruolo di Roberto, per motivi di co-produzione con la Francia, andò a Jean-Louis Trintignant, che aveva 32 anni ma poteva dimostrarne qualcuno di meno, ed era già comparso in un film italiano importante, Estate violenta di Zurlini. Ma la scelta non fu facile, tanto che le riprese iniziarono senza il co-protagonista. L’attore francese è doppiato da Paolo Ferrari, al quale inizialmente si pensò anche come interprete “in toto”: se ci fate caso i due hanno una qualche rassomiglianza. Bruno e Roberto, i due protagonisti del Sorpasso, sono invece lontani come il giorno e la notte. Bruno è il maschio italiano per eccellenza:sbruffone, infingardo, incarna il motto donne & motori, ma è fedele solo a questi ultimi: tratta la macchina come una moglie e la moglie come una macchina. Dino Risi ha sempre detto che Bruno era il suo “mito”, che avrebbe voluto essere come lui: mascalzone, spensierato, dongiovanni. Roberto è il giovane timido e studioso e assomiglia molto allo sceneggiatore Ettore Scola, allora poco più

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che trentenne, che scrisse il film assieme a Ruggero Maccari. Bruno Cortona è un personaggio che non ha domande, ma solo risposte. Come cantava De Gregori, non sa dove andare comunque ci va. E Roberto, che dice di voler tornare a casa, ai suoi studi e al suo sognare, finisce con il rimanere insieme a lui. Roberto è affascinato da quest’uomo più adulto, più sveglio, più intraprendente, e l’idea di farsi un “giretto” con lui non gli dispiace affatto. Altra straordinaria protagonista della pellicola è l’Aurelia. L’Aurelia, la statale numero 1, la madre di tutte le strade, l’antica via romana che da San Pietro arriva fino a Ventimiglia, al confine francese. Guardate il film e poi andate a farci un giro. Vi accorgerete ancora di più di quanto sia cambiata rispetto agli anni ’60. Ormai è quasi un’autostrada. L’unica cosa invariata, rispetto al film, sono i cartelloni pubblicitari: erano già moltissimi nel ’62, in un’Italia che stava scoprendo il benessere, il consumo, quindi anche la pubblicità. Il sorpasso è un film nel quale si parla continuamente di cibo. Per una trattoria dove, secondo Gassman, «se magna da schifo, zoccoli d’asino e vino de fichi», ci sono luoghi dove il gusto di vivere esplode in tutta la gioia un po’ coat-

si accompagna alla nostalgia e, parola grossa, alla poesia. Il viaggio, il film, prosegue, e i due arrivano a Castiglioncello che, negli anni ’60, era una delle mete favorite dei cineasti italiani. Non chiedetemi perché, ma venivano quasi tutti qui in vacanza. Il sorpasso è un azzeccatissimo ritratto dell’Italia anni ’60 anche grazie alle musiche. Risi amava le canzonette “pop”e nel film, oltre alle musiche originali di Riz Ortolani, ci sono molti successi delle hit-parade dell’epoca. Gassman ascolta Vecchio frac di Modugno e canticchia di continuo Con le pinne il fucile e gli occhiali di EdoardoVianello, il musicista più presente in colonna sonora. Si ascolta anche Guarda come dondolo, assieme a Peppino Di Capri del quale si sentono Per un attimo e Saint Tropez twist. Ma il vero tema musicale del film è il clacson dell’Aurelia supercompressa, che Bruno suona di continuo. Perché la regola è: quando passa Bruno daje strada.

La gita di Bruno e Roberto proseguirà ancora per pochi chilometri, verso le curve di Calafuria, dove l’Aurelia incontra un paesaggio più drammatico e roccioso – e dove la storia del Sorpasso avrà il suo epilogo. Che in realtà, abbiamo rischiato di non vedere mai, o almeno di non vedere come Risi lo aveva concepito, perché quella morte, al termine di un film che comunque apparteneva al genere della commedia, disturbava un po’ il produttore Mario Cecchi Gori. Fosse dipeso da lui il finale sarebbe stato un altro: Bruno e Roberto, felici e spensierati, si involano verso un’altra giornata felice e spensierata. Regista e produttore raggiunsero un accordo: se domani piove, disse Cecchi Gori a Risi, gireremo alla “vissero felici e contenti”. Viceversa rimarrà tutto com’è adesso. Sappiamo come è andata. Ma, consentiteci di dirlo, non riusciamo a immaginare Il sorpasso con un epilogo diverso da quello che avete visto. L’incidente stradale alla curva di Calafuria e la morte di Roberto, di cui Bruno non conosce nemmeno il cognome, è il triste, magnifico suggello di una delle più belle pellicole del nostro cinema.

Bruno Cortona è un personaggio che non ha domande, ma solo risposte. E Roberto, che dice di voler tornare ai suoi studi, finisce per restare con lui: tutto il fascino del film è nel loro breve incontro ta degli anni del boom. Lungo tutto il film, non si capisce bene che gusti abbia Bruno: in una scena prima dice che il creme caramel è una schifezza, poi ne ingoia uno intero in un sol boccone. In realtà sembra che Bruno mangi per sentirsi vivo, mentre Roberto è crepuscolare e timido anche nel rapporto con il cibo. Una delle scene che lo vede protagonista, la visita agli zii, quasi una deviazione rispetto al percorso intrapreso da Bruno, è una delle più belle del film, in cui la comicità


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

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L’immaginazione al potere: i rifiuti, i cittadini, la politica e la natura Ogni ambiente ha un equilibrio biologico che può essere gravemente compromesso dai rifiuti dell’uomo. Un piccolo gesto di civiltà, oggi, sulle spiagge, aiuta i pesci, gli uccelli, l’ambiente e l’uomo. Mettiamo l’ecologia al centro delle scelte. I nostri avi, per esempio, utilizzavano lo stallatico per concimare: non costava niente, non inquinava e si ottenevano risultati di qualità. Il produrre rifiuti è un necessità, ma deve diventare una opportunità. Tutto quello che è scarto e rifiuto, è invece qualcosa di concreto; ma ai politici, manca fantasia e responsabilità diretta: nei comuni, piuttosto, inventino dei microsistemi per la raccolta differenziata, così da produrre non richieste di contributi, ma ricchezza e lavoro, senza far pagare la raccolta dei rifiuti. E gli amministratori responsabili della cattiva gestione paghino personalmente per le loro incapacità.

Domenico

ERRATA CORRIGE Nell’inserto “Liberal estate” di ieri, per un errore tipografico è saltata la prima parte del giallo che pubblichiamo a puntate. L’incipit lo riportiamo qui sotto, scusandoci con i lettori. Squillò e vibrò il cellulare, quell’insettone di plastica che tenevo nella tasca della giacca. “Ecco il colonnello Nicola Stauder!”. Era il collega e amico Andrea Mantelli, che iniziava sempre così quando aveva bisogno di me. Scherzosa enfasi. C’era chiasso. Le macchine s’erano appena mosse dalla linea del semaforo di piazza Ungheria e pure i motorini, che era peggio. Arrivavano poi ondate di voci dal mercatino che parte da viale Parioli e svirgola in via Oxilia. “Il colonnello…” eccetera, eccetera: buon uomo, senza dubbio, ma uno di quelli che, col tempo, spingono verso l’imbarazzo: che dire o che smorfia fare di fronte a tanti prologhi barocchi? Accettare quella ritualità lessicale si doveva, ovviamente. Le varianti erano pochine. “Il giovanotto Stauder” per esempio. E non era certo il caso che lo contraddissi tirando fuori il mal di schiena o cose più impalpabili come la malinconia e tantomeno quella parte di me che doveva starsene nella fossa del silenzio. “A cinquant’anni si riparte, mio caro”: un invito, un conforto, ma a

sentirlo due o tre volte al mese, l’effetto era di noia. Con Mantelli al cellulare sapevo che avrei dovuto preparare la valigia. Ogni volta che c’era da affrontare “una piccola missione” (suo lezioso modo di dire), ero chiamato enfaticamente “colonnello”e non Nic o Nico. O Nicola, il mio nome vero. Ci conoscevamo da oltre vent’anni, ci apprezzavamo e ci sopportavamo. Mantelli mi riconosceva “il colpo di genio”, una delle sue scemenze da galateo. Io ammiravo la sua diplomazia degli scacchi: cosa che aveva a che fare con lo spostare pedine o bandierine belliche, per le sue domestic wars (me lo disse un giorno in vena alcolica yankee). Insieme, anni prima, avevamo lavorato contro i movimenti eversivi. Uno era più indulgente coi rossi, l’altro coi neri, ma alla fine concordavamo nel dare colpi duri all’idiozia universale, che è senza colori. Pure a quella che col tempo s’era annidata nelle stanze degli ascari della rivoluzione permanente.

BERLUSCONI SI RICORDI DI GIULIO CESARE Giulio Cesare graziò i suoi nemici Bruto e Cassio. Andò a finire come sappiamo: lo pugnalarono nella congiura delle Idi di Marzo. Bruto, idealista, lo ammazzò per salvare la Repubblica. Cassio, per invidia. Berlusconi non faccia la fine di Giulio Cesare. Non perdoni i “finiani” e Fini. Tanto,

L’IMMAGINE

vostro cagnolino o il vostro gattino? Da qualche tempo è stata messa in commercio una macchina che fa il lavaggio automatico di cani e gatti. Certo, è completamente innocua, però dobbiamo ammettere che ci fa un po’ impressione l’idea di mettere un animale lì dentro… sarà per questo che non ha ancora avuto tanto successo? A proposito di lavaggi in lavatrice, leggete questa notizia. Kimba, la gatta persiana della famiglia Rogers, di Sidney, probabilmente ora odia molto più degli altri felini l’acqua. La gatta infatti ha avuto la disavventura di sperimentare in prima persona un lavaggio in lavatrice, cui è sopravvissuta per un pelo. Kimba si sarebbe introdotta nel cesto della lavatrice attratta dagli indumenti sporchi pronti per il lavaggio, scambiandolo per un posto tranquillo dove fare un pisolino. Tranquillo però non si è rivelato, quando Lyndsay Rogers ha chuiso lo sportello e avviato il lavaggio (fortunatamente, a bassa temperatura), senza sospettare la presenza della gatta tra gli indumenti sporchi. Solo alla fine del lavaggio i Rogers si sono resi conti di quanto era accaduto, quando aprendo lo sportello della lavatrice, hanno trovato Kimba che si trascinava fuori dall’oblò.

nessun ex-An e ex-Msi seguirà Fini e i “finiani”. Nessuno vuole dare la “cittadinanza breve”agli immigrati, proposta dal presidente della Camera. Che, con ciò, si è tagliato le gambe da solo. Il moralismo enunciato da Fini e dai “finiani” conta quanto il raglio di un asino.

Giorgio Rapanelli - Corridonia (MC)

La strage di Duisburg ha riproposto l’impreparazione di alcuni Paesi europein nella gestione delle grosse masse nei raduni. Non è un problema di ordine pubblico ma di strutture sul territorio: non si è preparati ai grossi concerti di una volta, ed è un peccato, perché la musica deve avvicinare e non costituire un pericolo.

I FINIANI E IL GIOCO DELLE TRE CARTE

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LE VERITÀ NASCOSTE

La “pozza” dei divertimenti La chiamano “pozza”‚ ma Patten Pond (nel Maine meridionale) è uno stupendo lago, molto popolare tra le famiglie statunitensi appassionate di camping. Una cosa è certa: a giudicare dalla fotografia, le due ragazzine qui sopra si sono divertite moltissimo

Mettere in dubbio, solo per giochi politici e di correnti, l’operato antimafia del governo Berlusconi è irrispettoso e offensivo. Nessun governo della storia repubblicana ha mai ottenuto gli straordinari risultati nella lotta alla criminalità organizzata come quelli dell’esecutivo Berlusconi che della sicurezza ha fatto un proprio cavallo di battaglia. Esprimo la solidarietà al sottosegretario Alfredo Mantovano, in prima linea nella lotta a tutte le mafie, e sollecito il presidente Fini a dire la sua su dichiarazioni che hanno l’obiettivo di confondere gli italiani e minare il Pdl e il governo. Non vorrei che i finiani, pensando di essere i più furbi, abbiano avuto la geniale idea, di scimmiottare il “gioco delle tre carte”, dove c’è chi quotidianamente attacca Berlusconi e il governo, chi fa il pontiere, chi la colomba ma con lo stesso e unico obiettivo di logorare e delegittimare il premier, l’esecutivo e il partito.

Nunzia De Girolamo


mondo

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Medioriente. Il Consiglio di Sicurezza si riunisce per cercare una soluzione. Mentre il presidente pakistano ammette: «In Afghanistan stiamo perdendo»

Libano, torna la guerra Si riaccende lo scontro con Israele: cinque morti E il mondo teme una piena ripresa delle ostilità di Vincenzo Faccioli Pintozzi ono cinque le vittime, forse sei, che riaprono le ostilità fra Libano e Israele. Per la verità i venti di guerra sulla Linea Blu, il confine fra i due Paesi pattugliato dal contingente internazionale che conta anche la presenza di militari italiani, non hanno mai smesso di spirare: ma gli scontri di ieri fanno pensare a una nuova fase puramente bellica nel rapporto fra il Paese dei cedri e Israele. Nel momento in cui andiamo in stampa non è ancora del tutto chiara la dinamica dei fatti: soldati dei due eserciti si sono scontrati a colpi di artiglieria, di armi leggere e probabilmente di razzi nella zona di Adaysseh. Sono morti tre soldati e un giornalista libanese; un civile e cinque soldati libanesi sono rimasti feriti, come pure alcuni militari israeliani. Hezbollah ha rivendicato la morte di un tenente-colonnello israeliano, e poche ore dopo l’esercito di Tel Aviv ha confermato. Sottolineando però che il proprio ufficiale è morto “in un incidente separato”. Il motivo che ha scatenato le violenze dimostra quanto sia elevata la tensione nella zona. Tutto sarebbe cominciato infatti quando alcuni miltari israeliani hanno sconfinato per abbattere uno o più alberi. La versione è stata confermata dagli alti ufficiali italiani presenti in Libano, secondo i quali l’operazione serviva per installare delle telecamere. Questo ha indispettito i libanesi, che avrebbero cominciato a sparare, scatenando la reazione israeliana e

S

Ancora ignote le cause degli attacchi, anche se si parla di «alberi abbattuti senza avere chiesto il permesso ai vicini». Tensione nei villaggi sul confine quindi gli scontri, che sono durati quattro ore. Mistero invece sulla notizia, smentita dalla polizia israeliana, di due razzi lanciati dal Libano sul nord di Israele. I soldati israeliani avrebbero hanno lanciato quattro razzi contro una postazione di soldati libanesi, colpendo però il vicino villaggio di Adaysseh, dove è rimasto ferito il civile. Una fonte dell’esercito israeliano ha riferito che lo scontro a colpi di artiglieria è avvenuto nei pressi del kibbutz israeliano Misgav Am. Adaysseh si trova a una trentina di chilometri dalla città costiera di Tyre. Successivamente un elicottero israeliano ha bombardato una postazione di militari libanesi distruggendo un blindato senza, sembra causare vittime. I due eserciti si accusano reciprocamente di aver aperto per primi il fuoco. Il presidente libanese Michel Sleiman e il primo ministro Saad Hariri hanno accusato Israele di “aggressione contro il loro Paese. Hariri ha condannato la «violazione della sovranità ter-

Beirut pronta a reagire «con tutti i mezzi a disposizione»

Strategia della tensione: a chi conviene di più? di Luisa Arezzo quattro anni dalla guerra del 2006, torna alta la tensione al confine fra Israele e Libano. Ma benché lo scontro di ieri abbia preteso il suo tributo di sangue (cinque morti, al momento in cui andiamo in stampa) in una dinamica ancora fumosa, figlia di delle reciproche accuse scambiate fra i due governi, una cosa è chiara già da tempo. Quella guerra non è mai cessata, fatto salvo che nel suo aspetto più manifesto: il lancio continuo di razzi contro Israele, missili che distruggevano abitazioni, scuole, boschi, strade e speranze di qualsivoglia via di pace. Il 12 luglio del 2006 la situazione precipitò quando le milizie del gruppo radicale sciita Hezbollah, filo-siriane ed iraniane, attaccarono una pattuglia dell’esercito israeliano uccidendo tre soldati e catturandone due. E ieri, nonostante sia ormai al governo (alla vittoria delle elezioni, nel 2009, molti osservatori internazionali - ma non noi di liberal - dissero che il “Partito di Dio”, una volta al potere, si sarebbe trasformato in un movimento moderato) la provocazione di Nasrallah era sotto gli occhi di tutti. E oggi non solo la guerra minaccia di riaccendersi, ma sotto la cenere trova un Hezbollah rafforzato e galvanizzato dal successo, proprio come i suoi sponsor iraniani. Già, perché se si vuole parlare del ruolo regionale che Hezbollah aspira a svolgere, occorre necessariamente riferirsi a Iran e Siria, i principali finanziatori del movimento sciita. Non a caso, nel manifesto politico del 30 novembre scorso (scritto a distanza di 24 anni dal precedente) il generale Sayyed Hassan Nasrallah ha rilanciato i rapporti preferenziali con l’Iran, considerato uno Stato amico ed alleato, e la Siria, considerata una necessità politica, economica e di sicurezza comune ai due Paesi. Tradotto in altre parole: Hezbollah non solo è ormai una forza fondamentale del governo di Saad Hari-

A

ri (figlio dell’ex premier assassinato nel 2005, la cua responsabilità viene punto fatta cadere sugli uomini di Nasrallah) ma può contare su una rete di sostegno che addestra un terzo dei suoi uomini a Teheran e gli fornisce, tramite la Siria, missili di ultima generazione a breve e a lunga gittata. L’ultimo accordo fra Teheran e Damasco (come riporta l’intelligence francese) parla di una fabbrica di M600 finanziata dagli ayatollah in territorio siriano: Assad se ne può tenere la metà, ma deve consegnare il resto agli Hezbollah.

Così, nonostante il generale Gadi Eisenkot, comandante della regione Nord di Israele, abbia detto di ritenere che lo scontro a fuoco sul confine col Libano di ieri sia «un incidente isolato», è legittimo domandarsi se quello di ieri non sia stato un atto premeditato volto a surriscaldare un confine per distogliere l’attenzione dall’Iran - che procede a passo spedito nella sua corsa all’arma atomica -, continuare l’opera di delegittimazione verso Israele (vedi il rapporto Goldstone, così come tutto l’affaire della Freedom Flotilla) e alzare la tensione in tutto il Medioriente, sempre più preoccupato di una nuova guerra nell’area, financo quella di stampo nucleare. D’altronde, come ha ben fatto notare Fiamma Nirenstein: «È chiaro che Hezbollah è l’arma più acuminata di un Iran che ripone la sua forza egemonica nell’odio antisraeliano, e che lo accenderà come uno zolfanello al momento opportuno». Due conti per tutti: quattro anni fa Hezbollah contava 15mila missili, oggi ne ha una riserva di 40mila a breve e medio raggio, oltre a centinaia a lungo raggio, Nel 2006 aveva 14mila combattenti: oggi più del doppio. Israele lo sa.

ritoriale libanese» e ha chiesto alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale di «premere sul governo dello Stato ebraico per fermare l’aggressione». Il presidente ha denunciato la «violazione della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza dell’Onu», che mise fine alla guerra del 2006 nel sud del Libano fra l’esercito israeliano e le milizie Hezbollah, istituendo proprio in quella zona la missione di 12mila soldati dell’Unifil.

Per il ministero degli Esteri israeliano, invece, «il governo libanese è responsabile per i seri incidenti» e ha minacciato “conseguenze” se gli scontri dovessero riprendere. In ogni caso, il fronte libano-israeliano non è sicuramente l’unico “caldo”di questa estate. E se Barack Obama ha di fatto chiuso la missione americana in Iraq, l’Afghanistan rimane un grattacapo per il mondo occidentale. Grattacapo che si è accentuato ieri, quando dalle pagine del francese Le Monde il presidente pakistano Asif Ali Zardari ha dichiarato: «La comunità internazionale, a cui appartiene anche il Pakistan, sta perdendo la guerra contro i talebani in Afghanistan». Questo risultato, spiega il vedovo di Benazir Bhutto in visita di Stato in Europa, «è dovuto anzitutto al fatto che abbiamo perso la battaglia per la conquista dei cuori e degli spiriti».Tuttavia, per il presidente pakistano «la comunità internazionale non accetterà mai di vedere i talebani guidare nuovamente il Paese. In questo contesto, non hanno nessuna chance di riprendere il potere, anche se la loro azione compie dei progressi». Zardari ha voluto anche sottolineare che «la scelta del presidente afghano Hamid Karzai di impe-


mondo

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Dopo l’ingresso al governo nel 2009 Hezbollah si è irrigidito sempre più

Hassan Nasrallah, il vassallo di Teheran di Antonio Picasso n movimento di resistenza nazionale contro Israele, nemico di tutto il Libano». Così due anni fa il presidente libanese, Michel Suleyman, definiva Hezbollah. L’ex generale maronita era stato appena eletto alla guida del Paese, grazie al sostegno del partito sciita, e volle quindi sdebitarsi nei confronti quest’ultimo. Oggi più che mai le parole di Suleyman appaiono attuali. Soprattutto dopo gli scontri di ieri e l’intervento televisivo del segretario di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Con i suoi 13 membri all’Assemblea nazionale di Beirut (un po’ del 10% sui 128 seggi totali) e due ministeri nel governo presieduto da Saad Hariri, il “Partito di Dio”è un soggetto politico più che consolidato nella nebulosa etnico-religiosa del Paese dei cedri. Dopo le elezioni del 2009 e con la nascita di un governo di unità nazionale, si era pensato che Hezbollah fosse sulla strada per assumere un atteggiamento più moderato, in merito a una futura normalizzazione dei rapporti tra Israele e Libano.

«U

gnarsi in un processo di riconciliazione con gli insorti disposti ad accettare il dialogo è legittima. Io la rispetto». Interrogato sull’ipotetico interesse del Pakistan a stringere relazioni con i talebani afghani, perché un giorno potrebbero ritrovarsi nuovamente alla guida del Paese, Zardari ha risposto che si tratta «di un’accusa assurda». Una presa di posizione netta, figlia però delle accuse contenute nei documenti segreti sulla guerra in Afghanistan messi su internet la scorsa settimana dal sito Wikileaks. Secondo i testi, i servizi segreti di Islamabad hanno sempre fatto il doppio gioco rispetto agli studiosi del Corano, aiutandoli e foraggiandoli alle spalle di Washington. Il governo pakistano ha respinto le accuse, ricordando le proprie vittime nella guerra al terrorismo, ma queste hanno bruciato. Tanto più che ora, con le peggiori alluvioni mai viste nella storia del Paese, il Pakistan sembra destinato (volente o nolente) a testimoniare un’enorme ripresa delle attività talebane sul proprio territorio. E i fronti caldi di questa guerra continuano a scottare.

Sopra: militanti di Hezbollah; foto di apertura, uno scatto del conflitto fra Israele e Libano nel 2006. A sinistra, il presidente Ahmadinejad e, a destra, il leader di Hezbollah, Nasrallah. Ieri, il generale Eisenkot, comandante della regione Nord di Israele, ha detto di ritenere lo scontro «un incidente isolato». Ma Beirut è pronta a tutto

Entrando a far parte della compagine governativa, si era creduto che il movimento sciita realizzasse quello switch qualitativo che è necessario a qualsiasi espressione politica che desideri passare dalla opposizione e dalla lotta di piazza armata alla gestione di uno Stato. In questo sarebbe dovuto consistere lo scarto dall’intransigenza operativa alla moderazione che è richiesta per chi accede alle stanze del potere di un Paese. I fatti di ieri e l’atteggiamento di Nasrallah hanno smentito queste ipotesi e fiaccato le speranze per un’evoluzione, in senso positivo, del processo di pace. In realtà già dall’inizio dell’anno tutte le dichiarazioni rilasciate da Nasrallah avrebbero dovuto far pensare che Hezbollah non si sarebbe comportato in questo modo. Al contrario, mentre i parlamentari e i ministri sciiti si sono impegnati per introdursi nei gangli dell’amministrazione pubblica libanese, il loro segretario ha sempre tenuto viva la fiamma della resistenza armata contro Israele. Gli eventi peraltro hanno favorito questa linea politica da Giano bifronte. Nel mentre che a Beirut il governo Hariri ha preso possesso delle sue poltrone e ha cercato di avviare un piano di ricostruzione economica - grazie al sostanzioso contributo dell’Arabia Saudita in Israele si è consumata la crisi fra Netanyahu e Obama, relativa alla ripresa del dialogo con l’Autorità palestinese. L’inflessibilità del primo ha dato adito a Nasrallah di accusare il nemico di non volere la pace. Anzi, di condurre una strategia di guerra che nemmeno gli Stati Uniti potrebbero appoggiare. A questo si è aggiunta l’accusa spiccata dall’Onu per cui alcuni elementi del “Partito di Dio” sarebbero stati coinvolti nell’attentato contro Rafiq Hariri, nel 2005, il defunto premier libanese, padre di quello attuale. Sulla base di tutto questo il segretario di Hezbollah si è sentito in diritto di lanciare i propri strali di guerra contro Israele, conservando

così quella rigidità estremistica che è la caratteristica di un movimento di lotta armata. Nasrallah è riuscito a far leva sull’opinione pubblica nazionale. Ha saputo dilatare il proprio sostegno a spese dell’altro partito sciita attivo in Libano da molto più tempo. Hezbollah è stato fondato nel 1982, grazie al contributo dell’Iran, Amal - il partito guidato dall’attuale presidente del Parlamento, Nabih Berry - è nato sette anni prima. Berry si era guadagnato il voto della middle class sciita del Paese, Hezbollah invece ha sapientemente puntato sui ceti più indigenti della stessa confessione islamica.

Elettori più poveri sì, ma anche più numerosi e soprattutto disposti a imbracciare il kalashnikov per fare del Libano un vero e proprio stato islamico. Una volta realizzato questo obiettivo, Nasrallah ha puntato sulle co-

La resistenza del “Partito di Dio” ha assunto le tinte di una lotta nazionale contro lo straniero. Suleyman lo aveva previsto (e anche detto) nel 2008 munità cristiano-maronite sparpagliate nei piccoli villaggi del sud del Paese. Ha saputo trasmettere loro due messaggi. Il primo che Hezbollah, per quanto sia un partito religioso, è l’unica forza politica che può garantire in modo trasversale a tutta la popolazione un futuro benessere, non più settario bensì collettivo. Seconda cosa ha convinto molti cristiani che Israele non è un nemico solo per gli sciiti, ma per tutti i libanesi. La resistenza del “Partito di Dio”ha assunto le tinte di una lotta nazionale contro lo straniero. Suleyman lo aveva specificato nel 2008. Il fatto che ieri gli scontri siano avvenuti fra l’esercito israeliano e quello libanese - e non le milizie sciite - ne è la dimostrazione odierna.


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Usa. Il presidente compie oggi 49 anni, ma non è tempo di festeggiamenti uando oggi Barack Obama soffierà le quarantanove candeline sulla sua seconda torta di compleanno presidenziale, i fotografi avranno il loro bel da fare per non inquadrare le fosche nubi che si addensano sullo sfondo. Mancano solo tre mesi dalle elezioni di medio termine, e pare che i repubblicani si accingano a riprendere il controllo di tutto il Congresso, non solo alla Camera ma anche al Senato. Le mid-term elections servono ad eleggere tutti i deputati ed un terzo dei senatori. Di fatto, però, ad essere in gioco è soprattutto la Casa Bianca, sia perché il parlamento che ne esce stabilisce i limiti del suo potere nel biennio a seguire, sia perché l’esito delle urne è vissuto come un referendum per stabilire se a due anni dall’elezione del presidente la gente ritiene di star meglio o peggio. Va da sè, quindi, che quando l’economia va male la batosta è garantita per il partito al governo. Larry J. Sabato, venerato politologo dell’Università della Virginia, sostiene che se si votasse oggi i democratici ne uscirebbero dissanguati da una emorragia di una trentina di seggi alla Camera e di sei-sette al Senato: come quella subita da George W. Bush al culmine della sua impopolarità, nel novembre del 2006. Obama si vedrebbe così trasformato, a tempo di record, da presidente più osannato degli ultimi decenni ad “anatra zoppa”.

Q

Certo, anche Bill Clinton nel 1994, pur essendo stato eletto appena due anni prima con una maggioranza trionfale (aveva inflitto a Bush padre la quarta più grave sconfitta elettorale mai riportata da un presidente uscente, anche se in parte grazie alla candidatura terzista del miliardario texano Ross Perot), subì alle sue prime midterm una disfatta che ne segnò irreversibilmente la presidenza: i repubblicani conquistarono ben 54 seggi alla Camera ed otto al Senato. Clinton, però, se la vide con un’opposizione in forma smagliante, capitanata da un leader tostissimo (Newt Gingrich) e dotata di un programma preciso e coerente (il “Contract with America”), tant’è che quella campagna viene ricordata nientemeno che come Republican Revolution. Obama invece beneficia di una opposizione divisa e sfaldata, e del tutto sprovvista di leadership: per la pronosticata debacle non avrebbe quindi attenuanti.

Brutto compleanno, Mister President A tre mesi dalle elezioni di mid-term Barack precipita nei sondaggi e teme un crollo Alessandro Tapparini

Secondo Sabato, i democratici hanno un unico precedente a cui potersi rifare. Nel 1982, Ronald Reagan testava la sua popolarità due anni dopo aver fatto riconquistare ai repubblicani non solo la Casa Bianca, ma anche molti seggi in parlamento e addirittura la maggioranza al Senato, dove erano stati all’opposizione da un quarto di secolo. La perdurante recessione economica (con disoccupazione attorno al 10%, proprio come oggi) lasciava presagire una catastrofe per il partito del presidente. I repubblicani puntarono su una campagna di spot televisivi giocati sullo slogan «e dài, diamogli una possibilità» (Let’s give the Guy a chance), quasi si rivolgesse a dei ragazzini impazienti, rassicurandoli facendo leva sulla chiave di volta della retorica reaganiana: l’ottimismo. Il disastro fu scongiurato. A novembre i neoletti democratici furono ben cinquantasette, mentre quelli repubblicani furono solo ventiquattro; ma i re-

La Casa Bianca punta sui leader africani

Africa: yes, you can Il futuro dell’Africa appartiene agli africani, bisogna dire basta a tirannie e corruzione e adottare le regole del buon governo: così il Ventunesimo secolo vedrà protagoniste non solo le capitali occidentali, ma anche il continente nero. Barack Obama lo aveva detto a gran voce nel suo acclamato discorso al Parlamento di Accra, capitale del Ghana, nella sua prima visita ufficiale in un Paese dell’Africa subsahariana lo scorso anno. «Conosco bene il tragico passato che a volte ha ossessionato questa parte del mondo. Nelle mie vene scorre il sangue dell’Africa e la storia della mia famiglia comprende sia le tragedie sia i più grandi successi della storia africana» aveva ricordato il presidente americano. E

in più di un’occasione internazionale - G8 e G20 compresi ha poi detto chiaro e tondo che in tutto il continente africano occorre mettere fine alle pratiche antidemocratiche e alla corruzione, adottando le regole del buon governo, da cui dipende lo sviluppo, un ingrediente che è mancato per troppo tempo». Per dare dunque all’Africa istituzioni forti e capaci di garantire stabilità, prosperità e successo, Obama ha aperto ieri una due giorni con i giovani leader africani (scelti dalle avrei ambasciate Usa del continente). L’evento si tiene allo Smithsonian National Museum of African Art di washington, dove - sempre ieri, ma in altro orario - è andata anche Hillary Clinton.

pubblicani persero solo 26 seggi alla Camera, meno della metà di quelli pronosticati; e miracolosamente non persero nemmeno un seggio al Senato, anzi addirittura ne conquistarono uno in più. È questo «il solo caso in epoca moderna» - enfatizza Sabato - in cui in tempi di crisi economica il partito al governo ha ottenuto una “mezza vittoria” alle midterm. L’attuale strategia di Obama non sembra però orientata su quel modello. Pare semmai basata sulla considerazione che i sondaggi attribuiscono un alto tasso di impopolarità anche all’opposizione repubblicana.

A maggio, Howard Fineman di Newsweek (testata più che benevola nei confronti del presidente) notava che mentre la campagna con la quale Obama ha conquistato la presidenza era positivamente incentrata sul futuro (speranza, cambiamento, ottimismo, superamento delle divisioni), quella per le elezioni di medio termine è negativamente incentrata sul passato recente, sullo spauracchio di un ritorno a ciò di cui due anni fa la maggioranza degli elettori decise di sbarazzarsi. Per rendere l’idea, citava un comizio newyorkese in cui il presidente aveva paragonato il proprio compito al “rimettere in strada l’automobile finita in un fosso” solo per ricordare che erano i repubblicani a tenere il volante quando l’auto era finita fuori strada. Concorda Michael Scherer, corrispondente dalla Casa Bianca per Time, secondo il quale il messaggio di Obama è: non chiedetevi se state meglio di due anni fa, ma quanto peggio potreste stare se non aveste scelto me. Cita un suo comizio in Winscosin lo scorso giugno : «Lo so, a volte la gente non ricorda quanto male andavano le cose e quanto male sarebbero potute andare». Il risultato che il presidente rivendica non è quello di aver prodotto un miglioramento, bensì di aver impedito un peggioramento: “invece di dare una cosa, avrebbe garantito una non-cosa”. Scontato il rincaro del conservatore Wall Street Journal: «Lo sappiamo che state peggio di due anni fa, ma non è colpa nostra» non è un argomento granché seducente, anche a voler concedere che possa essere fondato. In questo modo, la campagna del 2008 Hope (speranza) cede il passo nel 2010 ad una della serie Fear: paura».


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Il presidente invoca presidenziali “tranquille” per il bene comune

Le violenze sono iniziate dopo l’omicidio di un politico locale

Medvedev: «Non lotterò contro Putin nel 2012»

Karachi, circa 34 vittime per scontri fra fazioni

MOSCA. «Non voglio una lotta

ISLAMABAD. È di 34 morti e oltre 100 feriti il bilancio, ancora provvisorio, delle violenze scoppiate durante la notte di ieri a Karachi, in Pakistan, in seguito all’uccisione di Raza Haider, esponente politico del Muttahida Qaumi Movement (Mqm), partito che fa parte della coalizione di governo. Haider è stato assassinato due giorni fa insieme alla sua guardia del corpo all’esterno di una moschea, mentre si preparava ad assistere a un funerale. A quanto riferito da testimoni, l’omicidio è stato compiuto da quattro uomini arrivati e fuggiti con delle motociclette. Al diffondersi della notizia dell’assassinio, decine di automobili con a bordo uomini armati hanno bloccato le vie principa-

per il potere, sarebbe un male per la Russia». Il presidente Dmitry Medvedev ha escluso così una competizione con il primo ministro Vladimir Putin alle presidenziali russe del 2012, anche se ha aggiunto di non sapere ancora chi sarà il candidato. «Potrebbe essere Medvedev, oppure Putin o qualcun altro», ha detto il presidente russo citato dalla Ria Novosti, sottolineando che il vincitore «dovrà dedicarsi a uno sviluppo stabile. Al Paese va garantita una opportunità di crescita stabile in uno scenario prevedibile», ha affermato Medvedev. Putin non ha ancora deciso se correrà per le prossime presidenziali, ma ha già chiarito che con Medvedev troveranno un accordo. In un sondaggio condotto da Levada tra 1.600 partecipanti la scorsa settimana il 27 per cento aveva detto di preferire Putin mentre il 20 per cento aveva scelto Medvedev. In ogni caso, il futuro del colosso russo non preoccupa soltanto i cittadini: il mondo intero, e Washington in maniera particolare, guarda con molta attenzione alla prossima convocazione elettorale in Russia. Da una parte c’è da testare la credibilità del presunto processo democratico lanciato da Vladimir Putin nel 2008, quando rinunciò allo scranno più alto seppur a favore di un suo delfino. Dall’altra parte c’è l’enorme problema del rifornimento energetico dell’Europa, che dipende in maniera quasi esclusiva dal Cremlino. Fino ad oggi, Mosca ha mostrato il pugno duro con i suoi vecchi satelliti - come l’Ucraina - che si sono permessi di sfidare l’egemonia russa su quel mercato. Gli interventi di Medvedev, mai eccessivamente “liberal” ma sicuramente meno duri di quelli del suo predecessore, hanno dato una speranza al Vecchio Continente. Ora però, con l’avvicinarsi delle urne, viene rimesso tutto in discussione.

Per Belgio e Olanda ancora niente governo I due Paesi incapaci di trovare un accordo per l’esecutivo di Osvaldo Baldacci a politica europea sembra in crisi di sistema, e da anni si trascina stancamente tra mille difficoltà con scarsa capacità di proporre soluzioni. Ma adesso per Belgio e Olanda sembra un’ora buia. Reduci entrambi da recenti elezioni, non riescono a trovare la via di uscita per formare un governo e una maggioranza. Per il Belgio non è una novità.Per l’Olanda invece siamo in giorni decisivi. Primo Paese Nato, l’Olanda ha appena ritirato il suo contingente dall’Afghanistan: non è una notizia fuori luogo, dato che il governo Balkenende è caduto proprio per questo motivo. E le elezioni del 9 giugno non hanno saputo dare una chiara linea al Paese, investito in pieno anche dalla crisi economica e finanziaria internazionale. Liberali (31 seggi) e laburisti (30) hanno vinto le elezioni a danno dei democristiani (21), mentre è cresciuto il partito anti-immigrazione PVV (24). Ma non c’è modo di comporre una maggioranza, per la quale serve una coalizione di 76 seggi. Il 20 luglio il principale vincitore, il leader liberale del VVD Mark Rutte ha ufficialmente gettato la spugna sul tentativo di formare una coalizione di governo di centro-sinistra tra liberali, laburisti, social-liberali e verdi. «Abbiamo fallito a causa della questione finanze», ha spiegato Rutte, che auspica forti tagli alla spesa pubblica. La Regina ha incaricato l’ex premier Ruud Lubbers di un mandato esplorativo, ed è tornata in auge la possibilità di coinvolgere nella maggioranza il partito xenofobo antiislamico di Geert Wilders, finora tenuto lontano da tutti. «Ma c’è da tener conto della nuova situazione politica», si lasciano scappare deputati dei principali partiti. L’ipotesi quindi che sta prendendo quota è quello di un governo di minoranza (il primo dalla

L

seconda guerra mondiale) liberali-democristiani, guidato da Rutte, con l’appoggio esterno del PVV. Un governo dai numeri molto esili e con la spada di Damocle di una componente destabilizzante come il gruppo di Wilders, con in mano la golden share senza neanche essere tenuto a condividere le responsabilità di governo. E con la necessità di far passare riforme economiche pesanti (tra cui tagli alla spesa pubblica per 20 miliardi di euro) contando su un solo voto di margine, PVV compreso.

Ma il Belgio sta anche peggio: vede minacciata la sua stessa esistenza. Lì si è votato il 13 giugno, ma la situazione è ben più preoccupante. Solo Van Rompuy, ora presidente della UE, era riuscito a formare un governo di coalizione abbastanza stabile. Prima di lui il Paese era stato in crisi politica per quasi due anni, e andato via lui la crisi è ricominciata. E il voto non ha chiarificato la situazione, anzi. Il socialista vallone di origine italiana Elio di Rupo, che ha vinto le elezioni, non è riuscito a trovare nessun accordo tra partiti fiamminghi e valloni, ma ha ricevuto comunque l’incarico dal re di continuare i negoziati nelle prossime settimane con gli altri sei principali partiti vincitori delle elezioni. «Ho tentato di conciliare l’inconciliabile ma siamo di fronte a una delle situazioni più complicate mai incontrate dal nostro Paese», ha dichiarato Di Rupo, facendo specialmente riferimento alla totale mancanza di accordo e persino di dialogo tra fiamminghi e valloni rispetto alla riforma dello Stato. E poi c’è l’emergenza economica, con un buco nei conti pubblici che ha fatto sballare il bilancio in questo momento di crisi. Tanto che si pensa a una soluzione estrema: un governo con doppia maggioranza, una più ristretta per occuparsi delle impellenti questioni economiche e sociali (con democristiani, socialisti e indipendentisti), e un’altra più ampia necessaria per realizzare le riforme istituzionali (con dentro anche tutti i verdi). L’alternativa è la dissoluzione.

L’Olanda ha appena ritirato il proprio contingente dall’Afghanistan, mentre il Belgio ha ceduto Van Rompuy all’Ue

li della città e si sono uditi i primi colpi di armi da fuoco,

Le violenze hanno carattere etnico, prevalente dietro alle rivalità politiche. Esponenti del partito di Haider, come Babar Ghauri, hanno infatti accusato i sostenitori dell’ Awami National Party (ANP) di essere dietro l’attentato. I due partiti sono rivali, pur facendo entrambi parte della stessa coalizione, ma l’ANP è particolarmente rappresentativo della comunità pashtun. Haider, invece, faceva parte della comunità shia, che a Karachi ha avuto in passato decine di persone uccise, da quando una processione fu attaccata con le bombe il 20 dicembre 2009. Secondo la polizia tutti, o quasi, gli uccisi nelle violenze appartengono alla comunità pashtun. In realtà, ad avviso di funzionari della sicurezza, malgrado le accuse dell’MQM, lo svolgimento dell’attentato fa pensare che l’assassinio è stato compiuto dal gruppo Lashkar-e-Jhangvi, che ha legami con al-Qaeda. Il primo ministro pakistano Yusuf Raza Gilani ha lanciato un appello alla calma, promettendo una inchiesta sull’omicidio. Nel frattempo, però, la polizia sembra inerme


il caso

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Libri. Tre volumi di inediti gettano nuova luce su un autore che sta conoscendo, oggi, una diffusione inaspettata e un’attenzione della critica

Nemo poeta in patria

Riaffiorano dal passato versi e lettere di Paul Celan, scrittore atipico e travagliato che ha il merito di aver fatto rinascere la poesia dalle ceneri della Shoah di Pasquale Di Palmo opera poetica di Paul Celan sembra idealmente contrapporsi al celebre assunto di Theodor W. Adorno secondo il quale la poesia non era più possibile dopo Auschwitz. Invece il poeta rumeno trae proprio dall’esperienza traumatica della deportazione in cui perirono i genitori l’impulso fondamentale per approdare a una testimonianza anomala, che si differenzia enormemente rispetto ai modelli consacrati di un Primo Levi o di un Jean Améry. La stessa poesia nata dalle ceneri della Shoah si configura in maniera radicalmente diversa rispetto all’afflato oscuro, non di rado sibillino, insito nei versi di Celan. Il senso di sradicamento presente in tutta l’opera celaniana deriva, oltre che dalle note vicissitudini biografiche, dalla scelta di esprimersi in tedesco, lingua-madre che è, al contempo, lingua dei suoi aguzzini. Nella koinè linguistica della Bucovina, dove il poeta nasce a Czernowitz nel 1920, si parlano correntemente rumeno, ucraino, svevo e yiddish, anche se la comunità ebraica adotta come Muttersprache la lingua tedesca. In tale babelico coacervo di espressioni linguistiche il poeta non poteva non rimanere segnato da un’attenzione spasmodica per la parola che, ungarettianamente, «scavata è nella mia vita / come un abisso» (Celan tradusse alcune delle più intense liriche dell’autore dell’Allegria, oltre che di poeti capitali del Novecento come Mandel’stam, Esenin, Blok,Valéry). È sintomatico d’altronde che nel 1954 scrivesse: «Ogni parola, anche la più apparentemente piccola, cerca nuovi nessi, vuole giungere alla lingua».

L’

L’occasione per riparlare del poeta di Todesfuge ci è offerta dall’uscita pressoché contemporanea di tre libri che presentano al lettore italiano una mes-

se di inediti che gettano nuova luce sulla figura di un autore che, nonostante sia considerato estremamente difficile, sta conoscendo, oltre che una considerevole fortuna in sede critica, anche una diffusione inaspettata. Si potrebbe prendere a campione ciò che scrisse Giovanni Macchia a proposito di Baudelaire: «Gli autori si allontanano lentamente da noi, come le navi che osserviamo immoti dalla riva. Per Baudelaire, a chi ne segue il cammino dalla fine del secolo, la visione è rovesciata. Come in quei prodigi d’ottica che ingannano i sensi, egli si avvicina a noi mano a mano che il tempo sembra distaccarlo, e la sua figura farsi più evanescente. Il mondo cambia, è molto mutato certo dagli anni in cui Baudelaire visse e scrisse, ma ci accorgiamo che la nostra epoca feroce è divenuta sempre più “baudelairiana”. È divenuta baudelairiana senza che noi siamo tornati indietro di un passo». Ebbene, le parole di Macchia potrebbero benissimo adattarsi alla parabola espressiva di Celan che, con il passare del tempo, sembra avvicinarsi, frugare nelle vicende efferate e triviali dei nostri giorni con un’autenticità che ha pochi referenti tra gli stessi contemporanei. «Oscurato / il potere delle chiavi. / La zanna governa / dai resti del cretaceo, / contro l’attimo / mondiale»: da questi significativi versi prende il titolo la raccolta inedita Oscurato, presentata da Einaudi nella collana bianca di «Poesia», a cura di Dario Borso e con un saggio di Giorgio Orelli (pp. XVI + 108, euro 11,50). Il titolo stesso della silloge presuppone un trobar clus costituito da compartimenti stagni, da autonome particelle dalle quali si dipartono improvvisi barlumi di senso. Questo «canzoniere ribaltato e deformato», come

viene felicemente definito in quarta di copertina, si avvale di 35 componimenti, spesso molto brevi, inviati alla moglie Gisèle Celan-Lestrange dall’istituto psichiatrico di Sainte-Anne di Parigi dove Celan si trovava dal febbraio del 1966. Il poeta era stato prelevato in camicia di forza il 28 novembre 1965 e internato nell’ospedale psichiatrico di Garches, dopo il tentativo di accoltellare la moglie avvenuto qualche giorno prima.

È significativo che nell’istituto psichiatrico di Sainte-Anne fosse stato ricoverato, qualche decennio prima, anche Antonin Artaud (di cui Celan tradusse la poesia intitolata Preghiera, inviata a Ingeborg Bachmann in data 7 novembre 1957) e che lì avesse operato, in qualità di psichiatra, una figura di primo piano della speculazione novecentesca come Jacques Lacan. Sembra che la poetica medesima di Celan, sempre in bilico tra espressione ed afasia, trovi in quell’ambiente il viatico crudele per argomentare intorno al «buio, / che distingui // da tutti questi / impenitenti, impertinenti / giochi», oppure intorno al bianco, colore che, per metonimia, richiama le distese innevate del campo di sterminio tedesco di Michajlovka, in Ucraina, dove scomparvero i genitori. D’altronde non è un caso che le strofe di Celan si spingessero, nelle raccolte pubblicate in vita, fino a cercare di riprodurre la balbuzie, in versi di lancinante e provocatoria suggestione. In Oscurato le tensioni del linguaggio si evidenziano in maniera netta, precisa, configurandosi come il leit-motiv della raccolta. Lo stesso autore è profondamente consapevole di tale processo conoscitivo, in cui la parola deve farsi carico dell’inesprimibile, tanto da


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scrivere che «la corda / ora deve cantare – canta». Spesso ricorre una chiusa di tipo aforistico che rende ancora più palese il senso di straniamento che domina il lettore: «Impara ad ascoltare, a guardare, / a parlare»; «Una morte più di te / sono morto, / sì, una di più»; «L’annuncio lieto in fiore, / via via più acuto, / trova l’orecchio sanguinante».

Questi versi introducono idealmente alla raccolta di brani compositi Microliti, sempre curata da Dario Borso per i tipi di Zandonai (pp. X + 174, euro 18,00). Si tratta di appunti più o meno articolati, così definiti dallo stesso autore: «Microliti sono, pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso della tua esistenza - e ora tenti, povero di parole e forse già irrevocabilmente condannato al silenzio, di raccoglierli a cristalli? Rifornimenti sembri attendere - donde dovrebbero venire, di’?». Questi frammenti in prosa, che abbracciano gli anni che vanno dal 1947 al 1970, rimasero allo stato incompiuto di abbozzo e solo da pochi anni sono stati recuperati e ordinati per la pubblicazione. In passaggi che hanno la consistenza lapidaria dell’aforisma o dell’apologo, Celan disquisisce intorno agli argomenti più disparati, soffermandosi sui suoi temi prediletti: la poetica, l’ebraismo, il linguaggio, la società letteraria. Ci sono improvvise frecciate contro gli accademici e gli arrivisti delle lettere («Per la strada: i ladruncoli. Nella letteratura: i ladroni»), osservazioni relative alla propria vicenda biografica e artistica («[...] sono ebreo e sono un autore di lingua tedesca»), nonché amare, spesso caustiche, riflessioni sulla tragedia dell’olocausto («Colpevole non è Eichmann, ma l’eichmannismo e in più la posterità curiosa, curiosa di provare»). Ma Microliti è soprattutto una straordinaria fucina di idee sulla poieis, un laboratorio alchemico di poetica cui attingere per le raccolte che Celan viene via via componendo. «Poesia, questione d’abisso», scrive significativamente il 21 dicembre 1966. E ancora, nel 1967: «Nessuna poesia dopo Auschwitz (Adorno): cosa viene posto qui come idea di “poesia”? La spocchia di chi si pone a considerare o rappresentare ipotetico-speculativamente Auschwitz da una prospettiva a volo d’usignolo o di tordo». Riguardo alla presupposta oscurità delle sue liriche, nel

Il profondo senso di sradicamento, presente in tutta l’opera celaniana, deriva dalla scelta di esprimersi in tedesco, sua lingua-madre

Una vecchia fotografia di Paul Celan. In alto, insieme con Ingeborg Bachmann. Nella pagina a fianco: un’illustrazione che ritrae il poeta e scrittore 1959 scrive: «Anche la poesia più “essoterica”, più palese è oscura; e mi si permetta questo forse non del tutto superfluo rinvio: se altri poeti mai, Hölderlin fu un vir clarus». Celan adoperò il rumeno, il tedesco e il francese per misurarsi con queste annotazioni enigmatiche e sublimi, lucide e luttuose. Non per niente trascrive, commosso, un pensiero di Kafka: «Scrivere come forma di preghiera». Salvo aggiun-

gere: «Anche ciò significa innanzitutto non pregare, bensì scrivere: non si può farlo a mani giunte». L’ultimo tassello di questa ricognizione sull’opera di Celan riguarda il volume intitolato Troviamo le parole. Lettere 19481973, edito nella collana “Ritratti” delle Edizioni Nottetempo, a cura di Bernard Badiou, Hans Höller, Andrea Stoll e Barbara Wiedemann e tradotto da Francesco Maione (pp. 336, euro 25,00). Si tratta del denso carteggio tra il poeta rumeno e Ingeborg Bachmann, la scrittrice austriaca con cui Celan ebbe una relazione sentimentale dagli esiti ancora poco noti. E, all’insegna di tale disperato perdersi e ritrovarsi di due tra le figure più rappresentative del Novecento letterario europeo, vivono queste lettere, sospese in un’atmosfera di perenne apprensione, di fraintendimenti, di frustrazioni, ma anche di accensioni liriche non comuni. Celan e la Bachmann si erano conosciuti il 16 maggio 1948 a Vienna, dove il poeta era approdato qualche mese prima fuggendo dalla Romania. Si presume che qualche giorno dopo iniziasse la loro relazione che, fin da subito, si rivela difficile, sempre vissuta sul crinale di un’esasperazione concepita alla stregua di una condizione esistenziale necessaria e totalizzante. Nel 1951 la situazione si complica ulteriormente con il matrimonio del poeta con Gisèle Lestrange a Parigi, città nella quale era emigrato alla fine di giugno del 1948. La lontananza tra i due non fa che esacerbare gli animi, i silenzi si alternano alle invocazioni, alle promesse non mantenute, agli incontri continuamente rimandati. Leggendo questo epistolario si ha l’occasione di passare in rassegna i momenti salienti della biografia di Celan: dalla pubblicazione delle prime raccolte alla frequentazione del Gruppo 47, dalla nascita dei due figli (il primogenito sopravvivrà soltanto poche ore) all’accusa di plagio mossagli da Claire Goll nei confronti dell’opera del defunto marito Yvan Goll, dai tentativi di uxoricidio ai frequenti ricoveri coatti in cliniche psichiatriche, fino al suicidio avvenuto gettandosi nella Senna nell’aprile del 1970. Il legame tra i due poeti continuò, fra alti e bassi, fino al maggio del 1958. Le lettere e gli incontri divennero meno frequenti, anche se in una lunga missiva non spedita, presumibilmente del settembre 1961, la poetessa austriaca scrive: «Caro Paul, forse anche adesso non è il momento op-

Dagli studi di medicina al suicidio nella Senna Paul Celan nacque a Czernowitz il 23 novembre 1920. Nel 1938 studiò medicina in Francia, successivamente letteratura a Czernowitz. I suoi genitori finirono nel 1942 in un campo di concentramento: il padre morì di tifo, la madre fu uccisa con un colpo alla nuca. Lo stesso Celan fu internato in un campo di concentramento dal 1941 al 1943. Poté però evitare la morte, ed essere utile presso le truppe sovietiche come infermiere. Dal 1945 lavorò come lettore e traduttore a Bucarest. In questo periodo conobbe Rose Ausländer e pubblicò la sua prima poesia sulla rivista Agora. Nel ’47 emigrò a Parigi dove prestò la sua opera come lettore di tedesco all’École Normale Supérieure. I questo periodo tradusse in tedesco lavori di Arthur Rimbaud, Aleksandr Blok, Ossip Mandelstam, Sergej Jessenin e William Shakespeare. Dal ’48 furono pubblicati i suoi testi poetici: Der Sand aus den Urnen (1948), Mohn und Gedächtnis (1952), Die Niemandsrose (1963), Atemwende (1967), Fadensonnen (1968), Lichtzwang (1970), Scheepart (1971), Zeitgehöft (1976) e il testo in prosa Der Meridian (1961). Celan venne considerato uno scrittore eccellente e fu insignito con i seguenti premi letterari: Freie Hansestadt Bremen nel 1958, Georg Büchner Preis nel 1960 e Großer Kunstpreis del Nordrhein-Westfalen. Attorno al 20 aprile del 1970 Celan si suicidò.

portuno per parlare di cose difficili da dire, ma il momento opportuno non esiste, altrimenti avrei già trovato il coraggio di farlo. Sono convinta che la più grande infelicità sta in te stesso. La miseria morale che viene da fuori - e tu non devi convincermi che ciò è vero, perché in gran parte la conosco anch’io - è certamente un veleno mortale, ma può essere combattuta, deve essere combattuta. Adesso sta soltanto a te affrontarla nella maniera giusta, certo tu vedi che ogni dichiarazione, ogni intervento, per quanto possano essere stati giusti, non hanno alleviato la tua infelicità, quando ti sento parlare, mi sembra che tutto sia rimasto come un anno fa, quasi non ti importasse nulla che in molti si sono adoperati per te, quasi ti interessasse soltanto l’altro, la sporcizia, la perfidia, la stoltezza».

Il libro si avvale di un’appendice contenente due sezioni dedicate rispettivamente ai carteggi tra Celan e Max Frisch, scrittore svizzero di lingua tedesca con il quale l’autrice austriaca ebbe in seguito un altrettanto intenso legame, e tra la Bachmann e Gisèle Celan-Lestrange, la moglie del poeta rumeno. In una di queste ultime lettere, datata 10 maggio 1970, si legge: «Mia cara Ingeborg, non so se la mia lettera La raggiungerà. Penso che abbia saputo la terribile notizia. [...] Nella notte fra domenica e lunedì 19-20 aprile, ha lasciato il suo domicilio per non tornarvi mai più. Ho passato quindici giorni a cercarlo dappertutto, non avevo alcuna speranza di ritrovarlo vivo. Solo il primo maggio la polizia l’ha ritrovato, dunque quasi quindici giorni dopo il suo terribile gesto. Io l’ho saputo soltanto il 4 maggio - Paul si è gettato nella Senna. Ha scelto la morte più anonima e solitaria. Che posso dire ancora, Ingeborg. Non ho saputo aiutarlo come avrei voluto».


ULTIMAPAGINA Ritratti. È morta ieri a Palermo, a 74 anni, la fondatrice della casa editrice Sellerio. Ha pubblicato Sciascia, Bufalino e Camilleri

Editoria in lutto, scompare di Aldo Bacci a permesso di raccontare una parte consistente della storia della Sicilia, una parte affascinante e pulita. E di conseguenza ha permesso di raccontare una parte della storia d’Italia. Si è spenta ieri nella sua Palermo Elvira Giorgianni Sellerio, che nel 1969-70 fondò insieme al marito Enzo la casa editrice Sellerio, capace di cogliere in 40 anni molti successi e di lanciare molti autori di primissimo livello. Fu lei a editare tra gli altri Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. Elvira Sellerio è quindi un po’ la nonna di uno dei personaggi più amati dell’Italia recente: il commissario Montalbano, costantemente in testa alle classifiche dei bestseller ma anche vincitore di tutte le prime serate in cui è impegnato l’attore Luca Zingaretti. In quarant’anni di storia, la Sellerio ha dato voce ad autori siciliani del calibro di Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino (lanciato nel 1981 con “Diceria dell’untore”e vincitore del Premio Campiello), e Andrea Camilleri; nazionali come Carlo Lucarelli, Gaetano Savatteri, Antonio Tabucchi, Maria Messina, Luisa Adorno; e internazionali come Roberto Bolano e Margaret Anne Doody. Nata a Palermo il 18 maggio 1936, figlia di un prefetto, prima di sei fratelli, laureata in Giurisprudenza, il cavaliere del lavoro Elvira Sellerio nel 1991 era stata insignita anche di una laurea ad honorem in Lettere-Magistero all’Università di Palermo. Separata dal marito Enzo, fotografo che ancora oggi cura la sezione della casa editrice dedicata ai libri d’arte, Elvira Sellerio lascia due figli, Antonio e Olivia, eredi di un’azienda che conta un catalogo di oltre tremila titoli. Nel 1991 la Sellerio si aggiudicò anche il premio “Marisa Belisario”.

H

Fu lei a fondare la casa editrice che prese il cognome della coppia: funzionaria pubblica fino alla fine degli anni ‘60, seguì il marito Enzo nell’impresa editoriale suggerita alla coppia da una chiacchierata con lo scrittore Leonardo Sciascia e dell’antropologo Antonino Buttitta, come raccontò anni dopo il figlio Antonio in un’intervista. Per avviare l’impresa, la Sellerio si licenziò dal suo lavoro e investì la sua liquidazione nell’acquisto dei macchinari. L’azienda, in meno di dieci anni, dopo un inizio caratterizzato da un’attenzione volta soprattutto alla letteratura e all’arte siciliana e a volumi per bibliofili a tirature ridotte, si impone come un’impresa culturale di calibro nazionale. A spingere “la signora” era stata anche la lunga ed assidua frequentazione di molti autori siciliani, tra cui prima di tutti quel Leonardo Sciascia fiore all’occhiello del suo catalogo. Fin da giovane era poi stata in contatto con i fermenti culturali di realtà come il Gruppo ’63, formatosi in un vecchio albergo appena fuori Palermo, con Alberto Arbasino, Umberto Eco e scrittori siciliani come Michele Perriera. Ha spesso definito una “scommessa”la sua pretesa di lanciare da Palermo una casa editrice che si propone come nazionale, nonostante gli svantaggi di una collocazione periferica e i problemi che ci si può aspettare dalla Sicilia. Scommessa vinta, e senza rinunciare ad alcune caratteristiche proprie: la sicilianità di una sua fascia portante, e l’approccio culturale con cui insistentemente pub-

donna ELVIRA Era nata a Palermo il 18 maggio 1936. Figlia di un prefetto, era laureata in giurisprudenza. Cavaliere del lavoro, nel 1991 è stata insignita di una laurea honoris causa in Lettere dalla facoltà di magistero di Palermo. Cominciò a lavorare nel ’70 blica testi apparentemente minori, che spaziano tra classico e moderno, ma di grande spessore culturale, libretti caratterizzati dalla copertina blu scuro come quelli della celebre collana La Memoria. La Sellerio ottenne visibilità nazionale con la pubblicazione nel 1978 de “L’affaire Moro” di Sciascia, che vende più di centomila copie, ed è un libro di denuncia. Nei primi anni ‘80 si diversifica l’attività della casa editrice: Enzo Sellerio guida il settore dei libri d’arte, Elvira Sellerio quello della narrativa e della saggistica. Due case editrici autonome, mentre autonome diventano anche le vite private dei due Sellerio. La seconda metà degli anni ‘80 è anche la stagione della crescita più impetuosa. Le collane diventano sette, e i titoli pubblicati si

moltiplicano. Dopo i successi di Sciascia e Bufalino, nel 1990 esce un librettino che racconta di un commissario di polizia che indaga su un torbido delitto, nel passaggio dalla Repubblica di Salò alla Repubblica Italiana. Il commissario De Luca è un funzionario del regime fascista onesto e molto scettico, primo a mettere piede, con umanità, in quel periodo torbido e quasi tabù. Il libro è Il Commissario De Luca e l’autore Carlo Lucarelli, che ieri ha detto: «Dal punto di vista letterario Elvira Sellerio è stata come mia madre». Il poliziesco di scuola siciliana continuò con Andrea Camilleri e i cinque milioni di copie vendute. Fino alle scoperte più recenti, come Gianrico Carofiglio e la spagnola Alicia Gime’nez-Bartlett. Nel ‘93 i presidenti di Camera e Senato, Napolitano e Spadolini, la nominarono nel Cda Rai, quello “dei Professori”. Tra l’eredità che lascia, la leggenda dice che nella sua cassaforte è conservato il manoscritto di quello che sarà l’ultimo romanzo di Montalbano.


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