ISSN 1827-8817 00826
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L’uomo guarì dal morso, fu il cane a morire Oliver Goldsmith
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 26 AGOSTO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
«Andiamo avanti così»: ecco il risultato del vertice di Villa Campari. E Marcegaglia avverte: «Purché non sia vivacchiare»
Bossi che abbaia non morde Come Berlusconi prima di lui, anche il Senatùr costretto a capire che non bastano i proclami. «Niente elezioni», dice dopo il summit. Ma l’Italia aspetta comunque un progetto per ripartire DALLE PAROLE ALLA REALTÀ
IL VUOTO E GLI INSULTI
La maggioranza non ha più alibi, ore deve solo governare
Povera Italia, un Paese in cerca di vera politica
di Giancristiano Desiderio
di Gennaro Malgieri
villa Campari si è brindato, non senza mestizia, alla prosecuzione dell’attività di governo. Berlusconi e Bossi si erano dati appuntamento a Lesa per convincersi entrambi: il primo voleva un governo con maggioranza allargata ai moderati e il secondo un ritorno al voto. Ne è venuto fuori un “terzo non dato”: governo e maggioranza rimangono ciò che erano e si va avanti. La parola d’ordine è proprio questa riassunta dalle poche cose dette del capo leghista all’uscita dalla villa berlusconiana: «Si va avanti così, senza Casini e senza l’Udc per realizzare il programma».
a Repubblica rischia di morire per asfissia. La più torrida estate della sua storia non sembra intenzionata a darle tregua. Probabilmente i miasmi di questi mesi si faranno sentire anche durante l’imminente autunno. Naturalmente ci auguriamo che non sia così, ma le speranze, onestamente, sono scarse. Avvertiamo, dopo mesi di vacanza (nel senso di assenza) della politica, un acre odore di disfacimento come se fossimo al cospetto di organismi decomposti. Vorremmo fuggire, liberarci in qualche modo da questa insopportabile sensazione, ma non possiamo, non ne abbiamo i mezzi.
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«Un incontro inutile»
Il Pd sempre più isolato
«L’unione di due debolezze»
E la sinistra finì dietro alla lavagna
I risultati del colloquio secondo Paolo Pombeni e Giovanni Sabbatucci. In realtà l’esecutivo si rimette alla decisione di Fini sui cinque punti stilati dal Pdl
Le liti nel centrodestra hanno avuto l’effetto di cancellare del tutto i democratici dalla scena politica. Neanche l’appello di Veltroni li ha svegliati dal torpore
Francesco Pacifico • pagina 3
Antonio Funiciello • pagina 5
Nuovi dati allarmanti sulla corruzione a Mosca
a pagina 4
Che cosa c’è dietro la guerra di Marchionne
Nella Russia di Putin Pomigliano non è Detroit, tutto è possibile. Pagando ecco la “colpa”di Sergio di Enrico Singer
di Gianfranco Polillo
ui da noi tutto quello che non si può fare per soldi, si può fare per molti soldi». Quando arrivai a Mosca come corrispondente del giornale La Stampa – era il gennaio del 1990 – la lezione del mio segretario-interprete, Sergheij, fu subito molto diretta e chiara. Nella Russia di Putin le cose, se possibile, sono peggiorate. Quando la bandiera rossa stava per essere ammainata dalle torri del Cremlino, corrompere un funzionario per avere un appartamento costava mille dollari. Adesso ce ne vogliono 5000, ma la strada è la stessa: la La corruzione regna corruzione regna sovrana. nella Russia di Vladimir Putin a pagina 22
commenti del giorno dopo sulla vicenda di Melfi sono divenuti più cauti. Merito anche della risposta di Giorgio Napolitano alla lettera dei tre operai reintegrati dal giudice del lavoro, ma lasciati in quarantena. A riequilibrare la partita è stata soprattutto l’intervista del ministro Mariastella Gelmini, che si è schierata “senza se e senza ma” a favore di Sergio Marchionne. E allora vediamole le ragioni di quest’ultimo. Ragioni che, per la verità, non hanno avuta la stessa eco ottenuta all’appoggio dato ai “ribelli”. Marchionne ha dovuto scontare una Sergio Marchionne difficoltà oggettiva. oggi parlerà a RImini a pagina 8 al Meeting di Cl
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I QUADERNI)
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• ANNO XV •
NUMERO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
Gli attacchi personali alla “donna del nemico”
Lo sport dell’estate: dàgli alla Tulliani Irene Pivetti, Lucetta Scaraffia e Sofia Ventura intervengono nel dibattito tra Feltri e Flavia Perina di Gabriella Mecucci lavia Perina ha lanciato l’appello: «Basta attacchi a Elisabetta Tulliani, è una lapidazione della donna del “nemico”, cioè di Gianfranco Fini. È come vedere sfilare, metaforicamente rapata a zero e con al collo il cartello del disonore, sulle prime pagine di Libero e del Giornale, la donna del nemico». Lo ha rivolto alle donne in genere, non solo quelle del Pdl o genericamente del centrodestra. Insomma, ha ragione Feltri o la Perina? Abbiamo girato la domanda a tre protagoniste della cultura e della politica: Irene Pivetti, Lucetta Scaraffia, Sofia Ventura. Che hanno opinioni diverse. a pagina 6
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Summit. A Villa Campari, il ministro Tremonti è stato quello che ha spinto di più per tornare subito alle urne
Il giorno del gattopardo Bossi dice: «Né elezioni né Udc»: ossia, cambiare tutto per non cambiare niente. «Purché non sia vivacchiare», dice Marcegaglia di Riccardo Paradisi così il vertice di Villa Campari sancisce la conservazione dell’esistente, nessuna modifica allo status quo, niente elezioni anticipate, niente apertura della maggioranza al centro. Niente.Tutto resta cheto come le acque del lago Maggiore su cui si specchia la villa di Lesa. Bossi e Berlusconi e con loro i ministri Tremonti, Calderoli e Maroni, la vicepresidente del Senato Rosi Mauro, il capogruppo al Senato Federico Bricolo e il governatore del Piemonte, Roberto Cota.
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È il capo della Lega Umberto Bossi a comunicare qualche minuto dopo le 15 – la riunione con s’è conclusa da pochi minuti – che tutto procede normalmente: «Andiamo avanti così, senza elezioni e senza Casini per realizzare il programma». Un fumata bianca che non accontenta nessuno: non Berlusconi che si vede chiusa la porta ai centristi, non Bossi a cui il voto avrebbe consentito di conquistare un’egemonia nel nord all’interno del centrodestra, non Tremonti che – riferiscono fonti del Pdl – nel pranzo sarebbe stato il più insistente nel chiedere il voto anticipato. Daniele Capezzone si affretta invece a dare una pettinatura conveniente al nulla di fatto del vertice, al fallimento del tentativo berlusconiano di portare Bossi a più miti consigli riguardo l’allargamento dell’area di governo e al fallimento di Bossi di andare al voto tra novembre e dicembre. «Ancora una volta, dal Premier, dal Pdl e dagli alleati della Lega – dice Capezzone – viene una prova di responsabilità verso il Paese e di chiarezza nella definizione di un percorso politico. Gli italiani hanno votato per Berlusconi e la maggioranza farà di tutto per proseguire la sua opera riformatrice per tutta la legislatura, come gli elettori hanno deciso». Ed è sull’azione riformatrice che Confindustria fa sapere, per voce del suo presidente Emma Marcegaglia, che giudicherà l’operato del governo: «Se il governo deciderà di andare avanti sulle riforme lo sosterremo, se invece non farà le riforme lo considereremo un tradimento verso la gente». Il problema, come sanno bene nel Pdl, è che fare le riforme in un clima di fibrillazione interna continua, di imboscate e rappresaglie, di stop and go, di fiducie da vo-
I proclami non bastano per risolvere i problemi del Paese
Il governo non ha alibi: adesso deve governare di Giancristiano Desiderio segue dalla prima Naturalmente, come è noto per i nostri lettori, Casini e l’Udc non hanno mai avanzato la proposta di entrare in maggioranza e “allargarla”, mentre si sono mantenuti fedeli alla via maestra del «governo di responsabilità nazionale» che implica crisi di governo e nuovo esecutivo con una politica nazionale che ora, di fatto, non c’è. E proprio questo è il punto: “andare avanti” dovrebbe significare finalmente governare, cosa che il governo Berlusconi non fa da un tempo, ormai, pre-estivo. I nostri eroi ne saranno capaci?
Questa crisi di governo extra-parlamentare è davvero curiosa. Il governo Berlusconi, infatti, è in crisi e immobile ma sia Berlusconi sia Bossi addossano la responsabilità della crisi a elementi estranei alla maggioranza o che - come nel caso di Gianfranco Fini e del suo gruppo - considerano estranei. La cosa è ridicola se non fosse anche tragica: l’opposizione, per forte e preparata che sia, non potrà mai determinare la crisi di un governo unito e saldo intorno ai propri convincimenti alle proprie azioni. Anche un governo che si regge su un solo voto di scar-
to è un governo forte se la sua azione politica è unita e coerente con se stessa. Tutta la vicenda dello “strappo” di Fini o della sua “cacciata” a opera dello stesso Berlusconi tende a nascondere questo elemento fondamentale: il presidente della Camera non era e non è opposizione, ma maggioranza e governo. La crisi della maggioranza composta da Pdl e Lega e l’agitazione del governo Berlusconi dipendono dalla maggioranza e dal governo, come è inevitabile che sia in ogni democrazia e sistema pubblico. Se Berlusconi e Bossi ritengono di poter andare avanti, vadano avanti come dicono di voler fare; se invece credono che i contrasti interni e le contraddizioni che ne derivano sul piano del governo del Paese siano ostacoli insormontabili ne traggano le conseguenze senza gridare a strani complotti o a “piani per far fuori Berlusconi”, come ha ieri detto il ministro Maroni. Il governo sta in piedi da solo e cade da solo: questa è la regola aurea della democrazia.
Ieri Emma Marcegaglia - quella stessa Marcegaglia che qualche mese fa declinò l’invito plateale del presidente del Consiglio a prendere il posto dell’ex ministro Scajola - al Meeting riminese ha detto che «il governo deve andare avanti e governare: in un momento in cui si parla di recessione Usa e di ripresa debole, parlare di elezioni, politica degli insulti e non concentrarsi sui problemi veri - giovani, disoccupazione - è inaccettabile. Noi non crediamo in governi tecnici che debbono fare riforme elettorali. Noi non siamo per il proporzionale ma per il maggioritario e l’alternanza». Ecco delle parole chiare che ripetono quanto ha detto fuori da villa Campari il ministro Bossi: «Si va avanti». Il governo metta da parte insulti, complotti, piani e vada avanti. Il lavoro del governo dipende dal governo e dalla sua maggioranza. Si vada avanti. Se poi il governo dovesse scivolare su una buccia di banana lasciata lì per caso chissà da chi o se avesse paura dei suoi stessi uomini, beh, a quel punto non si griderà al piano per far fuori Berlusconi ma si farà la normale cronaca di una normale crisi di governo.
tare o da minare, non sarà semplicissimo. Del resto era per risolvere questa impasse che era stato convocato il vertice di villa Campari, per l’esigenza del premier di sbloccare la situazione, di depotenziare l’azione di lotta e di governo dei finiani che non negano né garantiscono la fiducia a Berlusconi, tenendolo così sotto schiaffo e proseguendo quella che nel Pdl chiamano la guerra di posizione per il logoramento del Cavaliere. Non occorrono particolari qualità ermeneutiche per indovinare l’ironia e la soddisfazione nelle parole del portavoce di Futuro e libertà Italo Bocchino. «Noi condividiamo le parole di Bossi, non c’è nessun motivo di andare al voto anticipato. Dopo la costituzione dei gruppi di Fli la maggioranza è rimasta invariata, quindi, non occorre andare alle urne». La posizione dei finiani resta la stessa: «Facciamo parte del centrodestra – dicono – siamo ancorati a questa maggioranza, voteremo sempre la fiducia e tutti quei provvedimenti che fanno parte del programma di governo. Riguardo quei provvedimenti, invece, che non fanno parte del programma non
I finiani: «Siamo insostituibili». I centristi avevano avvertito: «No alla politica dell’aggiungi un posto a tavola» siamo disposti ad accettare aut-aut ma siamo pronti a discutere e a confrontarci». Una promessa e una minaccia. Quanto al nodo dell’allargamento della coalizione all’Udc, i finiani prendono atto che vista la situazione l’operazione non si può fare. Il che sancisce da un lato la loro insostituibilità e dall’altro il loro restare nel gioco.
Tanto che sono gli stessi finiani a farsi latori dell’apertura all’Udc: l’apertura all’area moderata, a tutte quelle forze che politicamente e culturalmente sono alternative al centrosinistra. La maggioranza, ecco il succo del ragionamento, ha gli stessi voti della prima fiducia, solo che ora i soggetti che la formano non sono più tre ma quattro: Pdl, Fli, Lega e Mpa: «È velleitario, dunque, pensare di sostituire Fini con Casini anche perché va contro la volontà dell’elettorato», incalza provocatorio Bocchino. Nel Pdl intanto i più avvertiti come il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi percepiscono il rischio paventato dalla Marcegaglia: il vivacchiare nell’immobilismo. E così Lupi fa un’autocritica «invece di parlare di riforme abbiamo continuato a parlare di alchimie, di finiani e non finiani, di cosa accade, se si va alle ele-
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Due politologi analizzano lo stop (per ora) alla stagione degli annunci
«Un accordo forzato tra due debolezze»
Per Paolo Pombeni e Giovanni Sabbatucci il summit non ha avuto vincitori: problemi rinviati, ancora una volta di Francesco Pacifico
ROMA. Silvio Berlusconi evita il ricorso alle elezioni anticipate. Umberto Bossi sbarra a Pier Ferdinando Casini l’ingresso nella compagine di governo. In breve (e brutale) sintesi questo l’esito del vertice di ieri Villa Campari, che sulla carte dovrebbe rimettere il carreggiata la colazione. «Ma che a ben guardare», nota lo storico Giovanni Sabbatucci, «sembra soltanto un tentativo di riportare le cose a prima del caos: dentro Berlusconi e Bossi, fuori Casini, il tutto però con il buco lasciato da Fini».
Lo studioso bolognese sostiene che «fare le riforme finirebbe per ridisegnare gli equilibri politici, mettendo ai margini i falchi del centrodestra»
zioni o non si va alle elezioni». Se ne deduce che la maggioranza dovrebbe smettere di flagellarsi con le risse interne e riprendere a marciare sui binari dell’azione riformatrice. Ma se questo finora non è avvenuto non è solo per una paralisi della volontà, per questioni, come dire, psicologiche.
È avvenuto perché è la maggioranza ad essersi politicamente inceppata, tanto da sentire l’esigenza di aprire porte e finestre le stesse che Bossi s’è preoccupato di richiudere subito a villa Campari. «Prima che ci sia un cambiamento – riflette il presidente dell’Udc Rocco Bottiglione – devono bere il loro calice fino in fondo e devono diventare consapevoli della loro incapacità di governare, che non dipende solo dalla rottura tra Fini e Berlusconi, ma dal venir meno del progetto politico del Pdl». Insomma, insiste Buttiglione, «con noi si può fare un altro governo, un governo di responsabilità nazionale aperto a tutti coloro che si rendono conto di come sia drammatica la situazione del paese, ma certamente non entreremo mai in questa maggioranza». Buttiglione esclude accordi con Pier Ferdinando Casini sulla base di scambi tra il federalismo e il quoziente familiare e assicura: «Non c’è nessuna trattativa in corso con Berlusconi. C’è solo l’emergere della ragionevolezza della nostra posizione e anche di alcune sintonie con le componenti più ragionevoli del Pdl».
Il politologo Paolo Pombeni non fa fatica a vedere «un pareggio scontato» alla fine di una trattativa tra due debolezze: «A parte che non so se Casini abbia voglia di entrare in questo centrodestra – tanto che Berlusconi ha approfittato del divieto di Bossi per evitarsi un no – credo che la scelta sulle elezioni sia un atto di realismo politico. Per certi aspetti interessante». Secondo l’ordinario di storia dei sistemi politici dell’università di Bologna, «le elezioni non sono nell’interesse del premier, che seppure le vince, rischia di essere ancora più succubo della Lega. Non lo sarebbero per il Senatùr, che avrebbe portato a casa un po’ di voti, ma soltanto per ritrovarsi in uno scenario diverso e meno conveniente di quello attuale». Di conseguenza, ora c’è da capire se l’«Andiamo avanti così», pronunciato ieri da Umberto Bossi, sia professione di ottimismo o debba suonare come un grido di battaglia. E che fine fa la famosa agenda di cinque punti per vincolare i finiani e dare un senso alla legislatura. Sabbattucci ci mette davvero poco a fare un parallelo con l’ultimo governo Prodi, «quello che tra il 2006 e il 2008 vivacchiava. Poi si è capito che a nessuno conveniva tenerlo in vita. Perché dopo l’incontro di ieri sarà anche scongiurato il pericolo di un voto in autunno, ma nulla potrebbe impedire un’accelerazione che porti alla fine dell’esecutivo». Aggiunge Pombeni: «Questo governo non cadrà finché converrà tenerlo in piedi. Ieri Cesare Geronzi ha chiesto a Berlusconi di garantire la stabilità. Che un modo per ricordargli che la finanza e l’economia del Paese preferiscono un esecutivo zoppicante alla scellerata ipotesi delle elezioni. Dietro la formula usata da Maroni al Meeting – “Vedo un complotto di poteri forti” – c’è l’ammissione che un parte di classe dirigente ha perso la fiducia riposta nel centrodestra». Così lo spettro diventa l’immobilità, la stagnazione, e gioco forza si deve parlare di quelle riforme che sono uno delle cause dello stallo nel quale vi-
ve l’Italia, ma forse anche l’unica leva per rimettere in piede la maggioranza. Al riguardo Pombeni dice di «aver ascoltato, e apprezzato, le proposte fatte da Gaetano Quagliarello durante un faccia a faccia con Francesco Rutelli a Radio Radicale. E la linea del vicecapogruppo al Senato del Pdl è diventata molto interessante, quando ha lanciato un appello per non sprecare la fine della legislatura e trovare un accordo su una serie di misure condivise». Per il politologo bolognese, «lavorare per un fisco ragionevole, un’università competitiva e una giustizia funzionante, oltre che portare benefici al Paese, finirebbe per creare un confronto, una parvenza di dialogo nazionale, che finora Berlusconi non è mai riuscito a realizzare. E non potrebbe essere diversamente visto che parliamo non di un vero riformatore, ma di un imbattibile galvanizzatore di piazze». Questo percorso avrebbe ripercussioni sconvolgenti sugli italiani. «Come fa capire Quagliariello neanche tanto tra le righe, si potrebbe innescare quella transizione necessaria alla formulazione di una nuova politica italiana. Avrebbe il là la costituzione di una nuova classe dirigente. In sintesi, e in un momento di declino del berlusconismo, finirebbero ai margini quei pezzi del centrodestra che hanno fatto del muro contro muro il loro biglietto da visita».
Umberto Bossi, uscendo da Villa Campari in auto, è stato l’unico a rilasciare una dichiarazione: «Niente elezioni e niente apertura all’Udc, andiamo avanti così». A destra, i politologi Paolo Pombeni (in alto) e Giovanni Sabbatucci. Nella pagina a fianco, Silvio Berlusconi
Uno scenario sulla cui strada Sabbatucci vede soprattutto un ostacolo: «Anche io penso che il quoziente familiare o le liberalizzazioni potrebbero avvicinare i poli. Ma quando si parlerà di processo breve o di federalismo – temi che toccano anche sensibilità personali – la maggioranza si spaccherà. E credo che questo potrebbe ripetersi anche in futuro, se non si capirà che il bipolarismo non annulla i conflitti fra i partiti, ma li trasferisce nelle coalizioni manca un programma condiviso». Molti osservatori politici si sono affannati nel dire che il ricorso alla urne da parte del Pdl avrebbe tolto a Gianfranco Fini il tempo necessario per organizzare (magari con il centro) un’alternativa all’attuale destra e al Pd quello per risolvere i suoi problemi di leadership. Paolo Pombeni consiglia a questi soggetti di «superare l’idea che il semplice antiberlusconismo basti per creare una coalizione alternativa a questa maggioranza. E se ci sono le condizioni per unirsi, l’Udc non deve presentarsi soltanto come baluardo del Sud, Fini deve chiarire la sua piattaforma e Rutelli capire davvero quanta forza centrista c’è nel suo movimento».
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l’approfondimento
È stata l’estate dei veleni, delle ingiurie e delle lotte fratricide. Da nessuno è venuta un’idea di futuro, un progetto per l’Italia
La Repubblica piatta
L’encefalogramma della nostra politica è vicino allo zero: non una parola capace di ridare senso al Paese in crisi, solo insulti e vuoto. Non basta dire «andiamo alle elezioni» se poi nessuno ha un progetto su che cosa fare dopo... di Gennaro Malgieri a Repubblica rischia di morire per asfissia. La più torrida estate della sua storia non sembra intenzionata a darle tregua. Probabilmente i miasmi di questi mesi si faranno sentire anche durante l’imminente autunno. Naturalmente ci auguriamo che non sia così, ma le speranze, onestamente, sono scarse. Avvertiamo, dopo mesi di vacanza (nel senso di assenza) della politica, un acre odore di disfacimento come se fossimo al cospetto di organismi decomposti. Vorremmo fuggire, liberarci in qualche modo da questa insopportabile sensazione, ma non possiamo, non ne abbiamo i mezzi. Insomma, è come se fossimo costretti a convivere con la putredine considerandola elemento permanente del paesaggio incivile nel quale siamo immersi. Il corpo della Repubblica esanime e maleodorante non è la metafora con la quale si può tentare di spiegare la condizione nella quale ci siamo venuti, nostro malgrado, a trovare, ma
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la realtà effettuale creata dalla rinuncia alla politica, dalla sua eclisse, dal tramonto che s’è a lungo protratto nell’indifferenza di chi avrebbe dovuto mettervi riparo. È così che ad essa si è sostituita l’ordalia tra soggetti affini e lontani, ognuno vantando le proprie ragioni, ma incuranti di quelle generali. L’orrendo quadro che è scaturito dalla caduta del senso di responsabilità comprende figure in movimento che non trovano requie e si agitano alla ricerca di una staticità impossibile perché nessuna di esse è disposta a cedere ragionevoli spazi alle altre.
tra le mura comuni e fuori di esse. Il perimetro in cui trovare agibilità dove provare a dialogare è stato stupidamente cancellato. È così che ci si incammina su pericolose strade dove, a un tornante qualsiasi, è possibile imbattersi in vociferanti meccani che assalgono chiunque incuranti di accertarsi dell’identità del malcapitato. Non è lo scenario tratto da un fosco romanzo dell’horror, ma è quel che capita nell’ordinaria estate di un Paese occidentale al culmine della sua decadenza. Non
Lo scempio che abbiamo davanti coinvolge non soltanto i soggetti primari della vita pubblica, ma anche i cittadini che a diverso titolo partecipano della vicenda repubblicana. E questo nostro tempo sembra quello dell’età del ferro scandito da lotte fratricide il cui obiettivo finale è l’annientamento del nemico, quale che sia, magari sbagliando. Tutti contro tutti,
E continuiamo a chiamare «politica» questo fallimento
si dovrebbero leggere i giornali, non si dovrebbe guardare la televisione e bisognerebbe evitare di scambiare opinioni con i vicini di ombrellone o con i compagni di passeggiate in montagna; si dovrebbero disertare bar e ristoranti, luoghi di aggregazione e perfino di culto religioso per non illudersi di vivere altrove. Ma non è possibile. Tutti, proprio tutti, percepiscono in questo decimo anno del nuovo Millennio che l’Italia agonizza, mentre ci si chiede, con inquietudine mista a meraviglia, come mai nonostante le dispute infinite tra le fazioni partitiche non affiori un pensiero, ancorché debolissimo, sul futuro della Repubblica, sullo stato della nazione, sulle condizioni reali dei cittadini, sulla morale comune, sui comportamenti pubblici, sulle scomparse virtù, sugli innumerevoli vizi che occupano la scena. E ci si domanda fino a quando è possibile sopportare che i destini di tutti noi non vengano contaminati da un confronto, sia pur minimo, tra
idee, proposte, prospettive. Dalla maggioranza e dall’opposizione si odono soltanto strepiti, ma non una parola che faccia ritrovare il senso non dico di una militanza, di un’appartenenza, ma quantomeno di una logica o forse soltanto di un sentimento, di una passione.
Gli insulti e il vuoto. Tra queste due isole che compongono il piccolo arcipelago del disincanto italiano si dispiega quella che ancora chiamiamo “politica” per comodità, per intenderci in qualche modo. Da ogni parte si levano quotidianamente esempi che segnano la vacuità. Proposte infantili di impossibili assetti governativi tengono dietro a labili intenzioni di ritorni affidate a paginate di grandi quotidiani senza che tra le molte inutili righe si colgano tracce di un futuro possibile. Resoconti di improbabili inciuci vengono spacciati come rivelazioni di assoluta importanza strategica per l’avvenire del Paese, magari approfondendo sulla qualità e la consi-
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Schiacciato dalle liti tra Berlusconi, Fini e Bossi, il Pd vive male la propria uscita di scena
Uno spettro (non) s’aggira per l’Italia: il partito democratico I leader della sinistra ormai sono fuori dal dibattito e dalle cronache: neanche l’appello di Veltroni ha scosso il partito dal suo torpore di Antonio Funiciello uello che è accaduto negli ultimi mesi nel dibattito politico italiano è un brusco spostamento del baricentro d’attenzione a favore del campo del centrodestra. La lite tra Berlusconi e Fini, entrambi consci del fallimento di due anni di governo ed entrambi atteriti dall’assilo sul come dare la colpa di questo fallimento all’altro, ha letteralmente eclissato il Pd. Un’eclissi permanente che ha gettato in un’ombra di insignificanza il partito di Bersani, lasciando un po’ di luce solo ai soggetti limitofi e a personaggi altrimenti assai opachi: da un lato Di Pietro e il suo caravanserraglio giustizialista; dall’altro l’effimero «narratore del nulla» Nichi Vendola. Per cercare di richiamare a sé l’attenzione il Pd strepita come pure sa ben fare. Il suo capogruppo alla Camera, l’ex segretario Franceschini, è arrivato a giustificare l’eventuale formazione di una santa alleanza contro Berlusconi richiamando la guerra partigiana che unì, tra gli altri, comunisti e monarchici contro l’invasore!
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Il fatto è che la riduzione del Pd a mero satellite del sistema solare della politica italiana, confermato dalle vane sortite di Franceschini, è un fenomeno oggi difficilmente invertibile. Si tratterebbe di ritrovare le ragioni di
un partito, che è sempre una comunità di uomini e donne, per stare insieme e parlare con una sola voce all’Italia. Impresa sempre più complessa considerato lo sprigionamento di forze centrifughe che dal Pd puntano all’esterno, estenuando la sua capacità di ripartire con un progetto politico compatto e degno di questo nome. Queste forze centrifughe oggi prendono corpo nelle mille candidature a premier che dalle parti del centrosinistra si agitano, produ-
Solo Nichi Vendola è riuscito a reggere il confronto mediatico con il predominio del centrodestra cendo talora uno schiamazzo indistinguibile. La più accanita degli ultimi mesi è quella di Nichi Vendola, che solo apparentemente si muove all’esterno del partito. Perché Vendola un partito suo non ce l’ha e le sue fortune sono state tutte costruite sull’abilità mostrata nel farsi leader di un partito, il Pd, che non riconosce come tale il suo proprio: ieri in Puglia, domani (nei poetici auspici vendoliani) in Italia. Ma a parte Vendola, le molte disponibilità a guidare gli anarchici del Pd verso qualche lido testimoniano di quanto frammentato sia ormai diventato il campo democratico. La lettera di Veltroni agli italiani, via Corsera, ha messo per un attimo in luce le inadeguatezze di gestione politica che hanno trascinato il partito nella sua ombrosa eclissi. Il problema è che, anche per il più benevolo degli ammiratori di Veltroni, è difficile non riconoscere la parte di responsabilità che l’ex segretario ha avuto in commedia. Le sue dimissioni appaiono il gesto più difficilmente motivabile in tal senso: che forza
avrebbe il Pd se Veltroni non se ne fosse andato, oggi che il Pdl è dato nei sondaggi sotto il 30%?
Eppure Veltroni ha riaperto il dibattito e la sua lettera è la rappresentazione fisica che si è incrinato quell’unanimismo che nel partito s’era creato intorno al terrore per le elezioni e alla santa alleanza contro il demonio di Arcore. Per il leader che si faccia carico di dare due gambe e una faccia a questa posizione riformista, contro la posizione “ammucchiatista”, Veltroni potrebbe certo pensare a se stesso.Tuttavia uomini a lui vicini suggeriscono che ci sono altre due opzioni che l’ex sindaco di Roma potrebbe avere in testa. La prima è andare alla ricerca di un leader quarantenne, che si faccia carico di guidare il Pd lungo i sentieri di un netto ricambio generazionale. La seconda ha un nome e un cognome: Sergio Chiamparino, a cui Veltroni potrebbe dare una mano nella sua scalata al tenebroso Nazareno. È probabile che alla fine si finisca per andare su questa seconda, visto che per la prima né Veltroni né alcun altro vecchio dirigente hanno mai lavorato: gli “Obama”, come i bambini, non li porta la cicogna. Forze centrifughe, quelle di Veltroni e Chiamparino, che però per avere successo debbono conquistare consenso in un partito che, invece, guarda a loro con dichiarata ostilità. Il segretario del Pd, leader in carica, non è ostile né benevolo con nessuno: semplicemente, non parla. Al Nazareno, celiando, si dice che Bersani è come quelle temperature di località remote troppo difficili da rilevare: non pervenute. Sulla sua inadeguatezza come leader politico sono d’accordo un po’ tutti, amici e nemici, tant’è che i dalemiani sarebbero propensi a scaricarlo in favore di Enrico Letta, sia che si voti domani, sia che alle elezioni si vada più in là. In fondo è lo stesso trattamento che riservarono al povero Fassino, che tirò la carretta dei Ds per i cinque anni dell’opposizione a Berlusconi tra il 2001 e il 2006, salvo poi non guadagnarsi neppure un posticino nel secondo governo Prodi.Voleva fare il vice premier come Rutelli e al suo posto andò D’Alema; voleva fare il ministro degli Esteri e al suo posto andò (ancora) D’Alema. I dalemiani pensano di destinare, con Letta candidato premier, Bersani alla solita economia. Ma anche la loro presa sul partito appare più debole che in altri frangenti. Insomma, nel Pd oggi non c’è nessuno che possa farsi carico di unire il più delle forze e prospettare un qualche scenario per il breve e il medio periodo. Per il lungo periodo, manco a parlarne perché, come disse qualcuno tornato di recente di moda, nel lungo periodo saremo tutti morti. Soprattutto quelli che da vent’anni guidano la sinistra italiana.
stenza dell’aperitivo che i protagonisti dell’operazione “riservata” stavano consumando. Si invita chiunque ci sta, curandosi punto o poco delle differenze tra i soggetti, ad aderire a crociate ridicole pur di guadagnare due minuti in un telegiornale e qualche paginata su bulimici quotidiani che non ne vogliono sapere di mettersi a dieta neppure d’estate. E tornano concetti ed immagini polverosi, mutuati da decenni lontani, per lanciare formule che nessuno capisce, così, tanto per dire qualcosa a prescindere dal fatto che non ha alcun senso. Si fa poi a gara a dimenticare gli esiti elettorali, le collocazioni decise dai cittadini, gli impegni assunti dai partiti: niente ha senso, basta durare. Lodevole intento, ma per fare che cosa? Ecco, la domanda: che forma avrà, dopo tanto sfacelo, la Repubblica che verrà? A meno di non volersi condannare ad una dissoluzione perpetua, le forze politiche dovranno pure prima o poi cominciare a ragionare su programmi comprensibili, dovranno dividersi sulle idee e non sui pregiudizi, dovranno riconoscere che il responso delle urne ha comunque un valore e dunque la maggioranza dovrà governare finché sarà in grado e l’opposizione dovrà controllarla se ne sarà capace. Banalissimo tutto ciò, ma in una democrazia ordinata. La nostra non lo è. E, dunque, è il caso che invece di ipotizzare fughe in avanti che rischiano di gettare il Paese nel baratro dal quale non c’è risalita, chi di dovere – la classe dirigente complessivamente intesa, non soltanto quella che siede in Parlamento – comprendesse che, per quanto eccentrico possa sembrare nelle attuali condizioni appena riassunte, è indispensabile riprendere il filo di un discorso e riorganizzare la competizione politica secondo metodi e criteri che non prevedano la demonizzazione di nessuno.
Si fa presto a dire “andiamo alle elezioni”, come se queste fossero la panacea di tutti i mali. Se si sapesse che cosa fare dopo, avrebbe un senso il ricorso alle urne. Ma se, come sembra, a marasma dovesse aggiungersi altro marasma, allora è meglio, molto meglio non pensarci. E cercare strade più consone che permettano una governabilità possibile, con l’obiettivo minimo dell’ordinaria amministrazione e, semmai il clima dovesse migliorare, tentare anche qualche riforma di cui si sente oggettivamente il bisogno. Vorremmo poter discutere di tutto questo, sui giornali e nelle pubbliche manifestazioni. Ma, al momento, ci sembra un sogno. È pur vero che sognare non è proibito e, soprattutto, non costa nulla. Ma risvegliarsi avendo di fronte un incubo vero, reale, inamovibile com’è quello sopra richiamato, è ancora più terribile.
società
pagina 6 • 26 agosto 2010
Effetto Boffo. Flavia Perina denuncia il linciaggio mediatico messo in atto dai giornali del Cavaliere contro la compagna del presidente della Camera
Rancori senza Fini Irene Pivetti e Sofia Ventura si schierano in difesa della Tulliani, e invece Lucetta Scaraffia avvisa: «Guai a farne una vittima» di Gabriella Mecucci
ROMA. Flavia Perina, direttore
le parlamentari del centrodestra. Sinora non hanno avuto risposta. Anzi, alcune donne del centrodestra hanno controattaccato duramente. Daniela Santanchè ha interloquito con Contini in modo non propriamente solidale: «I tacchi a spillo c’è chi se li può permettere e chi no». Che ne pensano Lucetta Scaraffia, editorialista dell’Osservatore Romano, Irene Pivetti, ex presidente della Camera, e Sofia Ventura, politologa vicina a Fini, della discussione aperta da Perina e Contini? Lucetta Scaraffia non è d’accordo con Perina. «Tulliani come Claretta Petacci? Ma per carità, lasciamo stare. Tulliani non è una vittima FLAVIA PERINA e non è nemmeno una velina. È «È come vedere una giovane donsfilare, na graziosa che metaforicamente sin dall’inizio ha rapata a zero avuto ben chiaro e con al collo un suo progetto il cartello di vita: arricchirdel disonore, si e salire la scala sulle prime sociale. Ha ottepagine nuto il suo scopo. di “Libero” Dal suo punto di e del “Giornale”, vista è una donla donna na realizzata. Per del nemico» raggiungere la meta ha fatto parecchi sacrifici: Contini far notare che all’inter- non deve essergli costato poco no della maggioranza conta stare con Gaucci per sei anni. più l’avvenenza e il modo di ab- Elisabetta Tulliani è una simpabigliarsi di una donna che le tica avventuriera. Naturalmensue effettive capacità. I tacchi a te, tanto più si sale la scala sospillo e le labbra procaci sono ciale tanto più si finisce sotto i di gran lunga più importanti di riflettori. Tanto più c’è qualcuuna solida cultura, di raffinate no che cerca di scoprire gli analisi politiche, di tempra mo- scheletri nell’armadio. La comrale, di abilità politica. pagna della terza carica dello Stato è inevitabilmente oggetPerina e Contini dicono due to, dunque, di attenzione e di cose profondamente diverse, scavo da parte della stampa. Mi tenute insieme solo da un pun- sembra che i to: entrambe invocano un inter- giornali non stiavento delle donne per sconfig- no pubblicando gere l’affermarsi di una nuova particolari di potendenza contro le donne. Una co conto, o semsorta di arretramento dalle plici pettegolezconquiste, anche se parziali, zi, ma richiamino che erano state raggiunte. Né l’attenzione su Contini né Perina lo dicono, ma episodi poco limsembra di scorgere fra le righe pidi che riguardelle loro dichiarazioni, la con- dano la vita della vinzione che l’idea berlusco- Tulliani. Lo ripeniana di donna sia la causa, o to: questo può una delle cause di questo ritor- accadere se si è no indietro. Per questo chiedo- la compagna di no solidarietà per la Tulliani e un uomo pubbliper la Contini alle ministre e al- co. E a maggior del Secolo d’Italia, non ha usato mezze frasi per difendere Elisabetta Tulliani, messa a sua parere “alla berlina” perché compagna di Gianfranco Fini. «È come veder sfilare metaforicamente rapata a zero e con al collo il cartello del disonore, sulle prime pagine di Libero e del Giornale, la donna del nemico”», sostiene Perina. E poi si rivolge alle dirigenti del Pdl, alle ministre e sottosegretarie perché non assistano passivamente a questo “killeraggio”. Parole forti, ma il centrodestra va riscoprendo in questi giorni una questione femminile a sua misura. Era toccato a Barbara
ragione se quest’uomo ricopre la terza carica dello Stato. I giornali hanno sollevato interrogativi ai quali la Tulliani dovrebbe rispondere. Onori e oneri di un ruolo. Quanto invece alle critiche mosse da Barbara Contini al Pdl mi sembrano giuste. Una donna di qualità e con grandi competenze come lei viene decisamente sottostimata e sottoutilizzata dal suo partito. Le vengono preferite parlamentari meno capaci, forse per il loro modo di abbigliarsi o di presentarsi. È comunque uno spreco che una donna come la Contini, anziché essere valorizzata, venga messa da parte tanto da constringerla a lamentarsene pubblicamente».
A Irene Pivetti il paragone che Perina fa fra il trattamento di cui è oggetto la Tulliani e le “donne rasate”, con “al collo il cartello del disonore” sembra un’esagerazione. Ma non è d’accordo però neanche con Scaraffia. Anzi, prende le difese della compagna di Fini. «L’ho già detto una decina di giorni fa. Ritengo l’attacco a scopo propagandistico di un congiunto dei personaggi pubblici una cosa immorale. La campagna contro la Tulliani non mi piace per niente, non la condivido. Si dice che la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto. Sono d’accordo, ma solo se la regola vale per tutti e non in alcune circostanze sì e in altre no.Vogliamo andare a vedere anche in casa di altri... E a destra come a sinistra. Altrimenti si usano i famosi due pesi e due misure. Quanto alla Contini, non sono d’accordo con questo ricacciare le IRENE PIVETTI «Ritengo l’attacco una cosa immorale. Si dice che la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto. Sono d’accordo, ma solo se la regola vale per tutti»
Nella foto grande, il presidente della Camera, Gianfranco Fini, insieme alla compagna Elisabetta Tulliani. La donna è stata oggetto negli ultimi giorni dei feroci attacchi di “Libero” e del “Giornale” in conseguenza dello strappo maturato tra l’ex leader di An e il Cavaliere. Nella pagina a fianco, il filosofo Ugo Volli
donne nel recinLUCETTA SCARAFFIA to del trucco e «Non è una dei tacchi a spilvittima lo. Perché usare e nemmeno come metro di una velina. giudizio uno steÈ una giovane reotipo prettadonna graziosa mente maschile? partita Questa polemica con un chiaro sulle donne di progetto di vita: centrodestra è arricchirsi vecchia e logora. e salire la scala Ci sono in questa sociale: scopo parte politica miraggiunto» litanti e dirigenti di prim’ordine. A prescindere dalle misure dei fianchi, da come si una provocazione alle donne abbigliano e da come si trucca- del centrodestra. Sono sempre no. Non mi rassegno a questo così sensibili alle critiche e hanautogol che troppo spesso le no reagito a quelle della Contidonne fanno. Se la Contini si ni chiamando in causa la solisente sottoutilizzata è legitti- darietà femminile. Perché però mata a pensarlo e a dirlo, ma questa solidarietà non è scattanon ci ricacci nell’angolo del- ta per la Tulliani? Perchè sull’atl’abbigliamento. Sia detto, con tacco fuori misura che sta sututto il rispetto e l’attenzione bendo, nemmeno una parola? che l’abbigliamento merita». Non è questa una contraddizione? La moglie di Cesare deve Sofia Ventura è d’accordo con essere al di sopra di ogni soPerina anche se il paragone con spetto? D’accordo. Anche io “le donne rasate”, con “il cartel- penso che Elisabetta Tulliani lo del disonore al collo” le sem- debba fornire risposte ad alcuni bra una frase forte: «Forse esa- interrogativi. E qualcosa l’ha gerata, ma occorre riconoscere già detta. Ma l’attacco a cui è che ha una grande efficacia». sottoposta non è commisurato «Perina ha volutamente tenuto i all’ottenimento di una maggiotoni alti perché voleva lanciare re chiarezza. Tutte le mattine le
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«La giovane donna è finita nel tritacarne solo perché è sotto i riflettori»
«Niente di personale, è la politica del gossip» Parla il filosofo Ugo Volli: «Dalle escort al caso Boffo, gli italiani si sono abituati e non ci fanno più caso...» di Francesco Lo Dico
ROMA. «Basta attacchi a Elisabetta Tulliani. È fango l’agenda politica del paese, certo il felicome vedere sfilare, metaforicamente rapata a zero e con al collo il cartello del disonore, sulle prime pagine di Libero e del Giornale, la donna del nemico». Intervistata da Repubblica, la direttrice del Secolo d’Italia, Flavia Perina, chiede alle pasionarie di destra di reagire alla lapidazione pubblica di Elisabetta Tulliani, compagna di Gianfranco Fini sbattuta nelle prime pagine degli house horgan del Cavaliere insieme alle due figlie di due anni e mezzo e dieci mesi. Il tutto senza aver commesso, ad oggi, alcun illecito, se non quello di aver scelto come compagno l’ultimo dei partner messi alla porta dal presidente del Consiglio a causa di un allarmante tasso di autonomia intellettuale. È dunque la Tulliani, il nuovo objet petit a dei signorini berlusconiani, che nell’impossibilità di mettere in campo argomenti politici sensati contro i finiani, scaricano la frustrata libido del partito dell’amore sulle foggie sinuose della compagna di Fini?
prime pagine di Libero e del Giornale – scoppiasse pure la guerra – fanno il loro titolo più visibile su di lei. E non si limitano a parlarne, a dare informazioni sulle sue case, ma attacccano a testa bassa, con una volgarità rara. Il metodo Boffo ha stravinto e ora viene applicato anche ad altri. L’accanimento contro la Tulliani è ingiustificabile se non con il fatto che è la donna del nemico. Questo non è sopportabile. C’è qualcuno che può pensare che una simile violenza si sarebbe scaricata se Fi-
Camera viene dipinta come una rozza arrampicatrice che ha sedotto l’uomo – vittima. Naturalmente, così facendo, oltre ad attaccare la Tulliani, si colpisce anche Fini. Perina, Contini e altre come noi stanno cercando di porre un freno a questa deriva che sta prendendo piede a destra. Anche a sinistra le donne non se la passano bene, ma almeno godono di un po’più di rispetto. E non è poco».
Ed è così che mentre sul lago
Maggiore si decide, o si crede di decidere le sorti SOFIA VENTURA della legislatura, il mondo di destra è «L’accanimento scosso da una poè ingiustificabile lemica sul“machise non con smo”di ritorno. In il fatto che questa estate in è la donna cui la politica non del nemico. è andata in ferie, è Si sarebbe tornato alla ribalscatenata tanta ta uno strano violenza se Fini femminismo. non avesse rotto Chissà se serve con Berlusconi? solo a rivestire di È qualcosa di una qualche noinsopportabile» biltà la difesa della donna di un potente, oppure se è ni non avesse rotto con Berlu- l’inizio di una riflessione più sesconi? Non c’è uno stereotipo ria e approfondita sulla questioche ci venga risparmiato. La ne femminile vista da destra? La compagna del presidente della risposta la darà il tempo.
«Il vero problema non è l’oltraggio alla figura femminile della Tulliani, ma il dossieraggio becero tout court, che in Italia prospera ormai sulla base di una cultura di massa sempre più involgarita dalla mancanza di scrupoli tipica della pubblicistica specializzata in gossip», spiega a liberal Ugo Volli, docente di Filosofia del linguaggio all’Alma Mater di Bologna che vanta una lunga militanza giornalistica presso le più prestigiose testate italiane. «Il travaso della politica nella sfera spettacolare dello show televisivo, ha assottigliato sempre più i confini della privacy, riversando in un unico grande calderone gusti sessuali, preferenze culinarie, legami familiari, giri di amicizie e rapporti più o meno amicali, più o meno venali, tra protagonisti della vita politica e rispettive fiamme. In questo senso, la compagna del presidente della Camera non viene linciata in quanto donna, ma utilizzata ai fini di una campagna politica che si avvale di ogni più fievole refolo di gossip per liquidare l’oppositore di turno». Ma in buoa sostanza, è corretta l’analisi della Perina? «Credo che la direttrice del Secolo abbia buone ragioni per denunciare questo clima di sciacallaggio contro la fidanzata dell’ex leader di An, ma c’è da dire che questa arietta delatoria non nasce certo con la Tulliani ma ci accompagna da anni, schivata o attizzata a seconda della bisogna, e spesso senza reali notizie di rilievo pubblico a giustificarne, almeno in parte, la presenza», continua il professore. E se è ormai da tempo il gossip a illustrare con i suoi arabeschi di
“
ce connubio tra media del Cavaliere e attività parlamentare, deve aver avuto gran voce in capitolo. «La famelica ricerca di dettagli privati non appartiene soltanto ai giornali di famiglia del Cavaliere – risponde Volli – ma è un’ossessione consolidata da un dibattito politico spesso inconcludente sul piano fattuale. Dove non può l’idea, arrivano i veleni e le illazioni incrociate. In Italia, dove il moralismo è un abito buono da indossare a ogni cambio di stagione, lo scandalo titilla il cotè marxista come quello cattolico sulla base di un’identica logica espiatoria. Predomina la logica elementare della pruderie, perché non esiste un livello soddisfacente di confronto. Se la politica è guasta, il primo ad ammalarsi è il giornalismo. Non mi pare che ci siano in giro grandi Sherlock Holmes della carta stampata. E tutto diventa spesso un gioco di soffiate e spionaggi che permette a chi comanda di imbrigliare il quarto potere», riflette il professore. E c’è poi l’invito alla ribellione lanciato da Flavia Perina alle donne del Pdl, che sembrano accettare supinamente il “trattamento ancillare del capo” insieme a preziosi e cene al castello. «Su questo punto, la riflessione della direttrice eccede forse la realtà dei fatti. Bisogna abbandonare l’idea che ci sia un’antropologia del berlusconismo da estirpare. È vero che alcuni profili possono corrispondere all’analisi della Perina, ma a onor del vero tra le azzurre ci sono anche donne che vengono da lunghe gavette e hanno saputo acquisire meriti e abilità direttamente sul campo. La verità è semmai che lo stereotipo dell’ape regina che svolazza nell’harem del sultano è ormai un clichè vivido nell’immaginario degli italiani. Alimentato ad arte, con malizia ed astuzia dallo stesso Berlusconi».
Non ci sono grandi Sherlock Holmes nei nostri giornali. Così tutto si riduce a un gioco di soffiate che addomestica il quarto potere
”
Anche Gianfranco Fini dovrebbe dunque cominciare a magnificare le doti fisiche delle sue colleghe di partito, per sterilizzare i gas tossici dell’effetto Tulliani? «Gli italiani sono molto indulgenti verso il vecchio commediante che sfodera ancora invidiabili appetiti e divertite marachelle – commenta Ugo Volli – e tutto sommato credo che anche nel caso della Tulliani, la sovraesposizione mediatica non nuocerà troppo a Gianfranco Fini. Se consideriamo solo gli ultimi mesi, dalle escort al caso Boffo, da Bocchino alla casa di Montecarlo, è evidente che il pettegolezzo a mezzo stampa, infondato a livello giornalistico, quasi mai sfocia in niente. E spesso lascia grandi cicatrici solo a loro: alle vittime di un gioco più grande».
economia
pagina 8 • 26 agosto 2010
Polemiche. La strategia dell’ad del Lingotto non può essere una a Detroit e una a Pomigliano
Multinazionale Marchionne Dall’Italia agli Usa, l’uomo-Fiat costretto a combattere su tutti i fronti di Gianfranco Polillo commenti del giorno dopo sulla vicenda di Melfi sono divenuti più cauti. Merito anche della risposta di Giorgio Napolitano alla lettera dei tre operai reintegrati dal giudice del lavoro, ma lasciati in quarantena. A riequilibrare la partita è stata soprattutto l’intervista del ministro Mariastella Gelmini, che si è schierata “senza se e senza ma” a favore di Sergio Marchionne. E allora vediamole le ragioni di quest’ultimo. Ragioni che, per la verità, non hanno avuta la stessa eco ottenuta all’appoggio dato ai “ribelli”.
d’accordo - esse vanno difese con comportamenti irreprensibili. Perché solo così si può vincere la sfida del maggiore sviluppo e della più elevata protezione sociale. Altrimenti si entra in un corto circuito di cui a soffrire sarebbero proprio i più deboli.
I
Marchionne ha dovuto scontare una difficoltà oggettiva. Se si resta all’interno del diritto positivo, Piero Ichino ha ragione quando sostiene che «l’azienda ha probabilmente torto, perché l’ordinanza cautelare del giudice deve essere rispettata integralmente, anche se la si ritiene sbagliata». L’argomentazione, tuttavia, è debole. Tant’è che lo stesso autore è costretto poi a dire: «È proprio questo il nodo cruciale della questione che Marchionne ha il merito di aver posto apertamente in Italia: non è pensabile che una multinazionale investe miliardi su di un piano industriale ROMA. Mentre la politica si interse questo è esposto al roga sul metodo Marchionne (la rischio di essere paraministro Gelmini approva, Epifalizzato dal veto di un ni teme che la rudezza del comsindacato minoritaportamento a Melfi e Pomigliano rio». Temi che in qualsia preludio di un addio all’Italia) che modo echeggiano il diretto interessato oggi sarà a nella risposta dello Rimini, ospite del Meeting di Cl. stesso presidente della Alle 11,15, infatti, parteciperà a Repubblica. Insomma: un incontro, promosso in collabola ragione contro il razione con Unioncamere, sul tesentimento. Da un lato ma «Saper scegliere la strada». le esigenze dell’econoIntanto dagli Usa rimbalza una mia e della competiticuriosa notizia: Chrysler ha fevità internazionale; steggiato un anno di alleanza con dall’altro una vicenda Fiat organizzando per i 12.000 diumana, com’è quella pendenti del quartier generale di dei tre lavoratori licenAuburn Hills un picnic a base di ziati. Il tutto confeziohamburger e hot dog. A servire i nato in una sentenza, dipendenti sono tutti i primi livelche pone un problema li del management della casa auben più vasto. tomobilistica, incluso l’ad Sergio Il diritto positiv o Marchionne. Festeggiamenti analoghi sono previsti anche in vari italiano, nella sua ataltri stabilimenti Chrysler. Il pictuale configurazione nic si è svolto sul prato dove sogiuslavoristica, è allino esposte, fra l’altro, tutte le vetneato rispetto agli ture Chrysler, la Fiat 500, 3 Ferrastandard internaziori, 3 Maserati. nale o non è il residuo di un epoca ormai
E oggi al Meeting dirà le sue ragioni
passata? Lo stesso Piero Ichino non ha dubbi: solo la Grecia – sostiene – ha meno appeal di noi per quanto riguarda l’attrazione degli investimenti esteri. Un tema su cui tutto il sindacato dovrebbe impegnarsi maggiormente. Quando si guarda al miracolo cinese, pochi ricordano ch’esso è stato soprattutto il
suo è un problema di coerenza a livello multinazionale. La Fiat non si misura solo con i sindacati italiani. Opera in mezzo mondo e quindi è in costante contatto con le rappresentanze dei relativi lavoratori. Per gestire quest’enorme galassia ha bisogno di regole uniformi. Non può concedere a Melfi, quello che in-
Non può concedere a Melfi ciò che nega altrove; soprattutto nel momento in cui l’industria automobilistica nel suo complesso è in grave crisi frutto di quei grandi trasferimenti di capitale, senza i quali la Cina sarebbe ancora immobile nella contemplazione dei guasti provocati dalle “guardie rosse” del periodo maoista. Non è comunque lo scambio iniquo – più sviluppo e meno diritti – quello che qui interessa. Le ragioni di Marchionne prescindono anche da questo. Il
vece nega a Detroit. E non può farlo nel momento in cui l’industria automobilistica nel suo complesso mostra la crisi che tutti ben conosciamo. Ma in Italia – si dice – le leggi sono diverse. Un aggravante, semmai, di cui gli stessi lavoratori dovrebbero avere piena consapevolezza. Se quelle regole di vantaggio debbono essere mantenute – e noi siamo
È giusta questa diagnosi? La Fiom, com’è noto, ha deciso lo sciopero degli straordinari fino al 2014. Già questa proiezione fuori tempo la dice lunga sul retroterra che ne ispira le mosse. Roba da anni Settanta: quando la rigidità del mercato del lavoro, in un’economia chiusa, riusciva a garantire investimenti aggiuntivi per aggirarne i relativi vincoli. Allora funzionò. Le grandi innovazioni di processo, che caratterizzarono quel periodo, sono rimaste un patrimonio tecnologico importante per tutta l’industria italiana. Se oggi il “made in Italy” è così apprezzato sui mercati internazionali, questo si deve anche al giacimento di esperienze accumulato in quegli anni di ferro. Al tempo stesso, maggiori investimenti significavano crescita della domanda interna, maggiore occupazione e sviluppo economico complessivo. È ancora questo il contesto in cui opera l’industria? La risposta è talmente evidente, che non vale soffermarsi. È invece opportuno ricordare come sia cambiata la fabbrica moderna. Essa ha sempre più una struttura a rete ed un’interconnessione funzionale che la rende, per alcuni versi, più rigida. Basta lo scompenso in una linea di produzione per bloccare l’intero stabilimento. Ed ecco allora che comportamenti devianti da parte dei singoli non possono essere tollerati. I guasti che producono sono talmente amplificati, da mettere a rischio l’intera produzione. Quindi quando Fiat dice che è venuto meno un “rapporto di fiducia”, non si limita a formulare, come poteva avvenire in passato, una censura. Ma vuole evitare il ripetersi di fatti analoghi, anche se con modalità diverse, o la loro imitazione a livello internazionale. Non ha, quindi, torto Marchionne a voler mantenere il punto.
L’
otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
i m p r e s a
26 agosto (1789)
A Versailles viene approvata la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo
In nome del popolo sovrano di Massimo Tosti
vvenne tutto nel giro di pochissime settimane. Il 5 maggio 1789 si riunirono gli Stati Generali; il 17 giugno i rappresentanti del Terzo Stato si riunirono in Assemblea Nazionale; il 20 giugno, con il giuramento nella sala della Pallacorda, si impegnarono a non sciogliersi fino a quando la Francia non avesse avuto una Costituzione scritta; il 9 luglio l’Assemblea si proclamò Costituente; il 14 luglio i popolani in rivolta diedero l’assalto alla prigione della Bastiglia. E – infine – il 26 agosto la Costituente approvò la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, prologo della Carta invocata a gran voce. L’idea non era affatto nuova.Tredici anni prima – il 4 luglio 1776 – era stata approvata a Filadelfia la Costituzione americana con un preambolo nel quale si affermava che «tutti gli uomini sono creati uguali tra loro, che essi sono dotati dal loro creatore di alcuni inalienabili diritti tra cui la vita, la libertà e la ricerca della felicità». A sottolineare le profonde differenze fra due documenti apparentemente simili provvide parecchi decenni più tardi Alessandro Manzoni. Romanziere e poeta, Manzoni si cimentò anche in un pamphlet storico (rimasto incompiuto) intitolato Saggio sulla rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, nel quale intese dimostrare politicamente che la Rivoluzione del 1789 aveva introdotto in Francia «l’oppressione sotto il nome di libertà». «Il Congresso di Filadelfia», scrisse Manzoni, «parlava di eguaglianza di diritti tra i diversi popoli; non già, come l’Assemblea di Versailles, di eguaglianza tra gli uomini componenti uno stesso popolo; trattava di società formate, non di formazione di società. Negava la legittimità del predominio di un popolo sopra un altro, che era la sola cosa in questione. L’eguaglianza a cui alludeva era quella stessa che le colonie avevano già posseduta rimanendo unite alla madre patria, e che ormai non potevano più ottenere, che col separarsene e costituire un nuovo Stato.
A
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LA PERDUTA GENTE - CAPITOLO 18
I TESORI DELLE CIVILTÀ - UGARIT
CINEMA CALDO - DOMENICA D’AGOSTO
Dacci il nostro ricatto quotidiano
Nel Porto sepolto della scrittura
Week-end a Ostia
di Carlo Chinawsky
di Alessandro Boschi
di Rossella Fabiani
pagine 12-13
pagina 15
pagina 16 pagina 9 - liberal estate - 26 agosto 2010
A sinistra, il Giuramento della Pallacorda. A destra, la Costituente a Versailles. Qui sotto, La presa della Bastiglia e la proclamazione della Costituzione americana. Nell’altra pagina, la Dichiarazione del 1789, e Luigi XVI. A sinistra, in basso, Maria Antonietta aspetto fisico (un forte medioevale, tetro e imponente, con le mura massicce e i ponti levatoi) lo rendeva un simbolo dell’arbitrio e dell’assolutismo. Il giorno successivo il re si recò all’Assemblea per annunciare l’allontanamento delle truppe. I parigini proclamarono l’astronomo Jean-Sylvain Bailly sindaco di Parigi. Bailly s’era guadagnato la fama di eroe il 23 giugno quando i deputati del Terzo Stato (ai quali si erano aggiunti 150 rappresentanti del clero) si erano riuniti nella sala della Pallacorda per chiedere la Costituzione. Avevano preso allora coscienza della loro forza e del loro potere contrattuale.
Non era, come quella contemplata nella Dichiarazione francese, una eguaglianza di un nuovo genere, soggetta ad interpretazioni, anzi bisognosa di interpretazioni, una eguaglianza da intendersi in un certo modo e non in un certo altro. La Dichiarazione di Filadelfia proclamava una soluzione; quella di Versailles, colle stesse parole, proponeva un problema».
Secondo il più autorevole fra gli storici della Rivoluzione francese, Albert Mathiez, «la Dichiarazione rappresentò a un tempo la condanna implicita degli antichi abusi e il catechismo filosofico dell’ordine nuovo. Nata nel fuoco della lotta, essa garantisce ‘il diritto di resistenza all’oppressione’, il che vuol dire che essa giustifica la rivolta che aveva da poco trionfato, senza timore di giustificare così le rivolte future. Proclama i diritti naturali e imprescrittibili: libertà, eguaglianza, proprietà, voto e controllo dell’imposta e della legge, giuria popolare, eccetera. Dimentica il diritto d’associazione, per odio contro gli ordini e le corporazioni. Mette la maestà del popolo al posto della
maestà del re e il magistero della legge in luogo dell’arbitrio». La «rivolta che aveva da poco trionfato» era quella che aveva condotto alla presa della Bastiglia. Il 14 luglio 1789 la folla parigina affamata (e incoraggiata dagli avvenimenti delle settimane
obiettivamente. Per comprenderne la parte nella storia della Francia, bisogna pensare a ciò che era dal punto di vista simbolico. L’effetto della sua caduta fu prodigioso, poiché di colpo il popolo si rese conto della propria forza». Quel giorno il re di Francia Luigi XVI era impegnato in una partita di caccia. Il mattino dopo il duca di Liancourt lo svegliò per metterlo al corrente degli avvenimenti. «È una rivolta?», domandò Sua Maestà. «No, sire», replicò l’aristocratico: «È una rivoluzione».
Secondo Albert Mathiez «la Dichiarazione rappresentò a un tempo la condanna implicita degli antichi abusi e il catechismo filosofico dell’ordine nuovo»
precedenti) dette l’assalto a una vecchia prigione ormai in disarmo, che in quel momento ospitava soltanto sette detenuti. «La presa della Bastiglia», ha scritto André Maurois, storico insigne, «è uno di quegli avvenimenti storici dei quali non è facile, e non sarebbe nemmeno giusto, parlare
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Luigi Salvatorelli, illustre storico italiano del secolo scorso, sostiene che la rivoluzione, «anziché una demolizione improvvisata e inconcludente, fu l’atto ‘ostetrico’ che trasse alla luce un nuovo mondo dalla gestazione secolare», ponendo «fondamenta politiche, sociali, morali, su cui vive an-
cora il mondo d’oggi, e senza le quali ancora oggi non è possibile costruire un futuro che valga la pena di vivere». Le ostetriche aiutano i bimbi a nascere, ma senza di loro i bimbi nascono ugualmente. Cioè: la presa della Bastiglia fu l’atto simbolico di una svolta epocale che si sarebbe comunque verificata. In quel giorno (proclamato successivamente festa nazionale dai francesi) un giovane avvocato privo di clienti, Camille Desmoulins, salito in piedi su una sedia, davanti al Palazzo Reale, mostrando una coccarda tricolore che si era fatto con una foglia di ippocastano, gridò: “Alle armi”. Claude-Joseph Rouget de Lisle (il Goffredo Mameli francese) tre anni dopo avrebbe ripreso quell’appello nel refrain della Marsigliese: “Aux armes, Citoyens! Formez vos bataillons! / Marchons, marchons! / Qu’un sang impur abreuve nos sillons!” (Alle armi, Cittadini! Formate i vostri battaglioni ! / Marciamo, marciamo! / Che un sangue impuro irrighi i nostri campi!). La folla accolse l’invito. Saccheggiò le botteghe degli armaioli, gli arsenali, gli Invalidi, e si diresse verso la Bastiglia, il cui
Alla vigilia di tutti quegli avvenimenti tumultuosi – che stavano scardinando la fisionomia istituzionale e politica della Francia – l’abate Emmanuel-Joseph Sieyès («un prete inacidito, freddo e ragionatore», così lo descrive Maurois) aveva proposto gli interrogativi che riassumevano quel che accadeva: «Che cos’è il Terzo Stato? Tutto. che cosa è stato fino ad oggi? Niente. Che cosa chiede di diventare? Qualche cosa». Bailly, l’astronomo Bailly, s’era guadagnato la fama di eroe perché era stato lui a convocare l’Assemblea nazionale alla Pallacorda, e perché aveva presieduto la riunione, in piedi su un tavolo. Il duca di Dorset, ambasciatore d’Inghilterra a Parigi, scrisse alla sua corte: «Da questo momento noi possiamo considerare la Francia come un Paese libero, il re come un monarca a poteri limitati, e la nobiltà come eguagliata al resto della nazione». Come si spiega il crollo repentino del vecchio regime? La Francia era rimasta la stessa di due secoli prima, mentre il mondo era cambiato. La borghesia produttiva aveva conquistato un ruolo economico importante, senza alcun riconoscimento giuridico-istituzionale. I nobili stipati nel castello di Versailles come pesci in un acquario, parassiti della società, si ostinavano a nuotare nei loro privi-
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o stesso giorno...
Nel novembre 1497 il cardinale Lagranlos lo incaricò di scolpire il gruppo marmoreo con un contratto stipulato nell’agosto 1498. L’opera fu realizzata a partire di Sabrina de Feudis da un modello piramidale u un artista tanto geniale quanto 1498; il gruppo realizzato
Michelangelo, l’artista ventenne ingaggiato per scolpire “La Pietà”
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legi. L’edificio era fradicio, e fu sufficiente un colpo leggero perché si trasformasse in macerie.
Di più: come hanno scritto quaranta anni fa due storici francesi (Francois Furet e Denis Richet: La Rivoluzione Francese), nel XVIII secolo appare una nuova forza politica: l’opinione pubblica. Raccolta ancora in un numero ristretto di persone (avvocati,magistrati, funzionari: la borghesia intellettuale), l’opinione pubblica incarna lo “spirito di riforma”. Conosce le opere di Montesquieu e di Rousseau. Crede nella libertà, nell’uguaglianza, nella solidarietà. È il motto della Rivoluzione (Liberté, Egalité, fraternité) che, tuttavia, fu coniato a posteriori, per riassumere il senso della svolta. «Nel tribunale della cultura borghese», scrivono Furet e Richet, «che dissacra l’Ancien Régime, la molteplicità delle accuse contro l’assurdità della vecchia società, l’irrazionalità delle religioni rivelate e il parassitismo dei signori, è tanto più formidabile in quanto non si fonda più soltanto sulla dimostrazione del ragionevole e dell’auspicabile, ma è inoltre alimentata dalle forze più oscure del rifiuto e dell’umiliazione sociale: il privilegio nobiliare, rafforzato in tutti i campi dall’evoluzione del secolo, mobilita la collera borghese». La monarchia non si decide ad attuare le riforme che i tempi impongono, e allora la rivoluzione diviene ineluttabile. Federico Chabod, grande storico italiano del Novecento, aggiunge un’altra considerazione a questo complesso quadro di motivazioni. Dalla Rivoluzione francese si modifica il concetto di Nazione, che diventa Patria, «la nuova divinità del mondo moderno» (“Amour, sacré de la patrie”, recita la Marsigliese). Re-
irrequieto, la sua attività era un’incessante ricerca dell’ideale di bellezza. Fu Michelangelo Buonarroti. Nato a Caprese, vicino Arezzo, il 6 marzo del 1475, è stato scultore, architetto, pittore e poeta. Resta il protagonista indiscusso del Rinascimento italiano e fu riconosciuto già al suo tempo come uno dei più grandi artisti di sempre. Il suo nome è collegato a una serie di opere che lo hanno consegnato alla storia dell’arte, e alcuni dei suoi lavori sono considerati fra i più importanti dell’arte occidentale: il David, La Pietà o il ciclo di affreschi nella Cappella Sistina. Nel novembre 1497 il cardinale francese Jean de Bilhères Lagranlos, ambasciatore di Carlo VIII presso papa Alessandro VI, lo incaricò di scolpire il gruppo: La Pietà, ora nella Basilica di San Pietro, con un contratto stipulato nell’agosto
stano da spiegare molti aspetti (e molte contraddizioni) della stagione rivoluzionaria che la Francia visse fra il 1789 e il 1794, fra la Bastiglia e il Terrore. Come mai un moto di popolo, teso a ottenere libertà, uguaglianza e – anche – solidarietà – si trasformò in una macelleria. «Fu la Rivoluzione francese», ha osservato Sergio Luzzatto, «che inaugurò la tragica epoca dell’omicidio seriale, impersonale, industriale». Oggi lo riconoscono tutti, persino o francesi. «Come Saturno, la Rivoluzione divorava i
in posizione piramidale con la Vergine come asse verticale e il corpo morto del Cristo come asse orizzontale. La Pietà fu importante nell’esperienza artistica di Michelangelo non solo perché fu il suo primo capolavoro ma anche perché fu la prima opera da lui fatta in marmo di Carrara, che da questo momento diventerà la materia prima della sua creatività. In quell’occasione si manifestò un altro aspetto della personalità dell’artista: la consapevolezza del proprio talento. A Carrara infatti egli acquistò non solo il blocco di marmo necessario per la realizzazione della Pietà ma anche diversi altri blocchi, nella convinzione che - considerato il suo talento - le occasioni per utilizzare quei blocchi in più non gli sarebbero mancate. Cosa ancora più insolita per un artista di quei tempi, Michelangelo si convinse che per
estirpare un precedente regime, quale che sia la ragione del sommovimento. Albert Laurens Fisher (nella sua Storia d’Europa, pubblicata nel 1935), scrisse che «la fede nella bontà sostanziale della natura umana, fondamento delle nuove teorie, fu fonte dei molti terribili disastri che, l’uno dopo l’altro, si abbatterono sulla Francia, ove non viveva un’accolita di angeli politici, ma un popolo a cui, più che a ogni altro forse, era necessaria, per il pieno svolgimento delle sue grandi doti, la ma-
te le guerre che ridisegnano la geopolitica, ma anche negli eventi apparentemente pacifici. Un ultimo aspetto della Dichiarazione merita di essere ricordato e discusso, a oltre due secoli di distanza tenendo debito conto delle idee in materia che circolano ai giorni nostri. A sollevare il problema in modo clamoroso fu allora Honoré Gabriel Riqueti conte di Mirabeau, che si scagliò con violenza contro l’Assemblea nazionale che, «invece di soffocare il germe dell’intolleranza,
Gli eccessi furono conseguenza inevitabile dei successi. La storia dimostra che ogni mutamento di rotta comporta sacrifici di vite umane. Il conte di Mirabeau si scagliò con violenza contro l’Assemblea nazionale perché colpevole di non aver saputo soffocare con decisione il germe dell’intolleranza
propri figli, uno dopo l’altro». Accadde qualcosa del genere anche nell’Unione Sovietica dopo la Rivoluzione d’Ottobre, nel secondo decennio del “Secolo breve”. Ed è accaduto in molte altre occasioni recenti, che è superfluo elencare. Forse il terrore, e il terrorismo, sono ineluttabili quando si vuole
no ferma dell’autorità, e che fu invece abbandonato, per questa agevole e ottimistica teoria, alle proprie forze». Gli eccessi furono dunque una conseguenza inevitabile dei successi. E la storia dimostra che ogni mutamento di rotta comporta sacrifici di vite umane. Così accade, naturalmente, in tut-
scolpire le proprie statue non aveva bisogno di committenti: avrebbe potuto scolpire di propria iniziativa opere da vendere una volta terminate. In pratica Michelangelo diventava imprenditore di sé stesso e investiva sul proprio talento senza aspettare che altri lo facessero per lui. Morì a Roma nel 1564, lasciando in testamento al mondo intero la sua immensa creatività.
l’abbia collocato come di riserva proprio in una Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Invece di pronunciare senza equivoci la libertà religiosa, essa ha dimostrazione che la manifestazione di tal genere di sentimenti e di opinioni poteva andare soggetta a restrizioni; che un ‘ordine pubblico’ poteva opporsi a questa libertà; che ‘la legge’ poteva limitarla. Altrettanti
principi falsi, pericolosi, intolleranti, che sono gli stessi coi quali i San Domenico e i Torquemada hanno sostenuto le loro sanguinarie dottrine».
Mirabeau denunciava il fatto che il cattolicesimo conservasse «il suo carattere di religione dominante, il solo a pesare sul bilancio, il solo a poter portare le sue cerimonie sulla pubblica via. I protestanti e gli ebrei devono contentarsi d’un culto privato, dissimulato». Era naturale che le cose fossero andate in quel modo, dopo che il clero (cattolico) si era alleato con il Terzo Stato. Napoleone ci pensò – negli anni successivi – a rimettere in pari i rapporti, piegando il papa Pio VI a firmare il Trattato di Tolentino, facendolo poi arrestare e portare prigioniero in Francia; a mortificare il successore Pio VII nell’incoronazione imperiale del 1804, dove il pontefice fu ridotto al ruolo di spettatore; a dichiarare la fine del potere temporale dei papi annettendo i territori dello Stato Pontificio; a far deportare in Francia Pio VII, esattamente come era accaduto con il suo predecessore. Soltanto la sconfitta di Napoleone e le decisioni del Congresso di Vienna salvarono la libertà della religione cattolica.
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IL GIALLO
CAPITOLO 18 Dacci il nostro ricatto quotidiano Minacce, segnali di pericolo, strane intrusioni nelle vite degli altri: il coperchio è ormai sul punto di saltare Illustrazione di Michelangelo Pace
di Carlo Chinawsky era il rischio che mi addormentassi, anche se entravo grazie a lei nella vita del suo ex marito. Mi alzai e mi avvicinai alla finestra. A quell’ora non c’era più il rumore dei tram. Mi appoggiai alla finestra, di schiena, e la guardai. Era immobile, aveva detto di essere molto stanca, ma non dava segnali di sonnolenza. «Davvero non hai certi documenti?», tornai alla carica. «Ma se t’ho detto che non lo vedevo mai!», rispose girandosi su un fianco, con gli occhi fissi sulla mia persona. «Non so… magari di te si fidava… malgrado tutto… le prime mogli sono confidenti, spesso si fa fatica a metterle da parte, è istintivo a volte rivolgersi a… ». «Queste sono le regolette lette in qualche manuale che non ha mai avuto una seconda edizione. Oppure ti piace pensare che esistano certi comportamenti. Magari succede così in tanti casi, non lo nego. Ma non nel mio. E poi io non so che cosa tu cerchi esattamente… quali carte? Puoi dirmelo?». «Per ora no. Ma sappi che la sua morte potrebbe essere dipesa da un segreto che lui era riuscito a carpire e che voleva utilizzare… ». «Un ricatto? È questo che vuoi dirmi?». «Mah… in alcuni casi il giornalismo potrebbe essere considerato un ricatto quotidiano. Non è sempre
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facile difficile distinguere la denuncia di uno scandalo da un ambiguo avvertimento».
Jole sospirò e chiuse gli occhi. Si stava addormentando o rifletteva? Dalla tapparella arrivava a strisce l’avvisaglia del mattino. Lasciai trascorrere una decina di minuti e poi andai in bagno. Feci il numero del cellulare di Conforti. Mi rispose una voce maschile. Non era la sua. Alla mia domanda disse: «Glielo passo subito». Compagno di stanza, col quale condividere l’affitto, o compagno di vita? Il maresciallo non dormiva con una donna, su questo non ci potevano essere dubbi. Aveva la voce impastata: « Sa, era… ». «Lei non si deve giustificare», dissi. «Nel nostro ambiente sono abituato a farlo», rispose candidamente, ma anche con una certa fermezza. Era gay, ovviamente. M’ero fatto la fantasia su una sua fidanzata torinese, un po’ smunta, arrendevole, dolce, certamente né sexy né bella. Col senno del dopo, collegai la sua omosessualità non tanto all’indifferenza che aveva manifestato quando avevamo trovato Patrizia Jorio in condizioni critiche, quanto al suo ritrarsi dinanzi a un destino femminile sdraiato sulla barella dell’ambulanza. Il suo sguardo era stato simile a
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«Queste sono le regolette lette in qualche manuale che non ha mai avuto una seconda edizione. Oppure ti piace pensare che esistano certi comportamenti. Magari succede così in tanti casi, non lo nego. Ma non nel mio. E poi non so che cosa cerchi» una frase come «le donne sono così, lasciamole perdere… sono malate, ci infettano… ». Oppure ero solo inacidito e, come spesso mi rimproverava Marina, tendevo a intellettualizzare alcuni preconcetti nel tentativo di spiegarli e spazzarli via. «Vada in ospedale e si accerti delle condizioni di Patrizia Jorio. Poi s’informi dalla Questura di Perugia su… ».
E gli riferii brevemente quanto avevo saputo da Jole sull’attentato al padre di Alcide, del ricatto dell’aspirante giornalista, della sua rapida assunzione alla Sera, così rapida da apparire sospetta, appunto. Non ero obbligato a dirgli da chi l’avevo saputo, difatti non glielo rivelai. Poi conclusi: «Mi deve dire quali personaggi furono compromessi da Jorio… se notabili del posto oppure… ». «Sì, colonnello, ho capito… carriere troncate… ». «Glielo chiedo per scrupolo anche se sono
passati tanti anni. Ma non si sa mai». Cercai la mia giacca. Non avevo più voglia di rimanere in quelle stanze, così sature di malinconia, di solitudine, di passati faticosamente incrociati, di stenti dell’anima. A Jole non era bastata una doccia, aveva voluto continuare nel suo stordimento erotico con un’iniziativa che forse le era parsa normale. O comunque aveva avuto bisogno di una qualsiasi carezza, che le entrasse nella mente, il luogo dove erigeva cavalli di Frisia. Ritornai in camera da letto. Dormiva, pesantemente a giudicare dal respiro. Non sarebbe andata a scuola, probabilmente. Che cosa avrebbe fatto la mattina? Un caffè in cucina, le pulizie, un bucato in lavatrice, una passeggiata, un pianto, un rimanere ferma, fermissima, sul divano scomodo del soggiorno in attesa di una telefonata o semplicemente in attesa che il fiume di sensazioni forti
smettesse di premere contro gli argini del suo alveo vitale. «Esco dal mio convento… », mi aveva detto.
Pensavo a quella sua casa mentale, così come immaginavo quel che doveva provare sulla soglia del suo “inferno“ macchiato di voglie rapprese, di autopunizioni, di viaggi nel passato familiare nel goffo tentativo di recuperare un’autonomia che le era sempre mancata. Lo scandalo come medicina, lenimento, sonnifero, eccitante. «La vita che avrei voluto… », aveva bisbigliato prima di lasciarsi andare con l’accappatoio aperto. Si era collocata a mille chilometri dal privè. Le era parso di essere salva. Per qualche ora. Forse avrebbe ricominciato a uscire tardi la sera, tra qualche giorno, come un’impiegata della rabbia e del rancore. S’era coperta da sola, istintivamente, anche se parti del suo corpo non ancora offeso dal tempo la segnalavano come femmina sopita, quietata dalla serotonina autoprodotta. Mi faceva pena vederla lì, su un letto inutilmente matrimoniale. Quando l’avrei incontrata di nuovo? E dietro quale espressione avrebbe nascosto la nostra casualissima intimità? C’è quasi sempre un bagliore nello sguardo delle don-
LA PERDUTA GENTE Mia madre mi diceva sempre che di dubbi si può morire, che non è bello averli, o perlomeno non si deve seguirli come il cane fa con la lepre. Non pensava ancora alla possibilità che facessi questo mestiere. I suoi dubbi, mio padre li aveva pagati cari a dire. «Con quel che serve! Il fatto è che sono preoccupato per la mia famiglia… quelli non scherzano!». «Quelli chi?». «I servizi segreti, l’ha capito benissimo… non faccia domande di rito, inutili… lei è uno navigato, tutti lo sanno… ». «Io non so nulla.Vuole che le mandi dei miei uomini?». «Non saprei che farmene dei suoi bei carabinieri… farebbero scena e basta… sono un semplice giornalista e nemmeno così importante o famoso… ». «Come vuole. Per qualsiasi cosa,anche un piccolo dubbio, mi chiami», gli dissi. «Già… adesso basta un suo biglietto da visita, un’occhiata d’intesa e un sorrisetto e siamo catapultati in un film… un film molto scadente!». «Veda un po’ lei. Arrivederci». Corradi era il mite capace di scoppi d’ira.
ne con le quali siamo stati avvinghiati, con le quali abbiamo condiviso saliva, sudore e parole, per poche ore soltanto o per giorni o per anni. Alcune lo camuffano, ma il fuocherello non si spegne mai. E lo stesso vale per gli uomini.
Tornai in via Palermo. Avevo bisogno di un ambiente esclusivamente mio. E cominciavo a provare nostalgia della mia vera casa, di Alina, di Gogol, delle mie poltrone, della stanza zeppa di vecchi giornali, del mio letto, del corridoio storto, del silenzio di via Adelaide Ristori, dell’uomo che portava a passeggio un cane che ogni tanto abbaiava contro i gatti che sgusciavano dai cancelli e lui, il padrone, che imprecava usando sempre le stesse parole come se il labrador nero e appesantito fosse la sua vecchia moglie. Mi sdraiai sul letto e mi assopii. Durò poco la pausa perché mi telefonò Ernesto Corradi dell’Universo. Un tono un po’ risentito, la fretta di raccontarmi quel che era capitato. «Mi hanno fatto una bella visitina… ». Domandai che cosa intendesse per “visitina” e lui spiegò che avevano approfittato di una sera in cui lui, la moglie e le bambine erano andate nella “casetta” di Meina, sul lago Maggiore dove c’era stata
una perdita d’acqua, per mettere a soqquadro il suo appartamento. «Ma che metodi avete?», mi accusò. «Metodi che non sono nostri. E mi meraviglia il fatto che lei abbia sospettato dell’Arma… ». M’interruppe: «E chi altro, sennò? O voi o la polizia, sempre gli apparati… ». Apparati: vecchio termine della sua sinistra. «Stia calmo e ci pensi prima di lanciare accuse, dottor Corradi. Piuttosto mi dica: secondo lei che cosa cercavano?». «Non lo so, non ho la minima idea!», urlò all’apparecchio.
Un’idea ce l’avevo io. E forse anche lui: il famoso documento che avrebbe inchiodato l’onorevole Scorrano, il funambolo tra le coalizioni politiche, il ricattatore dei due poli. Dopo l’unico articolo pubblicato da Jorio sull’Universo, articolo che lasciava intuire un prosieguo di rivelazioni - ma queste poi non arrivarono mai - era facile pensare a Corradi come al probabile depositario del foglio diventato scottante, semplice carta che però stava animandosi e armandosi, responsabile finora di due finti suicidi. «Ma lei non crede – dissi cercando di mantenermi calmo malgrado la stanchezza – che la sua parte politica possa… ». «Eh, adesso! Guardi che non è nel
Nelle puntate precedenti Stauder e la vedova Santilli si abbandonano a un’imprevedibile passione. Jole racconta al colonnello della sua vita di coppia, e dell’imbarazzante incontro dei due coniugi in un locale per scambisti che li aveva condotti al divorzio. Anche il padre di Alcide, ex gerarca fascista, era morto in circostanze misteriose. Sui giornali si era mormorato di una vendetta dell’anarchico Giuseppe Landi, a sua volta ucciso. In Stauder nasce il dubbio che che ci sia lo zampino di Alcide. Forse il giornalista usò delle carte roventi per fare carriera.
nostro dna ideologico procedere come i servizi segreti!». «Non ne sono così sicuro. E poi, per cortesia, non parliamo come ormai fanno tutti del dna… non esiste, mi ha capito?». «Non sono per niente d’accordo, se lo vuol sapere». «Sporga denuncia», mi limitai
Già a metà di quella conversazione, se poteva essere definita così, mi venne un dubbio. Di quelli brutti. Mia madre mi diceva sempre, quand’ero ragazzo, che di dubbi si può morire, che non è bello averli, o perlomeno non si deve seguirli come il cane fa con la lepre. Non pensava ancora alla possibilità che facessi questo mestiere. Ma sicuramente la sua frase era legata ai tormenti di mio padre, collocato in una posizione scomodissima all’interno della giustizia. Lui si tolse la vita proprio per i dubbi, che da piccoli si dilatarono fino a diventare un opprimente quanto vasto punto interrogativo sul significato della vita. Condannò se stesso per non aver capito. Telefonai a Mantelli. «Non hai risolto ancora un bel niente, eh?», fu la prima frase che pronunciò. Sapeva che non era vero. O comunque intuiva in che ginepraio m’ero infilato scavando nel mistero della morte di quel cronista, per metà innocentissimo e per metà colpevole. Gli riferii di Corradi e dei miei dubbi. «Sei contorto», esclamò. «Lo devo essere, e lo sai». Sospirò, borbottò, imprecò. Alla fine aggiunse: «Sì, lo siamo stati tutti e due per anni… ». Era il segnale che mi stava lanciando. In altre parole: forse non hai tutti i torti, e così via. «Fammi un favore, Andrea», dissi. «Conosci bene Belleli, ti deve anche dei favori… Chiedigli di Corradi, Er-
nesto Corradi, giornalista dell’Universo… qui nessuno è innocente, anzi se dovessi farti la sintesi di questo caso userei proprio questa frase: nessuno è innocente». «E chi lo è mai?» rise in modo catarroso, «sei sempre stato tra la perduta gente.Va bene, faccio il possibile, poi ti chiamo. Senti, quelli di Milano ti danno almeno una mano?». «Il maresciallo Conforti e qualcun altro. Certo. Il colonnello Boi è seduto nel suo feudo… lasciamo perdere». Lasciò perdere anche lui e la mise sul ridere, facendo, male, il verso ai milanesi: «Uhe, come te stè ne la cità de la madunina?».
Mi assopii, finalmente. E tornarono in quel prematuro dormiveglia le immagini di Casalbruciato, dove avevo incontrato il pedofilo Malvasi. Il suo incedere da uccellino malato, gli occhi come spilli, la fessura della bocca e tutto il resto che poteva dar ragione al vecchio dottor Lombroso. Infine la sua smorfia quando il gilet si macchiò di scuro e io davanti a lui, senza che mi tremasse la mano e nemmeno l’anima, ammesso che fosse tutta intera in quella tarda notte nell’inferno romano a cielo scoperto, un inferno ancora più inferno perché sotto la sopraelevata, tra polvere, sassi, lamiere, sporcizia della più brutta. Era lì il “buco” dove si tirava al bersaglio: contro l’infanzia dei disperati figli di disperati. «No», aveva detto quando la mia pistola l’aveva puntato. Io avevo fatto sì col capo. Come nei film western. Interruppe quello schifoso vortice di immagini la telefonata del brigadiere Pizzi. Mi disse ciò che avevo dimenticato d’avergli chiesto. Aveva interrogato la donna che faceva le pulizie a casa di Alcide Jorio. La sua ostinazione: una gran fortuna per l’inchiesta. «In casa Jorio c’è stata una donna… giovane, molto giovane». «Quella donna la riconoscerebbe?». «Mi ha detto di sì». «E perché non l’ha… ». «Signore, s’è messa paura, vuole evitare grane, sa com’è… ». La donna delle pulizie era stata portata in caserma. Era impaurita, e lì era rimasta mentre io vagavo tra gli spettri notturni raccolti nella periferia di Roma. Assicurai che l’avrei raggiunto in pochi minuti: il tempo di un caffè e brioche.
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DIAMO I NUMERI L’elenco dei nomi dei Pontefici, e dei numeri ordinali che li seguono, a uno sguardo attento riserva qualche sorpresa, spesso dovuta alle vicende complesse della storia. Dai Martino ai Giovanni, la lista è folta apa Benedetto XVI non è il sedicesimo Papa di nome Benedetto. Come Papa Giovanni XXIII non è il ventitreesimo Giovanni. E altri come loro. L’elenco dei nomi dei Pontefici, e dei numeri ordinali che li seguono, a uno sguardo attento riserva qualche sorpresa.A volte dovute alle vicende complesse della storia. Altre volte a pura sbadataggine. L’Annuario Pontificio tiene aggiornata ogni anno la lista ufficiale dei Pontefici che sono stati vescovi di Roma e quindi Papa da San Pietro in poi. 265 nomi storicamente consolidati, ma nel caso anche aggiornati secondo i più recenti studi critici, soprattutto in merito a qualche periodo più oscuro della storia dell’Europa e anche della Chiesa.
Sogli benedetti
P
Non un aggiornamento in base a meriti morali, ma solo secondo criteri storici ed eventualmente in qualche caso giuridici, laddove sorgano nuovi elementi per valutare la legittimità o meno di un Papa o aspirante tale. Nonostante questo ammirevole lavoro, nei periodi passati qualche confusione è stata fatta, e così si è finiti persino per sbagliare qualche nome di Papa regnante. Più d’uno, per la verità. Diciamo intanto che la numerazione nel nome dei Papi non è un elemento che c’è sempre stato, e comunque fa parte ormai integrante del nome ma in modo anomalo. Quando ad esempio Albino Luciani decise di chiamarsi Giovanni Paolo I, gli si fece notare che si doveva chiamare solo Giovanni Paolo, perché non sarebbe stato aggiunto il numero al suo nome finché un altro pontefice non lo avesse portato anche lui. E infatti i Papi il cui nome è stato usato una volta sola non si chiamano “primo”. Ma Papa Luciani
Il valzer degli avvicendamenti simbolici sulla cattedra di Pietro di Osvaldo Baldacci insistette sostenendo che il “primo”voleva sottolineare anche la novità, e quindi mise l’ordinale nel nome. Questione da poco, visto che nel giro di un mese arrivò Giovanni Paolo II e il tutto rientrò nella norma. Bisogna poi ricordare che all’inizio ogni Papa manteneva il suo nome. Per questo il problema di sovrapposizione di nomi e l’esigenza di numerarli non era molto sentita. A
Quando Luciani decise di chiamarsi Giovanni Paolo I, gli si fece notare che si doveva chiamare solo Giovanni Paolo, perché il numero sarebbe stato aggiunto solo se un altro avesse scelto il suo nome parte Pietro, che si chiamava Simone, sembra che il primo Papa a cambiare nome fu nel 533 Giovanni II, che si chiamava Mercurio; nel 955 il primo Papa che certamente cambiò nome fu un altro Giovanni, il XII, Ottaviano
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dei Conti di Tuscolo; sempre Giovanni, XIV, si chiamò nel 983, Pietro Campanora che non voleva essere Pietro II; poi cominciarono ad esserci Papi dai nomi germanici e francesi, che non erano nella tradizione cristiana, per cui il cambio nome divenne usuale; dopo il 996, soltanto due Papi hanno mantenuto il proprio nome originario, Adriano VI nel 1522 e Marcello II nel 1555. Ma a un certo punto invece, con l’abitudine di ripetere sempre gli stessi nomi - per devozione e tradizione - divenne utile se non addirittura necessario numerarli. A cominciare da Pelagio II (579590), per distinguere due Papi con lo stesso nome e di pontificati consecutivi, si aggiunse la parola junior al secondo. Poi, quando vi furono tre Papi consecutivi con lo stesso nome si aggiunse secundus junior. Per evitare confusioni, da Papa Gregorio III (731-741), si cominciò ad aggiungere occasionalmente un numero al nome del Papa, ma tale costume divenne regola nei documenti ufficiali solo a partire dal X secolo. A cominciare da Leone IX (1049-1054), il numero comparve anche sulle bolle pontificali e sull’Anello del Pescatore. I Papi che avevano regnato prima dell’adozione di questo sistema
di numerazione furono numerati a posteriori. Gli antipapi precedenti a questo sistema non sono stati numerati, e per quelli successivi, che hanno usato la numerazione ufficiale, questa non è stata riconosciuta. Ci sono perciò Pontefici ufficiali che hanno utilizzato l’ordinale già illegittimamente assunto da un antipapa. Ma ci sono stati casi controversi, di antipapi a lungo considerati legittimi e solo più tardi espulsi dall’elenco. Ecco quindi che nell’elenco ufficiale dei Papi ci sono della bizzarre lacune di numerazione. Ad esempio un Papa famoso e importante come Bonifacio VIII, non era l’ottavo di questo nome: Bonifacio VII era un antipapa poi espunto dalla lista, ma nel 1300 ancora fonte di confusione. Antipapi furono anche Benedetto X e Alessandro V, ma il loro nome non fu ripreso da nessun Papa legittimo (come invece ad esempio fece pur secoli dopo Giovanni XXIII prendendo il nome di un antipapa e così mettendo definitivamente la pietra sopra a ogni aspirazione di legittimità dei Papi dello Scisma d’Occidente), mentre gli omonimi seguenti si chiamarono Benedetto XI e Alessandro VI. E questo è il motivo per cui l’attuale Papa Benedetto XVI porta un
numero “sbagliato”, in quanto nell’elenco ufficiale dei Pontefici non è preceduto da altri quindici Papa Bendetto. Un altro errore “antipapale” riguarda i pontefici di nome Felice, benché si tratti di un errore nella numerazione a posteriori dato che alla loro epoca gli ordinali non erano in vigore: c’è il III nel 483-492 e il IV nel 526-530, ma non c’è il secondo, che c’era fino a tempi recenti, in quanto pur essendo un antipapa è stato a lungo considerato un santo (in realtà confuso con un omonimo) e per questo mantenuto nella lista. C’è poi il caso curioso di papa Stefano II, anche lui di recente tolto dalla lista perché nel 752 morì tre giorni dopo l’elezione e prima dell’intronizzazione necessaria ad entrare in carica. I suoi primi sette successori con lo stesso nome non ebbero un numero durante la propria vita, ma furono considerati, retroattivamente, da Stefano II a Stefano VIII. Quando un nuovo Stefano fu eletto nel 1057, in seguito all’adozione della numerazione, si chiamò naturalmente Stefano IX. A partire dal XVI secolo, si cominciò a considerare legittimo il primo Stefano II, e bisognò rinumerare gli Stefano successivi da Stefano III a Stefano X, benché in vita si chiamasse Stephanus Nonus. Ma negli anni ’60 l’annuario Pontificio espunse Stefano II e rinumerò nuovamente tutti gli Stefano. Clamoroso il caso dei Papi di nome Martino: sono tre, ma sono numerati I, IV e V. Nessun Papa e nemmeno un antipapa si sono chiamati Martino II e III, ma nel 1281 Simone di Brion divenne Martino IV perché ci si confuse con altri due Papi che in realtà si chiamavano Marino (I e II).
E poi c’è il caso dei papa Giovanni, il nome in assoluto più usato ma anche più confuso. Nonostante Giovanni XXIII, e nonostante sia stato un nome molto usato da diversi antipapa, i Papi ufficiali di nome Giovanni sono appena 21. Nell’elenco infatti mancano Giovanni XVI e Giovanni XX. Nel primo caso si tratta appunto del risultato di confusione storica: il primo fu un antipapa, tanto che i Giovanni seguenti si chiamarono XVI, XVII e XVIII, ma poi in un periodo successivo si fece confusione e si considerò valido Giovanni XVI e si rinumerarono i successivi, così che quando Giovanni Filagato fu di nuovo considerato illegittimo lasciò un buco nella numerazione. Ma più clamoroso è il caso di Giovanni XX: quando nel 1276 Pedro Juliao divenne Papa Giovanni, circolavano diverse liste di Papi con quel nome e nella confusione non fu assunto il corretto ordinale Giovanni XIX e addirittura l’inesistente Papa Giovanni XX fu completamente saltato, e il neoeletto assunse direttamente il nome di Papa Giovanni XXI.
I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ er un lungo periodo fu soltanto grazie ai testi biblici e alla tradizione orale dei Greci e dei Romani che si conosceva la storia dei Paesi del Levante: Siria, Libano, Israele, dominio di quelli che sono stati chiamati sia Cananei sia Fenici. La Bibbia narra che questi Paesi erano abitati dai Cananei, ma anche da “barbari”non semiti. I Greci entrarono in seguito in conflitto con i Fenici, abili navigatori imparentati con i Cananei, che avevano colonizzato il Mediterraneo all’incirca nel periodo della fondazione di Roma (VIII secolo avanti Cristo).
P
Peraltro, era stato soltanto verso il 1000 avanti Cristo che, dopo essere stati respinti dai nomadi aramaici dai territori che occupavano, i Cananei, stabilitisi sulla fascia costiera dell’attuale Libano e da lì partiti alla conquista del Mediterraneo occidentale, vennero chiamati dai loro vicini con il nome di Fenici. S’ignorava tutto o quasi del loro più lontano passato. Nel 1756, l’abate Barthélemy, uno dei pionieri dell’epigrafia fenicia, ricavò importanti informazioni da un’iscrizione incisa sia in lingua fenicia sia in lingua greca su un cippo scoperto nell’isola di Malta. Un secolo più tardi, nel 1860, Ernest Renan portò dalla Fenicia un notevole numero di documenti, di cui nessuno purtroppo risaliva a un’epoca precedente il I millennio, periodo dell’espansione fenicia: così si continuò a non conoscere niente del periodo precedente. Ma ecco che durante alcuni scavi a Biblo, alla fine della Prima Guerra Mondiale, si scoprì, inciso in scrittura alfabetica sul sarcofago del re Ahiram, risalente al XIII secolo avanti Cristo, la più antica iscrizione fenicia conosciuta. Da quel momento si pose un problema: in che modo era nato l’alfabeto, in un mondo che conosceva soltanto scritture arcaiche, sillabiche e ideografiche, che contavano centinaia di simboli? Era forse di origine egizia? Niente permetteva di dirlo con sicurezza, ma si era soltanto all’inizio. Di fronte all’isola di Cipro, sulla costa settentrionale della Siria, in un luogo detto Minet el Beida (il Porto Bianco), esternamente al territorio attribuito tradizionalmente ai Fenici, l’aratro di un contadino che stava arando il proprio campo urtò contro pesanti lastroni di pietra. Sotto i lastroni, un buco o meglio una tomba, colma di vasi dipinti.Trasportato al Louvre, il “tesoro” fu definito “vasellame di lusso” importato dalla Grecia micenea durante gli ultimi seco-
UGARIT
La città dei Cananei che vide fiorire uno dei più antichi modelli alfabetici di cui abbiamo testimonianza
Nel Porto sepolto della scrittura di Rossella Fabiani
trovavano così la loro risonanza storica grazie agli atti amministrativi redatti in accadico (la lingua di Babilonia), la lingua “franca”, o lingua universale, dell’Oriente di allora. Nel 1948 Claude Schaeffer portò alla luce un grande palazzo, ricco di una documentazione amministrativa e letteraria di primaria importanza, utilizzata poi da Jean Nougayrol, eminente assiriologo. Dopo un attento esame dei sigilli reali apposti sui documenti, Nougayrol si accorse con sorpresa che essi erano redatti in uno stile babilonese antico, diventato fuori moda. Egli notò che era stato utilizzato sia il sigillo reale di Yaqaru, fondatore della dinastia, sia, nella cancelleria reale, un’imitazione molto antica di questo stesso sigillo. Si era affermata così l’autorità della tradizione dinastica sorta agli inizi del II millennio. Rimane oscuro il periodo a cui risale la nascita di questa dinastia, ma è molto verosimile che Yaqaru, favorito dal re di Aleppo, visitasse a Mari il palazzo di Zimri-Lim, considerato come una delle me-
Una spedizione affidata a Claude Schaeffer iniziò i lavori nel 1929 e scoprì tombe ricche di tesori, che rivelavano una cultura complessa raviglie del mondo. E forse lo prese a modello. Risale, poi, al suo tempo, verso il XVIII secolo, la costruzione dei più importanti templi di Ugarit, uno consacrato a Hadad, il dio della tempesta – chiamato in seguito Baal, il signore – e a Dagan, dio dell’agricoltura.
Tutto comincia a Minet el Beida, quando l’aratro di un contadino urta contro pesanti lastroni di pietra... li del II millennio Minet el Beida appassionò i ricercatori interessati alla conoscenza della storia delle relazioni marittime dell’antica Siria. Una spedizione affidata all’alsaziano Claude Schaeffer iniziò i lavori nel 1929 e scoprì altre tombe, ricche di tesori, che testimoniavano una civiltà complessa, con elementi presi da Micene e dall’Egitto, ma che tuttavia conservava una sua originalità. Presto s’impose una conclusione: Minet el Beida altro non era che
il porto di una città antica interamente nascosta nella terra, sotto la collinetta di rovine di Ras Shamra. Si scoprì, sempre là, la ceramica micenea e, inoltre, una biblioteca ricca di tavolette ricoperte da una scrittura cuneiforme sconosciuta, chiaramente di tipo alfabetico, perché composta da pochi segni. In mancanza di un testo “tradotto”, paragonabile a quello del cippo di Malta, gli assiriologi ritennero che tale lingua fosse semiti-
ca.Verificata l’ipotesi, s’imponeva una conclusione: la lingua non era fenicia, ma un dialetto cananeo più antico. Restava il fatto essenziale: una ricca letteratura religiosa preludio alla letteratura biblica. La lettura dei documenti amministrativi permise di identificare Ras Shamra con la città di Ugarit, la cui esistenza era appena conosciuta dagli archivi del faraone Amenofi IV, Akhenaton. I testi religiosi, redatti in lingua cananea,
Come i Fenici, anche i Cananei che occupavano un crocevia del mondo antico, si dedicavano preferibilmente al commercio. Tuttavia non si accontentavano di promuovere scambi, ma fabbricavano essi stessi la maggior parte dei prodotti di lusso che esportavano dall’Occidente alla Mesopotamia in cambio di materie prime o dei prodotti di cui avevano bisogno. Nel VII secolo avanti Cristo, uno scritto del profeta Ezechiele, sulla città di Tiro, ricorda con molta precisione la natura degli scambi: «Tarsis (in Spagna?) era un tuo cliente… contro argento, ferro, stagno, piombo, essi acquistavano le tue mercanzie… (Gli abitanti dell’Aram) ti davano malachite, porpora, ricami, coralli e rubini in cambio delle tue mercanzie. Anche Giuda e il Paese d’Israele ti portavano in cambio grano, miele, olio, balsami. Damasco ti forniva vino e lana… ».
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CINEMA CALDO
DOMENICA D’AGOSTO DDII LUCIANO EMMER
Week-end a Ostia di Alessandro Boschi hissà se quando l’aiuto regista Franco Brusati decise di abbandonare il set dopo una sola settimana di riprese si sarebbe mai aspettato che Domenica d’agosto sarebbe diventato un film fondamentale nella storia della nostra cinematografia. Brusati (che era anche uno degli sceneggiatori) si era convinto che Luciano Emmer non disponesse delle basi tecniche minime per realizzare un film. A lui subentrò Francesco Rosi. Se le loro carriere si dovessero giudicare dai film realizzati, specialmente come registi, non ci sarebbe partita: stravince il regista napoletano autore di capolavori come Le mani sulla città, Salvatore Giuliano e I magliari. Peraltro Brusati era più versato come scrittore e quando si metteva dietro alla cinepresa era solito farlo dopo avere scritto soggetto e sceneggiatura.
C
Tutto questo per dire che forse Luciano Emmer dal cambio ci ha guadagnato e che questa è solo una delle centinaia di coincidenze legate anche a film più famosi. Come quando Sordi rifiutò di fare Il sorpasso con Dino Risi, e poi venne fuori, con Vittorio Gassman, il capolavoro che tutti conosciamo. Partiamo allora proprio da Alberto Sordi, che nel film c’è ma non si vede. Però si sente. È sua la voce di Marcello Mastroianni, non di uno qualsiasi, che nel film interpreta il vigile Ercole Nardi. La cosa in effetti non è poi così strana, perché Sordi veniva dalla radio e dal doppiaggio e anche il suo primo film importante Mamma mia che impressione!, diretto in teoria da Roberto Savarese ma in pratica da Vittorio De Sica è la trasposizione cinematografica del compagnuccio della parrocchietta radiofonico. E pensare che proprio una delle peculiarità di Marcello Mastroianni era proprio quella voce così caratteristica, roca e dolce al tempo stesso. La stessa figlia dell’attore, Chiara, afferma che ancora oggi ciò che l’emoziona di più nel rivedere i film interpretati dal padre è proprio la voce, ancora più che il volto. In Domenica d’agosto Marcello Mastroianni è uno dei pochi che da Roma non si riversa sul litorale di Ostia. È il 7 agosto del 1949, festa di San Gaetano. Al mare si arriva a piedi, in bicicletta, in taxi. Da lì si dipaneranno tante storie, come nella migliore tradizione del cinema a episodi che in qualche modo questa pellicola anticipa. La spiaggia cinematografica è stato per molti aspetti il termometro fedele della nostra società. In questo film regna sovrana la confusione, specchio fedele di molte classi sociali che ancora non sentono la necessità di prendere le distanze le une dalle altre. Cosa che avverrà in molti altri film in cui le distese di sabbia, inquadrate spesso con campi lunghi, danno la sensazione di solitudine e di luoghi non destinati al divertimento ma alla riflessione esistenziale. Domenica d’agosto per molti rappresenta una operazione di trasferimento di quella che finora era stata l’esperienza neorealista dei grandi maestri, De Sica e Rossellini in primo luogo,
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nel campo della commedia di costume. Il che va senza dubbio considerato un merito. Secondo altri, i soliti noiosi che intendono il cinema
solo ed esclusivamente come impegno civile, Domenica d’agosto ha la grande colpa di avere invece aperto la stagione del cosiddetto neorealismo rosa. Intanto è necessario dire che il merito di Luciano Emmer, per inciso uno dei registi più censurati del cinema italiano, è
non sono. Alla fine si scoprirà, in un trionfo popolare, che entrambi sono di modeste origini. È un’Italia povera quella raccontata da Emmer insieme agli altri sceneggiatori: il già citato Franco Brusati, Giulio Macchi e Sergio Amidei che con Domenica d’agosto esordiva anche nella produzione cinematografica. A questi va aggiunto Cesare Zavattini, colui che predicava il pedinamento del vicino di casa (lo stalking era lungi da venire) per raccontare le piccole storie che fanno la grande storia. Qualcuno ha notato che rivisto oggi Domenica d’agosto ha perso molto della sua forza. Il che è piuttosto plausibile ma anche piuttosto falso. A meno che non si aggiunga, come pure è stato fatto, che il film non è né carne né pesce, non appartenendo al genere neorealista e nemmeno a quello della commedia. Ma guarda tu se uno quando fa un film deve pensare che è necessario appartenere a un genere. Magari la stessa regola dovrebbe valere anche per i critici. E allora ci sarebbe da divertirsi. Meno male che si dice anche che Domenica d’agosto è importante come ritratto d’epoca. Domenica d’agosto intercetta, trasmettendocele a distanza di oltre mezzo secolo, tutte le atmosfere, le sensazioni, addirittura gli odori diremmo, di un periodo della nostra storia che non c’è più, merito questo che vale molto di più di qualsiasi valutazione schematica e astratta.
Lo stesso cast del film è bene assortito, e anche ricco. Abbiamo parlato della voce di Alberto Sordi sul volto di Marcello Mastroianni, ma sempre a proposito di voci non possiamo dimenticare che in questo film recita la voce più bella del nostro cinema. Quella di Emilio Cigoli, la voce di Dio è stata definita, ma anche quella di John Wayne, per non avventurarci nell’ultraterreno. Cigoli interpreta Alberto Mantovani, naturalmente con la propria voce.Troviamo poi Ave Ninchi, che tornerà sullo stesso luogo di villeggiatura qualche anno più tardi con quei pazzi della famiglia Passaguai. Il raffinato Massimo Serato, Vera Carmi e Franco Interlenghi completano l’elenco. Interlenghi aveva appena diciannove anni, era reduce dal successo di Sciuscià e stava per esplodere partecipando nei successivi anni a un numero impressionante di film. La sua presenza nel cast era già una garanzia di qualità.
Marcello Mastroianni è uno dei pochi che da Roma non si riversa sul litorale romano. È il 7 agosto del ’49, e la sua è una delle tante storie da spiaggia intrecciate con maestria dal regista italiano recentemente scomparso quello di avere saputo mantenere un ottimo equilibrio nel dosare le varie storie del film. Così lo spettatore nonostante le varie vicende intrecciate e sovrapposte riesce a seguire tutto senza eccessiva fatica. Si passa dal vedovo e dalla signora aristocratica che flirtano dopo essersi “liberati”delle rispettive proli a un disoccupato che si unisce a dei malviventi per tentare un colpo. Rimasta in città una domestica aspetta un figlio dal vigile Mastroianni e c’è da trovare casa perché il tempo stringe. Poi, accreditati di una profondità appena appena più marcata, due giovani amoreggiano facendosi credere quello che
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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Il voto elettorale viene espropriato dalle caste che risiedono a Palazzo Nella “democrazia”italiana numerosi cittadini temono d’essere considerati quasi nullità da caste di Palazzo, che possono invalidare di fatto l’esito elettorale. Alcuni politici possono strumentalizzare legalità e solidarietà, nonché tradire il programma elettorale e la coalizione d’appartenenza. Minoranze di partito possono pretendere d’imporre i loro diktat alla maggioranza. Il circo mediatico giudiziario può di fatto squalificare politici. Il grande potere di magistrati non pare controbilanciato da pari responsabilità. Perciò occorre il ripristino dell’immunità parlamentare. Leggi fondamentali vengono cassate dalla Corte costituzionale, che risulta fattualmente un “Superparlamento”e ha un prevalente orientamento ideologico talvolta diverso da quello del Parlamento. La nostra idolatrata Costituzione è prolissa: contiene 139 articoli e 18 disposizioni finali, contro i soli sette articoli della Costituzione statunitense. Prevede un numero eccessivo di parlamentari e quindi concorre al debordante costo della politica. È rigida e contempla un esecutivo debole, come pure percorsi troppo lenti e accidentati per la formazione delle leggi.
Gianfranco Nìbale
POCHE IDEE E BEN CONFUSE Ritengo inutile le elezioni anticipate, perché l’asse politico del Pdl non si è incrinato bensì rafforzato. Non capisco perchè l’Italia non riesce a realizzare le riforme per il bene del Paese e aspettare la fine della legislatura per tirare le somme e valutare l’operato del governo. Credo che la risposta sia semplice: i politici cercano solo poltrone, infatti i senatori a vita, unici over partes, sono sempre stati criticati perché esprimevano scelte per il mantenimento dell’equilibrio dello stato. La colpa è della sinistra, perché con la sua assenza e irresponsabilità ha creato un’ampissima convergenza a destra che, se ci fa piacere da un lato, occorre dire che è composta anche da persone che hanno le idee poco Br chiare e ben confuse.
CHI SONO GLI OMOSENSIBILI? Con i tempi che corrono, le gerarchie della Chiesa cattolica potrebbero “tollerare” un sito web gestito da preti dichiaratamente gay? Ovviamente no! Eppure nell’anno della bufera mediatica in cui la chiesa è sotto attacco per vicende di pedofilia e omosessualità, un gruppo di preti sodomiti è riuscito ad allestire uno spazio web filogay senza che nessuno in Vaticano dicesse nulla. Possibile che da quattro anni dalla messa in rete nessun vescovo o cardinale si sia accorto che il sito Venera-
bilis.tk sta corrompendo centinaia di preti e seminaristi con tendenze omosessuali? Gli ideatori del sito omosex (che in aggiunta a Venerabilis, hanno persino avuto la sfrontatezza di aggiungere la didascalia Homosexual Roman Catholic Priests Fraternity) invece di sollecitare i “deboli” a “curarsi” e a riappropriarsi dell’identità perduta, hanno inserito delle chat internazionali per promuovere l’incontro (non di natura spirituale) tra religiosi “omosensibili”. Neologismo che i sodomiti in clergyman hanno probabilmente coniato per distinguersi dagli omosessuali laici. Se in vaticano nessuno s’è accorto del marcio che galleggia sulla tolda di Pietro (e fortuna che esiste un prefetto della congregazione della fede che dovrebbe vigilare sull’operato dei sacerdoti in odor d’eresia), in compenso se n’è accorto il sito italiano Gay.it, che con toni trionfali ha pubblicizzato l’evento. Va bene il Concilio Vaticano II, va bene la maggiore apertura al mondo, va bene la dottrina della misericordia anziché quella della tirata d’orecchi, ma di questo passo come dice il Vangelo: «quando il figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora fede sulla terra?». E se non la troverà, chi dovrà pagare? Solamente quei religiosi che hanno fatto del basso ventre e delle natiche un dio, o anche chi avrebbe dovuto vigilare?
Gianni Toffali - Verona
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Via col vento Di solito simboleggiano una nazione, una squadra. In Tibet invece, le bandiere veicolano messaggi universali di pace, compassione, forza interiore e speranza. Le prayer flags (“bandiere di preghiera”) sono appese all’aperto, davanti a templi e luoghi sacri, sui tetti, sui ponti e sui monti
LE VERITÀ NASCOSTE
Cosa si fa per non lavorare ABERDEEN. Steven Reid potrebbe essere un novello aspirante Tyler Durden, anche se con molto meno stile. Il 23enne infatti si è picchiato da solo, conciandosi anche decisamente male, per cercare di evitare una giornata di lavoro, come uomo delle pulizie in un hotel. Secondo la ricostruzione della polizia, il ragazzo stava andando al lavoro, quando si è reso conto di non avere per nulla voglia di lavorare quel giorno, e quindi ha avuto un’idea che gli è sembrata geniale: ha preso un rasoio che aveva in tasca e si è procurato diversi tagli, poi ha raccolto un sasso e si è inferto diversi colpi alla testa e al corpo, andando poi alla polizia e denunciando un’aggressione. La polizia inizialmente aveva creduto alla storia, ma la fidanzata di Steven non ha voluto coprirlo, e le contraddizioni che ne sono emerse hanno portato a un nuovo interrogatorio di Reid, che ha confessato di avere simulato l’aggressione perché voleva una giornata di riposo. Il ragazzo è stato denunciato per simulazione di reato. Intervistato dalla polizia, Steven ha ammesso che quello che ha fatto è stato decisamente stupido: «avrei potuto prendere una giornata di ferie», cosa che però al momento non gli era venuto in mente…
CONFISCA MOTORINI E MOTO. POSSIBILE CHIEDERE LA RESTITUZIONE DEL MEZZO Epilogo tardivo e in molti casi impraticabile per la vicenda dei motocicli sequestrati. Le nuove modifiche al Codice della Strada approvate dal Parlamento includono anche la restituzione dei motorini e moto sequestrate in base alla legge 168/2005. Con quella legge fu introdotta la confisca per alcune nuove, quanto lievissime infrazioni: si viaggia in numero di persone superiore a quello previsto; si guida senza casco o con un casco non allacciato o non omologato; si trasportano animali non in gabbia o oggetti non solidamente assicurati; non si è seduti in posizione corretta e con entrambe le mani sul manubrio; il conducente traina o si fa trainare da un altro veicolo; si solleva la ruota anteriore. L’evidente sproporzione e eccessiva severità della legge hanno portato a una sua rapida abrogazione alla fine del 2006. Ma nei due anni in cui è stata in vigore, quella legge ha causato migliaia di sequestri, a volte seguiti da confisca definitiva. Solo ora, a distanza di quattro anni, viene finalmente riconosciuto il diritto a riavere il proprio mezzo. Purtroppo, avranno diritto alla restituzione solo coloro che non hanno ancora ricevuto un provvedimento di confisca, e solo dietro pagamento delle spese di recupero, trasporto e custodia. Per molti questo significa l’impraticabilità di recuperare il motociclo a fronte di spese che potrebbero superare il valore del mezzo. In ogni caso, chi ha subito il sequestro, avrà diritto di chiederne la restituzione. Non è ancora chiaro quale sia la procedura per il recupero, in ogni caso consigliamo di rivolgersi all’organo che ha effettuato il sequestro e/o al gestore del deposito in cui si trova mezzo, eventualmente con lettera raccomandata A/R di messa in mora.
Aduc
mondo
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Scenario.Tra decollo e fallimento. Racconto di una nazione in cerca d’identità, lacerata dai dissidi politici e dalla criminalità
Le ali spezzate del Messico Il governo alle prese con i problemi della competitività economica e dell’emigrazione. È scontro per l’acqua e per il petrolio di Maurizio Stefanini n ranch, una fossa comune, e 72 cadaveri: 58 uomini e 14 donne. Li hanno trovati gli Infantes de Marina, omologhi messicani dei marines, nello Stato di Tamaulipas, al nord-est del Paese: dopo essere stati chiamati da un uomo che era stato ferito da una sparo arrivato proprio da quel ranch, e dopo essere stati a loro volta presi al tiro al bersaglio dai malviventi lì asserragliati, che se la sono poi squagliata su vari veicoli. Assieme ai morti, i militari hanno trovato nel ranch 6 carabine M4 dal calibro di 5,56 millimetri, 3 fucili Ak-47 Kalashnikov da 7,62, cinque fucili a pompa calibro 12, 5 fucili calibro 22 e 101 caricatori.
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Ma solo una persona è stata arrestata: un minorenne che ora è sotto inchiesta con l’accusa di omicidio, ma che comunque per la sua giovane età rischia poco. Una notizia, questa, che arriva subito dopo l’elezione della messicana Jimena Navarrete a Miss Universo.
Qualcuno, anzi, ha sospettato una regia consapevole di Donald Trump, il miliardario padrone del concorso: dopo il titolo di Miss Stati Uniti alla musulmana Rima Fakih, una mossa mediatica per bucare i notiziari, nel momento in cui il Messico faceva cronaca soprattutto per la legge anti-immigrati dell’Arizona, oltre che per le cronache continue di violenza della guerra tra i narcos e il governo Calderón. Nel frattempo, c’era anche stata la polemica tra il governo di Chávez e il New York Times, per un servizio che aveva appunto definito la situazione della violenza in Venezuela «peggio di Iraq e Messico». Con una stima non ufficiale di 16.049 omicidi nel 2009, ma non mancava una stima alternativa attorno ai 19.133, la Repubblica Bolivariana si sarebbe infatti trovata con una me-
La violenza dei narcos ostenta delle manifestazioni di ferocia simbolica che sembrano quasi rimandare al passato barbarico degli aztechi, con i loro sacrifici umani. Sono grandi cartelli che si contendono il lucroso traffico della cocaina sulla rotta dalla Colombia agli Usa dia di 54 omicidi per ogni 100.000 abitanti, contro i 32 della Colombia, i 19-20 del Brasile, i 17 dell’Iraq e i 10-12 del Messico. In effetti, la cosidetta Guerra della Droga che iniziò quando l’11 dicembre del 2006 l’appena insediato presidente Sopra, un mercatino improvvisato in una zona rurale del nord del Messico. A sinistra il presidente Calderòn, dal 2006 impegnato in una dura lotta contro la criminalità. Nella pagina accanto, reparti della polizia messicana
Felipe Calderón decise di mandare contro i cartelli dei narcos le forze armate è stata stimata aver fatto almeno 22.700 morti: ma in quattro anni, e su una popolazione di 111 milioni di abitanti, che è quattro volte quella venezuelana.
È vero che in questi 22.700 morti della guerra alla droga non si esaurisce l’intero panorma della violenza messicana. Resta fuori, ad esempio, quell’allucinante strage di donne soggette a sevizie sessuali e poi abbandonate per le strade o nel deserto attorno a Ciudad Juárez, che va avanti alomeno dal 1993, e il cui bilancio è stato variamente stimato a 360, 593, 1060, oltre 5000, perfino 7649 vittime. Eppure, all’opposto di una violenza che in Venezuela accompgna un’economia sempre più in sfacelo, l’ammucchiarsi dei cadaveri spesso trucidati nei modi più cruenti in Messico non impedisce invece all’economia di crescere del 5 per cento all’anno. Né alle riserve di valuta di toccare livelli record. Né alle compagnie automobilistiche di fare la fila per aprire stabilimenti e filiali in uno dei mercati più promettenti, per prendere il posto dei Paesi “ricchi” ormai intasati di veicoli. Da una parte, dunque, la violenza dei narcos ostenta del-
le manifestazioni di ferocia simbolica che sembrano quasi rimandare al passato barbarico degli aztechi, con i loro sacrifici umani e con i loro rituali antropofagi. Le fosse comuni; i cadaveri abbandonati per strada; le teste tagliate; gli agguati più spietati; le macabre icone di quel culto della Santa Muerte che è rappresentata da uno scheletro nella posa venerata della Vergine di Guadalupe… Dall’altra, però, una sua utilizzazione quasi scientifica, che ne moltiplica l’impatto a fini intimidatori ma sta bene attenta a non intralciare gli affari. Non è un impazzimento di piccola delinquenza: sono grandi cartelli che si contendono il lucroso traffico della cocaina sulla rotta dalla Colombia agli Stati Uniti. Per questo, c’è nell’elettorato chi dà la colpa al Partito di Azione Nazionale (Pan) di Calderón, che dopo aver realizzato nel 2000 la sua storica alternativa di governo ha però così finito per infrangere quegli accordi di tacita convivenza tra il Partito Rivoluzionario Istituzionale (Pri) e i mafiosi che assicuravano la tranquilità, scatenando la belva.
Ed è stato anche in nome del «si stava meglio quando si stava peggio» che alle ultime mid term il Pri ha avuto un succes-
mondo
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La strage perpetrata da un potente cartello che tiene in scacco il governo, ha fatto 72 vittime, tra cui 14 donne
La fossa comune del narcotraffico Nel nord-ovest del Paese, dopo un violento scontro a fuoco, il macabro ritrovamento di Vladimiro Iuliano
CITTÀ
DEL MESSICO. In Messico è purtroppo una scena ormai consueta nelle regioni al confine con gli Stati Uniti. Quella di una polizia che si è abituata ad affrontare i narcotrafficanti con un dispiegamento di forze pari a quello necessario per una vera e propia battaglia. Ieri mattina all’alba reparti delle forze dell’ordine coadiuvati dalle squadre speciali della Marina sono stati impegnati in un durissimo scontro a fuoco a Matamoros, nei sobborghi di San Fernando, nel nord dello Stato di Tamaulipas. Poche decine di chilometri separano la cittadina dal confine con il Texas. Secondo la ricostruzione ufficiale, i militari sono arrivati nel ranch nel quale si nascondevano i narcotrafficanti seguendo le indicazioni di un uomo che, ferito a una gamba da un colpo d’arma da fuoco, aveva chiesto l’aiuto dei militari impegnati in un posto di blocco nella zona, dichiarando di essere stato attaccato da alcuni uomini dall’interno dello stesso ranch. Un membro delle forze dell’ordine è caduto nell’azione insieme a tre narcos, mentre altri criminali sono riusciti a fuggire.
Un bilancio tutto sommato contenuto, se si considera che nell’assalto i reparti, guidati dal funzionari di alto grado della ministero della Marina, hanno fatto utilizzo anche di aerei. Enso clamoroso. Tant’è che ora lo stesso ex-presidente Vicente Fox, l’uomo del Pan che nel 2000 mandò il Pri all’opposizione, si è messo ora in clamorosa contraddizione col pugno di ferro del suo successore e compagno di partito, chiedendo la liberalizzazione della droga per porre fine alla violenza. Un Paese dunque a metà tra il decollo e il fallimento. Ma il cui problema non si riduce alla sola Guerra alla Droga. Premio Pulitzer, l’oriundo argentino Andrés Oppenheimer è il più noto latinoamericanologo della Cnn, oltre all’editorialista che dal Miami Herald in inglese –
trando nella fattoria dentro la quale la banda si era asserragliata, i militari hanno fatto la macabra scoperta: 72 cadaveri, 58 uomini e 14 donne, ammassati in una fossa comune.
Un comunicato della stessa Marina ha reso noto che la cavità è stata sistematicamente impiegata per occultare le vittime di gruppi rivali di trafficanti o persone sequestrate, anche se non è ancora chiaro se le vittime sono state eliminate contemporaneamente o nel corso di ripetuti episodi di violenza. È l’ennesimo macabro ritrovamento di questo genere, che si aggiunge a una lunga serie di violenze che da anni si perpetrano nella regione. Una notizia che desta scalpore in Europa, ma che, oltreoceano, è una goccia nel mare se si considera che negli ultimi quattro anni le vittime del narcotraffico sono state stimate in 28mila unità. Eppure anche in Messico la macelleria di ieri non ha lasciato indifferente l’opinione pubblica. Si tratta infatti della più grande fossa comune mai scoperta da
El Nuevo Herald in spagnolo tiene una rubrica i cui articoli sono poi ripresi in contemporanea da una sessantina di giornali in tutto il mondo ispanico: dallo spagnolo El País, all’argentina La Nación, alla messicana Reforma.
E proprio il 30 marzo in questa rubrica pubblicò un commento sul viaggio in Messico della segretario di Stato Usa Hillary Clinton, in cui spiegò che, «senza minimizzare la lotta contro i Cartelli», quel Paese sta combattendo in questo momento altre cinque guerre: meno appariscenti di quella dei
quando il presidente Felipe Calderòn, nel 2006, ha inasprito la sua offensiva contro i narcos. Insieme alla criminalità legata ai clandestini che quotidianamente provano a raggiungere illegalmente gli Stati Uniti, la lotta tra le bande dei narcos è il grande flagello che affligge la lunga striscia di confine tra Messico e Usa e la colora di sangue. E che si allarga a macchia d’olio anche nel resto del Paese. La stessa capitale, Città del Messico, non ne è rimasta immune. È di qualche giorno fa la scena dell’orrore allestita nei sobborghi della metropoli. Quattro corpi di giovani sono stati ritrovati appesi per i piedi sotto un ponte.
Si tratta della più grande carneficina mai scoperta da quando il presidente Calderòn, ha inasprito la sua offensiva contro la criminalità
Erano stati decapitati e pesantemente mutilati. Al loro fianco un messaggio che recitava: «Ecco cosa succede a chi aiuta il traditore Edgar Valdes», siglato dal «Cartello del Pacifico del sud», potentissima organizzazione attiva nel business del contrabbando di droga. Valdes è il boss di un’altra delle più importanti bande di narcos attive sul territorio messicano, che si
narcos, ma non per questo meno minacciose. Nell’ordine, erano menzionati innanzitutto l’esaurimento del petrolio. «Le entrate petrolifere rappresentano fino al 40% del bilancio federale messicano, ma il greggio del Paese si sta esaurendo. L’Amministrazione di Informazione Energetica degli Stati Uniti calcola che il Messico si vedrà obbligato a importare petrolio nel 2017». Seconda guerra, quella dell’acqua. «Città del Messico ha già seri problemi di acqua, e la scarsità causa tensione con gli Stati vicini. Ed è probabile che il cambio climatico globale trasformi
trovano al centro di un sanguinoso scontro per il controllo del territorio.
Non è escluso che i due ritrovamenti possano avere un collegamento: Tamaulipas è uno degli Stati messicani più violenti, ed è controllato da anni da due potenti cartelli della droga che si contendono il potere attraverso un flusso di denaro da capogiro. Nello blitz di San Fernando, per fare un esempio, i militari hanno anche trovato un vero arsenale composto da 21 pistole, 7 fucili 101 caricatori, 6.949 cartucce di diverso calibro, quattro giubbotti antiproiettile, giubbe mimetiche e quattro camion con falsa immatricolazione camuffati da mezzi del ministero della Difesa. «Il governo federale condanna fermamente i barbari atti commessi dalle organizzazioni criminali» ha dichiarato la Marina messicana in un comunicato, «la società intera dovrebbe condannate gli atti di questo tipo, che dimostrano l’assoluta necessità di continuare a combattere il crimine con il massimo rigore». Una dichiarazione che mira a guadagnare il sostegno della popolazione locale alla lotta contro il crimine, obiettivo ancora lontanissimo nonostante gli sforzi del governo, che ha schierato nella lotta contro i narcotrafficanti 50mila uomini dei 200mila totali a disposizione dell’Esercito.
il Messico in un Paese ancora più arido di oggi».Terzo problema: «che farà il Messico per poter competere con la Cina, l’India e altre potenze emergenti con migliori sistemi educativi? Uno studio del Forum Economico Mondiale, dedicato alla competitività del Messico e diretto da economisti dell’Università di Harvard, ha concluso che il principale problema del Paese per competere nell’economia mondiale è il suo povero sistema educativo».
Quarto: «che farà il Messico con la sua nuova generazione di giovani disoccupati
quando non possa più esportare queste persone negli Stati Uniti con la stessa facilità di prima, per i crescenti controlli alla frontiera o la disoccupazione negli Stati Uniti?». E poi, c’è il problema numero cinque: «che farà il Messico per integrare la sua popolazione indigena nell’economia moderna? Sebbene i governi recenti abbiano proporzionato miliardi di dollari agli Stati del Sud fin dalla ribellione del Chiapas del 1994, il Sud non si beneficia tanto come gli Stati del Nord per l’inserimento messicano nell’economia mondiale».
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pagina 20 • 26 agosto 2010
Pentagono. James Conway: «La timeline fissata aiuta i talebani» WASHINGTON. Il comandante in capo del corpo di Marines degli Stati Uniti, il tenente generale James Conway, si è dichiarato scettico sulla decisione del presidente Obama di iniziare l’exit strategy dall’Afghanistan già nel 2011. Conway ha paventato il rischio che questa decisione possa agevolare i talebani, che già in questo momento stanno dando filo da torcere a tutti i contingenti Nato e Isaf. A conferma delle sue riflessioni, il generale ha reso pubbliche le intercettazioni di uno scambio di vedute tra le forze nemiche. «Dobbiamo resistere ancora per poco», si dice nella conversazione captata dai servizi di intelligence al fronte. Secondo il comandante dei Marines, i talebani non solo starebbero dominando il teatro delle operazioni, ma sarebbero ulteriormente rinfrancati dall’eventualità che gli Usa e i loro alleati smobilitino nell’arco di dodici mesi. «Capisco la stanchezza provata dall’opinione pubblica americana – ha chiosato Conway – tuttavia la Casa Bianca deve spiegare al Paese che o perdiamo questa guerra in fretta, oppure la vinciamo lentamente». L’“Af-Pak war” sta assumendo tutti i caratteri di un conflitto di nervi che deborda dai confini dell’Asia centrale e penetra nelle stanze del potere a Washington. Sempre nella giornata di ieri due soldati spagnoli sono stati uccisi da un poliziotto afghano. Segno, questo, della tensione psicologica che intercorre nei rapporti tra le forze di sicurezza nazionali e gli addestratori stranieri, considerati spesso alla stregua di un esercito invasore. Intanto Wikileaks ha anticipato la prossima pubblicazione di nuovi file criptati della Cia di cui sarebbe entrata in possesso. L’attacco mediatico che il sito sta conducendo contro i centri nevralgici Usa prosegue senza sosta quindi. Esso è caratterizzato da fughe di notizie più o meno veritiere. Preoccupante però è il fatto che non si sappia come terminerà il teorema. Le esternazioni di Conway rappresentano l’ultimo elemento di questo caos generale. Il comandante dei Marines, in carica dal 2006, occupa una posizione e vanta una carriera militare che non possono essere messe in discussione da parte dell’establishment politico del suo Paese. La sua conoscenza del mondo islamico è dettata dalla esperienza acquisita ancora
Afghanistan: rivolta dei generali Usa Dopo McChrystal, anche il comandante dei marines contesta l’exit strategy di Obama di Antonio Picasso
Soldati americani in Afghanistan. Sotto: David Petraeus (a sinistra); James Conway (a destra)
trent’anni fa, quando Conway era un giovane ufficiale di stanza a Beirut. Il polverone che può essere sollevato dalle sue parole risulta come un potenziale prosieguo della vicenda McChrystal, a soli due mesi dalle dimissioni di quest’ultimo da comandante delle forze in Afghanistan.
l’Amministrazione Obama. Sicché il four star general è stato messo in prepensionamento e, con l’inizio del prossimo anno accademico, si avvierà a insegnare alla Yale University. È presto per ipo-
Sembra che anche il Segretario alla Difesa, Robert Gates, sia intenzionato a rassegnare le proprie dimissioni per ritirarsi a vita privata Conway infatti è il secondo generale che assume una posizione schiettamente critica nei confronti di Obama. A fine giugno, dopo aver rilasciato un’intervista decisamente poco diplomatica ma altrettanto molto efficace, il generale Mc Chrystal è stato sostituito da David Petraeus. Le critiche del primo sulle modalità politiche di conduzione della guerra in Afghanistan non sono state accettate dal-
tizzare un destino simile di esilio anche per Conway. Tuttavia, è naturale chiedersi cosa stia succedendo all’interno dello Stato Maggiore Usa. È in corso un conflitto tra i vertici militari e la Casa Bianca? Solo all’inizio di questo mese, si è sparsa la voce che anche il Segretario alla Difesa, Robert Gates, sarebbe intenzionato a rassegnare le dimissioni e ritirarsi a vita privata già dal prossimo anno, in antici-
po di dodici mesi rispetto allo scadere del mandato.
Gates ha 67 anni, un’età non così avanzata per decidere di abbandonare l’agone politico. Peraltro si dimetterebbe in un momento tanto critico della guerra. Va ricordato però che è alla guida del Pentagono dal
2006, quando è stato incaricato da Bush di sostituire Donald Rumsfled. Gates è il solo
esponente della amministrazione repubblicana ereditato da Obama. A questo punto è plausibile immaginare un crescente divaricamento della forbice tra i decisori politici di questa guerra e gli esecutori materiali. L’affaire McChrystal è servito da esempio. L’ex generale si è posto di traverso al suo comandante in capo, il presidente degli Stati Uniti, e ne ha pagate personalmente le conseguenze. Gates, che sta seguendo l’Afghanistan dalla torre di controllo da sei anni – ma con una esperienza di oltre due decenni nelle strutture dell’intelligence – sembra intenzionato ad abbandonare la nave. Forse perché è anch’egli in disaccordo con Obama?
Non resta che fare un ragionamento su Petraeus. L’erede di McChrystal è stato scelto perché la sua surge in Iraq ha avuto un temporaneo successo. La guerra in Afghanistan è diversa però. Lui stesso, domenica, in un’intervista alla Bbc, ha detto che il dovere di un generale è quello di eseguire gli ordini, ma anche di mettere in evidenza le falle della strategia delineata dalla propria centrale di comando politico. Se letto fra le righe, questo messaggio suona come un tardivo sostegno alle posizioni critiche di McChrystal e un conseguente ammonimento alla Casa Bianca, per cui lo Stato Maggiore non è composto da semplici yesman. Lo ha dimostrato anche Conway ieri, il cui intervento può essere visto come il tentativo di far fronte comune, da parte degli uomini in uniforme, contro le decisioni affrettate che i politici potrebbero adottare solo per ragioni di carattere interno. Non si tratta più di una differenza tra falchi e colombe. Negli Usa, in questo momento, chi vuole smantellare i teatri di guerra il più in fretta possibile – com’è successo in Iraq – lo fa perché spera di arrivare alle mid-term elections con un’immagine nuovamente immacolata e rivalutarsi di fronte all’elettorato. Al contrario, coloro che parlano di una “lenta vittoria”sono consapevoli che se gli Usa evacuassero Kabul, così in fretta come hanno fatto a Baghdad, offrirebbero una preziosa opportunità ai talebani di riprendersi il controllo dell’Afghanistan. A quel punto Washington sarebbe davvero screditata sia in casa sia sulle piazze straniere.
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26 agosto 2010 • pagina 21
Quindici persone uccise da una bomba in una stazione di polizia
Spariti «senza lasciare traccia» 98 milioni (su 100)
Raffica di attentati in Iraq: 30 vittime
Soldi da Chavez: Manuel Zelaya indagato in Honduras
BAGHDAD. Si allunga la scia di sangue in Iraq a pochi giorni dal ritiro dell’ultima unità da combattimento dell’esercito statunitense. Oltre 30 i morti in una serie di attentati ed esplosioni avvenuti in diverse aree del Paese. La capitale Bagdad è la più colpita, dove un’autobomba nei pressi di una stazione di polizia ha provocato la morte di 15 persone e il ferimento di altre 58. Molte delle vittime sono agenti. Un’altra auto imbottita di esplosivo è esplosa non lontano dalla strada che conduce all’aeroporto, la Muthana Airport highway, provocando due morti. Sette i feriti. Un ordigno è poi esploso lungo la Haifa Street, ferendo tre persone, mentre un’altra esplosione si è verificata nel distretto di Karrada. Cinque le persone rimaste coinvolte. Nel quartiere di Ahmariyah, nella parte occidentale di Bagdad, una bomba ha provocato il ferimento di tre soldati di pattuglia nella zona.
TEGUCIGALPA. La Procura generale in Honduras sta indagando sul destino di 98 milioni di dollari donati dal governo venezuelano all’ex presidente Manuel Zelaya, deposto dalle forze armate il 28 giugno del 2009, nell’ambito della cooperazione prevista dagli accordi dell’Alba (Alternativa Bolivariana de las Americas). Lo ha annunciato il procuratore anticorruzione Henry Salgado, confermando la notizia trapelata nei giorni scorsi e spiegando di aver chiesto alla Corte dei Conti di «ampliare le indagini» sui fondi che secondo il magistrato del tribunale amministrativo Daisy de Anchecta «sono spariti senza lasciare traccia».
La guerriglia non ha risparmiato nemmeno Kirkuk, dove un’autobomba ha ucciso una persona e ferito altre otto. A Bassora, nel sud del Paese, si registra un morto nell’esplosione di un veicolo carico di esplosivo. A Ramadi è fallito un attentato dinamitardo, mentre un’autobomba ha provocato il ferimento di 12 persone. Infine a Karbala, si registra un attacco ad un checkpoint della polizia. Trenta i feriti. Riesplode dunque la violenza in un momento critico per la vita politica e istituzionale del Paese. Il blocco guidato dall’ex premier Iyad Allawi, che ha vinto di misura le elezioni del marzo scorso, ha di recente sospeso le trattative con la coalizione sciita di Nouri al Maliki senza riuscire a strappare un’intesa. E l’instabilità del Paese preoccupa l’amministrazione Usa, che ha ormai richiamato gran parte dei soldati dispiegati nel Paese.
Un altro giorno di sangue in Somalia Mogadiscio: quasi ottanta morti nelle ultime 48 ore di Pierre Chiartano
MOGADISCIO. Sono ripresi ieri mattina gli scontri a Mogadiscio tra le milizie islamiste di Al Shabab e le forze governative, sostenute dalle truppe dell’Unione Africana (Amisom), facendo almeno altre sei vittime civili. Tra ieri e l’altro ieri, erano già morti una quarantina di civili negli scontri in strada, mentre nell’attacco compiuto martedì dagli estremisti islamici contro un hotel della capitale erano morte 32 persone, tra cui sei parlamentari somali. Complessivamente da lunedì si contano dunque quasi un’ottantina di vittime. Ieri, gli scontri sono ripresi all’alba, in diverse zone della capitale, mentre il fuoco di artiglieria è proseguito per tutta la notte. Secondo testimoni locali, almeno sei civili sarebbero stati uccisi da un proiettile di mortaio caduto su alcune case. «Ho visto i corpi di sei civili questa mattina, quattro si trovavano in una stessa casa», ha affermato uno dei testimoni, Muhdin Ali. Un altro testimone, residente nella zona, Hassan Nur Ahmed, ha fornito un identico bilancio. Le violenze erano riprese lunedì, quando le milizie al Shabab, legate ad al Qaida, avevano annunciato l’avvio di una nuova massiccia offensiva contro gli invasori, riferendosi ai 6mila soldati dell’Unione Africana presenti in Somalia. La caratteristica che rende così pericolosi i membri di questa formazione è la provenienza. Molti di loro farebbero parte della comunità somala del Minnesota, negli Usa. Dunque, con una formazione e una capacità di gestire situazioni complesse superiore ai membri della comunità locale. Da tempo l’intelligence americana ha messo sotto sorveglianza gli spostamenti dei membri di questa comunità, sospettando un loro diretto coinvolgimento nelle azioni degli Shabab. C’è anche la possibilità di infiltrazioni pakistane e afghane in queste formazioni, visto che il progetto di trasformare il Corno D’Africa in una specie di Tortuga del terrorismo, farebbe comodo a molti. Non da ultime alcune organizzazioni della mafia ucraina che già utilizzano quella regione per il riciclaggio del denaro
sporco. Ricordiamo che al Shabab che significa «la gioventù», è un movimento radicale islamista che si rifà alla corrente religiosa wahabita e che sembra possa contare su diverse migliaia di membri armati. Ha legami diretti con al Qaeda che da tempo sta tentando di creare un’altra isola sicura per il suo progetto di terrorismo globale e che in Afghanistan ha visto la propria struttura fortemente disarticolata. Gli scontri continui in diverse regioni della Somalia e nella stessa Mogadiscio hanno costretto migliaia di persone all’esodo. La comunità internazionale ha da tempo attivato un controllo delle acque intorno al Paese per ovviare alla pirateria.
A terra, la situazione è controllata a distanza da alcune unità speciali Usa di stanza a Gibuti nell’ex caserma della Legione straniera nei pressi del locale aeroporto. Camp Lemonier è sede della Combined Joint Task Force Horn of Africa, di Africom il nuovo comando per il Continente del Pentagono. Di cui fa parte anche una unità speciale, che utilizza anche le cannoniere volanti. Si tratta di C130 modificati (AC-130 Gunship) con cannoncino da 25 mm Gatlin e obice Howitzer da 105 mm. I militanti islamici somali si erano spinti martedì sera verso il palazzo presidenziale, ma erano stati respinti dai militari governativi, ha affermato ieri un funzionario dell’esercito. Un gran numero di militanti avrebbe attaccato le truppe governative nei pressi del palazzo presidenziale di Villa Somalia. I combattenti di Al Shabaab si sarebbero ritirati dopo uno scontro a fuoco contro l’Amisom, forza di peacekeeping dell’Unione Africana. «Si sono avvicinati nella notte, ma dietro di noi c’erano i carri armati dell’Amisom e alla fine li abbiamo respinti», ha affermato a una nota agenzia di stampa il funzionario dell’esercito Issa Ali, che ha combattuto in prima fila durante la notte. Gli abitanti della zona hanno detto di aver sentito esplosioni di bombe a mano e colpi di arma da fuoco fino alla mattina di ieri.
Le truppe governative appoggiate dall’Unione africana sono state attaccate nei pressi del palazzo presidenziale
In base alla ricostruzione del procuratore, il denaro era stato consegnato all’ex capo di Stato dalla Commissione permanente per le emergenze (Copeco), il cui attuale responsabile, Lisandro Rosales, ha affermato che secondo gli atti in possesso dell’organismo solo due milioni su 100 donati dal Venezuela sono stati trasferiti su un conto della Banca centrale honduregna. Zelaya, rifugiato nella Repubblica Dominicana per sfuggire a una serie di accuse per reati politici e comuni, ha definito l’accusa «una calunnia dei miei boia» sostenendo che si tratta di una «campagna mediatica» diretta dall’ex presidente “de facto” Roberto Micheletti. Dal governo di Tegucigalpa sono arrivati invece segnali di distensione nei confronti dell’ex presidenti. Il ministro degli Esteri, Mario Canahuati, ha sostenuto con la stampa honduregna che ci sono «tutte le garanzie» affinché Zelaya possa rientrare nel Paese e «difendersi liberamente» dalle accuse. Canahuati ha aggiunto che la prossima settimana un altro Paese riconoscerà ufficialmente il governo del presidente Porfirio Lobo «aggiungendosi agli altri 103 con cui abbiamo relazioni bilaterali».
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grandangolo Reportage. Nulla è cambiato dai tempi dell’Urss
Nella Russia di Putin dove tutto è possibile. Per soldi Quando la bandiera rossa stava per essere ammainata dalle torri del Cremlino, corrompere un funzionario per avere un appartamento costava mille dollari. Adesso ce ne vogliono 5000, ma la strada è sempre la stessa. Anche i piani moralizzatori di Medvedev sono falliti in una società che sembra irriformabile di Enrico Singer ui da noi tutto quello che non si può fare per soldi, si può fare per molti soldi». Quando arrivai a Mosca come corrispondente del giornale La Stampa – era il gennaio del 1990 – la lezione del mio segretario-interprete, Sergheij, fu subito molto diretta e chiara. Nella Russia di Mikhail Gorbaciov, con buona pace della glasnost (la trasparenza) e della perestroijka (il rinnovamento), a farla da padrone era la corruzione. Capillare, sistematica, sfrontata. Da una prenotazione al ristorante saltando le interminabili, quanto fantasiose, liste d’attesa, fino alla concessione di un appartamento dall’onnipotente UpDK, il servizio centrale per i servizi ai diplomatici e ai giornalisti stranieri, tutto aveva un prezzo. Che poteva andare da una mancia di 5 dollari a un cameriere, fino a una bustarella di molte migliaia di dollari a un dirigente. Anche i buoni per la benzina “super” – quella che si trovava nei normali distributori aveva un bassissimo numero di ottani ed era praticamente inutilizzabile per far camminare un’automobile occidentale – si potevano ottenere dopo lunghe code e in blocchetti contingentati, oppure direttamente in un’anonima busta chiusa consegnata da un mo-
«Q
tociclista al proprio ufficio e in quantità illimitate. Era soltanto una questione di soldi. O di molti soldi, appunto.
Nell’era Gorbaciov chi amministrava anche un brandello di potere reale capì che era arrivato il momento di arraffare il possibile Sembrava il corollario inevitabile del disfacimento dell’impero comunista. Il crollo del Muro di Berlino e l’inizio della rivolta nelle Repubbliche del Baltico aveva fatto capire anche alla gente della strada e ancora prima a chi - funzionari dello Stato o del partito - amministrava un brandello di potere reale, che il conto alla rovescia del sistema era cominciato. Che era arrivato il momento di arraffare quanto più era possibile. Anche per pre-
pararsi alla grande abbuffata delle tanto annunciate privatizzazioni. Perché per comprare un chiosco dei gelati o una fabbrica ci sarebbero voluti soldi. Molti soldi. E così fu. Nella Russia sovietica le barzellette sono state sempre il veicolo di considerazioni politiche che, altrimenti espresse, avrebbero portato direttamente in Siberia. E una di quelle che andava per la maggiore in quei momenti di grande transizione era questa: «Tutto quello che ci hanno raccontato sul comunismo era falso, ma tutto quello che ci hanno raccontato sul capitalismo era vero». Come dire che la teoria della proprietà privata che sarebbe «un furto» l’unica che Marx risparmiò dalle sue spietate critiche al socialismo utopista di Proudhon - trovava una conferma nella burrascosa nascita del capitalismo alla russa. In realtà, la bolla della corruzione, all’alba degli Anni Novanta, esplose fino alla superficie della società sovietica dove, però, era ben annidata nel profondo da decenni. Una corruzione fatta di privilegi - oggi si direbbe di benefit - che spettavano ad alcune categorie di cittadini. E, attenzione, non soltanto - come è facilmente immaginabile - ai gerarchi del Pcus che vivevano in dacia e viaggiavano a bordo delle limousine Chaika. Ma anche, per esempio, ai capitreno -
uno per vagone sulle linee a lunga percorrenza - che vendevano il caviale di contrabbando alla stazione Kurskaya dove arrivavano i convogli dalla Crimea. Per non parlare dei capi-caseggiato: quei personaggi a metà strada tra un portiere e un agente dei servizi segreti che controllava le vite di tutti gli abitanti di un blocco di appartamenti e che dispensava i suoi favori a pagamento.
Grande e piccola corruzione che, dal 1990 a oggi, è diventata regola. Il quotidiano in lingua inglese The Moscow Times ha messo a confronto quattro diverse ricognizioni condotte rispettivamente dal ministero dell’Interno, dal Comitato nazionale Anti-Corruzione, dalla sezione russa di Transparency International e dal Centro di ricerche sociologiche Levada.Tutte indicano che la misura delle tangenti e delle mazzette “medie” ha ormai raggiunto i 1500 dollari. E c’è anche la spiegazione del perché: più aumentano i controlli e la severità delle pene, più i corrotti non sono disposti a rischiare in cambio di cifre modeste. Secondo Transparency International, invece, l’inefficacia delle misure di contrasto alla corruzione è così lampante che i funzionari ne hanno ricavato un senso di impunità, diventan-
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Il rapporto 2010 dell’Associazione degli avvocati per i diritti della persona
Finisce in bustarelle la metà del Pil e i più corrotti sono proprio i poliziotti na vera e propria classifica degli apparati statali più colpiti dalla corruzione in Russia. Con tanto di stime sull’ammontare degli stipendi paralleli che buona parte dei funzionari statali porta a casa ogni mese grazie alle tangenti. È il rapporto “Corruzione 2010”, pubblicato sul sito dell’Associazione degli avvocati russi per i diritti della persona, che offre un quadro aggiornato sul volume del traffico di bustarelle che colpisce ogni settore della vita pubblica e privata. Sulla base delle statistiche ufficiali e le testimonianze raccolte, l’indagine ha concluso che «il mercato della corruzione rappresenta il 50 per cento del Pil». Il rapporto è basato su oltre 6500 denunce di estorsioni ricevute in poco più di un anno e rivela che esiste un vero e proprio tariffario anche per comprare un posto di lavoro in polizia o una sentenza favorevole. Secondo l’Associazione degli avvocati, anche nelle istituzioni scolastiche e nella sanità dal 40 all’80 per cento delle attività si svolge nel cono d’ombra della corruzione. Ogni russo sa bene che per garantirsi l’assistenza in un ospedale pubblico deve pagare gli infermieri un “extra” da concordare sul momento. All’università si possono pagare 500 dollari e assicurarsi così la tesi in un ateneo di medio prestigio, ma bastano 20 dollari per passare solo un esame.
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Preparativi per l’apertura di un casinò: tutti i locali sono taglieggiati. Sopra, Putin a un radono di motociclisti. A destra, il generale Vladimir Shamanov, un eroe accusato di corruzione: usava i parà per difendere i suoi amici. do ancora più esosi. In totale, ha scritto il Moscow Times, circa 300 miliardi di dollari all’anno finiscono in bustarelle e tangenti. Una storia emblematica della corruzione è quella vissuta da Ikea. Che la sua penetrazione in Russia sarebbe stata un’impresa difficile, il gigante svedese dell’arredamento low cost lo sapeva già dieci anni fa, quando aprì il primo punto vendita. Alla vigilia dell’inaugurazione dell’Ikea di Mosca, nel 2000, alcuni impiegati di un’impresa di servizi si avvicinarono ai responsabili del negozio, spiegando chiaro e tondo: se volete l’elettricità per l’apertura, dovete pagare una mazzetta.
var Kamprad, il miliardario fondatore di Ikea, ha raccontato che sono arrivate bollette di milioni di euro per il carburante dei generatori. In poche parole, Ikea è caduta vittima di uno dei tanti sistemi usati in Russia per estorcere quattrini a chiunque gestisca un’attività commerciale. Secondo le stime della compagnia, la frode gli è costata quasi 200 milioni di euro in due anni abbattendo i suoi guadagni. Convinta di trovare giustizia in tribunale, Ikea ha dovuto arrendersi: i giudici non solo hanno respinto l’accusa di frode, ma l’hanno costretta a pagare 5 milioni di danni alla società dei generatori.
Ora le tangenti dilagano: Ikea vittima di una frode da 200 milioni. Il pubblico ministero anti-truffa rimosso dal Cremlino
È una storia amara che spiega anche i fallimenti delle iniziative statali contro la corruzione. Anche in questa battaglia per la moralizzazione del libero mercato c’è un episodio emblematico. Risale al 2003, quando Vladimir Putin era ancora presidente. Per coordinare le indagini sulla corruzione dilagante venne nominato Vladimir Ustinov, il pubblico ministero che aveva già condannato i tre grandi oligarchi dell’era Eltsin: Boris Berezovsky e Vladimir Gusinky - che furono costretti a rifugiarsi all’estero - e Mikhail Khodorkovsky che fu condannato a otto anni di lavori forzati in Siberia, oltre alla confisca del suo impero finanziario, e che è ancora in carcere. Ma improvvisamente - quando Ustinov era sul punto di presentare un allarmante elenco di alti funzionari statali coinvolti in casi di corruzione - il pubblico ministero venne rimosso dal Consiglio della Federazione russa su richiesta dello stesso Putin. Quando le accuse di corruzione o di frode servorno per liquidare degli avversari politici, come nel caso di Khodorkovsky, allora le leggi sono inflessibili. Ma se è la casta a rischiare, è tutta un’altra musica. Quella di sempre.
Per non piegare la testa, Ikea - che nel suo statuto prevede la lotta alla corruzione - affittò dei generatori diesel per fornire l’energia necessaria al negozio. Da allora gli inconfondibili cubi giallo e blu hanno continuato a diffondersi in Russia e i manager svedesi ad applicare la filosofia «affittare un generatore, piuttosto che cedere alla corruzione», come ha detto Christer Thordson, direttore dell’Ufficio legale dell’azienda svedese. Ma ecco che lo scorso giugno, lo stesso Ing-
Al primo posto nella classifica dei settori pubblici più corrotti ci sono gli organi della sicurezza, il settore dei cosiddetti silovikì: l’Fsb (i servizi segreti), i dirigenti del ministero degli Interni e di quello per la Lotta alle droghe. Alcuni funzionari guadagnano fino a 20mila dollari al mese per tollerare le attività non legali. Al secondo posto figurano i procuratori: lo stipendio da mazzetta frutta loro circa 10mila dollari al mese. Al terzo posto ci sono gli ispettori dei vigili urbani: ogni mese possono arrivare anche fino a 5mila dollari. Si aggirano intorno ai 3mila dollari, infine, le entrate in nero mensili dei giudici istruttori. Le stesse cariche all’interno di ministeri e degli organi di polizia sono oggetto di compravendita: il grado di ispettore costa a volte anche 40mila euro, mentre quello di procuratore regionale si aggira intorno a 7.800 euro. Secondo l’agenzia InoPressa, il valore medio di una tan-
gente in Russia dall’inizio del 2010 ad oggi è raddoppiato arrivando a circa 1500 euro. Che la metà del Pil russo finisse nella tasche dei funzionari corrotti era già emerso da un’indagine del 2005. Le stime dell’ultimo rapporto indicano, quindi, che in questo lasso di tempo non è cambiato nulla, nonostante la sbandierata volontà del Cremlino di combattere un fenomeno che è ormai endemico e che relega la Russia ad un umiliante 146° posto tra i 180 Paesi presi in esame dalla classifica sulla corruzione elaborata da Transparency International, un’istituzione indipendente tedesca che esamina ogni anno il grado di corruzione nel mondo. Una classifica che, per la cronaca, è guidata da Nuova Zelanda e Danimarca, che sono i più virtuosi, e che vede l’Italia al 63° posto.
Ecco perché il presidente Medvedev ha riesumato il progetto di lotta alla corruzione inaugurato lo scorso maggio. Oggi il problema è aggravato dalla generale crisi economica e il piano dovrebbe servire proprio a impedire che, dopo la fuga di parte dei capitali stranieri turbati dalla politica estera di Mosca, anche la corruzione sottragga una quota consistente della ricchezza nazionale. Gli economisti calcolano che in Russia la corruzione incida per circa 3 miliardi di dollari all’anno sui cittadini e per oltre 30 miliardi sulle imprese. Il piano di Dmitrij Medvedev è incentrato su una serie di leggi per il rafforzamento dei diritti di proprietà, su una più incisiva applicazione delle sentenze giudiziarie, sull’eliminazione degli intoppi burocratici che ostacolano l’imprenditoria. Non manca un’operazione di trasparenza sul comportamento fiscale delle alte cariche dello stato: il premier, i vice primi ministri, i ministri federali e le loro famiglie dovranno rendere pubbliche le loro dichiarazioni dei redditi. Le pene per i funzionari pubblici coinvolti in casi di corruzione saranno inasprite. Tutte mosse dirette anche a restituire fiducia nell’esecutivo da parte di un’opinione pubblica che - secondo una ricerca dell’istituto demoscopico VTsIOM - giudica al 74 per cento “alta” o “molto alta” la corruzione in ogni parte del sistema. (e. s.)
ULTIMAPAGINA Il caso. Gli show in tribunale aiutano l’ex governatore dell’Illinois accusato di corruzione: è stato assolto
Blago, se il processo è un di Anna Camaiti lago ce l’ha fatta. Il 40esimo governatore dell’Illinois Rod Blagojevich (confidenzialmente soprannominato Blago o “dead meat”), uno dei politici meno amati di questo stato, è stato assolto per 23 delle 24 imputazioni per cui era stato processato. O, meglio, dopo 14 giorni di camera di consiglio i 12 giurati popolari (sei uomini e sei donne) lo hanno condannato solo per uno dei capi di imputazione: quello di aver mentito all’F.B.I. riguardo al suo coinvolgimento nella raccolta dei fondi per la campagna elettorale. Nell’impossibilità di raggiungere l’unanimità sui restanti e più gravi reati, il giudice James Zagel ha dovuto annullare il procedimento per le altre imputazioni. Tuttavia la partita non è chiusa in quanto il pubblico ministero Patrick Fitzgerald e la sua squadra di avvocati vogliono ricorrere in appello il prossimo autunno. Proprio quando ci saranno le elezioni di mid-term.
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Motivo scatenante della denuncia dell’ex governatore (che peraltro si è sempre detto innocente) era quello di avere cercato di approfittare della sua posizione politica per negoziare il seggio reso vacante al Senato dell’Illinois dal presidente Obama. Questa situazione avrebbe consentito a Blagoevich la possibilità di scambi di favori e soprattutto, «nella sua smisurata vanità e mania di grandezza» (sottolineata quotidianamente dalla stampa locale e nazionale), gli avrebbe fatto coltivare l’illusione di potere giocare un ruolo determinante nel futuro Gabinetto Obama. «Il seggio è una cosa di valore, non si dà via per niente» aveva detto in una delle molte intercettazioni. Il governatore era stato arrestato nel dicembre 2008 ed era stato costretto a dare le dimissioni dal Senato dell’Illinois. Naturalmente, Blagojevich considera l’esito del processo una vittoria personale: «Abbiamo un procuratore che ha sprecato milioni di dollari e vuole continuare a spendere soldi pubblici per accusami» ha detto riferendosi all’intenzione di Fitzgerald di riaprire comunque il procedimento. Ma quello che ha colpito tutti nel corso di questo processo è l’uso spettacolare che ne ha fatto Blagojevich: vuoi perché si è trovato sul lastrico a causa delle spese degli avvocati assunti per la sua difesa vuoi per la sua conclamata superficialità, l’ex governatore dell’Illinois è stato immortalato da tutti i notiziari locali mentre firmava autografi fuori del tribunale ed è comparso in tutte le trasmissioni di intrattenimento più importanti del paese, creando intorno a sé una sorta di attenzione voyeuristica. «L’accusa è stata costretta a ripetere continuamente ai giurati che questo non è uno show, ma un processo vero e proprio. Perché si è stati costretti a fare queste affermazioni? Perché questa è stata la strategia di Blagojevich sin dal momento del suo arre-
REALITY Ha suscitato grande clamore il caso di Rod Blagojevich, il politico che voleva approfittare del seggio lasciato libero da Obama e che durante l’iter giuridico che lo vedeva imputato si è trasformato in un vero e proprio divo televisivo sto. Di solito, processi come questo sono un crogiuolo di realtà e fiction. Ma gli esperti sono tutti d’accordo nell’affermare che l’ex governatore dell’Illinois si è comportato in modo tale che nel mixer dove sono stato mescolati fatti e fiction ormai c’è un frappè che non consente di distinguere gli uni dall’altra», ha affermato Charles Lipson professore di Scienze Politiche all’università di Chicago. Il processo ha portato agli estremi questo Truman showdella corruzione e in particolare ha distrutto la distinzione tra legge e cultura popolare che tutto tritura. «Una volta che i media elettronici hanno distrutto le pareti che facevano da scudo al mondo giudiziario, i suoi confini sono diventati labili. Blagojevich, che ne sia stato cosciente o no, ha tratto vantaggio di questo tipo di ambiguità» ha scritto Glenn Sparks professore di Comunicazione all’università di Purdue. «L’audience è stata condizionata nel vedere queste cose senza avere la possibilità di fare alcuna distinzione tra illusione e realtà. Che Blagojeivch sia apparso nella trasmissione The Apprenctice (il programma di Donald Trump, ndr) oppure sul banco degli imputati non ha fatto alcuna differenza… I reality show funzionano così. La nozione che quello che vediamo corrisponde a una realtà che si va costruendo giorno per giorno entro quelle pareti è probabilmente falsa, pur tuttavia cercano di farci
credere il contrario e noi quasi sempre ci caschiamo. Le registrazioni di Blagojevich erano vere o erano il frutto del suo modo macho e borioso di presentare i fatti? La squadra del governatore afferma che erano solo parole senza conseguenze reali che infatti poi non si sono mai verificate. Ma allora cosa è diventata la realtà?» si chiede invece Irving Rein professore di Comunicazione all’università di Northwestern.
C’è poi l’altra faccia dell’opinione pubblica: in fondo, afferma Mary Schmich sul Chicago Tribune, «non ci sono prove e il governatore è stato punito abbastanza: la sua carriera politica e il suo futuro sono distrutti, il suo patrimonio finanziario dilapidato e c’è ancora la possibilità che vada in prigione». In generale però la stampa e alcuni rappresentanti del mondo politico sono indignati: Blago doveva essere ritenuto colpevole di tutti e 24 i capi di imputazione e condannato. La delega di rappresentanza della volontà popolare non è qualcosa su cui costruire una strategia visuale solo per salvarsi la pelle, è l’adagio che ripetono in generale i giornali più autorevoli d’America. È una cosa seria che affonda le radici nella costituzione di questo paese. E dunque è sacra come lo sono le fondamenta su cui è stato costruito. Qui, infatti, diversamente da un’Europa meno moralista ma ancora troppo satura di privilegi, non si perdona chi si prende gioco del mandato attribuitogli dalla gente: non solo deve rispondere personalmente e di conseguenza dimettersi lasciando la poltrona a qualcuno più degno di lui, ma deve anche essere punito.