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Questa è la regola negli affari: “Fatela agli altri, perché loro la farebbero a voi”. Charles Dickens

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 13 AGOSTO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Una scarcerazione “ad personam” mascherata da un provvedimento che rilascia 73 detenuti richiesti dai loro Paesi

Battisti, il vero ribaltone

Lula aveva promesso a Berlusconi di estradarlo. Ma ora la Corte suprema di Brasilia sta per rimettere in libertà il terrorista italiano condannato per quattro omicidi UN APPELLO AL MINISTRO

di Franco Insardà

Caro Frattini, intervieni. È un’offesa per tutta l’Italia di Luca Volontè

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Parla il senatore dell’Udc Gianpiero D’Alia

aro ministro Frattini, confidiamo che il governo italiano sia sorpreso e amareggiato come noi dalla notizia della possibile libertà per Cesare Battisti. Da due anni chiediamo, noi dell’Udc insieme a tutte le altre forze politiche di maggioranza e opposizione e all’intero arco delle associazioni delle vittime del terrorismo, che ci sia un impegno più deciso da parte della nostra diplomazia per evitare la scarcerazione del terrorista, affinché torni in Italia a scontare la pena. Ci ha colti all’improvviso, dopo le notizie del 2009 sulla possibile estradizione, la nuova notizia proveniente dal Brasile e rimbalzata alla chetichella su alcuni quotidiani italiani.

C

Il leader dell’Akp si gioca tutto

n Italia si parla di ribaltoni politici, ma quello vero lo sta organizzando Lula in Brasile. Lui non decide, il Supremo tribunale federale si prepara a varare una norma salva-Battisti e il governo italiano tace. La decisione riguarda la possibilità di concedere la libertà condizionale ai detenuti stranieri condannati in altri Paesi in attesa di estradizione. Potrebbero beneficiarne 73 detenuti, ma quello più famoso è Cesare Battisti, sulla cui sorte si attende da un anno la decisione del presidente brasiliano Lula, dopo che lo stesso Stf ne aveva “raccomandato” l’estradizione, non avendo riconosciuto al terrorista lo status di rifugiato politico. Condizione che avrebbe fatto decadere qualsiasi procedimento di estradizione, dal momento che la Costituzione brasiliana la esclude per gli stranieri processati per “crimini politici o di opinione”.

«Un pasticcio di governo. Ecco il risultato» «Un pluriomicida non può diventare merce di scambio tra due democrazie» Antonio Picasso • pagina 3

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Parla il figlio di una delle vittime Alberto Torregiani

«Il premier non ha mai voluto incontrarmi» «La sua libertà significherebbe una enorme sconfitta per la giustizia italiana»

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Valentina Sisti • pagina 4

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Duro intervento della sua associazione. Il Pdl: «Se vuole, faccia politica»

Montezemolo: «No alle elezioni» T

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L’intellettuale si allontana dal premier

Nel Pd c’è voglia di un’alleanza che vada dall’Udc a Vendola. Ma non funzionerebbe

ra tutte le previsioni che si sono inseguite in questi giorni sul futuro del Paese alla luce della confusione del mondo politico determinatasi nelle ultime settimane, quella più catastrofica è arrivata ieri pomeriggio da parte di Italia Futura che, in una nota pubblicata nel tardo pomeriggio, ha sferrato un durissimo attacco all’intera classe politica, in particolar modo alle forze che compongono la maggioranza di governo. a pagina 6

No, l’ammucchiata no di Errico Novi la tentazione Prodi. Meglio: la tentazione dell’ammucchiata. Percorre più o meno tutto il Pd. Con l’eccezione forse dei popolari di Beppe Fioroni, attento a indicare quel mondo delle categorie e delle piccole e medie imprese, del sindacalismo moderato di Cisl e Uil e dell’associazionismo cooperativo «senza il quale non si vince». Nessuno nel centrosinistra sembra davvero porsi il problema della rappresentanza possibile a pagina 6

È

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

156 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Si avvicina il referendum sulla nuova Costituzione e nel 2011 la Turchia torna alle urne. Lui minaccia: «Se perdo, me ne vado» servizi alle pagine 18 e 19

«La maggioranza ha i numeri e il dovere di fare le riforme» di Guglielmo Malagodi

L’agosto decisivo di Recep Erdogan

E Fetullah Gulen gli volta le spalle di Marta Ottaviani n tutta la ridda di commenti e analisi che dopo l’assalto alla Freedom Flotilla si sono sprecati dentro e fuori il Paese, vale la pena di soffermarsi su uno, non solo per l’autorevolezza di chi lo ha fatto, ma anche per le conseguenze che potrebbe implicare. Quello di Fetullah Gulen. Che è, con una grandissima semplificazione un pensatore islamico. Probabilmente il più influente. a pagina 19

I

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Affari di Stato. Da un anno si attende la decisione definitiva di Ignazio Lula sulla sorte del militante dei Proletari armati per il comunismo

La norma salva-Battisti

Prima chiacchiere, poi promesse da marinaio. Il Brasile si appresta a prendere in giro l’Italia, scarcerando il terrorista pluriomicida di Franco Insardà

ROMA. In Italia si parla di ribaltoni politici, ma quello vero lo sta organizzando Ignazio Lula in Brasile. Lui non decide, il Supremo tribunale federale si prepara a varare una norma salva-Battisti e il governo italiano tace. La decisione riguarda la possibilità di concedere la libertà condizionale ai detenuti stranieri condannati in altri Paesi in attesa di estradizione. Potrebbero beneficiarne 73 detenuti, ma quello più famoso è Cesare Battisti, sulla cui sorte si attende da un anno la decisione del presidente brasiliano Lula, dopo che lo stesso Stf ne aveva “raccomandato” l’estradizione, non avendo riconosciuto al terrorista lo status di rifugiato politico. Condizione che avrebbe fatto decadere qualsiasi procedimento di estradizione, dal momento che la Costituzione brasiliana la esclude per gli stranieri processati per “crimini politici o di opinione”. I giudici del Supremo tribunale federale hanno dibattuto sulle varie condizioni per concedere la libertà provvisoria: dal monitoraggio elettronico e ritiro del passaporto alla detenzione domiciliare o al carcere fino alla decisione definitiva sull’estradizione da parte del potere esecutivo, che ha voce definitiva in capitolo, come nel caso di Battisti.

Nonostante i vari incontri tra i massimi rappresentanti dei due governi, il presidente del Consiglio non è riuscito a ottenere alcun risultato rispetto alla richiesta italiana La decisione del Supremo tribunale federale, con il nuovo presidente della Corte, Cezar Peluso, relatore del caso Battisti e sostenitore dell’estradizione, potrebbe permettere il rilascio del terrorista. Mentre la responsabilità dell’estradizione potrebbe passare al successore di Lula, in carica da gennaio 2011. In questo modo Cesare Battisti, latitante dall’ottobre del 1981, quando riuscì ad evadere dal carcere di Frosinone, tra Francia e Messico e dal 2004 in Brasile, dopo la convalida della sentenza di estradizione da parte della Corte francese, potrebbe farla franca in maniera definitiva e non ritornare mai in Italia per scontare la sua condanna all’ergastolo per quattro omicidi commessi negli anni ’70. A niente è valsa nean-

Un appello al ministro degli Esteri per scongiurare la decisione

Caro Frattini, intervieni. È un’offesa per tutto il Paese di Luca Volontè aro ministro Frattini, confidiamo che il governo italiano sia sorpreso e amareggiato come noi dalla notizia della possibile libertà per Cesare Battisti. Da due anni chiediamo, noi dell’Udc insieme a tutte le altre forze politiche di maggioranza e opposizione e all’intero arco delle associazioni delle vittime del terorismo, che ci sia un impegno più deciso da parte della nostra diplomazia per evitare la scarcerazione del terrorista Battisti, affinché egli torni in Italia a scontare la pena per i suoi terribili atti di terrorismo. Ci ha colti all’improvviso, dopo le notizie del 2009 sulla possibile estradizione, la nuova notizia proveniente dal Brasile e rimbalzata alla chetichella su alcuni quotidiani italiani. Il Supremo Tribunal Federale discute in questi giorni la possibilità di concedere la libertà condizionale ai detenuti stranieri condannati in altri Paesi in attesa di estradizione. Questo provvedimento potrebbe trovare Battisti tra coloro che godrebbero della libertà, alla faccia delle promesse e delle “mezze” assicurazioni date dal presidente Lula al nostro governo.

C

La conclusione finale della Corte Federale è stata che la decisione dovrà essere presa caso a caso, detenuto per detenuto. I detenuti stranieri che potrebbero usufruire della misura sono attualmente 73, ma è chiaro che il caso più in vista è quello di Cesare Battisti, che si trascina appunto ormai da oltre due anni, senza che ci siano per ora segnali di una presa di posizione da parte del presidente Lula. Non possiamo confidare solo nel nuovo presidente della Corte Federale, quel Cesar Peluso che da relatore sul caso Battisti chiese la rapida estradizione. Dobbiamo evitare che il caso si trascini fino alle prossime elezioni presidenziali brasiliane del gennaio 2011. È necessario un sussulto di dignità nazionale,

l’orgoglio di essere nazione democratica! È necessaria una parola di serietà sulla vicenda, se l’azione diplomatica e le relazioni di amicizia che l’Italia ha sfruttato in questi anni non sono riuscite a vincere i “giochi di potere” brasiliani, ebbene si introducano da parte del nostro governo azioni più decise e conclusive della delicata e tragica vicenda. Non è più possibile che vengano sbeffeggiate le vittime del terrorismo e, insieme, la buona fede che l’opinione pubblica ha concesso all’esecutivo. Battisti deve essere estradato, ne va della storia e della dignità del sistema giudiziario e delle tante morti causate dalla ideologia violenta del terrorismo italiano.

Quel losco figuro di Battisti, in sua difesa, ha voluto affermare che egli stesso sarebbe in pericolo nelle carceri italiane, così facendo ha voluto schiaffeggiare la nostra democrazia e le nostre istituzioni, dimostrando come ancor oggi egli ritenga la Repubblica italiana un regime antidemocratico e totalitario. Non possiamo permettere che un governo amico e serio, con il quale l’intero sistema italiano intrattiene rapporti economici, sociali, culturali, politici e istituzionali si renda complice di un inaccettabile atteggiamento. Non possiamo permetterci una doppia beffa, dopo quella subita dalla Francia: il signor Cesare Battisti deve tornare in carcere a scontare la pena per le sue malefatte. Ministro Frattini, non le sfuggirà che questa vicenda ha ormai assunto un valore simbolico eccezionale per l’intera comunità nazionale italiana e per le sue istituzioni, oltreché per la nostra storia. Ma ripeto, se il governo italiano fosse maggiormente in grado di percorrere le strade della diplomazia, dovrebbe rispondere con atti consoni alla emblematicità del caso: chiudere l’ambasciata e chiedere gesti di responsabilità ai grandi gruppi industriali italiani presenti in Brasile e partecipati dallo Stato italiano. Sarebbero scelte dolorose, ma la dignità del Paese non può essere messa in “saldo”, nemmeno per gli amici brasiliani. Attendiamo gesti concreti, li aspettiamo insieme a tutto il nostro Paese.

che la posizione chiara del presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano che, il 17 gennaio del 2009, scrisse una lettera personale al presidente Lula per esprimere «profondo stupore e rammarico» per la decisione del ministro brasiliano della Giustizia, Tarso Genro, di concedere lo status di “rifugiato politico” a Cesare Battisti.

La vicenda Battisti rischia addirittura di condizionare la campagna elettorale per le elezioni presidenziali brasiliane che si svolgeranno a ottobre di quest’anno. Il partito di Lula, che dopo due mandati non potrà ricandidarsi, schiererà Dilma Rousseff, una donna che, durante la dittatura militare degli anni ‘70, ha fatto parte di un gruppo armato, e che si è dichiarata contraria all’estradizione. Il candidato dell’opposizione, il socialdemocratico, Jose Serra sta cavalcando la questione Battisti e ha affermato, invece, che, se Lula non si pronuncerà prima di rimettere il suo

La vicenda influenza la campagna elettorale per le presidenziali di ottobre che vedono di fronte l’ex guerrigliera Dilma Rousseff, per il Partito dei lavoratori, e il socialdemocratico Jose Serra mandato di presidenza a dicembre del 2010, in caso di vittoria, una volta in carica concederà l’estradizione. Intanto Ignazio Lula cerca di evitare che il caso Battisti imbarazzi il suo partito e non si pronuncia. Potrebbe decidere prima di lasciare l’incarico e se dovesse pronunciarsi contro l’estradizione Battisti non avrà l’asilo politico, ma resterà a godersi le spiagge di Copacabana. Tutto questo avviene in Brasile, mentre in Italia sull’affaire Battisti c’è un silenzio inquietante. Lo stesso Cesare Battisti è stato facile profeta quando nel novembre del 2009, intervistato in carcere dall’inviato di Repubblica Omero Ciai, disse: «Credo che neppure a Berlusconi importi nulla di questa storia. Penso che resterò in Brasile. Tranne qualche ministro fascista gli altri rimarranno tranquilli». All’epoca la Corte Suprema brasiliana aveva appena dato il via libera alla sua estradizione, lasciando però al presidente Ignazio Lula l’ultima parola. Da allora è passato quasi un anno e il governo italiano non ha fatto alcuna pressione su quello brasiliano. Berlusconi e Lula si sono incontrati varie volte, l’ultima a fine giugno, e hanno parlato di affari, calcio e amenità varie, ma


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Parla il capogruppo dell’Udc al Senato, Gianpiero D’Alia

«Pasticcio di governo. Ecco il risultato» «Un pluriomicida non può diventare merce di scambio tra due democrazie» di Antonio Picasso

ROMA. «Se la Corte suprema brasiliana dovesse dire sì alla libertà provvisoria di Battisti (con monitoraggio elettronico e ritiro del passaporto, ndr), saremmo di fronte a una decisione scandalosa e grave, quanto gravi sono stati gli omicidi commessi dall’ex terrorista». Il capogruppo dell’Udc al Senato, Gianpiero D’Alia, non ammette spazi di manovra su una questione così delicata. «Battisti non ha scontato neanche un giorno di carcere in Italia per le colpe commesse da terrorista», aggiunge D’Alia. «La sua presenza in Brasile quindi non permette che le sofferenze dei parenti delle vittime di trent’anni fa si cicatrizzino per sempre». Senatore, la massima autorità della giustizia brasiliana sta per esprimersi in merito alla libertà vigilata per 73 detenuti nelle carceri nazionali. Nella lista ci sarebbe appunto Cesare Battisti, ex capo dei Pac (Proletari armati per il comunismo), il quale è detenuto in Brasile dal 2007, dopo oltre venticinque anni di latitanza vissuti tra la Francia e il Sud America. Il posto giusto di Battisti è un carcere italiano, dove paghi per i crimini che gli sono stati attribuiti. Il nostro Paese ha inventato il termine «omicidi politici» per alleggerire le colpe dei protagonisti degli anni di piombo, se non addirittura perdonarli. Si tratta però di un atteggiamento ipocrita, che non rende giustizia a chi è stato ucciso allora e non chiude quella triste pagina di storia nazionale. Un omicidio è un omicidio, punto e basta. E come tale va punito, senza fare distinzioni politiche o di altro tipo, che le vittime e l’opinione pubblica non sono interessante a cogliere. All’inizio di luglio il Presidente del consiglio Berlusconi è stato in visita in Brasile. Il suo incontro con il Presidente Lula avrebbe dovuto far ripartire il meccanismo della giustizia internazionale e della partnership fra le magistrature dei due Paesi. Non è stato così? Avrebbe dovuto! Pare invece che invece non sia successo. Quando Berlusconi è tornato dal Brasile infatti si è parlato di tutto fuorché dell’affaire Battisti. Quello del nostro premier è un atteggiamento molto grave, connotato da un’esplicita superficialità sulla questione. Se così si devono condurre le visite di Stato, allora tanto vale non farle e che Berlusconi se ne resti a casa. Pensa che ci siano implicazioni economiche dietro questo disinteresse da parte di Roma? In passato si possono rintracciare casi precedenti simili a questo. Pensiamo alla scarcerazione, voluta dalla magistratura britannica, di Mohamed al-Megrahi, il terrorista libico autore dell’attentato di Lockerbie, nel 1988. L’anno scorso la decisione di Londra fece supporre che Tripoli avrebbe agevolato le attività della British Petroleum sul suo territorio. Se fosse altrettanto così, sarebbe indecente. Non si può pensare che un pluriomicida diventi la merce di scambio per l’arricchimento di due Paesi che confidano nella propria trasparenza democratica. Non voglio giudicare il comportamento degli inglesi. Penso però che mille contratti commerciali non valgano il rispetto della giustizia. Se l’Italia vuole aprirsi un canale preferenziale nel mercato brasiliano è liberissima di farlo, ma non a beneficio di Battisti. Prima deve regolare i conti con gli ex terroristi ancora in contumacia e che vivono in territorio brasiliano. Battisti è stato giudicato, dalla magistratura italiana, colpevole di quattro omicidi e per questo condannato all’ergastolo. È giusto allora che venga a scontare la pena nel nostro Paese. Al di là di qualsiasi interesse economico. E se invece la Corte suprema di Brasilia decidesse altrimenti? In tal caso vorrebbe dire che l’Italia non ha fatto abbastanza e che il nostro governo si è reso corresponsabile della libertà di un criminale. Le conseguenze, sul piano morale, sarebbero devastanti. Il governo Berlusconi dovrebbe rispondere del suo operato così approssimativo ai parenti delle persone che Battisti ha ucciso.

non certamente della vicenda del fondatore dei Proletari armati per il comunismo. E nessun ministro italiano, di qualsiasi parte politica, fatta eccezione per il titolare della Farnesina Franco Frattini quando scoppiò il caso, si è interessato dell’estradizione di Cesare Battisti. Lui, in carcere per scontare una pena di due anni per uso di passaporto falso al momento del suo ingresso in Sudamerica, seguendo una strategia ben studiata se ne sta calmo e tranquillo nel tentativo di far calare il silenzio, forte anche degli appoggi influenti di cui gode. Dalla Première dame Carla Bruni, come ha ammesso lo stesso ex ministro della Giustizia Tarso Genro, al giallista francese Fred Vargas che, insieme ad altri amici, si fa carico delle spese processuali, affidate dal 2007 alla regia del senatore del Partito dei lavoratori, quello di Lula, Eduardo Suplicy.

La notizia della decisione del Supremo tribunale federale ha colto di sorpresa la politica italiana, impegnata in risse da bagnasciuga, e sulla vicenda sono intervenuti soltanto pochi parlamentari tra i quali il capogruppo dell’Udc in Senato, Gianpiero D’Alia, l’ex sottosegretario agli Esteri Margherita Boniver e il senatore della Lega Piergiorgio Stiffoni. La Boniver, che è an-

Sopra un cordiale abbraccio tra il presidente brasiliano Ignazio Lula e il premier italiano Silvio Berlusconi; a sinistra il ministro degli Esteri, Franco Frattini; a destra Gianpiero D’Alia, capogruppo dell’Udc in Senato che presidente del Comitato Schengen, si è detta preoccupata e addolorata per «l’ipotesi che la Corte suprema del Brasile dia la possibilità della libertà condizionata al pluriomicida Battista, mi auguro che questo non preluda addirittura alla cittadinanza onoraria per un personaggio la cui storia si qualifica da se».

Per Stiffoni questa decisione preparerebbe «di fatto, un’altra fuga del terrorista pluriomicida. Formalmente Battisti sarà libero di girare in quello sterminato Paese per poi trovare, come ha fatto dopo Parigi, una soluzione per darsela a gambe levate. Tutto questo perché il Brasile, anche in spregio ai moltissimi italiani che hanno fatto la fortuna di quel Paese, pilatescamente non vuol andare contro il suo ministro della Giustizia. Sarà un dolore tremendo per tutte le famiglie delle vittime del terrorista». Mai come in questo momento i silenzi per Cesare Battisti sono d’oro e potrebbero garantirgli una dorata permanenza brasiliana.

Le conseguenze di una liberazione, sul piano morale, sarebbero devastanti. Berlusconi dovrebbe rispondere del suo operato così approssimativo con i parenti delle vittime


l’approfondimento

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Parla il figlio del gioielliere ucciso dal terrorista nel 1979, in un agguato dei Proletari armati per il comunismo

Il sangue tradito

«La libertà di Cesare Battisti rappresenterebbe una enorme sconfitta per la giustizia italiana», dice Alberto Torregiani. Che aggiunge: «Berlusconi non ha mai voluto incontrarmi. L’unico a metterci la faccia è stato il presidente Napolitano» di Valentina Sisti l nostro governo deve capire che rimettere in libertà Cesare Battisti significherebbe sancire una sconfitta gravissima per la giustizia italiana. Questo Paese ha bisogno di una seria riforma della giustizia. Ma se è il governo per primo ad accettare una sconfitta del genere, che credibilità ha nel proporre una giustizia rinnovata?».

«I

Alberto Torregiani è figlio del gioielliere milanese Pierluigi, ucciso nel 1979, in un agguato da parte dei Proletari armati per il comunismo, che volevano vendicare la morte di un bandito, durante un tentativo di rapina, in cui Torregiani aveva reagito per difendersi. Nella sparatoria Alberto, il figlio allora quindicenne, rimase ferito e da allora vive su una sedia a rotelle dalla quale combatte la sua battaglia. Alcuni degli ex terroristi furono arrestati, ma riuscirono a evadere e a rifugiarsi all’estero. Cesare Battisti fu condannato

come mandante, ed è uno dei quattro omicidi per cui è stato condannato, in contumacia, essendosi nel frattempo reso latitante all’estero. Poi la fuga in Brasile, ben protetta, e le manfrine varie sull’estradizione prima negata e ora semplicemente non concessa da Lula, che fa finta di niente da novembre 2009, quando la Corte Suprema gli ha affidato l’ultima parola. «Chi potrebbe raccontarci come stanno esat-

tamente le cose, la Farnesina, non dice nulla» lamenta Torregiani. «Il ministro Frattini sta lavorando bene, ho avuto più volte rassicurazioni. Ma intanto tutto tace. E Battisti ha ottenuto la libertà semi vigilata in carcere: mi sembra davvero troppo».

Torregiani si riferisce all’ultima acrobazia giuridica di cui beneficia Battisti, una finta condanna a due mesi per utiliz-

«Noi familiari delle vittime chiediamo rispetto, altrimenti ci sentiremmo defraudati»

zo di falsi documenti, tenendolo formalmente agli arresti, anche se di fatto è semi-libero. E con questa scusa Lula ad ottobre arriverà a fine mandato, senza nulla aver deciso. Intanto sono in molti a tacere. Tace da sempre il ministro Angelino Alfano. Frattini aveva assicurato, il 14 gennaio 2009, dopo la proclamazione di rifugiato politico per Battisti da parte del ministro della Giustizia Tarso Genro, che «nelle prossime ore» il

ministro italiano si sarebbe fatto sentire presso il collega brasiliano, ma ha fatto in tempo, Genro, a cambiare incarico, ma quella telefonata di Alfano non c’è mai stata. Tace anche Frattini, da un po’ di tempo, sulla vicenda, da quando – a voler essere maligni – fra Italia e Brasile c’è profumo di affari. Dieci miliardi circa il valore delle commesse garantite all’Italia, e sancite nella visita di fine giugno di Silvio Berlusconi, nel corso della quale c’è stato anche un lungo colloquio con il presidente Lula di un’ora e mezza: a parlare di affari, di calcio, e a magnificare le virtù estetiche delle giovani brasiliane. Ma di Battisti, nulla. Va anche ricordato che Torregiani è responsabile Giustizia del movimento per l’Italia di Daniela Santanchè, la quale gli aveva prospettato la possibilità di incontrare il premier, prima del suo viaggio in Brasile. Ma la stessa Santanchè, a dire il vero, da qualche tempo (diciamo da quando si è iniziato a fare il suo nome per l’incarico di


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La breve (ma intensa) carriera fuorilegge dell’ex terrorista che si spaccia per “perseguitato”

Dalla delinquenza comune alla “coscienza rivoluzionaria”

La prima condanna a 18 anni. L’incontro in carcere con il suo “cattivo maestro”. E la bella vita in Francia grazie alla Dottrina Mitterrand di Maurizio Stefanini monimo dell’eroe irredentista trentino, Cesare Battisti è però un ciociaro trapiantato in provincia di Latina: nato a Cisterna, il 18 dicembre del 1954, e cresciuto a Sermoneta. Il padre è un allevatore di pecore simpatizzante per il Pci, che continua a tenere appeso in casa un ritratto di Stalin ben oltre il rapporto Kruscev. Battisti racconterà di aver buttato quel ritratto dalla finestra a 17 anni, quando aveva «capito chi era». Ma dirà anche che erano stati il padre e i cinque fratelli maggiori e introdurlo alla politica, portandolo alle manifestazioni da quando aveva 10 anni. E che se ne sarebbe andato di casa proprio dopo quella svolta anti-stalinista, andandosene a vivere in una comune i cui componenti si mantenevano a colpi di “espropri proletari”. Anche se lui cerca di non parteciparvi, per paura.

O

Altre testimonianze riferiscono però di un giovane scioperato, che frequenta svogliatamente la scuola dell’obbligo e l’istituto privato cui lo iscrivono dopo la terza media. Preferisce le balere, la pesca e i motorini, ma poiché i soldi che gli passano il padre e i fratelli non gli bastano, inizia a macchiarsi la fedina penale. A 18

anni non ancora compiuti, 13 marzo 1972, è arrestato la prima volta dai carabinieri: mentre cerca di rivendere una partita di macchine da scrivere Olivetti rubate, curiosa anticipazione di una vita che sarà trascorsa appunto tra letteratura e codice penale. Liberato come minorenne, a 22 anni è di nuovo denunciato, per «sottrazione di minore a fini di libidine violenta su persona incapace».

Nel penitenziario di Udine conosce Arrigo Cavallina: un laureato in economia e insegnante di lettere di 32 anni che aveva fondato il primo nucleo dei Pac In effetti si tratta di una fuga d’amore con una tredicenne calabrese, seguita da un’aggressione allo zio di lei. Infine, nell’agosto del 1974 partecipa a una rapina a mano armata con sequestro di persona in una villa di Sabaudia. Arrestato dopo appena due ore, è condannato a quattro anni. Fino a questo momento tutti i suoi reati sono stati comuni, anche se ha fatto in tempo a fare a pugni con qualche coetaneo neofascista di Latina. Con il tipico lassismo della giustizia italiana, quella stessa giustizia oggi da lui tacciata di ferocia per scamparvi, i quattro anni sono ridotti a tre, ma il 20 febbraio del 1976 già esce per scadenza dei

termini di custodia cautelare. Parte nel maggio per il servizio di leva, e finisce in Friuli. Ma lì all’inizio del ’77 torna dentro, per finire di scontare la condanna. E nel carcere di Udine conosce Arrigo Cavallina: un laureato in economia e insegnante di lettere di 32 anni, che dopo un po’ di «illegalità di massa» tra Potere Operaio e Autonomia ha fondato i Proletari Armati per il Comunismo (Pac). È lui a destare una «coscienza rivoluzionaria» in Battisti, che dopo un po’ torna sotto le armi, per essere rimandato a Latina. Si congeda, e già nel febbraio del 1978 tenta una nuova rapina, in un ufficio postale di Sermoneta. Il bottino però è magro, i suoi compari sono arrestati, e lui scappa a Verona, chiedendo ospitalità a Cavallina e entrando nei Pac.

Inizia una stagione breve, appena 13 mesi, ma sanguinosissima. Il 6 giugno 1978 a Udine uccide in un agguato Antonio Santoro: un maresciallo degli Agenti di Custodia che i Pac accusano di maltrattare i detenuti. Il 16 febbraio 1979 a Santa Maria di Sala, provincia di Verona, “copre” il complice Diego Giacomin mentre uccide il macellaio Lino Sabbadin, “colpevole” di essersi opposto a una rapina armi alla mano. Lo stesso giorno a Milano è pure ucciso dai Pac per “imputazioni” analoghe il gioielliere Pierluigi Torregiani, mentre il figlio Aberto è ridotto in sedia a rotelle durante il conflitto a fuoco. I difensori internazionali di Battisti parlano dell’inaffidabilità della giustizia italiana per il fatto che Battista è stato condannato per due delitti commessi lo stesso giorno in località diverse, ma il fatto è che per il delitto Torregiani la responsabilità è di co-ideatore e co-organizzatore. Come esecutore materiale è stato invece riconosciuto colpevole Cesare Battisti per l’uccisione dell’agente della Digos Andrea Compagna, avvenuta a Milano il 19 aprile 1979. In più, i Pac compiono almeno una ventina di rapine. Il 26 giugno 1979, però, Battisti è arrestato, assieme ai suoi compari. Ma evade il 4 ottobre del 1981, riparando in Francia, dove resta clandestino per un anno. Poi, dopo aver conosciuto la donna che sposerà, va in Messico, dove nasce la sua prima figlia, fonda una rivista culturale e scrive il suo primo romanzo. Mentre i tribunali italiani gli danno l’ergastolo in contumacia, nel 1990 torna in Francia. Passa quattro mesi dentro, ma poi è liberato e riceve anche un permesso di soggiorno, ai sensi della cosiddetta “Dottrina Mitterrand”. E a Parigi può pubblicare altri libri: trasformandosi in una star, e procurandosi le rete di amicizie che poi si mobiliteranno in suo favore, quando la fine della Dottrina Mitterrand lo obbligherà a fuggire in Brasile.

sottosegretario, che poi ha ottenuto) non sembra più così battagliera come prima (neanche lei) sul caso Battisti. «Ho chiesto più volte di poter incontrare Berlusconi – conferma Torregiani - non solo a titolo personale, ma anche come portavoce delle altre famiglie delle vittime. Sto ancora aspettando. Vorrei chiedergli diversi chiarimenti…». Chiarimenti, in particolare, sulle commesse ferroviarie e militari, che sarebbero alla base dell’ammorbidimento delle nostre posizioni. «Voglio sapere se ci sono delle compravendite in gioco, quali altri accordi ci possono essere. L’importante è che la verità venga fuori. Io gli chiedo solo cinque minuti, credo sia un mio diritto poter avere almeno una risposta».

Berlusconi si è limitato a dirsi fiducioso nella giustizia brasiliana. Un po’ poco. Anche perché ora è Lula che deve decidere, non più i giudici. «So che ha più volte chiesto al presidente Lula rassicurazioni sul caso Battisti. Ma noi famigliari delle vittime chiediamo rispetto per la nostra umanità, altrimenti ci sentiremmo defraudati». A conti fatti, al di là di convocazioni dell’ambasciatore da parte di Frattini, ma siamo ormai a un anno e mezzo fa, l’unico ad averci messo la faccia con Lula è stato Giorgio Napolitano, prima con una dura lettera a Lula, poi con un colloquio riservato, a margine del G8, nel pranzo del Quirinale allargato a 20. Perché è di tutta evidenza, per chi ha a cuore l’immagine del nostro Paese, che proclamare Battisti rifugiato politico euivale a dare degli aguzzini ai nostri giudici e dei fascisti ai nostri politici. Ma Torregiani ancora ci spera: «È una questione di buona volontà. E di etica. Un Paese per definirsi civile deve mettere il problema della giustizia al primo posto. L’estradizione di Battisti non è solo una vicenda che riguarda i famigliari delle vittime, ma una vittoria per tutto il Paese. La libertà di Battisti significa la sconfitta della giustizia. Gliel’ho anche scritto, per dire che non provo odio nei suoi confronti, che chiedo solo giustizia, non vendetta. Gli ho detto che se si riteneva innocente, avrebbe dovuto dimostrarlo». Ma Battisti, come Ventura, rischia, di costituire un altro macigno contro l’accertamento della verità, in Italia. «Perché bisognerebbe poi affrontarne le conseguenze, e c’è la paura di far vedere gli scheletri chiusi dentro l’armadio». L’ultimo appello è per le nostre istituzioni: «Chiediamo fermezza. Che il governo e il parlamento si assumano piena responsabilità di questo caso. Noi famigliari delle vittime chiediamo almeno un segnale, che testimoni la volontà di mettere al primo posto il rispetto dell’uomo. Se vogliamo davvero voltare pagina».


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politica

Suggestioni. La proposta di Bersani sul «patto tra tutte le opposizioni» svela la scarsa chiarezza di idee dei democratici

No, l’ammucchiata no

Da Bindi a Fassino, nel Pd spopola l’idea di un’alleanza dall’Udc a Vendola. Ma i popolari frenano: «No al caravanserraglio, il governo è un’altra cosa» di Errico Novi

ROMA. È la tentazione Prodi. Meglio: la tentazione dell’ammucchiata. Percorre più o meno tutto il Pd. Con l’eccezione dei popolari di Beppe Fioroni, attento a indicare, in un’intervista al Corriere della Sera, quel mondo delle categorie e delle piccole e medie imprese, del sindacalismo moderato di Cisl e Uil e dell’associazionismo cooperativo «senza il quale non si vince». Ecco, eccezion fatta per l’ex ministro dell’Istruzione e per la sua componente, nessuno nel centrosinistra sembra davvero porsi il problema della rappresentanza possibile, dell’idea di paese da offrire in alternativa a Berlusconi. Tra i democratici prevale una strana euforia. L’idea di una grande adunata «di tutte le forze d’opposizione» per mandare via il Cavaliere. Su questo Pier Luigi Bersani riesce a mettere tutti d’accordo: il postveltroniano Piero Fassino, Rosy Bindi e persino Massimo Cacciari. Le dichiarazioni rilasciate mercoledì dal segretario su una strategia comune di tutte le forze ostili al premier fa breccia. E serve forse anche ad alleviare il disagio per una strategia ancora fragile. Non riesce a farsi strada invece l’idea di dover intendere nel senso più ampio quell’area della responsabilità che si è già manifestata in Parlamento. I democratici preferiscono insistere sull’ipotesi di un’ammucchiata senza distinzioni, che vada da Futuro e libertà a Vendola passando per l’Udc. Almeno nelle affermazioni dei più. Perché appunto dall’area popolare arrivano segnali di una maggiore propensione all’analisi, e alla prudenza. Spiega Giorgio Merlo: «Bersani è una persona di buonsenso. Credo che sia il primo ad avere chiara una distinzione: da una parte esiste l’ipotesi di una coalizione molto ampia, suggerita dall’emergenza, altra cosa è la costruzione di un’alleanza di governo». Due cose ben distinte, secondo il vicepresidente della Vigilanza Rai. «Una coalizione di governo credibile e trasparente non ha a che fare con gli ultimi ceppi comunisti o con il giustizialismo forcaiolo. Durasse un mese, una cosa del genere, sarebbe un successo». E allora, dice ancora a liberal il deputato democratico di area popolare, «il compito del Pd è di seguire la crisi del centrodestra, e tenere eventualmente pronta anche una soluzione emergenziale. Con la consapevolezza però che non sarebbe certo quella la vera prospettiva del partito. A meno di non voler rimettere insieme un caravanserraglio».

Un caravanserraglio, cioè l’Unione. Tanto che Arturo Parisi dà concretezza alle suggestioni su Prodi e richiama in causa il Professore: «Chiediamoglielo, se vuole tornare, ma non per una missione a tempo determinato». È davvero a questo che guarda oggi il Pd? Difficile dirlo. In teoria non è così. È però il clima da resa

Una nota di Italia Futura scatena il Pdl: «Faccia politica»

Montezemolo dice no alle elezioni e sancisce il fallimento di Berlusconi di Guglielmo Malagodi

ROMA. Tra tutte le previsioni che si sono inseguite in questi giorni sul futuro del Paese alla luce della confusione del mondo politico determinatasi nelle ultime settimane, quella più catastrofica è arrivata ieri pomeriggio da parte di Italia Futura. L’associazione formalmente è animata da un comitato promotore in cui figurano i professionisti tra i più disparati, dal giornalista Rai Angelo Mellone alla leaderina radicale Giulia Innocenzi, ed è diretta da Andrea Romano, docente di storia contemporanea ed opinionista per le colonne del Sole 24 ore. Ma è a tutti gli effetti una creatura dell’ex presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo. In una nota pubblicata nel tardo pomeriggio, Italia Futura ha sferrato un durissimo attacco all’intera classe politica, in particolar modo alle forze che compongono la maggioranza di governo. «Se la minaccia di elezioni si concretizzasse – recita la nota- ci troveremmo di fronte ad una sconfitta per il Paese e per la classe politica che lo ha governato, oltre che ad un atto di grave irresponsabilità dinanzi ad uno scenario economico ancora fortemente instabile», si legge sulle colonne del sito web dell’associazione. Ma il testo si spinge molto oltre, arrivando a dire che se si dovesse vo-

tare «la Seconda Repubblica potrebbe avviarsi presto a conclusione». Inoltre la nota attacca duramente Berlusconi, accusandolo di non essere stato capace di riformare le istituzioni. Durissime le reazioni dalle fila del Popolo delle Libertà. «Abbia il coraggio di scendere in politica» gli ha risposto il capo dei deputati Cicchitto, accusandolo di parlare per interposta persona, «Sta sulla riva del fiume aspettando le nostre spoglie, ma rischia di rimanerci indefinitamente». La reazione di Maurizio Gasparri è sprezzante: «È molto più facile parlare che avere i voti». Sandro Bondi, ha invitato Montezemolo a fare una scelta politica chiara e coerente, invece di continuare a tentennare. Le notazioni dell’associazione montezemoliana, al contrario, sono state accolte positivamente da ambienti vicini al segretario del Pd Pierluigi Bersani, che fanno notare come le critiche mosse da Italia Futura al governo coincidono con quelle che da tempo sono iscritte nell’agenda democratica.

Italo Bocchino, infine, finiano doc., pur augurandosi che la Seconda Repubblica non si disgreghi, si affretta a sottolineare come, nel caso tale eventualità si realizzasse, «potrebbero anche crearsi delle vicinanze tra noi e Italia Futura».

dei conti nella maggioranza a suscitare un’incontrollata eccitazione. Da cui discendono ipotesi prive di verifica attendibile. La tesi è esplicita nell’intervista a Piero Fassino in uscita sull’Espresso: «A fasi di emergenza, alleanze di emergenza», dice l’ultimo segretario dei Ds, «il nostro obiettivo primario è la legge elettorale, chiunque lo condivida è bene accetto, quindi oltre al Pd, Idv e Uc anche il raggruppamento finiano è un interlocutore». Possibilista sulla contendibilità dello spazio a destra, Fassino è d’altronde ancora più elastico sulla praticabilità di alleanze con l’estremo opposto: sull’ipotesi di accordi che comprendano sia Casini, sia Vendola Grillo, aggiunge infatti che «l’alleanza si deve basare su un programma sottoscritto» e che «in alcuni comuni abbiamo vinto con alleanze che andavano dalla sinistra radicale all’Udc con un ruolo guida del Pd». È l’euforia tipica dei momenti di grande scomposizione. Rosy Bindi dice in fondo le stesse cose: «Tutti hanno il dovere di dare il loro contributo per costruire il centrosinistra», anche Vendola, nonostante «non sia in grado di fare una sintesi di tutte le componenti». Lo stesso, secondo la presidente dei democratici, «si può dire per Di Pietro, che

L’ex ppi Giorgio Merlo: «Non confondiamo l’emergenza con la strada maestra del riformismo, o rischiamo di trovarci alleati con Grillo anziché con Casini. Un esecutivo con dentro giustizialisti e post-comunisti dura un mese» pur nella diversità della storia e del percorso politico continua a interpretare il sentire anche di parte della nostra gente».

Persino Cacciari vedrebbe bene un ticket Chiamparino-Vedola: «Sarebbe una suggestione potente come quella del patto asimettrico stipulato dal Cavaliere nel ’94 con la Lega al Nord e Fini al Sud». Ma qui il discorso si fa diverso.Tra i pochi che invece confessano il loro scetticismo c’è Ignazio Marino: «I nostri elettori non ci capirebbero, non ce li vedo a votare una lista con i nomi di Vendola e Fini assieme». E poi c’è da fare i conti con la vocazione da battitore libero di Antonio Di Pietro, che rilancia la sua scarsa fiducia in un governo tecnico: «Ci credo poco, anche per questo sono disposto ad andare a votare». Lo stesso Fassino dichiara che il Pd «non ha paura delle urne» e che «una legittimazione democratica è necessaria». Tra gli argomenti adottati dagli ex ppi per spegnere la frenesia dei compagni di partito, invece, non mancano i pur timidi segnali di pace emersi ieri nella maggioranza: persino Bocchino prova a


politica

13 agosto 2010 • pagina 7

Intervista alla senatrice indicata come presidente della neonata federazione con l’Mpa di Lombardo

«Sud tradito, serve un’altra guida» Poli Bortone: «Entrerei volentieri in un esecutivo di responsabilità» di Lucio Lussi

ROMA. Rafforzare il partito del Sud. Questo lo scopo della federazione tra l’Mpa di Lombardo e Io Sud di Adriana Poli Bortone, rispettivamente segretario e presidente del nuovo soggetto politico. Io Sud è una nuova forza meridionalista critica nei confronti del governo, accusato di aver trascurato il Mezzogiorno a vantaggio del Nord. L’Mpa invece è alla ricerca di una nuova collocazione politica in ambito nazionale dopo la scissione dei mesi scorsi, che ha visto la nascita del movimento Noi Sud di Iannaccone e Sardelli. I fuoriusciti, appoggiati dal sottosegretario Scotti, hanno temuto un effetto domino a livello nazionale delle scelte politiche compiute dal partito in Sicilia, dove è stato avviato il dialogo con il centrosinistra, e hanno giurato fedeltà al premier. Il nucleo storico del partito, di contro, ha mantenuto un atteggiamento critico nei confronti dell’esecutivo fino alla convergenza con l’area della responsabilità di Fli, Udc e Api in occasione del

passare dalle parole ai fatti. Il nuovo meridionalismo, di cui lei è alfiere si pone l’obiettivo di cancellare l’assistenzialismo del passato e avviare un rilancio concreto del Mezzogiorno. In che modo? Per cancellare l’assistenzialismo è necessaria una nuova sinergia tra istituzioni e cittadini, resi protagonisti delle decisioni più importanti. Dopo gli errori compiuti in passato da centrodestra e centrosinistra i tempi sono maturi, altrimenti si rischia di prendere una brutta china. La nostra federazione ha lo scopo di unire tutte le regioni del Sud intorno ad alcuni punti salienti. Quali? In primis, è imprescindibile una politica matura delle infrastrutture per evitare inutili sprechi di denaro. In secondo luogo è necessaria una collaborazione tra le istituzioni e una burocrazia snella, efficace e continuamente aggiornata da un istituto di formazione sul modello dell’Ena francese. Il rilancio del Mezzogiorno, poi, passa inevitabilmente da una spesa qualificata dei fondi comunitari e da un forte inco-

L’inefficienza della sanità pugliese è una storia vecchia, che affonda le radici nella pessima gestione di Fitto alla guida della regione. Non dimentichiamo che Fitto è coinvolto in due inchieste sulla sanità ed è in attesa di giudizio. Il Mezzogiorno attende ancora gli 80 miliardi di euro promessi dal governo. Il governo dirotterà quei fondi alle regioni settentrionali e il Sud resterà a bocca asciutta. Il Meridione è stato sfruttato come bacino elettorale e raggirato con un programma politico falso. Firmato anche da lei nel 2008. Senza dubbio, ma in seguito alla mancata realizzazione delle politiche a favore del Mezzogiorno ho preso le distanze dal governo Berlusconi e adesso sono convinta che sia necessaria una nuova compagine governativa. Il panorama politico è molto fluido in questi giorni. Quali scenari si aprono? Può succedere di tutto. Il fatto che Berlusconi voglia porre la fiducia su un programma di 4 punti è una cosa fuori dal mondo. Il programma da rispettare c’è già ed è quello del 2008. Non possono essere disattesi gli impegni presi con i cittadini. La fiducia servirà soltanto a contarsi e in caso di elezioni anticipate i fedelissimi del premier avranno il seggio assicurato con le liste bloccate. Governo tecnico o elezioni anticipate? È un tiro alla fune. Berlusconi spinge per le elezioni anticipate con questa legge elettorale, mentre gli avversari vogliono un governo tecnico per annullare il porcellum. Nel frattempo io mi dedico alla nascita del partito del Sud con l’Mpa. Si è manifestata un’area di responsabilità nazionale. La sto seguendo con molta attenzione e buona predisposizione. La nascita di una forza alternativa che metta insieme Fini, Casini, Rutelli, Lombardo e altri è un fatto politico molto importante. Il bipartitismo è fallito e la nascita del Pdl da una parte, e del Pd dall’altra, non ha sortito gli effetti sperati. Infatti adesso è in corso una scomposizione delle due forze politiche alla quale seguirà una ricomposizione diversa. Farebbe parte di un governo istituzionale che avrebbe a cuore le riforme e il bene comune? Certamente, sarebbe un’ottima soluzione politica. E poi chiamando nuovamente i cittadini alle urne si spreca tempo e denaro.

Basta con Berlusconi, è tempo di una nuova compagine governativa. Mi piacerebbe far parte di un gabinetto istituzionale, e guardo con attenzione all’area moderata che va formandosi: il bipolarismo è fallito, ci sarà una ricomposizione diversa

voto di sfiducia al sottosegretario Caliendo. «Seguo con molta attenzione la nascita di una forza alternativa che metta insieme Fini, Casini, Rutelli, Lombardo e altri», dice da parte sua la leader di Io Sud, «è un fatto politico molto importante. Il bipartitismo è fallito e la nascita del Pdl da una parte, e del Pd dall’altra non hanno sortito gli effetti sperati». Senatrice Poli Bortone, qual è il significato politico della federazione tra Mpa e Io Sud? La federazione ha lo scopo di rafforzare il partito del Sud. L’Mpa esiste da tempo ed è radicato e attivo sul territorio. Io Sud esiste da meno ma si sta mobilitando con la stessa passione. Il partito del Sud riempirà un enorme spazio politico rimasto vuoto in seguito alla mancata realizzazione delle politiche meridionaliste promesse dal governo. È il momento di

raccogliere le offerte di distensione. Osserva ancora Giorgio Merlo: «Bisogna fare i conti con la realtà. E nemmeno Cicchitto e Gasparri potrebbero decidere d’altra parte lo scioglimento anticipato, quello dipende dal presidente della Repubblica». È inutile d’altronde precorrere i tempi e immaginare, come un po’ fa Fassino, alleanze molto ampie in vista di elezioni ravvicinatissime: «È de-

raggiamento dell’iniziativa privata, con il contributo di Confindustria e di un sindacato rinnovato e in grado di accantonare la divisione tripartita. Altrimenti chissà quante Pomigliano d’Arco avremo nel Mezzogiorno. E c’è un’altra possibilità finora trascurata. Dica pure. I ministeri vanno redistribuiti su tutto il territorio nazionale. Politica e burocrazia concentrate a Roma hanno dimostrato di non riuscire a dare buoni frutti. Andrebbero rispettati dei criteri ovviamente, esaltando le singole inclinazioni territoriali. Ad esempio il ministero delle Infrastrutture e quello del Turismo dovrebbero essere trasferiti nel Mezzogiorno. In fondo si tratta di cose semplici, ma è indispensabile la buona volontà di tutti gli attori coinvolti e mi rivolgo anche a Nichi Vendola che potrebbe dare il suo contributo alla federazione delle regioni meridionali. Nelle ultime settimane, il governo ha stoppato Vendola sul riordino del sistema sanitario pugliese. Attacchi strumentali? Certamente.Vendola è molto temuto altrimenti lo avrebbero ignorato da un pezzo.

cisamente inutile», prosegue Merlo, «e comunque confido nel buonsenso e nell’equilibrio di Bersani. La cosa essenziale è avere in mente, come prospettiva, una coalizione riformista, che comincia ad essere gettonata tra gli elettori, e non un caravanserraglio». E ancora: «Non vorrei che ci trovassimo alleati con Grillo anziché con Casini. Ripeto che è meglio non mettere il carro davanti ai buoi,

visto che le elezioni anticipate non si vedono, per ora».

Basterà la prudenza di Fioroni, Merlo e dell’ala popolare a recuperare il resto del Pd alla strategia riformista e moderata? Nel frattempo la stessa Udc provvede a inviare i necessari segnali. Persino rispetto alle alleanze locali. A Bologna per esempio il centrista Gianluca Galletti intervie-

ne per ricordare che «noi siamo disponibili a parlare con tutti, sia con il centrodestra che con il centrosinistra, perché Bologna ha bisogno di buona amministrazione. Se l’Idv o la sinistra si tirano indietro, noi concordiamo con loro, perché non siamo disposti al dialogo con chi ha posizioni agli antipodi rispetto alle nostre». Nonostante la confusione, difficilmente il Pd potrà ancora rinviare la propria scelta.


economia

pagina 8 • 13 agosto 2010

Istat. Cresce l’inflazione: +1,7% a luglio. È il dato più alto dal 2008. Allarme della Bce: rallenta la ripresa dell’Eurozona

Vola il prezzo dei trasporti

Rivista al ribasso la crescita del Pil 2011 nel Vecchio Continente ROMA. È il picco più alto dal 2008. L’Istat conferma i dati grezzi di qualche tempo fa: l’inflazione a luglio è salita all’1,7%, accelerando rispetto all’1,3% di giugno. Le stime preliminari vengono confermate: si tratta del rialzo più alto dal dicembre 2008. Su base mensile i prezzi sono aumentati dello 0,4%, e la motivazione del balzo è da ricercare nella crescita dei prezzi dei beni energetici (+5,3% su anno, +0,8% su mese). Secondo l’Istat, al netto dei tabacchi, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività, pari a 139,4, ha presentato nel mese di luglio una variazione congiunturale di più 0,4 per cento e una variazione tendenziale pari

di Alessandro D’Amato che per i pedaggi autostradali saliti su base tendenziale del 6,5% (+2,7% a giugno) e del 3,7% sul mese precedente.

L’Istat spiega che quest’ultimo rialzo è dovuto all’art.15 della finanziaria estiva e che si tratta di aumenti bloccati dal Tar ai primi di agosto. Per il capitolo di spesa relativo agli alimentari e alle bevande analcoliche si registra un calo dello 0,1% sia su base annua sia su base mensile, con una particolare riduzione dei prezzi della frutta fresca scesi del 5,8% a livello tendenziale (dal -6,6% di giugno) e dello 0,7% su base mensile. Raffrontando i dati

Su base annua il rincaro delle spese per viaggiare hanno toccato il +4,6%, accelerando rispetto al +3,7% di giugno. In crescita anche i beni energetici (+5,3%). Scendono gli alimentari a più 1,6 per cento. Su base annua i rincari dei trasporti hanno toccato un +4,6%, accelerando rispetto al +3,7% di giugno.

Si registrano impennate per i trasporti marittimi e per vie d’acqua interne, che segnano un +32% su base annua (+7,3% di giugno), e del 34,9% su base mensile, per i trasporti ferroviari con un aumento tendenziale del 9,6% (stesso tasso di giugno) e congiunturale dello 0,1% e per i trasporti aerei che segnano una crescita annua dell’8,2% (dal 2,8% di giugno) e del 15,2% a livello mensile. Incrementi an-

italiani a quelli europei, emerge un elemento di ulteriore, preoccupante incremento. L’indice armonizzato (quello usato in sede Ue) - aggiunge l’istituto di statistica - ha segnato un +1,8% su base annua, accelerando fortemente rispetto al +1,5% di giugno: anche in questo caso è il valore più alto dal dicembre 2008. Rispetto al mese prima, invece, c’è stato un 0,9%, dopo il +0,1% di giugno. Secondo la Banca centrale europea, nel medio periodo l’inflazione nell’area euro dovrebbe restare moderata, mantenendo la stabilità dei prezzi e

sostenendo il potere d’acquisto delle famiglie. Per la Bce «le aspettative d’inflazione restano saldamente ancorate, in linea con l’obiettivo di mantenere i tassi d’inflazione su livelli inferiori ma prossimi al 2% nel medio termine». Anche i dati del commercio estero sono preoccupanti. A giugno 2010 la bilancia commerciale italiana ha registrato un disavanzo di 3,058 miliardi, in peggioramento rispetto a quello di 899 milioni dello stesso mese del 2009. In accelerazione le esportazioni che, nel mese considerato, sono aumentate del 22,8% rispetto a giugno 2009, registrando un record da gennaio 2001, con andamenti più dinamici per il mercato non comunitario (+26,4%) rispetto a quello interno all’Ue (+20,1%). Le importazioni hanno registrato un incremento del 30,4% (+37,4% extra-Ue e +25,5% Ue). Nel primo semestre dell’anno il deficit commerciale, pari a 14,2 miliardi, è più ampio di quello del corrispondente periodo 2009 (4,8 miliardi).

A giugno 2010, prosegue l’Istat, si registrano, per le esportazioni, andamenti tendenziali positivi per tutti i raggruppamenti principali per tipologia di beni, con aumenti superiori alle media per energia (+70,3%) e prodotti intermedi (+26,3%). Anche per le importazioni le tendenze sono positive per tutti i raggruppamenti, con andamenti superiori alla media per prodotti intermedi (+45,7%) ed

«Tirrenia insolvente» ROMA. Il tribunale fallimentare di Roma ha dichiarato l’insolvenza per Tirrenia, che era stata richiesta dal commissario straordinario Giancarlo D’Andrea. Per la compagnia scatta ora la procedura di amministrazione straordinaria. La dichiarazione di insolvenza apre la strada ad un percorso di amministrazione straordinaria che potrà sfociare nella riattivazione del percorso di privatizzazione della compagnia pubblica sotto il controllo e la tutela dei giudici delle procedure concorsuali. Il momentaneo blocco del passaggio di Tirrenia e Siremar ai privati di Mediterranea Holding di Navigazione apre dunque scenari nuovi per la società controllata al 100% da Fintecna. Tirrenia e Siremar, con una flotta di 44 navi, garantiscono i collegamenti tra l’Italia continentale e le isole maggiori e tra la Sicilia e le sue isole minori, durante l’intero arco dell’anno. Sul Tirreno è impiegata una flotta composta in gran parte dai nuovi supertraghetti veloci da 30 nodi.

energia (+38,5%). Al netto dell’energia, le esportazioni aumentano del 20,9%, le importazioni del 28,9%. E intanto, fa sapere la Banca Centrale Europea, la ripresa dell’eurozona già rallenta. Nel secondo trimestre si è assistito a un «rafforzamento dell’attività» e «per il terzo si delinea un quadro migliore delle aspettative».

Ma l’orientamento generale resta quello della prudenza. Una preoccupazione che ricalca quella della Fed di qualche giorno fa. I dati e gli indicatori sull’attività economica, scrive la Bce, «suggeriscono un rafforzamento nel secondo trimestre del 2010» e «per il terzo si delinea un quadro migliore delle aspettative». Sul più lungo periodo la crescita dovrebbe restare però «moderata e ancora discontinuo, a fronte di incertezza». Le previsioni della crescita del Pil puntano verso il basso, in particolare per il 2012. I rischi sarebbero connessi con l’adozione di piani di risanamento dei conti pubblici e con «le prospettive per il mercato del lavoro». Pesa anche il calo dei consumi privati e degli investimenti pubblici, così come le accresciute tensioni finanziarie, in particolare l’inasprimento dei criteri di erogazione del credito. La crescita del pil dell’eurozona in termini reali, secondo le previsioni della Bce, è confermata all’1,1% per il 2010, mentre per il 2011 è stata rivista lievemente al ribasso all’1,4%, dall’1,5% della precedente indagine. Per il 2012 si prevede un incremento dell’1,6%.


L’

otto pagine per cambiare il tempo d’agosto

i m p r e s a

13 agosto (1942)

Nelle sale americane viene distribuito “Bambi”, lungometraggio animato della Disney

E Walt creò il cerbiatto di Pietro Salvatori

ravatte sottili, cappelli a tesa corta, sigaretta penzolante dalle labbra, caffè sorseggiati con un occhio all’ultimo bollettino di guerra. È il 1942, la guerra imperversa nel Vecchio continente e fa sentire il suo alito sulla West Coast americana. Sono gli anni di Pearl Harbor, dei saluti alla mamma prima di imbarcarsi in direzione Pacifico, del “che fanno i russi, le pigliano ancora?”. L’anno dei natali di Cassius Clay, poi Muhammad Ali, icona del pugilato mondiale, e di Michael Bloomberg, attuale primo cittadino di New York, di Harrison Ford e di Michael Crichton, il papà di Jurassic Park. È un anno nel quale il cinema rimane una delle poche occasioni di svago per la gente, che inizia a fare i conti con le ristrettezze che impone la guerra. Michael Curtiz trasportava il pubblico americano oltreoceano, con una delle più grandi spy-story di tutti i tempi, Casablanca, Orson Welles rispondeva con il dramma familiare L’orgoglio degli Amberson, mentre Ernst Lubitsch metteva in scena Vogliamo vivere!, dissacrante commedia su nazismo e dintorni.Tra questi colossi inarrivabili, si affacciava il rassicurante musetto di Bambi. Oggi conosciuto da grandi e piccini in tutto il mondo, il lungometraggio di casa Disney arrivava in un momento turbolento per lo Studio dell’eclettico disegnatore di Chicago. Il suo “Se puoi sognarlo puoi farlo” è per il pigro spettatore di oggi quasi un’ovvietà. Ma quando, nel 1935, Disney si mise in testa che il cartone animato poteva sfondare i confini delle strisce brevi, nelle quali Topolino, Paperino e l’allegra combriccola partorita dalla fervida immaginazione di Disney faceva già la parte del leone, un lungometraggio animato era considerato un progetto che rasentava la follia. La gente si sarebbe annoiata, la qualità dei disegni sarebbe crollata, lo sforzo economico delle decine e decine di disegnatori da arruolare non sarebbe mai stato ripagato.

C

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LA PERDUTA GENTE - CAPITOLO 9

I TESORI DELLE CIVILTÀ - HATRA

CINEMA CALDO

Il diritto di fare la morale

Nella città del dio Sole

Un tranquillo giorno di paura

di Carlo Chinawsky

di Alessandro Boschi

di Rossella Fabiani

pagine 12-13

pagina 15

pagina 16 pagina 9 - liberal estate - 13 agosto 2010


Ma Disney era fiducioso. Con The Old Mill, un cortometraggio animato, era arrivato il tanto sospirato salto di qualità che si aspettava. La cinepresa a piani multipli, inventata da Bill Garity, un tecnico che aveva svolto la gavetta proprio negli studi Disney, conferiva al cartone animato quell’effetto di profondità che non solo rendeva l’immagine più attraente ed appetibile, ma permetteva anche di raccontare la storia in modo più efficace e strutturato. Il 21 dicembre del 1937 arrivava così sugli schermi un riadattamento in chiave romantica della famosissima fiaba dei fratelli Grimm, Biancaneve e i sette nani. Il successo che ne seguì (e che lo rese il miglior incasso di tutti i tempi nella storia del cinema americano, finchè nel 1940 non fu scalzato da Via col vento), e l’enorme qualità messa sullo schermo dal team Disney lasciò a bocca aperta tutti quei critici che avevano bollato il progetto come “una pazzia”. Wikipedia, nella sua pagina italiana dedicata al maestro dell’animazione, segnala a ragione una delle sue citazioni più celebri: «Quando progettiamo un nuovo film non pensiamo agli adulti e non pensiamo ai bambini, ma solo a quel meraviglioso e limpido luogo che è dentro di noi e che forse il mondo ci fa dimenticare ma che i nostri film, forse, aiutano a ricordare».

Questo probabilmente il vero segreto del successo della major, a cominciare dai suoi esordi con

Biancaneve. E come non pensare ai recentissimi Wall-e e Up!, nati dal connubio della creatività degli eredi di Disney e dalla tecnica sopraffina della Pixar. In effetti chi, pensando esclusivamente a un film per bambini, avrebbe mai pensato a una storia d’amore tra robot che non proferiscono verbo per oltre un’ora, o a un vecchio scorbutico come protagonista di una storia? No, a casa Disney si è abituati a raccontare storie. Coloratissime, sentimentali, divertenti, musicali. Ma storie. Non calibrate su un target infantile, ma tese a colpire il cuore di uomini e donne di ogni età. Il successo di Bian-

La regia asseconda il copione proprio come se si trattasse di un film con attori in carne ed ossa. Una corsa disperata, il rumore di uno sparo e l’ellissi colpisce nel segno

caneve spinge Disney a continuare su quella strada che qualcuno aveva definito folle. Comprata un’area edificabile a Burbank, in California, Disney vi costruisce un vero e proprio campus dell’animazione, dove far lavorare i propri tecnici tutti insieme e con tutti gli strumenti,

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tecnici ed artistici, concentrati in un unico luogo. Mentre a Burbank vengono costruiti quelli che ancora oggi sono i Walt Disney Studios, il team di creativi è di nuovo all’opera. Nel febbraio del 1940 vengono presentate al pubblico contemporaneamente due film. Sono gli indimenticabili Fantasia e Pinocchio.

Da solo, quest’ultimo costa il doppio di Biancaneve. Pur accolto benissimo dal pubblico americano, in Europa già si combatte, e il mercato del Vecchio continente non riesce a rispondere adeguatamente. La non convenzionale costruzione narrativa di Fantasia, che lo stesso Disney non considerava tanto un film quanto più una vera e espepropria rienza visiva, trovò invece imgli preparati spettatori, e Fantasia fu riconosciuto il capolavoro che tutti noi oggi apprezziamo molto tempo dopo la sua uscita. Nonostante l’apparente crisi, l’autore continuò a perseverare sulla

strada del lungometraggio con una straordinaria celerità. Nell’ottobre del 1941 uscì Dumbo. Sarebbe mancato poco più di un mese al tragico attacco di Pearl Harbor, e i venti di guerra iniziavano a fare capolino anche nello svolgimento delle storie di Disney. In Dumbo infatti, una delle scene più tragiche di tutta la pluridecennale produzione dello Studio, vedeva lo strapparsi del piccolo elefantino dal legame viscerale con la propria mamma. A poco servì l’allegra combriccola del Quartetto Cetra, partecipe alla localizzazione delle canzoni del film quando uscì in Italia, sette anni dopo, a smorzare il trauma della cupa scena. E proprio un caso non deve essere stato se l’anno successivo, in quello che oggi viene catalogato come il quinto grande classico dello Studio, si può rintracciare l’altra grande sequenza drammatica che ogni spettatore al mondo ricorda tra gli unici episodi tristi della pirotecnica epopea disneyana. Nel 1942, infatti, arriva al cinema Bambi. Chi, come tanti fra i nostri lettori l’avrà visto da bambino, non può non ricordarsi con un nodo in gola la celebre scena della morte della mamma, altro momento topico della cifra drammatica di casa Disney, che

In alto, da sinistra a destra, la locandina del lungometraggio animato “Bambi” uscito nelle sale americane nel 1942, e Walt Disney ritratto insieme alle sue creature animate: Pippo, Topolino e Paperino


da allora, almeno sotto questo punto di vista, non ha mai più raggiunto tali livelli di tensione.

In realtà la regia asseconda la sceneggiatura proprio come se si trattasse di un film con attori in carne ed ossa. Una corsa disperata per il bosco, il rumore di uno sparo. Bambi si gira, ed è solo. Nessuna battuta esplicativa (non c’è nessuno che dice al piccolo cerbiatto “mi dispiace per la mamma”), nessun campo lungo su un corpo esamine. L’ellissi narrativa colpisce perfettamente nel segno, fin troppo comprensibile anche dallo spettatore più ingenuo. È il senso della morte, della vita che se ne va, della mancanza. L’ineluttabilità di una sicurezza perduta, di dover camminare sulle proprie, malferme gambe senza più poter far conto sul rassicurante volto di sempre. È solo l’apice della immedesimazione degli sceneggiatori con i tempi bui che l’umanità sta vivendo. La scena fu talmente ben realizzata che, a distanza di anni, gli sceneggiatori de Il re leone hanno ammesso di aver voluto far morire il vecchio re Mufasa mostrando con violenza l’intera scena mai avrebbero potuto ricreare lo stesso pathos ellittico che ha impresso Bambi nella mente degli spettatori di ogni tempo. Se si ripercorre l’intera storia di Bambi, si scoprirà come tutto lo script è impregnato fortemente del sentimento dei tempi. Di Zeitgeist parla l’intera sceneggiatura, la prima in assoluto e la sola di casa Disney, insieme a Il re leone - che non presenta nemmeno una figura umana per tutto la sua durata. La presenza dell’uomo c’è, si avverte, ma unicamente in chiave negativa. È il cacciatore da cui bisogna scappare, l’elemento che turba, sconvolgendola, la tranquilla e quieta routine della foresta. Uccide la madre, incendia il bosco, sguinzaglia i propri famelici cani alla ricerca dei cerbiatti. Il branco di segugi sono le uniche figure di animali prive di grazia del mondo di Bambi, e sono le uniche che lavorano a servizio dell’uomo. Significativamente mancano della parola, abbaiano, ringhiano: sono i soli a non poter parlare. Il rifiuto della rappresentazione della figura umana è tra le caratteristiche principali del film. Gli animali in Bambi sono quelli che meno riprendono quelle caratteristiche di antropomorfismo che hanno reso celebre il marchio di Burbank. Basti pensare all’allegra combriccola dei Topolino, Paperino, Pippo e via discorrendo.Topi con le bretelle, paperi con il cappello, cani con la giacchetta. Niente di tutto questo c’è in Bambi, che per lunghi tratti assume quasi le caratteristiche di un lieve documentario sulla natura. E anche se il racconto risente del tempo di guerra, l’ottimismo, tipico dell’eccezionali-

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o stesso giorno...

L’oro di Federica A Pechino nasce lo stile libero di una sirena di Francesco Lo Dico n autentico tuffo nella storia recente, quello di Federica Pellegrini, che il 13 agosto di due anni fa si aggiudica la prima medaglia d’oro del nuoto femminile italiano alle Olimpiadi di Pechino. Impegnata nei duecento metri stile libero, la bella di Mirano vince i 200m, in una gara memorabile che la vede raggiungere la seconda posizione ai cinquanta metri, per poi conquistare la testa alla virata dei cento resistendo al disperato recupero delle avversarie nelle ultime due vasche. Ma oltre al gradino più alto del podio, c’è anche il solenne proclama del cronometro che segna 1’54”82: il nuovo record del mondo. Argento alla slovena Sara Isakovic in 1’54”97, bronzo alla cinese Pang Jiayimg in 1’55,”05. «Nei 400 non ero riuscita a dimostrare quello che valevo – commenta lei a caldo dopo aver mancato l’affermazione nei 400 – Per

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smo statunitense di cui tutta la produzione di Disney è impregnata, alla fine emerge come immancabile vincitore. Lo incarna Tamburino, il coniglietto amico per la pelle di Bambi, al quale la vita scoppia in fondo al cuore, lo incarna l’andamento ciclico della storia, che parte da una nascita, quella di Bambi per l’appunto, e con una nascita si con-

La bella di Mirano vince i 200, in una gara memorabile che prima la vede raggiungere la seconda posizione, e poi conquistare la testa alla virata dei 100 resistendo al recupero delle avversarie

questa gara sia il mio presidente sia il tecnico Castagnetti mi hanno detto di dare tutto, senza pensarci». Fede, corpo da sirena, un metro e 77 per 59 chili, capelli lunghi biondo cenere e appena vent’anni compiuti proprio a Pechino, è nata e cresciuta in piscina. «Da piccolissima – commenta lei all’indomani del trionfo – già prima che avessi un anno mia mamma mi portava in piscina a fare le attività per neonati. Da allora ci sono sempre andata, grazie ovviamente alla pazienza dei miei genitori che hanno continuato ad accompagnarmi. A quell’età ho anche iniziato a sognare di arrivare dove sono ora, per me questo è quindi proprio un sogno che si avvera». La ragazza l’ha inseguito a costo di grandi sacrifici. Dopo i primi successi conseguiti sotto la guida di Max Di Mito alla Serenissima Nuoto di Mestre,

Gli sceneggiatori della Disney resero intimamente propria la favola bucolica dell’austriaco Felix Salten, alla quale si ispirarono, datata 1923 e intitolata Bambi, ein leben im Walde, ovvero Bambi, la vita di un capriolo. Dalle opere dello stesso scrittore la Disney trasse altri due cartoni animati. Ma basterà leggerne i titoli, Perri, del 1957, e Geremia,

con incredibile entusiasmo. La verosimiglianza sbalordì al punto tale che i pochi critici dissero che si sarebbero potuti risparmiare fior di quattrini utilizzando animali veri per ottenere lo stesso risultato. Ma lo sforzo produttivo fu talmente elevato che solo la riedizione del 1948, anno nel quale, come già accennato, arrivò anche in Italia, permise allo Studio di rientrare delle spese sostenute per la sua realizzazione. Nel tempo, comunque, tra homevideo e merchandising, il film ha portato lauti guadagni nelle casse della Disney. La perfezione e la pulizia del disegno, l’asciuttezza della trama e la splendida compenetrazione tra musica e imche magini, danzano armonizzandosi sullo stesso ritmo, hanno reso infatti Bambi un prodotto che, sia pur datato, non ha particolarmente risentito del passare del tempo. Anzi, il mito di Bambi continua ad essere fra i pilastri fondativi del carisma che la Disney continua tutt’oggi a esercitare in tutto il mondo.Tanto che nel 2006 la tentazione ha preso il sopravvento, e lo Studio ha fatto uscire un midquel del film, Bambi e il grande principe della foresta.

Gli sceneggiatori della Disney resero intimamente propria la favola bucolica dell’austriaco Felix Salten, alla quale si ispirarono. La perfezione e la pulizia del disegno, l’asciuttezza della trama e lo splendido mix di musica e immagini, lo hanno reso un prodotto che non risente del passare del tempo

clude. È il figlio del protagonista, che vince sulla paura e sulla precarietà che l’uomo infonde alla storia, facendo ripartire, ancora, ineluttabile, l’eterno ciclo della vita.

cane e spia, del 1959, per accorgersi che è al cerbiatto dai grandi occhi marroni che Salten deve tutta la propria popolarità. Il film colpì nel segno: nessun disegno animato era riuscito, fino ad allora, a rappresentare la natura con una tale delicatezza ed accuratezza, ed il pubblico lo accolse

passa alla Dds di Settimo Milanese, trasferendosi da Spinea, dove era cresciuta e dove vive ancora la sua famiglia, a Milano. Nel 2004, giovanissima, emerge come una delle atlete italiane della vasca più forti in circolazione e nello stesso anno si aggiudica l’argento alle Olimpiadi di Atene del 2004 nei 200m stile libero. Erano le prove tecniche di un trionfo. Fenomeno di costume. Griffato Botticelli.

Bambi 2 non è un sequel. Prende infatti le mosse proprio dalla drammatica scena della morte della mamma, per ricostruire quel lasso di tempo che intercorre da quando lasciamo il piccolo cucciolo di cerbiatto alle cure del padre, a quando lo ritroviamo con le corna spuntate a farsi carico di una famiglia in arrivo. Uscito in Europa nelle sale cinematografiche, i test del mercato americano si rivelarono un flop. Da qui la scelta di relegare il midquel esclusivamente al mercato dell’homevideo. Tra l’occasione di rinverdire un mito che forse non aveva bisogno di spin-off, e il rischio di rovinare l’immaginario collettivo nei confronti di un’opera che ha fatto storia, la strada imboccata è stata quella dell’indifferenza. Bambi 2 è (fortunatamente) ben presto passato nel dimenticatoio, gettato nel cestino dagli inossidabili fan e passato inosservato agli occhi degli spettatori occasionali. L’originale ottenne ben 3 nominations agli Oscar del 1943: Miglior Canzone (Love is a Song di Frank Churchill, Miglior Sonoro, e Miglior Colonna Sonora. Walt Disney nel 1948, proprio per Bambi, fu insignito di uno speciale Golden Globe al merito. Ma chi se li ricorda? Il successo di Bambi negli anni non è stato possibile misurarlo monetizzandolo a suon di premi, nè tanto meno ha goduto di nuova linfa a seguito della scialba riproposizione. I 66 minuti dell’originale, al pari degli altri classici Disney tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40, godono di quell’aura di intaccabile magia che è il segreto essenziale dei primi lavori del maestro Walt. Una magia, probabilmente irripetibile.

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IL GIALLO

CAPITOLO 9 Il diritto di fare la morale Legami spezzati, sentimenti inconfessabili, due donne alla resa dei conti. Chissà se Jorio sapeva... di Carlo Chinawsky

ra Marina, al telefono. Tornai nella stanza. Conforti approfittò di quei minuti per far friggere la donna nell’attesa. Mi disse della pausa. Poi ripetè la domanda: «Ci parli di Patrizia Jorio». «Ma non era una mia amica… ». «Perché dice “era”? È morta?». Imbarazzo. Subito superato: «Non volevo dire questo, è che il mio italiano ogni tanto… ». «È ottimo il suo italiano. E lo sa bene», intervenni io. «Risponda al maresciallo, per favore». «Solo che non so che fine abbia fatto». Brutta espressione in quella disinibita neutralità. «Questo significa che è da molto che non la vede», riprese Conforti. Annuì. Donna navigata e navigante. «E del padre di Patrizia sa qualcosa? O è scomparso anche lui?». «Non so. Gliel’ho detto: è più mio marito che… ». «Già. Comunque ci dica: prima di Natale o subito dopo li ha visti insieme?». «Mi sembra». Quindi Jorio frequentava quel bar anche dopo essere stato allontanato dal giornale, che non era distante dal Samoa, ma era distante, e parecchio, da casa sua. Doveva avere una ragione precisa per vedere la figlia proprio lì. Altrimenti che senso aveva, dopo quel che era successo, rischiare di farsi vedere dai vecchi colleghi? Domanda di Conforti: «Prima di Natale o dopo?». «L’ho sentito dire ‘auguri piccola’,

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quindi… ». Poi rise: «Certe volte ho pensato che quella non fosse sua figlia». «Ma suo marito ci ha detto che lo era». Rapida la romena: «Magari quello si vergognava e diceva che era sua figlia mentre… ». «Si baciavano, si toccavano?». «No, questo no. Ma non è detto che… ». Maliziosa. Oppure, come si dice a Roma, ’na vorpona, un collo storto. «Lei ha figli?», domandai io. «No», e un’ombra che non era tristezza le passò sul viso. «In ogni caso lei è una donna con tanta esperienza… ». «Vuole dire vecchia?», ecco l’indignazione da diva di antica platea. «Come vanno gli affari al Samoa, signora?», chiesi.

Spiegò che andavano bene, che non poteva lamentarsi malgrado i due bar proprio di fronte... «E gli spacciatori», parve completare la frase Conforti. Rosalba Korete ficcò ancora una volta il suo sguardo nello spazio tra me e il maresciallo. E nella zona franca ci restò per alcuni secondi, mentre le sue gambe si accavallarono e si scavallarono due o tre volte. Calze fumè. Tacchi non a spillo ma quasi. Scarpe costose. «La zona è quella che è», la prese alla larga. «Quindi conosce tutti quei traffici… ». «Chi vive lì… ». «Eh già, lei abita due piani sopra», ragionò Conforti, «chissà che

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chiasso, anche la sera tardi… ». Al maresciallo non riusciva ancora il tono ironico-paternalistico. Col violino in spalla avrebbe steccato. Poco male. «La camera da letto dà sul cortile». «È fortunata». «Dormo tranquilla». «Non come quando s’era trasferita nel centro di Bucarest, dove… », e il maresciallo scelse di mettere tra una parola e l’altra pause teatrali. Lo guardò sospettosa. Poi puntò gli occhi verso di me. Un po’ d’aiuto da un coetaneo? «Dove»,proseguì il mio assistente, «lei fu arrestata tre volte: due per prostituzione e una per furto». «Si faceva la fame. Lei è troppo giovane per capire»,sbuffò. Le avevamo appena servito il primo piattino avvelenato. «Io invece non sono così giovane», intervenni, «ricordo bene l’Europa comunista. Ci sono anche stato, nel suo Paese. E so che c’erano appartamentini a disposizione di certi funzionari di partito… loro chiudevano un occhio… si servivano, come a un minimarket esclusivo… ma per lei le cose devono essere andate male… ». «È così, infatti», s’affrettò a confermare. «Ci spieghi».«Là a governare erano le bugie… e solo perché avevo un’amica o due che… insomma, se lei ci è stato, in Romania, conoscerà i sospetti, i ricatti… non si salvava nessuno da quello schifo».

Doveva avere una ragione precisa per vedere la figlia proprio lì. Altrimenti che senso aveva, dopo quel che era successo, rischiare di farsi vedere dai vecchi colleghi? «Certe volte ho pensato che quella non fosse sua figlia, magari perché si vergognava» Francamente non ho mai capito perché la prostituzione, i locali per spogliarelliste, gli eros center e così via dovessero e debbano essere considerati le bandiere, anche se non le uniche, della democrazia occidentale. Ma anche questo non interessava più di tanto la bucarestina dalle cosce forti e il profumo acidulo? «Insomma, lei non c’entrava per niente? Tutta colpa di un’amicizia innocente… ». Alzò le spalle: «Tanto so che lei non mi crede. Per voi che siete nati qui è tutto diverso. La nostra vita è vera solo se la leggete nei libri». «Potrebbe aver ragione, signora. Ma non è questo il punto. Il passato di una persona non ci condiziona più di tanto. Si può sempre cambiare. «Si stava annoiando? Rosalba forse era una di quelle persone che staccano l’audio a comando. Continuai: «Lei l’ha cambiata la vita dopo essere arrivata in Italia?». Con il tono della voce più basso ma più duro disse

che nessuno aveva il diritto di chiamarla puttana: «Né di regime né in proprio».

Le sue erano parole rivolte a se stessa prima che a noi. Noi che volevamo notizie d’altro tipo. Però doveva rimanere inchiodata alla sedia e parlare di sé. Operazione denudamento. Sconveniente, lo so bene, ma si deve fare. «Non sono cambiata per il semplice fatto che non sono stata quel che voi pensate… ». Funambola la Korete, anche con la nostra lingua. I verbi tutti al posto giusto. «E il furto?», intervenne Conforti, «Lei è stata arrestata per aver sfilato un portafogli in un locale notturno, ovviamente clandestino. Molto ingenua, visto che la vittima era un funzionario di partito… ». «Mi hanno incastrata. Motivi politici». Frase che significava tutto e niente. Pensarla così ingenua, anche a quei tempi, mi pareva azzardato. In un altro momento avrei avuto voglia di sentire la


LA PERDUTA GENTE Uscii dalla stanza e parlai con lui, almeno per un quarto d’ora. Mi consegnò dei fogli. La perquisizione c’era stata. Con sorprese. Tornai a sedermi accanto al maresciallo Conforti. Lei mi guardava. Aveva intuito. «Lei e suo marito spacciate al Samoa?»

Illustrazione di Michelangelo Pace sua versione. Le avrei chiesto com’era arredato quel locale di Bucarest, chi c’era, com’era vestita lei, la sua amica, come fossero le cravatte dei suoi nemici. Era un “Saloon Kitty” o un ambiente grigio da eros staliniano? E poi: chi gestiva il gioco? Una maitresse popputa e con le labbra vistosamente rosse come nei film di maniera oppure un funzionarietto ultrafidato del partito, con camicia di terital e scarpe comprate a Berlino est o a Mosca? C’era più afrore di femmina o più tanfo di divise militari? Era tutto da immaginare quel riposo dei guerrieri-torturatori-inquisitori-spie, zelanti nell’obbedire e titolari del diritto ad accedere ai piaceri della decadenza occidentale: la doppia libidine, quella che sorregge i totem dei regimi totalitari. «Molte persone dicono di essere incastrate. Lei lo sa… le versioni sono sempre tante, una annulla l’altra… ». «Ma voi che ne sapete della vita che si faceva nella Romania di quegli anni? È forse un marchio… quello che si mette alle vacche… essere nata a Bucarest? È un’infamia».

La prima fase dell’interrogatorio di Rosalba Korete Corsetti sarebbe finita con quella parola barocca. Una bella pièce, in mano a un buon scrittore. Ma si affacciò alla porta un collega, tarchiato e

mascellone, con gli occhi chiarissimi e bovini. Uscii dalla stanza e parlai con lui, almeno per un quarto d’ora. Mi consegnò dei fogli. La perquisizione c’era stata. Con sorprese. Tornai a sedermi accanto al maresciallo Conforti. Lei mi guardava. Aveva intuito. «Lei e suo marito spacciate droga al Samoa?», domandai. «No». «Ne è proprio sicura? È stata fatta una perquisizione. Suo marito è in stato di arresto. E lei pure, signora Korete». «Io non so niente». «Non ci credo», scossi il capo. «Pensi a quello che vuole, colonnello. Mi sembra d’essere tornata a Bucarest». A quel punto giocai al banale poker poliziesco e dissi che avevamo anche delle testimonianze che la mettevano al muro. Piegò il capo, mi apparve improvvisamente stanca. E indecisa dove guardare. Ormai lo spazio tra me e il maresciallo Conforti era diventato un burrone. «Potrebbe collaborare, signora», proposi. «In cambio dovrebbe rivelarci non il suo passato, ma le cose che a noi interessano di più». «Cioè?». «Patrizia Jorio», fece Conforti, con la biro tra le dita nervose. «Quel che sapevo l’ho detto». «Non del tutto. Era lei a venderle la roba, il padre pagava. Non sempre, ma… diciamo spesso, giusto?». «Lo trovavo indecente». «L’indecenza non s’appiccica mai a una sola persona, ma lasciamo stare». Alzata di

Nelle puntate precedenti L’onorevole Scorrano si è servito del finanziere Torchini per la scalata a “La Sera”. Jorio ne aveva avuto conferma dalla moglie del politico. È questo quanto emerge dal colloquio tra Stauder ed Ernesto Corradi. Il giornalista confida al colonnello che Jorio era entrato in possesso di un documento scottante sottratto dalla stessa moglie di Scorrano. Poi Stauder e Conforti interrogano Rosalba Korete, moglie del proprietario del bar Samoa. La donna racconta che Jorio e Patrizia si recavano spesso nel suo locale a chiacchierare spalle, viso irrigidito. A questo punto dovevo spingerla verso la strada per lei più imbarazzante: «Lei e Patrizia avete vissuto insieme, nell’appartamento del secondo piano». Se arrossì non me ne accorsi. Merito del fondotinta? Nel suo Paese aveva imparato a simulare. Ma i suoi occhi risposero: «Vita privata. La mia vi-

ta privata». «Suo marito per un lungo periodo ha dormito nella stanzetta adiacente il locale… ». «Ah, lui… ». Ma che voleva dire? Che la compiaceva in quella passione? Che aveva fatto tre passi indietro non avendo la forza o il coraggio di fare tre passi avanti e sbarrare una strada che probabilmente già conosceva bene? «Lei amava Patrizia, non è così?». Disse sì: con la voce, con gli occhi, col movimento del capo. E si mise in attesa di un giudizio, anzi di una condanna. La storia forse si stava ripetendo: tempo prima a Bucarest, anche lì incastrata per un’amicizia femminile, oggi a Milano dove certe libertà si consumano più facilmente ma hanno sempre un prezzo alto, anche se nella camera da letto che s’affaccia sul cortile non ci sono meccanismi di ascolto spionistico ma solo una complicata contabilità coniugale che appesantisce l’anima. «E poi se n’è andata… ». Mi riferivo a Patrizia, ovviamente. La ragazza che sfrutta una situazione, riesce ad avere gratis le sostanze che crede possano fornirle un “altrove”. Ma era così davvero? Mi chiesi perché si dovesse sempre trovare una spiegazione fuori dal cono dei sentimenti socialmente accettati, regolati, consacrati, rispettati. «Ha sofferto, signora Korete?», domandai mentre Conforti oscillava tra la curiosità e lo stupore, e se ne stava zitto e coi muscoli contratti.

Non s’aspettava una piroetta da circo in quell’interrogatorio. «Sono affari miei e lei lo sa benissimo». «Fino a un certo punto. Non ho nulla da obiettare sui suoi legami sentimentali con Patrizia… sa, conosco la madre e… ». «Io sostituta della madre?», ecco lo scatto. «La smetta di fare lo psicologo, faccia solo il poliziotto per favore!». «Mi limito a quello. Che ne dice della droga data a una ragazza pur di tenerla accanto a sé?». «Non era quello il nostro legame. Non lo consideri così squallido… se una donna ama una donna tutto è merda, eh?». «Quello che ha in testa o nel cuore io non lo conoscerò mai», alzai la voce. «Ma nessuno mi impedisce… nessuno, ha capito? di infilare le mani in una situazione marcia… e non mi dica adesso che le sue erano grandi o nobili illusioni! Di nobile qui non c’è proprio niente. Sono dentro una storia dove nessuno è innocente. Prima un uomo che compra cocaina per la figlia, poi una cinquantenne che s’incapriccia d’una ragazza e sa bene come ti-

rare il guinzaglio, il marito che dorme in un’altra stanza continuando a condurre i suoi affarucoli, il Samoa come centro di spaccio… ma mi dica, lei è in grado di fare lezioni su cosa è normale e su cosa non lo è?». «È lei che fa lezioni», e alzò lo sguardo, come se dovesse spiccare un salto e graffiarmi la faccia. «Le lezioni della legge. Punto e basta. Risponda: per quanto tempo Patrizia è stata da lei?». «Sei mesi». «Suo padre sapeva?». «No, non credo». «Patrizia se n’è andata o è lei che l’ha mandata via, magari per gelosia o altro?». «È stata una sua decisione. L’ho rispettata». «Però l’ha cercata. E tanto. Nessuna notizia di lei? Con chi vive adesso? E dove?». «Questo non lo so. Per me è come morta». «A noi interessa rintracciare Patrizia. Solo questo». «È nei guai?», chiese. Le sue pupille si dilatarono, le sue dita s’innervosirono sulla gonna color lilla, ormai stropicciata. «La mia indagine è sulla morte di Alcide Jorio. Devo incontrare la figlia». «Ma è morto?». «È chiaro anche», continuai, «che dobbiamo occuparci del traffico di sostanze stupefacenti nel locale gestito da lei e da suo marito». «E se le dicessi, come le ho già detto, che non ne so più niente di quella?». Ora la chiamava “quella”. Sindrome da abbandono? Rancore? «Scendiamo a patti. Non si scherza con lo spaccio di droghe, lei lo sa». «Patti?». Un accordo. Lei ha capito perfettamente». Immediata la reazione: «Ho il suo numero di cellulare. Ma non risponde». «È scappata con qualche coetaneo?». «Non lo so. Se n’è andata e basta». «Anche se lo sapesse non accetterebbe mai di dirmelo. Però fa male, signora, la sua situazione è… ». «Non lo so! Come devo ripeterglielo?». «Veniamo al nostro accordo, allora». «Cioè?». Spiccato senso pratico, la romena. Era già stata abituata a quel tipo di transazioni? Certo è che fu veloce a fare i suoi conti. «Dia al maresciallo il numero di Patrizia Jorio». «Già, e a me che mi succede?», domandò, più rilassata di prima.

Le spiegai che avevamo bisogno di un riscontro, ossia trovare Patrizia. Poi le avremmo fatto avere un colloquio col magistrato. La nostra competenza finiva lì. O si fidava oppure rischiava, e lei sapeva bene quanto. Dalla borsetta sfilò un’agendina arancione, la sfogliò e dettò un numero. «E ora posso tornare a casa?».

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DIAMO I NUMERI Non si sa quanti fossero i fascinosi personaggi che recano in dono al Signore oro, incenso e mirra. E di sicuro, non erano neanche sovrani. Verità che abbiamo sotto gli occhi, ogni volta che leggiamo il Vangelo essun presepe sarebbe davvero completo senza l’arrivo dei tre Re Magi il 6 gennaio. I tre fascinosi personaggi che recano in dono al Signore appena nato oro, incenso e mirra, quel giorno compiono anche una bella tradizionale sfilata fino in Piazza San Pietro, e un’altra a Milano. Peccato però che i magi non sono tre. E se è per questo non sono neanche re. Non c’è scritto da nessuna parte quanti siano, né il loro nome. È una cosa che abbiamo sotto gli occhi ogni volta che leggiamo il Vangelo quando parla di loro, di Erode, del viaggio a Betlemme seguendo la “stella”, eppure siamo talmente abituati all’idea che siano tre (possibilmente uno di colore) che ci immaginiamo visivamente la scena, magari ispirandoci ai tanti film e alle infinite opere d’arte che la raffigurano, senza fare minimamente caso al fatto che in realtà sul loro numero non viene data alcuna indicazione. E anche a Milano, nella basilica di Sant’Eustorgio che in passato vantava la tomba dei Magi e oggi da un secolo ha riottenuto dal Duomo di Colonia alcuni frammenti ossei, accanto al sarcofago c’è scritto “Sepulcrum trium magium”(tomba dei tre magi).

Magi a bizzeffe

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Molti alberghi e ristoranti europei si chiamano “Ai tre re”o “Alle tre corone” riprendendo la tradizione di locande che si trovavano sul percorso fatto dalle reliquie quando Federico Barbarossa le trasferì da Milano a Colonia. Eppure il Vangelo di Matteo, 2, 1-12, unica fonte biblica a descrivere l’episodio (che è assente anche nel Vangelo di Luca che invece narra la nascita di Gesù), è molto scarno: «Alcuni Magi giunsero dall’Oriente a Gerusalemme», al

All’opposto dell’immaginario, i re dell’Epifania non erano tre di Osvaldo Baldacci

loro arrivo i magi che avevano visto la stella della nascita del re dei giudei si recarono da Erode dove

Come riferisce Erodoto, con il termine di “magoi” si indicavano i sacerdoti astrologi della religione zoroastriana diffusa in Persia e Media. Dalla stessa parola deriva anche “magia” consultarono i sapienti; indirizzati a Betlemme in base alle Sacre Scritture, guidati ancora dalla stella trovarono Gesù e lo adorarono, e in sogno furono avvisati di non tornare da Erode, che nascondeva intenti omicidi. Torna-

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rono dunque alla loro patria per un’altra via che evitasse Gerusalemme. Per loro Matteo usa sempre nomi collettivi, senza mai dare specificazioni personali, sul numero e sui nomi, e in quanto alla status parla appunto di Magi e mai di sovrani. Con il termine di magi (greco “magoi”) si indicavano soprattutto sacerdoti astrologi della religione zoroastriana diffusa in Persia e Media, come riferisce anche Erodoto. Da quel termine e da quanto girava intorno a questi personaggi deriva anche il termine di mago e di maghi, ma la tradizione cristiana ha preferito usare il plurale Magi proprio per distinguerlo da qualsiasi connotazione “stregonesca”. I Magi erano dunque sapienti, in qualche modo scienziati dell’epoca anche se in terre di confine con la magia, erano aristocratici e soprattutto erano sacerdoti, alti quadri ecclesiastici di una religione che comunque era meno lontana dal giudaismo rispetto a

molte altre, credendo in un dio buono che combatte un dio cattivo e peraltro con la tradizione“favorevole” che raccontava come Ciro di Persia avesse liberato gli ebrei da Babilonia. Dal racconto evangelico comunque è chiaro che i Magi in Israele sono stranieri e non di religione ebraica, pur essendo la prima autorità religiosa a riconoscere Gesù – secondo un’interpretazione classica dei doni portati – nella sua autorità regale (rappresentata dall’oro), divina (l’incenso) e profetica (la mirra, un unguento che per altri indica l’umanità di Gesù e prefigura la sua morte). Sebbene una antica tradizione faccia della caldea Babilonia la loro sede di origine, e compaia spesso un riferimento anche all’Arabia e a volte all’India, tutto fa pensare che questi magi venissero dalla Persia (il Vangelo dice chiaramente che venivano “dall’Oriente”), smentendo un’altra interpretazione tradizionale che li rende

prefigurazione di tutti i popoli extra-ebraici e perciò tende a mostrarli come provenienti dai tre continenti, tanto che Baldassarre è spesso un moro per rappresentare l’Africa, mentre a volte Gaspare ha tratti asiatici, e Melchiorre viene più marcatamente raffigurato come europeo. Spesso i tre magi sono stati anche utilizzati per raffigurare le tre età dell’uomo. Nel Vangelo i doni che portano sono chiaramente tre (oro, incenso e mirra) e forse è proprio a partire da questo che il numero è stato trasferito sui loro portatori. Ma appunto il numero è tutt’altro che certo. Il primo a indicare in tre il numero dei magi sembra essere stato Origene (185-253 ca), seguito da Papa Leone I nei suoi sermoni. Ma nelle prime comparse il numero dei magi era assai più variabile, come nelle antichissime testimonianze romane, nelle catacombe forse già del II secolo d.C.: nel mausoleo del Laterano i magi sono tre, ma nell’affresco nel cimitero dei Santi Pietro e Marcellino sono due, e nelle catacombe di Domitilla quattro. La tradizione siriaca e armena ne elenca 12 che offrono i doni a gruppi di 4, con nomi di origine iranica: Zarvandes, Hormisdas, Gunasphus, Arsaces, Maruchus, Assuerus, Sardalachus, Merodachus, Zarvandades, Orrhoes, Artaxestes, Estunabudanes.

Qualche dato in più sui magi compare nei Vangeli apocrifi, con il loro gusto per il folklore. Nel Vangelo dell’infanzia armeno, del IV secolo, per la prima volta un testo del genere afferma che i magi erano tre (ma accompagnati da 12 generali e 12mila soldati) e re, e compaiono i nomi che poi si affermeranno in occidente: dei tre re fratelli, il primo Melkon, regnava sui persiani, il secondo, Balthasar, regnava sugli indiani, e il terzo, Gaspar, possedeva il paese degli arabi. Sembra che già in precedenza il Vangelo degli Ebrei, del II secolo però perduto, parlasse di «indovini dal colorito scuro e dai calzoni alle gambe, Melco, Caspare, Fadizarda». Anche i nomi dei Magi infatti hanno avuto una storia lunga e tortuosa e seguono varie tradizioni. Nel Libro della caverna dei tesori, del V secolo, i magi sono Hormidz di Makhodzi re di Persia, Jazdegerd re di Saba, Peroz re di Seba, mentre la versione etiopica li chiama Hor re di Persia, Basandes re di Saba, Karsundas re dell’Oriente. La più antica attestazione epigrafica viene da un monastero copto di fine VII secolo: Gaspare, Belchior, Bathesalsa. In Siria la comunità cristiana chiama i Magi Larvandad, Hormisdas e Gushnasaph. La tradizione occidentale, di cui abbiamo in parte seguito la nascita, risulta ormai stabilmente definita quando nel 1170 Pietro Comestore consacra i nomi di Melchiorre, Gaspare e Baldassarre. Ormai, si dava per scontato che i Magi fossero tre.


I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ ll’epoca dello splendore di Roma, i suoi imperatori vivevano in un’atmosfera di trionfo permanente. Tuttavia, due di loro, tra i più illustri, subirono delle cocenti sconfitte davanti a una città lontana, sperduta nei deserti della Mesopotamia: Hatra, città santa e piazzaforte dei Parti, oggi in territorio iracheno. Il primo vinto fu l’imperatore Traiano, nell’anno 117 dopo Cristo; il secondo, Settimo Severo, nel 198 dopo Cristo. Hatra fu, in origine, una città santa, consacrata al culto del dio-sole Shamash. Monete nel nome di Hatra di Shamash, affermano la supremazia di questo dio, chiamato “Nostro Signore”. Era il dio per eccellenza, che i popoli del Medio oriente veneravano con nomi diversi.

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HATRA Alla scoperta delle meraviglie dell’antica piazzaforte dei Parti consacrata in origine al culto di Shamash

Nella città del dio Sole di Rossella Fabiani

Centro di culto e di pellegrinaggio, Hatra si differenziava fondamentalmente, sotto questo aspetto, da Palmira, con la quale aveva tuttavia molte affinità. La città della regina Zenobia, si era infatti costituita subito come piazza commerciale, un luogo di posta per il traffico tra l’Oriente e l’Occidente. Tuttavia, nonostante il suo carattere essenzialmente religioso, Hatra non riuscì a sfuggire alle tentazioni del grande commercio e divenne, per così dire, una città polivalente. Molti luoghi santi dell’antichità sono divenuti così, con l’afflusso dei credenti, centri di commercio dove le mura, erette per difendere i templi e le loro ricchezze, custodivano anche una popolazione numerosa, venuta a mettersi al riparo sotto la protezione degli dei. La potenza dei Parti era essenzialmente dovuta al loro dominio della Via della Seta. È interessante osservare che l’area sacra – il temenos – servisse nello stesso tempo da mercato. Numerose sale, appoggiate alle mura e solitamente di un piano, erano magazzini e botteghe. Come non evocare, di fronte a questi suk che invadevano il santuario, i mercanti del tempio di Gerusalemme? Così la città santa ebbe una funzione commerciale importante, almeno in tarda epoca. Ciò venne chiaramente illustrato dalla scoperta fatta nel 1974. I servizi archeologici iracheni riportarono, infatti, alla luce un enorme edificio, la cui facciata era delimitata da colonne di tre metri di diametro e di almeno quindici metri di altezza. Su questa facciata sono apparsi due possenti rilievi: uno rappresenta un cammello accovacciato, l’altro una cammella che nutre il suo piccolo. Si resta confusi davanti a questa sorta di glorificazione della bestia che era già la regina dei deserti. Si potrebbe pensare che il magnifico edificio fosse un tempio offerto dai carovanieri. Al posto d’onore, in fondo al te-

teon era ingombro di divinità la cui natura è in un certo senso inquietante. Esse esprimono un antico substrato di credenze babilonesi, ma hanno assunto, per lo più, attributi e visi greci. Hatra è stata dunque teatro di una fusione religiosa e artistica al tempo stesso. Come era celebrato il culto del dio supremo Shamash? È stata avanzata l’ipotesi che il sole divinizzato non fosse raffigurato in una statua, ma che il suo culto consistesse nella conservazione perpetua, su un altare, di una fiamma sacra. Così il tempio di Shamash avrebbe potuto essere una specie di tempio del Fuoco, sul tipo dei templi di Zoroastro. La raccolta di sculture messa insieme nel corso degli scavi è notevole. Si tratta di un’arte essenzialmente religiosa e in questo si differenzia dall’arte di Palmira, arte soprattutto funeraria, che esprime l’orgoglio dei patrizi della città, arricchiti dal commercio e preoccupati di lasciare un’immagine di sé ai posteri. Gli abitanti di Hatra, benché portati ai com-

Si sa ancora poco delle divinità cui erano dedicati gli edifici sacri, ma le sculture ritrovate rivelano un complesso substrato di credenze babilonesi e greche merci fruttuosi, volevano mostrare la loro pietà, fossero essi re, semplicemente cittadini o pellegrini. Tutte le raffigurazioni scolpite sono soggette alla rigorosa legge della frontalità, cioè i corpi non escono mai dall’asse con flessioni laterali. Tuttavia, l’impressione che se ne ricava non è mai di rigidità, ma piuttosto un carattere di solennità, d’impassibilità e di spiritualità.

menos, s’innalza un monumento notevole, di ampiezza maestosa. Gli archeologi tedeschi lo chiamarono il gran palazzo, ma oggi è accertato che si tratta del grande tempio di Shamash: presenta una facciata di 115 metri di lunghezza e misura 23 metri di profondità. Si sviluppa intorno a due vasti iwan, ampie e alte sale coperte con un tetto a volta, a pianta rettangolare, aperte sul lato minore (come le tende dei nomadi) che dà sulla facciata. Uno dei due conduce al tempio propriamente detto: una sala rettangolare circonda-

In fondo al “temenos”, s’innalza un grande monumento. Oggi è accertato che si tratta di un tempio sacro ta da un corridoio, sobriamente decorata con colonne e caratteristiche maschere umane.Questa struttura, che s’ispira alla classica planimetria iranica, è decisamente greca nella decorazione. Così gli architetti parti hanno sempre associato le arti

dell’Oriente e dell’Occidente, ma, pur essendosi ispirati alle une e alle altre, ciononostante hanno creato opere originali. Si conoscono ancora poco i diversi dei a cui erano dedicati i templi di Hatra, ma si sa, grazie alle sculture ritrovate, che il pan-

Tutte le opere sono ravvivate dallo straordinario verismo dei particolari. I vestiti – tuniche, pantaloni, scarpe – sono riprodotti con minuzia fino alle perle e alle borchie che li ornavano. Acconciature, gioielli, armi si aggiungono a questa ricerca di autenticità. Guardando queste sculture, si ha l’impressione che i personaggi trasfigurino la pietra, diventando esseri in carne e ossa, che continuano a vivere nell’aldilà. In questo mondo spento da lunghi secoli, tutte queste raffigurazioni riesumate dalla terra che le aveva tanto lungamente sepolte, ci portano delle folate calde, degli strani aliti di vita. Gli scavi di Hatra ci rivelano la civiltà parta in tutto il suo splendore. Essi rappresentano nello stesso tempo una risurrezione e una rivelazione.

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CINEMA CALDO

V SEEAANN SS.. CCUUNNNNIINNGGH NEER RD DÌÌ 1133 DDII S HA AM M VEEN

Un tranquillo giorno di paura di Alessandro Boschi ggi è venerdì 13, e l’assist è servito su un piatto d’argento. Se siete al mare non ce ne vogliate, ma non è mica che le vacanze vadano sempre bene. A volte ci si diverte, si fanno nuove amicizie, ci si innamora perfino. A volte no. A volte si muore. Specialmente se si è giovani e se, regola numero uno, si fa sesso. E naturalmente se si è i protagonisti di un film horror. Per un veloce ripasso dei tòpoi del genere, di quelle cose che non si devono mai fare pena lo squartamento o se ti va bene la decapitazione, vi ricordiamo le seguenti basilari regole: 1Non bisogna mai fare sesso (appunto). In questo Venerdì 13 docet. Da allora molte coppie nei film horror vengono uccise subito dopo l’atto. 2- Non bere in maniera smodata e non fare in alcun modo uso di droghe perché è peccato e spesso si finisce a fare sesso con una rapida riproposizione della regola numero 1. 3Forse la più importante e implacabile: mai dire “Torno subito”perché non accade mai, si rimane soli e la frittata è fatta. Se però volete un rapporto più dettagliato vi consigliamo caldamente la serie Scream diretta da quel geniaccio di Wes Craven. Che del produttore e regista di Venerdì 13, Sean S. Cunningham, è complice e sodale di un’altra tranquillizzante pellicola intitolata L’ultima casa a sinistra.

O

Anche nel genere horror, gira che ti rigira, ci si conosce tutti. Altro amico in comune dei due succitati registi è Tom Savini, che chiunque abbia visto un film di George A. Romero, nella fattispecie la saga Zombie, non può non conoscere. È proprio lui che in Venerdì 13, da sotto la branda, infila la gola di un giovanissimo Kevin Bacon con uno spunzone che buca materasso e rete e aorta. Pare che durante le riprese la pompa a pressione del marchingegno, quella che avrebbe dovuto far zampillare il sangue, si fosse rotta e allora il buon Tom, da bravo artigiano, si è applicato soffiando a più non posso per fare uscire plasma a fiotti. Che per la cronaca non era succo di pomodoro (troppo denso) ma sangue vero di pecora.Ve lo diciamo prima, se andiamo avanti così non la finiamo più a raccontare aneddoti e curiosità, ma siccome vorremmo parlarvi anche di altre cose diremo soltanto che film come quello in oggetto, Halloween e Nightmare, Scream e non solo, si citano e si prendono in giro in continuazione. Ad esempio il coltello di Scream è dello stesso tipo di quello usato da Pamela Voorhees, la mamma di Jason (ci arriviamo, ci arriviamo) in Venerdì 13. Oppure, sempre in Scream, il bidello della scuola, che se non ricordiamo male era interpretato proprio da Wes Craven, indossa gli stessi abiti di Freddy Kruger, l’affilato protagonista di Nightmare. Ok, basta così, fateci solo dire che l’interprete del-

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la serie Nightmare, quello che dà a Freddy il raccapricciante ghigno è Robert Englund, che ha una piccolissima quasi invisibile parte in Un mercoledì da leoni, altro film estivo a noi molto caro. Venerdì 13 era nato come un film piccolissimo e indipendente che nasceva sulla scia del successo ottenuto dal maestro dei maestri John Carpenter con Hal-

loween, la notte delle streghe. Tutto succede in un campeggio, nella realtà un vero campeggio di boy scout, dove alcuni giovani vanno a lavorare. Senza sapere, poveri loro, che molti anni prima, nel lontano 1958, in quel luogo era successa una tragedia: due gio-

della disattenzione dei ragazzi del camping che avrebbero dovuto prendersi cura di lui (e che invece trasgredivano la regola n.1).

Tutte le ragazze che la sfangano (più o meno) vengono definite nel gergo le final girl. Alice, final girl tosta e battagliera, riesce a fuggire dopo avere decapitato la signora interpretata dalla ancora bellissima Betsy Palmer, una specie di Doris Day solo meno spaventosa. Ma non è ancora finita, perché quando tutto sembra essersi risolto per il meglio, con le forze dell’ordine che stanno recuperando la sopravvissuta che galleggia su Crystal Lake a bordo di una canoa, un bambino deforme, Jason of course, balza fuori dalle acque e trascina sotto la povera Alice. Che però si risveglia nel letto di un ospedale. È stato tutto un sogno? No, perché i suoi amici sono stati davvero assassinati. Capostipite o quasi del genere slasher (to slash, ferire profondamente), Venerdì 13 fu acquistato dalla Paramount che lo trasformò in un successo planetario. «Quando mi dissero che avrebbero voluto farne un seguito – affermò poi il regista Cunningham – pensai che fosse la sciocchezza più grande del mondo. Mi sbagliavo, eccome se mi sbagliavo». Venerdì 13 ha avuto innumerevoli seguiti e imitazioni, proprio come La settimana enigmistica. Ma raramente si sono raggiunti i livelli (anche di genuina approssimazione) del primo episodio. Il paradosso è che poi il protagonista è diventato proprio il bambino morto, Jason, che nel corso degli anni si è di molto irrobustito diventando praticamente immortale. Si è persino arrivati a farlo combattere contro Freddy Kruger. Il che ci dimostra fino a che punto gli americani sanno spremere gli agrumi. Jason Voorhees, che nella fugace ma agghiacciante prima apparizione era interpretato da Ari Lehman, ha poi prestato la maschera, è il caso di dirlo, ad altri attori tra i quali il massiccio Ken Kirzinger. Jason ha anche una precisa data di nascita, 13 giugno 1946. Venerdì, naturalmente. La maschera da portiere di hockey è una delle più assurde e al tempo stesso riuscite trovate in fatto di travestimenti, al livello della maglia a righe di Freddy Kruger. Venerdì 13, al pari di tanti film horror americani (e poi non più solo americani) compie un’operazione semplicissima: trasforma un luogo di divertimento in un luogo di morte e trasforma una vittima in un assassino spietato e immortale. Al momento le vittime ammontano a oltre 120. Fossi in voi mi prenderei un albergo.

Il piccolo film indipendente dell’americano fu acquistato dalla Paramount che ne fece un grande successo. «Quando mi dissero che avrebbero fatto un seguito – ricorda il regista – pensai fosse una sciocchezza» vani che si erano appartati (regola numero 1) erano stati barbaramente uccisi. Il delitto era rimasto irrisolto e Crystal Lake da quel momento era stato denominato dagli abitanti della zona “il mattatoio”. In originale bloody camp. I ragazzi, ignari del preoccupante curriculum, iniziano la loro brevissima e cruenta avventura. Il giorno stesso dell’arrivo, venerdì 13 giugno, giorno del gatto nero, vengono massacrati a uno a uno. In realtà Alice, interpretata da Adrienne King, riuscirà a salvarsi. Scoprirà anche che l’assassino è una donna, la mamma di Jason Voorhees, un bambino che molti anni prima era affogato nel lago a causa


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

Forti e gravi preoccupazioni sul futuro della sanità pubblica Condividiamo appieno le preoccupazioni dell’Anaao Assomed circa le “vere intenzioni” della Giunta regionale riguardo al servizio sanitario pubblico. L’associazione dei medici dirigenti denuncia come, dietro il piano di rientro dal deficit sanitario, si nasconda il progetto di favorire lobbies private, e che in questo contesto vadano lette sia la ventilata chiusura della cardiochirurgia del San Filippo Neri sia il ridimensionamento della stessa specialità del San Camillo. Un progetto al quale l’Associazione si opporrà con ogni mezzo. La lotta agli sprechi e alle inefficienze nel servizio sanitario della regione Lazio passa innanzitutto dal ridimensionamento della sanità privata e dal potenziamento delle strutture pubbliche. Occorre che le tante vertenze in atto sul territorio laziale in difesa dei presidi sanitari si connettano le une alle altre, in modo da favorire la più ampia opposizione ai provvedimenti del commissario di governo.

Ivano Peduzzi

PER IMPARARE A CONOSCERE, VIVERE E AMARE LA NATURA

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

Nato dalla collaborazione fra Norda e Lipu il nuovo sito www.unnuovolo.it è tutto dedicato alla famiglia che ama la natura. Il sito fornisce notizie utili per organizzare escursioni e gite in natura, osservare gli animali selvatici, rilassarsi, giocare all’aperto, fare un pic-nic. Eventi, fiere, sagre adatti alla famiglia o luoghi dove trascorrere un fine settimana diverso, a contatto con la natura. E se piove? Visitare il sito www.unnuovovolo.it diventa ancora più utile e divertente sia per i grandi che per i bambini. Si possono imparare a scoprire gli amici alati che abitano la montagna, tra cui l’aquila reale, oppure si può giocare a un gioco interattivo che consente di imparare quei comportamenti virtuosi che si dovrebbero tenere quando si va in natura. Come fare poi per imparare a riconoscere gli uccelli? Cliccando su “Indovina chi”si può risalire alla specie avvistata inserendo alcune informazioni sulle caratteristiche del becco, delle zampe e sulle dimensioni del volatile.

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

DISTRUGGERE SUBITO IL CAMPO OGM

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

LE VERITÀ NASCOSTE

Roberta Riva

È giusta la protesta degli agricoltori; fanno bene a protestare, quei campi vanno distrutti quanto prima. Quelle coltivazioni sono illegali e sono state fatte in spregio

agli agricoltori che in quell’area lavorano e vogliono continuare a farlo in modo Ogm-free . Si è trattato di un inaccettabile atto di prepotenza che rischia di mettere in pericolo l’agricoltura reale, contaminandola. I motivi per dire no agli Ogm sono molteplici, ma bisogna innanzitutto sgombrare il campo dalle bugie che vengono raccontate agli agricoltori, per convincerli che gli organismi geneticamente modificati siano l’Eldorado: a guadagnarci e arricchirsi, con gli Ogm, sono soltanto le multinazionali.

Ellezeta

IL DDL BUTTI-VITA SULLA TUTELA DEI CONTENUTI EDITORIALI Il presidente della Fieg, Carlo Malinconico, ha espresso il proprio apprezzamento per l’iniziativa legislativa promossa dal senatore Butti e sottoscritta, tra gli altri, dal senatore Vita, in materia di tutela dei contenuti editoriali. La proposta tende a chiarire definitivamente che fenomeni come quelli dell’uso indiscriminato dei contenuti dei giornali per la realizzazione, ad esempio, delle rassegne stampa, da quelle tradizionali cartacee alle più evolute forme diffuse per mezzo della posta elettronica o in televisione, così come quello dell’utilizzo dei contenuti giornalistici da parte dei motori di ricerca o degli aggregatori di notizie a fini, più o meno diretti, di

L’IMMAGINE

Lo accoltella per berne il sangue TUCSON. Tiffany Sutton, 24enne dell’Arizona ha ammesso la sua colpevolezza per aver accoltellato l’amante durante un festino a base di sesso, droga ed alcool. Tiffany Suttom e Robert McDaniel avevano consumato droga e alcol insieme in una baracca dietro una casa abbandonata, e l’uomo volontariamente aveva permesso alla sua scatenata compagna di legarlo al letto, ma si era preoccupato quando Tiffany ha tirato fuori un coltello, dicendo che le sarebbe piaciuto bere del sangue. La Sutton a quel punto ha procurato diverse ferite all’uomo, alle gambe e alle braccia, prima che l’uomo riuscisse a liberarsi, per ritrovarsi poi inseguito dalla ragazza con una piccone. Nella baracca è stato ritrovato anche un libro, L’ottavo cerchio, un riferimento a una dei gironi più bassi dell’opera letteraria di Dante L’inferno. La donna, anche se si è dichiarate colpevole, è stata condannata dal giudice a dieci anni di prigione, in quanto il crimine «è stato particolarmente efferato». L’avvocato di Tiffany Sutton ha dichiarato che la ragazza soffre di disturbi psichici: «durante le prime settimane in prigione, era convinta di essere un vampiro».

raccolta pubblicitaria, se non prevede un compenso per l’editore, costituisce, né più né meno, un abuso. In questo senso, il disegno di legge presentato dal senatore Butti costituisce, oltre che un contributo alla civiltà giuridica del nostro ordinamento in materia di tutela della proprietà intellettuale, anche un segnale importante da parte della politica verso gli editori e il loro lavoro.

Lettera firmata

IL PRINCIPIO DI CONTINUITÀ La salvaguardia del fondamentale principio di continuità territoriale con le isole minori, Eolie, Egadi, Pelagie, Ustica e Pantelleria, che consenta ai cittadini siciliani di spostarsi liberamente nel territorio, si poteva ottenere accettando il trasferimento della Siremar offerto gratuitamente dal governo nazionale e inspiegabilmente rifiutato da quello siciliano. La costituzione di Mediterranea Holding e l’aggiudicazione della gara per la privatizzazione di Tirrenia e Siremar è ben altra cosa e non c’entra proprio nulla né con la richiamata continuità territoriale con le isole minori, né con i 3mila posti di lavoro, che è il numero degli organi di tutte e cinque le società dell’ex Gruppo Tirrenia (quelli Siremar sono circa 450), e non presenta nessun tipo di analogia con Termini Imerese.

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FERMEZZA

Lucciole del Nebraska L’intensità della luce emessa dalle lucciole varia a seconda della specie (ne esistono circa 2000). Ma in tutti i casi, l’emissione luminosa è tipica dell’accoppiamento: i maschi, infatti, mandando segnali sia ritmici sia luminosi, cercano di attirare l’attenzione delle femmine

Le commemorazioni della strage di Bologna non necessitano la presenza delle istituzioni. Essere fischiati succede sempre, perché la gente vede nella presenza dello Stato il “mea culpa” di chi non ha saputo evitare il peggio, ma la sua assenza indica che non si sono parole nuove per rassicurare la gente che ha sofferto.

Bruna Rosso


mondo

pagina 18 • 13 agosto 2010

Turchia. Il premier minaccia le dimissioni in caso di sconfitta al voto del 2011. Lo aveva già fatto, ma questa volta rischia grosso

L’estate rovente di Erdogan Referendum a settembre, elezioni fra un anno. L’Akp si sta giocando tutto di Marta Ottaviani

ISTANBUL. Fra la campagna referendaria in corso, le tensioni con i militari e il Ramadan arrivato in un agosto caldo come non si vedeva da decenni, quella della Turchia non può essere definita in altro modo se non un’estate rovente. A rendere l’arena politica ancora più nervosa è stata la dichiarazione del premier islamicomoderato Recep Tayyip Erdogan, che ha promesso il ritiro dalla scena politica se non vincerà le elezioni per il rinnovo del parlamento, che si terranno nel 2011. A onore del vero Erdogan minaccia il ritiro in mancanza di risultati politici apprezzabili già da anni. Le volte scorse però il suo Akp aveva la vittoria politica in tasca, questa volta la partita se la dovrà giocare fino all’ultimo minuto e non sarà una competizione facile.

Per prima cosa questa volta il Chp, il Partito repubblicano del popolo e principale voce dell’opposizione, ha un leader degno di essere chiamato tale. Si chiama Kemal Kilicdaroglu e seppure non si tratti di un volto nuovo, ha ben 63 anni, calamita consensi sempre più crescenti nell’elettorato, che per anni non aveva potuto votare Chp a causa del vecchio segretario del Partito, Deniz Baykal, troppo appiattito sulle posizioni dei militari e della magistratura più kemalista. Sembra proprio che Kilicdaroglu abbia trovato le corde giuste da toccare, all’inizio di questo suo percorso da leader di partito. Nelle scorse settimane ha attaccato duramente l’Akp, il Partito islamicomoderato per la Giustizia e lo sviluppo, che detiene la maggioranza del parlamento in Turchia e che alle elezioni del 2007 ha guadagnato un quasi plebiscitario 46,6%. Per prima cosa ha fatto a pezzi la politica estera del premier, in un momento in cui gli serviva quanto mai coraggio, visto che ha attaccato Erdogan all’indomani dell’assalto alla Mavi Marmara da parte della marina israeliana, in cui sono morti nove cittadini di nazionalità turca (e proprio ieri Erdogan ha creato una sua commissione incaricata di indagare sull’attacco della Marina israeliana alla Freedom Flottilla per Gaza). Qualche

giorno dopo l’assalto e il no turco al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulle nuove sanzioni all’Iran, Kilicdaroglu ha parlato apertamente di “atteggiamento pericoloso” della politica estera turca, che rischiava di allontanare più che avvicinare Ankara da Bruxelles. Il nuovo leader dell’opposizione però subito dopo se l’è presa con una aspetto ben più sostanziale e che sta particolarmente a cuore alla popolazione: le misteriose ricchezze di Erdogan, divenute ancora più sostanziose da quando ha assunto la carica di capo del governo, nel 2002.

L’Akp ha cercato di rispondere al fuoco, ma senza risultati apprezzabili, anzi, al limite della brutta figura. Proprio in questi giorni uno dei maggiori esponenti del partito di maggioranza, il sindaco di Ankara Melih Gokcek, ha accusato Kilicdaroglu di essere il proprietario di una grande villa con piscina in una località di mare, per inciso nemmeno una di quelle più note della costa egea. Il quotidiano Hurriyet si è preso la briga di andare a controllare e il risultato è stato che Kilicdaroglu la casa al ma-

re ce l’ha sì, ma è un appartamento con due stanze e la piscina di fronte, condivisa con altre decine di famiglie, è più simile a una pozzanghera. Nulla a che vedere con la proprietà del premier nella celebre Antalya. Ma Erdogan deve tenere conto di altri due aspetti molto importanti per vincere la sua battaglia. Il primo è che i militari non sono più quelli di una volta e che per lui, suona strano a dirsi ma è così, potrebbe essere molto peggio. Se nel luglio del 2007 l’Akp portò a casa il 46,6% dei consensi infatti il merito fu in parte anche dell’atteggiamento dell’allora capo di Stato Maggiore Yasar Buyukanit, fautore di numerosi momenti di attrito con l’esecutivo e che in più di una volta ha fatto velato accenno al ricorso alle maniere forti, se il governo non si fosse dimostrato più collaborativo e meno propenso la mettere in pratica la sua presunta agenda islamica.

Il risultato fu che alle urne non si presentarono generazioni di persone grate alle forze armate per il ruolo svolto negli ultimi 30 anni nella vita civile dello Stato turco, ma migliaia di persone convinte di vivere in un Paese finalmente in cammino verso la piena democrazia e l’Unione Europea e che viveva nell’incubo di vedere un altro golpe. L’esercito negli ultimi anni è stato guidato da Ilker Basbug, pupillo di Bukykanit e che verrà ricordato nei libri di scuola perché si è trovato a guidare le forze armate in un periodo in cui sono state lanciate molte accuse (solo in parte fondate) per screditarle e perché per quattro anni ha mediato in modo impeccabile con

Ad incalzare il governo ci pensa l’opposizione: il Chp, il Partito repubblicano del popolo, ha un leader degno di essere chiamato tale. Si chiama Kemal Kilicdaroglu, ha 63 anni, e calamita consensi sempre più crescenti

un esecutivo sempre più determinato a mettere in atto la sua politica e che poteva anche contare su un presidente della Repubblica nelle mani dell’ex Akp, Abdullah Gul. Il secondo aspetto è che per la prima volta la leadership di Erdogan rischia di essere messa in discussione. Erdogan inizia a giocarsi la prima parte della partita, con il referendum del 12 settembre, che andrà e modificare una parte della Costituzione. Non tutto quello che avrebbe voluto il premier.

L’articolo che cambiava la legge sulla chiusura dei partiti glielo hanno bocciato i suoi parlamentari quando il pacchetto è stato votato dall’assemblea. La riforma della giustizia gliel’ha bocciata in parte la Corte Costituzionale. Il premier al momento si ritrova quindi una riforma dimezzata, ma che deve fare passare a tutti i costi a furia di lottare con le unghie e con i denti, in pieno Ramadan e con temperature tropicali. Perdere o anche solo ottenere una vittoria di misura, significherebbe dire che la partita per le prossime elezioni è sempre più aperta e incoraggiare l’opposizione a compattarsi e a studiare strategie nel caso in cui, dopo le urne, ci fossero le possibilità per un governo di coalizione. Per la Turchia significherebbe tornare al passato. Più garanzia di laicità, vero, ma anche il rischio di instabilità, un cammino più incerto verso l’Europa, un’economia meno liberale. Un passato che il Paese ha visto più volte dopo il 1980 e che lo aveva portato a votare Erdogan 2002.Tutte carte su cui il premier deve ancora cercare di puntare.


mondo

13 agosto 2010 • pagina 19

A sinistra, il premier turco Recep Tayyp Erdogan, a destra il presidente Abdullah Gul e sotto il leader dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu. Sotto, l’intellettuale turco Fetullah Gulen. A sinistra: la Mavi Marmara e Santa Sofia

È il più importante intellettuale turco e islamico vivente. Ha finanziato l’Akp. Ma oggi si allontana: ecco perché

Gulen: nemico o amico?

n tutta la ridda di commenti e analisi che dopo l’assalto alla Freedom Flotilla si sono sprecati dentro e fuori il Paese, vale la pena di soffermarsi su uno, non solo per l’autorevolezza di chi lo ha fatto, ma anche per le conseguenze che potrebbe implicare. Quello di Fetullah Gulen. Che è, con una grandissima semplificazione, volta a rendergli giustizia solo fino a un certo punto, un pensatore islamico. Probabilmente il più influente pensatore islamico turco vivente. Sicuramente quello con più potenti capacità economiche. Nei suoi 50 anni di attività Gulen ha scritto libri, fondato scuole con una precisa filosofia, si è fatto portatore di un pensiero il cui cardine è la “coesistenza pacifica” fra religioni diverse.

I

Un’opera, la sua, che gli ha portato molta più fortuna fuori la Turchia che a casa. Gulen infatti vive in esilio volontario negli Stati Uniti ormai da anni, celebrato da una rivista del calibro di Foreign Policy, come uno degli intellettuali più influenti a livello planetario e considerato in patria dalla fazione più laica della politica e della società civile turca come un’eminenza grigia, uno dei maggiori finanziatori di Erdogan e del suo progetto politico. Un male oscuro, che aiuterebbe il premier e il suo esecutivo a mettere in atto quell’agenda segreta volta all’islamizzazione strisciante della Turchia moderna. Con il suo quotidiano, Zaman, uno dei più venduti nel paese, Gulen ha più volte fatto da cassa di risonanza alle politiche dell’esecutivo. Questo almeno fino a circa un mese fa. Se c’è stato un commento infatti

che non solo non ha criticato Israele per la sua reazione, ma l’ha addirittura difeso, è stato il suo. Una virata clamorosa tanto quanto quella della politica internazionale turca. E la dimostrazione che all’interno dell’Akp, il Partito per la Giustizia e lo sviluppo, che detiene la maggioranza in Parlamento, ci sia un momento di contrasto, che potrebbe dare non pochi pensieri al premier islamico moderato.

Sono due infatti le anime che supportano, non solo idealmente, la formazione che dal 2002 guida il Paese della Mezzaluna. Una è il movimento di Fetullah Gulen, l’altro è il Milli Gorus, il movimento per la visione nazionale, fondato da Necmettin Erbakan, il capo indiscusso della destra ultraislamica turca, nonché padre politico e spirituale di Recep Tayyip Erdogan, Bulent Arinc e Abdullah Gul, fondatori dell’Akp e oggi rispettivamente primo ministro, vicepremier e presidente della Repubblica. Le differenze che hanno sempre contraddistinto questi due movimento sono sostanzialmente di impostazione. Il Milli Gorus è sempre stato molto radicato all’interno dei confini nazionali con una precisa missione politica, attivo in tutti le classi sociali, ma senza ambizioni universali, nonché avverso a tutte le forme di ricerca e svi-

luppo scientifico. Il movimento di Fetullah Gulen è esattamente l’opposto. Sono due modi diversi di vedere l’Islam politico e che fino a oggi hanno più o meno convissuto pacificamente, soprattutto dopo il trionfo elettorale dell’Akp alle politiche del luglio 2007, quando Erdogan portò a casa un 46,6% quasi plebiscitario. Da quel momento molte persone si erano in qualche modo sorprese dell’appoggio politico che Gülen aveva deciso di dare al premier islamico moderato. Per questo le parole del pensatore esule negli Stati Uniti sulla faccenda della Mavi Marmara sono state interpretate come un avvertimento a parte della maggioranza, in particolare a quella parte che fa capo al premier islamico-moderato e al Milli Gorus. Che, tradotto in termini pratici potrebbe significare due cose. Dal punto di vista esterno il far mancare appoggio economico alla prossima campagna elettorale, prevista prima dell’estate del 2011, ma con un’aria di elezioni anticipate che nel Paese si è già avvertita più volte. Dal punto di vista interno all’Akp, invece, ci potrebbe essere la scelta di favorire una parte politica che dia a Gulen maggiore affidabilità rispetto alla componente guidata dal premier Erdogan, che dopo i fatti della Mavi Marmara e del voto al Consiglio di Sicu-

rezza delle Nazioni Unite non sembrerebbe più in grado di mantenere quell’equilibrio fra est e Ovest che ha sempre caratterizzato il Paese della Mezzaluna e che soprattutto rischia di consegnare tutto l’Islam politico al Milli Gorus e alla sua filosofia, fatta anche di rapporti con associazioni come Hamas e i Fratelli Musulmani.

Secondo i maggiori analisti turchi, l’interlocutore a cui Gulen starebbe pensando ha un nome illustre e sarebbe niente meno che Abdullah Gul, compagno d’armi di Erdogan, che come il premier deve molto a Erbakan, ma che da quando è diventato presidente della Repubblica andrebbe molto poco d’accordo con il primo ministro. La dimostrazione che fra i due qualcosa si è rotto è arrivata il primo maggio, quando il premier islamico-moderato ha operato un rimpasto di governo dove gli uomini vicini al Capo dello Stato sono stati allontanati dalle posizioni chiave nel governo e relegati, chi più chi meno, a ruoli di secondo piano. Che il premier volesse diventare lui il capo dello Stato e non abbia potuto farlo perché con posizioni troppo controverse, è arci-noto a tutti, come anche che abbia fatto di tutto per sbarrare la strada a Gul. Quello che ancora in molti non riescono a capire è se la strana virata di Fetullah Gulen sia solo un avvertimento o l’inizio di un riposizionamento della componente politica dell’Islam turco, la dimostrazione che i tempi per un’alleanza fra le i due movimenti che rappresentano oggi la destra islamica turca non fossero maturi. (m.o.)


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Calamità. Il grano rimane una delle merci più pregiate del Paese opo giorni di totale il inefficienza, Cremlino batte un colpo. E, quanto meno, si mette in contatto e cerca di rassicurare la propria popolazione: il presidente russo Dmitri Medvedev ha infatti revocato lo stato di emergenza in tre delle sette regioni colpite dagli incendi di foreste e torbiere, ma ha ammesso che un quarto delle aziende collegate al mercato cerealicolo rischiano ora il fallimento. Il fuoco che ha devastato i raccolti pretende il proprio pedaggio. In ogni caso, il governo ha preferito glissare sulla preoccupante la situazione nei pressi del centro nucleare di Sarov, mentre non diminuiscono i timori che gli incendi nelle zone contaminate possano disperdere nell’aria materiali radioattivi. Parlando dal nord del Paese, in tono laconico, Medvedev ha detto: «Resta lo stato d’emergenza in quattro territori: le regioni di Mordovia, Mosca, Niznji Novgorod, Ryazan. È revocato invece nelle regioni di Vladimir, Mari El e di Voronezh, nella Russia centrale e occidentale». Il ministero delle Situazioni di Emergenza ha annunciato che il fronte degli incendi si è ridotto a 81mila ettari. Da luglio sono bruciati 800mila ettari di boschi, uccidendo 54 persone, secondo il bilancio ufficiale.

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La lotta contro le fiamme continua dunque nei pressi di Sarov, sede di un importante centro di ricerca nucleare, a 500 chilometri a est di Mosca. Nella zona è comparso ieri un nuovo focolaio d’incendio, ha detto il portavoce del ministero Mikhail Turkov, spiegando che sono stati inviati 70 uomini di rinforzo nell’area, che daranno manforte ai 3.400 che già combattono gli incendi

Russia, cala l’allerta ma crolla il mercato Medvedev revoca lo stato di emergenza e ammette: «Aziende vicine al fallimento» di Vincenzo Faccioli Pintozzi

se hanno confermato di aver evacuato i materiali fissili ed esplosivi dal centro, ma lunedì hanno annunciato di averli riportati nell’impianto, perchè le fiamme erano stato ufficialmente domate. L’altro grande motivo di preoccupazione è invece in Ucraina, dove il ministero delle Situazioni d’emergenza ha rivelato che vari ettari

Putin ha annunciato il blocco totale delle esportazioni dei cereali, che si aggiunge ai “ricatti energetici” voluti dal Cremlino nell’area da una settimana. «Due aerei e due elicotteri sono nell’area» ha aggiunto. È arrivato anche un treno speciale con grandi quantità d’acqua e potenti getti antincendio, mentre sono ancora interrotti i collegamenti ferroviari con Sarov. A terra i pompieri ammettono la loro impotenza. Nei giorni scorsi due militari hanno trovato la morte per il fuoco che dalla scorsa settimana assedia l’installazione atomica. Dopo aver negato i pericoli, solo il 4 agosto le autorità rus-

di torbiera sono in fiamme da tre giorni a 60 chilometri a sud della vecchia centrale di Chernobyl, teatro della più grande catastrofe nucleare civile della storia, avvenuta nel 1986. L’incendio scoppiato a Sosnivka, 60 chilometri a nord di Kiev, «non presenta pericoli» ha detto la portavoce del ministero Viktoria Ruban, ma non convince molto. L’Ucraina, come la vicina Russia, è in ginocchio per un’ondata di caldo senza precedenti accompagnata da incendi delle

Dieci anni fa la tragedia del sottomarino

Mosca ricorda il Kursk La marina russa e i familiari delle 118 vittime del sottomarino nucleare russo Kursk hanno commemorato ieri i loro congiunti e colleghi a dieci anni dalla catastrofe. I familiari hanno deposto fiori nell’omonima città di Kursk, a Murmansk e a San Pietroburgo, davanti alle tombe e ai monumento dedicati ai caduti. Almeno, ha detto il comandante della Flotta, Viaceslav Popov, citato dall’agenzia Interfax, i vertici della marina hanno tratto una lezione. «Le possibilità di salvataggio sono oggi considerevolmente migliori di dieci anni fa», ha dichiarato. Le famiglie delle vittime hanno ricevuto 720.000 rubli, pari a circa 29.000 euro. L’incidente si verificò il 12 agosto 2000 nel mare di Barent, sembra a causa di un siluro difettoso.

Buona parte dell’inchiesta è però rimasta secretata e non sono mai stati resi noti dei responsabili dei “piani alti”. «La perdita del Kursk - ha detto l’avvocato Boris Kuznezov, che rappresenta alcune delle famiglie delle vittime - è stato il risultato diretto della negligenza del comando della flotta», ma “istanze politiche” hanno insabbiato il caso. La commissione ufficiale d’inchiesta fu guidata dal procuratore generale Vladimir Ustinov, e concluse il 29 giugno 2002 che le esplosioni a bordo del sottomarino russo furono causate da un siluro difettoso, che innescò delle reazioni a catena. Inoltre, i superstiti morirono in circa otto ore dall’inizio dell’incidente e i soccorsi non sarebbero stati in grado di aiutare nessuno.

torbiere. Solo ieri il servizio russo di tutela delle foreste ha ammesso che da luglio gli incendi hanno devastato circa 4.000 ettari di boschi contaminati da materiali radioattivi, tra i quali 300 ettari nell’area di Bryansk, vicino a Chernobyl. Gli esperti russi e occidentali minimizzano i rischi legati alla propagazione dei materiali nucleari e l’ufficio meteo russo ha reso noto che i livelli di radioattività non sono aumentati.

Ma, anche se la questione nucleare sembra sotto controllo, scoppierà quanto prima la vera, grande tragedia collegata a incendi e siccità: la distruzione del raccolto di grano. Circa un quarto dell’intero raccolto russo è andato distrutto a causa degli incendi e della siccità provocata dall’eccezionale ondata di calore che si è abbattuta nelle ultime settimane sul Paese. E il fatto che a confermarlo sia stato proprio il presidente russo Dmitri Medvedev, sottolineando come molte aziende agricole siano vicine al fallimento, dimostra la gravità della situazione. «Ci troviamo - ha detto - di fronte a una situazione molto complicata perché in tutto il Paese circa un quarto del raccolto di grano è andato perduto», ha dichiarato Medvedev, aggiungendo che «molte aziende agricole sono sull’orlo della bancarotta». Alcuni giorni fa il primo ministro Vladimir Putin aveva annunciato un crollo nella produzione di grano in Russia, inferiore di ben 10 milioni di tonnellate rispetto alle previsioni iniziali. Alcuni giorni prima, lo stesso Putin aveva scosso i mercati internazionali con l’annuncio che dal 15 agosto la Russia bloccherà le esportazioni di grano per garantirsi adeguate riserve interne e mantenere bassi i prezzi del mercato interno. E il ricatto cerealicolo, questa volta inattaccabile dalla comunità internazionale, va ad aggiungersi al cappio della questione energetica che il Cremlino agita contro partner recalcitranti e governi occidentali troppo schizzinosi. La Russia esporta molto, soprattutto nei Paesi limitrofi, ai quali invia anche il gas necessario a superare i ghiacciati inverni dell’area. Se il prossimo anno, oltre le questioni energetiche con l’Ucraina, dovessero aggiungersi ripercussioni giustificate da questo crollo del grano, la situazione potrebbe aggravarsi di nuovo. Facendo rapidamente scordare l’incubo nucleare che lambisce, di nuovo, Chernobyl.


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Alcuni membri della Nazionale sarebbero nei gulag coreani

Sono 1.117 le vittime accertate fino a ieri dal governo centrale

La Fifa scrive a Pyongyang: «Dove sono i calciatori?»

Cina del sud, aumentano morti e dispersi per le alluvioni

SEOUL. La Fifa ha annunciato

PECHINO. Sono 1.117 i morti accertati a ieri per la frana di rocce, terra e fango che ha sommerso tre villaggi nella contea di Zhouqu (Gansu), ma almeno altri 627 sono tuttora “dispersi”. Ieri sono stati estratti dalle macerie altri 2 sopravvissuti e continuano le ricerche, anche se con speranze sempre minori. La pioggia continua a cadere, ostacolando i soccorsi di oltre 7mila militari e medici. Il Centro nazionale meteorologico dice che il pericolo di nuove frane è “relativamente ampio”, in una zona che lo sfruttamento irrazionale del suolo e delle risorse ha reso ad elevato rischio di simili disastri “naturali”. I soldati hanno usato esplosivi per modificare il

ieri di aver aperto un’inchiesta sulla sorte della Nazionale di calcio nordcoreana, che secondo alcune fonti è stata punita pubblicamente dopo l’umiliante sconfitta ai Campionati mondiali del Sud Africa. Il presidente della Federazione, Blatter, ha dichiarato di aver inviato una lettera all’Associazione calciatori della Corea del Nord per avere informazioni sull’umiliazione pubblica subita dalla squadra dopo il ritorno dal Mondiale e sulla presunta condanna ai lavori forzati per l’allenatore, Kim Jong-hun. La reprimenda è avvenuta lo scorso 2 luglio nel Palazzo della cultura del Popolo di Pyongyang, tre giorni dopo il ritorno a casa dei calciatori dal Sud Africa. I due calciatori di origine giapponese della squadra, Jong Tae-se e An Yong-hak, sono stati esentati: sembra che entrambi siano tornati direttamente in Giappone. Fra il pubblico c’era anche il vice Segretario del Partito dei lavoratori, e ministro dello Sport, Pak Myong-chol.

La squadra, ferma su un palco, è stata messa sotto processo dal commentatore sportivo Ri Dong-kyu, della televisione di Stato che ne ha sottolineato tutti gli errori. In maniera particolare, il 7 a 0 subito dal Portogal-

Obama condanna il cuoco di Osama Prima sentenza anti-terrorismo dell’amministrazione di Pierre Chiartano la prima condanna dell’era Obama contro gli arcin-emici del terrorismo islamico: leggere alla voce al Qaeda. Si tratta dell’ex cuoco di Osama bin Laden, il sudanese Ibrahim Al-Qosi, 50 anni, detenuto a Guantanamo, è stato condannato a 14 anni di prigione. Si tratta della prima sentenza inflitta sotto l’amministrazione Obama nei confronti di un detenuto nella base Usa sull’isola di Cuba. La giuria, composta da dieci ufficiali, ha impiegato poco più di un’ora per decidere il suo verdetto. Il presidente delle commissioni militari, al Pentagono, deve ancora approvare il verdetto che non potrà superare i 14 anni. L’accusa aveva chiesto, all’inizio di luglio, che Al-Qosi fosse riconosciuto colpevole di sostegno al terrorismo. L’accusa e la difesa sono quindi giunte a un accordo per richiedere una pena compresa tra i 12 e i 15 anni di prigione. Gli otto anni e mezzo que Al-Qosi ha già scontato a Guantanamo non sono inclusi nel dispositivo di giudizio. La notizia è stata rilanciata ieri, in tarda mattinata, dal quotidiano Miami Herald. Al-Qosi si era dichiarato colpevole, lo scorso mese, di cospirazione e di aver sostenuto al-Qaeda. La sentenza, tuttavia, non è ancora definitiva, un’intesa tra i pm e la difesa potrebbe, secondo il giornale, portare a uno sconto di pena. La pubblica accusa ha sostenuto che alQosi è stato affiliato ad al-Qaeda dal 1996, fornendo sostegno logistico, e fungendo anche da guardia del corpo, cuoco e autista di Osama bin Laden. I processi regolari sono parte integrante del piano di Obama per arrivare alla chiusura del controverso campo di prigionia a Guantanamo, dove si trovano tuttora rinchiusi 76 prigionieri. Ricordiamo che uno dei problemi principali nell’istruire dei processi per i prigionieri di Camp X-Ray, era la lacunosa raccolta delle prove. Persino alcuni rappresentanti della procura militare, in passato, si erano detti incapaci di sostenere la pubblica accusa sulla base di prove non catalogate e non repertate. Si trattava di documenti spesso raccolti

È

alla rinfusa dalle truppe speciali in Afghanistan che mancavano persino di luogo e data del rinvenimento. Per non parlare della difficoltà di risalire da un nome a un’identità, in mancanza di foto o filmati. Insomma, molti dei prigionieri di Gitmo erano stati catturati attraverso quello che poteva definirsi il concreto convincimento di una loro appartenenza alle rete terroristica di bin Laden, ma non supportata dal conseguente lavoro di law enforcement che li avrebbe potuti far condannare anche in un tribunale, non parliamo poi di una corte civile. Però notevoli difficoltà le hanno incontrate anche i giudici con le stellette. Tanto che nel 2004 il difensore del terrorista, il tenente colonnello dell’Usaf, Sharon Shaffer, aveva dichiarato di non avere gli strumenti necessari per la difesa dell’imputato.

Di qui l’importanza di questa prima condanna, grazie anche alla confessione di al-Qosi. L’ex cuoco e guardia del corpo ha ammesso di aver fatto la spola tra Sudan e Afghanistan, durante gli anni Novanta. Prima del 2005 (anno in cui fu varata una legge più garantista chiamata Detainee Treatment Act) il prigioniero aveva fatto richiesta, assieme ad altri detenuto di Gitmo, di una procedura di habeas corpus, che nel sistema americano – semplifichiamo – è un appello a un magistrato contro una detenzione che si ritenga ingiustificata. Cioé il diritto di un arrestato di chiedere che un giudice imponga a un organo dello Stato di spiegare i motivi del fermo e della detenzione. Durante l’amministrazione Bush junior tale diritto aveva subito una forte restrizione per i prigionieri sull’isola cubana. Nel 2006 era stato varato il Military commissions act che regolamentava l’utilizzo dei tribunali militari nei confronti di cittadini nonamericani. In pratica ridava potere all’esecutivo per porcessi più sbrigativi. Poi nel 2008 era intervenuta una sentenza della Corte suprema che aveva ristabilito l’accesso all’habeas corpus per tutti i detenuti stranieri.

La giuria, composta da dieci ufficiali, ha impiegato poco più di un’ora per decidere il verdetto di condanna

lo: la nazionale lusitana aveva eliminato la Corea del Nord anche nell’ultimo Mondiale a cui questa aveva partecipato, quello del 1966. Subito dopo, i calciatori hanno criticato il loro allenatore Kim. Questi sarebbe stato espulso dal Partito e mandato a lavorare in un cantiere. Per Sepp Blatter, che ha annunciato l’iniziativa a Singapore,“il primo passo è quello di agire tramite la Federazione. Vedremo che risposta ci daranno e poi andremo avanti”. Mohamed bin Hammam, capo della Confederazione calcistica dell’Asia, ha aggiunto di aver incontrato diversi giocatori del Nord lo scorso mese. Tuttavia, l’allenatore non era presente.

corso del fiume Bailong e creare un instabile lago, le cui acque possono straripare e inondare di nuovo Zhouqu. Intanto le autorità si affrettano a citare esperti che dichiarano che “non ci sono prove”che la zona è stata resa insicura per la creazione di dighe e lo sfruttamento indiscriminato del territorio, peraltro senza avere esaminato la situazione reale.

La frana ha cancellato interi villaggi come Yueyuancun, Dongjie, Henan Xincun, Beiguang, trascinando via case e persone, sommergendo strade e infrastrutture. A Zhouqu ci sono oltre 1.000 case distrutte e 3mila tuttora allagate. Oltre 45mila persone della contea sono state evacuate e si pone il problema di dove alloggiare in modo stabile gli sfollati. Sono state mandate oltre 7mila tende ma la zona è montuosa e poco adatta a vasti campi, anche perché la pioggia prosegue. Il clima è caldo è i medici consigliano di cremare al più presto i morti, anche se nella zona ci sono molti buddisti tibetani che usano seppellire le salme. Intanto esplode una polemica persino per le cremazioni: i locali protestano che per la cremazione ci vogliono 1.000 yuan, un costo eccessiv.


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grandangolo Libri. In libreria il nuovo volume di Mario Mauro

Se l’Occidente gira gli occhi. Persecuzioni anticristiane nel mondo Nella vecchia Europa vengono scherniti dai benpensanti. Negli altri continenti sono oggetto di attacchi sempre più frequenti. Il libro il parlamentare europeo, intitolato ”Guerra ai cristiani”, indaga un fenomeno sottovalutato che si sta preoccupantemente espandendo a macchia d’olio di Marco Respinti escovi ammazzati, suore, preti e frati uccisi, chiese distrutte, cristiani inibiti della piena espressione delle loro libertà civili. No, non siamo in certi colossei del passato o sotto i totalitarismi più feroci. Stiamo parlando dell’oggi, terzo millennio della storia cristiana, e di luoghi che stanno dietro l’angolo, o che comunque sono imponenti e inquietanti sul proscenio internazionale, talora persino di casa nostra. Essere cristiani oggi costa sangue, e l’aspetto più inverecondo della vicenda è che tutto resta comunque ai margini delle cronache, fa capolino solo per qualche gesto particolarmente eclatante, insomma non merita la notizia. Pare, insomma, che il nostro mondo, così sensibile verso le «minoranze», gli «ultimi», il politicamente corretto e le «violazioni» dei «diritti» più insulsi non abbia tempo per apprezzare la grande persecuzione a cui migliaia e migliaia di cristiani sono sottoposti nel mondo adesso, esattamente in questo momento.

V

Più che opportuna è allora la ricerca di Mario Mauro, deputato europeo del

Popolo della Libertà, pubblicata in collaborazione con due studiosi, Vittoria Venezia e Matteo Forte, e intitolata Guerra ai cristiani. Le persecuzioni e le discriminazioni dei cristiani nel mondo (Lindau, Torino, pp. 140, ¤13,00). Dal

Dal 2000 ad oggi sono state oltre 250 le vittime tra vescovi, sacerdoti, suore e catechisti 2009, Mauro svolge, per contro dell’Ocse, l’Organizzazione per la sicurezza e la Cooperazione in Europa, il ruolo di Rappresentante per la lotta contro il razzismo, la xenofobia e le discriminazioni, e sagacemente sfrutta la posizione per uscire dalla logica parolaia del

burocratismo bruxellese indagando e documentando vessazioni e torture a danno dei cristiani. I numeri del pallottoliere sono impressionanti. Secondo l’agenzia di stampa Fides, organo d’informazione delle Pontificie Opere Missionarie da quasi un secolo, dal 2000 sono state 263 le uccisioni di vescovi, sacerdoti, suore, seminaristi e catechisti. Avviene nel mondo del totalitarismo ideologico e della lotta islamista o del fanatismo nazionalistico indù, certo, ma accade pure nell’Europa stanca e annoiata. Chi rammenta il nome di don Robert De Leener, ammazzato proprio nella Bruxelles del Parlamento Europeo il 5 maggio 2005 perché si prodigava in carità autentica nei confronti degl’immigrati probabilmente pestando inopinatamente i calli a qualcuno a cui non andava giù il suo darsi al prossimo per Cristo e piuttosto palesemente nel nome di Cristo?

E quelle di Fides sono stime che si fermano al 2009, anno per il quale si calcolano ben 37 omicidi dovuti all’odio anticristiano, ovvero quasi il doppio di quelli avvenuti l’anno prima, cioè ancora il

numero più alto registrato nel primo decennio del Terzo millennio. Senza dimenticare, annota bene Mauro, che «il limite, se così si può chiamare, delle stime riportate dall’agenzia è che, per il loro carattere di ufficialità, considerano solo gli operatori pastorali e i consacrati cattolici». Basta del resto sfogliare alcune delle foto scioccanti che corredano il suo testo per rendersi conto di come le teste mozzate di donne cristiane lì visibili allargano immediatamente i numeri ufficiali a un popolo enorme di credenti che talora sfugge per forza di cose alle statistiche ma non alla mannaia.

Cattolici, protestanti, ortodossi, copti, finiscono dappertutto nel mirino; in Occidente soprattutto culturalmente. Gli spernacchiamenti e le calunnie a cui i cristiani vengono sottoposti nei quartieri del «mondo libero» sono infatti il necessario condimento di un quadro tragico. Anzi, è proprio perché la Chiesa, i cristiani e la loro cultura impegnativa ed esigente vengono messi in croce in Occidente che nel resto del mondo la mattanza può continuare indisturbata. Chi ha più voglia, dopo «le tante che se


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Il martirio al centro della riflessione del Pontefice durante l’ultima udienza settimanale

L’invito del Papa: «I cattolici trasformino il nostro mondo con il loro esempio» di Vladimiro Iuliano re giorni fa il mondo ha alzato gli occhi al cielo per la notte delle stelle cadenti. Anche i bimbi più piccoli sanno che il 10 agosto bisogna rimanere svegli nella notte di San Lorenzo. In pochi, al contrario hanno idea di chi sia il santo che la chiesa ricorda in questa giornata di inizio agosto. Era il 10 agosto del 258 dopo Cristo. Gli anni delle ultime persecuzioni anti-cristiane nella Roma imperiale, sotto il regno di Valeriano. Al prefetto dell’imperatore che gli chiese di consegnargli i tesori in suo possesso, il trentatreenne Lorenzo, diacono nella città di Roma, rispose indicando i malati e gli indigenti di cui si prendeva cura: «Ecco i veri tesori della chiesa». Una risposta che gli costò il martirio. Una ricorrenza che ha assunto una valenza particolarmente significativa in un periodo nel quale gli attacchi ai cristiani si moltiplicano, in particolar modo in Asia centrale e sud-orientale, come anche in alcune zone dell’Africa sub-sahariana. Probabilmente non è un caso che, nelle sue udienze del mercoledì, in questo periodo agostano trasferite dalla Città del Vaticano al palazzo apostolico di Castel Gandolfo, residenza estiva del Pontefice alle porte di Roma, Benedetto XVI abbia centrato proprio in questa settimana la sua riflessione sul senso e sul significato del martirio nel mondo di oggi. Sono padre Massimiliano Kolbe ed Edith Stein, patrona d’Europa, gli esempi dal quale prende le mosse il ragionamento del Papa-filosofo.

T

ne sentono», di spendere una parola in favore di quel mondo, quello cristiano, che è «il più retrivo, disumano e corrotto» che esista, «il più cinico, sadico e immorale» che si possa immaginare? Nessuno, che crepino dunque. Mauro divide efficacemente, con una immagine suggestiva, il mondo in due metà, quella che sta a est e quella posizionata a ovest di Vienna, città simbolo dove il 4 marzo 2009 l’eurodeputato promosse la prima tavola rotonda sull’intolleranza anticristiana. Nella nostra metà di mondo, l’ovest, ciò che «fa paura» è la presenza pubblica dei cristiani, il loro essere cittadini a titolo pieno, il

Il potere politico moderno è autoreferenziale, e relega le fedi religiose in un angolo silenzioso loro porsi come interlocutori non di serie B. Sembra di essere tornati agli anni più bui del laicismo paramassonico, è invece parliamo sempre dell’oggi.

Qui vige quella che Mauro, citando don Luigi Sturzo (1871-1959), chiama «Statolatria»: l’adorazione neopagana di una divinità gelosa e univoca che non ammette concorrenti. È il mondo, il nostro, che si riempie la bocca di parole come «libertà» e «tolleranza», ma che in realtà pratica forme dispotiche di potere autoreferenziale per le quali le fedi religiose possono al massimo ritagliarsi un cantuccio a patto di adorare silenzio-

se l’imperatore. Sennò, o cambiano stile spiritualizzandosi così tanto da divenire perfettamente impermeabili alle cose che accadono, o ne pagano le conseguenze. Quel che dà fastidio è proprio il cristianesimo impegnato, maturo, intero, quello che abita il tempo e che nel tempo giudica e si muove pure in economia, nel sociale, persino a livello politico. Quello, insomma, che disturba il manovratore, e che non ne chiede scusa.

Mauro cita bene il caso macroscopico della Spagna zapaterista, esempio da manuale; ma tranquillamente si potrebbe allargare l’orizzonte all’intero Occidente ed evocare quel prefetto servizio della disinformacjia che è l’attualissimo cumulo di scempiaggini proferite sulla presunta copertura vaticana preti pedofili, valanghe di letame gratuito spalate per soffocare tutto, anzitutto la verità delle cose. In questo modo si ottiene infatti il brillante risultato di stemperare nell’indistinto delle maldicenze generalizzate e infondate i veri colpevoli di pedofilia, alla fin della fiera riuscendo peraltro a sottrarli al giudizio e al castigo onde gettare invece nel guano la Chiesa per intero e in quanto tale: cioè pure gl’innocenti (la stragrande maggioranza), i quali restano però – in modo paradossale, ma che non sfugge ai persecutori – gli unici davvero in grado di fare qualcosa di concreto per combattere le turpitudini e le immoralità. Sarà un caso, ma i falli incarogniti fuori tempo e logica si abbattono su Chiesa Cattolica, cristiani di ogni obbedienza e laici impegnati a rendere più vivibile questa valle di lacrime sempre con tempismo perfetto. Cioè quando i cristiani ricordano che certi princìpi non si negoziano, quando disturbano nel loro portare Cristo riverberante persino sul volto – come implorava facessero Friedrich Nietzsche (1844-1900) –, insomma quando stufano.

Che spariglia il campo, come suo solito, distaccandosi dal dibattito di tutti i giorni, ed elevandosi al rango della riflessione teologica, da finissimo dicitore dell’esegesi di Santa romana chiesa. Ma oltre che nel tono, l’intervento del Pontefice ha spiazzato anche nella sostanza delle sue parole. Nessuna condanna, nessun risentimento nei confronti degli attentatori. Non c’è nemmeno un velo di autocommiserazione. Il martirio, per Joseph Ratzinger, è una «forma di amore totale a Dio», perché si fonda, nella storia del cristianesimo, «sulla morte di Gesù, sul suo sacrificio supremo d’amore, consumato sulla Croce affinché noi potessimo avere la vita». Il martire, dunque, colui che si sacrifica

consapevolmente a causa del proprio credo religioso, è l’uomo che segue fino in fondo l’esempio di Cristo, «accettando liberamente di morire per la salvezza del mondo, in una prova suprema di fede e di amore».

Accuse di integralismo sono piovute sul capo di Benedetto XVI come da routine. «Un’interpretazione partigiana di quello che sta accadendo nel mondo», è stato il tam tam diffusosi rapidamente sul web attraverso i social network, «Ratzinger distingue martiri di serie A, quelli cristiani, da martiri di serie B». Una lettura che non tiene conto, come troppo spesso accade, che le riflessioni del Pontefice si collocano sul piano della più alta riflessione teologica interna alla chiesa di Roma, e che non possono essere interpretate esclusivamente attraverso la lente della più stretta attualità. «Il martire è una persona sommamente libera, libera nei confronti del potere, del mondo»: la risposta alle critiche la si poteva già leggere nella conclusione della riflessione di Benedetto XVI, che implicitamente ha sottolineato come lo spunto ispiratore del suo discorso fosse un pretesto per richiamare nei propri fedeli la coscienza della fede in Cristo. «Probabilmente – come si può leggere nel testo diffuso dal Vaticano - noi non siamo chiamati al martirio, ma nessuno di noi è escluso dalla chiamata divina alla santità, a vivere in misura alta l’esistenza cristiana». L’invito del Papa è quello a «trasformare il nostro mondo», non certo un sibillino invito al martirio, come qualcuno ha voluto insinuare. Un cambiamento che potrebbe, forse dovrebbe, incominciare dai mezzi di informazione. Gian Micalessin, da anni inviato nei teatri di guerra più pericolosi, ieri si chiedeva eloquentemente, dalle colonne del quotidiano online il Sussidiario, «Perché fa più notizia la morte di due soldati di quella di otto medici cristiani?». La risposta forse è troppo complessa, forse ancora troppo lontana. Ma è la domanda attorno alla quale l’opinione pubblica cattolica, prendendo anche spunto dalle riflessioni del successore di San Pietro, dovrebbe interrogarsi.


ULTIMAPAGINA Il caso. Nel mirino dell’Agenzia delle entrate gli yacht del cantautore Vasco Rossi e dell’attore Massimo Boldi

Questa volta non è colpa di Francesco Ingravallo assare un paio di settimane di meritato riposo sul proprio yacht è diventato sempre più difficile nel nostro Paese. Colpa della pignoleria di Agenzia delle entrate e Guardia di Finanza che, ormai ogni estate, si mettono lì a spulciare carte e cartuccelle: di chi è la barca? Con che soldi l’ha comprata? Siamo sicuri che lei, signor Mario Bianchi, ottantenne nullatenente, ne sia il proprietario? È così che l’Italia, finora allegramente sostanzialista, si sta trasformando in un postaccio pignolissimo su coloro che sono ricchi per così dire ufficiosamente. È di ieri, per dire, la notizia che uno dei maxi-controlli estivi dell’Agenzia delle Entrate avrebbe inguaiato Massimo Boldi e persino Vasco Rossi. Il coinvolgimento di quest’ultimo, fosse accertato (la portavoce smentisce qualunque irregolarità), permetterebbe a ogni cumenda con relativa fabbrichetta di guardare con fierezza i propri figli adolescenti: «Io e il Blasco la pensiamo uguale», potrebbe vantarsi.

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Secondo gli ispettori del ministero delle Finanze, il comico e il cantante avrebbero usato un escamotage per pagare meno tasse sulla barca: una bagnarola - una ciascuno ovviamente - da 24 metri per un costo di oltre un milione e mezzo di euro. Il trucchetto, lo usano a centinaia, è semplice semplice: lo yacht viene intestato a una società di charter, una srl col minimo del capitale sociale (diecimila euro circa), e poi viene affittato al vero proprietario. Le società affittuarie, a loro volta, sono riconducibili al tizio che si gode il natante: è il caso di Boldi e di sua figlia, che controllano interamente la ditta. I vantaggi non sono irrilevanti: non si paga l’Iva sull’acquisto, sul combustibile, sulle riparazioni, sul posto barca, qualcuno riesce a scaricare pure lo champagne come spesa di noleggio. Secondo alcuni calcoli dell’Agenzia delle entrate, si evade fino al 20% sul prezzo d’acquisto e senza contare il gasolio (se un pieno costa 100mila euro ai comuni mortali, i “noleggiatori” tra Iva e accise agevolate dimezzano il conto) e i contratti dell’equipaggio, scaricabili come costo. Alla fine, dice la Gdf, il “risparmio” s’aggira tra i 150mila e i 500mila euro. Un caso tipico di questa ossessione anti-barche fu quello della famiglia Briatore: al povero Flavio, nel maggio scorso, venne sequestrato “Force Blue”, yacht intestato a una società delle Isole Vergini Britanniche e battente bandiera delle Cayman. Anche qui, secondo i giudici, il proprietario in realtà era l’uomo del Billionaire, tanto è vero che ci viveva - in attesa della ristrutturazione della sua casa di Montecarlo - con moglie e figlio neonato. Il piccolo Natan Falco, peraltro, pare abbia subito un trauma durante il sequestro “a sirene spiegate”: «Non riesce più a dormire bene», spiegò Elisabetta Gregoraci, la mamma, che subì il suo bel danno psicologico anche lei, al punto che perse il latte e si vide costretta a ricorrere a quello artificiale comprato in una farmacia fortunosamente aperta a Forte dei Marmi. Non di solo yacht, però, vive l’Agenzia delle entrate, da qualche anno a questa parte infatti e ancor più lo faranno con la recente introduzione del redditometro - si mettono a ficcanasare anche tra le auto di lusso, le vacanze da qualche decina di migliaia di euro, le proprietà all’estero e persino sull’installazione di piscine a ca-

di ALFREDO Avrebbero usato il solito trucco per pagare meno tasse: il natante viene intestato a una srl col minimo del capitale sociale, e poi viene affittato al vero proprietario. Le società affittuarie, a loro volta, sono riconducibili al tizio che si gode la barca sa, l’iscrizione ai club esclusivi, la frequentazione di centri benessere o master di specializzazione particolarmente costosi. Se continua così, gli occhiuti agenti del fisco trasformeranno il Belpaese nell’Albania di Enver Hoxa: niente più bagni refrigeranti nel giardino di casa, né saune e massaggi rilassanti nelle Spa, né una casetta a Londra o Montecarlo per i week end da raggiungere con la decappottabile e nemmeno, la cosa davvero più odiosa, la sacrosanta formazione professionale d’élite. È il colmo, questo stato di polizia fiscale - diceva il Cavaliere delle leggi di Visco dopo averle cancellate, ma prima di rimetterle in vigore - vuole impedire ai figli degli italiani ricchi persino di studiare. Ma se uno non può spenderli per paura delle tasse, che li fa a fare i soldi? Non stupisce, stando così le cose, che Valentino Rossi - altra vittima eccellente del cattocomunismo del ministero delle Finanze - abbia tentato di trasferire la sua vita in Gran Bretagna, paese assai più civile: purtroppo “il dottore” riuscì a spostare a

Londra solo residenza e obblighi fiscali, mentre sfortunatamente case, conti correnti, auto e quant’altro erano rimaste nei pressi della natia Tigullia. L’Agenzia delle entrate, con intento evidentemente persecutorio, sostenne che se beni e attività stanno in un posto allora è lì che bisogna pagare le tasse, come se la libertà di scegliersi il paese a cui dare i propri soldi non sia un aspetto inviolabile della libertà personale.

La stessa cosa accade proprio in queste settimane ad un altro personaggio italiano assai famoso all’estero: Rocco Siffredi, star abruzzese del porno che dagli anni Novanta ha portato la sua residenza in Ungheria. Adesso il fisco tenta di privarlo di due milioni di euro duramente sudati contestandogli di essere un evasore totale in Italia. Al ministero, evidentemente, non si fidano dei cittadini per cui lavorano: l’Agenzia delle Entrate continua a contestare l’idea che solo meno di quarantamila italiani dichiarano di guadagnare più di 200mila euro. Se lo dicono loro sarà vero, direbbe invece un vero liberale, gli altri evidentemente s’affittano lo yacht a rate coi prezzi di favore dovuti alla crisi finanziaria. In un paese civile la Finanza non dovrebbe fomentare l’invidia sociale.


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