he di cronac
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L’unica difesa contro il mondo è conoscerlo bene John Locke
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 27 AGOSTO 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
A cento anni dalla nascita, il suo insegnamento è ancora attuale in tutto il pianeta
Madre Teresa tra Cristo e Gandhi La donna che ha saputo unire la religione e la vita di Sabino Caronia a mattina del 22 dicembre 1970 Paolo VI, da poco tornato a Roma dal suo viaggio in estremo Oriente, ricevette nella sala del Concistoro, il Sacro Collegio Cardinalizio, la Fami-
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glia Pontificia ecclesiastica e laica e la Prelatura romana, per gli auguri natalizi e del nuovo anno come è d’uso. Al termine dell’udienza il Pontefice annunciò che per la prima volta era stato assegnato il premio internazionale per la pace intitolato a papa Giovanni
XXIII e da lui istituito, dicendo: «Il premio è dato ad una religiosa ben modesta e silenziosa, ma non ignota a quanti osservano gli ardimenti della carità nel mondo dei poveri: si chiama Madre Teresa delle Missionarie della Carità. a pagina 22
Anche il presidente Napolitano apprezza il rilancio dell’ad di Torino: «Ma adesso nessuno si sottragga al confronto»
Il manifesto globale della Fiat «Diritti, mercato e regole sindacali: vogliamo essere italiani ma ci dovete consentire di competere con il mondo».A Rimini Marchionne lancia il programma del XXI secolo I CONFLITTI APERTI
Da lunedì il dittatore libico da Berlusconi con 200 hostess e 30 cavalli berberi
La vera sfida è il futuro dell’Italia (e del Lingotto)
Torna a Roma il Circo Gheddafi
di Gianfranco Polillo er i falchi della Fiom, il caso Melfi rischia di trasformarsi in un boomerang. Finito il tempo della solidarietà dovuta, anche se un po’ pelosa, nei confronti dei tre licenziati (e poi reinseriti seppure in quarantena), il dibattito ha assunto un tono diverso. Piero Ichino, tanto per fare un esempio, che pure aveva usato parole nette di condanna del singolo episodio, rilegge il messaggio di Giorgio Napolitano in chiave completamente diverse. Netta, invece, la solidarietà a Sergio Marchionne da parte di Emma Marcecaglia, che pure era sobbalzata di fronte all’ipotesi che la Fiat, per avere le mani libere in tema di contratti, potesse abbandonare Confindustria. Lo stesso Epifani, in un’intervista al Corriere, si mostra più disponibile di fronte ad ipotesi – la necessità di nuove relazioni – che per anni hanno diviso il sindacato, costringendo la Cgil in un inutile isolamento.
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di Antonio Picasso
I passaggi più importanti del discorso di ieri
«Così propongo al Paese una via d’uscita dalla crisi» «Non c’è niente di straordinario nel voler adeguare il sistema di gestione a quello che succede a livello mondiale» pagina 4
Bonomi, Gallino e Martinelli
Parla il leader della Fiom
ROMA. La visita nella Capitale del leader libico
Un discorso che cambierà il lavoro
Cremaschi: «Macché, solo parole da ’800»
Bene, male, così così: gli esperti di rapporti aziendali si dividono nel giudicare la lezione di ieri: un testo che lascerà il segno
Anche Airaudo attacca: «Sono anni che sosteniamo che ci vuole un contratto unico per il settore auto. Per tutti, anche per l’indotto»
Pietro Salvatori • pagina 5
Vincenzo Bacarani • pagina 3
Gheddafi, lunedì prossimo, è stata anticipata dalla notizia che il colonnello porterà con sé una trentina di cavalli e ovviamente le immancabili 200 hostess, meglio no- Un viaggio d’affari te con il vezzoso nome mascherato di “gheddafine”. Il leader libico, ancora una da festa volta, non si smentisce. per il primo anno L’Italia è abituata all’e- di «pacificazione» sibizionismo di Gheddafi e riesce a starvi al gioco. I trenta cavalli del rais, infatti, si esibiranno prima del carosello dei Carabinieri. a pagina 6
seg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00
I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
166 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Fiat. Tutte sostanzialmente positive le reazioni al discorso di Rimini. E Napolitano dice: «Bene, ma ora si torni il confronto»
La lezione di Sergio
I diritti traditi a Melfi, il nuovo contratto, la scommessa americana: Marchionne sceglie il Meeting di Rimini per lanciare il suo progetto di Francesco Pacifico
ROMA. Il maggiore rovello di Sergio Marchionne è capire perché restare in Italia a produrre 1,4 milioni di vetture. Quelle previste nel suo piano “Fabbrica Italia” e che in una certa misura gli sono stati imposte da governo e sindacati. «Riceviamo complimenti ovunque fuorché a casa nostra», si è sfogato. Spiegando che sarà difficile portare a casa risultati senza nuove regole di convivenza tra gli attori sociali, senza «un grande sforzo collettivo, un patto sociale che condivida impegni, sacrifici e dia al Paese la possibilità di andare avanti».
Un lamento tanto angoscioso che dal Quirinale è dovuto intervenire lo stesso Giorgio Napolitano, per garantirgli che «anche in Italia si apprezza lo sforzo dell’azienda». Ma anche per scacciare possibili alibi e ricordargli che «nessuno si può sottrarre al confronto». Ieri, ospite del meeting di Rimini, l’amminidelegato stratore avrebbe dovuto spiegare perché la Fiat considera di avere ragione nel rifiutare il reintegro alla catena di montaggio di Melfi Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, come pure gli imporrebbe una sentenza del giudice del lavoro. Oppure perché – dubbio che affligge lo stesso Napolitano Giorgio Napolitano – il manager non è più il borghese buono osannato a destra quanto a sinistra. Per non parlare delle domande che si fa il mercato sull’assenza di un nuovo modello da parte del Lingotto in grado di contrastare le concorrenti in Europa, sul crollo delle immatricolazioni, o sulle difficoltà in America per riportare Chrysler in pareggio già quest’anno. Invece nulla di tutto questo, con il manager italo-canadese che si è presto svestito dei panni dell’imputato per indossare quelli
Un programma con il quale dovranno misurarsi Epifani e tutto il sindacato
La vera sfida è il futuro dell’Italia (e del Lingotto) di Gianfranco Polillo er i falchi della Fiom, il caso Melfi rischia di trasformarsi in un boomerang. Finito il tempo della solidarietà dovuta, anche se un po’ pelosa, nei confronti dei tre licenziati (e poi reinseriti seppure in quarantena), il dibattito ha assunto un tono diverso. Piero Ichino, tanto per fare un esempio, che pure aveva usato parole nette di condanna del singolo episodio, rilegge il messaggio di Giorgio Napolitano in chiave completamente diverse. Netta, invece, la solidarietà a Sergio Marchionne da parte di Emma Marcecaglia, che pure era sobbalzata di fronte all’ipotesi che la Fiat, per avere le mani libere in tema di contratti, potesse abbandonare Confindustria. Lo stesso Epifani, in una lunga intervista al Corriere, si mostra più disponibile di fronte ad ipotesi – la necessità di nuove relazioni industriali – che per anni hanno diviso il sindacato, costringendo la Cgil in un inutile isolamento. Sono fatti che dimostrano quanto importante sia stata la scelta della fermezza da parte dell’Azienda torinese nei fatti ricordati. È una piccola rivoluzione che si rimette in marcia. Speriamo che dia i suoi frutti, in un’analogia – la marcia dei 40 mila agli inizi degli anni Ottanta guidata da Luigi Arisio – che non va dimenticata.
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un uomo del nostro tempo, che vive in questo presente, dal quale sa – ma la consapevolezza dovrebbe essere collettiva – che nessuno può fuggire. Con esso dobbiamo convivere, senza fughe in avanti; ma soprattutto abbandonando i “vecchi schemi” – testuale – che non fanno vedere i “nuovi orizzonti”. E mentre uno dei ribelli lo accusava, in diretta via etere, di «non conoscere la realtà di fabbrica» la sua analisi continuava impietosa. Non è più il tempo della “lotta di classe”. La fabbrica moderna, che usa le nuove tecnologie richiede una partecipazione attiva delle maestranze. Collaborazione e intesa. Un senso di appartenenza forte in grado di accrescere quella competitività che è l’unica risorsa vera di cui si può disporre. E senza la quale non solo si perde la grande partita. Ma si rischia di penalizzare i più deboli. Coloro che non hanno protezione alcuna, a partire da quelle nuove generazioni che, già oggi – quando la gara è comunque in atto – soffrono di più.
Questa è quasi una piccola rivoluzione che potrebbe rimettere in marcia la nostra industria assediata dalla crisi globale
È stato questo il preludio dell’intervento di Sergio Marchionne al Meeting di Rimini. Discorso secco e diretto, senza concessione alcuna. Accettiamo il richiamo di Giorgio Napolitano – ha premesso – senza andare oltre, per poi concentrarsi sui problemi – da noi stessi anticipati ieri – che sono la causa più profonda di tante incomprensioni. Il filo conduttore è stato principalmente uno. Marchionne è
Questi, sembra dire Marchionne, sono i valori che dovrebbero guidare imprenditori e operai, uomini pubblici ed amministratori privati. Poi si può discutere di tutto: di come rendere meno gravoso l’impegno per produrre, di come accrescere la produttività attraverso adeguati investimenti – la Fiat, nonostante le perplessità avanzate da Mucchetti su il Corriere della sera ne conferma la maxi portata – di come ridistribuire la ricchezza prodotta. Del ruolo dello Stato e degli altri soggetti pubblici. Ma se si negano questi presupposti, tutto il resto viene meno. In una fuga dal tempo storico in cui siamo tutti prigionieri. Se poi oltre la negazione ci sono anche i comportamenti devianti, allora il compito del contrasto spetta a chi non difende il singolo ma l’insieme dei lavoratori, che di quelle intemperanze sono poi le prime vittime. E il pensiero torna nuovamente agli anni Settanta, quando gli scioperi a singhiozzo o il cosiddetto “gatto selvaggio”mettevano in crisi interi reparti, costringendo l’azienda a ricorre alla cassa integrazione di coloro che, senza colpa, subivano il ricatto di pochi “iniziati”. Solo che allora non c’era la globalizzazione, la concorrenza assumeva forme diverse, comprese quella della svalutazione monetaria e la Cina era vicina solo nei film di Marco Bellocchio.
del censore. Censore di un’Italia dove siccome «abbiamo paura di cambiare, si rifiuta il futuro e si è costretti a gestire i cocci del passato». Nella quale i suoi sforzi «per rafforzare la presenza industriale non vengono compresi oppure non sono apprezzati intenzionalmente». E se le relazioni sono segnate ancora «dal conflitto tra operai e padroni», il declino sociale è pari a quello produttivo. Certo, Marchionne dalla platea ciellina ha ribadito la posizione ufficiale presentata al Quirinale o ai sindacati, che il Lingotto «ha rispettato la legge e dato pieno seguito al primo provvedimento della magistratura». Anche perché qui si parla di sabotaggio. Poi, incalzato dalla telecamere, ha fatto sapere che per lui il Colle «è sacro, ho un grandissimo rispetto per il presidente della Repubblica, come persona e per il suo ruolo istituzionale, e accetto da lui un invito a cercare di trovare una soluzione a questo problema e mandare avanti le cose». Eppure il caso dei tre operai è apparso soltanto un orpello retorico, utile per ricordare che da noi «si parla soltanto di diritti e si dovrebbe parlare più di doveri». Dove una certa retorica fa passare il messaggio che «dignità e diritti siano patrimonio esclusivo di tre persone», quando dovrebbero essere «valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti».
In questo modo è difficile andare avanti. E Sergio Marchionne, pur non minacciando di fare le valigie, ricorda in maniera un po’ tranchant che «la Fiat è l’unica azienda disposta a investire 20 miliardi di euro in Italia, ma questo sforzo viene visto da alcuni con la lente deformata del conflitto». E non contento ha aggiunto che «la sola area al mondo che è in perdita è l’Italia. Non c’è niente di straordinario al voler adeguare il sistema di gestione a quello che avviene nel resto del mondo. Eccezionale è farlo qui nonostante quello che offrono gli altri Paesi». In ambienti del sindacato come del governo c’è il timore che dietro questo continuo tirare la corda, ci sia la volontà del manager di tirarsi indietro e trasferire all’estero la produzione dei modelli ancora in Italia, come ha fatto con la Multipla. Ma Marchionne ha tranquillizzato
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Anche il segretario generale Airaudo attacca l’ad Fiat su Melfi
Cremaschi guida i duri: «Un discorso da ’800»
Dal leader Fiom parole forti: «Il solito atteggiamento del vecchio padrone che vuole gli operai obbedienti» di Vincenzo Bacarani
RIMINI. Ormai è un duello senza esclusione di colpi. Da una parte l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, e dall’altra la Fiom, l’organizzazione di categoria dei metalmeccanici della Cgil, che è rimasto l’unico sindacato che ha deciso di opporsi alle scelte strategiche e industriali dell’azienda torinese (non firmando peraltro l’accordo sullo stabilimento di Melfi che hanno invece firmato le altre organizzaioni Cisl, Uil, Ugl e Fismic) e che ieri ha reagito in maniera dura al discorso tenuto dal manager al meeting di Rimini. Una battaglia di retroguardia quella del sindacato guidato ora da Maurizio Landini? Una vocazione a un ritorno nostalgico delle lotte di classe contro la “razza padrona”? Ieri al Meeting di Comunione e Liberazione Sergio Marchionne ha posto in evidenza proprio questo aspetto: quando ha parlato di «ritorno agli Anni Sessanta», quando ha sottolineato come sia ormai obsoleta la contrapposizione padrone-lavoratori. L’obbiettivo dei suoi attacchi era evidentemente la Fiom, anche se ha poi usato parole di apprezzamento per il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, dopo l’apertura di quest’ultimo a un confronto aperto sui temi più scottanti.
do – un discorso più concreto sui mercati, su che cosa intende fare la Fiat, sul tentativo di internazionalizzaione dell’azienda. Invece abbiamo assistito all’esposizione di un tema politico-culturale che, visto il momento, non mi sembra molto interessante».
Non sarà stato interessante, ma è fuor di dubbio che l’amministratore delegato della Fiat ha toccato uno degli argomenti più delicati: quello dei rapporti tra sindacati e aziende. Secondo Airaudo, Marchionne ha tenuto «un discorso frontista. Sinceramente non mi sembra che nelle fabbriche italiane ci sia ingovernabilità. Ho l’impressione invece che il suo intervento al meeting di Rimini sia stato un tentativo di prendere tempo, una sorta di diversivo per distrarre l’attenzione dai reali problemi dell’industria automobilistica italiana». Una specie di cortina fumogena afferma il segretario nazionale della Fiom - per nascondere un’assenza di strategia industriale e una volontà di limitare in Italia la produzione. «La verità - prosegue Airaudo - è che nel nostro Paese manca anche la presenza di un governo che voglia intervenire. La decisione di spostare la produzione di una vettura importante da Torino Mirafiori in Serbia è stata dovuta anche agli interventi del governo serbo e del governo russo». Sul fatto che Epifani abbia offerto un’apertura al dialogo sui contratti, la Fiom è d’accordo. «Sono anni - spiega ancora Airaudo - che sosteniamo che ci vuole un contratto unico per il settore auto. Ma un contratto unico che coinvolga anche l’indotto e non solo 800 mila lavoratori».
«Sono anni che sosteniamo che ci vuole un contratto unico per il settore auto; ma per tutti davvero, anche per chi lavora nell’indotto»
Sergio Marchionne ha spiegato al Meeting di Rimini il suo programma per il futuro. Anche Epifani ha apprezzato. A destra: sopra Sergio Cremaschi e, sotto, Giorgio Airaudo che lui vuole soltanto «la garanzia di poter gestire i nostri stabilimenti in maniera affidabile e normale». Per farlo però ci vuole una legge della rappresentanza e un contratto, che a differenza di quello nazionale dei metalmeccanici, certifichi le deroghe sui turni o sui diritti scioperi previsti per esempio a Pomigliano. «Un nuovo patto sociale» che come in Germania responsabilizzi le maestranze e rende più flessibile la produzione in base alla domanda. Dalle colonne di Repubblica, il leader della Cgil ha lanciato un compromesso, proponendo di trasformare i contratti nazionali in grandi e pochi contenitori di diritti (razionalizzando quindi le oltre 400 intese esistenti) per poi potenziare le piattaforme aziendali. Marchionne si è detto disponibile a incontrarlo. Ma in fondo soltanto per chiarirgli che «l’accordo di Pomigliano va ri-
spettato» e che corso d’Italia (come stanno facendo Cisl e Uil) deve accompagnare i lavoratori in un processo che va nella direzione opposta. Chiaramente scaricando la Fiom.
Per sapere cosa pensa il manager, è utile leggere le parole di Giuliano Cazzola: «Le anime belle che invitano la Fiat a varcare le Alpi e ad adottare un modello di relazioni industriali alla tedesca, dovrebbero provare a raccontare in Germania che da noi un sindacato minoritario a Pomigliano è legittimato a proclamare lo sciopero dello straordinario fino al 2014». La platea ciellina ieri ha applaudito Marchionne 21 volte. Piazza Affari ha premiato il suo atteggiamento di duro (e la promessa di alzare i target per il 2010) facendo incassare alla Fiat un +1,9 per cento. Il governo, mezzo Pd, Cisl e Uil sono dalla sua parte. Ora tocca alla Cgil decidere dove stare.
Ma la vicenda dello stabilimento Fiat di Melfi – quella dei tre operai licenziati, poi fatti riassumere dal pretore, quindi stipendiati dalla Fiat, ma tenuti fuori dalle linee di produzione – non poteva essere trascurata da Marchionne nella sua relazione ed è stata ed è, secondo l’ad di Fiat, la cartina di tornasole dei rapporti sociali e sindacali in Italia. Rapporti distanti anni luce da quelli vigenti in altri Paesi occidentali, soprattutto negli Stati Uniti. Occorre – secondo l’ad del Lingotto – cambiare sistema: basta contrapposizioni, sì al dialogo. Ma alla Fiom il discorso non è piaciuto per niente. Durissimo il commento del presidente del Comitato centrale dell’organizzazione, Giorgio Cremaschi: «Si è trattato – dice a liberal – di un discorso reazionario, da padrone dell’Ottocento. Marchionne non offre nessuna base di dialogo. Il suo è stato il solito discorso ipocrita del padrone che dice all’operaio: tu devi obbedire e poi cerchiamo il dialogo. Altro che Anni Sessanta, Marchionne è fermo al 1800». Meno polemico, ma certamente critico il commento del segretario nazionale Giorgio Airaudo. «Mi sarei aspettato – afferma Airau-
Non poteva mancare la reazione del segretario regionale Cgil della Basilicata, Antonio Pepe: «Superare il conflitto padroni-operai in questo millennio - dice - significa per quel che ci riguarda perseguire una maggiore democrazia economica in cui le istanze rappresentate dai lavoratori vengano ricomprese nell’ambito delle azioni delle imprese». La storia tuttavia non finisce certo qui. La partita vera ora si sposterà sui contratti. Epifani ha detto che 400 rinnovi nazionali sono troppi e che occorre snellire pensando anche alle contrattazioni di secondo livello. Ma il discorso di Marchionne a Rimini potrebbe aprire nuovi scenari nell’ambito del confronto imprenditorisindacati.
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l’approfondimento
Ecco i passaggi centrali del discorso che l’ad del Lingotto ha tenuto ieri al Meeting di Comunione e Liberazione
Il patto per l’Italia
«Non c’è niente di straordinario nel voler adeguare il sistema di gestione a quello che succede a livello mondiale. Ma non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra padroni e operai» di Sergio Marchionne ono nato in Abruzzo, a Chieti, ma, per ragioni familiari e per motivi di lavoro, ho vissuto all’estero la maggior parte dei miei anni. Ho dovuto abituarmi presto a cambiare casa, abitudini, amici. Avevo 14 anni quando la mia famiglia si è trasferita in Canada.Vi confesso che non è stato facile. Non è mai facile iniziare tutto da capo, in una terra sconosciuta e in una lingua straniera, imparare a gestire la solitudine di alcuni momenti. Non è facile lasciare le certezze del tuo mondo abituale per le incertezze di un mondo nuovo. Aveva ragione Cesare Pavese quando disse che: «Viaggiare è una brutalità. Obbliga ad avere fiducia negli stranieri e a perdere di vista il comfort familiare della casa e degli amici. Ci si sente costantemente fuori equilibrio. Nulla è vostro, tranne le cose essenziali - l’aria, il sonno, i sogni, il mare, il cielo. Tutte le cose tendono verso l’eterno o ciò che possiamo immaginare di esso». Ma è proprio per questo
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che viaggiare, cambiare ambiente e conoscere altre culture è uno straordinario modo per crescere – e per farlo in fretta. (…) Conosco bene la realtà che sta al di fuori del nostro Paese. Ed è questa conoscenza che ho cercato e sto cercando di mettere a disposizione della Fiat perché non resti isolata da quello che accade intorno nel mondo. In questi anni abbiamo lavorato duramente per garantire alla nostra azienda di crescere, di competere con i migliori concorrenti, di conquistare la stima e il rispetto sui principali mercati. Oggi la Fiat è una multinazionale che opera e gestisce attività industriali in ogni parte del mondo. Siamo presenti in tutti i continenti e abbiamo rapporti commerciali con oltre 190 Paesi. La partnership raggiunta con Chrysler nel 2009 è nata sulla base delle competenze tecnologiche della Fiat ma si è resa possibile solo grazie alla sua apertura internazionale. Se non avessimo avuto un ap-
proccio globale, non avremmo mai potuto cogliere l’opportunità che si presentava dall’altra parte dell’oceano. Quando la nostra azienda è nata, aveva un sogno: quello di favorire la mobilità e la libertà delle persone. Di crescere e portare nel mondo quello che gli italiani sanno fare. Di mettere queste competenze a disposizione della società. (…)
La partnership tra Fiat e Chrysler non è solo un’opportunità di business. Fiat e Chry-
Non vogliamo essere accolti con le fanfare, ma neanche con i fischi
sler insieme stanno sicuramente unendo le loro competenze per dare vita ad un gruppo più forte, per raggiungere nel giro di cinque anni la soglia dei sei milioni di vetture prodotte, per essere presenti su più mercati e per avere una gamma completa di prodotti. Ma Fiat e Chrysler stanno anche dando vita ad un’integrazione culturale basata sul rispetto e sull’umiltà; un’integrazione che è una straordinaria fonte di ricchezza umana. Non è facile trovare un’impresa che possa
contare su un’esperienza internazionale così ampia, basata non soltanto sull’accordo con Chrysler, ma anche sulla posizione di leadership in America Latina e sulle iniziative create in Cina e in Russia. Si tratta di un bagaglio di conoscenze che fa della Fiat un punto di osservazione privilegiato per capire cosa sta succedendo nel resto del mondo, come si sta sviluppando l’economia globale e come preparare l’azienda ad affrontare un sistema completamente aperto, fortemente interconnesso ma senza confini geografici o economici. Sfortunatamente ho l’impressione che in Italia non ci siano interesse né fiducia verso questo straordinario bacino di informazioni. O forse, più semplicemente, non ne vogliamo sapere perché ci manca la voglia o abbiamo paura di cambiare. Molto spesso le ragioni del declino sociale ed economico di un Paese hanno a che fare con ciò che non abbiamo saputo o voluto trasformare, con l’abitudine di mantenere sempre le co-
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Difendere i diritti acquisiti o trovarne di nuovi? Una domanda che divide
Bene, male, così così... Il giudizio degli esperti Aldo Bonomi, Luciano Gallino e Marco Martinelli: un discorso destinato a cambiare i rapporti con il lavoro di Pietro Salvatori
ROMA. Aldo Bonomi ha fondato negli anni Ottanta l’istituto di ricerche Aaster, che si occupa dell’attuazione di interventi finalizzati all’accompagnamento di attori sociali nel loro processo di riposizionamento strategico all’interno dei processi di competizione globale. Un tema che è all’ordine del giorno, posto con forza sul piatto dal Sergio Marchionne, che dalla tolda del Lingotto amministra con piglio decisionista la Fiat, da una parte e dall’altra dell’oceano. Un’azione che sta ponendo sul piatto l’annoso problema dell’opportunità di rivedere la contrattazione nazionale del lavoro. «Credo che sia indispensabile nel modo più assoluto una ridefinizione delle regole di rapporto tra le aziende e i lavoratori». Ma se gli si osserva che l’amministratore delegato dell’azienda torinese ha avuto il merito di porre con forza nell’agenda del Paese questo tipo di problematiche, il professor Bonomi non ci sta: «Questa è una sciocchezza. Da anni il tema è al centro del dibattito, la contrattazione lo dicono tutti che è da rivedere». E allora perché non ha avuto questa risonanza prima? «Il ruolo di Marchionne è centrale – osserva Bonomi – e probabilmente i tempi non erano ancora maturi. Le case automobilistiche sono state tra le prime ad entrare in grande difficoltà, e hanno avuto l’esigenza di porre la questione». Quella di Marchionne non è dunque una battaglia politica. «È che vuole diventare competitivo con la sua azienda – osserva Bonomi – mentre il Paese è legato a vecchi schemi. Poi lui vede quello che succede in Germania con la Volkswagen, e fa il confronto con quello che succede in uno Stato all’avanguardia». Di chi la colpa? «Di una fetta del sindacato. Sono vecchio stampo, trinariciuti oserei dire, non vogliono capire che il mondo è cambiato».
liardi di euro l’anno». Problemi che, secondo Gallino, Marchionne nemmeno si pone, perché concentrato su altro: «Guarda il dito e gli sfugge la luna», chiosa caustico. L’atteggiamento dell’amministratore delegato della Fiat «può inoltre contribuire a far salire la temperatura del conflitto sociale». Il sociologo fa osservare che «fa e dice cose di cui non ci sarebbe alcun bisogno». In che senso? «Nel senso che mi spieghi che bisogno c’era di trattare i tre di Melfi nel modo nel quale sono stati trattati. Così si intacca la dignità delle persone, e si intraprende una strada che non serve a nessuno. Inoltre un atteggiamento così duro potrebbe essere controproducente per la stessa azienda, scatenando un’opposizione più dura di quanto non ci si potrebbe aspettare da parte dei lavoratori». Per Gallino la tendenza generale che indica Marchionne non è affatto originale, facendosi portavoce di «cose che si dicono in tutta Europa». In Italia un freno potrebbe essere il diritto del lavoro: «Su questo fronte la nostra legislazione potrebbe essere un vero e proprio baluardo. È estremamente complessa e difficile da smantellare». Soddisfazione trapela dai padiglioni della fiera di Rimini, dove Marchionne, invitato dal Meeting, ha parlato.
Dicono da Rimini che «ha descritto fattori di cambiamento della società che sono oggettivi»
Luciano Gallino, uno dei più autorevoli sociologi del lavoro italiani, ribalta la questione. «Il tipo di contrattazione che vorrebbe Marchionne metterebbe il lavoratore in una situazione di estrema debolezza. Sarebbe una spinta che farebbe regredire il mondo del lavoro agli anni Settanta». Gallino respinge con nettezza l’ipotesi di una revisione del contratto nazionale: «Una delle funzioni principali di questa tipologia contrattuale era una certa tendenza al riequilibrio complessivo dei salari. Eliminandolo, tale funzione sparirebbe». E questo sarebbe esiziale per i lavoratori italiani, spiega il professore: «La quota salariale negli ultimi dieci anni è crollata di oltre dieci punti di Pil. Parliamo di cifre elevatissime, sono circa 160 mi-
«Ha descritto fattori di cambiamento della società e del lavoro che sono oggettivi», spiega Marco Martinelli, Direttore della Compagnia delle Opere di Roma e del Lazio. «Le soluzioni sono due: rimanere fermi o reagire, con coraggio e responsabilità». Due temi, secondo Martinelli, bagaglio comune sia di grandi aziende, come quella guidata da Marchionne, che della complessa rete di piccole e medie imprese messe a network dalla Cdo. «È inutile – continua Martinelli – guardare la realtà a priori decidendo prima cosa è giusto e cosa sbagliato. Occorre sostenere il cambiamento». E a Gallino, che afferma che i lavoratori vengono penalizzati, risponde che «bisogna assolutamente guardare a chi viene penalizzato dai cambiamenti della società, e sostenerlo. Ma attenzione: occorre sostenerlo a cambiare insieme al mondo, non a rimanere fermo». Una visione innovativa e singolare quella di Martinelli, che invita a superare «i pregiudizi che vedono per forza uno steccato tra datore di lavoro e lavoratore. Più spesso di quanto non si pensi gli interessi sono comuni». A tale avviso, secondo il direttore, «occorre che la politica costruisca sì una nuova normativa del lavoro, ma che tenga insieme gli interessi di entrambe le parti».
se come stanno. Questo è stato per tanto tempo anche il grande male della Fiat. Quando sono arrivato, nel 2004, ho trovato una struttura immobile, chiusa su se stessa, che prendeva come base di riferimento i propri risultati invece delle prestazioni della concorrenza. Aveva perso la voglia e l’abilità di competere e di confrontarsi con il resto del mondo. Questo, purtroppo, è anche il rischio che corre il nostro Paese. Basta pensare a quanto è basso il livello degli investimenti stranieri, a quante imprese hanno chiuso negli ultimi anni e a quante altre hanno abbandonato l’Italia per capire la gravità della situazione. La crisi ha reso più evidente e, purtroppo, per molte famiglie, anche più drammatica la debolezza della struttura industriale italiana. La cosa peggiore di un sistema industriale, quando non è in grado di competere, è che alla fine sono i lavoratori a pagarne direttamente – e senza colpa – le conseguenze.
Quello che noi abbiamo cercato di fare, e stiamo facendo, con il progetto “Fabbrica Italia”è invertire questa rotta. (…) Non c’è niente di straordinario nel voler adeguare il sistema di gestione a quello che succede a livello mondiale. Eccezionale semmai – per un’azienda – è la scelta di compiere questo sforzo in Italia, rinunciando ai vantaggi sicuri che altri Paesi potrebbero offrire. Ciò di cui c’è bisogno è riconoscere la necessità di cambiare, di aggiornare un sistema che garantisca alla Fiat di continuare a competere. Quella alla quale stiamo assistendo in questi giorni è una contrapposizione tra due modelli, l’uno che si ostina a proteggere il passato e l’altro che ha deciso di guardare avanti. Non so quali siano i motivi di questo scontro, se ci siano ragioni ideologiche o altro. Quello che so è che fino a quando non ci lasciamo alle spalle i vecchi schemi, non ci sarà mai spazio per vedere nuovi orizzonti. A volte ho l’impressione che gli sforzi che la Fiat sta facendo per rafforzare la presenza industriale in Italia non vengano compresi oppure non siano apprezzati intenzionalmente. La verità è che la Fiat è l’unica azienda disposta a investire 20 miliardi di euro in Italia, l’unica disposta a intervenire sulle debolezze di un sistema produttivo per trasformarlo in qualcosa che non abbia sempre bisogno di interventi d’emergenza. Qualcosa che sia solido e duraturo, da cui partire per immaginare il futuro. La verità è che questo sforzo viene visto da alcuni con la lente deformata del conflitto. Non siamo più negli Anni Sessanta. Non è possibile gettare le basi del domani continuando a pensare che ci sia una lotta tra “capitale” e “lavoro”, tra “padroni” e “operai”. Se
l’Italia non riesce ad abbandonare questo modello di pensiero, non risolveremo mai niente. Erigere barricate all’interno del nostro sistema alimenta solo una guerra in famiglia. L’unica vera sfida è quella che ci vede di fronte al resto del mondo. Quello di cui ora c’è bisogno è un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici e per dare al Paese la possibilità di andare avanti. (…)
Mi rendo conto che certe decisioni, come quelle che abbiamo preso a Melfi, non sono popolari, ma non si può far finta di niente davanti a quelle che per la Fiat sono palesi violazioni della vita civile in fabbrica. Sono state spese molte parole sulla vicenda di Melfi. Vorrei essere assolutamente chiaro. La Fiat ha rispettato la legge e ha dato pieno seguito al primo provvedimento provvisorio della Magistratura. Pur mantenendo legittime riserve nel merito, abbiamo reinserito i lavoratori nell’organico dell’azienda, assicurando loro l’accesso allo stabilimento e il pieno esercizio dei diritti sindacali. Ora siamo in attesa del secondo giudizio previsto dal nostro ordinamento. Ci auguriamo che sia meno condizionato dall’enfasi mediatica, che ha in parte travisato la realtà dei fatti, come possono testimoniare altri lavoratori presenti la notte in cui è stata bloccata la produzione in modo illecito. Nel frattempo, però, quello che è importante riconoscere è la necessità di garantire le condizioni minime di un rapporto di fiducia, sul quale si basa qualsiasi tipo di relazione. Ho sentito parlare molto di dignità e di diritti in questa vicenda. Ma la dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone. Sono valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti. La responsabilità che abbiamo è anche quella di tutelare la dignità della nostra impresa e il diritto al lavoro di tutte le altre persone. Di sicuro, accuse che considero pretestuose di una parte del sindacato non aiutano a mantenere un clima sereno, che è necessario per sviluppare gli ambiziosi programmi di cui ci stiamo facendo carico. La Fiat non pretende di essere salutata ogni giorno con le fanfare, come è successo quando siamo tornati dall’America con i due miliardi di dollari della General Motors o quando il Presidente Obama ha annunciato l’accordo con Chrysler. Ma non troviamo giusti nemmeno i fischi gratuiti. I valori su cui abbiamo rifondato l’azienda sei anni fa sono rimasti gli stessi. Mi riferisco alla correttezza, all’integrità, ad un approccio responsabile nella gestione del business. “Fabbrica Italia” è un nata su questi presupposti.
politica
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Polemiche. Il Rais commemora l’anniversario della “rivoluzione” del 1969 (e la firma del trattato sull’immigrazione) insieme al suo amico Berlusconi
Torna il circo Gheddafi Lunedì il dittatore libico sarà a Roma con 200 hostess al seguito. E stavolta, oltre alla tenda, si porta 30 cavalli di Antonio Picasso a visita a Roma del leader libico Gheddafi, lunedì prossimo, è stata anticipata dalla notizia che il colonnello porterà con sé una trentina di cavalli e ovviamente le immancabili 200 hostess, meglio note con il vezzoso nome di “gheddafine”. Il leader libico, ancora una volta, non si smentisce. È celebre la sua capacità di spettacolarizzare la sua presenza ovunque si trovi nel mondo, pretendendo di montare tende beduine nel cuore di una villa rinascimentale di Roma – come é accaduto lo scorso anno e come si ripeterà lunedì nel parco di Doria Pamphili.
L
Quello dei cavalli, però, é un exploit inatteso, dettato dalla coincidenza del viaggio di Gheddafi con l’anniversario della rivoluzione. Il primo settembre 1969, il giovane colonnello si pose alla guida di un gruppo di giovani ufficiali per detronizzare re Idris I. Oggi il rais ha deciso di commemorare l’avvenimento in occasione del summit con Berlusconi. L’Italia è abituata all’esibizionismo di Gheddafi e riesce a starvi al gioco. I trenta cavalli
suolo libico valgono bene l’archiviazione dei capitoli precedenti del regime di Gheddafi. D’altra parte, per consolidare la sua crescita economica, la Libia necessita di mantenere buone relazioni con quei governi europei che le offrono maggiore disponibilità al dialogo e che, soprattutto, partecipano attivamente con i propri capitali al miglioramento della produzione nazionale. Negli ultimi sei anni, la crescita del Pil libico si è mantenuta mediamente superiore al 2%. Tuttavia, già dal 2009, il sistema ha cominciato a risentire degli sbalzi dei prezzi internazionali del petrolio. Tripoli, quindi, si è resa conto della necessità di diversificare il settore secondario, svincolandosi dall’eccessivo attaccamento ai ricavi di idrocarburi. Per questo è alla ricerca di investimenti stranieri. Il nostro Paese, in particolar modo, occupa una posizione privilegiata rispetto agli altri part-
I blogger clandestini nordafricani sono impegnati da anni nel denunciare Tripoli. Di fronte al totale disinteresse europeo del rais, infatti, si esibiranno prima del carosello dei Carabinieri, appuntamento classico con cui vengono omaggiati tutti i capi di Stato in visita nel nostro Paese. Superando però l’effimera cortina dell’“organizzazione eventi”, il fatto che Gheddafi torni nel nostro Paese per il secondo anno consecutivo e per celebrare il Trattato di Bengasi, firmato nel 2008, indica che noi costituiamo per la Libia la sua più affidabile testa di ponte in Occidente. Il governo tripolino, dopo la lunga emarginazione internazionale dovuta ai suoi legami con il terrorismo palestinese, può dirsi affrancato tutti gli effetti. La sua immagine certo non è tornata immacolata. Tuttavia le ricchezze di gas e petrolio localizzate nel sotto-
ner europei e agli Stati Uniti. Attualmente siamo il primo partner nella bilancia commerciale del Paese nordafricano, sia nell’export (38%) sia per quanto riguarda le importazioni (19%).
Al di là dei retaggi coloniali, che hanno rappresentato una costante di attrito fino agli accordi di due anni fa, Roma è riuscita a sviare gli impedimenti giuridici internazionali che le vietavano l’ingresso sul mercato libico. Si é trattato di un pionierismo industriale che ha permesso alle grandi società italiane di consolidarsi nel Paese nord africano prima dei loro competitor. Nel momento in cui l’Onu ha abro-
gato le sanzioni, nel 2004, Roma era già radicata in Libia. Sono stati soprattutto i settori strategici a interessare l’azienda Italia. L’Eni, memore delle conquiste ottenute ancora da
Quando i governi occidentali hanno firmato i singoli accordi con Tripoli sapevano con chi si sarebbero confrontati. Gheddafi, dal canto suo, non ha mai promesso di avviare una stagione di riforme secondo eventuali desideri di Bruxelles e tanto meno di essere tenero con gli stranieri
Enrico Mattei nell’intero quadrante nord africano, si è vista confermare il primato raggiunto nei decenni precedenti all’isolamento diplomatico della Libia. A ruota sono seguite la Fiat, l’Enel, nonché importanti istituti di credito già operativi nel vicino Egitto e in Tunisia. Il rapporto fra Roma e Tripoli ormai può essere definito paritario. Ciascuno dei due governi ha bisogno dell’altro per una svariata serie di motivi. Vista dalla prospettiva libica, questa alleanza ha un valore politico fondamentale. Gheddafi, classe 1942, è il leader arabo al potere da più tempo. Come si esterna la preoccupazione per la successione di Hosni Mubarak in Egitto, altrettanto si fa per il colonnello. I figli di entrambi i rais, proclamati delfini in pectore, non sembrano però do-
tati dello stesso carisma dei padri. In Egitto e in Libia si spera che accada quanto avvenuto nel 2000 in Siria. Una volta scomparso Hafez el-Assad, suo figlio Bashar, per quanto all’epoca fosse poco avvezzo alla politica mediorientale, dimostrò di sapere condurre il Paese oltre le difficoltà che una “repubblica monarchica” può incontrare al momento della successione al trono. Per la realizzazione di un progetto simile, tuttavia, la Libia ha bisogno dell’appoggio della comunità internazionale. La cancellazione delle sanzioni ha fatto da primo step. A seguire si sono avute lo scambio dei rappresentati diplomatici con gli Usa e l’ingresso del Paese nord africano nell’Union pour la Méditerranée, nel 2008, per volontà del presidente francese Sarkozy.
Nonostante tutti questi successi, Roma per Gheddafi ha sempre rappresentato il “boccino” da colpire. La normalizzazione dei rapporti con l’ex potenza coloniale si è trasformata progressivamente in una questione personale. Una volta risolta, due anni fa appunto, fra l’Italia e la Libia si è consolidata una partnership multiforme, che oggi si sviluppa nei settori della politica, dell’e-
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2047. A questo risultato, che rappresenta già di per sé una garanzia, vanno aggiunte le opportunità che si potrebbero offrire nel momento in cui la British Petroleum decidesse di ridurre la sua presenza nel Paese arabo. Sembra che siano passati secoli da quando, appena un anno fa, si vociferava in merito all’inopportuna liberazione di Abdelsadet al-Megrahi, il terrorista tripolino, diretto responsabile dell’attentato di Lockerbie nel 1988; attacco nel quale persero la vita 270 persone. Nel settembre 2009, la decisione di un Tribunale scozzese di approvare il rimpatrio di al-Megrahi aveva stuzzicato le malelingue, facendo loro sospettare l’esistenza di un accordo sottobanco tra Gheddafi e Gordon Brown in favore della Bp. La polemica scemò con il passare dei mesi. Ad aprile però, il disastro della marea nera nel Golfo del Messico, di cui è responsabile la compagnia britannica, ha frustrato le risorse finanziarie di quest’ultima.
il suo spirito intuitivo nell’approcciarsi con Gheddafi. Dai vertici bilaterali, quindi, si è arrivati sempre a un compromesso favorevole e rimunerativo per entrambe le sponde del Canale di Sicilia.
conomia e della sicurezza. Silvio Berlusconi, grazie alle sue capacità istrioniche, è il solo leader occidentale che riesce a tener testa all’eccentricità del rais. In una politica
estera in cui i rapporti interpersonali fra i “grandi” hanno assunto la prevalenza rispetto alle dinamiche canoniche della diplomazia, il presidente del consiglio italiano ha sfoderato
Sul piano economico, le ricchezze libiche sono diventate la nostra nuova frontiera. Non solo per quanto riguarda la loro estrazione ed esportazione attraverso il Greenstream, il più lungo gasdotto sottomarino del Mediterraneo, attivo da sei anni e realizzato dalla Saipem, controllata Eni, insieme alla Libyan Gas Transmission System. Il “Cane a sei zampe” ha indossato l’abito di abile mediatore fra le big oil europee, nordamericane, ma soprattutto russe, da una parte, e la National Oil Corporation (Noc), dall’altra. Questo ha permesso all’azienda guidata da Paolo Scaroni non solo di trarre utili monetari, ma anche di portare avanti l’ambizioso progetto di Mattei affinché la compagnia fosse una protagonista irrinunciabile delle grandi manovre nel comparto idrocarburi in nord Africa. Allo stato dell’arte la nostra big oil è riuscita a confermare le concessioni di sfruttamento dei giacimenti di gas e petrolio rispettivamente fino al 2042 e
Si ipotizza quindi che, per fare cassa e risarcire i danni del disastro ecologico, la Bp debba essere costretta a svendere alcuni gioielli in terre lontane. Le concessioni libiche potrebbero essere nella lista. Le grandi compagnie europee e di oltre Atlantico scalpitano per arrivare prime, ma soprattutto vogliono anticipare a tutti i costi la Cina. A questo si aggiunge il discorso sulle trivellazioni offshore. All’inizio di questo mese, il ministro dell’ambiente italiano, Stefania Prestigiacomo, ha chiesto una moratoria al progetto della stessa Bp di avviare le esplorazioni al largo del Golfo della Sirte. È evidente che l’opinione pubblica mondiale sia caduta preda del timore per cui ogni impianto petrolifero rappresenterebbe una potenziale Deepwater Horizon, la piattaforma che è stata fatale per il disastro nel Golfo del Messico. Alla paura di un olocausto petrolifero, tuttavia, si contrappone la sete quotidiana di idrocarburi delle nostre società industrializzate. In pratica: da qualche parte bisogna pur perforare, e se la Libia offre le adeguate garanzie di sicurezza, il club petrolifero mondiale è ben lieto di spingersi fino a Tripoli. In tal senso, l’Italia potrebbe approfittarne. Proprio ieri il vertice di Eni ha confermato l’incontro che avrà con Gheddafi la prossima settimana. La compagnia, ma con essa anche l’Enel hanno dalla loro il vantaggio dato dalla vicinanza geografica, dal Greestream – al momento, infatti, se si vuole dissetare celermente di idrocarburi l’Europa, per forza di cose bisogna passare da Gela – e dalla facilità di approccio che personalità quali Berlusconi, Scaroni e l’ad di Enel,
Fulvio Conti, vantano presso l’establishment libico. Altrettanto prioritaria per entrambi i Paesi è la gestione della sicurezza e con essa la questione immigrazione. A Parigi in questi giorni infuria la battaglia fra Sarkozy le sinistre per la politica anti-Rom adottata dall’Eliseo. Ieri il ministro dell’interno italiano, Roberto Maroni, intervenuto al meeting di Cl a Rimini, ha lodato la Francia per la decisione presa, soprattutto perché questa sarebbe nata sull’esempio delle scelte del governo italiano e della Legge Bossi-Fini. In questo rientrano i capitoli relativi all’immigrazione del Trattato di Bengasi. Negli ultimi dodici mesi gli sbarchi sono stati 3.499, mentre nel periodo precedente erano 29.076. Quelli dalla Libia, in particolare, sono diminuiti da 20.665 a 403. «Un risultato che è frutto dell’accordo con Tripoli», ha sottolineato Maroni. «La Commissione europea stessa l’ha preso come modello che dovrebbe utilizzare l’intera unione». «In tema di immigrazione il governo si è sempre mosso dentro le norme comunitarie. Questo è stato l’elemento di successo del trattato». La determinatezza con cui sono intervenute le autorità tripoline, inoltre ha permesso di limitare il pericolo che le cellule di «al-Qaeda nel Maghreb islamico» (Aqmi) coinvolgessero anche la Libia, soprattutto le tribù nel sud del Paese.
Quest’ultimo non si può dire immune dalle istanze jihadiste. Bisogna riconoscere però che sul suo territorio queste risultano comunque circoscritte. È anche vero che il regime di Gheddafi non passerà alla storia come un esempio di rispetto dei diritti umani. Le carovane di profughi che dall’Africa centrale si incamminano sulle piste del deserto libico cadono vittima della brutalità della natura locale, mentre le forze di polizia del Paese non fanno nulla per alleviare le loro sofferenze. I blogger clandestini nordafricani sono impegnati da anni nel denunciare le misure estreme adottate da Tripoli. Espulsioni e incarcerazioni di massa pare che siano all’ordine del giorno. Quello che sconcerta gli osservatori è l’indolenza delle istituzioni europee di fronte a queste notizie. Tuttavia, nell’ottica della realpolitik, quando i governi occidentali hanno firmato i singoli accordi con Tripoli sapevano con chi si sarebbero confrontati. Gheddafi, dal canto suo, non ha mai promesso di avviare una stagione di riforme secondo eventuali desideri di Bruxelles e tanto meno di essere tenero con gli stranieri. Sicché ad accordi fatti, ci si accorge delle relative vittime collaterali. È il prezzo che l’Europa deve pagare se pretende di contenere l’immigrazione.
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politica
Teatrini. Parlando ai Promotori della Libertà Berlusconi, accusa tutti di aver fatto «vecchia politica» questa estate
Il premier ricomincia da cinque Dopo l’accordo con Bossi, il Cavaliere punta alla «fiducia» dei finiani di Riccardo Paradisi nsomma è stata un teatrino, una sceneggiata, una riedizione di vecchia politica in bianco e nero questa lunga estate calda di scontri politici all’arma bianca, di crisi di maggioranza, di minacciate espulsioni dal Pdl e di imboscate parlamentari, di verifiche interne e di vertici sul Lago Maggiore. Lo dice il premier Silvio Berlusconi ai suoi Promotori della Libertà e lo spiega tracciando una filosofia del clima: «l’estate è stagione ingannevole – dice il Cavaliere con accenti crepuscolari – con il suo caldo e con le sue lunghe giornate dedicate alle vacanze. Le aule parlamentari sono vuote, i colloqui telefonici si infittiscono tra una spiaggia e una montagna, le chiacchiere prevalgono sui fatti». Sono questi fattori atmosferici e psicologici che spiegano secondo Berlusconi l’estate del 2010 che «un’estate che passerà alla storia per il ritorno alla vecchia politica, del suo teatrino e appunto delle chiacchiere. Intendiamoci, questo virus ha contagiato soltanto chi dalla politica politicante veniva, non ha contagiato certamente me e il mio Governo».
probiviri del Pdl che dovrebbe sancire l’espulsione dei finiani Bocchino, Briguglio e Granata. Ma sono eccezioni che non saranno probabilmente tollerate: nel messaggio del premier ai Promotori della libertà c’è un passaggio riferito ai finiani. Parlando dei cinque punti programmatici elaborati dal Pdl venerdì scorso, sottolinea: «Su quei punti e per quei punti sono stati eletti tutti i rappresentanti del Popolo della libertà».
I
Il riferimento naturalmente è ai finiani – che a stretto giro risponderanno piccati – oltre ai promotori di alleanze costituzionali e di governi tecnici, mentre «il Governo del fare – dice Berlusconi – ha continuato a lavorare ad assestare colpi mai inferti prima alla malavita organizzata. Come si può pensare, del resto nell’anno di grazia 2010 – domanda indignato il premier – a resuscitare alleanze dal collante incerto, dai programmi ancora più incerti, dalle prospettive addirittura incertissime? Non si può rivoluzionare la politica facendo marcia indietro dal computer, dagli iPhone e dai alblackberry l’abbecedario di vecchia scuola». La maggioranza dunque va avanti, promette il presidente del Consiglio sulla strada della realizzazione concreta delle promesse elettorali.
Sopra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nella foto sotto l’esponente di Futuro e libertà Benedetto della Vedova Segue immancabile elenco delle cose fatte: la manovra da 25 miliardi di euro, la stabilizzazione del bilancio pubblico, il contrasto dell’immigrazione clandestina, l’organizzazione del G8, dell’Aquila e via inventariando. I prossimi obiettivi in agenda sono invece i cinque punti che il Pdl e il Gover-
Bossi ha sancito uno status quo – né voto anticipato, né allargamento della maggioranza ai centristi – che sia il premier che il capo leghista volevano sbloccare per evitarsi le guerriglie settembrine della pattuglia finiana, per smetterla insomma di ”vivere di stenti”, usando l’efficace immagine del coordinatore pideillino Ignazio
Ma Benedetto della Vedova avverte: «Alla ripresa di settembre non accetteremo ultimatum né messaggi trasversali» no porteranno a settembre dinnanzi alle due Camere. Ma appunto è questo il passaggio dove la cultura del fare esibita da Berlusconi potrebbe di nuovo incagliarsi sull’opposizione interna e sul frondismo finiano. Si perché il vertice di Lesa tra Berlusconi e
La Russa. I finiani intanto continuano a fare loro gioco. Adolfo Urso di Futuro e libertà mostra disponibilità a un ”salvacondotto” giudiziario per il premier, ma sul ddl contestato avverte: «Va valutato con attenzione l’impatto sui processi in corso». Ci risiamo insomma. Ma non basta i finiani tornano a chiedere lo stop della riunione dei
Insomma il Pdl ha tutte le intenzioni di blindare i prossimi passaggi parlamentari mentre i finiani hanno tutte le intenzioni di continuare a fare gli spiriti liberi. È l’esponente finiano Benedetto della Vedova a far capire che i frondisti non ci stanno agli ultimatum e ai messaggi trasversali «Le pagine di vecchia politica la ha scritte il Pdl di Berlusconi Non lui ma il suo Pdl con la richiesta di dimissioni di Fini e l’autoribaltone, ora torniamo ai contenuti». Si ricomincia insomma con il ping-pong delle dichiarazioni con i veti e le precisazioni. E tornano in pista i mediatori di professione come Andrea Augello il patron della correntina Spazio Aperto, ambito di decompressione – questa almeno la sua ragione sociale – della dialettica interna alla maggioranza. «Il vertice di ieri a Lesa – dice Augello – ha attestato che non esiste da parte di Bossi la disponibilità ad un allargamento preventivo della maggioranza rispetto al voto di fiducia. Fatalmente la palla ritorna nel campo del Pdl, dove sarà necessaria una mediazione che consenta di proseguire la legislatura». Il Sottosegretario della Funzione Pubblica Augello è infatti convinto che a settembre ci sarà «l’ultima chiamata possibile, non si troverà una soluzione, non ci sarà più tempo per una mediazione. Se a settembre dunque non si riuscirà a mettere in qualche modo le cose su un binario diverso, il lavoro di mediazione diventerà inutile». Un pontiere tenace il sottosegretario Augello visto che tra i finiani si lavora di buona lena all’organizzazione del nuovo partito, il cui varo sarebbe un passaggio del Rubicone. E chissà cos’altro.
L’
otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
i m p r e s a
27 agosto (1859)
A Titusville viene scoperto il petrolio: è il primo pozzo petrolifero redditizio del mondo
Il papà delle Sette Sorelle di Massimo Tosti i fosse stato un Omero nell’America dell’Ottocento, oggi i suoi poemi sarebbero materia di studio nelle scuole di tutto il mondo. L’epopea del Nuovo Mondo visse nel XIX secolo la sua età dell’oro. Non soltanto perché molti pionieri si gettarono anima e corpo nella ricerca di quello che era allora (ed è rimasto ancora) il metallo più prezioso. Risalivano i greti dei fiumi con i loro setacci nei quali impigliare le pagliuzze luccicanti che avrebbero fatto la loro fortuna e riempito i forzieri di Fort Knox. Ma gli Stati Uniti – nati pochi decenni prima – erano affollati di un mucchio di gente che si dava da fare per conquistare la modernità. Migliaia di uomini lavoravano alla costruzione delle linee ferroviarie, per sostituire le vecchie diligenze della Wells Fargo (poi ribattezzata American Express). Negli uffici brevetti c’erano file di inventori che depositavano idee e marchingegni di ogni genere. I problemi di convivenza fra gli Stati del Nord e quelli del Sud, dovevano ancora essere risolti (con la sanguinosa Guerra di secessione. Nel 1861 fu eletto presidente Abraham Lincoln, che succedette a James Buchanan, passato alla storia (oltre che per la sua debolezza) come unico presidente scapolo nella storia nazionale. Nel pieno fervore delle iniziative che avrebbero trasformato quel giovane Paese nella prima potenza industriale del mondo, in una cittadina della Pennsylvania (nell’estremo nord della costa atlantica) entrò in funzione il primo pozzo petrolifero del mondo. Era il 27 agosto 1859 quando a Titusville zampillarono i primi fiotti di quello che, in seguito, sarebbe stato definito l’“oro nero”. E nessuno sospettava allora che il petrolio sarebbe diventato il principale combustibile dell’era moderna, soppiantando il carbone. Allora si cercava soltanto qualcosa che consentisse di creare luce artificiale a buon mercato. La gente alimentava le lanterne bruciando grassi animali sotto forma di candele (la cera d’api) o impiegando olio di balena. continua a pagina 10
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LA PERDUTA GENTE - CAPITOLO 19
I TESORI DELLE CIVILTÀ - HATTUSA
CINEMA CALDO - LA LUNGA ESTATE DI RITT
Il condizionale è d’obbligo
Alle origini dell’impero ittita
Tutte le stelle di Martin di Alessandro Boschi
di Carlo Chinawsky
di Rossella Fabiani
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pagina 16 pagina 9 - liberal estate - 27 agosto 2010
Il petrolio veniva utilizzato allora soltanto nella fabbricazione di medicinali e farmaci. Il suo valore commerciale era, di conseguenza, molto basso. Veniva raccolto, in quantità molto limitate, in superficie, nelle pozze oleose che rivelavano sorgenti sotterranee. A raccoglierlo, con spugne e stracci, provvedevano pochi miserabili. Nel 1853, George Bissell, un uomo d’affari, osservando quei poveracci (proprio in Pennsylvania), si rese conto dell’elevata infiammabilità del petrolio: una caratteristica ideale per il mercato crescente dell’illuminazione. L’urbanizzazione (negli Stati Uniti e in Europa) rendeva necessarie una quantità sempre maggiore di lampade o lampioni. Il costoso gas di città permetteva l’illuminazione soltanto per le zone urbane centrali delle città lasciando al buio tutto le zone periferiche.
rivoluzionato (e destabilizzato) il mercato dell’illuminazione regalando immensi profitti a chi si fosse tuffato in quella nuova attività. Bissell si rese anche conto che il petrolio avrebbe avuto un impiego anche nel settore dei lubrificanti per le macchine industriali (e ancora non avevano fatto la loro comparsa i mezzi di trasporto a motore – le automobili e gli aerei – che sarebbero di-
Dominare il mercato dell’illuminazione nel ’800 era pertanto il sogno economico per qualsiasi capitalista del tempo. Bissell propose di utilizzare il petrolio come materia prima a basso costo per illuminare le strade e le fabbriche. L’introduzione del petrolio avrebbe
ventate il primo cliente del petrolio). Le idee di Bissell trovarono l’appoggio del banchiere James Townsend e di un folto gruppo di imprenditori. Fu interpellato un autorevole scienziato, il professor Benjamin Silliman, per analizzare le proprietà del petrolio come illumi-
nante e lubrificante. La ricerca sul “Rock Oil” (olio di pietra) dette risultati molto positivi. Silliman non solo garantì le ottime capacità dell’olio minerale come lubrificante o illuminante ma lo elogiò anche dal punto di vista economico acquistando in prima persona le azioni della compagnia fondata da Bissell e Townsend, la Pennsylvania Rock Oil Company. Con il rapporto di Silliman la fiducia degli investitori e dei finanziatori toccò il massimo storico e la raccolta di fondi per avviare l’estrazione del petrolio non rappresentò più un problema per Bissell e Townsend. Il primo grande passo era stato compiuto ma l’avventura del petrolio era soltanto agli inizi.
Osservando alcuni lavoratori della Pennsylvania, Bissell si rese conto dell’elevata infiammabilità dell’oro nero: l’ideale per il crescente business dell’illuminazione
pagina 10 - liberal estate - 27 agosto 2010
Per estrarre il petrolio Bissell propose la perforazione del terreno con le trivelle, accantonando il metodo dello scavo in superficie. La sua proposta era frutto del suo acuto
Nella foto grande, immagine d’epoca del sito petrolifero di Titusville, il primo della storia americana. A destra, George Bissell, Nella pagina a fianco, in alto, il magnate dell’oro nero, John D. Rockefeller spirito di osservazione: in uno dei suoi frequenti viaggi, aveva osservato come questa tecnica fosse utilizzate da molti secoli in Cina per estrarre sale dalle cave di salgemma anche a migliaia di metri di profondità. Come direttore dei lavori, a Titusville, fu assunto un certo Edwin Drake, uomo di fiducia di Townsend, che si occupava di costruzioni ferroviarie. I lavori procedettero fra mille difficoltà e con esiti niente affatto incoraggianti. Ma proprio quando i finanziatori erano in procinto di comunicare la sospensione delle ricerche, la trivella raggiunse un crepaccio a ventuno metri di profondità. Il giorno dopo dal terreno sgorgarono i primi fiotti di petrolio. Drake diede l’ordine di portarlo in superficie dal sottosuolo mediante una semplice pompa a mano. Con risultati superiori alle più rosee attese. L’entusiasmo fu contagioso e – dopo la
corsa all’oro – ebbe inizio la corsa al petrolio. In poco tempo tutta la zona di Titusville si trasformò in un grande campo di pozzi petroliferi. Intorno al 1870 - cinque anni dopo la fine della guerra di Secessione - la produzione si aggirava sui 20 milioni di barili l’anno. I derivati del petrolio avevano moltissimi impieghi: riscaldamento, energia, lubrificazione, medicina e – soprattutto – illuminazione. Il cherosene sostituì gli oli vegetali e nel 1899 circa il 60 per cento del petrolio estratto era utilizzato per l’illuminazione. «Dal momento che per trivellare un pozzo e e raffinare il greggio bastava un capitale relativascrive mente modesto», Maldwin Jones nella sua Storia
L
o stesso giorno...
La Poet chiese l’iscrizione all’albo professionale, e il 9 agosto 1883 la sua richiesta fu accolta. Ma la corte d’Appello di Torino, su ricorso del Pubblico ministero, di Sabrina de Feudis decise di revocare l’atto el 1881 la Laurea in Giurispru- senzialmente due: uno di
Lidia, il primo avvocato in gonnella nell’Italia degli azzeccagarbugli
degli Stati Uniti d’America, migliaia di piccoli operatori, spesso privi di ogni competenza, si avventurarono nel settore petrolifero.Vi fu pertanto una fase disordinata, in cui andarono disperse molte risorse, mentre la concorrenza era acerrima: il mercato era costantemente in tensione, prezzi e profitti fluttuavano in modo selvaggio, rendendo impossibile qualsiasi programmazione a lungo termine». Ma fu anche il periodo dei grandi entusiasmi, quando nacque il mito dei self made men. Quando ognuno poteva costruirsi una fortuna. La letteratura, il teatro e, più di recente, il cinema si sono appropriati di quelle storie, celebrando il sogno americano, che riguardò anche le trivelle che pompavano quel liquido oleoso, ma preziosissimo. L’America raccontata dal Gigante (l’ultimo film interpretato da James Dean), girato nel 1955 da George Stevens. O quella crudele raccontata appena tre anni fa da Paul Thomas Anderson, ne Il petroliere, liberamente tratto da un romanzo di Upton Sinclair.
Quella fase “pionieristica” si concluse quando un giovane commerciante di Cleveland, John Davison Rockefeller, decise di dedicarsi totalmente al petrolio, e si adoperò perché il petrolio mostrasse nei suoi confronti la stessa dedizione esclusiva. In quegli anni lo sviluppo industriale marciava negli Stati Uniti a ritmi vertiginosi (decisamente superiori a quelli praticati in Europa) favoriti dalle grandi concentrazioni. Andrew Carnegie – un giovanotto figlio di un sarto scozzese emigrato negli Stati Uniti – dopo aver fatto mille mestieri, si dedicò alla produzione dell’acciaio, e in poco tempo divenne il numero uno, il “re dell’acciaio”, ricavando profitti colossali. Rockefeller si ispirò a quel modello. «Eccellente organizzatore», racconta Maldwin Jones, «Rockefeller si pose tre obiettivi: diventare spaventosamente ricco, eliminare la concorrenza e ristrutturare il settore petrolifero adeguandolo a criteri di ordine e stabilità. Trascurando la ricerca petrolifera, Rockefeller cercò di ottenere il pieno controllo della raffinazione.
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denza di Lidia Poet - prima donna a laurearsi in legge in Italia ebbe grande risalto nell’università di Torino, dove sostenne la prova. Appena superati gli esami, dopo aver svolto due anni di praticantato, secondo una normativa prevista dalla legge del tempo chiese l’iscrizione all’albo degli Avvocati e Procuratori legali, e il 9 agosto 1883 la sua richiesta fu accolta. Ma la corte d’Appello di Torino, su ricorso del Pubblico ministero, revocò l’iscrizione. La Poet ricorse in Cassazione ma questa, l’anno successivo, si oppose nuovamente alla richiesta. I motivi addotti dalla corte d’Appello e dalla Cassazione per rigettare l’ammissione della Poet all’Ordine si appellavano alle interpretazioni di leggi non scritte. I punti forti delle teorie avverse alla carriera delle donne in avvocatura furono es-
Nel 1872, insieme con alcuni soci, fondò la Standard Oil Company of Ohio, che dieci anni dopo divenne il primo trust degli Stati Uniti. Il suo eccezionale talento per gli affari era accompagnato da un’assoluta mancanza di scrupoli. Introdusse nella produzione criteri di efficienza, insistette sulle pratiche finanziarie corrette, diede priorità al riutilizzo dei guadagni, riorganizzò marketing e distribuzioCome ne. Carnegie, creò un sistema di produzione integrato costruendo propri oleodotti, depositi e cisterne per il trasporto. Ma fece anche sistematicamente ricorso alle spietate regole del mondo degli affari: mentre da un lato insisteva per ottenere sconti dalle ferrovie, dall’altro impiegava il ricatto, lo spionaggio e la riduzione dei prezzi per mandare in fallimento i suoi rivali o costringerli ad accordarsi con lui. Il suo obiettivo non era tanto la propria espansione quanto obbligare la concorrenza ad accettare una fusione da cui tutti avrebbero tratto
carattere medico, l’altro di carattere giuridico. Dal punto di vista medico si diceva che, a causa del ciclo mestruale, le donne non avrebbero avuto, almeno una settimana al mese, la giusta serenità di giudizio. La seconda obiezione era di carattere giuridico. Le donne all’epoca non godevano della parità di diritti con gli uomini. Ad esempio non potevano essere testimoni nei processi dello Stato Civile o testimoni per un testamento, erano sottoposte alla volontà del marito che dovevano seguire in ogni suo spostamento. Questa posizione non era condivisa da tutti i rappresentanti della professione, anzi, il consiglio dell’Ordine degli avvocati di Venezia, nel 1883, invitava la classe politica a porre fine alle discriminazioni nei confronti delle donne e di procedere a una modifica del Codice della legi-
profitto. A causa dei suoi metodi, Rockefeller divenne comunque uno dei personaggi più invisi all’opinione pubblica, anche se in effetti le critiche più feroci vennero da rivali non certo migliori di lui. A causa delle sue ricchezze e del suo potere sempre crescen-
slazione vigente al fine di equiparare donne e uomini, in modo così da permettere l’attività di avvocato. Finalmente nel 1920, all’età di 65 anni, riuscì ad ottenere l’iscrizione all’albo degli Avvocati di Torino, perché nel 1919 era entrata in vigore in Italia la legge che permetteva alle donne l’accesso ad alcuni Uffici pubblici.
il cui nome e cognome non può destare dubbi sulla fonte di ispirazione. La Standard Oil consentì a Rockefeller di diventare in breve tempo l’uomo più ricco d’America, il primo a mettere insieme un patrimonio superiore a un miliardo di dollari. La rivista Forbes – nel 2006 ha ricalcolato le ricchezze personali di Rockefeller stabilendo che – ai valori di oggi – la stima si aggira intorno ai 290 miliardi di dollari, pari a quasi sei volte il patri-
Il petroliere più spietato era Rockefeller: impiegava il ricatto, lo spionaggio e la riduzione dei prezzi per mandare in fallimento i suoi rivali o costringerli ad accordarsi con lui. A causa dei suoi metodi, divenne uno dei personaggi più invisi all’opinione pubblica americana del tempo
te, nonché della sua apparente indifferenza per l’opinione pubblica, venne sempre più ampiamente vituperato come un mostro onnipotente, avaro e insensibile». Proprio come John Davison Rockerduck, il cinico e spregiudicato avversario di Paperon de’ Paperoni,
monio messo insieme da Bill Gates, fondatore e proprietario della Microsoft, che per molti anni è stato al primo posto nella graduatoria degli uomini più ricchi del mondo. All’inizio del secolo scorso J.D. Rockefeller controllava l’1,53 per cento del Prodotto Interno
Lordo americano. Tanto per offrire un ultimo elemento di paragone, il “re del petrolio” sarebbe stato in grado – ai giorni nostri – di fornire di tasca propria i mezzi per finanziare le manovre poste in essere da tutti i Paesi dell’Unione Europea dopo il tracollo della Grecia. È chiaro, peraltro, che la storia del magnate sarebbe stata oggi profondamente diverse. Da molti decenni gli Stati Uniti hanno posto in essere severe misure antitrust. Il consumo del petrolio si è moltiplicato in modo esponenziale e le fonti principali di produzione si sono spostate altrove (soprattutto nel Golfo Persico). I prezzi dei barili di petrolio hanno seguito lo stesso sviluppo esponenziale. E da molti anni l’Occidente sta studiando le alternative al petrolio e al carbone, per ragioni ambientali, ma anche per sottrarre ai signori del petrolio lo strapotere di cui hanno goduto negli ultimi decenni.
Questa lotta – con mezzi e finalità diverse (e soprattutto con avversari diversi) era stata avviata da un imprenditore italiano sessanta anni fa. Fu Enrico Mattei, con l’Eni e l’Agip, a dichiarare guerra alle “sette sorelle”, le multinazionali occidentali, per incrinare il loro monopolio sulla raffinazione del petrolio. Anche lui – dopo i tentativi nella pianura padana – aveva deciso (come Rockefeller) di concentrare la sua attenzione sulla lavorazione più che sulla trivellazione dei terreni.
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IL GIALLO
CAPITOLO 19 Quando il condizionale è d’obbligo Una testimonianza decisiva, di chi ha assistito da vicino ai fatti: perché Consuelo è stata ignorata così a lungo? di Carlo Chinawsky
embrava interminabile quella notte, con quei filamenti mattutini che facevano somigliare la luce cangiante al riflesso di una medusa. Mi apprestavo a uscire per raggiungere il buon senso in persona, ossia Pizzi, che si stava rivelando più efficiente di Conforti, quando arrivò la telefonata del dottor Francesco Fornaciari, anatomopatologo. Finalmente. Me l’avevano descritto come “brillante professore”, ma anche pigro e strafottente. Vizi molto diffusi tra chi passa le giornate tra i cadaveri e alla fine, per non sentirsi isolato dal mondo, vede e descrive il mondo con addosso i panni del Dio della vita e della morte.
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Era un uomo noioso, a cominciare da quel timbro di voce a trombetta, da occhialini sul naso e fogli per appunti intonsi davanti a sé; immancabile la Montblanc col pennino d’oro. «Avvelenamento da inalazione di gas tossico?», cominciò, «ed essendo il gas in questione di uso domestico, il decesso sarebbe dovuto avvenire per saturazione dell’emoglobina ovverossia per mancato trasporto di ossigeno… fin qui tutto chiaro, colonnello Stauder?». «Ne abbiamo già parlato», risposi, «ed è proprio quel ‘sarebbe dovuto’ che dovrebbe spiegarmi, dottore… il condizionale è la
mia passione. Le accennai alla possibilità che il cadavere fosse stato trasportato. Dunque?». Quello non era affatto stupido. Forse voleva trascinare la conversazione per avere l’impressione che l’universo sul quale stavamo gettando lo sguardo si muovesse secondo regole da lui scritte. Riferire certe cose in pochi minuti gli sarebbe sembrato sbrigativo, perfino volgare, di sicuro diminuente. «Trasportato… lei l’ha detto… bravo, bravo… quanto prese all’esame di medicina legale? Scherzi a parte… sì, ci sono delle macchie ipostatiche. Lei sa che cosa sono?». Che fatica. «A quell’esame», dissi, «non credo di aver preso trenta e lode. Prosegua lei, professore». «E va bene, facciamo una ripassatina. Dunque: il cadavere, appunto perché è tale, non ha più idrostasi, ossia l’effetto pompa del cuore. Chiaro, fin qui?». «Chiarissimo». «Succede quindi che i liquidi corporali tendono a migrare verso le regioni declivi. Detto in altre parole, il sangue si raccoglie in grandi sacche tra la fascia muscolare e la pelle. Questo accade di solito». «Lei ha detto “di solito”. Quando cominciano a verificarsi queste macchie ipostatiche?». Pareva più allegro il pedantissimo docente ora che alzavo la manina e chiedevo
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chiarimenti al luminare della morte. «Buona domanda. Qualche ora dopo la morte. E si protraggono per ventiquattro ore. Diciamo che, grosso modo, dopo la sesta ora la macchia è irreversibile, anche sotto la pressione delle dita». «E lei ha rilevato spostamenti del cadavere… giusto?». «Ah, ah…». Ma che faceva? Gli piaceva così tanto calarsi nei panni dell’universitario che sapeva tutto? Semplicemente giocava, come faceva con molti e come molti mi avevano riferito.
Secondo certe vaghe e incontrollabili voci, il professore ebbe tempo prima problemi con la commissione universitaria, i suoi colleghi e con quel magma rumoroso che sono i pettegolezzi. Venne scoperto a tenere una curiosa lezione nella sala anatomica, a un’ora insolita. Era assieme a una studentessa, diligente e bella. Nessuno potè davvero scommettere dieci euro su che cosa stessero facendo. Nemmeno un impiegato che, avendo smarrito la bussola dei turni e degli orari, s’affacciò nell’aula e probabilmente vide ciò che avrebbe voluto immaginare. Lo strascico di un quasiscandalo spesso ha effetti comici. Da quel giorno Fornaciari cominciò a essere chiamato Fornicari.
«Trasportare un corpo morto perché non sia visibile all’esame autoptico implica non far passare più di mezz’ora… ». «Per quale causa organica è morto Alcide Jorio, dottore? E poi un’altra domanda: il cadavere è stato trasportato?» Un altro irritantissimo “ah, ah”, poi mi dettò un’altra parte di appunti, bevendo lentamente dalla fiaschetta della sua scienza: «Trasportare un corpo morto perché non sia visibile all’esame autoptico implica non far passare più di mezz’ora… ». L’esame cui sadicamente mi sottoponeva cominciava a snervarmi: «Alcide Jorio per quale causa organica è morto? Dottore, questa è la prima domanda. La seconda è questa: il cadavere è stato trasportato? Sa, oggi ho degli interrogatori da fare, non ho la fortuna di poter seguire come vorrei le sue lezioni, che sono sempre erudite e minuziose ma, mi deve perdonare, scarseggiano in ciò che qualcuno, certo sbrigativamente, accosta all’intelligenza… ». «A che cosa intende alludere, colonnello?». «Alla sintesi». Accusò il colpo e la sua voce tornò più a trombetta che mai. Le sue corde vocali erano in
stretto legame con lo stato emotivo. Responso: il giornalista, che soffriva di cuore, ha avuto un infarto. Il suo corpo è stato poi trasportato. Dunque il cuore poteva essersi arrestato in qualsiasi angolo dell’appartamento e qualcuno aveva inscenato il suicidio infilandogli la testa nel forno. Non che avessi risolto il caso. Proprio per niente. Anzi, tutto si complicava. Jorio morto aveva impaurito, almeno per una buona mezz’ora, chi era vicino a lui, o a letto con lui o seduto accanto o davanti a lui, che ne sapevo? E poi la stessa misteriosa persona, o un’altra, aveva avuto la pensata del gas. Un rubinetto lasciato aperto per un po’ e poi chiuso, col rischio di rimetterci la vita? Per forza di cose le persone dovevano essere state due: la prima aveva aperto il gas, la seconda l’aveva chiuso. A insaputa di Jorio, che era morto per i fatti suoi. Già: fatti suoi, proprio suoi e
LA PERDUTA GENTE Le mostrai una foto dell’ex moglie e lei scosse immediatamente il capo e sorrise: «Era giovane, non questa… mai vista questa». Dinanzi alla foto di Patrizia ebbe un sussulto: «Esta, esta, seguro! Chi es?». «Se llama Patrizia», mi limitai a dirle
Nelle puntate precedenti
Illustrazione di Michelangelo Pace
naturali, o per fatti che lo riguardavano così da vicino da diventare causa dello choc cardiaco? L’aveva spaventato o minacciato qualcuno?
Ricordai, uscendo dal portone di via Palermo, quel che aveva riferito il teste Giorgio Caracci, vicino di casa: il signor Jorio prendeva sempre l’ascensore e una volta aveva fatto cenno al costato, a significare un affaticamento cardiaco o magari solo una paura. Il suo medico di base non era al corrente, non gli aveva quindi prescritto alcun farmaco. Il cronista forse avvertiva un’aritmia, chissà, ma non s’era fatto consigliare una visita specialistica. Probabilmente per evitare di dire che assumeva cocaina. Se l’assumeva. Morto per eccesso di polvere bianca? No, l’anatomopatologo l’aveva escluso. Droga come causa indiretta, allora? Probabile. «Un homme comme un autre»: ecco che mi ricordai la frase del suo collega Bruno Rimi che si riferiva al suo amico, alla sua vita malinconica e per nulla straordinaria, zeppa di molti errori e di alcuni meriti. Una vita come ce ne sono a milioni. In caserma mi aspettava Consuelo: una donna dagli occhi molto belli, circa trentacinque anni ma coi sudamericani non si sa mai, si
sbaglia sempre, peccato che non avesse fianchi.Timida all’inizio, poi no, anzi quasi cordiale una volta compreso che noi le eravamo grati per le informazioni e non la mettevamo al centro delle nostre investigazioni. «Che tipo di ragazza ha visto nell’appartamento di Jorio? E una sola volta o… ». Non mi rispose subito, aveva bisogno di qualche minuto per essere esatta, diligente con le autorità che non erano del suo paese, l’Equador. «Ha tutto il tempo per pensarci, signora Consuelo», la rassicurai. «Gracias, senor!». Le feci portare un caffè della macchinetta che c’è in qualsiasi corridoio di un edificio statale. Alla fine, davanti a me che mostravo di avere tutto il tempo di questo mondo a mia disposizione, Consuelo descrisse la nina. Spiegò di non aver avuto l’impressione che tra i due ci fosse «una qualche intimità… insomma, usted ha comprendido… ». Anche se in quell’occasione - era tarda mattina - lei andò in cucina a rigovernare o comunque si allontanò per non infastidire il doctore. Frasi sentite? Una sicura: «Devi smetterla… morirai, e io con te». Un riferimento alla vita che conduceva? «Insomma, senora Consuelo, le sembrava fosse una puta? «No, no», scosse il capo più volte, stupita for-
se della nostra malignità, del nostro frugare tra i mozziconi di parole e di esistenze. Ma allora “smettere” che significava, secondo lei? Tutto e niente: più o meno fu questa la risposta, nella sua lingua mischiata.
Chi andò via prima? Lei o la nina? Se ne andò la ragazza. Poi Consuelo descrisse la scena successiva: Alcide Jorio seduto sulla sua poltrona, con una mano sulla fronte, preoccupato o addolorato, immobile. Passarono alcuni minuti che a lei parvero interminabili. L’incontro lo aveva impensierito. Perlomeno alla ragazza delle pulizie sembrava che non avesse avuto una cattiva notizia, inaspettata, ma che la cosa, qualsiasi cosa fosse, si trascinasse da tempo. Ben dotata di spirito di osservazione l’equadoregna. «Indumenti femminili per casa?». Non capì “indumenti”, allora mi spiegai meglio. «No, no», disse perentoria, con un tono da guardiana della vita segregata del suo datore di lavoro, della sua moralità ma anche della sua sconfinata solitudine. Le mostrai una foto dell’ex moglie e lei scosse immediatamente il capo e sorrise: «Era giovane, non questa… mai vista questa». Dinanzi alla foto di Patrizia Jorio quasi ebbe un sussulto: «Esta, esta, se-
Stauder insiste, ma dei documenti di Jorio, Jole non sa nulla. Poi il colonnello riceve una telefonata indignata da Ernesto Corradi, il giornalista dell’“Universo”. Il suo appartamento è stato rovistato da cima a fondo, ma Stauder esclude ogni responsabilità. Il brigadiere Pizzi chiama il colonnello e gli dà una buona notizia: ha rintracciato Consuelo, la domestica di Alcide Jorio. Dice di aver visto in casa del giornalista, una donna molto giovane.
guro! Chi es?». «Se llama Patrizia» mi limitai a dirle, senza specificare che si trattava della figlia. Ma lei fu più svelta: «Ma es la figlia del doctore?». «Gliel’ha detto lui?» «Certo che no… jo penso… parlava così poco. Era… un hombre triste, jo creo que teniva demasiadas preocupaciones». Una volta che lei aprì la porta - ovviamente lui le aveva fornito le chiavi di casa - lo trovò addormentato «como un nino» sul divano, completamente vestito. Le sembrò che si vergognasse un poco, tanto è vero che lui si sentì in dovere di spiegarle che s’era «addormentato d’un botto», ma lei aveva capito che era rimasto lì dalla notte precedente. D’altronde il letto era intatto.
Jorio aveva detto a Consuelo di avere una figlia, ma non le aveva mai fatto vedere una sua foto. E lei non aveva mai frugato nei cassetti - ma c’era da esserne sicuri? - dove effettivamente una foto di Patrizia c’era, anche se risalente a molti anni prima. E quella famosa mattina della porta socchiusa e del dottor Jorio con la testa nel forno? Che spavento, disse, che spavento. Ebbe un grande susto, passando all’ispanico. La sua prima reazione fu quella di suonare alla porta del vicino di casa. Ma
non ebbe fortuna, non c’era nessuno in quella casa, allora si ricordò del numero della polizia e lo fece. Il resto era noto. Tornai sulla visita di Patrizia. Le chiesi se le fosse sembrata nervosa, alterata, abbattuta o che altro. «Sudata», rispose. La durata dell’incontro: Consuelo disse un quarto d’ora al massimo. La nina se n’era andata con una faccia che lei non aveva potuto valutare, la faccia di lui sì, e che tristezza, che scoramento. Nessuno dei due aveva alzato la voce, ma quella frase, «smettila… morirai, e io con te» l’aveva captata ed era stata causa di «susto grande». Tutto qui? Sì: alle sue orecchie erano arrivati solo bisbiglii. Sicuramente non volevano farsi sentire. Il tono delle voci non era “normale”: così mi fece capire Consuelo. Segreti, piccoli o grandi che fossero, ma drammatici vista la parola “morire”, sui quali la donna delle pulizie s’era indubbiamente interrogata, ma poi aveva lasciato perdere. Almeno fino al giorno del ritrovamento del cadavere. Però alla polizia non aveva riferito nulla, «jo creo che non c’è stato el tiempo»: in pratica voleva dire che l’avevano ignorata, con lei, la serva testimone occasionale, non s’erano proprio affaticati. Per nulla reticente lei, semmai maldestri loro, o indifferenti davanti a un uomo che s’era tolto di mezzo senza far scoppiare il palazzo e scomodare i vigili del fuoco, danneggiare gli appartamenti sopra e sotto, ammaccare le auto parcheggiate, e poi un titoletto nelle pagine cittadine. Ma i dubbi, quelli sì, erano subito affiorati. Poi la telefonata della sorella di Jorio al comando Carabinieri di Roma, infine la telefonata del colonnello Mantelli mentre curiosavo tra libri sulla bancarella di viale Parioli. Esumazione di un caso, dovuta solo a certe influenze e pressioni ministeriali. Con il mio viaggio a Milano la riscoperta di uno scandalo finanziario-malavitoso, con scalata alle azioni di un gruppo editoriale. E così via. Consuelo se ne andò inorgoglita del trattamento che le avevamo riservato, del premuroso caffè, del suo ruolo in una vicenda successa nel Paese che la ospitava, che le dava un lavoro e che le dava credito come persona informata e attendibile.
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DIAMO I NUMERI ette, nove, otto? Quanti sono i pianeti del nostro sistema solare? Sui sussidiari scolastici abbiamo studiato che sono nove: dal Sole verso l’esterno, Mercurio, Venere,Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno e Plutone. La tradizione antica parlava di sette, ben diversi dai nostri, tanto che ad essi si richiamano i giorni della settimana: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno. Oggi, da pochissimi anni, sappiamo che gli astronomi hanno deciso che sono otto, almeno per ora. È Plutone quello che ha perso il po-
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sto, e non dobbiamo più citarlo fra i pianeti. L’espulsione deriva dalla definizione di pianeta che, sembra strano a dirsi, è stata adottata dall’Unione Astronomica Internazionale solo nel 2006: un pianeta è un corpo celeste che orbita attorno a una stella (ma che non produce energia tramite fusione nucleare, ovvero non è esso stesso una stella), la cui massa è sufficiente a conferirgli una forma sferoidale e la cui dominanza gravitazionale gli permette di mantenere libera la propria fascia orbitale da altri corpi di dimensioni comparabili o superiori.
Ripercorriamo la storia con ordine. Nell’antichità venivano considerati tali tutti gli astri che si spostavano nel cielo notturno rispetto allo sfondo delle stelle fisse, quindi anche la Luna e il Sole, insieme a Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. In pratica si considerava pianeta qualunque corpo celeste, dotato di massa significativa, che si muovesse su orbite fisse. La stessa Terra invece non era considerata un pianeta, ed era considerata al centro del cosmo, da cui il sistema geocentrico. È a questo sistema che si è fatto riferimento per secoli, compresi tra gli altri Aristotele, San Tommaso, Dante con i suoi cieli, Lorenzo il Magnifico che ai sette pianeti dedica uno dei Canti Carnascialeschi. Nel sistema tradizionale indiano (diverso ovviamente da
Pianeti proibiti Abbiamo studiato che sono nove: dal Sole, verso l’esterno, Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno e Plutone. Ma quest’ultimo è stato di recente espulso dalla “rosa ufficiale”: scopriamo perché...
Oltre alle stelle, intorno ai corpi celesti gravitano molte dispute di Osvaldo Baldacci quello astronomico che fa ormai dell’India una potenza spaziale all’avanguardia) i pianeti sono ancora questi sette, mentre in Cina i cinque pianeti del gruppo (quindi senza luna e sole) sono identificati con i cinque elementi. Come è noto, la
Per secoli, tutto è ruotato intorno al sistema geocentrico. Ed è a questo modello che si è fatto riferimento, compresi tra gli altri Aristotele, San Tommaso, Dante e Lorenzo il Magnifico svolta avvenne col passaggio al sistema eliocentrico, consacrata nel 1543 dall’opera De Revolutionibus Orbium Coelestium di Nicolò Copernico. La Terra viene considerata un pianeta che ruota come gli altri pianeti
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attorno al Sole. La Luna, che come il Sole non condivide la natura fisica né le caratteristiche orbitali degli altri corpi celesti, non viene più considerata un pianeta ma un satellite naturale della Terra e l’unico oggetto celeste del sistema solare che non ruota intorno al Sole. In questo sistema quindi i pianeti sono sei, considerati a seconda della distanza del Sole e classificati secondo questo ordine: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove e Saturno. Nel 1781 venne scoperto dall’astronomo inglese William Herschel il primo pianeta che non era noto agli astronomi antichi, Urano. La comunità degli astronomi decise di continuare la tradizione di chiamare i pianeti con i nomi degli dei romani. Nel 1846 Urbain Le Verrier individuò Nettuno. Si potrebbe dire che a quel punto i pianeti erano quelli giusti, otto come oggi, ma in realtà non è così. Perché prima della scoperta del recentemente retrocesso Plutone c’erano altri corpi celesti che erano considerati pianeti. A partire dal 1801, infatti, ven-
nero progressivamente scoperti oltre centomila corpi di dimensioni subplanetarie orbitanti attorno al Sole; sebbene in un primo tempo designati come pianeti, questi corpi, in virtù del loro numero sempre crescente, vennero presto definiti come una classe di oggetti a sé, gli asteroidi. In particolare i primi quattro asteroidi scoperti - Cerere, Pallade, Giunone e Vesta - furono in effetti considerati dei pianeti veri e propri per circa quarant’anni, tanto che Nettuno dal 1846 al 1851 fu considerato il tredicesimo pianeta. Il primo a suggerire di distinguerli dai pianeti fu William Herschel, che propose il termine “asteroide”, ovvero “di aspetto stellare”, riferendosi al fatto che sono oggetti troppo piccoli perché possa essere risolto il loro disco e, di conseguenza, osservati con un telescopio appaiono come le stelle. La maggior parte degli astronomi, comunque, preferì continuare a utilizzare il termine pianeta almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando il numero degli asteroidi conosciuti su-
però le cento unità. Allora, diversi osservatori in Europa e negli Stati Uniti iniziarono a riferirsi loro collettivamente come a “pianeti minori” (James L Hilton, When did asteroids become minor planets?).
Nel 1930, scoperto da Clyde Tombaugh, arrivò il turno di Plutone, che prima ancora di essere visto era stato individuato nel 1915 da Percival Lowell in base a calcoli matematici. La “gloria planetaria”di Plutone però è durata meno di un secolo, giusto il tempo di segnare qualche generazione di studenti, dal 1930 al
2006. Quattro anni fa, come dicevamo, venne declassato a pianeta nano, una categoria, bisogna però chiarire, che non è un sottogruppo dei pianeti, ma un insieme a sé. A Plutone è stata fatale la scoperta di moltissimi planetoidi ghiacciati orbitanti nelle regioni periferiche del sistema solare esterno, dalle dimensioni confrontabili o addirittura superiori a quelle del più piccolo degli allora nove pianeti, peraltro incapace di soddisfare pienamente alcune delle condizioni della nuova definizione ufficiale di pianeta, specie la capacità di sgombrare la propria fascia orbitale da altri corpi “concorrenti”. I pianeti nani sono oggetti celesti orbitanti attorno a una stella e caratterizzati da una massa sufficiente a conferire loro una forma sferoidale, ma che non sono stati in grado di “ripulire” la propria fascia orbitale da altri oggetti di dimensioni confrontabili. Nonostante il nome, un pianeta nano non è necessariamente più piccolo di un pianeta. I pianeti nani riconosciuti dall’Unione Astronomica Internazionale sono 5: con Plutone, Cerere (scoperto nel 1801), Eris, Haumea e Makemake (scoperti tra il 2003 e il 2005). Quindi i pianeti del sistema solare non sono più nove, come si diceva un pugno di anni fa, ma otto, cui semmai si devono aggiungere i cinque pianeti nani, che però sono una categoria a parte del tutto diversa. E infatti non si aggiungono i satelliti, gli asteroidi e le comete.
I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ ui fregi dei templi, nelle decorazioni dei vasi, sui bassorilievi delle tombe, i Greci fanno spesso apparire figure di donne guerriere che sfidano gli eroi: sono le Amazzoni. Gli scultori le hanno rappresentate vestite alla greca, con una corta tunica che lascia scoperta una mammella. I vasai, invece, le raffiguravano con i pantaloni, la lunga veste scita e il capo ornato da un berretto frigio. Sono armate con l’arco scita e lo scudo a forma di mezzaluna; brandiscono asce e indossano calzature a punta.
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Secondo gli storici antichi, le Amazzoni formavano un tipo di società da cui gli uomini erano esclusi. Avrebbero fondato un regno sulle rive del Termodonte, in Asia Minore. Avide di avventure e di battaglie, sarebbero penetrate nell’Anatolia occidentale per scontrarsi probabilmente con i Frigi, alleati di Priamo, il famoso re dei Troiani. Avrebbero poi affrontato gli eroi greci dell’epoca achea: Eracle, che si sarebbe impadronito della cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni; Teseo, che rapì Antiope; Achille, che dopo aver ferito a morte Protesilea, si innamorò della sua bellezza. Le Amazzoni sarebbero vissute durante l’epoca achea, cioé nel XIII secolo avanti Cristo. In piena età del bronzo, quando il ferro era già conosciuto ma in genere non ancora usato, queste donne guerriere sarebbero state le sole a possedere armi di ferro. In Asia Minore, nella stessa regione in cui i Greci situavano le Amazzoni, esisteva un altro popolo in grado di usare il ferro per le armi e che possedeva asce simili a quelle delle mitiche guerriere: il popolo degli Ittiti. Nel XIII secolo avanti Cristo gli Ittiti erano ormai prossimi alla scomparsa. Può essere successo che, essendo il Paese aggredito da tutte le parti, gli uomini siano stati chiamati alla difesa delle terre dell’Est per far fronte agli Assiri e ai barbari frigi, mentre le donne abbiano preso le armi per difendere le frontiere dell’Ovest. La leggenda delle Amazzoni potrebbe aver avuto origine da questi avvenimenti storici. Di stirpe indoeuropea, il popolo ittita aveva abbandonato le rive settentrionali del Mar Nero e si era insediato in Anatolia. Fondò un impero potente, che dovette misurarsi con i grandi Stati di allora, Egitto, Babilonia, Assiria, sui quali fu spesso vittorioso. Gli archeologi ritrovarono tracce degli Ittiti soltanto alla fine del secolo scorso, e solo nel 1905 archeologi tedeschi cominciarono a esplorare le alture a strapiombo sul villaggio turco di Boghazoy, nell’Anatolia centrale, dove si ergeva la capitale dell’impero ittita: Hattusa. Gli Ittiti avevano creato una città che
HATTUSA
Viaggio in Anatolia alla scoperta dell’antica capitale di re Hattusili I
Alle origini dell’impero ittita di Rossella Fabiani
La pietra era usata soltanto per la costruzione dei santuari, dato che i vincitori li risparmiavano sempre per il timore della tremenda vendetta degli dei. Cinque santuari sono stati riportati alla luce nella città.Tutti si presentano con una identica struttura di base: una corte centrale di forma rettangolare, attorno a cui si sviluppano diverse sale, una delle quali conserva la statua della divinità. Il santuario più importante era consacrato alle due grandi divinità dell’impero: il dio del tempo, simboleggiato da un toro, e la dea sole, di Arinna, patrona del re e dell’impero (Arinna è il nome di una città preittita). Nel più grande di questi templi, che forse era servito da palazzo reale, erano conservati gli archivi della città e dell’impero: codici di leggi, trattati diplomatici, corrispondenza reale, testi religiosi e letterari. Il re governava con un consiglio di anziani e di notabili: il pankus, che disponeva del potere giudiziario e aveva la facoltà di censurare gli ordini del re. Anche la
Il santuario più importante era consacrato alle due grandi divinità dell’impero: il dio del tempo (un toro) e la dea sole regina partecipava attivamente al governo. La donna del resto esercitava nella società ittita un ruolo fondamentale. I sudditi del re si dividevano in due classi: gli uomini liberi e gli schiavi. I primi erano organizzati secondo una gerarchia al cui vertice si trovavano i preti e i nobili. Gli schiavi erano vincolati alla terra; quando questa era venduta, gli schiavi diventavano proprietà dell’acquirente.
voleva essere l’immagine della loro potenza. L’avevano fondata in una specie di immenso cerchio disseminato di piccole colline, sulla più alta delle quali si innalzava la cittadella. Per proteggerla, avevano costruito sei chilometri di fortificazioni sulle alture: ne restano soltanto le tracce, ma queste stupiscono ancora oggi. Le mura erano formate da blocchi ciclopici di pietra messi uno sull’altro e da grosse torri quadrate con porte dagli stipiti enormi, scolpiti con teste di leone e di divinità protettrici. Riparata da queste for-
In Asia Minore, laddove i Greci situavano le Amazzoni, esisteva un altro popolo guerriero che usava armi di ferro midabili mura, la città si estendeva tra curatissimi giardini. A differenza di quanto si vede oggi nei villaggi sulle rive del mare Egeo, le case di Hattusa non erano tutte addossate l’una sull’altra, ma avevano tra loro lo spazio per un giardino, dove crescevano persino ortaggi e
alberi da frutta. Le case erano costruite in mattoni oppure in terra, poi venivano imbiancate a calce o intonacate. Erano rifugi precari, ma facilmente ricostruibili: anche perché bisogna considerare che quella popolazione viveva in un Paese dove i terremoti sono frequenti.
Avevano però il diritto di possedere un po’ di terra con qualche bene mobile e poi, con il matrimonio, erano tutelati da uno statuto, in virtù del quale i loro padroni non potevano né separarli dalla famiglia né impadronirsi dei loro beni. Molti di loro erano prigionieri provenienti da città cadute in mano all’esercito ittita. Nobili o contadini, padroni o schiavi, tutti avevano un’abitazione. La casa ittita era formata da varie stanze illuminate da alte finestre. Spesso a un piano, aveva sempre un tetto a terrazza, al quale si accedeva con un scala di legno fissa oppure mobile. E nelle caldi notti d’estate, come ancora oggi accade normalmente in tutto l’Oriente, venivano portate sulle terrazze stuoie e tappeti per dormire.
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CINEMA CALDO
LA LUNGA ESTATE CALDA DDII MARTIN RITT
Tutte le stelle di Martin di Alessandro Boschi Se poi si osservano con attenzione le scene con i due protagonisti appare subito chiaro che tra i due le cose non potevano andare che in un modo. I due hanno rappresentato la coppia perfetta di Hollywood, perfetta ed eterna, fino alla morte di lui avvenuta nel 2008. La leggenda addirittura narra che ancora prima che tra i due scoccasse la scintilla fu proprio quel marpione di Orson Wells a fomentare delle chiacchiere, con lo scopo di appiccare il fuoco tra i due. Nel film invece, l’unico che appicca le fiamme è il figlio, che come in ogni drammone che si rispetti implora un po’ di attenzione dal padre. Per questo cerca di farlo alla brace. Il progetto fallirà e nel finale allo zucchero filato verrà perdonato dal padre che, magari proprio in virtù di questa sua magnanimità vedrà realizzato il progetto che aveva architettato: Ben e Clara si sposeranno.
rson Welles all’epoca delle riprese de La lunga estate calda aveva appena 42 anni ma era perfettamente in grado di recitare il ruolo dell’energico patriarca di casa Varner. Che Welles fosse un genio lo si era capito da quando, non ancora trentenne, ci aveva regalato quel capolavoro di Quarto potere. Che avesse un impatto straordinario su qualunque film apparisse era chiaro dal 1949, anno de Il terzo uomo di Carol Reed. La sua interpretazione del misterioso Lime è ancora ai primissimi posti in quella speciale classifica dell’“arrivo io e ti rivolto il film”. Quando, illuminato fugacemente per pochi istanti, dopo oltre un’ora di storia appare sull’androne di un palazzo, si capisce subito che non c’è gatto né Joseph Cotten che tenga: il film ha trovato il suo padrone, il suo signore assoluto.
O
Per questo non stupisce più di tanto che la sua prova nel film di Martin Ritt sia quella più convincente tra quelle di un cast dove davvero è difficile trovare qualcuno al di sotto dell’eccellenza. A partire dal protagonista Paul Newman, gli occhi più belli di Hollywood su nemmeno un metro e settanta di uomo. Oppure Joanne Woodward, la figlia di Varner, Clara. Per non parlare di Anthony Franciosa che si districa in un ruolo complicato come quello del figlio debole e introverso alle prese con un padre autoritario,violento ed arrogante. Per finire con la futura signora in giallo Angela Landsbury, che ha una relazione anagraficamente piuttosto sbilanciata con il patriarca. Tutto questo bendidio sotto la regia di Martin Ritt doveva necessariamente produrre qualcosa di sensazionale. Martin Ritt aveva al suo attivo ancora solo due film, ma dopo questa prova superba fornirà prestazioni sensazionali a ripetizione, come quelle legate a film quali Hud il selvaggio, La spia che venne dal freddo, I cospiratori, Il prestanome (con uno strepitoso Woody Allen) e, tanto per finirla qui, Norma Rae, che il grande Furio Scarpelli ci diceva provocatoriamente essere molto più bello di tutti i film di Stanley Kubrick messi insieme. Dunque, del cast abbia-
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mo detto, del regista anche. Che rimane? Ovvio, soggetto e sceneggiatura. Qui si capisce il successo di Ritt, che sapeva benissimo l’importanza dello scrivere in quanto la sua attività prevedeva anche numerose prove da commediografo. Non a caso il soggetto è di William Faulkner, che in quanto a scrivere non se la cavava proprio male, come testimonia il Premio Nobel per la letteratura vinto nel 1949. Come dire: mi piace vincere facile. Ma anche la sceneggiatura di Irving Ravetech e Harriet Franck Junior funziona alla grande e il film riesce ad attraversare molte fasi emotive senza
Will Varner a un certo punto del film esclama: «La vita mi piace talmente tanto che potrei campare in eterno». In questa frase si condensa molto del significato intrinseco del film. Pronunciata da una persona volgare, perfino brutale come Will, lascia intendere quale sia lo spirito che anima i protagonisti. Lo stesso Jody/ Franciosa, in fondo il personaggio debole della storia ma anche quello più definito in quanto già compiuto, riuscirà a ottenere sebbene in maniera estrema l’affetto del padre così intensamente e morbosamente desiderato. Il film vive sul grande pregiudizio che Ben, figlio di un piromane, sia anch’egli un piromane. Ma proprio sulla porta di casa Varner grazie a Will, il pregiudizio si sgonfia. Non importa che cosa sia stato quell’uomo, quel che conta è che è un uomo di valore, l’unico in grado di raccogliere la pesante eredità del capofamiglia. E anche la figlia dovrà ricredersi. Abituata a pretendere sempre il meglio si incaglia in una infatuazione che migliore lo è solo dal punto di vista formale. Il vicino di casa del quale è invaghita è tanto elegante profumato e ambiguo (un po’ gay?), quanto Quick è muscolare, sudato e determinato. A casa Varner manca forza, sostanza, e Will è l’unico che ha capito che questa può essere prodotta solo dall’innesto di Quick. La vicenda incentrata sul personaggio incarnato da un Paul Newman in stato di grazia rappresenta in fondo un esempio concreto di democrazia sociale applicata. Da una parte un’America che sta scomparendo, energica e che non ha paura di sporcarsi le mani rappresentata da papà Varner, dall’altra la faccia magari poco raccomandabile ma energica e disincantata di Quick. Che magari è accompagnato da una brutta fama, ma al tempo stesso è l’unica vitamina in grado di compensare le carenze pratiche di una generazione che si è ritrovata ricca quasi per diritto divino.
Orson Welles offre la prova più convincente tra quelle di un cast in cui è davvero difficile trovare qualcuno al di sotto dell’eccellenza. A partire da Paul Newman, gli occhi più belli di Hollywood mai “sedersi”. La storia nasce in piena ambiguità, e il regista non fa nulla per aiutarci a capire se Ben Quick sia davvero un piromane o se è solo la fama che lo precede a condizionarne il giudizio. Fama che non impedisce al vecchio Varner di intuirne le potenzialità in fondo quel mezzo farabutto faccia da schiaffi non è così diverso da lui. Anzi, sarebbe il marito ideale per la figlia Clara. La quale ovviamente non ne vuole sapere, almeno all’inizio. Salvo poi sposarlo nella vita e nella finzione. La Woodward e Newman si conobbero proprio sul set de La lunga estate calda.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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Lecce: Provincia mortificata Utilizzata per sistemare “pendenze” Il monito del cardinale Bagnasco, piuttosto che essere oggetto di reazioni politiche scomposte, dovrebbe far riflettere. Il disgusto dei cittadini nei confronti di una classe politica che litiga su tutto è reale, come è vero che un Paese maturo non può continuare con uomini che hanno scelto la politica per «sistemare se stessi e le proprie pendenze». L’esempio ci viene da quella Provincia di Lecce, utilizzata per sistemare una serie di pendenze aperte in campagna elettorale e in altri palazzi della città capoluogo, sotto una regia poco sapiente e poco rispettosa dei cittadini. È evidente che le scelte di Luigi Pepe alla guida di Stp e quella di Damiano D’Autilia alla società Alba Service, poco hanno a che fare con le professionalità e le competenze professionali dei due esponenti politici. Non riusciamo a comprendere quali siano le competenze del presidente dell’Ordine dei Medici in tema di trasporti. Non riusciamo a comprendere come un professionista che dovrebbe sovrintendere agli interessi della sua categoria possa occuparsi dei problemi e della gestione del trasporto pubblico in provincia di Lecce. Il “sottosviluppo morale” di cui parlano Bagnasco e la Salvatore Ruggieri Chiesa è sotto gli occhi di tutti.
ANCHE I GIOVANI SIANO PROTAGONISTI DI UNA SVOLTA SOCIO-CULTURALE Le parole del procuratore distrettuale Antimafia di Bari Antonio Laudati sono assolutamente condivisibili e apprezzabili. L’Udc è costantemente impegnato su tutto il territorio nazionale a educare al buon senso in politica e nella società civile e nel formare i giovani affinché si mobilitino in quella che comunemente viene definita “cittadinanza attiva”, contro la pigrizia culturale e il lassismo socio-politico. Laudati ha spronato le istituzioni, i commercianti, i giovani a costruire una legalità organizzata contro la criminalità organizzata. In questo certosino, quotidiano e instancabile lavoro di costruzione di una legalità efficace e diffusa, noi giovani dobbiamo essere fondamentali protagonisti e non meri spettatori: è da noi che può partire una dolce rivoluzione culturale in grado di cambiare il Paese, di estirpare quegli orrendi tumori socio-culturali che ancora affliggono diverse realtà del nostro territorio nazionale.
Sergio Adamo
SCIOPERO TIRRENIA. SINDACATO IRRESPONSABILE. La Uiltrasporti ha convocato per i prossimi 30 e 31 agosto uno sciopero su tutta la flotta Tirrenia. I motivi sono la non-apertura di un confronto col governo nel pro-
cesso di privatizzazione, per ora al palo, e che dovrebbe concludersi entro il 30 settembre. Ricordando che la situazione della Tirrenia non potrà che degenerare, proprio per come è stato finora messo in atto il cosiddetto processo di privatizzazione (dove allo Stato si sostituiscono le partecipate), non ci interessa entrare del merito dei motivi dello sciopero. Prendiamo invece atto che viene convocato per il 30 e 31 agosto: quando tutte le navi saranno stracolme di turisti (isolani e no) che tornano a casa e che hanno date precise in cui devono riprendere la propria attività lavorativa. Non solo, ma con un’alternativa, nei giorni precedenti e successivi allo sciopero, che non esiste perché le navi sono già strapiene da un pezzo (altrettanto per gli aerei per chi optasse per questo mezzo, magari lasciando l’auto sull’isola per prenderla in un secondo momento con ulteriore aggravio di costi). È evidente che il sindacato che proclama un simile sciopero è irresponsabile: perché più che danno alla propria controparte arrecherà danno agli utenti del servizio, con un allarme generale che potrebbe essere gestito con difficoltà da parte delle forze dell’ordine. Se l’obiettivo della Uiltrasporti è richiamare l’attenzione sul proprio problema, sicuramente ci riuscirà... in negativo! Il metodo di considerare gli utenti carne da
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Genitori iperprotettivi denunciano HARTFORD. Per chi è convinto che i genitori di oggi siano eccessivamente protettivi nei confronti dei figli, la storia di Vinicios Robacher, 16enne del Connecticut, può essere un’ulteriore conferma della propria idea. Vinicios infatti si era addormentato durante la lezione di matematica, e la professoressa di matematica, appunto, per svegliarlo, ha battuto il palmo della mano sul banco. I genitori di Vinicios hanno pensato bene di denunciare l’insegnante perché, con il suo gesto, avrebbe danneggiato l’udito del ragazzo: avrebbe sbattuto la mano talmente forte che si sarebbe rotto un timpano. Non è però al momento disponibile un’analisi approfondita della condizione del ragazzo. I Robacher non hanno direttamente commentato il fatto, rimandando tutto al loro avvocato che, secondo fonti giornalistiche, riceverà un terzo dell’eventuale risarcimento concesso dal giudice. Comunque si concluda la causa, certo è che la denuncia ha coperto di ridicolo Vinicios nei confronti dei compagni di scuola, di cui è diventato lo zimbello, e infatti i genitori starebbero pensando di cambiare istituto per dare maggiore serenità al ragazzo.
macello, strumenti inconsapevoli delle proprie politiche, è perdente. I migliori alleati dei lavoratori sono i cittadini utenti. Il metodo alternativo c’è, creando danno solo alla propria controparte: far viaggiare gratis tutti in quei due giorni e rimborsare chi ha già pagato il biglietto.
Vincenzo Donvito
A KIEV, CANI RANDAGI CREMATI IN VISTA DEGLI EUROPEI DI CALCIO Fa discutere e inorridire la macabra iniziativa adottata da Kiev, dove le autorità hanno deciso di “ripulire”le strade dai cani randagi in vista degli europei di calcio del 2012 che si giocheranno in Polonia e Ucraina. I cani verranno cremati all’istante in forni crematori mobili dopo essere stati avvelenati con un veleno per topi. Contro l’aberrante decisione, che sta sollevando molte polemiche, sono insorti associazioni e animalisti che hanno inviato richiesta di spiegazioni al comune di Kiev, ma l’amministrazione si è fino ad ora trincerata dietro un no comment. È ora che lo sport si ponga in netto contrasto con le posizioni eticamente inaccettabili dei Paesi ospiti. Chiediamo che l’Uefa, l’organo amministrativo, organizzativo e di controllo del calcio europeo intervenga eliminando l’Ucraina dai Paesi ospiti dell’evento.
Valentina Coppola
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 18278817
e di cronach
LE VERITÀ NASCOSTE
FORMAZIONI IMPROPRIE
Diritto e rovescio Se in foto possiamo ammirarne solamente lo spettacolare “profilo”, dal vivo la cascata di Seljalandsfoss, nell’Islanda del sud, mostra anche un altro lato. Dietro a questo muro d’acqua, c’è un sentierino che permette di passare alle spalle delle rapide, e osservarle da un’altra prospettiva
L’opposizione ingaggia fatti impropri per assumersi delle aspettative e delle configurazioni che non solo sono errate, ma sono tipiche della mentalità di “grande ammucchiata”. Così crede che Futuro e Libertà sia una sua costola per mandare a casa Berlusconi, come ha sentenziato in maniera indecorosa Bersani.
Br
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mondo
Rete. Mountain View offre la possibilità di effettuare chiamate vocali via Internet attraverso il protocollo “Voice Over Ip”
Google: assalto a Skype
Telefonate (a poco prezzo) sul servizio di posta Gmail. Pronti a lanciare la sfida finale a Microsoft con il sistema operativo basato su Chrome di Alessandro D’Amato la sfida finale a Skype? Dopo le indiscrezioni che si rincorrevano in questi mesi, è finalmente arrivata la possibilità di fare chiamate telefoniche con Gmail, il servizio mail di Google che già due anni fa aveva lanciato la videochiamata in chat. L’annuncio ufficiale è arrivato con un post sul blog di Gmail, che i tecnici di Google usano per annunciare le novità.
È
«Dato che la maggior parte di noi non trascorre tutto il giorno davanti al nostro computer, abbiamo pensato, non sarebbe bello se si potesse chiamare le persone direttamente sul loro telefono? A partire da oggi, è possibile chiamare qualsiasi telefono da Gmail», annuncia lo staff. La chiamata verso gli Stati Uniti e il Canada sarà gratuita almeno per il resto dell’anno e le chiamate verso altri paesi saranno conteggiati a prezzi che da Google giurano essere molto bassi tassi. «Abbiamo lavorato sodo per rendere queste tariffe molto convenienti con le chiamate verso il Regno Unito, Francia, Germania, Cina, Giappone e molti altri paesi, per soli 0,02 dollari al minuto», dicono, e a sorpresa nella tabella comparativa mettono a confronto i loro prezzi con quelli di Skype, chiamato però anonimamente “Leading internet provider”: gratuite, come detto le chiamate negli Stati Uniti e in Canada, chiamare l’India costerà sei centesimi al minuto contro i nove dei competitor, diciotto centesimi
un telefonino inglese contro i 25 degli altri, e poco meno chiamare i fissi in Francia e Gran Bretagna. In Italia i prezzi saranno molto competitivi: si potrà chiamare con due centesimi un telefono fisso e con 30 un mobile, per le varie H3G, Tim, Vodafone e Tre la chiamata sarà addebitata a 21 centesimi. La composizione del numero di telefono, già disponibile per tutti gli utenti Gmail, anche fuori dagli Usa, funziona come un normale telefono. Basta fare clic su ”telefonata” in cima alla lista di chat e comporre un numero o immettere il nome di un con-
tivo nei confronti di Skype - si commenta su Punto Informatico, quotidiano di tecnologia via web italiano - Almeno stando al parere di alcuni osservatori, che hanno visto l’annuncio in termini di arricchimento dell’esperienza degli utenti iscritti al servizio di posta elettronica Gmail. Poter effettuare chiamate all’interno del servizio garantirà una permanenza più lunga all’interno dell’hub. Pare dunque arrivare ad un punto nodale la strategia messa in piedi da Google a partire dalle acquisizioni di Gizmo5 (nel novembre del 2009) e di Global IP Solutions, società di San Francisco che
A Colonia, giorni fa, è stato annunciato il progetto di Chrome Web Store, negozio digitale pensato per fare concorrenza all’App Store di Apple tatto. La chiamata telefonica Gmail usa il proprio numero Google Voice come identificativo, offrendo anche la possibilità di ricevere le chiamate dirette al numero direttamente sull’applicazione web.
La nuova feature va a integrare Google Voice, servizio che permette di trascrivere in automatico mail vocali e permette all’utente di avere un solo numero telefonico per più apparecchi. Non è ancora chiaro se cambierà qualcosa nel paniere di soluzioni di comunicazione di Big G. Di sicuro, non sarà particolarmente gradito a Skype e a tutte le società che offrono servizi Voip. «Ma non saranno le cifre a garantire alla Grande G un forte vantaggio competi-
forniva le sue tecnologie a Yahoo!, Aol e Samsung». E giusto un paio di giorni fa, Google aveva acquistato acquista Like.com, sito specializzato nella rivendita di abbigliamento, scarpe e accessori tramite un motore di ricerca visuale. L’annuncio è stato dato dal Ceo e cofondatore Munjal Shah nella home page del sito: unirci a Google - si legge - è un modo per allargare la nostra visione e alimentare la nostra passione. Secondo gli esperti l’acquisizione di Like.com è una risposta alla strategia di Bing, il motore di ricerca di Microsoft.
Ma è soprattutto un modo per riuscire ad andare verso l’immagine di azienda-tuttofare, la strategia che pare guidare Mountain View in questo
periodo. A Colonia, qualche giorno fa, Google ha confermato il progetto di Chrome Web Store, negozio digitale analogo all’App Store di Apple, e anche un servizio dedicato ai videogiochi intorno al quale si vocifera già da diverso tempo.
Un progetto che in linea teorica potrebbe diventare un rivale di Facebook, destinazione privilegiata dagli amanti
mondo
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Il 25% della popolazione Usa gioca utilizzando le reti sociali Qui sotto, i fondatori di Google: Larry Page e Sergey Brin. A destra, il creatore di Facebook: Mark Zuckerberg. Nella pagina a fianco, il c.e.o. di Skype: Josh Silverman
Ma la guerra decisiva è sui social network
È l’unico settore della new economy in crescita. Un terreno strategico, soprattutto nei videogames la guerra dei social network. In quest’era di crisi economica, e dopo le devastazioni che ha prodotto lo scoppio della bolla della new economy, la parola d’ordine delle aziende dell’information technology è puntare sui servizi che permettono l’interattività tra gli utenti. E tra questi, sono i social network a farla da padrone. Facebook in testa.
È
dei giochi social. Alcune indiscrezioni vorrebbero il lancio del servizio intitolato Google Games o Google Me entro la fine del 2010; secondo i rumor, inoltre, a breve potrebbero diventare realtà alcune acquisizioni eccellenti e partnership strategiche.
Secondo quanto riportato lo scorso mese da TechCrunch, infine, Google avrebbe investito una somma di denaro compresa tra i 100 e i 200 milioni di dollari in Zynga, sviluppatore e publisher di alcuni dei giochi social di maggior successo quali FarmVille e Mafia Wars. Zynga aveva avuto problemi con Facebook a causa di alcune realizzazioni che Zuckerberg e soci ritenevano non adatte alla filosofia del social network. Per questo Google si è avvicinato al produttore dei giochi di maggior successo su Facebook, immaginando di poter portare avanti una strategia di avvicinamento da far partire in occasione del lancio della piattaforma di giochi. Un’idea non esattamente a sorpresa, ma che ha avuto il merito di riportare Mountain View al centro delle chiacchiere
tecnologiche. Soprattutto dopo l’abbandono di Google Wave. Wave sembrava essere nato sotto la migliore delle stelle, per infrangere la maledizione che sembra colpire Mountain View ogni volta che si avvicina ai servizi di social network: doveva rappresentare un innovativo sistema di comunicazione e condivisione online, in grado di integrare messaggistica in tempo reale, email, wiki, documenti condivisi e social network, e la sua presentazione, nel corso della conferenza del maggio 2009, era stata accolta con entusiasmo. Ma il progetto non è stato baciato dalla fortuna, e gli utenti hanno perso interesse abbastanza rapidamente in quella che sembrava essere l’applicazione definitiva sia per i gruppi di amici che per le aziende.
Dopo il Voip, arriverà il passo definitivo: quello del sistema operativo. Google Chrome Os, una piattaforma sviluppata per i portatili a partire da Android e che ruota tutta intorno al suo browser, che ha cominciato a erodere importanti fette di mercato a Internet Explorer e Firefox, promettendo ancora maggiore velocità e grande affidabilità. Chrome Os non prevede l’installazione di alcuna applicazione. Si tratta di un browser “modificato”per operare da solo e tutti i software di cui ha bisogno sono “in the cloud”, cioè utilizzabili con applicazioni via Internet. Posta elettronica, suite di produttività, strumenti di lavoro e multimedia si appoggeranno a servizi on-line. Così c’è un vantaggio non indifferente: non installando programmi aggiuntivi nel sistema, si riducono drasticamente i rischi di incappare in virus e programmi maligni. Il lancio definitivo si prevede per l’autunno. E sarà la più grossa sfida lanciata al competitor di sempre: Microsoft.
Nonostante il calo nella crescita delle utenze registrato in Gran Bretagna, la creatura di Mark Zuckerberg sembra godere della migliore salute tra le aziende IT.Tanto da lanciare, come ha fatto qualche giorno fa, il servizio di geolocalizzazione che permette agli utenti di far sapere alle loro reti sociali dove si trovano al momento. Un servizio che era già fornito da altra aziende, e Facebook aveva tentato di acquistarne una, Foursquare, ricevendo in cambio un diniego. E allora ecco che ha fatto partire Places, che rischia di mandare a gambe all’aria a breve tutti i piccoli. Ma il vero affare non sono i social in sé, ma il modo in cui gli utenti lo usano. D’altronde, sono ben 56,8 milioni gli americani, ovvero un quarto della popolazione Usa che giocano su Internet utilizzando le reti sociali. I videogiochi “sociali” stanno diventano sempre più popolari, secondo un’indagine della Npd Group. Secondo lo studio, il 35% degli utenti è costituito da nuovi giocatori, che hanno iniziato a cimentarsi nei giochi proprio con i social network. Di questi, sorpresa sorpresa, la maggior parte è rappresentata da donne e da utenti anziani. E sempre a giugno gli utenti internet statunitensi hanno passato più tempo su siti di social network e blog che su qualunque altra attività online, secondo quanto emerge dai dati Nielsen. I giochi, in seconda posizione, si sono conquistati meno di metà del tempo dedicato al social networking. Sul mobile, al contrario, dominano ancora attività più “tradizionali””, come la gestione delle email: sempre secondo Nielsen, se tutto il tempo passato sul mobile internet viene computato in un’ora, alle email“spettano”ben 25 minuti, mentre ai portali, in seconda posizione, vanno solo sette minuti, segui-
ti dai social network con 6 minuti e 18 secondi. È per questo che anche Google sta pensando di lanciare una piattaforma di giochi e social network, e per questo ha stretto accordi con Zynga, la casa produttrice del famosissimo Farmville: la Big G cerca di ritagliarsi una fetta di mercato nella quale storicamente ha avuto molte difficoltà a entrare, ma che ritiene altamente appetibile per la risposta dal punto di vista pubblicitario che può conseguire. I buchi nell’acqua di Google sono stati molti: Friend Connect, il sistema che permette di integrare dei box sociali sulle pagine Web è stato adottato da un certo numero di siti di grandi dimensioni, ma non dal target principale: la piccola editoria online. Wave, la piattaforma di collaborazione in tempo reale rimasta a lungo in beta ad invito è stata poi chiusa per mancanza di iscritti e troppa complessità. Buzz, il servizio sociale legato a Gmail ha avuto grossi problemi di privacy in fase di lancio e non sta facendo presa sui navigatori. La promessa di fare un passo avanti rispetto a Facebook da parte di Google dovrebbe svilupparsi differendo i contesti del proprio social network in maniera di tenere divisi i contatti famigliari da quelli amicali, ed entrambi dal contesto lavorativo. Un’idea che già è implementata in Friendfeed, di proprietà di Facebook e – dicono i maligni – prossimo alla scomparsa. È evidente l’intenzione di Google di fornire un servizio in cui non ci saranno gruppi di amici ammucchiati alla rinfusa, ma contesti differenti nel quale l’utente potrà interagire diversamente a seconda di chi si trova di fronte.
La Big G cerca di ritagliarsi una fetta in un mercato nel quale ha avuto molte difficoltà a entrare. Ma che resta appetibile pubblicitariamente
Funzionerà? Non si sa. Dall’altra parte, però, Google dovrà guardarsi dalla concorrenza. Che nel caso di Apple ha già annunciato un nuovo lancio in autunno: non si sa se Steve Jobs intende fornire una nuova versione dell’iPod oppure un servizio di musica in streaming, che dovrebbe essere gratuito o quasi e collegato ad iTunes. Microsoft, intanto, ha incamerato le ricerche di Yahoo nel suo Bing e “aperto”al software libero. Anche qui, la sfida a Mountain View è lanciata. (a.d’a.)
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Scandali. Sotto accusa per le assunzioni facili al Comune di Parigi oteva finire nei libri di storia come il primo presidente francese processato e - probabilmente - condannato per corruzione. Ma Jacques Chirac, a quanto pare, riuscirà ad evitare questo poco edificante record. I suoi avvocati hanno presentato domanda di patteggiamento offrendo di pagare parte del denaro che avrebbe indebitamente utilizzato durante il suo mandato di sindaco di Parigi per assumere amici e amici degli amici. Lo ha scritto il Financial Times e i legali dell’ex capo dell’Eliseo lo hanno confermato. Chirac dovrebbe pagare personalmente una compensazione di 550mila euro al Comune parigino e l’Ump - il partito successore dell’Rpr di Chirac - aggiungerebbe gli altri 1,65 milioni di euro che mancano al totale di due milioni e 200mila euro di risarcimenti che sono in ballo. Il Comune, che aveva intentato causa a Chirac avviando di fatto le indagini che hanno portato al processo fissato per il 2011, ha confermato l’esistenza della proposta che verrà sottoposta al Consiglio comunale per l’approvazione. L’accordo non è, tuttavia, ancora stato raggiunto e lo stesso Chirac ha delle riserve sull’iniziativa dei suoi avvocati: l’ex presidente - che si è sempre proclamato innocente non vuole che il patteggiamento equivalga a un’ammissione di colpevolezza.
P
Quale formula sarà trovata per conciliare patteggiamento e presunta innocenza di Chirac non è ancora chiaro. Ma di sicuro questo processo era molto scomodo e se non sarà celebrato saranno in molti a tirare un sospiro di sollievo. Un anno fa, quando Jacques Chirac fu rinviato a giudizio dopo due anni d’istruttoria seguita alla fine del suo mandato presidenziale, nel 2007, la Procura della Repubblica che nell’ordinamento francese dipende direttamente dal
Chirac patteggia e sfugge al processo I suoi avvocati hanno presentato l’istanza Ma l’ex presidente non ammette la colpa di Enrico Singer
questa vecchia, ma mai dimenticata storia, l’accusa è di falso in atto pubblico e distrazione di fondi pubblici e si riferisce alle assunzioni fasulle di funzionari del Comune che, in realtà lavoravano per l’Rpr (Rassemblement pour la République), come si chiamava ai tempi il partito neogollista. Fra i beneficiari di posti anche
Il compromesso non è ancora chiuso, ma sembra la scorciatoia migliore per mettere la parola fine a una storia che è diventata scomoda per tutti ministero della Giustizia - si era espressa per la prescrizione del reato. Soltanto la caparbietà del giudice istruttore, Xavière Simeoni, che aveva interrogato ben cinque volte l’ex presidente, aveva portato al rinvio a giudizio per l’intricata vicenda degli impieghi fittizi al Comune di Parigi, all’epoca in cui Chirac, negli Anni Ottanta, era sindaco e faceva dell’ Hôtel de Ville il suo trampolino di lancio per la conquista dell’Eliseo. Per
parenti di illustri personaggi: un nipote del generale Charles de Gaulle e il fratello dell’ attuale presidente del Consiglio costituzionale, François Debré. A fare le spese della vicenda giudiziaria erano già stati l’ ex primo ministro, Alain Juppé, allora segretario generale del Comune, e nove funzionari. Chirac si era sempre fatto scudo dell’ immunità concessa al capo dello Stato che gli aveva risparmiato la comparizione anche per altri scan-
La nuova première dame più avara della moglie di Chirac
Ma Bernadette batteva Carla in beneficenza francesi hanno un altro argomento per lamentarsi della première dame Carla Bruni. Prima è stato il troppo lusso, adesso perché sembrerebbe che Carlà abbia il ”braccino corto”. Il budget dedicato alla beneficenza, infatti, è stato drasticamente ridotto. Il settimanale Le Point ha scritto: «La Bruni è più tirchia della precedente inquilina dell’Eliseo, Bernadette Chirac». Che il troppo lusso e l’avara beneficenza siano le facce della stessa moneta? Fatto sta che gli aiuti alle persone bisognose - secondo Le Point - è passato da 298mila euro versati nel 2006 sotto il governo di Jacques Chirac ai 174mila euro dell’anno scorso sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy. L’Eliseo, dal canto suo, assicura che sono sempre meno le persone che chiedono l’aiuto della moglie del presidente. Secondo il deputato Renè Dosiere, che si è interessato alle spese della presidenza, «il problema è che il servizio che si occupa della beneficenza è disorganizzato. Non ha più una padrona». E Le Point conclude: «Con Bernadette Chirac era tutta un’altra cosa».
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dali veri o presunti in cui sarebbe stato coinvolto. Tra questi, anche l’ «Angolagate»: le tangenti per la vendita di armi all’ Angola che hanno portato alla condanna dell’ ex ministro dell’Interno, Charles Pasqua.
La verità è che oggi questo processo non interessa più a nessuno. Forse per il rispetto dovuto all’età (Chirac compirà 78 anni il prossimo 29 novembre) e alla funzione svolta per 12 anni - dal 1995 al 2007 - ha ricevuto attestati di stima bipartisan. Anche l’ex candidata socialista alla presidenza, Ségolène Royal, ha detto che «merita di essere lasciato tranquillo» e che, se è vero che «ha molte cose da rimproverarsi, ha dato anche molto al Paese». Ma è soprattutto nella maggioranza di governo che ci si chiede quale sia il senso di «risalire così indietro nei fatti» con il rischio - anzi, la certezza - di danneggiare l’immagine della Francia nel mondo. La soluzione del rimborso senza processo, insomma, sembra la scorciatoia migliore per arrivare a mettere la parola fine sotto questa storia. «La giustizia è indipendente e non posso fare commenti», è la posizione espressa da Nicolas Sarkozy, quasi a smentire le voci di «rassicurazione» che l’ Eliseo avrebbe fatto a Bernardette Chirac. Di certo, Sarkozy, ha messo fine alle ostilità nei confronti del suo padre politico poi contestato e sfidato. Quando, l’11 marzo del 2007 Chirac annunciò, in un messaggio trasmesso in diretta tv, la sua intenzione di non candidarsi per un terzo mandato presidenziale alle elezioni dell 22 aprile 2007, aveva capito che Sarkozy era riuscito a sfilargli la fiducia del partito. Adesso, paradosalmente, Chirac è più popolare del suo successore. Pensionato dalla politica, vita borghese nell’ appartamento di Quai Voltaire, Chirac ha pubblicato nel novembre del 2009 il primo volume delle sue memorie. Ci si aspettavano rivelazioni clamorose anche sugli scandali e giudizi scabrosi sui suoi avversari interni, Sarkozy in testa. Non è stato così: l’ex presidente ha volutamente lasciato fuori il periodo più recente della sua carriera. «Le memorie parziali», furono definite dalla stampa francese che ipotizzò anche una spiegazione: la voglia di trovare un compromesso. E la tranquillità.
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L’xx collaboratore di Bush supporta i matrimoni omosessuali
Hugo Chavez ieri a Cuba si è visto con Fidel e Raul Castro
Outing repubblicano, Ken Mehlamn: «Sono gay»
Il caudillo venezuelano incontra il lider maximo
WASHINGTON. È un ex collabo-
L’AVANA. Il presidente vene-
ratore di George W. Bush e all’età di 43 anni ha deciso di fare outing. Si chiama Ken Mehlman e era responsabiule della campagna elettorale di Bush junior. Mercoledì ha deciso di uscore allo scoperto provocando un vera reazione a catena di polemiche. Avrebbe impeigato 43 anni per farsi una ragione «di questo aspetto della propria vita». L’ex direttore dell’ufficio affari politici della Casa Bianca e presidente del Republican national committee ha affermato che se fosse uscito allo scoperto prima frose avrebbe reagito alla campagna anti-gay promossa dall’amministrazione Bush. (i repubblicani per lunga tradizione non hanno mai appoggiato l’emancipazione dei diritti degli omosessuali in America.
zuelano Hugo Chavez ha incontrato all’Avana Fidel Castro nel corso di una visita privata: lo ha reso noto la televisione di Stato cubana. Al termine del colloquio con il «lider maximo», durato cinque ore, Chavez ha dichiarato che la salute di Fidel è «eccellente»; prima di lasciare L’Avana, il Presidente venezuelano ha incontrato anche l’attuale leader cubano, Raul Castro. Dopo un non meglio precisato intervento chirurgico, subito quattro anni fa e seguito da una lunga convalescenza, Fidel ha infatti ceduto i suoi poteri al fratello minore Raul, limitando fortemente le
Karl Rove uno dei consulenti più vicini all’expresodente Bush avevav proposto nel 2004 una legge che proibisse i matrimoni gay. Propio quando Mehlamn ricopriva degli incarichi di prestigio alla Casa Bianca ed era diventato respondsabile della capgna per la rielezione del presidente. Durante un’intervista al periodico Atlantic Mehlman ha chiesto comprensione allal comunità gay americana per non essere stato capace di venire allo scoperto per difendere i dirit-
ti degli omosessuali Usa. La decisione di uscire solo ora allo scoperto sarebbe stata motivata dalla decisione di supportare la campagna a favore dei matrimoni gay. Anche il vicepresidente Dick Cheney nel 2004 aveva preso le distanze dalla campgan di Bush per motivi personali. La figlia Mary era infatti lesbica. Per il quaratatreenne repubblicano la strada verso l’accettazione pubblica del proprio status è stta molto lunga. «È stat una scelta che mi ha reso più felice e una persona migliore» ha spiegato Mehlman. Già nel 2006, erano emerse voci sull’omosessualità del politico, ma erano strate negate dall’interessato.
Morte da spia all’ombra di Vauxhall Cross Scotland Yard indaga sul ritrovamento di un cadavere di Pierre Chiartano
LONDRA. Non sappiamo con certezza se Gareth Williams abbia vissuto da spia, ma sicuramente è morto da spia. Scotland Yard è alle prese con un mistero che coinvolge anche i servizi segreti di Sua Maestà, l’MI6, quello dove lavorava l’eroe della fiction cinematografica James Bond. Un uomo di trent’anni, probabilmente una spia proprio dell’MI-6, è stato ritrovato morto nella sua casa al centro di Londra, chiuso per giorni – si parla di circa due settimane – in un borsone nel bagno dell’appartamento. A poca distanza un cellulare e una serie di sim card sparpagliate. Una scena del delitto in grado di mettere in crisi i migliori C.s.i. del momento. Sono i tabloid britannici ad azzardare l’ipotesi della spy-story, mentre più cauto è il Guardian, secondo il quale, il cadavere ritrovato dalla polizia, apparterrebbe ad un tecnico e non ad una vera e propria spia. Ma la differenza sembra di lana caprina visti i tempi e le nuove tecnologie che fanno del telint (telecomunication intelligence) una delle branche più importanti dello spionaggio. L’autopsia per accertare le cause della morte, è stata effettuata ieri, ma in molti mettono le mani avanti: non sarebbe di grande aiuto per risolvere il mistero. Williams lavorava per un organismo statale che si occupa di intercettazioni, il Government communications headquarters. Un ufficio che oltre a gettare uno sguardo attento nelle comunicazioni telefoniche e nelle e-mail, si occupa della sicurezza cybernetica del sistema bancario inglese, recente vittima di attacchi informatici. E negli ultimi 30 anni si è occupato di intercettare i membri dell’Ira e di far detonare prematuramente i loro ordigni. È quindi logico e funzionale un suo arruolamento nel servizio informazioni esterne. Si tratterebbe del primo assassinio di «alto profilo» nel Regno Unito da quello di Alexander Litvinenko, l’ex agente del Kgb avvelenato mortalmente nel 2006. L’appartamento della vittima si traova nel quartiere di Pimlico a poca distanza dal quartier generale dell’MI-6 a Wauxhall Cross. L’allarme è stato dato dai suoi colleghi di lavoro “ufficiali”,
dopo una lunga assenza ingiustificata. Le indagini sono state prese in carico dall’Homicide and serious crime command di ScotlandYard. E sui giornali inglesi qualcuno ha speculato sul fatto che non sia stato il dipartimento antiterrorismo ad occuparsene. Per dedurre che non si tratti di cause di servizio. Ma non significa nulla, dipende solo dal tipo di delitto e dalle competenze necessarie per accelerare la fase investigativa. «È stato uno shok terribile. Non pensavo potesse accadere una cosa simile» ha dichiarato uno zio del trentenne trovato cadavere alla Bbc. «Lavorava al Gchq da molti anni. Sapevo che si occupava di qualcosa a Londra e non avrebbe mai parlato del suo lavoro e in famiglia sapevano di non dover chiedere» ha spiegato il parente di Williams.
Lo splendore vittoriano dell’appartamento della vittima, al centro di uno dei più esclusivi quartiere del centro di Londra, è in netto contrasto con la precedente abitazione di Williams a Centelham, hanno fatto notare alcuni quotidiani britannici. La sua ex padrona di casa ha dichiarato che un paio di settimane fa le avrebbe telefonato per avvisarla che voleva riprende il vecchio appartamento. Williams, laureato a Cambridge, aveva preso una specializzazione post laurea in matematica, al Saint Catharine’s college, che ne farebbe un buon candidato per l’ufficio cifre dell’MI-6. La vecchia padrona di casa, la signora Eliott, intervistata dalla stampa britannica ha aggiunto: «andava spesso negli Usa per lavorare, ma univa a questi viaggi le ferie, perché detestava volare». L’appartamento di Pimlico era stato affittato da una società denominata Nuova Rodina. Il nome significa «madrepatria» in russo e ricorda un partito politico, meglio una coalizione. Ma i dettagli della proprietà dell’azienda non sono noti, sarebbe stata registrata alle Isole Vergini Britanniche, e non comparirebbe nel registro della Companies House.
Sarebbe il primo assassinio di «alto profilo» nel Regno Unito, dopo quello dell’ex agente Kgb, Alexander Litvinenko
sue apparizioni in pubblico pur non rinunciando a scrivere sul quotidiano di partito, il Granma. È ormai una tradizione consolidata per il presidente venezuelano mantenere solidi rapporti con il governo comunista cubano. Operazione d’immagine e di sostanza.
D’immagine perché tende a non presentare il caudillo di Caracas come isolato nell’ambito sudamericano. Di sostanza perché, assieme ai rapporti con Iran, Siria e Cina, Il Venezuela vorrebbe ereditare il ruolo che per mezzo secolo è stato dell’isola caraibica: spina nel fianco di Washington. Utilizzando sia l’arma energetica del petrolio che quella territoriale, diventando base per strutture militari di potenze straniere. E con l’appoggio a organizzazioni terroristiche come le Farc colombiane. Il lider maximo e Chavez hanno parlato su «diversi argomenti di attualità internazionale, in particolare sul rischio di una guerra nucleare», ha spiegato la televisione cubana. Il presidente venezuelano si è detto soddisfatto per «lo straordinario stato di salute» del suo amico e alleato Fidel.
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Ritratti. Nasceva cento anni fa la religiosa albanese diventata il simbolo della carità verso i poveri e dell’amore per i bisognosi
La lezione di Teresa Dall’imitazione di Cristo ai tormenti dello spirito: così una piccola donna diventò un mito del ’900 di Sabino Caronia a mattina del 22 dicembre 1970 Paolo VI, da poco tornato a Roma dal suo viaggio in estremo Oriente, ricevette nella sala del Concistoro, il Sacro Collegio Cardinalizio, la Famiglia Pontificia ecclesiastica e laica e la Prelatura romana, per gli auguri natalizi e del nuovo anno come è d’uso. Al termine dell’udienza il Pontefice annunciò che per la prima volta era stato assegnato il premio internazionale per la pace intitolato a papa Giovanni XXIII e da lui istituito, dicendo: «Il premio è dato ad una religiosa ben modesta e silenziosa, ma non ignota a quanti osservano gli ardimenti della carità nel mondo dei poveri: si chiama Madre Teresa, Superiora generale della congregazione delle Missionarie della Carità, che da vent’anni, sulle strade dell’India, sta svolgendo una meravigliosa missione di amore a favore dei lebbrosi, dei vecchi e dei fanciulli abbandonati… ».
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Quindici giorni dopo, il 6 gennaio 1971, Madre Teresa fu convocata a Roma per ricevere il premio dalle mani dello stesso Pontefice. La cerimonia della consegna del premio avvenne nella sala Clementina alla presenza di molte autorità e fu ripresa dalla televisione. Il cardinale Villot, segretario di Stato, aprì la cerimonia con il suo discorso. Fu poi letta dalla signora Maria Luisa Peronetto
Valier, membro del Consiglio della “Fondazione Internazionale della Pace Giovanni XXXIII”, la motivazione del premio ed infine il testo del diploma relativo al suo conferimento, a firma di Paolo VI. Madre Teresa, piccola, impavida, dal posto dove sedeva si avvicinò al tronetto del Pontefice e si inginocchiò, quindi, ricevuto il diploma, tornò al suo posto e ascoltò serena l’ampio discorso. Oggi tutti conoscono Madre Teresa, ma a quel tempo ben pochi sapevano che quella religiosa si chiamava Gonxhe Boyaxhiu, che era nata a Skopie e che, mandata in India per il noviziato, era stata circa venti anni insegnante nell’elegante collegio femminile delle suore di Loreto a Calcutta, prima di ricevere, il 10 settembre 1946, quella seconda vocazione, ovvero quella «chiamata dentro la chiamata», come lei stessa la definì, che doveva decidere della sua vita: «Viaggiando in treno da Calcutta a Darjeeling per prendere parte a degli esercizi spirituali, ero assorta nella preghiera quando ho sentito chiaramente una chiamata dentro la chiamata. Il messaggio era inconfondibile. Dovevo lasciare il convento e consacrarmi ad aiutare i poveri vivendo tra loro. Era un ordine. Sapevo dove dovevo andare ma non sapevo come arrivarci». Solo qualche tempo dopo, nel 1979, sarebbe arrivato il premio Nobel per la pace a far
conoscere in tutto il mondo il nome e la vita di Madre Teresa. A cento anni dalla sua nascita, avvenuta il 27 agosto 1910, cosa può dire e dare ancora all’uomo d’oggi Madre Teresa? Ha detto: «L’unità dei cristiani è molto importante, perché i cristiani sono come un faro per il mondo. Se siamo cristiani dobbiamo essere imitatori del Cristo. Gandhi una volta disse che se i cristiani vivessero in pieno la loro vita cristiana, in India non rimarrebbe neppure un indù. Ed è questo che la gente si aspetta da noi: che viviamo pienamente la nostra vita cristiana. I primi cristiani morivano per Gesù, e la gente li riconosceva perché si amavano l’un l’altro; il mondo non ha mai avuto tanto bisogno di amore come oggi». La fraternità voluta da Cristo e Gandhi. Ricordiamo che il volto di Cri-
A quel tempo ben pochi sapevano che quella devota si chiamava Gonxhe Boyaxhiu, che era nata a Skopie e che, mandata in India per il noviziato, era stata circa 20 anni insegnante nel collegio delle suore
sto era l’unica immagine nella stanza spoglia del Mahatma durante i suoi ultimi anni e che egli aveva una grande considerazione del messaggio della Montagna. Se non desiderò compiere i passi che lo separavano da una comunione piena con il cristianesimo fu certo per un vivo senso della sostanziale convergenza di tutte le fedi, ma anche perché vide in che modo i cristiani, nella maggior parte, vivono il Vangelo e constatò come spesso abbiano malamente applicato attraverso i secoli quel capovolgimento dei valori umani che è condensato nelle Beatitudini evangeliche.
Madre Teresa non ha potuto incontrare Gandhi perché uscì dal convento delle suore di Loreto alla fine del 1948 mentre Gandhi morì all’inizio di quello stesso anno, ma certo, pur non avendolo mai incontrato, ha riconosciuto in lui un’anima affine alla sua. Quello delle suore della Carità da lei istituito era un ordine i cui membri vestivano il sari più povero e mangiavano il cibo più semplice e il suo impegno era non di convertire al cristianesimo ma piuttosto di fare di un indù un indù migliore, di un musulmano un musulmano migliore. Diceva: «Dio ci liberi dai conventi riccamente ammobiliati
dove i poveri avrebbero riguardo ad entrare per timore che la loro miseria potesse costituire disonore. Quando ci vestiamo dobbiamo renderci conto di ognuno dei capi del nostro vestiario. Il sari con la striscia azzurra significa la modestia della Vergine. La cintura di corda significa la purezza. I sandali significano la nostra libera scelta. Il crocifisso è un simbolo d’amore». E ancora: «… Per noi non ha importanza la fede professata dai nostri assistiti. Il nostro criterio di assistenza non sono le credenze, ma la necessità. Tutti sono Corpo di Cristo, tutti sono Cristo sotto l’apparenza di creature bisognose di aiuto e che hanno diritto di riceverlo. Non abbiamo mai cercato di convertire al cristianesimo i nostri assistiti. L’essenziale è che trovino Dio, attraverso la loro religione, qualunque essa sia. Quel che ci salva è la fede in Dio. Importa meno da quale punto si arrivi a Lui». Vien fatto di riflettere. Se la salvezza è legata a Cristo, si salvano o non si salvano gli uomini che seguono religioni diverse dal cristianesimo o magari nessuna religione? La risposta, come ci ricorda Madre Teresa, non può che essere affermativa. E se uno pensa al Mahatma Gandhi e lo paragona a monsignor Marcinkus o a uno degli ecclesiastici incrimi-
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na con significativa costanza nelle sue parole. Ecco: «Credo che ogni volta in cui diciamo un Padre nostro Dio si guardi le mani sulle quali ci ha disegnati («ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani», Isaia, 49,16). Si guarda le mani e vede la nostra immagine». E ancora: «Cerchiamo di comprendere la dolcezza dell’amore di Dio. Nelle Scritture Lui dice: «anche se ci fosse una donna che si dimenticasse del suo bambino, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani, (Isaia, 49, 15-16)». Con quel richiamo alla mano di Dio è in lei la consapevolezza dell’indissolubile legame di amore con Gesù. Diceva: «Non permettete che nulla interferisca con il vostro amore per Gesù. Gli appartenete. Niente può separarvi da Lui… Non dovete avere paura di dire “sì” a Gesù perché non vi è amore più grande del Suo... ». Il 28 giugno 1980 a Binça si espresse così: «Noi siamo totalmente uniti a Gesù, così che nessuno potrà più separarci da Lui. Questo è il senso della nostra vocazione: Lui ci ha attratte totalmente e noi siamo convinte, con san Paolo, che nessuno ci separerà più dall’amore di Cristo…».
nati per pedofilia non può avere nessun dubbio in proposito. Certo le religioni non sono tutte uguali. Alcune sono più vicine alla verità di altre. Ma il punto è che non sono le religioni che salvano. «La salvezza si trova nella verità» è scritto nell’attuale Catechismo della Chiesa Cattolica. Ciò che salva è il bene, la giustizia interiore, la purezza del cuore, che sono la realizzazione pratica ed esistenziale dello spirito e della verità. L’uomo giusto non è colui che compie dei riti o crede qualcosa o osserva delle leggi, ma chi compie il bene per amore del bene, anzi colui che, ancora prima di compierlo, vive nel bene. La grande rivelazione di Cristo è la posizione della salvezza come non più legata alla religione.
Non è la religione che salva. Ciò che salva è la coscienza pura e la vita buona che ne consegue, ciò che veramente salva è l’adesione incondizionata dell’anima al bene, alla verità, alla giustizia. Chi non ricorda la grande parabola del Giudizio finale, in cui l’amore diviene il criterio per la decisione definitiva sul valore e il disvalore di una vita umana? Tutti conoscono quelle parole: «Venite, benedetti dal Padre mio… In verità vi dico: quanto avete fatto ad uno di questi
Scriveva: «C’è tanta contraddizione nella mia anima, un profondo anelito a Dio e con ciò il sentimento di non essere voluta, respinta, vuota, senza fede, senza amore, senza zelo… » miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt. 25, 34-40). Questa identità evangelica del Cristo con chi soffre è un concetto chiaro al mondo cristiano. Gesù si identifica con i bisognosi: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati. Come san Vincenzo de Paoli, come il Cottolengo, nel cui istituto fece nel 1969 una breve visita, Madre Teresa nei sofferenti vede Gesù, dal Bambinello tremante di Betlemme al Salvatore che agonizza sulla croce. Leggiamo: «Voglia il cielo che non dimentichiamo mai che nel servizio dei poveri ci viene offerta una magnifica occasione di fare qualcosa di bello per Dio perché, dedicandoci con tutto il cuore ai poveri, è Cristo che serviamo nel Suo Volto sfigura-
to, perché Lui stesso ha detto: l’avete fatto a me». Come si sa Madre Teresa per difendersi dagli aspiranti biografi soleva dire: «Sono solo una piccola matita nella Sua mano». Il richiamo alla mano di Dio ritor-
Questa è la Madre Teresa che tutti conosciamo. Ma, di recente, la pubblicazione da parte del postulatore, padre Brian Kolodiejchuk, dei diari personali e delle lettere di Madre Teresa al suo direttore spirituale (Sii la mia luce. Gli scritti più intimi della “santa di Calcutta”, Rizzoli 2008) ha permesso di conoscere un aspetto sconosciuto della Beata di Calcutta. Con l’inizio della sua nuova vita al servizio dei poveri un’opprimente oscurità venne su di lei. Scriveva:
«C’è tanta contraddizione nella mia anima, un profondo anelito a Dio e con ciò il sentimento di non essere voluta da Dio, respinta, vuota, senza fede, senza amore, senza zelo… il cielo non significa niente per me, mi appare un luogo vuoto». Tutto lascia pensare che questa oscurità accompagnò Madre Teresa fino alla morte, con una breve parentesi nel 1958 durante la santa messa per l’anima di Papa Pio XII, in cui poté scrivere: «Immediatamente quella lunga oscurità, quel doloroso senso di perdita, di solitudine, quella strana sofferenza di dieci anni, si sono dissolti». Se a partire da un certo momento non ne parla più, non è perché la notte è finita, ma perché ella, come dice, si è ormai adattata a vivere in essa: «Ho cominciato ad amare la mia oscurità, perché credo ora che essa è una parte, una piccolissima parte, dell’oscurità e della sofferenza in cui Gesù visse sulla terra». C’è una ragione profonda che spiega queste notti che si prolungano per tutta la vita: l’imitazione di Cristo, la partecipazione all’oscura notte dello spirito che avvolse Gesù nel Getsemani e in cui morì sul Calvario gridando: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Scriveva: «Se la pena e la sofferenza, la mia oscurità e separazione da Te Ti dà una goccia di consolazione, mio Gesù, fa di me ciò che vuoi… Imprimi nella mia anima e nella vita la sofferenza del tuo cuore… Voglio saziare la Tua sete con ogni singola goccia di sangue che puoi trovare in me. Non ti preoccupare di tornare presto: sono pronta ad aspettarti per tutta l’eternità». Madre Teresa è grande perché seppe tacere nella sofferenza, custodendo tutto nel suo cuore, come la Vergine Maria. La Beata di Calcutta assomiglia alla Madonna nell’umiltà, nella fede e nell’abbandono totale alla volontà di Dio.
Per questo poté arrivare a questa conclusione stupenda: «Arrivai ad amare l’oscurità… oggi sento una gioia grande che Gesù non poteva più vivere l’agonia, ma che vuole soffrire tramite me». Gesù, ella ci dice, non può più soffrire, perché ormai è morto ed è risorto, ma continua a soffrire, a vivere, a rivivere la Sua passione tramite gli altri, la gente sofferente, particolarmente le persone sante. Sono le parole di san Paolo nella lettera ai Colossesi: «Ora io gioisco nelle mie presenti sofferenze e completo in me quel che resta alla passione di Cristo». Come lei stessa amava ripetere, si può dire che Madre Teresa sia stata solo un piccolo strumento destinato a scomparire, una semplice matita nelle mani del Signore, ma una matita che continua e continuerà ancora a scrivere nelle coscienze e nei cuori degli uomini.
ULTIMAPAGINA Il personaggio. È morto Hugo-Carlos Borbone Parma, un aristocratico che ha vissuto come in un romanzo
Il comunista discendente del di Maurizio Stefanini
mandato dal padre in Spagna sotto falso nome, a organizzare il carlismo clandestino.
er Dio, per la patria e il Re/ lottarono i nostri padri/ Per Dio, per la patria e il re/ Lotteremo noi anche/ Lotteremo tutti insieme/ Tutti insieme in unione/ Difendendo la bandiera/ della Santa Tradizione». Narra la leggenda che la musica della Marcia di Oriamendi, inno tradizionale del movimento carlista, era stata composta in origine per gli eserciti liberali “cristini” che nel 1837 furono sconfitti appunto a Oriamendi, presso San Sebastián. Ritrovata nell’accampamento dei fuggiaschi, la partitura fu fornita di un nuovo testo dopo essere stata considerata dai vincitori una “preda di guerra”: forse la più singolare preda di guerra della stopria. Ma singolare è d’altronde la vicenda del Principe Carlo Ugo di Borbone Parma: o Carlos Hugo de Borbón-Parma y Bourbon-Busset, come si dice in spagnolo. Nato a Parigi, in esilio, l’8 aprile del 1930. Morto il 18 agosto 2010 a Barcellona, in una Spagna di cui si considerava dall’8 aprile 1975 il legittimo re col nome di Carlos Hugo I. Sarà sepolto domani a Parma, dopo un giro di 10 giorni che ha portato la salma anche in Olanda e a Piacenza.
«P
Discendente diretto del Re Sole, infatti oltre a essere marito di una principessa olandese che per sposarlo aveva abbandonato il calvinismo provocando una crisi costituzionale - Carlos Hugo era anche erede del Ducato di Parma e Piacenza. Tramite il nonno Roberto, spodestato a 10 anni dalla rivoluzione risorgiomentale del 1859. Ma, come detto, dopo l’estinzione del ramo principale, suo padre Saverio di Borbone-Parma, si era proclamato pretendente carlista al trono di Spagna, col nome di Javier I. Per chi non conosce la storia spagnola: la querelle inizia il 31 marzo del 1830, quando il re Ferdinando VII abolisce la legge salica. Così può salire al trono la sua figlia femmina Isabella II, ma la cosa viene vista come “storica ingiustizia” dal fratello di Ferdinando Don Carlos, i cui seguaci scateneranno tre sanguinose rivolte: nel 1833-40; nel 1847-49; nel 187276. Ma non manca chi parla anche della Guerra Civile Spagnola come di“Quarta Guerra Carlista”, per il ruolo fondamentale che al fianco di Franco giocarono i requetés: le milizie paramilitari carliste dal basco rosso, fortissime soprattutto in Navarra. Quello stesso basco rosso, la boina, ora posato sulla bara di Carlos Hugo. Poiché i carlisti contro l’”innovazione” di Ferdinando si erano richiamati alla tradizione, i liberali si schierarono con Isabella, approfittando della sua giovanissima età per far passare la Costituzione che trasformò anche la Spagna in un sistema parlamentare. Ma ciò inferocì ancora di più i carlisti in senso reazionario e ultracattolico. Poiché però le cose non sono mai del tutto semplici, allo stesso tempo il carlismo si radicò in Catalogna,Valenza, Navarra, Paesi Baschi e Rioja anche come forma di opposizione al centralismo madrilegno. Lo stesso Partito Nazionalista Basco fu fondato nel 1895 dall’ex-carlista Sabino Arana. Sempre in chiave anti-liberale, nel XX secolo i carlisti ebbero un ruolo nella nascita del sindaca-
Rampollo di tutti i reazionarismi possibili, Carlos Hugo arriva addirittura a farsi assumere come minatore, predicando il “socialismo autogestionario” e schierando il Partito Carlista nell’alleanza di opposizione più radicale guidata dai comunisti, piuttosto che in quella più moderata dei socialisti. Ovviamente, non tutti gradirono. In particolare suo fratello Sisto Enrico. Il 9 marzo del 1976 i seguaci dei due fratelli si affrontarono sparando a Montejurra: un monte della Navarra sede di un tradizio-
nale pellegrinaggio carlista, cui un Carlos Hugo clandestino aveva invitato rappresentanti di partiti di estrema sinistra in quantità.Tra i suoi seguaci ci furono due morti e vari feriti, e tuttora i carlisti “progressisti” attribuiscono lo spargimento di sangue alle macchinazioni dei servizi franchisti e di “mercenari stranieri”: tra
RE SOLE questi, sembra, anche l’italiano Stefano Delle Chiaie. Alla tragica rottura interna del carlismo seguì però una storica riconciliazione con il ramo principale dei Borboni, quando il 7 marzo del 1978 Carlos Hugo fu ricevuto da Juan Carlos. E nel 1979, ottenuta la cittadinanza spagnola, si candidò col Partito Carlista in Navarra: ebbe il 7,7%, ma per via del sistema elettorale nessun seggio. Deluso, rinunciò alla leadership del partito Nel 1981 si recò negli Usa a fare il professore a Harvard. E dal 1999 viveva a Bruxelles.
Riteneva di essere l’ultimo sovrano di Spagna legittimo, e suo nonno aveva perso il Ducato di Parma e Piacenza nel 1849. Ma passerà alla storia come il «principe rosso», per le sue scelte radicali di estrema sinistra nella lotta al fascismo franchista lismo cattolico in Spagna. E non mancò un Jaime III, pretendente carlista tra 1909 e 1931, che arrivò a proclamarsi socialista. Quanto alla Guerra Civile, i requetés con il loro Sacro Cuore di Gesù sulla divisa furono sterminatori di “rossi” particolarmente feroci. Però gradirono pochissimo il diktat con cui nel 1937 Franco impose la fusione di Falange e carlisti in un solo partito. Nel 1952, quando videro che Franco non aveva la minima intenzione di restituire il trono ai “sovrani legittimi”, passarono infine decisamente all’opposizione, proclamando pretendente quel Saverio I che durante la Seconda Guerra Mondiale aveva combattuto nel maquis francese ed era pure finito a Dachau. E dal 1955 Carlo Ugo iniziò a essere
Qualcuno riteneva che con l’accettare la cittadinanza avesse di fatto riconosciuto Juan Carlos, ma lui smentì sempre.“Non rinuncio a nessuno dei diritti che mi corrispondono, né per me, né per i miei successori”, ripeteva. Principe legittimista e rosso al tempo stesso, questi diritti li ha infatti trasmessi al figlio Carlos Javier de Borbón-Parma y OrangeNassau: dal 18 agosto, pretendente col nome di Carlos Javier I.