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he di c a n o r c

Avanti brav’uomo, coraggio, non hai nulla da temere. La fortuna di Cesare naviga con te Giulio Cesare

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 20 AGOSTO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Mentre finiani e berlusconiani continuano a insultarsi, il leader del Carroccio dice: «Non vedo alternative alle urne»

Bossi, operazione Bruto

I piani segreti del Senatùr per portare Tremonti a Palazzo Chigi Insiste ogni giorno per votare ma al tempo stesso “blandisce”Napolitano: il suo progetto, o con un governo istituzionale o dopo elezioni vinte dalla Lega, è sostituire Berlusconi PARADOSSI D’AGOSTO

di Riccardo Paradisi

Tra i due litiganti, il terzo gode

ROMA. Un fantasma si aggira per l’Italia d’agosto ma non è quello delle elezioni anticipate. No. Il vero fantasma di cui tutti parlano, anche se nessuno vuole nominarlo in pubblico, è quello di Bossi che si mangia Berlusconi. Un piano a due velocità: in autunno, accettando un nuovo governo guidato da Tremonti; o dopo le elezioni, con un bottino di voti tale da consentirgli di dettare le condizioni di un nuovo esecutivo a trazione-Tremonti. Insomma: Bossi pensa al federalismo: se c’è Berlusconi, tanto meglio, altrimenti, si vedrà. Intanto i finiani, in attesa del vertice Pdl di oggi, ci vanno pesante: «Berlusconi è il Caimano. Ci vergognamo di averlo difeso». a pagina 2

di Giuseppe Baiocchi n tempo l’agosto delle ferie era per la politica monopolizzato da Pannella e dai radicali, con le loro iniziative spesso sopra le righe. Di solito gli effetti legislativi e parlamentari erano di poco conto, ma il monopolio mediatico era certamente assicurato. Da qualche anno, invece, la scena è stata“rubata” a Pannella dalla Lega Nord e soprattutto dal suo leader. E Bossi, che Pannella l’aveva studiato bene, ha sempre segnato l’agosto politico: sia nel delineare la strategia che avrebbe seguito nei mesi successivi, sia nel rinsaldare il rapporto carismatico con la sua base popolare, in un vorticoso “su è giù” per le strade e le feste della Padania. Questa volta non sembra neppure necessario che metta in esercizio la sua fantasia politica.

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Dalla debolezza degli Usa agli attacchi a Israele

Povero Occidente se dimentica di difendere i suoi Stati

La campagna d’agosto del leader centrista

«È arrivato il tempo di riconciliare la nazione»

La fusione forzata tra le culture nega l’idea di Stuart Mill su cui è nata la nostra civiltà

Buttiglione consegna a Casini la tessera numero uno del nuovo partito. «C’è bisogno di responsabilità comune per salvare il Paese dalla rissa continua»

di Daniel Pipes

Alessandro D’Amato • pagina 8

Ieri Francesco Cossiga è stato sepolto a Sassari

Dati allarmanti dalla Cenerentola europea

La Sardegna dà l’addio al suo «eroe italiano»

Inflazione e disoccupazione, la Grecia ormai è in vendita

di Pierre Chiartano

di Enrico Singer

SASSARI. «Ciao presidente»:

al rischio di bancarotta dello Stato, che aveva lasciato il debito pubblico allo sbando, a quello di un collasso generale dell’economia. Una recessione profonda con la disoccupazione che ha già toccato il 12% e che, a fine anno, potrebbe arrivare al 20% con punte del 70%. E con il potere d’acquisto crollato di oltre il 15% al pari dei consumi. Siamo ben al di là dell’austerità. a pagina 18

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un solo grido e un lunghissimo applauso, così la sua Sassari ha salutato “alla voce”per l’ultima volta Francesco Cossiga. Migliaia di persone hanno atteso fin dalle prime ore del mattino per accogliere l’arrivo della salma. Qualche ora prima a Roma era continuato il commiato al presidente. Poche persone, solo familiari e amici strettissimi. a pagina 8 seg1,00 ue a p agina 9CON EURO (10,00

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

a fervente ammiratore quale sono di tutto ciò che la civiltà occidentale ha realizzato, mi interrogo spesso sul perché molti dei suoi figli nutrano verso di essa una profonda ostilità. Se la democrazia, il libero mercato e il principio della giustizia hanno portato stabilità, benessere e responsabilità morale senza precedenti, com’è possibile che così tanti “beneficiati” non riescano ad apprezzarlo? E perché mai gli Stati Uniti, che così tanto hanno a cuore la prosperità degli uomini, incoraggiano una simile ostilità? E perché mai il “piccolo” Stato di Israele, simbolo vitale di un popolo oppresso, suscita un odio così ardente al punto che alcune persone arrivano a immaginarne la cancellazione?

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

segue a pagina 21

19.30


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Strategie. Alla vigilia del conclave di Palazzo Grazioli, Farefuturo alza il tiro: «Ci vergognamo di aver difeso il premier»

Il vertice degli equivoci

Si apre un summit del Pdl ancora puntato sulla lite con i finiani, ma in realtà il dopo-Berlusconi lo sta scrivendo Bossi. Ecco come... di Riccardo Paradisi a Lega non teme le elezioni anticipate – dicono gli uomini del Carroccio – siamo in progressivo aumento di consenso, le liti interne al Pdl aprono verso di noi i flussi dell’elettorato di centrodestra stanco di queste continue fibrillazioni. L’estrema ratio delle urne insomma non ci fa paura. Però ora la priorità è un’altra, è portare a casa il federalismo».

«L

Nell’esternazione del suo ultimo giorno di vacanza il leader leghista Umberto Bossi conferma la linea tratteggiata dalle fonti di via Bellerio. La strategia leghista per affrontare l’autunno politicamente caldo che attende la maggioranza è quella di resistere al governo, di durare. «Se si dimettesse il presidente della Camera Fini – dice Bossi – riuscirebbe a disinnescare la corsa alle elezioni. Non si andrebbe al voto perché così facendo toglierebbe argomenti a Berlusconi che farebbe più fatica a chiedere il voto anticipato. Non solo, Fini stesso si recupererebbe, farebbe una gran bella figura, si rifarebbe la faccia di fronte alla gente... Oggi comunque le chiavi le ha Fini». Insomma meglio evitarle le lezioni se possibile e far procedere il governo lungo la realizzazione del programma. Questo è il piano A ma Bossi non è così ingenuo da non paventare il rischio di una collasso dell’attuale maggioranza: troppe contraddizioni, troppe tensioni. Ultima quella del webmagazine finiano Farefuturo che proclama ormai l’avvenuta metamorfosi in senso antiberlusconiano della ”destra nuova”: «Nessuno ci potrà più convincere che il berlusconismo non coincida con il dossieraggio e con i ricatti. Nessuno ci potrà più convincere che il berlusconismo non si nutra di propaganda, di slogan, di signorsì. E, purtroppo il pensiero corre agli eventi passati, all’editto contro Enzo Biagi, contro Daniele Luttazzi, contro Michele Santoro. Il pensiero corre ai sensi di colpa per non aver capito prima, per non aver saputo e voluto alzare la testa». Ecco, siccome questi sono i chiari di luna, se questa maggioranza dovesse implodere Bossi avrebbe in mente un

Ormai il leader del Carroccio monopolizza l’estate politica come faceva Pannella

L’unico dubbio di Umberto: quando giocare la carta Tremonti di Giuseppe Baiocchi n tempo l’agosto delle ferie era per la politica monopolizzato da Pannella e dai radicali, con le loro iniziative spesso sopra le righe. Di solito gli effetti legislativi e parlamentari erano di poco conto, ma il monopolio mediatico era certamente assicurato. Da qualche anno, invece, la scena è stata “rubata” a Pannella dalla Lega Nord e soprattutto dal suo leader. E Bossi, che Pannella l’aveva studiato bene, ha sempre segnato l’agosto politico: sia nel delineare la strategia che avrebbe seguito nei mesi successivi, sia nel rinsaldare il rapporto carismatico con la sua base popolare, in un vorticoso “su è giù”per le strade e le feste della Padania. Questa volta non sembra neppure necessario che metta in esercizio la sua pur notevole fantasia politica: il complesso delle circostanze e le incognite sul futuro dell’assetto del Palazzo riportano, suo malgrado, la Lega al centro della ribalta. È soprattutto una questione di numeri, in quanto il Carroccio (se resta fedele all’alleanza che ha vinto le elezioni del 2008) è determinante per la conservazione della maggioranza attuale e rende di fatto impossibile tutte le altre alternative sulle quali si va esercitando in queste settimane la fervida immaginazione di politologi ed osservatori.

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Anche se a gran voce continua il refrain secondo il quale dietro l’angolo ci sono soltanto le elezioni anticipate, Bossi in realtà il voto non lo vorrebbe e ne farebbe volentieri a meno, pur se la Lega appare unanimemente ritenuta il partito più in crescita e destinato a mietere moltissimi nuovi consensi in consultazioni generali ravvicinate. Infatti nella “road map” del ministro delle Riforme la

legislatura non ha ancora concluso la sua ragion d’essere. Perché le riforme messe in cantiere (e certo c’è il federalismo, ma non solo) o non sono ancora completamente approvate oppure devono manifestare appieno i loro effetti sulla società e la vita quotidiana dei cittadini. Perché infatti nel disegno del leader leghista si intravede un lontano punto d’arrivo, ovvero la pienezza del potere e l’esercizio del governo del Paese con il proprio marchio esclusivo. Ma questo potrà avvenire soltanto dopo che l’alleanza ormai più che decennale con Berlusconi avrà dato tutto quello che poteva dare. E non è impossibile intuire che quel traguardo sarà considerato realistico quando il Cavaliere avrà “traslocato” al Quirinale e l’impronta “nordista” avrà permeato l’intero blocco sociale di centrodestra.

Per questo appare una zeppa particolarmente fastidiosa il litigio con Fini e la nascita di una formazione parlamentare legata al Presidente della Camera. E i toni particolarmente aspri usati di recente da Bossi contro Fini contrastano con un antico e annoso rapporto di dialogo non esibito e di sostanziale sotterranea mediazione. Semmai risulta insieme accattivante e inquietante il ballon d’essai più volte e da diverse parti lanciato su un possibile governo a guida Tremonti. Ed è l’offerta con cui si tenta di ingolosire a tutti i costi la Lega e il suo capo, nella consapevolezza che è solo da lì che un’ipotesi di cambiamento in corsa e senza nuove elezioni deve per forza passare. Il dubbio è tutto aperto: e molti sanno bene (e qualcuno in prima persona dai tempi del “ribaltone” del 1994) che diventa un errore politico che si paga a caro prezzo il dar per morto anzitempo un Cavaliere dalle sette vite politiche. Certo, lo sfaldamento in atto nel Pdl (di cui l’esodo dei finiani costituisce solo un aspetto e forse nemmeno il più importante) appare inedito e profondo. E, allo stato degli atti, non è escluso che sia proprio la Lega a sostenere addirittura sul territorio il partito berlusconiano e a svolgere un ruolo pacificatore tra le diverse anime in lotta tra loro. Se per Bossi i tempi del subentro non sono ancora maturi, il Cavaliere non verrà accantonato: e lo si capirà sul serio soprattutto in Lombardia, con gli assetti di potere non ancora completamente definiti nella Regione di Formigoni e nella corsa delle candidature dei sindaci, a cominciare da quello decisivo di Milano.

piano B, prima delle elezioni – che se si dovessero fare, dice, dovrebbero tenersi a fine novembre inizio dicembre – per realizzare la sua mission politica. Un governo di scopo che non escluderebbe naturalmente Berlusconi – magari proiettato in un ruolo più istituzionale – ma con a capo l’attuale ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Si certo, Tremonti ha già smentito questa ipotesi dicendo al Sole 24 ore che è già impegnato con soddisfazione nel suo lavoro in via XX settembre. Ma si sa che la politica è movimento. Ieri peraltro di Giulio Tremonti era il compleanno: il ministro lo ha festeggiato a Calalzo di Ca-

Il Senatùr regala al ministro la «Storia di Roma» di Indro Montanelli: «Per vincere il nemico – scrive nella dedica – devi conoscerlo» dore proprio con Bossi e il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli. Sullo sfondo degli amati scenari alpini il ministro ha ricordato con i suoi amici i vecchi tempi: il lavoro, dopo la rottura del 1994 tra Bossi e Berlusconi, per la riappacificazione avvenuta nel 1999 e il patto del 2000 tra Lega e Forza Italia. «Noi stavamo siglando il patto con la Lega a casa di Berlusconi - racconta Tremonti - e dai media in quel momento sentivamo Veltroni che a Torino lanciava il suo slogan !I care”. «Il tempo dal 1995 in poi - ha aggiunto Bossi - non era passato invano». Bossi poi ha regalato a Tremonti la ”Storia di Roma di Indro Montanelli, con la dedica «per battere i tuoi nemici devi conoscerli». Un regalo che si potrebbe anche leggere come un dono-viatico per la conquista del governo di Roma e del Paese? Scenari, certo, che nel fervente e caldo agosto della rissa continua interna alla maggioranza si moltiplicano come in un caleidoscopio. Del resto che non si stia proprio parlando di fantapolitica ma di ipotesi della possibilità lo dimostrano anche le parole del leader Udc pier Ferdinando Casini. «Con molta, molta circospezione – dice infatti Casini – L’Udc è pronta a


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Dall’incontro di oggi al voto anticipato: parla il parlamentare finiano

«Cavaliere, guardati dai tuoi consiglieri» Carmelo Briguglio “avvisa” il premier: «Stai attento, su di noi ti hanno fatto già sbagliare una volta» di Pietro Salvatori

ROMA. «Lo abbiamo difeso perché pensavamo non fosse il Caimano, ma oggi ci vergogniamo». Così ieri Fare Futuro, la fondazione fondata e presieduta dal presidente della Camera Gianfranco Fini, ha attaccato Berlusconi. Forse è una coincidenza, o forse no, che l’articolo sia uscito proprio nel giorno in cui trapelano le voci che nel prossimo vertice del Pdl a palazzo Grazioli il premier metterà all’ordine del giorno lo studio di strategie per riconquistare alla causa del suo partito i parlamentari più moderati dei neo costituiti gruppi di Futuro e Libertà. Ma i fedelissimi di Fini rispondono anche direttamente alle avances degli uomini del Cavaliere. «Pensare che la politica è una sorta di libero mercato, una questione di domanda e offerta e poco più, significa cadere in un grave errore». Parola di Carmelo Briguglio, tra i più vivaci animatori della pattuglia di fedelissimi del Presidente della Camera. Un modo come un altro per dire che non siete ricattabili? Siamo un grande soggetto politico. E l’interlocuzione dovrebbe essere con un grande soggetto politico, per l’appunto, non con i singoli esponenti in quanto tali. Berlusconi sta facendo un altro grossolano errore di valutazione nel voler cercare di sfaldare i gruppi parlamentari in questo modo. Un altro? Certo, il primo è stato quello sulla valutazione della consistenza di quelli che avrebbero seguito Fini, A palazzo Grazioli li quantificavano in non più di una quindicina. E invece... E invece? E invece hanno dovuto fare i conti con un gruppo che si sta rivelando determinante. Non si governa con le illusioni e le previsioni errate. Occorre tornare alla politica a ragionare sulle cose. Perfetto, torniamo su cose concrete. Il viceministro Urso si è detto favorevole a sostenere un provvedimento giudiziario che sospenda i processi nei confronti del presidente del Consiglio. Sì, siamo disposti a discutere su un atto del genere. Pensiamo che serva mettere al riparo il premier da inchieste di sorta e per tanto siamo disponibili a farlo. E tutta la battaglia sulla giustizia? Non avverte una contraddizione? Non direi. Diciamo da tempo che il presidente del Consiglio deve essere tutelato nello svolgimento delle sue funzioni, e con lui l’intera azione di governo. Però ci sono dei limiti.

Qui sopra, Silvio Berlusconi: continua a litigare con Fini e con i suoi seguaci, ma ad approfittare di questa lite è Bossi che cerca di «farlo fuori». A destra, Carmelo Briguglio prendere in esame l’ipotesi di un governo diverso in caso di crisi dell’esecutivo di centrodestra, ma un esecutivo non può essere contro Berlusconi e la Lega, poiché rischierebbe di essere un governo debole, non in grado di fare gli interessi della nazione». Sicchè la proposta dell’Udc è quella di un governo di responsabilità nazionale, «di un armistizio che comprenda almeno parti del Pdl e parti del Pd, i due partiti maggiori».

Tirando le fila: Bossi non teme le elezioni. Affrontandole la Lega diventerebbe più forte e in grado di trattare con Berlusconi per la formazione di un nuovo governo in una posizione di forza. Ma il leader leghista le elezioni vorrebbe evitarle e lavorando ora per tenere in piedi la maggioranza potrebbe un domani, in caso di un’esecutivo parlamentare nuovo rispetto a quello attuale, chiedere un suo uomo a Palazzo Chigi. È questo il confuso contesto nel quale oggi si apre a Roma il vertice del Pdl a palazzo Grazioli. Vertice a cui parteciperanno, oltre ovviamente a Berlusconi, i coordinatori Denis Verdini, Sandro Bondi,

Ignazio La Russa e i capigruppo parlamentari. Ci saranno anche alcuni ministri del Pdl tra questi, sicuramente il guardasigilli Angelino Alfano visto che proprio il rilancio della riforma della giustizia dovrebbe costituire uno dei punti su cui Berlusconi potrebbe chiedere la rinnovata fiducia delle Camere attraverso la riformulazione del Lodo Alfano. Una formula a cui anche i finiani sembrano non volersi opporre, forse nel tentativo disperato di siglare una tregua. È il viceministro allo Sviluppo economico Adolfo Urso, uno dei finiani moderati, a illustrare la strategia di Futuro e libertà: «Noi siamo nel Pdl. Abbiamo realizzato gruppi parlamentari alla Camera e al Senato come reazione difensiva ma pensiamo che il Pdl sia un soggetto fondamentale della vita politica italiana». Per questo, assicura Urso «non forniremo alcun motivo per una crisi, e non riteniamo che ci sia alcun motivo per una crisi. Sulla giustizia siamo favorevoli ad un lodo per il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio». In attesa del grande incendio tutti si fanno pompieri.

L’allargamento della misura a tutti i ministri incontra, per esempio, la nostra perplessità. Si parla di riproporre il processo breve, nel caso in cui il lodo venisse bocciato dalla Consulta. Il processo breve è una questione estremamente spinosa. Un conto è un provvedimento che riguarda il premier, un altro è una legge che incide sull’intero sistema giudiziario. Non lo si può stravolgere solo per proteggere Berlusconi. In poche parole, diciamo di no nettamente a quella che potrebbe rivelarsi come un’amnistia mascherata. Anche la Lega su questi temi ha da sempre mostrato il proprio scetticismo. Forse non è un caso che i sondaggi la proiettino molto in alto in caso di elezioni. Mettiamo subito in chiaro una cosa: le elezioni possono danneggiare enormemente il Paese, sarebbe una follia politica in un momento economico come questo. Detto questo, è evidente che in un contesto come questo i leghisti possono fare il pieno al nord. E tutto al danno del Pdl. Il nostro movimento farà una durissima campagna elettorale, anche al nord, ma è soprattutto al sud che potrebbe sbancare. E anche questa volta ai danni del Pdl. Ma un nuovo governo? Magari guidato da una personalità autorevole e gradita alla Lega come potrebbe essere Giulio Tremonti? Tremonti è un ottimo ministro dell’Economia. E noi ci rapportiamo a lui, e lo stimiamo, in questa veste. Mi pare prematura andare oltre. In ogni caso prospettive poco rosee per Berlusconi. In caso di elezioni Berlusconi finirebbe schiacciato. Per questo non si voterà, al premier non conviene. Nel caso succedesse, però, siamo pronti: il marchio di Fini per noi è una garanzia. Un marchio macchiato dalla campagna stampa che lo ha investito? Direi il contrario. Feltri sta rimediando una serie di figuracce, una dietro l’altra. E la gente si sta accorgendo che se in Italia qualcuno cerca di esprimere una propria idea indipendente viene bastonato. E questo ha stufato. Il 5 settembre ci sarà la prima festa di Futuro e Libertà. Annuncerete la nascita di un partito nuovo? Non so cosa abbia in mente Fini. Io le posso dire che a mio avviso quella del partito è una strada inevitabile, e che di sicuro il presidente della Camera qualcosa di importante lo annuncerà.

Le elezioni possono danneggiare enormemente il Paese. In un contesto come questo i leghisti possono fare il pieno al nord. E tutto a danno di Berlusconi. Noi, invece potremmo sbancare al centro e al sud


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l’approfondimento

Cronaca ragionata dei rapporti, non sempre felici, tra il premier e il suo (apparente) alleato di ferro. Fino al prossimo addio

C’era una volta Berluskaiser Tutto cominciò nel ’93, quando il Senatùr preferì il Cavaliere a Mario Segni: poi è stata una storia di alleanze e tradimenti, insulti e abbracci. Ora sembrano inseparabili, ma basta guardare indietro per avere qualche dubbio... di Maurizio Stefanini

erluskaiser, Berluscàz, Berluscon de’ Berlusconi... Forse solo Grillo e Forattini hanno coniato per Berlusconi altrettanti insulti di Umberto Bossi. Forattini, però, è uno che per dovere professionele crea etichette sfottitorie a 360 gradi, mentre Grillo dello “psiconano”si considera il pericolo pubblico numero uno. Bossi, invece, è il suo ultimo e apparentemente indissolubile alleato, anche se per la verità non ci fu nessuno che a Berlusconi abbia giocato uno scherzo più cattivo del “ribaltone”. Sono legioni gli altri leader che con Berlusconi hanno finito per rompere. Qualcuno - vedi Dini e Mastella - ha fatto in tempo anche a tornare con lui. Ma sono state tutte rotture consumate o quando il Cavaliere era fuori dal governo o quando ci stava, ma senza provocare la sua estremissione da Palazzo Chigi. La maggior parte, anzi, più che abbandoni, potrebbero essere considerate reazioni a emarginazioni subite, anche se magari non ancora espressamente dichiarate. Anche per-

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ché di sua iniziativa Berlusconi non rompe mai con nessuno. Si limita a cominciare a ignorare, e a mettere da parte.

Va detto che l’attrazione fatale tra Berlusconi e Bossi risale a prima ancora della “discesa in campo”. Il Cavaliere, in particolare, iniziò a dire fuori dai denti che si sarebbe rivolto alla Lega, quando constatò che l’arco costituzionale della Prima Repubblica gli metteva i bastoni tra le ruote, nella “Guerra di Segrate” con De Benedetti sul controllo della Mondadori. E nel 1991 Bossi riconosceva che «Berlusconi è l’unico che ci fa passare in televisione». Nel 1993 lo stesso Bossi ebbe in mano la possibilità di determinare se sarebbe stato Segni o Berlusconi il nuovo leader del polo moderato. L’accordo con Segni siglato da Maroni e poi subito sconfessato servì a liquidare il leader referendario non solo per la scelta in sé di fare invece un asse con Berlusconi, ma anche per la figura da cretino che gli fece fare. Ma subito dopo aver stipulato l’altra inte-

sa con Forza Italia per il Polo delle Libertà Bossi sembrò all’improvviso rendersi conto del potenziale del nuovo contendente sceso in campo, e a cercare di prevenire a colpi di insulti una possibile frana del suo elettorato a suo favore, pur incassando per la Lega il 70% dei seggi uninominali del Nord. «Sforza Italia è la nuova Dc». «Berluscon de’ Berlusconi». «Berluskaiser», appunto. «Berluscàz ha solo una macchina di cartapesta, il nord è nostro. Si levi dalla testa l’idea di fare il premier. Non glielo permettere-

Monopolista, mafioso, peronista: sono solo alcuni degli epiteti bossiani

mo mai: non possiamo mandarci uno che è stato iscritto alla P2, uno che è nato per sconfiggerci, uno che ha un sacco di interessi economici. Per carità, avremmo l’affarismo che governa il paese!». «Non abbiamo fatto l’accordo con Berlusconi perché ci è simpatico. Ci siamo stati obbligati!» (dal medico?). «Da oggi, 13 marzo 1994, Berlusconi lo chiamerò sempre così: Berluscone o Berluscaz. Berlusconi è un grosso imprenditore che ha mille interessi e se fosse presidente del Consiglio si troverebbe a discutere dei

suoi interessi una legge sì ed una no». «La vittoria del partito di Berlusconi è quella di un partito che non esiste e che nasce attraverso la manipolazione televisiva».

In effetti, poi, Bossi con Berlusconi il governo ce lo fece, ottenendo per Maroni il ministero dell’Interno. Ma ciò non impedì che la guerriglia continuasse. «A quello lì, Berlusconi, bisogna togliere le televisioni». «Berlusconi è un dittatore». «Buttiglione è sul libro paga di Berlusconi». «I fascisti salveranno il monopolio di Silvio in cambio del no alle autonomie». Finché proprio cenando a sardine e birra con Buttiglione e D’Alema venne fuori quello che sarebbe stato ribattezato «ribaltone». «Berlusconi si è dimesso: è l’ora di brindare!», esultò Bossi. «Ho fatto la mia battaglia, quando nessuno mi capiva, ho fatto cadere un peronista, uno che ogni sera, dal suo balcone , entrava in ogni casa a a fare il lavaggio del cervello. Il parlamento adesso sarà l’utero della secon-


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Storia di un sodalizio umano e politico che si prepara all’era del post-berlusconismo

Bossi, Tremonti e Calderoli: tre uomini in baita

Il salutismo oxfordiano del Professore, la ruvida sincerità del ministro per la Semplificazione, la geniale spudoratezza del leader del Carroccio di Roselina Salemi vederli (e sentirli), non potrebbero sembrare più diversi. Giulio Tremonti, il Professore oxfordiano dall’aria salutista, amante della montagna e della bicicletta, abituato a coniare eleganti eufemismi della parola “crisi”, attento agli aggettivi, impeccabilmente vestito di grigio, è poco incline all’uso e abuso del verde padano. Roberto Calderoli, ministro per la Semplificazione Normativa, si semplifica la vita non mandandole a dire. Le dice lui, senza troppo filtrare. Così nel 2006 è diventata famosa la sua spiegazione della vittoria italiana i campionati mondiali dei calcio del 2006, nella partita contro la Francia. «Quella di Berlino è una vittoria della nostra identità, dove una squadra che ha schierato lombardi, campani, veneti o calabresi, ha vinto contro una squadra che ha perso, immolando per il risultato la propria identità, schierando negri, islamici e comunisti».

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Quanto a Umberto Bossi, le sue uscite, anche le più spiazzanti, sono calcolate, nei tempi e nel momento, ma a Tremonti che pure al leader della Lega potrebbe insegnare molte cose, a cominciare dalle moltiplicazioni, non verrebbero mai in mente. La Devolution, l’ampolla del Sacro Fiume, la Secessione, il dialetto a scuola, le esagerazioni sulle radici celtiche, con scivolate verso il folklore, tipo miss Padania. Eppure questi tre uomini qualcosa in comune ce l’hanno. Il potere, intanto. Una visione. Il progetto di rifare l’Italia. E una baita, destinata entrare, se non nella Storia, nella Grande Cronaca, perché da anni, ormai è un luogo-simbolo per il centro-destra. In più, allineata alla Mitologia della canottiera, c’è la strizzatina d’occhio pop contro la sinistra chic di Capalbio e Cetona. È la cosiddetta “Baita dei Quattro saggi” nel Cadore, lungo la strada del passo della Mauria, ai piedi del monte Cridola, dove Giulio Tremonti festeggia il compleanno (sono 63, il 18 agosto) e dove, leggenda vuole (ma è una semplificazione anche questa) che Andrea Pastore (Fi), Francesco D’Onofrio (Udc), Roberto Calderoli (Lega) e Domenico Nania (An), tra polenta e cabernet abbiano scritto la bozza della devolution nel 2003. Ispirati dal paesaggio carducciano («...e Lorenzago aprica tra i campi declivi che d’alto la valle in mezzo domina»). (Udc), pare che i saggi siano rimasti rinchiusi tre giorni nella baita spartana («c’erano perfino gli infissi in alluminio», ammise D’Onofrio) trovando lo slancio giusto per modificare la seconda parte della Costituzione. E, alla fine, per dirla con Calderoli, «quattro topolini partorirono una montagna»: una bozza di ventuno pagine, con il disegno della nuova Italia, che poi sarebbe stata bocciata con il referendum costituzionale.A Lorenzago, dove ci sono quarantaquattro Tremonti (Mario, Nizzardo, Luigino e vari) e a turno uno fa il sindaco, a Lorenzago, dove il ministro dell’Economia e delle Finanze ha ristrutturato un fienile con lo stemma di tre monti

e due alberi, non si sta male, anzi, visto che ci fa le vacanze Papa Benedetto XVI, si può riprovare a fare l’Italia.

Così il compleanno tra amici, perché lo sono, come i tre moschettieri, e forse a Tremonti piace la ruvida sincerità di Calderoli, come la geniale spudoratezza di Bossi, e forse Calderoli invidia l’aplomb di Tremonti e la geniale spudoratezza di Bossi, e forse Bossi, dall’alto della sua geniale spudoratezza, ammira il tono professorale di

Qualcosa in comune ce l’hanno. Il potere, intanto. E poi una visione: il progetto di rifare l’Italia Tremonti, come la spericolata spontaneità di Calderoli, diventa un summit per la gioia dei giornalisti. E la cena, tutt’altro che mondana all’hotel Ferrovia, un ruspante tre stelle come tanti, dimostra che l’asse Tremonti-Bossi-Calderoli (TreBoCa, facile come sigla) resiste. Insieme, ma circondati da altri, (il sindaco, consigliere Rai Angelo Maria Petroni, professore di epistemologia) parlano di politica e di bermuda (quelli di Calderoli), di federalismo fiscale, di magistrati padani e insegnanti padani, parlano di storia, perché con Tremonti è impossibile farne a meno. Umberto Bossi, che è arrivato tardi, gli ha portato in regalo Il regno del Nord, un libro di

Arrigo Petacchi su Cavour, «noioso, ma interessante». Roberto Calderoli gli ha portato la compagna Gianna Gancia, anche lei militante. Ci sono state dicono, le classiche rievocazioni, il 2003, il 2004, il 2007, la polenta, l’acqua troppo fredda, il fatto che non si può scrivere una riforma in pantaloni corti, e quella volta che Tremonti voleva portare Bossi in bicicletta e lui aveva i dolori all’ernia «...e ne abbiamo fatta di strada».

Bossi ricorda che quando lui è stato male e hanno fatto fuori il suo amico Giulio e oggi gli riconosce pubblicamente il merito dell’accordo con il Cav nel 2000. Ma avranno qualcos’altro il comune, oltre il partito, la baita e una certa, reciproca compensazione. Hanno simpatia per le mogli baby pensionate (Manuela Marrone per Bossi e Fausta Beltrametti per Tremonti) che hanno più tempo da dedicare agli impegnatissimi coniugi, e, potendo sceglire, anche mogli moderatamente invadenti. Calderoli si è sbarazzato da un po’ dell’esuberante Sabina Negri. L’attuale lady, Gianna Gancia, ambiziosa, tutt’altro che pensionabile, e insospettabilmente tenace, resiste, come le altre due signore, sulla linea Maginot della pazienza. Ma, con il dovuto rispetto per le cariche istituzionali e il loro peso politico, il trio ricorda qualche volta, Aldo Giovanni e Giacomo, dove non sempre è chiaro chi è il comico e chi la spalla, e i comici sono almeno due. Così, il duetto BossiCalderoli sul prossimo sindaco di Bologna (presenti i giornalisti). Senatùr , rivolto a Calderoli: «Tremonti ha detto: lasciamolo fuori quello lì». E Calderoli: «Pensa che io gliel’ho chiesto, e lui mi ha risposto di sì. Se me lo chiedete lo faccio. E io: è l’ultima cosa bella che puoi fare». Voce fuori campo: «Viene dal centro sinistra? Un aiutino!». Bossi: «Piace tanto alle donne». (non ha detto proprio così). Calderoli: «Zitto, sennò capiscono». Tremonti non apre bocca. Questa volta, fare la spalla, tocca a lui.

da repubblica». «Berlusconi imprenditore? Mi viene da ridere. Semmai faceva il prestanome. Il suo progetto non è altro che il piano di Gelli. Le due strategie sono sovrapponibili: Forza Italia è la P2». «Berlusconi come presidente del Consiglio è stato un dramma». «L’Europa vuole che Fini e Berlusconi siano fermati sulla battigia e buttati a mare; fascisti erano, fascisti sono e fascisti rimarranno». «Berlusconi ha preso soldi dalla mafia, è un delinquente». «L’elettorato leghista non vota i fascisti, i porci fascisti, e cioè Berlusconi e Fini».

A un certo punto, la Lega registra un importante cambiamento di rotta. Al momento del “ribaltone” e della nascita del governo Dini, infatti, l’appoggio esterno al nuovo esecutivo segna una fase in cui la Lega si propone come possibile nuovo polo centrista a livello nazionale, nel momento in cui il Ppi abbandona la posizione centrista per trattare con il Pds il nuovo centro-sinistra dell’Ulivo, a guida Romano Prodi. È il “Polo del Guerriero”, con cui la Lega va alle regionali del 1995. Ma subito dopo, vista l’indifferenza del Centro-Sud, inizia una sterzata neo-indipendentista, in nome del Parlamento del Nord e dei referendum sull’autodeterminazione della Padania. Unica costante: l’avversione per il Cavaliere. «Berlusconi? non voglio parlare di quel delinquente. io voglio andare nelle piazze a scatenare il nord contro di lui. Berlusconi è un mafioso. Il parlamento del nord sarà costretto ad intervenire con mezzi drastici». «Berlusconi è stato messo lì dalla mafia. Ha creato un partito per strangolare la Lega». «Berlusconi è il garibaldo di Fini». Una tregua è stabilita nel 1997, quando Lega e Polo delle Libertà tentano un’intesa alle amministrative per Venezia. «Io non voglio lasciare Venezia all’Ulivo, ai comunisti e ai teocratici... Berlusconi è costretto a fare quello che gli dicono D’Alema e i teocratici... se vuole tentare l’avventura venga e andiamo in giro». Ma già nell’agosto del 1997 Berlusconi ridiventa «un povero pirla»: «Un marmaglione che non capisce niente di politica». «Berlusconi è un brutto porco che dovrà rispondere al popolo del nord di essere sceso in politica al solo scopo di affossarci. La Lega a Berlusconi lo ficcherà in quel posto». «Fini e Berlusconi sono degli imbroglioni, c’è solo da schiacciarli nella cabina elettorale». Anzi, nella “gabina”. «Berlusconi cerca l’alleanza con la Lega per confondere i suoi problemi giudiziari con i nostri». Un’alleanza che, in effetti, nel 2001 sarà stabilita. Anche se, forse, è solo un mezzo per «ficcarlo in quel posto» al Cavaliere stesso; ma col consenso, ancorche inconsapevole, del diretto interessato.


politica

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Il personaggio. L’ambasciatore parla dell’«amico», della sua fede totale nello Stato come nelle alleanze internazionali

L’Occidente di Cossiga Dal Patto Atlantico all’impeachment: Sergio Romano ricorda il grande statista di Francesco Capozza

ROMA. Da un uomo come Sergio Romano, che ha percorso tutte le tappe della carriera diplomatica fino ad arrivarne al vertice, ci si aspetterebbero aneddoti legati ai rapporti formali con l’ex presidente Francesco Cossiga, morto all’età di 82 anni martedì scorso. Invece, per sua stessa ammissione, i rapporti con il presidente emerito della Repubblica si sono infittiti negli ultimi anni, quando Romano aveva già abbandonato la diplomazia per dedicarsi all’attività giornalistica e saggistica. Ambasciatore Romano, quando era “in servizio” aveva rapporti con Cossiga? A dire il vero quando ero ambasciatore ci siamo incontrati spesso ma sempre in occasioni formali, come i ricevimenti al Quirinale o per incontri puramente di lavoro. Con “l’uomo” Cossiga ci siamo conosciuti meglio dopo, quando entrambi avevamo lasciato i nostri incarichi pubblici. In che occasioni, se posso, vi sentivate o vedevate? Come lei certamente saprà l’ex presidente era una persona che amava conversare al telefono, specialmente nelle prime ore del mattino. A me, come ad altri colleghi giornalisti, chiamava per complimentarsi o per confrontarsi dopo aver letto i miei editoriali sul Corriere della sera. Ne venivano fuori delle lunghe chiacchierate molto interessanti che ricordo con piacere. Che ricordo ha del Cossiga privato? Era un uomo dalla grande cultura ma allo stesso tempo dalla grande ironia. Non posso negare che mi era molto simpatico. Sapeva confrontarsi in modo molto aperto ed era certamente una persona espansiva. C’è un episodio della storia recente legato alla figura di Francesco Cossiga che l’ha particolarmente colpita? Ce ne sono molti, uno in parti-

colare mi colpì molto all’epoca della sua presidenza della Repubblica. Mi riferisco all’ultima fase del suo settennato, quando per lui fu richiesto addirittura l’impeachment. Ecco, io rimasi molto colpito dal fango che gli venne gettato addosso e in particolar modo dalle accuse di squilibrio mentale che gli vennero rivolte. Lui diceva di non «essere matto», ma di farlo apposta… Ovviamente non lo era, tutt’altro. Credo invece che fosse tutta una tattica per far capire a chi lo circondava che l’Italia era cambiata rispetto a quando la Costituzione era stata scritta. Che i mutamenti politici erano grandi e che c’era davvero bisogno di un cambiamento radicale. Certo a lui piaceva anche stare sulla scena… Si era stufato di fare il notaio? Chissà, forse. Certamente non si può negare il suo comportamento per certi versi narcisistico. A lui piaceva stare sotto i riflettori ed essere seguito dai giornalisti. Non so se lo sa ma quella figura giornalistica che oggi viene comunemente definita “quirinalista” è nata sotto la sua presidenza, all’epoca delle cosiddette “picconate”. Cossiga è stato anche l’uomo delle dimissioni. Una su tutte quella da ministro dell’Interno dopo l’assassinio di Aldo Moro. Avete mai parlato di quei momenti nelle vostre conversazioni? No, non ne abbiamo mai parlato a dire il vero, ma in proposito mi sono fatto comunque una mia idea ben precisa. Quale? Credo che egli soffrisse molto per aver compiuto azioni diver-

se da quelle che la sua coscienza gli avrebbe dettato. Rileggendo anche le lettere di Moro – che era uno dei suoi maestri dalla prigionia lo stesso statista in mano ai rapitori scrisse di ritenere le azioni dell’allora ministro dell’Interno frutto di “imposizioni” politiche.

di quei politici cattolici che tesseva rapporti esclusivamente con le gerarchie ecclesiastiche. Ma era amico del papa regnante, come ha ammesso il cardinale Tarcisio Bertone. Era amico del teologo e dello studioso, non del papa. I rap-

Quando era al Quirinale, con tutti i suoi interventi, anche duri, voleva far capire a chi lo circondava che l’Italia era cambiata rispetto a quando la Costituzione era stata scritta Cossiga si comportò come gli disse il presidente del Consiglio di allora, Giulio Andreotti? Cossiga fu uomo di Stato e fece quello che la ragion di Stato gli impose ma lui non era un uomo che dava partita vinta all’avversario e per questo motivo, io credo, soffrì moltissimo per la sua incapacità di salvare Aldo Moro. Nelle quattro lettere lasciate ai vertici dello Stato traspare un uomo al contempo devoto alla nazione e alla Chiesa. Che cattolico era Francesco Cossiga? Cossiga era un cattolico liberale, ma non come lo intendiamo noi oggi, bensì nell’accezione vera del termine, in senso risorgimentale per capirci. Il fatto che fosse sardo non è un elemento trascurabile e poi non era papalino, cioè non era uno

porti tra i due sono molto precedenti all’elezione al soglio di Pietro di Ratzinger. Tornando alla domanda precedente, dalla sua descrizione sembra quasi che Cossiga fosse un “cattolico laico”… Aveva una visione tutta sua dello Stato. Le faccio un esempio per farle capire. A suo tempo rimasi molto colpito dalle reazioni che ebbe Cossiga, che all’epoca era presidente della Repubblica, sulla massoneria. Sulla massoneria? Esattamente. Contro la massoneria, giudicata eversiva, erano da sempre sia i democristiani che i comunisti. All’epoca era stata proposta una legge che penalizzava l’appartenenza alle organizzazioni e poco dopo fu portato in seno al Csm il rapporto che due magistrati avevano con una società massonica.


politica

20 agosto 2010 • pagina 7

Familiari e amici intimi si sono stretti intorno al presidente emerito

E la Sardegna si inchina al suo «eroe italiano»

In mattinata i funerali, in forma privata, a Roma, poi a Sassari l’ultimo saluto nella sua terra d’origine di Pierre Chiartano

SASSARI. «Ciao presidente»: un solo grido e un

Egli reagì aspramente perché lo infastidiva molto che chi apparteneva ad organizzazioni parastatali fosse discriminato. Questo era l’uomo, questo era il sardo Cossiga. Nel penultimo periodo della sua vita è tornato a gamba tesa nella politica, riuscendo a formare un partito e a portare a palazzo Chigi un ex comunista. Desiderio di proscenio? Quell’episodio va letto diversamente rispetto alla semplice operazione di palazzo che molti gli attribuirono. E come? Volle portare alla presidenza del consiglio un ex comunista perché di lì a poco si sarebbe

nare dei missili Cruise in risposta ai SS20 sovietici, puntati verso occidente. Il Cancelliere tedesco Helmut Schmidt era favorevole ma servivano alleati forti. La Francia si fece indietro e Cossiga, prendendosene tutta la responsabilità politica, offrì agli americani Comiso come base militare. Ambasciatore, in questi giorni da più parti si sente dire che Cossiga si porta nella tomba molti misteri italiani, lei crede davvero all’idea che lui sapesse molto di più di quanto noi stessi immaginiamo? No, non penso. Certamente egli aveva molte più informazioni rispetto alla pubblica

Volle portare alla presidenza del Consiglio un ex-comunista perché di lì a poco si sarebbe svolta la guerra in Kosovo: sapeva che Prodi era duramente contrario mentre D’Alema era favorevole svolta la guerra in Kosovo. Cossiga sapeva che Prodi era contrario mentre D’Alema favorevole. L’ex presidente era un filo-atlantista, non dimentichiamocelo. Ci sono molti episodi che lo attestano. Ne ricorda almeno uno? Nel dicembre dl 1979 Cossiga era presidente del Consiglio e come tale prese parte a un vertice atlantico drammatico. Si doveva decidere se accettare la richiesta americana di posizio-

opinione su tanti avvenimenti accaduti nel nostro Paese negli ultimi cinquant’anni. Mi pare normale per un uomo che è stato a lungo alla Difesa e poi ministro dell’Interno, presidente del Consiglio ed infine, dopo aver presieduto anche il Senato, è divenuto capo dello Stato. No, io credo che egli giocasse anche molto su questo alone di mistero che circondava la sua figura e la sua esperienza pubblica.

lunghissimo applauso, così la sua Sassari ha salutato ”alla voce”per l’ultima volta Francesco Cossiga. Migliaia di persone hanno atteso fin dalle prime ore del mattino per accogliere l’arrivo della salma del Presidente emerito, morto il 17 agosto in seguito ad una crisi cardio circolatoria. Qualche ora prima a Roma era continuato il commiato al presidente. Poche persone, solo una ventina, tra familiari e amici strettissimi, avevano partecipato, nella chiesa dei Santi Ambrogio e Carlo in via del Corso, a una messa in suffragio. La funzione religiosa ha rappresentato un momento di raccoglimento spirituale, organizzato dalle persone più vicine al presidente, dopo che la folla era sfilata, mercoledì, nella camera ardente preparata nella Chiesa madre del Policlinico Gemelli. Era stato il prologo al momento solenne dei funerali che si sono tenuti ieri alle 10.30 nella città natale di Cossiga. La bara dell’ex presidente, avvolta nella bandiera dei quattro mori e in quella italiana, era accompagnata dal figlio Giuseppe, visibilmente commosso. Più indietro gli altri familiari. La funzione funebre è stata officiata dal vescovo di Sassari Paolo Atzei.«Era un uomo assetato della verità e della giustizia, tutti riconoscono che è stato fedele allo Stato, alla sua coscienza e a Dio. È stato un uomo di grande fede fin dalla sua giovinezza». Così monsignor Pietro Meloni, vescovo di Nuoro e grande amico di infanzia di Francesco Cossiga ha ricordato il presidente Emerito, nel corso del funerale. Il sacerdote ha citato l’esponente democristiano chiamandolo più volte affettuosamente «Francesco». Monsignor Meloni ha inoltre sottolineato come Cossiga avesse «pianto lacrime sincere per la tragedia del suo amico Aldo Moro».

ca Berlinguer ha abbracciato Anna Maria – la figlia di Cossiga – in lacrime, mentre il feretro lasciava la chiesa. E sono scese le lacrime anche sul volto dell’altro figlio Giuseppe, si è commosso Beppe Pisanu, accanto a Mario Segni, Arturo Parisi ed Enzo Carra. Davanti al sagrato due ali di cittadini, diverse migliaia, hanno applaudito al passaggio della bara, salutata dal Gis e dagli Incursori della marina.

È stata una cerimonia senza autorità, come richiesto espressamente dal presidente nelle sue ultime volontà. E infatti neanche Silvio Berlusconi, che pure è in Sardegna, ha partecipato al rito funebre. Gli unici rappresentanti delle istituzioni presenti sono stati Ugo Cappellacci, presidente della Regione Sardegna, e i sindaci di Sassari e Chiaramonti. Il ricordo che più ha commosso amici, parenti, ex compagni di partito e sassaresi che affollavano la chiesa di San Giuseppe, è stato un altro passaggio di monsignor Meloni. «Seppur picconava con amore, la sua vittima di turno faceva fatica a leccarsi le fe-

La salma dell’ex presidente della Repubblica è giunta all’aeroporto di Alghero con un C-130 dell’Aeronautica militare. Ad accoglierlo c’era il picchetto d’onore della Brigata Sassari

Il presule ha poi aggiunto come Cossiga sia stato «un grande uomo di Stato, come ha sottolineato Napolitano a nome di tutti gli italiani». Il vescovo di Nuoro ha descritto l’amico come un uomo guidato dallo stile «dell’onestà, del dialogo, della tolleranza e del rispetto di tutti. Aveva sete di cultura e forse aveva sentito la voce di una chiamata alla vita del Vangelo. Sapeva fare anche il nonno con amore. Oggi si è spenta la luce negli occhi di Francesco Cossiga, ora si avvera il sogno di vedere Dio». Il feretro dell’ex presidente era giunto presso la Chiesa di San Giuseppe verso le 11, chiesa a cui lo scomparso era molto legato e dove si recava spesso in preghiera per cercare quel raccoglimento che spesso mancava agli uomini travolti dalle responsabilità. E nella chiesa c’è stato un segno tangibile di vicinanza tra due famiglie sassaresi. Bian-

rite», ma si trattava a volte anche di «qualche pavoneggiamento che lui stesso riconosceva, pentendosene e sentiva il dovere di dover essere perdonato». Era però, come gli confidò lui stesso descrivendo la fase da ’picconatore’, convinto di dover smuovere un sistema, quando riscoprì il proverbio che dice“dai matti e dai bambini si può sentire la verità”». L’ultimo ricordo amaro e un pò commosso è di Pisanu, all’uscita dalla chiesa: «Se n’è andato l’ultimo dei grandi sardi. È una perdita per molti di noi, ma soprattutto per l’Isola». La salma dell’ex presidente della Repubblica era atterrata poco dopo le 10 all’aeroporto di Alghero-Fertilia con un Hercules C-130 dell’Aeronautica militare. Ad accoglierlo il picchetto d’onore della Brigata Sassari, come aveva chiesto Cossiga prima di morire. La salma di Francesco Cossiga è poi giunta al cimitero di Sassari dove sarà sepolto nella cappella di famiglia, vicino ai propri genitori.


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politica

Progetti. Per il leader centrista «serve una svolta, ma senza Pdl e Lega sarebbe un esecutivo debole»

«Riconciliare la nazione» Buttiglione dà a Casini la prima tessera del nuovo Partito di Alessandro D’Amato

ROMA. «Il Partito delle Nazione nasce per riconciliare l’Italia perché questo è un Paese che si sta drammaticamente rompendo». Non ha dubbi, il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, che a Otranto ha dato il via alla raccolta di adesioni per il nuovo soggetto politico, il Partito della Nazione, del quale tra l’altro Rocco Buttiglione gli ha consegnato simbolicamente la tessera numero uno.

E la scelta della cittadina pugliese per cominciare il percorso che, nelle intenzioni dell’Udc, dovrà portare alla formazione di un grande centro, non è casuale: la partita si gioca a Sud, che ci siano o meno le nuove elezioni politiche. Lo sa bene Gianfranco Fini, che guarda al Meridione come un serbatoio di voti ricco dopo la separazione da Berlusconi. Lo sa bene Silvio Berlusconi, che ha annunciato a settembre il nuovo programma di governo e uno dei punti riguarda proprio il Mezzogiorno. Ma il Sud interessa anche a Pier Ferdinando Casini. Se si dovesse andare alle urne, infatti, sia Fini sia il leader dell’Udc hanno ottime chance al Meridione per arginare l’avanzata della Lega, la quale, da parte sua, ha già annunciato di avere intenzione di presentare liste in tutta Italia. Per l’opposizione a Berlusconi, è una corsa contro il tempo e così Casini ha presentato il suo nuovo soggetto politico proprio in Salento, quasi a dare il senso

di un percorso sociale e politico dal Sud al Nord, opposto a quello di moda in questi ultimi anni. E infatti è un percorso che, nelle intenzioni del leader Udc, nasce per unire: «Il Nord contro il Sud, la politica contro la società civile, i magistrati contro la politica, la destra contro la sinistra. Così - ha detto - non si può andare avanti, tante famiglie, intanto, non hanno potuto fare le vacanze questa estate. Non sono stati fortunati come noi. Ricostruiamo l’unità del Paese». Sul Sud, Casini ha detto che in questi anni ci sono stati tanti trasferimenti di risorse straordinarie dal Sud verso il Nord. Ma tante volte - ha sottolineato - il Sud non ha amministrato bene. Il Sud deve cambiare e il Nord non deve pensare che il Sud sia solo un problema perché può essere una risorsa».

E arriva anche un’adesione importante, non solo per la regione Puglia: nel giorno della nascita del Partito della

risco a questo soggetto fino a quando non comprendo se è un nuovo partito - un Udc allargato - oppure se assumerà la formula di un rassemblement. Se Casini dovesse scegliere lo schema di un rassemblement di centro o di destra-centro allora con piacere ci entrerei», ha detto l’ex sindaco di Lecce.

Comunque, nel giorno del varo della nuova creatura il leader dell’Udc non ha esitato a dare giudizi sui temi della politica nazionale. «Chi in queste ore attacca il capo dello Stato non conosce la Costituzione italiana», ha detto a Otranto: «Il presidente della Repubblica, se questo governo si dimettesse, ha il dovere di cercare se c’è una nuova maggioranza in Parlamento. Ma senza Berlusconi e la Lega, sarebbe un esecutivo debole». Sulle dimissioni di Fini, Casini è stato altrettanto chiaro: «Non si danno, a meno che non venga meno ai suoi doveri di presidente della Came-

«Il vero limite di Berlusconi? È il campione del mondo a vincere le elezioni ma poi non è mai in grado di governare»: a Otranto l’atto di fondazione della nuova formazione politica Nazione, evoluzione dell’Udc, la senatrice Adriana Poli Bortone, presidente del Movimento «Io Sud» e già ministro delle politiche agricole e candidato centrista alla presidenza della Puglia, annuncia ad Affaritaliani.it che è pronta ad aderire alla nuova formazione di Pier Ferdinando Casini. «Non ade-

ra, e lui non l’ha fatto». La legge elettorale, invece, «va cambiata soprattutto in un punto: bisogna ridare la possibilità agli italiani di scegliere i propri parlamentari. Non è possibile che quattro o cinque leader impongano dal primo all’ultimo parlamentare italiano. Le preferenze sono un fatto di demo-

crazia». Anche sul premier il giudizio è chiaro: «Berlusconi è il campione del mondo a vincere le elezioni, ma non è il campione del mondo a governare. Vince le elezioni e, poi, non è in grado mai di governare», ha spiegato ai microfoni di SkyTg24. «Hanno vinto le elezioni, vadano avanti. Questa evocazione continua delle elezioni anticipate è una scorciatoia, una prova di impotenza. Berlusconi ha vinto, ha 100 parlamentari in più e ci ha spiegato che ci sarebbe stato il miracolo italiano: allora lo realizzi», ha concluso Casini.

Anche perché adesso sembra proprio Berlusconi a non essere tentato dalle urne, visto che renderebbero la Lega, destinata a una grande vittoria, ancora più forte. Mentre la prosecuzione della legislatura permetterebbe a Casini di continuare a tessere quella tela in cui potrebbe avvolgere sia l’Api di Francesco Rutelli sia il neonato movimento di Gianfranco Fini, che verrà ufficialmente varato ai primi di settembre. Alla fine, Casini ha avuto parole anche per ricordare Francesco Cossiga: «È stato un testimone scomodo della nostra storia recente, un uomo anticonformista, coraggioso, un grande rinnovatore, un anticipatore», ha detto a Sky Tg24. E poi: «Sentiamo tutti la sua mancanza e poco fa lo abbiamo ricordato qui sulla spiaggia con un minuto di raccoglimento in una giornata che è anche l’anniversario della scomparsa di De Gasperi».


L’

otto pagine per cambiare il tempo d’agosto

i m p r e s a

20 agosto (2009)

Ai m o n d i a l i d i B e r l i n o Us a i n B o l t a b b a s s a i l r e c o r d d e i 2 0 0 a 1 9 , 1 9 s e c o n d i

La Gazzella dello Sport di Francesco Napoli

iamaica, poco più di 10mila metri quadrati. Trelawny, piccolo borgo di quell’isola. Era lì, nel porticciolo che ancora oggi non si è ingrandito più di tanto, che alla fine dell’Ottocento attraccavano le navi dei mercanti di schiavi provenienti dall’Africa occidentale con l’oro nero del tempo, la manovalanza a costo zero per le immense piantagioni di zucchero. Forza fresca, da sfruttare adeguatamente per i ricchi latifondisti. Sulla banchina del porto scendevano file di uomini incatenati e maltrattati, pronti a essere messi all’asta. Ma i negrieri lo sapevano bene: per la raccolta della canna da zucchero necessitavano i più forti e i più resistenti, uomini oltre la media. Ci voleva carne di prima scelta. Gli altri, i più deboli o i più provati dal viaggio, non li facevano neppure scendere, li destinavano ad altri mercati meno esigenti. Andavano così a ruba tra i proprietari terrieri quei nerboruti dal volto nero e così fieri da sembrare già pronti alla sfida. Quasi 30mila gli schiavi nell’isola prima della messa al bando di quell’orrendo mercato e oggi più del 90 per cento degli abitanti di questa terra ha la pelle nera e discende da quella migrazione forzata. Usain Bolt è nato lì, a Trelawny, contea di Cornwall nella suddivisione giamaicana del territorio, il 21 agosto 1986. Ha nel sangue la memoria della schiavismo: «Siamo figli del dolore», disse in uno dei rari momenti confidenziali. Ha nel sangue il piacere assoluto di correre, il talento naturale per la corsa. Non si ricordano giamaicani che in atletica leggera si siano distinti nelle gare di fondo. Lui stesso, Usain, era destinato ai 400 metri piani.Troppi anche per lui. Volevano farlo diventare un cavallone per quella distanza, ma lui faceva fatica. In Giamaica, dove il sole spacca le pietre quasi tutto l’anno, è una misura quasi incolmabile. Con Glen Mills, suo allenatore da sempre, non poteva ammettere certa pigrizia, forse solo mentale, e allora la mise su un piano devozionale, di ispirazione.

G

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LA PERDUTA GENTE - CAPITOLO 14

I TESORI DELLE CIVILTÀ - PAGAN

CINEMA CALDO - LE VACANZE DI MONSIEUR HULOT

Molti sassolini fanno una valanga

Nella terra delle mille pagode

Jacques, il fatalista al mare

di Carlo Chinawsky

di Alessandro Boschi

di Rossella Fabiani

pagine 12-13

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pagina 16 pagina 9 - liberal estate - 20 agosto 2010


Usain diceva a Glen che era vocato per le misure brevi ma veniva guardato storto quando attaccava questo discorso. «Vediamo come te la cavi», deve avergli detto un giorno il trainer. Alto, dinoccolato, ancora sgraziato nel portamento, il giovanissimo Usain fermò allora i cronometri sui cento metri a 10 secondi e 3 decimi.Vinse la sua battaglia vocazionale e da allora è diventato l’uomo più veloce sulla faccia della Terra.

Se questo è stato possibile per qualcuno è merito dell’eugenetica, del laboratorio speciale che si è venuto a creare in questo isolotto oceanico, prospicente gli States, dai tempi della schiavitù. Ma altri, più accortamente, contestano che il grandissimo successo della Giamaica in queste discipline della velocità sia da attribuire alla eugenetica praticata dai proprietari terrieri e gli schiavisti che caratterizzarono il periodo coloniale. In tale epoca, infatti, i coloni necessitavano di enorme forza lavoro da affidare agli schiavi di africani, che spesso, alla stregua degli animali (in quanto tale era la loro considerazione) venivano sottoposti a pratiche selettive. Tali affermazioni non sono provate, e sono comunque discutibili, dato che il fenomeno della schiavitù si è avuto in modo analogo in diversi luoghi e Paesi, e non è esclusiva della Giamaica. Piuttosto appare possibile che in Giamaica la confluenza di individui, provenienti da diversa origine, di caratteristiche fisico-psichiche particolari, e la successiva libertà di reincrocio in un ambito geografico relativamente ristretto, abbia prodotto una sorta di selezione elettiva di alcuni caratteri peculiari. Questa ultima ipotesi è meno fantasiosa, e ha il vantaggio di non necessitare di conferme, dato che è basata su fatti noti e previsti dalle comuni regole di genetica, generale e umana. Fatto sta che in Giamaica, tra le piantagioni di canna da zucchero, è cresciuta una selezionatissima specie di sprinter, al maschile come al femminile. Da Don Quarrie, oro nei 200 metri a Montreal 1976, ad Asafa Powell, amicorivale di Bolt e anche lui per un po’recordman sui 100 metri piani con 9 secondi e 74 centesimi. Senza scordarsi poi che lo squadrone giamaicano dei velocisti a Pechino 2008 ha fatto il vuoto dietro di sé portandosi a casa oro e record del mondo. E poi le donne: da Marlene Ottey che a cavallo tra anni Ottanta e Novanta ha dominato la scena su 100 metri e doppia misura prima di lasciare il testimone a Veronica Campbell (campionessa del mondo in carica sui 100 e olimpionica sui 200) e a Melanie Walker, che ha più voglia di correre coprendo l’intero anello della pista e per di più a osta-

coli guadagnandosi l’oro a Pechino 2008. Agosto 1986, Usain nasce e quel nome che non ha corrispettivo occidentale possibile viene fuori tra caso e scaramanzia. Mamma Bolt incinta incontra per strada un ragazzino che le tocca con affetto il pancione. «Chiamalo Usain e vedrai!». Così è stato. Poi, come tutti i ragazzini del luogo, Usain cresce a banane e patate condite con la musica e la danza. A ballare ha imparato da zia Lily, la vera capofamiglia Bolt che ancora oggi organizza la raccolta di canna da zucche-

di Serani. Batte il tempo, quello musicale, certo, ma anche quello dei record. Quando scende in pista, per concentrarsi meglio prima della partenza, giunge ai blocchi al ritmo della musica del suo iPod. Agosto è pro-

Tra le piantagioni di canna da zucchero, è cresciuta una selezionata specie di sprinter, di cui Bolt è l’ultimo prototipo: da Don Quarrie a Powell

ro facendo rigare dritto squadre di ragazzotti col machete.

La passione per la musica è rimasta intatta in lui. Appena ha potuto farlo, Usain si è comprato una consolle professionale da dj e ama ritmare il reggae giamaicano di Elephant Man e

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prio il suo mese, come quello della sua patria che il 6, anno 1962, divenne indipendente dall’Impero Britannico.

E ad agosto si sa, l’atletica leggera diventa la regina dello sport internazionale, anche nell’anno dei mondiali di cal-

In queste pagine, lo sprinter giamaicano Usain Bolt, che ai mondiali di Berlino del 2009 ha abbassato il record del mondo dei duecento metri a 19,19 secondi. L’atleta ha espresso il desiderio di essere nominato baronetto dalla Regina cio: è sempre così. stato Usain Bolt non è un uomo qualsiasi, è una specie di aereo sempre pronto al decollo. Per intendersi: supera i quaranta chilometri orari se adeguatamente lanciato, tipo nella staffetta. E questo non nel cuore della stagione bensì all’inizio. Dove arriverà, questo non si sa. Modelli da prendere a prestito, nessuno; aggettivi, decisamente esauriti: Usain Bolt, giamaicano, è la perfezione dell’atletica. Un’esplosiva dimostrazione è ancora segnata a un memorabile 20 agosto naturalmente, 2009. Nei mondiali di atletica

in corso di svolgimento a Berlino ha lasciato tutti a bocca aperta, compreso il principe Alberto di Monaco, stampando un mitico record nei 100 metri piani: 9 secondi e 58 centesimi. Stando alle cronache Usain neanche ci pensava di andare a Berlino per strapazzare i suoi record, pensarlo di fare, diceva in giro, può distrarre dall’obiettivo che è, naturalmente, vincere. Dopo lo strabiliante oro delle Olimpiadi di Pechino 2008 aveva ripreso con fatica e ritardo la sua preparazione. La Giamaica è un’isola così solare, lui ormai lì è un divo, un Brad PittAchille al quale i due milioni e mezzo di abitanti dell’isola guardano con venerazione. Così, tirando avanti tra una festicciola e un’altra come nessun atleta dovrebbe, ha ripreso ad allenarsi un po’ tardi. Poi ad aprile di quell’anno ha perfino avuto un brutto incidente con l’automobile. Ma a cosa gli serve l’auto, mi chiedo, se quasi quasi rischia a piedi di prendersi una bella multa dall’autovelox? Comunque sia, arrivato a Berlino, non appare nella miglior forma possibile, ma sempre favorito è. Così, dopo un primo record, saggia la pista per il doppio della misura, i 200


L

o stesso giorno...

Galileo Ferraris, la scintilla italiana del motore asincrono di Francesco Lo Dico il 20 agosto del 1885, quando Galileo Ferraris dà pubblica dimostrazione del risultato dei suoi studi. Davanti agli occhi degli astanti, grazie un campo magnetico rotante generato da due bobine fisse tra loro perpendicolari, un piccolo cilindro di rame si mette in movimento. Le correnti isofrequenziali in quadratura, producono cioè energia elettrodinamica, la stessa che segna l’inizio del motore asincrono. L’ingegnere piemontese, assistente di fisica tecnica al Regio Museo Industriale Italiano, fa conoscere alla comunità scientifica le sue teorie soltanto tre anni dopo, quando pubblica i suoi studi sulla rivista L’Elettricità. Un ritardo che gli vale la beffa ordita ai suoi danni da un americano di origine slava. Nicola Tesla spulcia per benino le teorie di Ferraris, e poi deposita cinque brevetti sui motori asincroni intestandoli a se

È

metri piani. Giunge nello stadio e come sempre ha nelle orecchie le sue canzoni preferite; ai blocchi di partenza si mette a ballare prima della gara, quasi

a smorzare la tensione, mentre tutti i suoi concorrenti del giorno, a Berlino da 74 nazioni differenti, accanto a lui sembrano perfino come immusoniti nella loro concentrazione in attesa della partenza. Insomma, il Bolt già visto all’opera in precedenza, e con che risultati. In semifinale, poi, è capace perfino di scherzare con il suo compagno di allenamento, «balzerò davanti a te, vedrai, così non mi prendi», deve aver detto a Bailey al via. Poi la storia, appena cominciata è già finita.

Nella finale ha spazzato via tutti. Bolt neanche ci pensava a farlo il record, gli sarebbe bastato vincere l’oro, quello sì, sennonché mentre fa il razzo si guarda indietro e non si fida del passo di Alonso Edward, Panama, e di Wallace Spearmon, Stati Uniti. Accelera e spinge dall’inizio alla fine come solo lui sa fare. Forse anche perché Bolt ha

sincera considerazione dei suoi avversari, non li blandisce, li rispetta e basta. Sarà, ma ha fatto il vuoto dietro di lui, avversari che correvano, slanciavano in avanti le loro leve e lui invece sembrava quasi passeggiare con quelle sue gambe degne di un pivot. La sensazione è di veder lui corerre serenamente sulla pista e gli altri annaspare nella sabbia. 19 secondi e 19 centesimi: tutti a casa. Per fortuna non lo voleva fare il record e non era neppure tanto in forma, altrimenti cosa sarebbe succes-

Quella ideata dallo scienziato è a oggi la macchina elettrica rotante maggiormente diffusa nel mondo. Su questo modello trifase è imperniato il funzionamento del motore a induzione

contemporaneo stesso. Non ancora addentro alle sorgenti prassi capitalistiche, Galileo incassa con superiore bonomia: «Ho visto a Francoforte che tutti attribuiscono a me la prima idea, il che mi basta. Gli altri facciano pure i denari, a me basta quel che mi spetta, il nome». Nato nel 1847 a Livorno Piemonte, poi denonimato Livorno Ferraris in suo nome, Galileo aveva studiato al Collegio di San Francesco da Paola a Torino, aveva poi completato gli studi in trica e alla scoperta del suo campo maingegneria e infine si era dedicato alle gnetico rotante, si diffuse rapidamente ricerche sui campi elettromagnetici. l’uso del motore asincrono o motore a Fondatore della prima Scuola elettro- induzione. Quella ideata dal nostro, è tecnica presso il Regio Museo Industria- ancora oggi la macchina elettrica rotanle italiano nel 1889, la sua fu una carrie- te maggiormente diffusa nel mondo, e il ra folgorante, che gli valse la nomina a campo magnetico di Ferraris è alla base senatore del Regno nel 1896 e grande del funzionamento della macchina sinlustro tra i contemporanei. In conse- crona, che attualmente viene prevalenguenza dell’introduzione del sistema temente usata come generatore, e cioè trifase di distribuzione dell’energia elet- come alternatore.

so? A fine gara i suoi rivali sono disarmati. «Potevo batterlo, certo, ma solo se lo squalificavano», ha detto un esterefatto Wallace Spearmon, prima di aggiungere tra il serio e il faceto: «Metterò la sua foto sopra il mio letto, chissà che diventi veloce come lui». L’altro sconfitto, se così si vuol dire di un atleta che è arrivato secondo e ha corso in 19 e 81, se la rideva al mattino al solo pensiero di parte-

mulinarle come un nano, insomma si trasforma in un nano gigante o, per dirla meglio con uno che di primatisti e sprinter se ne intende, Carlo Vittori allenatore di Pietro Mennea e Marcello Fiasconaro ormai preistorici recordman sui 200 e gli 800 metri, «un gigante con frequenze da nano». Innanzitutto, si solleva dai blocchi di partenza alla metà della velocità di un batter di ciglia e quindi è chiaro che così va davanti a tutti e nessuno lo prende più. «Non pensavo di essere stato tanto veloce, sono sorpreso. Ora mi farò una gran dormita, sono solo stanco», ha detto accovacciandosi in posa per i fotografi accanto al cronometro luminiscente che segnava il fatidico doppio 19. Ha poi espresso anche un piccolo desiderio, ancora inesaudito, quello di essere nominato baronetto dalla regina d’Inghilterra, come gli amati Beatles o, forse, perché come ha detto “Sir Usain Bolt” suona bene. Ora, per rendersi conto: la sua velocità di punta è quasi 42 chilometri orari e i Borboni avrebbero potuto pensare di utilizzarlo come locomotiva della loro ferrovia Napoli-Portici, la prima in Italia, nel 1839.

«Ora mi farò una gran dormita, sono solo stanco», ha detto accovacciandosi in posa per i fotografi accanto al cronometro che segnava il fatidico doppio 19. Poi ha espresso anche un piccolo desiderio, ancora inesaudito: quello di essere nominato baronetto dalla regina d’Inghilterra, come i Beatles

cipare alla finale, quella tra lui e gli altri sette. Usain Bolt non esiteva nei suoi pensieri, era già oro con 62 centesimi di vantaggio. Una vita in queste discipline. Già, ma cosa è capace di fare questo ragazzone giamaicano, alto quasi due metri e con le gambe lunghe la metà, che sa

Per questo orgoglio tecnologico della casa regnante partenopea ci volevano quasi dieci minuti per fare 7 chilometri e mezzo, per Bolt con la stessa velocità media ha portato la medaglia d’oro alla sua Giamaica, la prima di questi mondiali. Senza dire che con non molto sforzo potrebbe concorrere in pista con le prime automobili, quelle tutte sbuffi e la manovella per la messa in moto. E alla sua velocità si lascerebbe dietro, per sua fortuna, sia un rinoceronte in carica che un coccodrillo al quale concede il vantaggio di gareggiare nell’acqua. Usain Bolt, però, non è solo musica e corsa, corsa e musica. Nello stesso giorno in cui strapazzava se stesso e il suo record dei 200 metri, il ministro dello sport giamaicano, Olivia Grange, ha presentato il dvd con la canzone rap che lancia la lotta al doping. Il ritmo è quello della Giamaica e Bolt compare bello e nitido con due cartelli: “hard work” e “confidence” (“lavora duro” e “fiducia nei propri mezzi”). Il messaggio non lascia spazio a equivoci e neppure la partecipazione del campionissimo ultraveloce a questa iniziativa. Mi sovviene solo in extremis, all’ultimo secondo, sfogliando l’album fotografico di questo campione snocciolato su tutte le pagine sportive, l’unico confronto ancora proponibile: il discobolo di Mirone, che probabilmente Usain Bolt neppure sa cosa sia. È forse l’unico paragone di bellezza e plasticità possibile, complice anche quella strana posa che lui assume dopo aver vinto, e cioè sempre o quasi.

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IL GIALLO

CAPITOLO 14 Molti sassolini fanno una valanga “La chioma di Berenice”: un altro racconto misterioso. Ancora un uomo e una donna che cercano qualcosa di Carlo Chinawsky onforti mi informò di quanto era avvenuto al Samoa durante la notte. Qualcuno aveva fatto esplodere una bomba. Materiale artigianale e di modesta potenza, ma capace di appiccare un incendio. Il locale era stato chiuso, ovviamente, e Corsetti, il proprietario, era stato interrogato dalla polizia. Poi il cornuto in libertà provvisoria era stato “passato” ai carabinieri. Non subito, s’intende. Solo quando un ispettore scoprì che la moglie, Rosalba Korete,“aveva a che fare” con noi dell’Arma. Frase di Corsetti: «Adesso è tutto finito». Frase mia: «Dipende da dove uno comincia». Frase sua: «Può darsi».

C

Pensiero mio: come si può prevedere che, spostando dei sassolini lungo un sentiero di montagna, si provochi una valanga? E ancora: come si può immaginare che la valanga vada all’ingiù ma anche all’insù, fino a travolgere chi si crede in alto e quindi al riparo? Le cause e gli effetti che scuotono l’anima sono a volte perversi e soprattutto diversi dalle leggi della fisica. Era un uomo laido. Mi era antipatico, con quel suo non guardare il niente, anche quando la bocca di chi gli parlava era a pochi centimetri dalla sua. Ci sono esseri obliqui, serpentelli che strisciano anche quando sono in posizione eretta.

Corsetti respirava in un mondo suo. Pareva vivesse sempre nella medesima stanza, e lì aspirava il proprio fiato. Era magro anche nell’anima. Ma esistono les roptures - come avrebbe detto mia moglie Catherine, la “bella francesa“ - nella vita di uomini fatti così. In quel caso no: lo scoppio o la rivolta appartengono solo a chi riesce a uscire dalla stanza impregnata del proprio fiato. E la moglie? Era a piede libero, malgrado la droga trovata al Samoa. «Non era assieme a lei, la scorsa notte?». «So solo che è partita. Ma non so dove sia andata e dove si trovi adesso». Che buffo: tutto era partito da un cronista malinconico e acido trovato con la testa nel forno della cucina. Un effetto domino che dava ragione a quelli che collegano un incendio in Cina con un uragano in America. Non avrei mai immaginato di ricevere una telefonata di Pizzi a tarda notte quando andai a cenare a casa di Marina. Quando m’aprì era scalza e indossava un sari azzurro. Si era appena tolta gli occhiali e li aveva lasciati sul tavolino accanto alle riviste d’arte. Non le piaceva farsi vedere con le lenti. Malgrado avessi speso tante parole per collegare occhiali e sensualità. Ma lei no, diceva che la mia o era una piccola perversione da supermercato oppure un modo per compiacerla.

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Che buffo: tutto era partito da un cronista malinconico e acido trovato con la testa nel forno della cucina. Un effetto domino che dava ragione a quelli che collegano un incendio in Cina con un uragano in America. Verità non intelligibili Fu come entrare in un negozio di fiori. Strinsi forte l’aulentissima, dal corpo morbido come il seno di mia madre che mi consolava quando piagnucolavo. E non mi staccai. La spinsi in camera da letto e lei ridendo camminò all’indietro a passetti da giapponese. Le mie mani capirono che sotto il sari non c’erano altre stoffe. In un lampo immaginai che in quella maniera aveva aspettato chissà quanti altri, ma poi il profumo del suo corpo allontanò l’ombra della gelosia. «Nico, prima mangiamo e poi pascoliamo attorno al desiderio». Era sul bordo del letto, testarda nel voler gustare le prefazioni del piacere. Le afferrai la mano e dissi che m’andava bene. Una cena raffinata, con piatti tondi e larghi posti su un tavolo di vetro, design sobrio. Aveva acceso decine di candele e poi, guardandomi, aveva detto: «Quel che avrebbe fatto Pepa Marcos se il suo uomo fosse tornato. Un po’ kitsch, se vuoi… o banale».

«Ma dai!». «Sono le cose che potrebbe pensare il nerovestito principe di Danimarca se fosse qui con noi, non avendo un re da uccidere ma solo scegliere quale camicia mettersi… sarà stata poi bianca, sempre bianca, la sua?». «A quello non andava mai bene niente, a meno che Ofelia fosse come te». «Come me come?».

Mi avvicinai, le cinsi la vita da dietro e le sussurrai all’orecchio che ad Amleto sicuramente era stata negata negata la vicinanza femminile e addirittura odiava i giardini visto che continuava a dire «schifo, schifo» pur trovandosi tra i fiori. Lei mi rispose che probabilmente il danese non ci sapeva proprio fare, forse perchè bloccato dalla petulante presenza della madre Gertrude. Con la mano tra i suoi capelli, bisbigliai due versi: «Ah se questa tua carne troppo compatta potesse sfarsi, sgelarsi e sciogliersi in rugiada».

«Mica mi freghi, Nicola: Amleto si riferiva alla propria carne, non a quella di Ofelia… non barare». «Sai che penso spesso? Che sei troppo colta per essere corteggiata da un carabiniere».Poi aggiunsi che la nostra storia era da fotoromanzo. Le dissi all’orecchio che certi nostri dialoghi potevano tranquillamente essere inseriti in una novella di Confidenze. «Marina, è mai possibile che le frasi d’amore stiano tutte in bilico sulla linea della banalità?». «Continua con Shakesperare, se vuoi, così eviti questo rischio… le dichiarazioni d’amore si salvano quando sono citazioni. Chi legge ormai i romanzi sentimentali? Le filippine sull’autobus, no? Anche se… ». «Continua». «Io ci credo anche se non ripeti brani di Shakespeare. Ma non montarti la testa, Nico.Tu dovrai un giorno decidere». «Non sono il solo». Arcuò prima il corpo, infine s’abbandonò a me. Quando si lasciò spingere sul divano, rise citando l’Amleto di Shakespeare in perfetto inglese: «All may be well… ». C’è sempre una speranza, diceva il bardo. Fortunatamente mi venne in mente una risposta degna. Il guaio era la mia pronuncia scolastica. «Bow stubborn knees, and heart with strings of steel be soft as sinews of


LA PERDUTA GENTE Laura dilata gli occhi, tenta un sorriso mentre pensa quel che deve dire. Ma non risponde, riparandosi dietro un mezzo sorriso che a Giovanni pare un’ammissione di colpa. Certo ci dev’essere un segreto, pensa. Ma quale?

new born babe…». (Piegatevi caparbie ginocchia! E tu, cuore d’acciaio, sii tenero come le membra di un neonato). E lì mi fermai: i miei petardi culturali erano finiti, almeno in quel momento.

La cena ovviamente iniziò dopo più di un’ora, quando le candele erano ormai lingue sfibrate. Rispondendo alle domande di Marina così curiosa sul caso che dovevo risolvere, si ripetè il rituale della sera prima. Nel senso che lei mi chiese di raccontarle qualcosa che Alcide Jorio aveva scritto per il mensile letterario. Per lei era una sorta di favola notturna, ma c’era nei suoi occhi il ticchettio di un ragionamento. Più tardi compresi che il suo dubbio aveva ragione d’esistere. Non avevo con me la cartelletta con i racconti. Non potevo leggerglieli, ma solo farne un sunto. Le riferii della Chioma di Berenice, un altro testo che aveva a che fare con una donna che abitava vicino al protagonista. Marina disse subito che era singolare avessi scelto proprio quello, a meno che fossero tutti racconti di gente che vive a poca distanza tra l’una e l’altra. Stavolta la vicenda si svolgeva nello stesso palazzo, lei si chiamava Laura ma in arte Berenice. Faceva la chiromante. «Una fattucchiera col-

ta» rise Marina. Vero, anche se la leggenda di Berenice poteva averla letta anche su un una rivista da quattro soldi, dal dentista. Il mito di Berenice: una donna bellissima che per ottenere il ritorno del marito dalla guerra consacra ad Afrodite la sua chioma. Che però sparisce dal tempio. «Già, e chi la ritrova? Pardon, un oubli… ». «E qui entra in scena un astronomo, un certo Conone» dissi. «Quest’uomo immagina che la chioma si sia trasformata in un astro. Siccome lui aveva appena scoperto una costellazione, decide di chiamarla Berenice. Che omaggi si facevano un tempo alle donne, non credi?». «Be’, potresti dedicarmi un libro. Senti… e questa Berenice, bella donna hai detto, faceva le carte?». Berenice ha scelto di farsi chiamare così perché la sua nonna usava quel nome quando le accarezzava la lunga treccia bionda. Ed è stata la nonna a insegnarle i primi rudimenti dell’arte divinatoria. Siamo in un piccolo paese del Foggiano, dove la superstizione è fiume sotterraneo. A venticinque anni, dopo un amore finito male - che la nonna per presbiopia magica non aveva visto - Laura si trasferisce a Milano e comincia a frugare nel futuro delle persone. Sulla sua scrivania c’è la foto incorniciata dell’amatissima nonna.

Nelle puntate precedenti Mentre Patrizia Jorio versa in gravi condizioni, Stauder ha un altro aspro confronto con la vedova Santilli. Il giornalista Bruno Rimi chiama il colonnello e gli confida che Alcide Jorio aveva fatto uso di cocaina nonostante i problemi di cuore, e che lo scomodo collega si era recato a Parigi dalla moglie di Torchini consapevole che avrebbe creato molte difficoltà alla testata per la quale lavorava. Secondo Rimi, Jorio pubblicò ugualmente il pezzo per mettere in piedi un ricatto. Forse aveva bisogno di soldi, e usò l’articolo per lanciare un segnale

Giovanni, l’inquilino che abita nello stesso palazzo, la incontra sovente per le scale. Si salutano, talvolta parlano: cose di poco conto. Come vanno gli affari?, chiede lui un giorno. Lei spiega che aiuta la povera gente, offrendo racconti e speranze. Tutto questo è molto bello, commenta Giovanni. Però ha

un sorriso sornione che a Laura-Berenice piace poco. Un altro giorno è lei a informarsi di lui. Giovanni spiega che è un disegnatore di fumetti, quindi lavora per la maggior parte delle ore a casa. Guadagnerà parecchio, fa lei. Lui ribatte che anche lei non se la deve passare male visto che c’è un andirivieni di gente che povera proprio non è. Lei è davvero curioso, si stizzisce la chiromante. Laura ha i fianchi larghi e la vita ancora molto sottile. Dalla treccia bionda non esce mai un capello. Sensuale, sempre ben truccata, non si può dire che sia una donna di classe. I tacchi alti evidenziano un particolare che agli uomini piace molto: l’indizio di un muscolo, un guizzo, un accenno di tensione carnale che ne lascia immaginare altre. Desiderabile, senza dubbio, anche se nei suoi occhi Giovanni scorge brevi lampi di cattiveria. Un tardo pomeriggio, con aria un po’ stupida, le chiede la marca del profumo. Indovini lei, stavolta, ride Laura-Berenice. La quale, inaspettatamente, si ferma, si volta e gli chiede se vuole un giro di carte,“veloce veloce”. Lui accetta subito. Venga su adesso, allora. Giovanni non ha avuto tempo di riflettere e non rimanda. Pensa, salendo le scale dietro di lei, ai giorni passati chino sul tavolo, quando ha disegnato donne che assomigliano alla chiromante.

Si siede davanti alla sua scrivania, le carte che lei spiana e sposta con velocità gli dicono soltanto ovvietà, e lui non riesce a cancellare quel sorrisetto odioso che irrita tanto la chiromante. Finita la seduta: le carte riposano a destra, le mani di Laura-Berenice sono sul tavolo. Non sono sottili, troppi anelli le appesantiscono. Giovanni torna sull’argomento dei clienti e fa domande sugli uomini d’affari. Li vedo dalla finestra, a volte li incontro davanti all’ascensore. Lei è tesa. Giovanni pensa che quella donna potrebbe davvero diventare un personaggio dei suoi fumetti. Con molta calma, come se fosse in un’aula di scuola media, lei spiega che gli uomini sono più ansiosi delle donne. Ma come, ansiosi a tal punto da venire due o tre volte la settimana? A lui non è sfuggito niente. Laura dilata gli occhi, tenta un sorriso mentre pensa quel che deve dire. Ma non risponde, riparan-

dosi dietro un mezzo sorriso che a Giovanni pare un’ammissione di colpa. Ma quale colpa? Certo ci dev’essere un segreto, pensa. In ogni caso le propone di rivederla presto. E aggiunge: mi piace stare con te. Sono passati al tu. Tornato a casa, Giovanni disegna e nello stesso tempo riflette. Il viavai di clienti, che parcheggiano auto di grossa cilindrata, potrebbe essere collegato ad affari sporchi.

Si rende conto che l’ipotesi lo eccita. In tutta la sua vita, Giovanni ha evitato le complicazioni. Verso l’una del giorno dopo suona il campanello. Lui se la trova di fronte, ovviamente la fa subito entrare e cerca di camuffare lo stupore e la gioia. Le sue labbra sono rosso fuoco, l’abito leggero modella un corpo burroso, il solco che separa il seno è un solco d’aratro. Si siedono sul divano, lei guarda alcuni schizzi di fumetti, il suo corpo pare pervaso da un fremito strano. Le dita di Giovanni giocherellano con la chioma. Quando si abbracciano, improvvisamente, lui avverte piccole e irregolari resistenze nel corpo che pur continua a premere contro il suo. Berenice si alza, si sfila la gonna guardando la finestra. Le cosce sono larghe e piene. Giovanni ricorda la morbidezza dei cuscini profumati di lavanda, a casa dei nonni. La guarda e non si muove per un bel po’, prigioniero di immagini lontane, e pure così vicine. Si vedono altre volte e lei scherza sempre sugli appuntamenti con “gli uomini d’affari“. Ormai così li chiamano entrambi. Giovanni la interroga, teneramente: soprattutto sulla sua infanzia. Lei è contenta. Lui pensa: alle donne piacciono le domande. «Anche tu mi fai molte domande» rise Marina. «Sì, è vero. Ma tu non rispondi a tutte. Oppure ti inventi certe risposte». «Dai, continua». In effetti. Giovanni, un po’ scherzando un po’ no, un giorno azzarda: ammettiamo che tu faccia la spia e che tu racconti tutto agli uomini che parcheggiano i macchinoni sotto casa… ah, ti pagano tanto, almeno? Lei risponde di sì, che pagano bene ma che sono molto esigenti, che uno non si può tirare indietro anche se hai voglia di smettere, di andartene lontano e abbandonare tutto. Marina a questo punto notò che anche in questo racconto c’era qualcuno che voleva andare lontano. «Vai avanti, scommetto che ho ragione».

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DIAMO I NUMERI Le figure dell’Oroscopo sono quelle descritte dall’astronomo Tolomeo nel II secolo d.C: Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, Leone, Vergine, Bilancia, Scorpione, Sagittario, Capricorno, Acquario, Pesci. Ma la questione è più complessa... lo Scorpione a lanciare l’accusa: i segni zodiacali non sono dodici. Sotto accusa la Bilancia, ma gli imputati possono essere in molti. E poi il quasi sconosciuto Ofiuco. In realtà si potrebbe andare ben oltre, ma partiamo da qui. L’astrologia è un tema che molto appassiona gli italiani: più di quanti si creda, e molti insospettabili, si dilettano a sapere tutto sugli influssi degli astri. Questa arte ha una storia millenaria e praticanti illustri, tra cui ad esempio Galileo. Residuo di un periodo in cui nel guardare il cielo non c’era molta distinzione tra gli scienziati astronomi e i divinatori astrologi.

Segni di confusione

È

Lo Zodiaco segreto: lo “Scorpione monco” e il giallo del Serpente di Osvaldo Baldacci

Oggi che l’astronomia va per conto suo, e rivela situazioni che dovrebbero far mettere da parte l’astrologia (ad esempio per il semplice motivo che le costellazioni non esistono, ma sono proiezioni umane di immagini su stelle che non hanno alcuna relazione tra di loro), le previsioni astrali vanno invece per la maggiore. E gli specialisti spiegano che non sono tanto le stelle, le costellazioni e le altre realtà celesti a contare davvero, quanto lo schema delle dodici case e quanto gli gira intorno. E le case sono dodici, questo non si può mettere in discussione, essendo una costruzione astratta fatta proprio a partire da quel numero, con la divisione dell’eclittica solare in 12 parti di uguale ampiezza; quattro di queste iniziano in coincidenza con i due solstizi e i due equinozi, cosa che per la precessione degli equinozi non succede più con le costellazioni zodiacali. Ma che le costellazioni e i segni dello zodiaco siano dodici, no

quella è un’altra cosa. Lo Zodiaco ha una storia millenaria, e risale almeno all’antico Egitto

La Bilancia è l’unica costellazione che non simboleggia un essere animato. Probabilmente si tratta di un’aggiunta avvenuta all’epoca di Giulio Cesare o di Ottaviano Augusto e alla Mesopotamia. Il concetto di Zodiaco avrebbe avuto origine presso i babilonesi prima del 2000 a.C. come metodo per visualizzare il passaggio del tempo, come un calendario, suddiviso in dodici parti, come sug-

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gerito dall’apparizione di dodici lune in un anno, a cui corrisponde la suddivisione della sfera celeste in dodicesimi. Specie dopo le conquiste di Alessandro Magno la suddivisione dello Zodiaco in dodici parti è entrata in contatto sia con la cultura ellenistica sia con la cultura indiana influenzando le astrologie locali in modi diversi. I segni dello Zodiaco che conosciamo sono quelli descritti dall’astronomo egiziano Tolomeo nel II secolo d.C., quando lo Zodiaco era già in uso da almeno duemila anni. Dunque, lo Zodiaco è composto dalle costellazioni che intersecano l’eclittica del moto apparente del Sole intorno alla Terra, le dodici tradizionali: Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, Leone,Vergine, Bilancia, Scorpione, Sagittario, Capricorno, Acquario, Pesci. Ma non è tutto così semplice, così lineare. Anzi, di intoppi ce ne sono molteplici. Intanto le

costellazioni che sono adesso lungo l’eclittica del Sole non sono dodici bensì tredici. Ogni costellazione dovrebbe occupare 30° di spazio e un mese di tempo, ma così non è. E come dicevamo è lo Scorpione a farne le spese finendone quasi schiacciato. Tecnicamente infatti lo Scorpione occupa solo i pochi giorni dal 23 al 29 novembre. Prima subisce la pressione della Bilancia e soprattutto della Vergine, dopo è “invaso” dall’Ophiuchus (o Serpentario) che a pieno titolo si trova nello spazio astrale percorso dall’eclittica del Sole, e infatti nel 1930 l’Unione Astronomica Internazionale, basando lo zodiaco sulla situazione dell’equinozio del 1875, lo ha aggiunto allo zodiaco astronomico. Quindi le costellazioni dello Zodiaco sono tredici. Ma c’è anche un’altra storia, col povero Scorpione sempre in mezzo. Si noti che la Bilancia è l’unico segno a non

raffigurare un essere animato. Beh, pare che il simbolo della giustizia sia nato con un furto, e in un’età posteriore. Sarebbe cioè stato inserito nello Zodiaco solo a partire da Giulio Cesare o dal successore Augusto (che in quel mese autunnale era nato) per omaggiarne l’equità. Ma in cielo le stelle dei piatti della Bilancia non erano libere: erano quelle che costituivano le chele del povero Scorpione, che adesso da un paio di migliaia di anni è monco. Anche se in verità la lotta tra i due segni pare essere eterna come il firmamento: sembra infatti che se i greci non conoscevano la bilancia, essa in realtà era già considerata da babilonesi ed egizi. E poi se la Bilancia strappa le chele allo Scorpione, a sua volta è pressata dalla Vergine, la quale non solo astronomicamente è prevaricante in quanto copre un tempo più ampio, ma anche simbolicamente tende all’assorbimento: la Bilancia infatti essendo l’unico segno inanimato facilmente viene rappresentata come in mano alla Vergine, simbolo della Giustizia. C’è poi da dire una cosa molto importante, che c’entra molto con l’astrologia e un po’ anche col numero delle costellazioni zodiacali: la Terra si muove come una trottola, dando vita a quel complicato fenomeno che è la precessione degli equinozi. Che vuol dire che ogni 2160 anni cambia la costellazione visibile in corrispondenza del sorgere del Sole nel giorno dell’equinozio di primavera. Che vuol dire che i segni zodiacali di oggi sono tutti sfasati di circa 30° rispetto a quelli fissati duemila anni fa, e doppiamente rispetto a quelli originari di quattromila anni fa. Se quindi all’epoca di Tolomeo l’Ariete era a marzo-aprile e il Leone a luglio-agosto, come si mantiene nel segno zodiacale, oggi, come tutti gli altri segni, cadono in realtà un mese dopo.

Non staremo poi qui a dire che di segni zodiacali ne esistono molti altri per il semplice fatto che ogni cultura ha il suo Zodiaco, come l’astrologia cinese e quella indiana, però facciamo un accenno alla costellazioni, che non sono dodici ma 88, ufficialmente riconosciute dall’Unione Astronomica Internazionale nel 1922. Che ne eliminò molte, oggi “estinte”: perché anche le costellazioni sono cambiate molto nei secoli. Quindi i segni zodiacali non sono dodici, o meglio certamente non lo sono le costellazioni da cui hanno preso origine. Se si vuole dar retta all’astrologia bisogna almeno tener conto che i complessi calcoli che la guidano hanno a che fare con le teorie delle case astrali, e semmai col moto (peraltro regolare e meccanico) dei pianeti. Ma non con le costellazioni. E quindi non con le stelle, che non influenzano la nostra vita.


I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ ynkaba, Birmania, anno 1044. In un chiaro mattino, gli abitanti del villaggio si accalcano davanti al palazzo reale di legno decorato che accoglie i loro signori. Anawratha, figlio di un paggio dell’ex sovrano, ha sfidato a duello il regnante Sokka-té, suo fratello di latte. Secondo l’usanza, quest’ultimo non può rifiutare la sfida: eccoli dunque affrontarsi a cavallo, armati di spada. Si tratta di un combattimento epico, ma breve, poiché Sokka-té è ferito mortalmente. La gente acclama il nuovo capo, Anawratha, e lo porta in trionfo fino ai gradini del palazzo. Questo duello sarebbe passato inosservato agli storici se non fosse stato all’origine di una delle grandi civiltà della storia, quella di Pagan.

M

Pagan si trova sulla sponda sinistra del fiume Irrawaddy, su un’immensa pianura bruciata dal sole, dove i villaggi di capanne sono circondati da miseri campi. A sud-est svetta il cono di un antico vulcano, il monte Popa, antichissima meta di pellegrinaggi, sulla cui cima si credeva vivessero i nat, geni che presiedevano agli umani destini. A perdita d’occhio, si succedono sulla pianura le vestigia di circa 5mila pagode, stupa e monasteri buddistici, gloria dell’impero Pagan. Fatte di mattoni cotti, molte costruzioni sono rimaste in piedi: di esse, alcune sono in rovina e abbandonate ai rovi da lungo tempo; altre sono religiosamente conservate grazie al fervore popolare o allo zelo di alcune comunità di monaci. Quasi tutte risalgano al periodo che va dall’ascesa al trono del re Anawratha, nel 1044, all’arrivo dei Mongoli nel 1277. La leggenda narra che dopo essere diventato re, Anawratha, preso dal rimorso di avere ucciso il fratello di latte, aveva pensato di rinunciare al trono e l’aveva offerto, senza successo, a suo padre. Un nat gli sarebbe apparso in sogno ordinandogli, in memoria del fratello di latte, di costruire molte pagode e monasteri, di scavare pozzi e stagni, di alzare dighe e di creare tutto un sistema di irrigazione per far vivere il suo popolo. Visitando i suoi Stati, a quell’epoca di modeste dimensioni, Anawratha scelse per queste opere una pianura incorniciata da due fiumi che si estendeva ai piedi delle colline degli Shan, a Kyaukse, e s’impegnò a trasformarla in un’immensa risaia. Dopo avere imposto corvé – prestazioni gratuite dovute al signore – in tutti i villaggi e dopo avere ingaggiato specialisti Shan che insegnassero le tecniche dell’irrigazione, egli deviò il corso dei fiumi, fece scavare canali e

PAGAN Alla scoperta dell’antica capitale birmana fiorita tra l’XI e il XIII secolo sulla sponda del fiume Irrawaddy

Nella terra delle mille pagode di Rossella Fabiani

se gli artigiani al lavoro. I campi nuovamente coltivati e irrigati diedero raccolti così abbondanti che Anawratha, in pochi anni, divenne il sovrano più ricco e potente di tutta la Birmania: numerosi capi locali vennero a schierarsi sotto la sua bandiera accrescendone il prestigio e il potere. Così nasceva l’impero di Pagan. E cominciava una grande stagione di costruzioni di templi e di monasteri grandiosi. Per guadagnarsi i favori del Buddha, Anawratha fece erigere, nel 1059, non lontano dalla capitale una grande pagoda, lo Shwezigon, destinata a contenere alcune reliquie sacre e a custodire alcuni santuari dedicati ai nat. Ben presto Pagan divenne un grande centro buddistico che attirava da ogni dove pellegrini, letterati, artigiani e ricchezze. Anawratha morì nel 1077. Dopo la sua morte salì al trono suo figlio Sawlu che regnò fino al 1084, quando divenne re Kyanzittha. Questi fece costruire uno dei più celebri

In virtù della fede comune, i sovrani fecero di questa località uno dei più stupefacenti omaggi resi al Buddha, edificando in sua gloria migliaia di edifici

costruire dighe. Per tre anni decine di migliaia di contadini, tormentati dalle febbri, lavorarono senza tregua e migliaia morirono di fame e di miseria. Alla fine, Anawratha, secondo l’usanza, decise di fare sacrifici umani per inaugurare la sua nuova opera e suscitare così degli “spiriti guardiani”. Una delle sue spose, sorella di un capo Shan, si offrì spontaneamente in sacrificio: fu immolata in gran pompa e l’acqua cominciò a irrigare e a fertilizzare la pianura. Ma il regno era spopolato: i nuovi villaggi creati nella grande pianura da Anawratha mancavano di braccia per il lavoro dei campi e per la sorveglianza della rete di irriga-

La leggenda narra che un “nat” apparve in sogno al re Anawratha, ordinandogli di costruire i templi in onore del fratello zione. A questo punto Anawratha arruolò nel suo esercito i sudditi rimasti e, consigliato da un monaco giunto dalla regioni meridionali del Paese, si accinse a conquistare il regno di Thaton. Tutti gli elefanti del regno, i cavalli, le barche e gli uomini furono inviati nella spedizione verso il Sud. La città di Thaton, circondata da mura, resistette per tre lunghi mesi prima di arrendersi. Alla

sua caduta, Anawratha proseguì nella sua conquista del Sud. Quando tornò a Pagan portò con sé Manuha, lo sfortunato sovrano di Tathon e tutta la sua corte, oltre 30mila prigionieri civili, migliaia di artigiani e numerosi monaci. L’enorme corteo era preceduto da 32 elefanti bianchi carichi di bottino. Una volta tornato a casa, Anawratha ripopolò i villaggi con i prigionieri e mi-

templi di Pagan che chiamò Ananda, decorato con statue e con lastre di terracotta dipinta che rappresentavano le scene delle vite anteriori del Buddha, e che rimane una delle grandi meraviglie della città. Il tempio venne consacrato nel 1090 con un’imponente processione. E il re, seguendo un’antica tradizione, fece uccidere l’architetto che lo aveva costruito perché non realizzasse nulla di così splendido.

A questa costruzione fecero seguito migliaia di altre, poiché ogni birmano, nel corso della sua vita, desiderava innalzare una testimonianza della propria fede nel Buddha. La Birmania si coprì così di un “bianco mantello” di pagode. E Pagan, come capitale politica e religiosa del Paese, era il luogo dove queste erano più numerose. Come altre città dell’Asia anche Pagan era votata alla distruzione perché come aveva ammonito il Budda «quaggiù tutto è provvisorio». E Pagan venne invasa e incendiata dall’esercito mongolo di Kublai Khan.

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CINEMA CALDO

LE VACANZE DI MONSIEUR HULOT DDII JACQUES TATI

Jacques, il fatalista al mare di Alessandro Boschi i capita mai di voler entrare in un film? Di diventare uno degli attori del cast. Anzi no, non è esatto. Di diventare uno dei personaggi del film, con la beata ignoranza di essere dentro un film? Nelle varie fasi della nostra vita probabilmente sarà capitato a tutti: di (voler) essere il pistolero più veloce del west, di essere l’Uomo Ragno, Superman, l’amante di Charlize Theron in uno qualsiasi dei suoi film, compresi quelli meno memorabili. O magari Robinson Crusoe, Venerdì, Alexander “Andy” De Large di Arancia Meccanica. Probabilmente sarebbe esercizio di psicologia molto spicciola scoprire la nostra personalità attraverso le proiezioni cinematografiche, dove per “proiezioni” non si intendono quelle in sala. Per questo decidiamo di svelare il nostro inconscio desiderio, la nostra proiezione, appunto.

sono talmente tante idee che si rimane incantati. E poi alcune gag ripetute, come la campana del gelataio e l’altoparlante della spiaggia, scandiscono alla perfezione i tempi del racconto non racconto. Il collante vero è sempre Hulot, che rimane una scheggia impazzita, una presenza anarchica e fuori dagli schemi che senza volerlo sconvolge tutto e tutti. Nella vita di ognuno di noi dovrebbe esserci sempre un po’ di spazio per un Monsieur Hulot, che invece rappresenta oggi tutto ciò che ci distoglie dal nostro inquadramento, dal nostro vivere senza fantasia, dal nostro camminare a testa bassa senza fischiettare.

V

Noi vorremmo essere Monsieur Hulot e vorremmo che le nostre vacanze sulle coste bretoni non finissero mai. Sarà per il bianco e nero, sarà per quella atmosfera così poco marina nonostante il mare, quella sensazione di cielo coperto quando invece splende il sole. Non ci darebbe fastidio neanche la sabbia tra i capelli. Anche per motivi di assenza, non della sabbia. Vorremmo immergerci nella placenta di quell’ambiente, farci cullare da quei suoni senza parole. Per la verità tutti i film di Jacques Tati hanno questo in comune, oltre a essere privi quasi del tutto di parole: la sensazione di poterci fidare, di poter vivere in un mondo migliore, più accogliente. Anche nelle pellicole più estreme, alla Playtime, tanto per essere chiari, c’è sempre ben presente la sensazione che tutte le barriere nell’interagire umano possono essere rimosse. A proposito, anche il protagonista di Playtime, in Italia Tempo di divertimento, così come Mio zio, sono interpretate dallo stesso personaggio, Monsieur Hulot (in realtà dovremmo aggiungere anche Monsieur Hulot nel caos del traffico che per molto tempo è stato considerato un telefilm). Quando Tati racconta è sempre rassicurante, perché in ogni caso, ci fa intendere, la nostra ironia ci può salvare. Esiste sempre una scappatoia divertente e l’essere umano può ritornare, o almeno provarci, alla propria dimensione e comunicare con i propri simili. Le vacanze di Monsieur Hulot hanno un inizio a dir poco scoppiettante, con l’arrivo del nostro a bordo di una rumorosissima e aggressiva (per le orecchie) Salmson Al3 del 1924 che a noi ricorda molto la Turbinosa dell’Ispettore Clouseau nella serie leggendaria della Pantera Rosa. D’altra parte come si dice: il genio copia e il mediocre imita. A pensarci un attimo la coppia Clouseau/

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Hulot avrebbe davvero fatto faville. Il fatto è che a volte certi artisti sono davvero troppo avanti, troppo “oltre”, come diceva il personaggio di Stefano Satta Flores in C’eravamo tanto amati… E l’essere troppo avanti crea problemi di comprensione. Tati dovette sempre faticare molto per realizzare i suoi progetti, perché i distributori erano sempre restii a proiettare quelle pellicole che facevano ridere ma non troppo, che divertivano ma investivano nell’intelligenza dello spettatore. In una parola, costringevano a pensare. Come scrisse Paris Match il giorno della sua morte, « Addio Monsieur Hulot. Lo piangiamo da morto, ma avremmo

Tati non a caso diceva: «Nessuno fischietta più per strada (...) sarà sciocco, ma mi piacciono le persone che fischiettano per strada ed io stesso lo faccio. Credo che il giorno in cui non potrò più fischiettare per strada sarà una cosa gravissima. Se oggi vedete qualcuno che invece lo fa si pensa subito che sia un po’ fuori di testa. Come tutto quello che esce dagli schemi, dal condizionamento del vivere quotidiano. Le stesse vacanze sono sempre programmate. A noi ci hanno fregato proprio le “vacanze intelligenti”. La necessità, badate bene indotta, di finalizzare tutto a qualcosa d’altro. Divertirsi per divertirsi non esiste più. Si deve sempre capitalizzare tutto, anche il riposo. Se non andiamo a vedere qualche museo o qualche mostra non sono vacanze. Ci hanno convinti che ci si diverte solo in un certo modo. Che di solito è il modo degli altri. Il processo di spersonalizzazione è in costante sviluppo, e noi siamo già “oltre” senza accorgercene. Tutto torna: se il cinema di Hulot veniva distribuito con riluttanza era perché era un cinema intelligente. Se oggi ci si diverte per essere divertimento vero deve essere un divertimento omologato.Tati aveva capito che per rimanere uniti, per capirci, per non essere sconfitti, avremmo dovuto rompere gli schemi. Con un po’ di sana stupidità, con un po’

Quando il francese racconta è sempre rassicurante, perché ci fa intendere che la nostra ironia ci può salvare. Houlot incarna la scappatoia che consente all’uomo di oggi di tornare a comunicare con i propri simili dovuto aiutarlo da vivo!». Le vacanze di Monsieur Hulot ha un doppio pregio. È un film pieno di trovate che al tempo stesso mantiene una compattezza narrativa che la regia a volte volutamente sghemba non pregiudica. Oddio, non è che ci sia una storia che fa da collante, ma ci

di necessaria imprevedibilità. Ci piacerebbe molto che un giorno si tornasse a vivere nel mondo raccontato da Jacques Tati. Magari anche nel piccolo paesino protagonista di Jour de fête, un film curiosamente girato a colori e in bianco e nero. Lì troveremmo di certo Monsier Hulot, magari in quei pochi momenti in cui non è impegnato a consegnare lettere e raccomandate come fa il protagonista cui dà sempre corpo e gambe Tati. E attenti, perché se non si diventa come il mite Hulot, si rischia di diventare come il protagonista de Il testamento del mostro di Jean Renoir, Monsieur Opale. Che di Hulot è il parente cattivo.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

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Il vetro: amico della natura, della salute e dell’economia

LE VERITÀ NASCOSTE

Il vetro è riciclabile al 100% e all’infinito. Ospita, senza alterarle, bevande e cibi in tutta sicurezza, è una barriera efficace contro i batteri e, al contrario della plastica, non ha necessità di strati o additivi ulteriori. L’assenza, nel vetro, di ftalati, sostanze chimiche organiche prodotte dal petrolio e usate come agenti plastificanti, che in presenza di cibi caldi o bevande calde possono essere ivi rilasciati, con gravi pericoli per chi li assume, è un’importante garanzia per la nostra salute, perché il vetro è un contenitore perfetto, composto da 3 elementi naturali atossici stabili: silice, calce e soda. Ogni comune d’Italia si fornisca di piccole centrali di raccolta e riciclo di bottiglie e barattoli di vetro, o si consorzi con altri comuni, e produca lavoro, elimini le bollette sui rifiuti e abbatta anche l’immissione di CO2 nell’atmosfera. Sull’utilizzo e il riciclaggio del vetro, si stimolino le scuole, le associazioni culturali e di volontariato, si organizzino dibattiti. I rifiuti sono ricchezza e opportunità per noi, per le nuove generazioni e per la natura.

Domenico S.

MATERNITÀ PER LAVORATRICI AUTONOME FINALMENTE GARANTITA DALL’UE La direttiva europea è un passaggio fondamentale in materia di pari opportunità e soprattutto di promozione dell’imprenditorialità femminile. Finalmente tutti gli stati membri dell’Ue saranno chiamati ad estendere alle lavoratrici autonome una serie di benefici relativi al congedo di maternità. Particolarmente importante l’estensione della protezione sociale anche ai conviventi e ai coniugi che collaborano all’attività imprenditoriale: una situazione molto diffusa soprattutto tra le donne che spesso si trovano a lavorare nell’azienda di famiglia. Ora toccherà al governo recepire la direttiva che potrebbe introdurre elementi migliorativi rispetto alla situazione attuale.

Beatrice

APPELLO A FAVORE DEI RICHIEDENTI ASILO POLITICO BLOCCATI IN LIBIA La situazione attuale dei 400 eritrei e di circa 3000 tra somali, sudanesi, etiopi ed eritrei bloccati dal muro di gomma voluto dall’Europa, è una condizione di totale abbandono. Gente che sopravvive accettando lavoro che li riduce a nuovi schiavi, donne costrette a prostituirsi, situazioni non più tollerabili di degrado della dignità umana. La sorte che ha toccato gli eritrei “liberati” dal carcere di Al-Braq, quella di

vivere la vita da barboni con un permesso di soggiorno per tre mesi in mano. Tra tre mesi torneranno clandestini, perché non potranno presentare un documento di riconoscimento rilasciato dalle autorità del Paese di origine. Ecco perché chiediamo una soluzione vera al problema di questi richiedenti asilo politico eritrei, somali, sudanesi, etiopi.Torniamo a chiedere all’Italia di fare il primo passo offrendo a queste persone un’accoglienza nel suo territorio, almeno a quelle persone che gli e stato negato l’ingresso in Italia, che sono state riconsegnate dalle autorità italiane a quelle libiche. Sappiamo che l’Italia può mostrare il suo volto più umano, lo ha già fatto anche in passato, accogliendo circa 130 eritrei con il programma di reinsediamento dalla Libia. Questa esperienza è positiva perché grazie all’ingresso legale, i richiedenti asilo politico non saranno costretti ad affidarsi nelle mani dei trafficanti, rischiando la vita nel mare. Il Mediterraneo è già un cimitero a cielo aperto per centinaia di migranti, ricordiamo quello accaduto un anno fa, quando morirono 73 eritrei nell’indifferenza totale dei Paesi che si affacciano nel mediterraneo, in particolare di quelli che hanno il compito di pattugliamento congiunto, in primis Frontex che dovrebbe prevenire rischi del genere. Un anniversario doloroso per noi

L’IMMAGINE

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Da riempire... Che cosa ci fa un gigantesco cucchiaio vuoto nel bel mezzo di Seoul? L’enorme posata, circondata da qualche moneta e centinaia di piccoli salvadanai gialli, fa parte di un’installazione allestita dall’organizzazione umanitaria World Vision in occasione di un evento benefico

Affitta per mesi una casa non sua SILVER SPRINGS. Quando Carl Kopsho e Heather Peteck si sono visti arrivare lo sceriffo nella casa che avevano affittato, accusandoli di occupazione abusiva di proprietà privata, sono rimasti quantomeno stupiti. Solo dopo hanno scoperto che l’uomo che gli aveva affittato la casa, non aveva nulla a che vedere con il vero proprietario. Kopsho alcuni mesi fa stava discutendo con un amico della sua esigenza di trovare una casa, quando con il più classico dei «non ho potuto fare a meno di sentire» è stato avvicinato da un uomo che si è presentato come Tyrone Grain, che gli ha offerto un appartamento. In effetti, la coppia di fidanzati ha spiegato che, ripensandoci, l’uomo aveva dei comportamenti strani, come il fatto che non avesse un telefono cellulare e chiamasse sempre lui Kopsho, o che volesse essere pagato in contanti perché, diceva, in passato con gli assegni lo avevano fregato. Comportamenti che, per quanto strani, non erano tali da destare sospetti. L’uomo, che si faceva pagare un affitto di 800 dollari al mese, dopo la denuncia è scomparso. La truffa è emersa quando la polizia è stata contattata dal vero proprietario, che aveva sentito voci secondo quali c’erano degli estranei in casa sua.

che abbiamo visto morire i nostri connazionali giovanissimi, con tanta voglia di vivere, di speranza in una nuova vita da costruire in Europa, sognando libertà, democrazia e benessere. Aprite una porta, affinché chi è disperato, chi fugge da persecuzioni, guerre, catastrofi naturali possa entrare, e trovare rifugio.

don. Mussie Zerai

NO ALLE MEGA CENTRALI FOTOVOLTAICHE Sono contrario all’installazione sul territorio di megacentrali, come quella fotovoltaica, su 750 ettari di terreno che un’azienda tedesca vorrebbe impiantare in Puglia. Sono invece favorevoli ai piccoli impianti, in quanto è nostro dovere salvaguardare il paesaggio e l’ambiente della Puglia dagli effetti negativi che tali impianti possono avere su un territorio che vede nel turismo la sua vocazione naturale. Propongo l’installazione di impianti fotovoltaici di piccole dimensioni in zone agricole che devono coprire una superficie complessiva ridotta in percentuale del territorio comunale (fatta eccezione per gli impianti di autoconsumo che non andrebbero computati nel limite). Dovrà anche essere stabilita la distanza tra impianti fotovoltaici non destinati all’autoconsumo in modo da evitare l’installazione di mega-impianti frazionati. Altra questione rilevante è quella degli oneri per lo smaltimento: la legge dovrà prevedere, per i proprietari degli impianti, un impegno a prestare polizza fideiussoria bancaria o assicurativa per lo smaltimento dei materiali e delle attrezzature di cui è composto l’impianto alla cessazione dell’attività; lo smaltimento dovrà avvenire in tempi brevi dalla data di fine attività. In ogni caso le scelte delle amministrazioni dovranno tenere conto dei vincoli paesaggistici e di tutela ambientale.

Salvatore Negro


mondo

pagina 18 • 20 agosto 2010

Collasso. Dati allarmanti nel rapporto dell’ente statistico ellenico. I giornali tedeschi parlano di «un Paese letteralmente sotto shock»

Grecia, profondo rosso Le misure anti-deficit innescano la recessione Più disoccupati, consumi in crollo, negozi chiusi di Enrico Singer al rischio di bancarotta dello Stato, che aveva lasciato il debito pubblico allo sbando, a quello di un collasso generale dell’economia. Una recessione profonda con la disoccupazione che ha già toccato il 12 per cento e che, a fine anno, potrebbe arrivare al 20 per cento con punte del 70 per cento nelle aree industriali come nel caso dei cantieri navali Perama del Pireo. E con il potere d’acquisto crollato di oltre il 15 per cento al pari dei consumi. Con il corollario di migliaia di negozi chiusi: il 17 per cento a livello nazionale con il record negativo di uno su quattro nella centralissima via Stadiou, la principale strada dello shopping di Atene tra piazza Syntagma e piazza Omonia. È un panorama da incubo quello che si va delineando in Grecia dopo le misure di austerità imposte dal governo - su richiesta della Ue e del Fmi per rimettere in sesto il bilancio statale. L’allarme lo hanno lanciato ieri due giornali tedeschi - il quotidiano popolare Bild e il settimanale Der Spiegel - che sono partiti dal rapporto appena pubblicato dall’ente di statistica greco, Esa, per descrivere «un Paese letteralmente sotto shock».

D

Le previsioni più pessimistiche che alcuni economisti avevano prospettato al momento della concessione, nel maggio scorso, del maxi prestito di 110 miliardi di euro in tre anni, insomma, po-

trebbero realizzarsi. Certo, sull’altro piatto della bilancia ci sono i dati confortanti del contenimeto della spesa pubblica tagliata del 10 per cento (4,5 punti in più rispetto alla richiesta di Fondo monetario e Unione europea) e della riduzione del deficit sceso di un «incredibile» 39,7 per cento, come ha scritto Der Spiegel.

Tuttavia il pericolo che si affaccia all’orizzonte si potrebbe sintetizzare con una battuta di Totò: l’operazione è perfetamente riuscita, ma il malato è morto. Per risanare i conti pubblici, il governo diYorgos Papandreu ha ridotto gli stipendi degli statali del

Paese e rappresenta un quinto del Pil. Adesso ci si è messo anche il virus del Nilo occidentale portato in Grecia dalle zanzare a spaventare i turisti stranieri, ma i dati negativi degli arrivi sono una costante degli ultimi due anni. Nei primi sei mesi del 2010 la spesa dei turisti stranieri in Grecia è scesa a 2,78 miliardi di euro, quasi il 12 per cento in meno su base annua e il 23,3 in meno rispetto a due anni fa. Il colpo è stato particolarmente duro in giugno, quando era ancora forte il ricordo dei sanguinosi disordini scoppiati il mese prima che avevano, tra l’altro, bloccato migliaia di turisti nei porti e negli

Su Atene plana adesso il fantasma della crisi argentina. In fuga (verso la Turchia e la Croazia) anche i turisti stranieri che, fino al 2008, hanno portato un quinto di tutto il prodotto interno lordo dieci per cento, ha cancellato temporaneamente le tredicesime, ha aumentato l’Iva su tutti i prodotti e le accise sulla benzina il cui costo al litro è balzato, in media, a un euro e mezzo. Il risultato è che tra i greci sta maturando un misto di paura e di sfiducia nel futuro che porta a congelare gli acquisti in attesa che i prezzi scendano. Anche se, per ora, non è così. Gli scioperi e le proteste di piazza, poi, hanno moltiplicato la confusione scoraggiando anche il turismo che è una delle risorse più importanti dell’economia del

aeroporti. A luglio il calo delle presenze si è ridotto all’1,3 per cento e gli arrivi di agosto dovrebbero collocarsi sul livello dello scorso anno comunque più basso di quello del 2008 perché il turismo in Grecia è vittima - come, del resto, in Italia - dei prezzi più competitivi offerti dalle vicine Croazia e Turchia.

Una miscela velenosa che intreccia nuovi problemi a tendenze più profonde e che fa planare sul Paese il fantasma della grande crisi vissuta dall’Argentina

lungo tutti gli Anni Novanta ed esplosa nel 2001 quando il Fmi concesse a Buenos Aires un prestito di 21 miliardi di dollari per evitare la bancarotta. Anzi, proprio due giorni fa la Grecia ha ufficialmente soppiantato l’Argentina nella particolare classica degli spauracchi degli investitori internazionali. Con uno swap di 844 punti contro 817 è il debito pubblico di Atene quello più caro da assicurare contro il rischio di default. D’altronde oggi l’economia argentina - la seconda del continente latinoamericano può vantare fondamentali di tutto rispetto con un deficit che nel 2010 dovrebbe fermarsi allo 0,1 per cento del Pil (la Grecia spera di poterlo arginare all’8,1) e un debito pubblico complessivo che è a quota 49 per cento del Pil,

contro il 113 per cento di Atene. Ma per arrivare a questi risulati e lasciarsi alle spalle il fallimento dei tango bond, l’Argentina ha vissuto una lunga traversata del deserto. Quella che, secondo i più pessimisti, aspetta adesso la Grecia. E che sarebbe una conseguenza - un «effetto secondario indesiderato», si direbbe delle ricette imposte dal Fmi.

È la teoria sostenuta dall’economista americano Joseph Stiglitz, premio Nobel nel 2001 e guru del movimento no-global, che è stato vicepresidente della Banca mondiale. Secondo Stiglitz, il Fondo monetario impone a tutti i Paesi «misure standardizzate, basate su una teoria economica semplicistica, che aggravano le difficoltà economiche

In alto e nell’altra pagina, negozi chiusi e in vendita nel centro di Atene. A fianco, gli incidenti del maggio scorso durante i quali morirono quattro persone e, a destra, il premier Yorgos Papandreu


mondo

20 agosto 2010 • pagina 19

Cinzia Alcidi e le proposte del Ceps di Bruxelles, che aveva previsto il crollo

«La Ue deve creare un Fondo monetario» «L’ di Antonio Picasso

anziché alleviarle». È stato così per l’Argentina, che gli esperti del Fmi consideravano un «allievo modello» è che è poi finita in una crisi tremenda. Potrebbe essere così anche per la Grecia. Il governo di Papandreu, naturalmente, non crede in questo disgraziato parallelo. La verità è che il bilancio pubblico andava messo in ordine per evitare un disastro che avrebbe, sì, avvicinato la Grecia all’Argentina di dieci anni fa. Anche a costo di pagare un prezzo in termini di consumi e di tenore di vita dei cittadini.

L’importante è riuscire a pareggiare i conti al giusto livello, dosare i provvedimenti deflattivi senza

deprimere troppo gli investimenti, i consumi e l’occupazione. Per il momento i dati del Pil non sono confortanti. Mentre in tutta Europa c’è stato un avvio di ripresa, in Grecia è ancora recessione: -1,5 per cento nel secondo trimestre rispetto al primo e -3,5 per cento su base annua. La partita è tutta da giocare e il pericolo, come dicono i greci, è di essere costretti a «intonare una penià sui bei tempi che abbiamo passato, dopo esserci divertiti al ritmo dello tsifteteli». La penià è il canto malinconico in cui si esprime il proprio dolore, lo tsifteteli è il diretto discendente della danza del ventre ereditata dalla dominazione turca e sinonimo della festa. Che è finita.

idea di creare un fondo per la stabilità monetaria all’interno della zona Euro sarebbe dovuta nascere in parallelo alla fondazione dell’unità monetaria stessa, undici anni fa. Ora siamo in ritardo, tuttavia si possono ancora contenere i danni». A parlare è Cinzia Alcidi, ricercatrice del Center for European Policy Study (Ceps) di Bruxelles. L’istituto che, in anticipo rispetto alle istituzioni comunitarie, già un anno fa aveva previsto il crollo di uno del membri più deboli dell’Unione, nella fattispecie la Grecia, e per questo aveva cominciato a valutare la possibilità di creare uno European stability found. «Non si tratterebbe di una risorsa concorrenziale al Fondo monetario internazionale, l’Fmi - precisa la dottoressa Alcidi - ma di una riserva di esclusiva competenza dell’Eurozona e con regole ben precise». Cosa si intende per fondo di stabilità? Inizialmente l’idea era di chiamare il progetto semplicemente “Fondo monetario europeo”, poi ci siamo resi conto che il nome avrebbe davvero suscitato confusione con l’Fmi. Inserendo il termine “stabilità”, al contrario, non solo ci distinguiamo dall’Organizzazione internazionale, ma facciamo riferimento al Trattato di Maastricht e ai suoi parametri di stabilità. Il punto di partenza delle nostre analisi è che la maggior parte dei Paesi che rientra nell’Euro sfora sia sul deficit (oltre il 3%), sia sul debito pubblico, superando la soglia del 60%. Il primo esempio che viene in mente è la Grecia, ma l’Italia non è da meno. Per l’appunto! Poniamo il caso che un Paese non rispetti i criteri di Maastricht. A questo punto l’Ue, invece di creare un accordo temporaneo di 110 miliardi in favore di Atene com’è avvenuto a maggio, potrebbe imporre al governo non in regola di versare una sorta di sanzione-assicurazione che si andrebbe ad accumulare e a creare così un fondo al quale ogni Stato membro che si trovi in difficoltà possa attingere in futuro. Si tratterebbe di far pagare una multa a chi non ha saputo tenere i conti in regola? In un certo senso è questo l’obiettivo.Tuttavia bisogna sottolineare che chi non segue Maastricht non è perché è indisciplinato. Può essere che il suo bilancio sia assolutamente trasparente e in ordine. Sulla sua economia però possono incidaere agenti esterni che ne indeboliscono la produttività. La Grecia torna ancora una volta utile. Il fondo di stabilità non dovrebbe essere né punitivo né una risorsa alla quale aggrapparsi facilmente ogni volta che la produttività di un sistema-Paese comincia a sbandare. Avete calcolato dei parametri? Più che i parametri sarebbero necessarie alcune semplici regole di comportamento. Un’econo-

mia nazionale che rientra nell’euro e che è soggetta a una congiuntura negativa può chiedere di attingere al fondo di stabilità solo se dimostra di essere in grado di effettuare le adeguate riforme strutturali delle sue attività finanziarie, ma soprattutto una concreta riduzione del deficit. Il progetto del Ceps può fornire già una stima delle cifre che il Paese dovrebbe versare? Noi pensiamo che il contributo adeguato sia pari al differenziale tra il tasso di deficit e di debito pubblico rispetto ai parametri di Maastricht. Facciamo un esempio: se il deficit della Grecia fosse stato del 5%, oggi avrebbe dovuto versare al fondo di stabilità una quota pari al 2%, che corrisponde appunto al surplus rispetto ai tre punti percentuali previsti dal Patto di stabilità. Non credete però che, in questo modo, si rischi di punire ulteriormente un Paese che è già in difficoltà? L’idea di una sanzione assicurativa può avere i suoi benefici solo per coloro che vi attingeranno una volta che il fondo è avviato e non per chi l’ha creato in termini monetari.

Non si tratterebbe di una risorsa concorrenziale all’Fmi, ma di una riserva a esclusiva competenza dell’Eurozona e con regole ben precise. Un fondo di stabilità a cui attingere in caso di crisi

Il problema è che un progetto di questo genere sarebbe dovuto nascere in parallelo al’Euro. Alla fine degli anni Novanta le condizioni finanziarie dell’Eurozona erano virtuose. Oggi si paga lo scotto della superficialità di allora. A questo punto l’unica possibilità è che lo European Financial Stability Facility, firmato all’inizio di maggio, non mantenga quella data di scadenza dei quattro anni previsti e con una cifra di 440 miliardi di euro, bensì venga trasformato in una base permanente per il futuro fondo di cui si sta parlando. Che tipo di consenso ha raccolto finora questa idea? Il Ceps ha sottoposto il progetto alla Banca centrale a Francoforte, dove gli osservatori si sono dimostrati più che interessati all’idea. Adesso bisogna lavorare in seno alle istituzioni politiche e presentarlo a Bruxelles.


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Usa. I marines tornano a casa, i militari restano: 56mila ancora sul campo iniziato ieri, con quasi due settimane di anticipo, il ritiro delle ultime unità combattenti statunitensi dall’Iraq. I vertici militari Usa vogliono tenere fede alla promessa del presidente Barack Obama di ridurre il numero dei soldati a 50mila entro il 31 agosto, quando la missione di combattimento lanciata sette anni e mezzo fa dal suo predecessore alla Casa Bianca, George W. Bush, terminerà ufficialmente. Il 7 agosto scorso è avvenuto il passaggio di consegne ai militari del nuovo esercito iracheno da parte dell’ultima brigata statunitense, impegnata in azioni di controguerriglia. Si calcola però, che per riportare a casa i marines dall’Iraq occorrerà almeno un anno. La notizia del ritiro dei soldati, considerati formalmente ancora “combat unit”, è stata rilanciata da quasi tutti i media americani, ma ufficiali Usa hanno poi chiarito che ci sono ancora 56mila militari nel paese arabo, e dunque la riduzione a 50mila effettivi entro il primo settembre promessa da Obama deve essere ancora realizzata. In realtà, ci saranno pochi cambiamenti sul terreno per la missione militare anche dopo il primo settembre, dato che la maggior parte dei militari Usa ha iniziato oltre un anno fa a concentrarsi sull’addestramento e sull’assistenza alle truppe e alla polizia irachena, dopo che il 30 giugno 2009 si sono ritirati dai centri urbani iracheni. La gran parte del materiale bellico Usa e molti dei soldati in partenza per gli Stati Uniti saranno poi dispiegati in Afghanistan, dove la guerriglia talebana è tornata a minacciare pesantemente sia il governo di Kabul sia gli uomini della coalizione internazionale Isaf. Entro il 31 dicembre 2011 - secondo il calendario approva-

È

Via le truppe dall’Iraq (ma pensando al voto) Obama cerca di riconquistare i suoi elettori stanchi della guerra. E abbandona Baghdad di Massimo Ciullo

L’attacco è cominciato

cratici cercano di mantenere il controllo del Congresso Usa alle elezioni di novembre. I sondaggi indicano che gli americani sono stanchi di quasi un decennio di guerra in Afghanistan e Iraq, l’eventuale decisione di estendere la presenza militare a Baghdad sarebbe un rischio enorme per Obama, che nel 2012 correrà per la rielezione. Il

A meno di 3 mesi dal voto di mid-term, oltre la metà degli americani, il 52%, è insoddisfatta di Barack. Il suo gradimento è sceso dal 69 al 41% to da Bush e fatto proprio da Barack Obama - tutti i militari americani, tranne qualche decina, avranno abbandonato il Paese. Obama ha detto No alla permanenza anche di un solo soldato statunitense in Iraq dopo il primo gennaio 2012, anche se sarà impossibile per quella data che l’Iraq abbia costituito una propria forza aerea in grado di difendere la propria integrità territoriale. Il presidente americano però deve fare i conti con un’opinione pubblica stanca della guerra, mentre i demo-

quilino della Casa Bianca è costretto ad affrontare una raffica di critiche su quasi ogni sua mossa o dichiarazione: dalle polemiche per il suo endorsement alla moschea a Ground Zero ai Teaparty, diventati una vera e propria spina nel fianco per le sue velleità riformistiche. Per non parlare dei continui battibecchi con i suoi comandanti sul campo in Afghanistan: dopo McChrystal, che in un’intervista a Rolling Stone disse che il presidente era “impreparato e assente”, anche Petreaus lo ha smentito circa la reale possibilità di ritirare le truppe da Kabul entro il 2011. Negli ultimi tempi poi, al leader democratico è stata rimproverata la scarsa attenzione verso le questioni di politica interna, riguardanti in primo luogo la sicurezza.

Presidente rischierebbe di affrontare lo scontro coi democratici in Congresso, e con la sinistra del suo partito, che è già disincantata sul suo ruolo. A meno di tre mesi dalle elezioni di Midterm, oltre la metà degli americani, il 52 per cento è insoddisfatta di Barack. Ciò ha fatto crollare di pari passo al minimo storico la popolarità, precipitata al 41 per cento. All’inizio del suo mandato, ormai oltre 18 mesi fa, Obama poteva contare sul sostegno del 69 per cento degli americani. L’in-

Hillary “chiama” 7mila contractor per evitare il collasso

Unità combat che vanno mercenari che vengono Il ritiro dei soldati Usa dall’Iraq rappresenta un ottimo affare per le società di security private forse defenestrate dall’Afghanistan. Per compensare il ritorno a casa delle truppe combattenti sono in arrivo (dal 2011) 7mila cui contractor, sarà affidata - di fatto - la sicurezza del Paese, a spese dei contribuenti americani. Contractor che in Iraq, dopo il massacro del 16 settembre 2007 a Baghdad in cui gli uomini della Blackwater uccisero 17 civili, non sono affato amati. Come rivela il New York Times il dipartimento di Stato spenderà 100 milioni di dollari solo per realizzare due avamposti fortificati nel nord del Paese - ricco di risorse petrolifere - per scongiurare grazie ai contractor scontri

tra l’esercito regolare e le forze curde dei guerriglieri peshmerga. Dall’ottobre del 2011 - tre mesi prima che l’ultimo soldato Usa avrà lasciato il Paese - sempre il dipartimento di Stato assumerà la responsabilita di addestrare la polizia irachena. Altre cinque basi avanzate fortificate saranno sparse nel resto del Paese. A gestirle ci penseranno sempre gli uomini delle agenzie di sicurezza private che svolgeranno gli stessi compiti affidati finora all’esercito: gestiranno i radar, cercheranno ordigni improvvisati (Ied) piazzati sul ciglio della strada, faranno volare i droni(aerei senza piloti) e forniranno il personale necessario alle forze di reazione rapida per aiutare i civili.

dalle pagine del Washington Post, che ha accusato Obama di affrontare in maniera superficiale i problemi relativi alla sicurezza della frontiera con il Messico, dove traffici illeciti di ogni sorta, dagli esseri umani alla droga e alle armi, hanno raggiunto ormai livelli insostenibili. E invece di affrontare di petto la questione, Obama si lancia in sterili polemiche con la governatrice repubblicana dell’Arizona, colpevole di aver fatto approvare una legge anti-clandestini poco gradita al governo federale. Peccato però, che la combattiva Jan Brewer da mesi rimproveri al Presidente di non aver tenuto fede alla promessa di inviare più uomini per presidiare la frontiera tra Usa e Messico. Obama non ha deluso solo la sua avversaria politica, ma anche il suo omologo messicano, Felipe Calderon, che da tempo ha chiesto al governo Usa di proibire almeno la vendita di fucili d’assalto alle settemila armerie che si trovano lungo il confine. Solo ieri, il presidente Usa ha firmato la legge da 600 milioni di dollari per il rafforzamento delle frontiere con il Messico. La legge, approvata mercoledì al Senato dopo esser passata già alla Camera dei Rappresentanti, prevede circa 1.500 nuovi agenti, droni per la sorveglianza aerea, nuove basi operative e 14 milioni di dollari in nuove attrezzature per le comunicazioni. La legge è finanziata in parte tramite imposte più elevate sulle società di mediazione di personale che fanno venire lavoratori stranieri negli Stati Uniti. Negli Usa vi sono circa 12 milioni di immigrati irregolari e la maggior parte di questi provengono dalla frontiera messicana.


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Già arrivate a Bucarest 79 persone. Oggi un nuovo volo

Calibro da Novanta del giornalismo, lascia Newsweek e approda a Time

Rom: Parigi (sotto accusa) rimpatria gli irregolari

Fareed Zakaria la penna d’oro dell’epoca post americana

PARIGI. Muta per settimane, a tratti apparentemente collaborativa, alla fine la Romania ha reagito alla «caccia ai rom» voluta da Nicolas Sarkozy. Di fronte all’operazione organica e strutturata di evacuazione dei campi nomadi francesi, lanciata alla fine di luglio e ora in pieno svolgimento (ieri sono partiti in aereo i primi 79 rom espulsi, oggi un nuovo volo), il ministro romeno degli Esteri,Teodor Baconschi, è andato giù duro. In un’intervista alla radio Rfi si è detto preoccupato «per i rischi di derive populiste in Francia e di reazioni xenofobe». E ha insistito sulla necessità di cooperare fra Parigi, Bucarest e l’Unione europea, «senza cedere alle febbri elettoralistiche». L’accenno è più che chiaro. Al fatto che Sarkozy, crollato nei sondaggi e con in testa già la scadenza delle prossime presidenziali (nel 2012), per recuperare consensi stia cavalcando la fobia anti rom, assai trasversale nell’opinione pubblica del suo paese. Nei giorni scorsi un sondaggio realizzato dall’Ifop ha rivelato che il 79% dei francesi appoggia il presidente in questa nuova battaglia (il 60% di coloro che votano a sinistra).

NEW YORK. Lo aveva detto in anni meno sospetti: i Novanta. «L’ascesa del secondo e del terzo mondo sta per cambiare per sempre gli equilibri del nostro pianeta». Fareed Zakaria, già ex direttore di Foreign Affairs, blasonata rivista Usa di politica internazionale, passato poi a dirigere l’edizione internazionale di Newsweek - di cui è anche il più ripreso editorialista - è appena approdato al diretto concorrente della giornale americano, Time magazine. Un passaggio che non sarà certo indolore per il giornale appena acquistato per un dollaro (ma ha un buco di bilancio, solo per il 2009, di 30 milioni di dollari) da Sidney Harman,

Intanto ieri anche il portavoce di Viviane Reding, commissaria europea alla giustizia, ha preso le distanze da Parigi. Ha ricor-

L’odio verso Israele? È nato con Immanuel Kant La sua filosofia ha abbattuto lo Stato-nazione di Mill di Daniel Pipes segue dalla prima Yoram Hazony dello Shalem Center di Gerusalemme offre una risposta a queste domande in un saggio arguto e ricco di implicazioni dal titolo Israel Through European Eyes. E inizia il suo ragionamento ricordando il concetto di “slittamento di paradigma” sviluppato da Thomas Kuhn nel suo saggio del 1962 La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Un’intuizione determinante, secondo cui gli scienziati considerano il loro soggetto di studio dall’interno di una specifica struttura,“un paradigma”. I paradigmi sono modelli che permettono di comprendere la realtà, e tutto ciò che non vi si adatta viene scartato. Kuhn ripercorre la storia della scienza e mostra come, in una serie di rivoluzioni scientifiche, i paradigmi siano cambiati: da Aristotele, a Newton ed Einstein. Adattabili alla politica, Hazony li “sfrutta” per spiegare la delegittimazione di Israele in Occidente. La percezione dello Stato ebraico si deteriora da decenni, egli sostiene, e «non a causa di questo o quel fatto, ma perché è cambiato il paradigma attraverso cui gli occidentali (colti) guardano a Israele». Rispondere alla denigrazione dello Stato ebraico offrendo delle correzioni - riguardo all’etica militare o ai suoi progressi medici - «non avrà alcun impatto reale sulla complessiva considerazione di Israele in Occidente». Piuttosto, l’ultimo paradigma deve essere riconosciuto e combattuto.

affonda le sue radici nel trattato del 1795 di Immanuel Kant, Per la pace perpetua, sostiene l’abolizione degli Stati-nazione e la creazione di un governo multinazionale. Istituzioni sovranazionali come le Nazioni Unite e l’Unione europea rappresentano i suoi ideali e modelli.

Gli ebrei e l’Olocausto giocano un ruolo stranamente cruciale nello slittamento di paradigma dallo Stato-nazione allo Stato multinazionale. La millenaria persecuzione degli ebrei, culminata con il genocidio nazista, ha dotato Israele di uno scopo e di una legittimità speciale, se letta con la vecchia lente. Ma secondo il nuovo paradigma, l’Olocausto rappresenta gli eccessi di uno Stato-nazione, quello tedesco, che è impazzito. Secondo il vecchio modello dello Stato-nazione, la lezione di Auschwitz era: “Mai più”: concetto che implicava la creazione di un Israele forte, in grado di tutelare il suo popolo. Il nuovo paradigma, invece, legge quel “mai più”sotto lenti nuove, ovvero impedire a qualsiasi governo di diventare così forte da poter replicare le atrocità naziste. Seguendo tale schema, Israele non rappresenta più la risposta ad Auschwitz. L’Ue invece sì. E il fatto che Gerusalemme continui a perseguire una politica autodifensiva rende le sue azioni particolarmente orripilanti agli occhi dei sostenitori del nuovo paradigma. Occorre far rilevare l’erronea attribuzione delle atrocità naziste allo Stato-nazione? Come è noto, i nazisti li volevano cancellare. Essi sognavano, infatti - alla stregua di Kant uno Stato universale. Assistiamo, qui, a una vera e propria deformazione della storia, a cui nessuno è impermeabile, neppure gli israeliani (come dimostra Avraham Burg, che ha chiesto al suo governo di rinunciare a pensare che Israele sia il difensore del popolo ebraico). Come vedete, nessuno è immune dalla malattia del nuovo paradigma. E Hazony, nel corso di un nostro scambio epistolare, ha tratteggiato tre cose da fare per fermare questa deriva: denunciare l’esistenza del nuovo paradigma; “fargli le pulci”per disattivarlo e rivitalizzare il vecchio modello. Consigli assolutamente illuminanti.

Oggi si insegue un mondo multinazionale, i cui modelli sono l’Onu e la Ue. Chi pensa alla propria difesa, non affascina più. Anzi

dato che «la Francia deve rispettare le regole relative alla libera circolazione dei cittadini Ue e i loro diritti a stabilirsi dove vogliono». E pure in Bulgaria, interessata, sebbene solo in minima parte, da questi rimpatri forzati dei rom, cominciano a levarsi molteplici critiche. Immediata la risposta da Parigi: «Le nostre iniziative riguardano i rom presenti illegalmente in Francia - ha sottolineato Bernard Valero, portavoce del ministero degli Esteri -. E sono pienamente conformi con le regole europee». In effetti alla Romania e alla Bulgaria, che sono entrate nella Ue nel 2007, si applica (fino al 2014) un regime transitorio.

Il vecchio schema, quello che perde mordente, considera gli Stati-nazione legittimi e positivi, in grado di tutelare la gente e permetterle di prosperare. Il Trattato di Westfalia (1648) fu il momento cruciale in cui venne riconosciuta la sovranità delle nazioni. John Stuart Mill e Woodrow Wilson garantirono all’ideale dello Statonazione un raggio d’azione globale. Ma quel paradigma, per Hazony, «è pressoché crollato». Lo Stato-nazione non affascina più; molti intellettuali e politici europei lo considerano «la fonte di tutti i mali» ed è un’opinione che si sta rapidamente diffondendo. Il nuovo paradigma, che

ricco uomo d’affari e marito della parlamentare Jane Harman, democratica della California. Ad annunciare il neo matrimonio è stato Richard Stengel, direttore amministrativo di Time, che ha descritto Zakaria come «il portavoce del mondo post americano».

Enfant prodige del giornalismo (approdò a Foreign Affairs a 28 anni), definito da Esquire come «una delle 21 persone più importanti del Ventunesimo secolo», Zakaria (classe 1964, nato a Mumbai) si è laureato sia a Yale (in Storia) che ad Harvard (in Politica Internazionale), diventando il pupillo di un guru indiscusso: Samuel P. Huntigton. E ad Harvard si è anche messo ad insegnare. Ha scritto tre best seller: Democrazia senza libertà, L’era post americana e Dalla ricchezza alla forza: tutti tradotti in oltre venti lingue. Il suo passaggio a Time (che di fatto completa il suo rapporto con Time Warner, visto che lavora anche per la Cnn e Hbo) ha fatto passare praticamente inosservato un altro cambio di guardia. Quello di Gideon Rose, appena approdato a dirigere la sua vecchia rivista: Foreign Affairs.


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Riletture. Non solo la Commedia all’italiana ha saputo graffiare la società: anche molti romanzieri hanno messo il dito sulla piaga dei nostri vizi

Il ghigno del Novecento Da Pirandello a Calvino, da Flaiano fino a Parise: la letteratura del secolo scorso ha scoperto la satira di Matteo Marchesini ggi, alla parola “satira”, l’italiano medio associa subito i nomi di fumettisti e cabarettisti televisivi, di qualche storico mattatore del teatro (Dario Fo) e di qualche corsivista velenoso (da Guareschi a Fortebraccio a Serra). Poi, forse, gli vengono in mente certi film della commedia all’italiana più corrosiva (vedi Dino Risi stile Il sorpasso). È invece assai probabile che quasi nessuno pensi agli scrittori ormai canonici del nostro ’900. Certo questo ipotetico italiano non avrebbe torto a evocare per primi gli specialisti di una scrittura provvisoria o “paragiornalistica”: tanto più che oggi mancano quasi del tutto satire attendibili di maggior respiro. Così come avrebbe ragione di evocare il cinema, che nella seconda parte del secolo XX si è visto consegnare il testimone dell’osservazione satirica direttamente dagli ultimi grandi esperti letterari del genere: si pensi soltanto alle sceneggiature di Brancati e di Flaiano. Tuttavia, questa prima associazione d’idee rimuove il fatto che molti tra gli scrittori italiani più importanti degli ultimi cent’anni sono stati anche, per vocazione o per una sintomatica eterogenesi dei fini, autori tangenzialmente o intrinsecamente satirici.

O

Prendiamo ad esempio i nostri narratori “puri”, cioè gli scrittori che si sono assunti come compito fondamentale quello di offrire una risposta personale e per così dire di prima mano alla crisi delle forme narrative che ha investito il ’900. Pirandello e Calvino hanno entrambi una chiara inclinazione all’umorismo: tendono cioè a guardare la realtà con un misto di intensa partecipazione etica e di comico distacco, che spesso dà luogo a strutture narrative di stampo metafisico-allegorico. Ma a volte, in entrambi, questa inclinazione è rimpiazzata da una «avversione della realtà» autenticamente satirica: e ciò avviene in genere nei momenti di temporaneo abbassamento della temperatura formale, o nelle delicate fasi di passaggio da una forma all’altra. Sia Pirandello che Calvino hanno provato a superare una eredità di realismo: di tipo veristico-naturalistico il primo, di tipo neorealista il secondo. Pirandello approderà alla cosiddetta «farsa trascendentale», Calvino ai mosaici moderatamente strutturalisti degli anni ’60. Ma nel frattempo, sulla via della purificazione formale, tutti e due gli scrittori hanno lasciato brani in cui fanno i conti con la società loro contempo-

ranea nel modo più acre e contingente della satira. Qui il realismo di partenza è ridotto a una smorfia, a una caricatura violenta. Per quel che riguarda Pirandello, oltre ad alcune novelle esemplari (La patente, Sua maestà, Le sorprese della scienza) va ricordato soprattutto Suo marito, romanzo per eccellenza minore e proprio per questo tranche de vie integralmente satirica. Qui certe indimenticabili parodie pirandelliane dell’Italia risorgimentale o belle époque – l’esoterismo di Anselmo Paleari nel Fu Mattia Pascal, la guardia pseudoborbonica già in stile Enrico IV o Cinecittà de I vecchi e i giovani – occupano tutto lo spazio narrativo. E il bersaglio è la società letteraria romana esaltata da

Anche dai saggisti, da Eco a Berardinelli, sono arrivate letture «cattive» e rigorose di un paese sospeso tra poesia e cultura popolare D’Annunzio nel Piacere: che infatti andrebbe letto con questo testo a fronte. In Calvino, gli accenti più vicini alla satira affiorano invece nell’unica fase davvero critica del suo percorso: ossia tra i primi anni ’50 e i primi ’60, quando tramonta l’ipotesi del romanzo engagé e le Cosmicomiche sono ancora di là da venire. La spezia satirica condisce quindi La formica argentina e La giornata d’uno scrutatore, La speculazione edilizia e

La nuvola di smog. Medio tra Pirandello e Calvino si può considerare Bontempelli, la cui Vita operosa (insieme col capitolo della Vita intensa intitolato Mio zio non era futurista, e dedicato all’evoluzione dei nostri letterati) resta una delle più compiute satire del secolo. A dimostrazione del fatto che nel ’21 gli occhi acuti potevano già registrare quella fine della modernità che diverrà palese dopo il ’45, La vita operosa racconta con ritmi da accelerazione pop un primo dopoguerra massificato, neocapitalista, tutto illusoriamente immateriale: dove i gravi prìncipi del foro della belle époque diventano pubblicitari, dove i «pescecani» sono affabili come filosofi, e dove speculazione, miseria e cocaina travolgono la borghesia amorale uscita dal conflitto.

Ancora diverso è il caso di un Moravia o di un Parise. È noto che tra gli anni ’30 e i ’40, in parte per sfuggire alla censura del regime e in parte per recuperare l’energia stilistica degli esordi, l’autore degli Indifferenti scrisse le novelle brevi poi raccolte nei Racconti surrealisti e satirici (oltre alla sotie della Mascherata). La lingua insieme densa e seccamente deduttiva di questi pezzi – tra cui segnaliamo Il coccodrillo, magistrale satira dei parvenu, e Visita inutile, ritratto perfetto dell’intellettuale arcitaliano – dimostra come attraverso il loro artigianato Moravia abbia approfondito i tradizionali punti di forza della sua scrittura: che stanno senza dubbio nell’analisi corrosiva, al tempo stesso impassibile e violenta, dei principali caratteri borghesi. Alla maniera dei moralisti classici, ma disegnando intorno ai suoi personaggi un contesto modernamente esistenziale, questo narratore nato si conferma qui un superbo ritrattista di tipi, un analista impassibile del vizio che si muta in delitto e del delitto percepito ormai soltanto come vizio. L’avaro, il ghiottone, il vanitoso, il pigro, il malato immaginario – sono tutte sagome in cui Moravia vede sedimentarsi quella viltà quotidiana, quella quotidiana inerzia che finisce poi per scivolare nella trappola dell’ossessione, della paranoia, dell’orrore. In Parise, invece, la satira è un effetto dello straniamento, come si vede bene nel Padrone (1965), romanzo swiftian-kafkiano e darwinista sull’alienazione della vita aziendale. Qui il grottesco serve a descrivere la scomparsa di ogni sede di dialogo “neutro” davanti alla forza. Questa forza è amministrata da una casta che appare di volta in volta

umorale o loica, e che assorbe tutte le scolastiche argomentative pro e contro il suo dominio per farne ora una sofistica decorativa, ora una fonte d’esaltazione narcisista, ora perfino lo strumento con cui ritorcere masochisticamente su se stessa il proprio sconfinato sadismo. Tutto è in luce, nel padrone dottor Max e nel suo sistema aziendale: la tautologia è tautologia, il sofisma sofisma. L’orrore è mediocre, non veramente labirintico: sotto il kafkismo non c’è più Franz Kafka. L’intuizione su cui poggia Il padrone è che la forma mentis del nazismo – incarnata al massimo grado dal multifunzionale servo Lotar, braccio efficiente e amorale del dottor Max – ha perso una battaglia ma sta vincendo la guerra. Per descrivere questa deriva, Parise ha costruito un’atmosfera di trance tenuta come un’unica nota dall’inizio alla fine del libro. Il padrone è un fumetto imprigionato e distanziato da una geometria letteraria cristallina: e trasuda una nostalgia per il passato così suprema e indicibile da farsi subliminale, e da lasciar trasparire soltanto la liquida indifferenza di una teoria di volti alla Buster Keaton.

Al contrario, in Gadda e in Mastronardi la satira è una specie di fisiologico apriori: appare cioè come l’unica tecnica, o meglio come l’unico contenitore, in grado di ospitare un mondo poetico che affiora da un sistema di repressioni e trasgressioni già di per sé patologico. Mastronardi parte da una scrittura di netta ascendenza verghiana; ma la capacità rappresentativa dello strumento si è ridotta, e ha ridotto con sé l’umanità dei personaggi. Adottando una stenografia narrativa che procede per dialoghi e magre didascalie, nel Calzolaio (1960), nel Maestro (’62) e nel Meridionale di Vigevano (’64) l’autore ci restituisce un ritratto della borghesia più gretta a cavallo del boom. Anche se a volte


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tesi, e L’epitaffio, deliziosa parodia dell’hemingwaysmo. Ma Flaiano eccelle soprattutto nelle scenette rapide, sospese tra moralità, microracconto ed epigramma. Eccone una, da La solitudine del satiro: «Alle prime notizie della rivolta aveva cominciato un quadro di enormi dimensioni dal titolo: “II Popolo di Budapest si batte contro la Tirannide”. Ora lo continua, ma ha cambiato il titolo: “Il Glorioso Esercito sovietico schiaccia la reazione”. In vista di un premio ha tuttavia di riserva un terzo titolo: “Carri e figure”». Negli autori della famiglia di Brancati e Flaiano viene a galla in maniera diretta l’eredità lasciata dalle principali opere e dai filoni fondamentali della letteratura satirica moderna: si sentono echeggiare le Operette morali leopardiane (di cui le Scorciatoie di Saba potrebbero considerarsi una stenografica reincarnazione novecentesca), un po’ di Dickens, il dizionario flaubertiano, Gogol, Kraus, e le esperienze in cui il conte settecentesco incontra gli estremi esiti allegorici di Kafka e Beckett.

sono un po’corrive e già pronte per la riduzione cinematografica, molte pagine del Maestro rimangono indimenticabili: e si vedano ad esempio la scena dello scontro tra i sindacati ultracorporativi, o quella in cui il preside costringe il povero insegnante a drammatizzare la scoperta dell’America, o ancora quella in cui un altro insegnante muore in classe alla notizia dell’innalzamento di livello, proprio mentre sta mimando l’evoluzione della specie. Altrettanto efficace, nel Meridionale, è il brano sugli emigrati dal sud che ce l’hanno a morte coi “terroni”. Anche nell’opera di Gadda la tradizione che viene satiricamente estenuata appartiene all’800: in questo caso all’800 lombardo, bizzarro e scapigliato del Dossi. Ma l’humus satirica dell’ingegnere consiste spesso di trovate e di tipi corrivi perché già cristallizzatisi altrove, e destinati a fungere da mera base d’appoggio ai suoi tours de force stilistici. Gadda non è quasi mai un satirico creativo. È invece, per usare un titolo di Flaiano che definisce bene il protagonista più tipico delle sue fantasie, l’umorale e bulimico collezionista di infinite «variazioni su un commendatore». L’acredine è in lui la conseguenza di una strozzatura dell’immagine propria e del mondo: il che equivale a dire che la vena satirica è per Gadda una condanna. Questo spiega perché i pezzi in cui la coazione catalogatoria risulta più coerente con l’argomento si trovino tra i «disegni milanesi» dell’Adalgisa (1944), e in particolare negli spaccati di I ritagli di tempo e di Un «concerto» di centoventi professori. Qui, la borghesia gaddiana del Politecnico e della filantropia, degli hobbies filologici e della perenne sonnolenza postprandiale viene rappresentata nella forma più perspicua ed esilarante, perché la fisiologica strozzatura della realtà è del tutto omologa al mondo piccolo del ceto medio meneghino. Un mondo ben circoscritto, negli

stessi anni, da Alberto Savinio: che ha saputo dipingerne aforisticamente la sazia autarchia culturale e il bric-àbrac, la seriosità cerimoniosa e involontariamente comica, la natura un po’ municipale e un po’ europea.

In alto, una celebre inquadratura del «Sorpasso» di Dino Risi. Nella pagina a fianco, Ennio Flaiano. Qui sopra, dall’alto: Carlo Emilio Gadda con Mario Soldati; Vitaliano Brancati e Italo Calvino, Goffredo Parise alla macchina per scrivere e, sotto, Luigi Pirandello nel suo studio

Fin qui abbiamo parlato degli sperimentatori di forme narrative. Ma esistono poi gli autori che hanno una vocazione satirica dichiarata anche dal punto di vista formale, e più che sperimentare mescolano stampi già collaudati, si muovono trasversalmente ai generi, praticano una scrittura spuria in cui il racconto è spesso l’esile travestimento di un bozzetto o apologo morale, di una farsa o di un diario in pubblico. E non c’è dubbio che in questo senso i due satirici per eccellenza del ’900 italiano siano appunto Brancati e Flaiano, autori nutriti dalla lezione di aggressività deformante del «Selvaggio» di Mino Maccari e dalle performances krausiane dell’«Italiano» di Leo Longanesi, e agenti a loro volta su Sciascia, su Bianciardi, su Giuseppe Pontiggia. Nessuno meglio di questi liberali saturnini ci ha saputo raccontare l’Italia della stupidità fascista e del trasformismo antifascista, delle lettere anonime e dei salotti di sottogoverno, delle mode estetiche usate come mezzo di ascesa sociale e dei «cretini intelligentissimi», della retorica dannunziana riciclata in forme socialiste e di una provincia oppressiva reinventata per l’occasione in chiave cechoviana o gogoliana. Su questi temi, di Brancati si leggano almeno il racconto poi portato sullo schermo - Il vecchio con gli stivali, la Singolare avventura di Francesco Maria, i capitoli centrali di Paolo il Caldo e il Diario romano.Tra gli innumerevoli scampoli di Flaiano, invece, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Dal Diario degli errori ci limitiamo a segnalare il racconto Fine di un caso, dove si immagina la creazione di un Ente Mon-

Resterebbe ancora da dire dei saggisti. Ad esempio, una delle vene più felici di Emilio Cecchi, maestro della prosa d’arte, è dovuta proprio alla sua sorniona immaginazione critico-satirica. Chi vuol verificarlo può leggere pezzi divertentissimi come Una comunicazione accademica (in Pesci rossi), Poeti in un verso solo e Il centenario dei «Promessi Sposi» (in L’osteria del cattivo tempo). Nel primo, il moderato Cecchi immagina che nell’anno 3009 vengano ritrovati alcuni «frammenti» di testi futuristi. E l’archeologo li interpreta così: «Probabilmente accanto alla popolazione italiana, che nel costume e nella lingua svolgeva storicamente le proprie forme, sopravvivevano tribù incolte, irriducibili, forse erratiche (...) Forse venivan tollerate per lo stesso carattere pittoresco della loro idiozia». Poeti in un verso solo, come il Dialogo dei massimi sistemi di Landolfi, è invece una riduzione all’assurdo dell’estetica crociana, i cui ripetitori vengono qui rappresentati come maniaci che vorrebbero scindere con un setaccio così raffinato la poesia dalla non poesia, da serbare infine di Eschilo solo «l’otototoi di Cassandra», e di Shakespeare l’«horror! horror! horror! macbethiano». Infine, nel Centenario Cecchi immagina alcuni scrittori suoi contemporanei alle prese con una riscrittura del classico di Manzoni: e se Papini ammazza subito Don Abbondio, Panzini fa di Geltrude una dattilografa fanatica di Pitigrilli. È’ da fantasie simili che mezzo secolo dopo usciranno i pezzi migliori di Il boom di Roscellino del germanista Cesare Cases, di cui segnaliamo in particolare Due gatti accademici: dove si narra come nel 2020, in una cittadella universitaria ultrafeudale in cui la fumettologia scientifica di Eco contende con quella empirica di Del Buono, un docente ceda la cattedra al proprio micio. Debitori in parte di Cases, e attraverso Cases di Kraus, sono poi due dei più originali saggisti dei nostri tempi: Piergiorgio Bellocchio (L’astuzia delle passioni, Al di sotto della mischia) e Alfonso Berardinelli (Stili dell’estremismo, Cactus). In loro, come in molti degli scrittori citati, le pagine migliori restano quelle dedicate alla satira degli intellettuali: a conferma del fatto che per colpire al cuore occorre avere una lunga familiarità col proprio bersaglio.


ULTIMAPAGINA

Il caso. La Bosnia riconverte il nascondiglio sotterraneo del Maresciallo per una nuova Biennale

L’arte entra nel bunker di di Diana Del Monte onjic è una cittadina che si estende su entrambe le sponde del fiume Narenta, protetta dall’abbraccio delle montagne boscose della Bosnia Herzegovina settentrionale. In giornate come questa, da Konjic, la popolazione si sposta sulle spiagge lungo il fiume a prendere il sole ed a rinfrancarsi dal caldo. Lo fa da sempre, una gita “fuori porta” rituale; lo faceva anche dieci, venti, trenta, quarant’anni fa, quando erano tutti ben consapevoli che, pochi metri più in là, su quelle montagne, si trovava il centro dell’industria militare jugoslava. Durante la guerra fredda, infatti, le montagne che avvolgono Konjic, così ricche di boschi e, dunque, poco accessibili, erano considerate un luogo strategico; lì, le guardie militari avevano scavato a lungo per costruire fabbriche, aeroporti e centri di controllo che, nel 1992, allo scoppio della guerra bosniaca, erano state smantellate e portate in Serbia e Croazia. Tutto ciò che non poteva essere scomposto e trasportato, come l’aeroporto militare sotterraneo di Zeljava, il più grande d’Europa, era stato fatto saltare in aria. Alla fine dell’operazione di smantellamento non restavano che pochi accenni di quell’impianto militare enorme ed efficiente, alcune semplici strutture, oggi completamente saccheggiate e/o distrutte.

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Eppure le montagne bosniache custodivano un altro importante segreto, tenuto efficacemente nascosto per quasi trent’anni: il Bunker anti-atomico Atomska Ratna Komanda (Ark). A rivelarne l’esistenza, alla fine del 1992, gli stessi custodi che, dopo la disgregazione della Jugoslavia, non si sentivano più vincolati dal giuramento di segretezza fatto ad un paese che non esisteva più. Costruito tra il 1953 e il 1979, il bunker era destinato ad ospitare e proteggere il presidente Josip Broz Tito, la sua famiglia e i suoi più stretti collaboratori, circa 350 persone. Una costruzione colos-

sale e labirintica che contava, oltre al “blocco presidenziale” dedicato a Tito e alla sua famiglia, migliaia di metri quadri di aree residenziali, sale conferenze, aree stampa attrezzate, uffici, sale di pianificazione strategica con rete e centraline di telecomunicazione; una struttura progettata per far vivere i suoi ospiti nel sottosuolo per un lungo periodo e per resistere a una bomba atomica da 25 kiloton.

Hadzifejzivic, artista bosniaco di fama internazionale. Hadzifejzivic, infatti, che durante la guerra nel suo Paese venne accolto a braccia aperte dall’intellighenzia belga, da anni fa parte di un gruppo di intellettuali che lavora ad una ritessitura culturale della Bosnia Herzegovina, insieme agli altri stati della ex Jugoslavia. Dello stesso movimento fanno parte,

TITO Si tratta di migliaia di metri quadri: una struttura progettata per far vivere i suoi ospiti nel sottosuolo per un lungo periodo e per resistere addirittura a una bomba atomica

La fortezza, che si estendeva per 6.584 metri quadri totali ed era posta a 300 metri di profondità, era costata quasi 5 miliardi di dollari e non era mai stata utilizzata.

Scampata al programma di smaltimento dell’area militare grazie ad un soldato bosniaco di guardia che ne sabotò la distruzione, oggi l’Ark entra finalmente in attività. Anziché proteggere Tito, il bunker proteggerà la nuova Biennale di Arte Contemporanea della Bosnia Herzegovina. D-O ARK Underground (così è stata intitolata la mostra prevista per il 2011) vuole promuovere l’arte contemporanea come mezzo per valorizzare i legami inter-statali e interfederali tra i paesi della ex-Jugoslavia. «Noi crediamo che questo progetto possa avvicinare la Bosnia Herzegovina ai valori di democrazia, comprensione e tolleranza proclamati in Europa» ha spiegato Edo Sandra Horzic, direttore della Biennale. L’idea, nonché la richiesta al Ministero degli Interni, di aprire alla cultura gli spazi mai utilizzati del bunker, dedicandoli alla Biennale, è partita da Jusuf

solo per citarne alcuni, il filosofo Senadin Musabegovic, le scrittrici e critiche Nermina Zildzo e Asja Mandic, il creatore del portale giornalistico culturale Depo Portal Jasmin Durakovic, la collezionista italiana Lucia Pianto e molti altri giovani artisti e scrittori coordinati da Hozic. A selezionare gli artisti che parteciperanno alla biennale saranno i tre curatori, ovvero lo stesso Hadzifejzovic insieme al Direttore del Teatro Nazionale Montenegrino Petar Cukovic e allo storico dell’arte Branislav Dimitrijevic, di Belgrado. Molti sono i partner della biennale, tra questi si leggono il Museo di Arte Contemporanea di Banja Luka, il Centro per l’Arte Contemporanea di Sarajevo, ma soprattutto il Centro per la Decontaminazione Culturale di Belgrado, creato agli inizi degli anni ’90 da Borka Pavicevic, che ancora lo dirige, per combattere con il teatro la xenofobia con la quale si stava distruggendo la ex-Jugoslavia.

Per la prima volta dalla guerra degli anni Novanta, D-O ARK Underground sarà in grado di riunire tutte le nazioni della ex-Jugoslavia: «Una rinascita - sostiene Simonetta Lux, direttrice del Centro di Ricerca dell’Università di Roma-Museo Laboratorio di Arte Contemporanea (MLAC), primo partner europeo dell’iniziativa - la risposta a coloro che avevano tentato di sottrarre il sogno della coesistenza pacifica incarnata da Sarajevo».


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