di e h c a n cro
00902
Più che una fine della guerra,
vogliamo una fine dei principi di tutte le guerre Franklin Delano Roosevelt
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 2 SETTEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La giustizia al centro delle polemiche
Napolitano: «Il processo breve? Un binario morto» Oggi a Washington l’incontro con Netanyahu e Abu Mazen
Obama vuole il miracolo Parte il nuovo tentativo di pace in Medioriente Il presidente annuncia la «fine della guerra in Iraq» e cerca subito l’accordo tra israeliani e palestinesi di Enrico Singer
Clinton, Netanyahu, Abu Mazen e Mitchell
appuntamento della speranza è fissato per oggi alla Casa Bianca dove Benjamin Netanyahu e Abu Mazen si ritroveranno faccia a faccia. Israeliani e palestinesi attorno a uno stesso tavolo - dopo il fallimento dell’ultimo incontro diretto, diciannove mesi fa - con un obiettivo ambizioso dichiarato, almeno sulla carta: quello di concludere in un anno un accordo di pace e risolvere, così, un conflitto terribile e sanguinoso che sembra infinito. a pagina 2
La speranza è nelle loro mani
L’
Il discorso dello Studio Ovale
«Bush e io, due patrioti» di Barack H.Obama o che questo momento storico arriva in una fase di grande incertezza per molti americani. Ci stiamo avvicinando a un decennio caratterizzato dalla guerra, nel mezzo di una lunga e pericolosa recessione. E a volte, in mezzo a queste tempese, il futuro che cerchiamo di costruire per la nostra nazione – un futuro di pace duratura e prosperità a lungo termine – potrebbe sembrare troppo lontano. Ma questa pietra miliare serve come memorandum per tutti gli americani: il futuro è a nostra portata.
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Ecco chi sono (e come sono cambiate nel tempo le loro posizioni) i quattro protagonisti del vertice di oggi che si apre con il “giallo” della proposta di Barak di dividere Gerusalemme, subito smentita dallo staff del suo premier Antonio Picasso • pagine 2 e 3
Esce oggi l’atteso volume di memorie del leader inglese
La verità di Tony Blair «Piango le vittime, ma sull’Iraq non accetto processi». Poi il padre del New Labour loda Lady Diana e mette alla berlina Gordon Brown pagine 18 e19
A Baghdad il modello Corea Paul Wolfowitz l vice presidente americano Joe Biden, che questa settimana è volato in Iraq per chiudere formalmente le operazioni di combattimento sul campo, ha dichiarato che la pace e la stabilità del Paese «potrebbero essere uno dei risultati maggiori» dell’amministrazione Obama. Ovviamente, la maggior parte del credito per questi risultati va data a quegli uomini e donne coraggiosi che fanno parte dell’esercito americano, che hanno sacrificato così tanto perseverando in mezzo alle difficoltà.
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a pagina 6 I QUADERNI)
• ANNO XV •
Errico Novi • pagina 8
Il dibattito aperto da De Rita
Cattolici deboli, nazione in crisi
La proposta dell’ex consigliere
a pagina 4 seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO
Il Capo dello Stato sospetta che finirà come le intercettazioni e lancia un appello al governo: «Si occupi della crisi». Intanto si riaccende la battaglia tra finiani e Pdl: «Vogliono aggredirci a Mirabello»
NUMERO
170 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
di Paola Binetti giudicare dallo spazio che giorno per giorno la stampa dedica a questo argomento, sembra che la domanda sul peso dei cattolici nella politica occupi uno dei primi posti nell’interes- I credenti se generale. Costituiaspirano sce di fatto un punto nevralgico nel dibattito a governare contemporaneo, essen- per esprimere ziale per capire cosa i loro valori stia cambiando nella nostra società; quali siano i valori emergenti; come mutino le abitudini degli italiani anche in rapporto al voto, e cosa pensano di questo problema la Chiesa in generale e la Chiesa italiana in particolare. Questa volta è stato un articolo di Giuseppe De Rita (nella foto) a riaccendere il dibattito con tre provocazioni. a pagina 20
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 2 settembre 2010
Occasioni. A Washington Netanyahu e Abu Mazen si incontrano: ma su di loro pesa l’incognita di Hamas e degli ultraortodossi
Il giorno della speranza
Il vertice per la pace si apre con il giallo della proposta di divisione di Gerusalemme lanciata da Barak ma subito smentita dal premier di Enrico Singer appuntamento della speranza è fissato per oggi alla Casa Bianca dove Benjamin Netanyahu e Abu Mazen si ritroveranno faccia a faccia. Israeliani e palestinesi attorno a uno stesso tavolo - dopo il fallimento dell’ultimo incontro diretto, diciannove mesi fa - con un obiettivo ambizioso dichiarato, almeno sulla carta: concludere in un anno un accordo di pace e risolvere, così, un conflitto
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che sembra infinito. A tenere a bettesimo questa grande occasione per tutto il Medioriente ci sarà Barack Obama - che ieri ha già parlato separatemente con i due protagonisti del negoziato - e ci saranno anche, nella doppia veste di testimoni e di sponsor della trattativa, il presidente egiziano, Hosni Mubarak, il re di Giordania, Abdallah, e il rappresentante del “Quartetto” (Usa, Russia, Ue, Onu),Tony Blair. Ma come, pur-
troppo, è già successo ogni volta che si è aperto uno spiraglio di dialogo, anche in questa vigilia si sono intrecciati segnali di ottimismo e lampi di guerra.
Il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, in un’intervista al giornale Haaretz, ha ipotizzato la possibilità di uno statuto speciale per Gerusalemme con la parte Est della città amministrata dai palestinesi. È un’apertura che ricalca il piano
del “Quartetto” appoggiato anche da Obama lo scorso anno. Certo, il laburista Ehud Barak rappresenta nel governo Netanyahu l’ala più disposta a fare delle concessioni e la sua proposta s’inquadra in una soluzione che fa parte di un complessivo accordo di pace che deve garantire a Israele confini sicuri, il riconoscimento del diritto a coesistere con tutti i suoi vicini e la fine delle minacce di chi, come i Hamas, ne pretende la
distruzione. Le parole pronunciate dal ministro della Difesa israeliano sono state, comunque, molto chiare: «Gerusalemme Ovest e i dodici sobborghi dove vivono 200mila ebrei saranno nostri. I sobborghi arabi dove vivono circa 250mila palestinesi saranno loro. E ci sarà uno speciale regime per la Città Vecchia, il Monte degli Ulivi e la Città di David». Ma l’apertura di Barak è stata subito ridimensionata negli am-
metamorfosi di quattro protagonisti Hillary Clinton, da “lobbysta” ebraica a grande mediatrice illary Clinton, ovvero il “nostro uomo alla Casa Bianca”. Così avrebbero detto i cittadini Usa di religione ebraica, se l’attuale Segretario di Stato avesse vinto la corsa alle primarie democratiche contro Barack Obama e da lì fosse stata eletta Presidente degli Stati Uniti. Il legame tra la lobby ebraica di Washington e la convention democratica è insolubile. In questo tandem il clan Clinton fa da perno principale. Il primo agosto, il matrimonio della figlia Chelsea con l’imprenditore Marc Mezvinsky, appunto di religione ebraica, ha suggellato ulteriormente questa alleanza strategico-elettorale. Tuttavia, la Clinton, da quando ha assunto la guida della diplomazia Usa, si è trasformata in un fiero avversario all’ostinazione degli israeliani. La sua proverbiale durezza, forgiata nelle aule di tribu-
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nale e poi rinforzata come first lady a fianco di Bill Clinton, è apparsa come un elemento di provocazione nella crisi di marzo fra Israele e Stati Uniti. Hillary Clinton ha pagato inoltre lo scotto dei riflettori puntati unicamente su Obama. Stando in ombra, il Segretario di Stato prima è rimasta in parte emarginata dai negoziati, poi però ha ne sfruttato l’opportunità. Il fatto che i colloqui di oggi si tengano a Foggy Bottom e non alla Casa Bianca suggerisce che la Clinton abbia ripreso le redini della diplomazia e che, inoltre, Israele stia cominciando ad accettare le sue condizioni. Con il nullaosta della comunità ebraica, il Segretario sarà l’unica padrona di casa.
Benjamin Netanyahu, quando il falco si veste da colomba erusalemme è la nostra capita-
«Gle! E gli insediamenti circostan-
ti non si toccano». Così tuonava il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, all’inizio dell’anno. Di lì a qualche mese, la sua intransigenza, dettata più da ragioni di sopravvivenza del suo governo, avrebbe provocato la più grave crisi diplomatica intercorsa tra Israele e gli Stati Uniti. Adesso però, il falco israeliano sembra aver placato le proprie ire. La sua disponibilità a riprendere i colloqui è già di per sé un passo avanti. Cos’è cambiato in questi mesi di stand by del processo di pace? Nulla fuorché il coraggio di Netanyahu. La questione degli insediamenti resta una bomba a orologeria sulla quale è seduto il suo esecutivo. La relativa moratoria di dieci mesi, come richiesta da Israele, è stata respinta dagli Usa. Anche l’idea di fare della futura Palestina
uno Stato demilitarizzato non ha avuto successo. Tuttavia oggi il dialogo israelopalestinese riprende, pur con tutti i dubbi e le preoccupazioni a esso correlate. Rimettendo in moto i meccanismi diplomatici, Netanyahu ha deciso di rischiare il tutto per tutto. Ha capito che l’aggressività finora assunta non porterà a nulla. Si è reso conto che per lui c’è in palio un premio ben più prestigioso del mantenimento del potere: la conclusione del processo di pace e quindi un posto nella storia. Israele dovrà però fare dei sacrifici. Netanyahu ne ha assunto la consapevolezza. Ora bisogna capire se sarà anche in grado di trasmetterla all’opinione pubblica.
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bienti vicini al premier che hanno ripetuto la posizione tradizionale del governo Netanyahu sulla indivisibilità di Gerusalemme, capitale d’Israele, e che giudicano prematuro e assolutamente irrituale affidare a un’intervista ipotesi di soluzioni per quello che rimane uno dei punti più difficili della trattativa che sta per cominciare.
Ma il sabotaggio più allarmante del negoziato diretto è quello che è arrivato dall’Iran ieri Ahmadinejad ha detto che «il negoziato non può rendere legittimo il regime sionista» - e da Hamas che ha rivendicato l’assassinio dei quattro israeliani uccisi martedì sulla strada per Kiryat Arba, nella regione di Hebron. E che ha definito l’attentato «soltanto la prima tappa nella guerra contro i negoziati» annunciando che «ne seguiranno altri», come ha detto Abu Ubaida, portavoce del braccio armato di Hamas, le brigate al-Qassam. L’opposizione di Hamas a qualsiasi sforzo di pace è il problema più grosso che pesa sul futuro della
trattativa e che fragilizza anche la rappresentatività di Abu Mazen. Ieri a Washington il presidente dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese, ha condannato l’attacco terroristico a Hebron e il premier israeliano ha detto che il sangue non fermerà i negoziati. I due leader hanno avuto colloqui separati con Barack Obama e hanno incontrato anche il segretario di Stato, Hillary Clinton, per preparare l’inizio dei colloqui. Obama, naturalmente, ha espresso la speranza che il processo di pace riprenda vigore e il suo inviato speciale per il Medioriente, l’ambasciatore George Mitchell, ha giudicato «realistico» poter arrivare entro un anno alla conclusione di un accordo complessivo tra israeliani e palestinesi. Mitchell, che avrà il ruolo di grande tessitore della trattativa, non ha nascosto che per Barack Obama, dopo il ritiro delle forze combattenti dall’Iraq, la «grande priorità» è proprio la composizione del conflitto israelo-palestinese. Di sicuro per il presidente americano, che il prossimo 2
Il primo nodo da risolvere è lo scoglio del 26 settembre, scadenza della moratoria della costruzione di nuovi insediamenti novembre affronterà la prova delle elezioni di mid term, ottenere una partenza con il piede giusto dei negoziati diretti tra Netanyahu e Abu Mazen sarebbe già un risultato importante.
L’incontro di oggi sarà soltanto l’avvio di una trattativa che dovrebbe arrivare all’approdo dei dodici mesi attraverso vertici al massimo livello ogni quindici giorni e un lavoro ininterrotto dei loro due fiduciari che sono arrivati a Washington già da qualche giorno. Il palestinese Saeb Erekat e l’israeliano Yitzhak Molcho avranno un ruolo-chiave nel mettere a punto le ipotesi d’intesa sui diversi punti del nego-
Mahmoud Abbas, il vecchio mitra nel cassetto ahmoud Abbas, nome di battaglia Abu Mazen, vuole passare come l’erede di Arafat, il traghettatore dalla lotta armata palestinese al confronto pacifico nell’agone politico della diplomazia. Non è un incarico facile, il suo. Non basta infatti smettere l’uniforme mimetica e indossare i costosi abiti occidentali per rifarsi una verginità. Il Presidente dell’Autorità nazionale palestinese sfoggia, suo malgrado, un passato di alto dirigente di al-Fatah, il gruppo che solo 25 anni fa professava l’annientamento fisico dello Stato israeliano. Al di là di questo sono i problemi attuali quelli che possono condizionare il leader palestinese nelle sue scelte. Le mancate elezioni del Consiglio esecutivo di Ramallah – in agenda lo scorso gennaio e mai celebrate – ma soprattutto la frattura con Hamas gravano sul pote-
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re decisionale di Abu Mazen. La sua immagine è svilita anche dalle accuse di corruzione che pesano sulla dirigenza del partito. Gli eventuali accordi rischiano quindi di risultare effimeri. Il presidente può tornare in Cisgiordania ed essere accolto come un eroe in seno ad al-Fatah e, al contrario, passare per Hamas come colui che ha svenduto la Palestina al nemico sionista. Il processo di pace è arrivato a un punto in cui, sia per Netanyahu sia per Abu Mazen, il gioco si limita al “rouge et noir” della roulette. Se Mahmoud Abbas vuole essere ricordato come il secondo padre della patria palestinese, dopo Arafat ovviamente, è costretto a scommettere sulla sua stessa persona.
ziato. Sono due uomini molto diversi: dirigente di lungo corso dell’Anp e portavoce abituato alla scena diplomatica internazionale il primo, giurista riservato e taciturno amico personale di Netanyahu, il secondo. La prima mina che dovranno disinnescare è quella legata alla scadenza, il 26 settembre, della moratoria nella costruzione di nuovi insediamenti israeliani nei territori contesi della Cisgiordania che lo stesso governo Netanyahu aveva deciso per favoriere la ripresa dei colloqui diretti. È evidente che se la trattativa darà dei risultati incoraggianti, la moratoria potrà essere prorogata anche se le forze politiche della destra religiosa israeliana - che fa parte del governo - spingono in direzione contraria. Ma è altrettanto evidente che la ripresa della costruzione degli insediamenti potrebbe dare un colpo mortale al negoziato. Che ha già molti capitoli pesanti da affrontare.
C’è la questione nodale del futuro Stato palestinese, che l’Anp rivendica in sostanza en-
tro i confini del 1967 (con l’inclusione della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e di Gerusalemme Est), mentre il governo israeliano immagina nelle forme di un’entità demilitarizzata e frutto di una revisione territoriale più ampia. C’è il problema dello status di Gerusalemme Est (la parte a maggioranza araba della città) che, come si è visto anche ieri, divide lo stesso governo Netanyahu. E c’è il braccio di ferro sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi (oltre 4 milioni con i discendenti, secondo i calcoli dell’Anp) che Israele, anche a tutela degli equilibri demografici attuali, vuole ridimensionare. C’è, infine, la partita per la suddivisione delle vitali risorse idriche del Giordano. Tutte questioni che rendono davvero prematura una previsione sull’esito del negoziato. Ieri un’inchiesta del Palestinian Center for Public Opinionha mostrato quanto siano divisi i palestinesi: il 31,7 per cento è favorevole all’avvio di colloqui diretti, ma il 65,8 non crede che avranno successo.
George Mitchell, il diplomatico (ma sceglie sempre una parte) sperienza e caparbietà. Sono le due componenti caratteriali e professionali dell’inviato speciale Usa in Medio Oriente, George Mitchell. La sua voce è la voce del presidente Obama. A differenza degli altri tre protagonisti della giornata di oggi, Mitchell è quello che ha mantenuto una linea di continuità rispetto al passato. Le sue qualità diplomatiche gli hanno permesso di essere ricevuto sia dagli israeliani, sia dai palestinesi. In questo lungo periodo di congelamento dei negoziati ha rappresentato la sola cinghia di trasmissione fra le parti. Ha viaggiato in lungo e in largo, incontrando tutti i leader dei Paesi arabi, cercando di raccogliere tutte le loro istanze e sintetizzarle in un nuovo progetto di pace. Se i colloqui sono ripresi è certamente merito suo. Le sue condizioni sono risuonate con la stessa fer-
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mezza, sia di fronte alle mire espansionistiche dei coloni israeliani, sia per incentivare i palestinesi a fornire maggiori garanzie di sicurezza contro gli attentati terroristici. Del resto Mitchell è una vecchia volpe e sa come destreggiarsi nelle situazioni di negoziati difficili. Fu lui a guidare la delegazione Usa nei negoziati per la pace in Irlanda del Nord, tra il 1995 e il 2000, in qualità di inviato del presidente Clinton. Allora Mitchell condivise con Tony Blair il pieno successo delle trattative. L’ex premier britannico oggi a capo del Quartetto per il Medio Oriente (Onu, Ue, Russia e Usa). Con gli stessi personaggi in scena, la storia potrebbe ripetersi. Testi a cura di Antonio Picasso
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Il testo del discorso pronunciato dal presidente dallo Studio Ovale per annunciare la fine del conflitto iracheno
Torna a casa, America
«È stata una guerra senza vittorie, combattuta da eroi». E poi una frase a sorpresa: «Nessuno può mettere in discussione l’amore del presidente Bush nei confronti delle nostre truppe e della nostra sicurezza» di Barack H. Obama o che questo momento storico arriva in un momento di grande incertezza per molti americani. Ci stiamo avvicinando a un decennio caratterizzato dalla guerra, nel mezzo di una lunga e pericolosa recessione. E a volte, in mezzo a queste tempese, il futuro che cerchiamo di costruire per la nostra nazione – un futuro di pace duratura e prosperità a lungo termine – potrebbe sembrare troppo lontano. Ma questa pietra miliare serve come memorandum per tutti gli americani: il futuro è a nostra portata, se andremo avanti con fiducia e impegno. E questo serve anche da messaggio al mondo: in questo giovane secolo, gli Stati Uniti d’America intendono sostenere e rafforzare la propria leadership. Da questa scrivania, sette anni e mezzo or sono, il presidente Bush ha annunciato l’inizio di operazioni militari in Iraq. Molto è cambiato da quella notte. Una guerra per il disarmo si è trasformata in una guerra contro
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i rivoltosi. Terrorismo e guerriglia hanno rischiato di far capitolare l’Iraq. Migliaia di americani hanno perso la vita e in centinaia di migliaia sono rimasti feriti. I nostri rapporti con l’estero sono diventati tesi e la nostra unione interna è stata messa alla prova. Queste sono state le dure acque in cui l’America ha navigato nel corso di una delle più lunghe guerre della sua storia. Ma c’è stata una costante, anche fra questi pericoli: gli uomini e le donne americane in uniforme, che hanno servito il Paese con coraggio e risoluzione.
Come comandante in capo, sono incredibilmente orgoglioso del loro servizio. E come tutti gli americani, conosco i loro sacrifici e quelli delle loro famiglie. Oggi annuncio che l’operazione “Iraqi Freedom” è terminata, e il popolo iracheno ha oggi la piena responsabilità per la sicurezza della propria nazione. Questo era uno degli impegni che ho preso come candidato alla presidenza. Lo
scorso febbraio ho annunciato un piano che è stato rispettato: oltre 100mila americani sono andati via dal Paese. Abbiamo chiuso, o trasferito agli iracheni, centinaia di basi e abbiamo portato via tonnellate di equipaggiamento. Anche se in Iraq continuano gli attacchi di natura terroristica, essi sono al più basso tasso di incidenza dall’inizio della guerra. E l’esercito iracheno ha iniziato la sua guerra contro al Qaeda, limitandola moltissimo sul proprio territorio. Quest’anno ab-
È un patriota sia chi ha voluto questo conflitto sia colui che lo ha osteggiato
biamo anche assistito a delle elezioni credibili, con una forte affluenza alle urne. Al momento è al potere un governo di transizione, incaricato di formare un esecutivo proprio sulla base di quei risultati elettorali. Oggi incoraggio i leader iracheni a formare con responsabilità un governo inclusivo, che sia rappresentativo e in grado di rispondere alle richieste del proprio popolo. E quando questo governo sarà in carica, avrà negli Stati Uniti un forte partner. La nostra mis-
sione di combattimento è finita, ma non è finito il nostro impegno per il futuro dell’Iraq. Infatti, una forza di transizione americana rimarrà nel Paese con una missione diversa: aiutare ed assistere le forze di sicurezza locali, aiutandole nelle missioni mirate di antiterrorismo e proteggendo i nostri civili. Ma come stabilito con il governo di Baghdad, tutti i soldati americani se ne andranno entro la fine del prossimo anno.
E mentre se ne vanno i nostri soldati, sono i nostri civili (diplomatici, volontari e consiglieri) a muovere verso la “prima linea”, aiutando il governo, risolvendo dispute politiche, provvedendo agli sfollati e costruendo nuovi legami con la regione e il mondo. Questo nuovo approccio riflette il nuovo spirito della partnership a lungo periodo con l’Iraq, basato sul mutuo interesse e sul rispetto reciproco. Ovviamente, le violenze non termineranno con la fine delle nostre missio-
I media statunitensi giudicano (non troppo male) il primo “discorso di guerra” del Comandante in capo
«Meglio di Bp, ma ancora non convince» WASHINGTON. Per Obama sembrava che ogni mese avesse la sua pena, e tre mesi fa con il petrolio arrivato sulle coste del Golfo, pareva che il destino volesse metterlo alla prova, nonostante stesse mettendo in fila come birilli l’accomplishment di molte delle promesse elettorali. Non ultimo il ritiro delle truppe combattenti dall’Iraq. Le reazioni dei media americani al secondo discorso del presidente Usa non sono univoche. Sicuramente ha guadagnato la gratitudine delle mamme dei militari, come riporta Fox News. L’annuncio della fine dell’intervento armato in Iraq e dell’avvio della stabilizzazione, ha toccato corde diverse, comunque, pare ci sia stato il rimbalzo dal fondo, toccato con la vicenda del disastro ecologico nel Golfo del Messico. Per James Fallow, sull’Atlantic magazine, si è trattato sicuramente di un tentativo «meglio riuscito del suo primo discorso dalla Stanza Ovale» di tre mesi prima. Un’uscita televisiva che aveva
ni di combattimento. Gli estremisti continueranno a mettere bombe, attaccando civili e cercando di fomentare crisi settarie. Ma, alla fine, questi terroristi non raggiungeranno il loro scopo. Gli iracheni sono persone fiere. Hanno rigettato la guerra settaria
di Pierre Chiartano segnato, per Fallow, «la prima cattiva prestazione oratoria» di Obama, considerato un vero campione kennediano della comunicazione emotiva.
Quasi folgorato sulla via di Damasco, invece, è Joe Klein, l’assai critico commentatore della Casa Bianca, della rivista Time. Mai tenero con Obama, ha scritto tutto il bene possibile sul discorso presidenziale, tenendosi un po’di veleno per la coda. Obama sarebbe riuscito a «sopravvivere» ad un altro difficile momento del suo già tormentato mandato presidenziale. Qualcosa che non avrebbe precedenti nella storia americana: ha dovuto sostenere gli incauti banchieri, per salvare l’occupazione. Ha speso un sacco di soldi nello stimulus package «per evitare una situazione peggiore» di quella già difficile che vive l’economia Usa. E, martedì sera, (mercoledì in Italia) ha affermato
e non hanno alcun interesse a una distruzione senza fine. Capiscono che, alla fine, soltanto gli iracheni potranno risolvere le proprie differenze e controllare le proprie strade. Solo gli iracheni possono costruire la democrazia all’interno dei propri confini: come America possiamo, e lo faremo, dare sostegno a queste persone come amico e come partner. In Iraq abbiamo assolto alle no-
che «la guerra in Iraq è stata uno spreco inenarrabile di vite umane e di soldi, che sarebbero stati spesi meglio in Patria». Una guerra che però è stata combattuta «con onore». Per Klein il disagio del presidente durante il discorso sembrava palese. Magari era solo la postura. Seduto dietro una scrivania, il dinoccolato Obama non darebbe il meglio di se come oratore e retore. «Oppure che l’annuncio della fine di una folle operazione» richiedeva «un certo grado di rigidità e sobrietà» conclude il notista di Time. L’amico New York Times ha sottilineato l’abilità del presidente nel girare ogni tema, anche di politica internazionale, verso ciò che angoscia di più gli americani: la precaria e ancora debole ripresa economica. Insomma, barra al centro sulla «principale responsabilità di presidente: restaurare il benessere economico della nazione». Politico, un sito che è una specie di bu-
co della serratura sulla Washington del potere, ha definito Obama «sottomesso». Glenn Trush considera il discorso pieno di «cautele, avvertimenti e compromessi». Ma anche un discorso che rimanda l’immagine di un presidente che mantiene le promesse fatte in campagna elettorale. Una vera rarità a livello globale. Il fatto che lo speech presidenziale sia stato ambientato nello stesso luogo dove Bush aveva dichiarato guerra all’Iraq, farebbe di Obama un «uomo di parola e un comandante in capo all’altezza del compito». Hannah Gurman su Salon.com – uno dei primi magazine online – ha tirato in ballo George Orwell, per spiegare una fine del conflitto che definisce «simbolica» quanto figurativa. E anche Alex Pareen sulla stessa testata constata come Obama, che non vuole essere «un presidente di guerra», verrà sicuramente «giudicato per come avrà gestito i conflitti», come è stato per tutti i suoi predecessori.
il nostro momento, il nostro turno e la nostra responsabilità di onorarli agendo insieme per garantire il sogno di una vita migliore. Il nostro compito più urgente è quello di rimettere in piedi la nostra economia, e ridare un lavoro quei milioni di americani che lo hanno perso. Per rinforzare la nostra classe media, dobbiamo dare a ogni bambino l’educazione che merita, e a ogni lavoratore gli strumenti che gli servono
che un colpo. Perché questa volta era un convoglio di americani coraggiosi che hanno fatto ritorno a casa. Ovviamente i nostri soldati hanno lasciato molto, in questa guerra: molti erano adolescenti quando la guerra è iniziata, e moltissimi hanno fatto migliaia di cose, lontani dalle famiglie, per tutti noi. Un sergente ha detto: «So che per molti dei miei compagni in armi, morti in battaglia, questo giorno ha un grande significato».
Viviamo in un’era priva di cerimonie di resa. Dobbiamo ottenere la vittoria con la forza della nostra nazione
dato la vita per quei valori che vivono nei cuori del nostro popolo da oltre duecento anni. Insieme ad altri 1,5 milioni di americani, i membri dell’ultima brigata hanno combattuto in prima linea per persone che non hanno mai conosciuto. Sono rimasti nella più buia fra le invenzioni umane, la guerra, e hanno aiutato gli iracheni a trovare la luce della pace. In un’era senza cerimonie di resa, dobbiamo guadagnarci la vittoria con il successo dei nostri alleati e la forza della nostra nazione. Ogni americano sotto le armi ha onorato quella linea continua di eroi che va da Lexington a Gettysburg, da Iwo Jima a Incheon e da Khe Sanh a Kandahar. Sono americani che hanno cercato di rendere la vita dei nostri figli migliori della nostra. Le nostre truppe sono l’acciaio che tiene unita la nave dello Stato. E anche se dobbiamo attraversare acque pericolose, ci dà fiducia la loro presenza e il fatto che, oltre l’oscurità che precede l’alba, ci aspettano giorni migliori. Dio vi benedica, e Dio benedica gli Stati Uniti d’America e coloro che lottano per essi.
stre responsabilità. Ma adesso è giunto il momento di cambiare pagina. Mettere fine a questa guerra non è solo interesse dell’Iraq: è anche interesse dell’America. Abbiamo mandato i nostri uomini e le nostre donne in divisa a fare enormi sacrifici in Iraq ed abbiamo speso vaste risorse in quel Paese in un momento economico difficile sul fronte domestico.
Nell’ul timo de ce nnio , abbiamo speso oltre 1.000 miliardi di dollari in guerra, spesso finanzianti con prestiti esteri e ora, con la fine della guerra in Iraq, è arrivato il momento di affrontare le sfide domestiche con la stessa energia, determinazione e senso comune dimostrati dai nostri uomini e delle nostre donne che hanno servito fuori dai nostri confini. Oggi ho parlato con l’ex presidente George W. Bush. Il nostro disaccordo su questa guerra fin dall’inizio è ben noto, ma nessuno può mettere in discussione il sostegno del presidente Bush nei confronti delle nostre truppe, il suo amore per il nostro Paese e il suo impegno per la nostra sicurezza. Come ho detto, ci sono patrioti che hanno sostenuto questa guerra e patrioti che l’hanno osteggiata. Tutti siamo però d’accordo nell’apprezzare il sacrificio dei nostri uomini e donne in Iraq e siamo fiduciosi sul futuro dell’Iraq. E così in questo momento, mentre si abbassano i venti di guerra in Iraq, ci dobbiamo preparare ad affrontare quelle sfide interne con la stessa energia di coloro che le hanno affrontate all’estero. Quelle persone hanno vinto ogni sfida che hanno incontrato. Ora è
Quegli americani hanno
per essere competitivi nell’economia globale. Dobbiamo far ripartire le industrie, e tagliare la nostra dipendenza dal petrolio straniero. Sono compiti difficili, ma nei giorni che verranno devono essere la nostra missione principale come popolo e la mia responsabilità centrale come presidente. Due settimane fa, l’ultima brigata da combattimento americana è tornata a casa, nell’oscurità che precede l’alba.
Migliaia di soldati e centinaia di veicoli hanno fatto il viaggio da Baghdad, l’ultimo a passare per il Kuwait. Più di sette anni, le stesse unità fecero la stessa strada: ma questa volta non è stato sparato nean-
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L’ex presidente della World Bank, ideologo della caduta di Saddam Hussein, suggerisce a Obama la strada da seguire in Iraq
Facciamo come a Seoul Smettere di combattere non servirà a nulla, se non aiutiamo il governo e la popolazione a costruire un Paese moderno e democratico in grado di guidare l’intero Medioriente. Modello Corea del Sud... di Paul Wolfowitz
l vice presidente americano Joe Biden, che questa settimana è volato in Iraq per chiudere formalmente le operazioni di combattimento sul campo, ha dichiarato che la pace e la stabilità del Paese «potrebbero essere uno dei risultati maggiori» delObama. l’amministrazione Ovviamente, la maggior parte del credito per questi risultati va data a quegli uomini e donne coraggiosi che fanno parte dell’esercito americano, che hanno sacrificato così tanto perseverando in mezzo alle difficoltà. Bisogna dare credito anche all’esercito iracheno e alle locali forze di polizia (che hanno combattuto con coraggio e sempre meglio) e al popolo, che porta sulle spalle un peso enorme. Ma è un ottimo segnale che Obama e il suo governo chiedano di avere un credito per l’operazione: il loro sostegno è fondamentale, se si vuole un Iraq pacificato. La mia speranza è che il presidente capisca che il successo
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nel Paese non sarà definito da cosa abbiamo ritirato, ma da ciò che ci lasciamo alle spalle. Come minimo abbiamo bisogno di un Iraq stabile, in pace con i suoi vicini e con i confini sicuri; più avanti dovremo aiutare Baghdad a divenire un leader nel progresso politico ed economico del Medioriente. La lezione imparata nel corso di un’altra guerra americana può essere istruttivo. Cinquantasette anni fa, un armistizio mise fine alla guerra di Corea: un altro conflitto impopolare, molto più sanguinoso di quello iracheno anche se più corto. La sorte delle vittime civili fu orrenda, e gli Stati Uniti e i suoi alleati subirono più di mezzo milione di perdite. L’esercito sudcoreano pagò il prezzo più alto, ma 33.739 soldati americani morirono in battaglia. Il generale Dwight Eisenhower vinse nel 1952 le elezioni in parte promettendo la fine della guerra. Secondo un sondaggio dell’aprile del 1953, il 55 per cento della po-
polazione americana non riteneva necessario combattere quella guerra. Eppure, quando la guerra di Corea venne conclusa, gli Stati Uniti non abbandonarono il Paese. Lo facemmo una prima volta nel 1949, quando terminò l’occupazione coreana in seguito alla vittoria della Seconda guerra mondiale, e aprimmo di fatto le porte all’invasione nordcoreana avvenuta l’anno successivo. Dopo la guerra civile, mantenemmo invece una con-
Come Barack, Eisenhower vinse le elezioni grazie alla promessa di pace a Seoul
sistente forza militare nella parte sud della penisola. Il governo degli Stati Uniti decise di trattare con la Corea del Sud, nonostante fosse governata da un dittatore e avesse pochissime prospettive di ripresa economica dopo i disastri del conflitto. Eppure, con tutti i suoi difetti, Seoul rimaneva un paradiso di libertà, se comparata con il brutale e violento dispotismo della Corea del Nord. In quell’occasione comprendemmo come la sta-
bilità della penisola fosse fondamentale per la pace dell’intera regione, che comprendeva non soltanto il Giappone ma anche la Cina e la Russia. Infine, fattore forse più importante di tutti, comprendemmo che abbandonare di nuovo la Corea avrebbe significato gettare a mare tutto quello che si era così faticosamente ottenuto. Oggi, anche se Seoul ha assunto la principale responsabilità della propria difesa, ci sono ancora 28.500 soldati americani nel Paese. Il nostro impegno continuo è riuscito ad evitare una nuova guerra, e oggi la Corea del Sud può vantare una considerevole e riuscita vittoria economica. Una serie di elezioni democratiche, iniziata nel 1987, ha reso vincente anche la sua storia politica. Alcune di queste considerazioni si applicano anche all’Iraq contemporaneo. Innanzitutto l’Iraq occupa una posizione fondamentale per il Golfo persico, una regione strategicamente importantis-
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È necessario imporre una rappresentanza diplomatica permanente nelle zone sacre sul Tigri
La chiave di volta è Najaf il “santuario del terrorismo”
Il Dipartimento di Stato deve fare i conti con la culla dell’islam sciita, dove i musulmani non hanno dimenticato il tradimento di Bush senior di Michael Rubin ultima brigata da combattimento statunitense ha lasciato l’Iraq il 18 agosto. Mentre il presidente Obama dichiara che 50mila truppe statunitensi vi rimarranno fino a dicembre 2011 per formare l’esercito iracheno, in realtà le unità americane sono impegnate più nell’assemblare tonnellate di equipaggiamenti. Come mi ha spiegato un colonnello il mese scorso: «Possiamo spegnere le luci e chiuderci la porta dietro». Il Dipartimento di Stato è ora l’agenzia principale che si occupa di modellare il futuro delle relazioni tra Iraq e Stati Uniti. «Siamo assolutamente preparati ad assumerci le nostre responsabilità», ha dichiarato il portavoce P. J. Crowley il 19 agosto. Oltre a rendere operativa la più grande ambasciata statunitense al mondo, a Baghdad, i diplomatici americani apriranno anche dei consolati nel Kurdistan iracheno e a Basra.
L’
Nel nuovo piano post-occupazione, comunque, manca una rappresentazione statunitense a Najaf, forse la più importante città del nuovo Iraq. La libertà conquistata a Najaf non avrà importanza se gli Stati Uniti non stanzieranno permanentemente diplomatici nel “Vaticano dell’islam sciita”, pronti a perorare la causa di Washington; i nemici dell’America definiranno la nostra eredità. Najaf è la sede di due santuari ed è il fulcro della giurisprudenza sciita, non solo per l’Iraq ma per tutti i musulmani. Solo il 10 per cento della popolazione musulmana mondiale è sciita, ma la cifra rappresenta più di 100 milioni di persone. Fra il Mediterraneo e l’Iran, la percentuale di sciiti nella popolazione musulmana arriva al 50 per cento; in Iraq, a causa della fuga di molti sunniti dopo la caduta di Saddam Hussein, la percentuale si avvicina al 70 per cento. Gli sciiti non sono tutti uguali. A Najaf le stirpi quietiste dello sciismo prevalgono e sostengono una maggiore separazione tra moschea e stato. Dalla città iraniana di Qom gli ayatollah promuovono una visione dello sciismo più in linea con l’ideologia rivoluzionaria della repubblica islamica. Liberata dal giogo di Saddam Hussein, la vita religiosa a Najaf è fiorente. La sicurezza non è più un problema come lo era
nel 2004 e l’economia è in netta ripresa. Dopo il petrolio, il turismo religioso concentrato a Najaf rappresenta la più importante industria dell’Iraq e porta guadagni maggiori rispetto all’agricoltura. Un nuovo aeroporto internazionale trasporta pellegrini – per lo più iraniani – a Najaf. Non esiste posto migliore in Iraq dove i diplomatici possano interagire con gli iraniani al di là
Anche il popolo iraniano guarda con interesse a questi luoghi, dove riposa l’ultimo Imam delle differenze socioeconomiche perché ognuno, ricco o povero, desidera fare un viaggio che un tempo era proibito dalla guerra e dalla politica. Si continuano ad aprire nuovi alberghi. I nuovi ristoranti della città hanno file di clienti. Ahimè i soldi iraniani sottoscrivono la maggior parte della costruzio-
ne. La giustapposizione del boom edilizio di Najaf con la mancanza di gru nell’orizzonte di Baghdad la dice lunga sul futuro dell’Iraq così come sul fallimento sia dell’assistenza statunitense che del governo centrale di Baghdad. In qualità sia di ufficiale Americano nel 2004 – quando ho lavorato come consulente politico nel governo temporaneo della coalizione – che di visitatore americano nel 2010, sono stato accolto nel santuario dell’Imam Ali, il più sacro di Najaf. A gennaio, ho visitato un grande ayatollah e gli uffici di altri due. Ognuno di loro diceva di aver accolto favorevolmente il dialogo con gli americani. In effetti, Adnan Zurfi, il governatore eletto di Najaf, ha passato i suoi anni di esilio a Dearborn, Michigan. Ciò nonostante gli sciiti rimangono incerti sulle intenzioni americane.
Nel corso di una pausa della campagna a febbraio 1991, il presidente George H. W. Bush in una famosa dichiarazione si appellò a «la popolazione irachena affinché prendesse in mano le proprie questioni e obbligasse Saddam Hussein, il dittatore, a farsi da parte». Gli sciiti lo ascoltarono e agirono, ma Bush ebbe dei ripensamenti e rimase in disparte quando i carri armati e gli elicotteri di Hussein schiacciarono la rivolta. Migliaia di sciiti vennero gettati in fosse comuni. La percezione significa più della realtà. In ogni seminario sciita, il clero e gli studenti chiedono precisamente perché dovrebbero di nuovo dare fiducia agli Stati Uniti dopo il loro abbandono del 1991. Accusano la Casa Bianca, il Dipartimento di stato e il Dipartimento della difesa di essere stati di parte. Questa versione, incoraggiata dall’Iran, non è giusta nei confronti di migliaia di americani che hanno sacrificato la loro vita per rendere Najaf libera nel 2003 e anche l’anno dopo quando le truppe statunitensi hanno collaborato nella liberazione della città dalle milizie sostenute dall’Iran. La libertà conquistata a Najaf non avrà importanza se gli Stati Uniti non stanzieranno permanentemente diplomatici nel “Vaticano dell’islam sciita”, pronti a perorare la causa di Washington; i nemici dell’America definiranno la nostra eredità. Nel suo discorso del Cairo ai musulmani la scorsa estate, Obama ha dichiarato che sta cercando «un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e la popolazione musulmana di tutto il mondo, un inizio basato su interessi e rispetto reciproci» e che gli Stati Uniti «sosterranno un Iraq sicuro e unito come partner e mai come benefattore». Per la maggior parte della popolazione dell’Iraq, e per il 90 per cento della popolazione dell’Iran, le parole del presidente rimarranno vane a meno che non sosteniamo attività sul territorio per il mondo sciita.
sima per il mondo anche perché in quell’area si agitano anche le pericolose ambizioni dei governanti dell’Iran attuale. Poi va considerato che, nonostante tutti i problemi della democrazia irachena, questa non può neanche essere messa a paragone con il regime che alcuni elementi ostili vorrebbero imporre sul Paese. Con tutte le sue imperfezioni, l’Iraq contemporaneo è molto più democratico della Corea del Sud alla conclusione della guerra civile, e molto più democratico anche di tutti gli altri Paesi del Medioriente (con l’unica possibile eccezione del Libano). Abbiamo ritirato le nostre truppe e rinunciato a un ruolo di combattimento perché le forze di sicurezza irachene sono oggi in grado di gestire per la maggior parte la nazione. I loro affiliati erano 320mila nel 2006; oggi sono più di 600mila, e continuano ad aumentare. Ovviamente i numeri sono soltanto una parte della questione, e i militari iracheni hanno ancora molto bisogno degli americani. Non sorprende, ad esempio, che il nemico ha concentrato i propri attacchi sui soldati e sui poliziotti iracheni nel momento in cui è iniziato il ritiro statunitense (anche se i caduti iracheni sono sempre molto meno di quelli dell’inizio del conflitto). Dal giugno 2003, sono morti circa 10mila uomini delle forze armate locali: il doppio del totale della coalizione internazionale. Anche se è terminato il nostro impegno sul campo, il nostro sostegno all’Iraq deve continuare. Questo significa continuo supporto politico, che include il nostro aiuto nel risolvere l’attuale stallo nella formazione del nuovo governo. Vale la pena sottolineare che la maggior parte dei problemi che gli iracheni incontrano in questi mesi deriva dalla Costituzione e dal sistema elettorale che la comunità internazionale ha aiutato a tratteggiare, un esempio nuovo per il mondo arabo. Il nostro impegno deve includere anche sostegno materiale, in particolar modo nel campo militare e nell’assistenza tecnica. E, anche se ci siamo impegnati ad allontanare tutti i nostri uomini entro la fine del prossimo anno, dobbiamo mantenere aperta la possibilità di un mutuo accordo per la sicurezza che comprenda il ritorno della nostra presenza militare sul campo. Vale la pena celebrare la fine del nostro impegno sul campo, dopo sette anni di conflitto, e il ritorno a casa di tanti nostri soldati. Ma abbandonare l’Iraq danneggerebbe gli interessi americani nella regione e oltre. Mantenere un impegno a lungo termine ridurrà invece costi e rischi: è il modo migliore per mantenere vivo ciò che abbiamo ottenuto con così tanto sacrificio.
politica
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Sfide. Generazione Italia accusa: «Gli squadristi della Brambilla contro Fini». Ma lei smentisce: «Li querelo»
Il disco rosso di Napolitano
«Il processo breve? È su un binario morto, come le intercettazioni» ROMA. È facile immaginarli, Berlusconi, Alfano, Ghedini, mentre si scervellano sulle modifiche da apportare al processo breve. È una scena che in queste ore si ripete spesso. Che quasi monopolizza l’agenda del governo. Ebbene, quel consesso di alacri ingegni viene improvvisamente liquidato, quasi ridicolizzato, da una battuta di Giorgio Napolitano. Il set è quello di Venezia, dove è in corso il Festival del cinema e dove il Capo dello Stato è in visita privata. Si compiace per la folta presenza di film italiani in rassegna. Quindi i cronisti lo incalzano. Gli chiedono se è vero che si è tentato di coinvolgerlo nel lavoro di restyling del ddl taglia-processi. Lui risponde: «Su queste cose ho già detto tante volte mentre si discuteva della legge per le intercettazioni. Sapete che fine ha fatto quella legge? Siete informati»,
di Errico Novi blocca-processi, poi il Lodo Alfano, quindi le convulsioni dell’inverno scorso che hanno paralizzato per mesi l’attività politica fino al processo breve; ancora, il legittimo impedimento, con l’intermezzo delle intercettazioni e la ripresa del ddl taglia-processi, indotta dai timori di un nuovo pronunciamento sfavorevole della Consulta. È un labirinto che non porta da nessuna parte, e nel quale Napolitano è stufo di farsi trascinare.Tra pressioni, preghiere di intervento, strattoni d’ogni sorta che si risolvono, come avvenuto un anno fa dopo la sentenza sul Lodo, in sfrenate accuse di complicità con i magistrati.
L’Italia non può essere trascinata in questa giostra infinita. Tanto più che all’ossessione per la giustizia restano tuttora so-
Secondo l’organizzazione dei finiani, il ministro del Turismo starebbe mettendo in piedi una spedizione alla festa di Mirabello per fischiare il presidente della Camera chiosa Napolitano. Un giornalista azzarda: «Su un binario morto?». E lui: «Ecco». Come dire: abbiamo un presidente del Consiglio che si affatica continuamente su marchingegni inutili, si perde, non ne viene mai a capo. L’immagine è terribile. E dice tutto. Condensa in pochi spazientiti accenni oltre due anni di legislatura sacrificata per gran parte agli scudi salva-premier: prima il
spesi i destini del governo, della maggioranza, della legislatura. Con le sue sottili rasoiate, Napolitano vuole dire questo. Non nasconde più l’insofferenza. E spiega che l’esecutivo «si dovrà concentrare per forza sull’economia». Questo dovrebbe fare un governo responsabile, anzichè perdersi tra le carte di Ghedini. La sferza stavolta lasca il segno. Passano ore senza che il fronte berlusconiano partorisca
una risposta vera, se non una nota del generoso Fabrizio Cicchitto: «Malgrado gli attacchi di tutti i tipi, della sinistra e dei magistrati, questo esecutivo si è impegnato a fondo per mettere il Paese al riparo dalla crisi, certamente l’economia è stata al centro dell’azione di governo». Insiste su un vittimismo che implica una giustificazione, il capogruppo pdl, assicura che «il governo ha piena consapevolezza» della priorità da dare «ai nodi economici e sociali»: continuerà a farlo «malgrado la
campagna mediatica scatenatasi in questi ultimi tempi». C’è sempre un buon motivo insomma per distrarre parte delle energie sul fronte delle leggi salva-premier, è la difesa d’ufficio del Pdl, sottintesa nelle parole di Cicchitto. Ma l’arringa non basta a eliminare un dato: d’ora in avanti ogni indugio su processo breve e scudi vari ricadrà nell’accusa, implicita nella battuta di Napolitano, di trascurare l’interesse del Paese in nome delle solite, inconcludenti iniziative sulla giustizia.
Solo il 16 il collegio deciderà se rinviare le espulsioni
L’arma carica dei probiviri ROMA. Arriva una mezza conferma: la riunione dei probiviri, chiamati a decidere del’espulsione di Bocchino, Granata e Briguglio, potrebbe slittare di un paio di mesi. Ma il dubbio resterà fino al giorno fatale, il 16 settembre, quando l’organismo presieduto da Vittorio Mathieu si riunirà e deciderà se rinviare le decisioni disciplinari. Tutto congelato dunque anche per lasciare l’arma carica sul tavolo in vista del discorso di Fini a Mirabello. Il premier tenta comunque di attenuare la tensione con il presidente della Camera e i suoi, consapevole com’è che il loro sostegno è indispensabile per l’approvazione di un nuovo salva-
condotto giudiziario, che si tratti del processo breve o di altro. In quest’ottica il presidente del Consiglio ha avviato una strategia di riassorbimento dell’anomalia finiana. Confida sulle diverse posizioni che ci sono, dentro Futuro e libertà, sul ddl taglia-processi: se Granata dichiara di non aver cambiato idea, il moderato silvano Moffa dice che bisogna prima vedere il testo, mentre Souad Sbai dichiara che bisogna votarlo e basta. Il presidente della commissione Finanze del Senato Mario Baldassarri incontra addirittura il Cavaliere nella sua residenza romana: «Abbiamo parlato di sviluppo», assicura il parlamentare finiano.
Ci si era lasciati a fine luglio, d’altronde, col tiro alla fune sulle intercettazioni. Nemmeno il tempo di smaltire il ritorno dalle ferie e gli italiani si ritrovano con la solita scena: Ghedini e gli altri che alambiccano a Palazzo Grazioli, stavolta sul processo breve. Con il rischio di finire sul binario morto evocato da Napolitano, le cui perplessità sulla norma transitoria affiorano chiaramente. Il pericolo vero è di ricascare nel vortice di un anno fa, quando il Cavaliere dichiarò una sorta di “sciopero della politica”. Una sospensione di fatto dell’attività di governo, trasferita nell’esclusiva competenza di Tremonti, che sarebbe durata fino ai primi vagiti del legittimo impedimento. La replica di quell’incredibile avvitamento è dietro l’angolo. Emerge anche nel solo linguaggio che il Pdl riesca davvero a utilizzare, quello della ripicca e del rancore: Generazione Italia denuncia la preparazione da parte degli «squadristi» di Michela Brambilla di una missione a Mirabello per fischiare Fini domenica: «Tutto pagato dal partito». Il ministro smentisce a modo suo: «Mettono le mani avanti sulle contestazioni che ci saranno, evidentemente. Io non le ho organizzate, partiranno querele». La polemica contraddice l’auspicio di Napolitano: il quale non fa previsioni sul destino della legislatura, ma dice che nonostante «siamo nella febbre politica», si va «verso un’evoluzione più benigna». Sempre che l’istinto distruttivo non prevalga sul realismo dello stesso Cavaliere.
L’
otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
i m p r e s a
2 settembre 31 a.C.
Al largo di Azio, la flotta di Ottaviano sconfigge quella di Marco Antonio e Cleopatra
Quando l’Oriente perse il futuro di Nicola Fano
l 2 settembre di 2040 anni fa, nel cuore del Mediterraneo faceva caldo e il caldo, 2040 anni fa, era un problema serio, mica una cosa da meteorologi della domenica come oggi. Di caldo si moriva, nel senso delle epidemie, del cibo avariato, dell’acqua imputridita. Ora, che morissero schiavi e altri poveracci simili, 2040 anni fa era un fatto relativo; ma che il caldo potesse decimare un esercito era una questione ben più grave. Ragione per la quale se si doveva preparare una guerra, all’epoca, era meglio aspettare lo scontro finale sul mare (luogo più fresco) piuttosto che sulla terraferma (più infetta). Allora, la domanda è: se 2040 anni fa avesse fatto un po’ meno caldo nel cuore del Mediterrano, ci sarebbe stato l’attentato dell’11 settembre alle Twin Tower? Direte: che c’entra? C’entra, eccome: ma affrontiamo una cosa per volta. Intanto: la questione dei 2040 anni fa. Se contiamo 1 l’anno 0 (quello della nascita di Cristo, per intenderci), allora un fatto capitato nel trentuno avanti Cristo è capitato appunto 2040 anni fa. E allora, risolta la questione delle date, c’è la storia da rispettare. E la storia dice che nel 31 avanti Cristo, ossia andando indietro 2040 anni indietro esatti esatti a partire da oggi, si combatté la battaglia di Azio, quella che decretò nei secoli dei secoli la vittoria dell’Occidente sull’Oriente. Addirittura? Addirittura: perché poi nulla è stato più uguale a prima. Basti pensare che dalla vittoria di Azio è nato l’Impero Romano e che dalla sconfitta di Azio è nato lo spirito di rivalsa dell’Oriente sull’Occidente. Nel pieno del nostro mare Jonio, 2040 anni fa, Ottaviano Augusto vinse su Antonio: entrambi avevano un grande progetto per riorganizzare il mondo intero, salvo che uno escludeva l’altro. Ottaviano ha sconfitto Marc’Antonio e ha potuto tranquillamente lavorare al battesimo di sé Augusto: è con questo nome, che oggi lo ricordiamo fondatore della civiltà occidentale. continua a pagina 10
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LA PERDUTA GENTE - CAPITOLO 23
I TESORI DELLE CIVILTÀ - ANYANG
CINEMA CALDO - LE STELLE CADENTI DI ALTMAN
La tecnica dei mondi paralleli
Le antiche ombre degli Shang-Yin
C’era oggi in America
di Carlo Chinawsky
di Alessandro Boschi
di Rossella Fabiani
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pagina 16 pagina 9 - liberal estate - 2 settembre 2010
Antonio, battuto dall’avversario visse ancora un anno disperato, fino a morire («Il rompersi di una cosa tanto grande avrebbe dovuto fare più rumore», commentò l’altro) braccato da Ottaviano: oggi lo ricordiamo come Marc’Antonio, giacché la storia gli assegna solo il privilegio d’aver commemorato con quel nome giovanile la morte del suo patrigno Giulio Cesare davanti ai Rostri. E inAntonio vece aveva capito che la Roma di Cesare era morta con il suo creatore e che lo storia s’era già presa la briga di andare oltre di lui. Ma per compiere il suo corso, quella trasformazione aveva bisogno di un evento cruento e catartico: la battaglia di Azio, appunto.
Andiamo con ordine. Giulio Cesare, Bruto, Cassio, Antonio, Ottaviano e Cleopatra sono i protagonisti di queste straordinarie vicende: vanno raccontati uno per uno. E cominciamo da tredici anni prima dei fatti, da quelle Idi di marzo quando i celebri congiurati guidati dal banchiere d’origine orientale Bruto e dal mestatore Cassio (un affarista molto mal in arnese, all’epoca) uccisero Giulio Cesare in Senato con le proverbiali
ventitrè coltellate. Perché uccisero Cesare? Perché Cesare voleva farsi re, come ricorda il grande storico greco Plutarco e come meravigliosa“copia” mente Shakespeare nel suo
tenuto sua madre, al punto da considerare Bruto un suo fi-
go e puttane. La meravigliosamente ambigua oratoria che gli attribuiscono Plutarco e Shakespeare dunque è sicuramente improbabile. Ciò non toglie che Antonio era uomo di enorme carisma, non solo in ambito militare. Tanto che metà dei romani di allora finirono per schierarsi con lui chiedendo la testa di Bruto e Cassio dopo i funerali di
Giulio Cesare. Forse è così, forse Bruto (uomo di Stato e d’onore, oltre che banchiere) percepì nella vanità di Giulio Cesare un pericolo per la saldezza della Repubblica di Roma. Forse la pensarono così anche alcuni degli altri congiurati: Da secoli, dai tempi della sconfitta dei sette re etruschi e dalla fondazione della Repubblica, l’ordinamento statale basato su tre poteri contrapposti che si controllano in modo incrociato (legislativo, governativo e magistratura) era sempre stato il bene superiore: un “re” naturalmente avreb-
glioccio), Cassio aveva un problema più pratico: Giulio Cesare l’aveva escluso dalla gestione dei grandi appalti di stato. E poiché Bruto era danaroso (avete mai visto un banchiere povero?), in lui Cassio vide il possibile, munifico finanziatore della guerra che sicuramente sarebbe scoppiata dopo l’omicidio di Giulio Cesare. E la guerra scoppiò, regolarmente, come previsto: sicché i soldi di Bruto furono ben utili a Cassio.
Giulio Cesare. I congiurati scapparono ma dichiararono guerra agli usurpatori (Antonio in testa) i quali accettarono la sfida e le inseguirono. A omicidio consumato, dalla provincia tornò a Roma un giovane ma già avveduto politico che Giulio Cesare aveva segretamente educato pensando a una futura successione: Ottaviano, che prese subito nome Cesare Ottaviano (aveva l’ossessione dei nomi, Ottaviano, a ogni svolta di storia, si cambiava nome… ). Naturalmente, Antonio non si preoccupò di proclamare ai quattro venti che Giulio Cesare lo aveva già nominato suo braccio destro: lo sapevano tutti, compreso Ottaviano che buono buono si mise a fare praticantato militare a fianco di Antonio.
be alterato l’equilibrio dei tre poteri e sbilanciato lo Stato a favore di uno dei tre (ossia di una famiglia, di un casato, di una casta). La maggior parte dei congiurati intervenne per questo, ma a parte l’identità di vedute di facciata, i due capi Bruto e Cassio non la vedevano certo allo stesso modo. Bruto aveva un problema etico (senza contare che Cesare aveva anche man-
Qui sopra, e in alto, Ottaviano Augusto e una triremi romana. Nella pagina a fianco, una riproduzione della battaglia di Azio
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Ma non gli bastarono. Perché anche la sua guerra fu persa. Ma andiamo piano. Siamo sempre al 44 a.C. Ucciso Cesare, c’è da spiegare ai romani perché. E Bruto non pensa niente di meglio che co-celebrare il funerale con Antonio (Marc’Antonio, appunto), altro figlioccio di Cesare, il suo colonnello preferito. Il quale Antonio, sbigottito per la morte dell’uomo cui deve tutto, mal si
A loro si unì un terzo uomo: Marco Emilio Lepido comandante militare incerto ma molto, molto danaroso. Fu così che per due anni, Bruto e Cassio furono inseguiti da Antonio, Ottaviano e Lepido per mezzo mondo: a Filippi, allo scontro finale, i congiurati finirono sconfitti e la restaurazione romana poteva così tranquillamente proseguire. Ma non per molto. Intanto, fermiamoci a Filippi nel 42 a.C. perché lì ne capitarono di tutti i colori. Nel preparare lo scontro finale, intanto, Cassio accusò Bruto di avergli negato finanziamenti e uomini: se sia vero o no, non lo sappiamo. La storia la scrivono i vincitori e Bruto e Cassio qui sono i perdenti (due volte perdenti, figuriamoci), ma cercando di interpretare con un po’ di distacco le cose, par di capire che né Bruto né Cassio devono essere
Tutto cominciò tredici anni prima, da quelle Idi di marzo che videro i congiurati Bruto e Cassio uccidere Giulio Cesare in Senato con le proverbiali ventitrè coltellate
presta a una reale conciliazione; e si presenta ai rostri facendo il celebre discorso che Shakespeare ha reso immortale («Lui era mio amico, leale e giusto; ma Bruto dice che era ambizioso, e Bruto è uomo d’onore… »). Ora, l’orazione è riportata pari pari, o quasi, da Plutarco, ma è dubbio che Antonio l’abbia pronunciata proprio così. Perché era un uomo rozzo, incolto, manesco e di poche parole: un soldato che viveva con i suoi soldati rotolandosi tra battaglie, sangue, fan-
stati – come dire? – delle brave persone. Ma di sicuro Bruto capì che uccidendo Cesare aveva sbagliato perché aveva fatto precipitare la crisi del modello romano, mentre è più probabile che Cassio abbia sempre agito solo per interesse. Comunque: a Filippi persero per proprie colpe, non perché vinsero gli altri. Persero perché funzionò male il servizio di portaordini tra i due e quando uno parve sconfitto (e non lo era) l’altro si uccise. Solo alla fine, Bruto si uccise gettandosi sulla sua spada (come raccontano sempre Plutarco e Shakespeare): «La morte di Bruto non segue un singolo destino: tutti i cospiratori fecero quello che fecero in odio al grande Cesare», così dice Antonio sul suo corpo appena morto secondo Shakespeare (che, ricordiamolo ancora una volta, segue la strada di Plutarco). Tant’è, la battaglia di Filippi del 42 a.C segnò la fine della vecchia Roma, ma ci vollero ancora 11 anni perché si capisse chi avrebbe costruito quella nuova, se Antonio o Ottaviano. Lepido no, Lepido onestamente non aveva vere chance di futuro: sia pure nella grande marcia del tratto di storia che lo vide co-protagonista, Lepido fu un militare e un politico ordinario se non mediocre: nulla a che vedere con gli altri due che – con lui – si unirono in triumvirato per gestire la transizione.
E così ci avviciniamo ai fatti di 2040 anni fa: ci volle un altro decennio di guerra civile, allorché Antonio si stabilì in Egitto, legandosi a Cleopatra che ad Alessandria era regina con il beneplacito dei romani (dopo un durissimo dissidio con il fratello, era stata rimessa sul trono da Giulio Cesare che le aveva dato anche un figlio: Cesarione). Tuttavia, Antonio restava legato a doppio filo a Ottaviano, il loro rapporto nel corso degli anni fu sigillato da due matrimoni incrociati: Ottaviano si legò alla figliastra di Antonio mentre Antonio di Ottaviano sposò Ottavia. Ma di fatto Antonio governava i territori d’Oriente fra quelli conquistati da Giulio Cesare, mentre Ottaviano aveva il predominio sull’Occidente. A est c’era la parte conosciuta dell’Africa, ma anche l’attuale Grecia con le intere propaggini continentali verso nord (Macedonia e Balcani), nonché le province asiatiche fino alla lontanissima Mesopotamia. A ovest c’era l’Europa: la penisola italiana, naturalmente, ma anche le attuali Francia, Spagna e Gran Bretagna; senza contare una parte importante della Germania. Insomma: prendete una cartina geografica, tracciate una ri-
ga a est dello Stivale e avrete la divisione del mondo stabilita da Antonio e Ottaviano. Lo scontro tra Oriente e Occidente cominciò lì. Perché i due non è che fossero proprio d’accordo: governare il mondo a proprio estro (all’epoca) voleva dire governare Roma e Antonio e Ottaviano a Roma avevano una quantità pari di senatori e fedelissimi. Lo scontro frontale veniva rimandato di giorno in giorno, di mese in mese, di anno in anno: brandelli di pace, trattati siglati a distanza e promesse di fedeltà a Roma allontanarono per anni lo spettro di uno scontro aperto. Ma resta il fatto che Antonio e Ottaviano avevano due idee del mondo e della politica completamente diverse.
Ricordate? Antonio era un buon soldato, un uomo pratico, non un intellettuale: ma stava insieme a Cleopatra che invece aveva una testa un po’ più raffinata. Cleopatra aveva un grande progetto: unificare il mondo partendo da Oriente verso Occidente, tutto al contrario di quello che poi effettivamente è successo. Cleopatra aveva un grande seguito non solo in Egitto, ma anche il Medio Oriente e, grazie al suo Marc’Antonio aveva un discreto seguito anche in Asia minore. Quella rappresentata da Cleopatra era una grande cultura che sapeva mescolare la ragione e la fantasia: i migliori scienziati dell’epoca era egiziani. Sapete come si chiamava di cognome Cleopatra? Tolemei. Da un suo avo Tolomeo che aveva inventato il sistema tolemaico: uno che aveva dato ordine al cielo. Quello stesso sul quale poi la Chiesa cristiana, secoli dopo, ha fondato tutte le sue teorie, ma questa è un’altra
storia. Insomma, gli orientali erano bravi scienziati, ma sapevano inventare anche grandi spettacoli: balli, costumi colorati, illusioni magnifiche, insomma. Erano amanti della logica ma sapevano usare bene pure le illusioni. Orientali, insomma, avevano una tradizione culturale secolare… erano quelli che avevano inventato la scrittura, l’artigianato, le leggi, la democrazia. Chissà dove saremmo ora se Cleopatra avesse
L
o stesso giorno...
La Convenzione introduce l’idea del minore come soggetto giuridico invece che come mero oggetto di tutela e protezione, e affianca a valori universalmente di Sabrina de Feudis riconosciuti una serie di nuove norme l 20 novembre del 1989 a New York, ti dell’infanzia. Ai sensi
Da New York a Roma, la lunga marcia dei diritti dei bambini
I
l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha approvato la Convenzione sui Diritti dell’infanzia, ed è entrata in vigore il 2 settembre del 1990. L’Italia ha ratificato la Convenzione il 27 maggio 1991 con la legge n. 176 . Suddivisa in tre parti, la Convenzione è formata da un preambolo e da cinquantaquattro articoli. Nel preambolo si afferma che l’infanzia ha diritto a un aiuto e a una assistenza particolari, e si sottolinea che la famiglia, essendo unità fondamentale della società ed ambiente naturale per la crescita del minore, deve ricevere la protezione e l’assistenza di cui necessita. Nell’intento di ottenere il più largo assenso possibile tra i popoli di cultura, religioni, tradizioni assai diverse, la Convenzione esprime un vasto consenso su quali siano gli obblighi degli Stati e della comunità internazionale nei confron-
vinto. Chissà se ci sarebbero state la rivoluzione industriale, l’effetto serra e le guerre di religione… E invece Cleopatra ha perso, lo sapete tutti: una sola cosa non sapeva fare il suo popolo – la guerra – e per questo si dovette alleare con quello che era ritenuto il guerriero più forte d’Occidente, Marc’Antonio (Ottaviano era obiettivamente un pessimo stratega militare). Malgrado questo perse: Marc’Antonio era bravo ma Cleopatra non
aveva abbastanza soldi da pagarsi un esercito invincibile. Ottaviano no. Ottaviano di soldi ne aveva un’infinità. E contro di loro schierò soldi e un grande generale: Marco Vipsanio Agrippa. Fu lui, Agrippa, che vinse a Azio 2040 anni fa.
Nel senso che Agrippa fece costruire navi migliori di quelle egiziane, piatte, pesanti e inutilmente sontuose. No, avvezzo alla guerra, Agrippa
della convenzione del 1989, è considerato bambino ogni individuo che abbia un’età compresa tra 0 e 18 anni. La Convenzione introduce l’idea del bambino come soggetto di diritti invece che come mero oggetto di tutela e protezione; affianca a diritti universalmente riconosciuti e sanzionati (quali il diritto al nome, alla sopravvivenza, alla salute, all’istruzione), una serie di diritti di nuova generazione (come il diritto all’identità legale del bambino, il rispetto della sua privacy, della sua dignità e della libertà d’espressione). È importante il meccanismo di monitoraggio previsto dall’art. 44: tutti gli Stati sono sottoposti all’obbligo di presentare al comitato dei Diritti dell’infanzia un rapporto periodico, ogni 5 anni, sull’attuazione, nel loro rispettivo territorio, dei diritti previsti dalla Convenzione. Inoltre sancisce il di-
progettò navi piccole e manovriere, affidate alla perizia dei proverbiali rematori romani (schiavi, ma nessuno s’offenda); mentre Cleopatra (democratica, si fa per dire) veniva da una lunga tradizione di navi grandi e pesanti e soprattutto che usavano il vento come energia propulsiva. Meglio gli schiavi, no? E poi Agrippa, furbo, aveva radunato il suo esercito a nord di Azio, in mare, al fresco. Mentre Antonio ancora sperava di affrontare
suoi per combattere in campo aperto, pensando così di vincere. Ma Agrippa, che comandava i romani di Ottaviano, non ci pensava proprio a sbarcare: aveva organizzato un via vai perfetto di aiuti e sostegno dalla Puglia: i suoi erano sul mare, al fresco e come in una botte di ferro. Sicché il 29 agosto, Antonio cercò la provocazione finale: una scaramuccia da niente che avrebbe potuto diventare una scintilla di guerra campale. Ma non lo diventò. Anzi: il caldo bloccò le operazioni e i sodali di Antonio continuarono a disertare, a passare al nemico. Il nodo della contesa? Era Cleopatra: se ne stava lì al campo militare accanto ad Antonio (si giocava vita e futuro, del resto, come darle torto?) e dettava condizioni. Le navi erano le sue, d’altro canto. Ma i generali di Antonio non erano d’accordo: che ci fa una donna su un campo di battaglia? Ci porterà alla rovina. Domizio Enobarbo, il più importante dei consiglieri di Antonio, se ne andò e passò dall’altra parte (non fece una bella fine, comunque, perché si pentì presto di aver tradito un
Cleopatra si alleò con il guerriero più forte d’Occidente, Marc’Antonio. Malgrado questo la regina perse perché non aveva abbastanza soldi da pagarsi un esercito invincibile. Ottaviano aveva invece un’infinità di risorse, e sconfisse i nemici grazie a un grande generale: Agrippa
l’esercito di Ottaviano sulla terraferma (lì i soldati di Antonio erano imbattibili) e dunque si era acquartierato sul margine del golfo di Azio, un’insenatura stretta sotto all’Epiro sul mare Jonio. Antonio pensava di poter costringere Ottaviano a far sbarcare i
ritto dei bambini a essere ascoltati in tutti i procedimenti che li riguardano, compresi i procedimenti giudiziari. Questa convenzione ha l’intento di tutelare l’uomo, l’infanzia e la famiglia come cardini centrali del sistema mondiale, elementi imprescindibili per la salvaguardia dell’umanità.
idealista per un guerrafondaio). Oltre a tutto, dicevano i generali di Antonio, Cleopatra se ne sta lì pronta a scappare: mica vuole combattere per difendere Roma, no, lei vuoi umiliare Roma, ma siccome non è abbastanza forte, invece di perdere in battaglia ha deciso di scappare… Antonio era infuriato ma sapeva che le cose stavano esattamente così. E poi il caldo: un caldo terrificante che fiaccava la volontà dei soldati accatastati sulla terra ma invece pareva sopportabile ai soldati di stanza sul mare. In fondo, tutto fu deciso dal caldo: ma la mattina del 3 settembre, quando finalmente le navi egiziane con sopra i soldati di Antonio uscirono dallo stretto di Azio, quasi non combatterono nemmeno: troppo pesanti, troppo difficili da manovrare. Ciascuna fu circondata e poi abbordata dalle barchette stupide, schiavistiche ma efficaci di Agrippa e Ottaviano che nel frattempo era sceso in Epiro a godersi la vittoria. E Cleopatra? Cleopatra scappò, naturalmente, con il tesoro della corona, con gli scienziati, gli intellettuali, i musicisti e gli artisti che sempre si portava dietro. Sicché Antonio – disperato – si mise a inseguirla, invece di combattere. Ecco fu così, per sdegno e codardia, che l’Oriente perse la sua guerra e il suo futuro. E così, sdegnosamente e in modo codardo, di recente i peggiori pronipoti di quella gente hanno cercato una vendetta. Vendetta (troppo) postuma, quindi inutile.
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IL GIALLO
CAPITOLO 23 Teoria e tecnica dei mondi paralleli Hamid e Patrizia, Corradi e i Servizi segreti. Per chiudere il cerchio manca un tratto di penna di Carlo Chinawsky
a mattina successiva tornai in caserma. Mi chiusi in una stanza, per riflettere. Così si era svolta l’insolita vicenda: Hamid aveva abbindolato una ragazza, s’era impadronito di una busta che aveva subito intuito potesse rendergli parecchi soldi e poi aveva consegnato all’illusa la siringa letale - se non fossimo intervenuti in tempo - poi se l’era svignata. Certamente Patrizia doveva avergli accennato qualcosa, forse s’era addentrata addirittura nei particolari dell’inchiesta fatta da suo padre. Non poteva essere altrimenti: pur scaltro, non avrebbe afferrato quell’opportunità. Per lui erano nomi e basta, o poco più. Certo, aveva fiutato qualcosa di marcio e l’aveva accostato a un’ipotesi di ricatto.
L
Doveva comunque avviare la sua trattativa. Non era facile, proprio per niente. Anche se si sapeva muovere disinvoltamente nei suk dell’inganno e della morte. Aveva capito - e a questo punto i quesiti cominciavano a essere davvero troppi - con chi negoziare e quel «chi» s’era dimostrato disposto ad andare incontro alle sue richieste. Sì, ma come e con soldi di quale provenienza? All’interrogativo stavo già dando una risposta plausibile quando incontrai due uomini della Digos. A loro consegnai
Hamid. Non potevo oppormi, e non c’era alcuna ragione perché lo facessi. Questioni di sicurezza nazionale, e pure internazionale. Le imputazioni di omicidio, possesso di armi e tante altre ancora, si sarebbero accumulate a quella di terrorismo. Rafforzandola. Era Parigi, e magari anche Rabat, a dover dare la spinta. Gli agenti della Digos si sarebbero comportati senza guanti di velluto. Li capivo, per la mia esperienza passata. Andai a prendere una boccata d’aria con Pizzi. Dovevo recuperare la calma e anche quell’autocontrollo essenziale in situazioni così delicate. La presenza del brigadiere mi sollecitava a pensare che attorno a me non tutta era perduta gente, come aveva detto scherzando Mantelli al telefono, raffinato lettore di Dante quando riusciva a rintanarsi nel suo rifugio viterbese. Al mondo esistevano e agivano anche persone come l’omone in divisa, quelli che ogni sera si toglievano di dosso la morchia della giornata, il fetore della vita degli altri, e facevano da guardiani al candore della propria esistenza privata, della propria famiglia, dei propri sogni a occhi aperti tra una scossone e l’altro dell’autobus che li riportava nel quartiere di casa. Ci sedemmo a un tavolino di bar dando le spalle al flusso di macchine e allo scivolare più silen-
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Certamente Patrizia doveva avergli accennato qualcosa, forse s’era addentrata nei particolari dell’inchiesta di suo padre. Non poteva essere altrimenti: pur scaltro, non avrebbe afferrato quell’opportunità. Per lui erano nomi e basta, o poco più zioso del filobus numero 94 nella corsia privilegiata.
«Mi scusi signor colonnello, ma… anche se non ho letto quel che c’era nella busta… ». «Mi dica pure brigadiere», lo incoraggiai dopo avergli riferito le mie impressioni su Hamid, sulla mimica facciale di un uomo che aveva comportamenti non sempre uguali ai nostri. «Solo una domanda, signore… lei immaginava che questa faccenda fosse così complicata quando è salito sul treno per Milano?». «Francamente no», ammisi sorridendo, «si vede che la complicazione prima o dopo io me la vado a cercare. Oppure, più semplicemente, la trovo. Questo mi sembra più realistico. Non credo nella scaramanzia e in altre baggianate che hanno a che vedere con il destino di un uomo. Comunque mi creda, Pizzi, a infilare il braccio solo fino al gomito nell’acqua ci si accorge se è sporca e se puzza… del re-
sto che le sto a di’, son cose che lei conosce benissimo». «Sì, certo. Ma una volta pareva tutto più semplice di oggi, con meno… ». «Ramificazioni? È questo che… ». «Ecco, sì… mi pare che fino a qualche decennio fa la vita di un uomo si svolgesse all’interno di confini più stretti, capisce?… ora è come se ognuno di noi navigasse su internet, con tutto se stesso… si può andare dappertutto, conoscere chiunque… ma è ovvio che… ma le mie sono pensierini da uomo della strada…».
«Sono quelli che alla fine contano», gli dissi, «lei crede che il succo di quel che scrivono filosofi e intellettuali sui giornali e nei libri sia poi diverso da quel che possiamo dirci noi, qui al bar? Loro lo mettono in bella copia, apparecchiano la tavola con tanto di fiori e candele… ma i piatti sono sempre rotondi e la minestra è sempre quella, più o meno. Comunque a loro va il
merito di trovare connessioni. Quando ci riescono. È come vedere una città o una regione dall’alto». Una delle possibili belle copie dei pensieri di strada poteva essere questa: si sfalda il senso del limite, quello che ci hanno insegnato gli antichi greci, fondamento della morale e dell’etica, e la tecnologia da strumento si trasforma in modo di pensare e agire. Usiamo pure l’elettricità, ma non dimentichiamo che in qualche maniera noi stessi diventiamo elettrici o conduttori di corrente. «No, rimanga pure, ci mancherebbe altro!», dissi al brigadiere robusto di corpo e di cuore quando squillò il mio cellulare e lui automaticamente aveva accennato al gesto di alzarsi. Era Mantelli in linea. «Mi hai preceduto, collega» feci io. «Non è la prima volta e non sarà l’ultima», rise. Mi spiegò che effettivamente, grazie alle confidenze di Belleli, quell’uomo che sapeva tutto di tutti, anche di chi magari era estraneo al dilagante fango italiano, il giornalista dell’Universo, Ernesto Corradi,“aveva contatti” con i Servizi. Insomma, la bella penna della sinistra radicale, l’orgoglioso fustigatore, il moralista, il professionista tutto d’un pezzo era passato nella categoria dei collaboratori. Forse mi piaceva immaginare che fosse stato costretto a diventarlo.
LA PERDUTA GENTE Corradi arrivò puntuale. Non era tranquillo, ma riusciva a contenere le sue emozioni. «Si accomodi. Abbiamo da dirci un po’ di cose. E in tutta confidenza. Ma questo lei lo sa». Si sedette, incrociò le dita sopra la scrivania, e mi guardò dritto negli occhi...
Illustrazione di Michelangelo Pace
Nelle puntate precedenti Pressata dalle domande di Stauder, la Tagliaferri crolla di fronte all’interrogatorio. Lei e Alcide Jorio avevano un appuntamento, ma l’uomo non si era presentato e lei era andata a cercarlo nel suo appartamento. Fu allora che lo trovò con la testa nel forno, e decise istintivamente di chiudere il gas. La donna spiega di non aver chiamato soccorsi e polizia perché lo credeva ormai morto. Aggiunge che Jorio era molto preoccupato per via della figlia. Stauder la congeda perché estranea ai fatti.
Magari dopo un abile ricatto subito chissà per quale ragione, un soffio di parole, frasi ben congegnate e straripanti di congiuntivi e condizionali. Basta poco. A volte una piccola cosa, ma ben gestita, e la corazza s’incrina. Soprattutto se dietro ci sono altre persone, quelle che si vuole
proteggere, a tutti i costi. In quella professione, e ormai lo sa chi legge attentamente i giornali, un occasionale incontro con certi uomini grigi si può trasformare a poco a poco in una serie infinita, e sfibrante, di contatti. Un do ut des che diventa sistema. Magari il punto di partenza rientrava nelle migliori e più ingenue intenzioni, ma il punto d’arrivo è di altro stampo, con complicazioni difficili da governare. Il grande quesito era comunque un altro. Quale tipo di Servizi voleva impadronirsi del documento che comprometteva l’onorevole Scorrano, uomo di tante stagioni e in quel momento utile alla maggioranza parlamentare? Domanda di strabiliante ingenuità, come tutte quelle sui Servizi Segreti. «Devo far finta di niente o quasi?» chiesi a Mantelli. «Mi pare ovvio, sennò scoppia il bel casino, di quelli che non immagini… mica vorrai fare come quello sfigato di Jorio, eh? Senti, a parte questa faccenda riservatissima… mi affido a te, in tutto… dimmi piuttosto: a che punto sei?». «Scorrano o non Scorrano permettimi di mettere insieme alcune piccole verità. È il mio compito, non credi?». «Che hanno sempre a che vedere con i Servizi?». «Calmati. Potrei avere la fortuna di insistere su una storia parallela, ma non per questo meno veritie-
ra». «Quindi potresti riuscire a rendere parallela la questione dei Servizi… saresti un genio!». «Io non posso inventare niente. Scavo e basta. Quel che potrebbe emergere potrebbe far ombra a un’ombra… a un tentativo… ». «Abortito? È questo che intendi?». «E che ne so». «Credo invece che tu sappia abbastanza». «Non farci troppo conto, Andrea. Ci sono due mondi, e tutte e due complicati. Diciamo diversamente complessi. Mondi che si sono sfiorati. Oppure hanno trovato un terreno di alleanza».
Cristina Tagliaferri, la donna che nel racconto di Jorio si chiamava Susanna, con le sue rivelazioni, aveva quasi chiuso il cerchio. Mancava una linea breve. Potevo anche relegarla alla fantasia, con il gusto perverso e delizioso della storia incompiuta. Però ero curioso. Soprattutto intendevo verificare la corrispondenza tra quello che mi pareva plausibile, e magari provato, e la cosiddetta realtà. «Vedi un po’ tu. Sai che mi fido ciecamente» sbuffò Mantelli. «Andrea, ‘sta frase non è nel tuo repertorio professionale. E lo sai». «Diciamo in quello amicale. Mica vorrai smentirmi, no?». «Grazie, comunque. Apprezzo». «Non sai io quanto. Torna a Roma e vieni a cena da noi». «Contaci, ho voglia di normalità. E poi Milano
non mi ha mai dato emozioni, né attraverso le persone né attraverso pietre e cemento». Tacevo su Marina, ovviamente. Era meglio così. Oltretutto lei non apparteneva a Milano: ci dormiva a volte, tutto qui. «Ma sì, chiudi il caso e sali sulla tua amata Freccia Rossa. Ti sentirai a tuo agio quando comincerai a vedere i pini marittimi e le colline. È questa la tua Italia, vuoi che non lo sappia?». Lo conoscevo da molto tempo. Il tono della sua voce era apparentemente disteso, ma io ci scovavo il tarlo della preoccupazione. Le cosiddette tessere del mosaico dovevano essere sistemate, e in modo silenzioso. Salvaguardia degli equilibri, mai toccare meccanismi delicatissimi solo per il gusto, comprensibilmente narcisistico, dell’investigazione. Lo sapevo, e da tanti anni passati al suo fianco per amore di uno Stato che entrambi sognavamo migliore. O senza dubbio diverso. Per questa tensione non smettevamo di lavorare, con o senza divisa. «Esistono tante altre cose, in questo caso milanese. Ci sono due strade parallele, come hai detto tu… è da un po’ che ci sto pensando… dammi un giorno o due… sai, dipende molto dalle condizioni di salute della figlia di Alcide Jorio…». «La figlia di Jorio… ah, ah… Adesso tiriamo in ballo anche D’Annunzio… meno male che che sei anche un letterato». «Ci avevo pensato, ma non l’ho mai chiamata così». «Sarebbe un plagio». «Qui il plagio è nei fatti. Almeno mi pare». Pizzi e io ci avviammo verso la caserma. Sul lato opposto notai una costruzione moderna in buona armonia con il suo contenitore di pietra. Un’emeroteca, un punto informatico, un centro di ricerca culturale, mi parve di capire. Non avevo tempo, ma mi sarebbe piaciuto infilarmi là dentro: poteva essere il surrogato della mia stanzetta romana, quella dove sfoglio i vecchi quotidiani, soprattutto quelli stampati negli anni in cui mio padre era attivo come magistrato. Mi aspettava un incontro delicato. Un altro. Avevo voglia di telefonare a Marina. Non l’avevo ancora chiamata, dopo metà notte passata con la professoressa dalla doppia vita. Mi appartai e composi il numero del suo cellulare. «Sei scomparso, Nico». «Mi capita. Lo sai». «Per lavoro. Questo è naturale. Ma so che svanisci non solo per il lavoro».Tornava all’attacco. In quelle due sera-
te trascorse insieme Marina s’era fatta donna che chiede.
Corradi arrivò puntuale. Non era tranquillo, ma riusciva a contenere le sue emozioni, chissà quali e quante. «Si accomodi. Abbiamo da dirci un po’ di cose. E in tutta confidenza. Ma questo lei lo sa». Si sedette, incrociò le dita sopra la scrivania, e mi guardò dritto negli occhi. Gli chiesi subito a quanto ammontava la cifra che aveva pattuito con Hamid. Come risposta una smorfia. «Scusi, ma abbiamo bisogno di preamboli? Io non credo». «Ha ragione, colonnello». «Sappiamo tutti e due come devono andare certe faccende. Mi spiace solo che certi suoi amici non l’abbiano creduta e abbiano frugato in casa sua… ». «Anche a me». «Ma ora potrà tranquillizzarli, non crede? Ammesso che abbia i numeri di telefono giusti. Gli interlocutori sono tanti e non tutti… ». Non mi lasciò finire: «A patto di avere quel foglio». Glielo consegnai e lui se lo infilò nella tasca interna della giacca, dopo avergli dato una breve occhiata. Fece un lieve e imbarazzato cenno di ringraziamento alzando e abbassando il mento. Poi accavallò le gambe, visibilmente più rilassato. La mano destra sul tavolino di formica, il piede che ondeggiava. Era lo stesso uomo che davanti al ristorante di corso Garibaldi m’aveva parlato teneramente delle sue figlie e dei giochi che organizzava per loro. Ora preferiva limitarsi a parole strettamente necessarie. Dietro a queste piazzava il suo disagio, di uomo e di giornalista. «Lei sa, colonnello… non sono io che decido queste e altre cose…». «Su chi decide è meglio sorvolare. Io sono venuto a Milano, quasi in incognito come ormai mi capita da diversi anni, solo perchè un uomo è stato trovato con la testa nel forno. Punto e basta.Va bene così o mi devo dilungare?». «Certo, certo». «Però, dottor Corradi, lei mi deve spiegare alcune cose… che riguardano la mia inchiesta…». «Volentieri, se posso». Quel “volentieri” era abbastanza irritante, manco fosse lui a farmi un favore. «Per il mestiere che fa non le manca il dono della sintesi. A questa mi appello. Ho ancora un appuntamento e poi me ne vorrei tornare a casa. Credo che il mio gatto soffra di solitudine. Dunque?».
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DIAMO I NUMERI In origine si credeva che le famiglie ebree ricordate dalle Sacre Scritture discendessero dai figli di Giacobbe, che esiliarono il fratello Giuseppe in Egitto per poi seguirlo in tempo di carestia. Ma qualcosa non quadra... l popolo di Israele è composto da dodici tribù. In particolare le dodici tribù erano la forma organizzativa dei tempi fondativi, quelli dai patriarchi all’insediamento in Canaan attraverso l’esilio in Egitto e l’Esodo. In linea di massima, si riteneva che ciascuna delle dodici tribù discendesse da uno dei dodici figli di Giacobbe, i quali prima esiliarono il loro fratello Giuseppe in Egitto, poi lo seguirono in tempo di carestia. Quando andarono in Egitto, si dice, gli israeliti erano 70 persone, ma quando ne fuggirono con Mosè erano in 600mila.
Il mistero delle stirpi tici per cementare i rapporti tra i vertici. Era tipico della gente nomade e seminomade, ed è per questo che riporta all’origine del popolo di Israele, anche mantenendo un simbolismo di purezza originaria, ma si perde presto un volta che gli ebrei si insediano sul territorio, diventano stanziali e acquisiscono strutture istituzionali e amministrative diverse, urbane e regali seppur con residui precedenti, sia nelle realtà locali sia nel fatto che i regni di Giuda e di Israele hanno comunque una base tribale. Succede quindi che la tradizione e la storiografia finiscano per voler definire in modo statico quella che invece è una lunga evoluzione piena di mutamenti, assimilazioni, distacchi, sfumature di grigio. Dodici come è noto è un numero perfetto, che per qualche motivo ben si addice alle leghe politiche: altre confederazioni tribali oltre Israele corrispondono a questo numero, ma ad esempio anche alcune anfizionie greche e le dodici città etrusche.
I
Il popolo di Israele quindi è in Egitto che sarebbe cresciuto e soprattutto si sarebbe strutturato nelle dodici tribù che poi sono protagoniste dell’Esodo. La storia però è un po’ diversa, e questa precisa ricostruzione è la proiezione simbolica e ordinata nel passato di una realtà successiva e soprattutto di un modello. È la stessa Bibbia in realtà a lasciare tracce di quello che davvero furono le tribù, e in particolare a farci capire che non erano dodici, come si usa dire. La cosa più evidente è che il figlio in qualche modo più importante di Giacobbe, cioè quel Giuseppe divenuto visir d’Egitto, non ha sempre una propria tribù, o comunque scompare precocemente come quella del fratello Simeone, presto dispersa all’interno della tribù di Giuda, che a sua volta ha incorporato anche gruppi inizialmente estranei come Calebiti e Yerahmeliti. E come quella ipotetica e potenzialmente matriarcale (ipotesi di alcuni ma di difficile riscontro) di Dina, figlia di Giacobbe sorella gemella di Dan, la cui capostipi-
Le tribù di Israele sono dodici. O meglio, sarebbero... di Osvaldo Baldacci te viene stuprata dai sichemiti generando una faida. Altre spariscono, mentre se ne aggiungono di nuove, come Efraim e Manasse (talmente numerosa da essere divisa in due, cosa anch’essa che non giova al conto di dodici), che il racconto integra nel contesto stabilendo che i fondatori erano figli di Giuseppe
Il numero contiene un simbolo di purezza originaria, che si perde quando il popolo di Abramo si insedia sul territorio, diventa stanziale e acquisisce strutture istituzionali differenziate poi adottati da Giacobbe. C’è poi il caso della tribù di Levi, consacrata al sacerdozio, motivo per cui quando Giosuè sorteggia la Terra Promessa fra le tribù la divide in undici parti. Ma comunque nella Bibbia ci sono tracce
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di una antica tribù “laica”di Levi (Gen.30 e 49), che forse scomparve e solo col tempo acquisì a posteriori l’identificazione con la classe sacerdotale. Inoltre una tribù può diminuire di numero e di importanza, come Ruben. Gli studiosi sono dunque concordi nel dire che nella concezione delle dodici tribù c’è una parte di sistematizzazione, a fronte di una storia molto più complessa e sfumata di fusioni, divisioni, allontanamenti e nuove aggiunte. Sintetizza De Vaux: «In ogni caso il numero e l’ordine delle tribù, talvolta i loro nomi, variano secondo i testi, e queste variazioni provano che non si è arrivati di primo acchito al sistema che ha prevalso». Testo tra i più antichi, il cantico della Giudicessa Debora (Giud.5) elenca 10 tribù, tra cui le inedite Makir e Gilead, che la normalizzazione tenderà a identificare con Manasse e Gad. Nella benedizione di Mosè in Deut.33, secondo gli studiosi, nella versione più antica compaiono dieci tribù, compresa quella di Giuseppe, mentre sarebbe un aggiustamento successivo l’elencazione di dodici che inserisce Efraim, Manasse e Levi. In tutte e tre queste liste
manca Simeone. Anche in Ezechiele 48 compaiono due liste di dodici tribù, e anche qui in una versione c’è Giuseppe e Levi, e nell’altra Efraim e Manasse. Ci sono poi le liste dei figli di Giacobbe nella Genesi, dove compare Giuseppe ma in seguito subentrano i suoi due figli Efraim e Manasse. E in Numeri 2 e 26, nella descrizione dell’accampamento dell’Esodo, le 12 tribù prevedono Efraim e Manasse, ma non Levi i cui clan sacerdotali sono considerati a parte. Anche nell’atto fondativo del sistema nazionale della confederazione delle dodici tribù che è nel giuramento sul Giordano nel libro di Giosuè con l’assegnazione dei territori i conti tornano male: Manasse è divisa in due, di qua e di là dal fiume, mentre Levi è contata a parte, quindi undici tribù più due mezze Manasse (ciascuna molto più vasta e popolosa di molte delle altre tribù) più Levi. Il concetto di tribù era comune alle genti semitiche del Medio Oriente ed è perdurato per millenni pur attraverso varianti. Sono gruppi tenuti insieme da legami di sangue, molto stretti a livello di base e che diventano mi-
Nel numero simbolico di dodici sono quindi confluite un numero imprecisato e variabile di tribù lungo la storia primordiale di Israele. Un numero che ha grande valenza simbolica ancora oggi, a livello teologico e metafisico, ma che non corrisponde a un dato certo. E infatti c’è anche tutta una tradizione sulle tribù perdute di Israele. Dieci, si dice, ma in realtà nove, considerando Levi. Resta il fatto che sarebbero le tribù disperse nelle varie diaspore e contaminazioni religiose, a partire da quella causata dal sorgere del regno di Samaria e dalla sua distruzione da parte assira. Sulle tribù perdute di Israele c’è tutta una mitologia, parte della quale religiosa, altra esoterica, altra ancora politica. A vario titolo sono stati fatti rientrare tra le tribù perdute di Israele i Cazari dell’Asia Centrale (che crearono un regno ebraico), tribù arabe e berbere, comunità ebraiche in Asia orientale fino in Cina, Giappone, Russia dell’est, i falascià etiopi (più spesso considerati discendenti di Salomone), gli indiani d’America sui quali si basa molta della storia religiosa dei Mormoni che a loro volta si ritengono discendenti di Beniamino, alcuni gruppi dell’India come i Bene Ephraim e i Bene Menashe, alcune tribù africane come gli Igbo di Nigeria (che sono cristiani), e persino i Pashtun e i Kashmiri pongono le loro origini in una tribù perduta. Ma secondo gli ebrei sarà compito solo del Messia identificare la tribù di ciascun israelita.
I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ iamo in una limpida giornata di 3mila anni fa; strani rumori di temporale arrivano da oriente. Si avvicinano, poi appare una nuvola di polvere. Sono i guerrieri Shang che attaccano la popolazione neolitica installata sulla riva del fiume Hwang che scorre nell’immenso territorio cinese. Ciascuno dei loro carri trasporta un comandante, un cocchiere, un arciere e un lanciere. In centinaia si lanciano alla carica nel combattimento, in formazione di cinque carri per gruppo e cinque gruppi per battaglione. La popolazione tenta di resistere ma, avendo a disposizione soltanto armi di pietra, è presto vinta. Battendo in ritirata, si rifugia dietro le proprie mura di terra battuta, mentre gli invasori, con i loro archi potenti, i giavellotti e le lance di bronzo, s’impadroniscono senza difficoltà dei villaggi e assoggettano gli uomini dell’età della pietra.
S
Questa deve essere stata l’immagine che si affacciò alla mente degli archeologi quando scoprirono ad Anyang, nel nord della provincia cinese dell’Honan, le tracce di una cultura neolitica sotto le rovine risalenti all’epoca degli Shang. Ai piedi dei resti delle mura, che un tempo avevano protetto le abitazioni delle popolazioni neolitiche, venne trovata una testimonianza del passato di notevolissimo interesse archeologico: una grande quantità di punte di frecce di osso e di bronzo e diverse altre armi. Dal 1928 al 1937 si succedettero ad Anyang quindici campagne di scavi. Gli archeologi cinesi riportarono alla luce più di 3mila frammenti di ossa usate nei riti divinatori e di gusci di tartaruga con scritte incise. Questi scavi hanno rivelato alcuni fatti importanti nella storia degli Shang-Yin. Il periodo degli Shang cominciò verso il 1751 avanti Cristo. Intorno al 1335 avanti Cristo, Pangeng, re guerriero Shang, trasferì la sua capitale da Shandong ad Anyang, chiamata allora Yin. Gli storici hanno definito Yin il secondo periodo Shang dal nome della popolazione dell’epoca che era chiamata ShangYin. La magnifica capitale degli Yin si ergeva vicino al piccolo villaggio di Hsiat’un, nel distretto di Anyang.Vi erano stati costruiti importanti edifici, come il palazzo di cui ancora oggi si distinguono molti gradini che conducevano fino alla terrazza. Questa costruzione comprendeva più di venti edifici, allineati su due lati di un viale. I più piccoli avevano una superficie di qualche metro quadrato soltanto, i più grandi avevano una lunghezza di 40 metri e una larghezza di 10. Le imponenti sculture di marmo o di legno, le opere di rivestimento e i
ANYANG La leggendaria città neolitica fondata dai re Zhuanxu e Ku
Le antiche ombre degli Shang-Yin di Rossella Fabiani
golare. Anche le dimensioni variavano da una all’altra. Benché le numerose iscrizioni ritrovate sulle ossa divinatorie – scoperte a migliaia da alcuni contadini cinesi alla fine del XIX secolo – lascino supporre che gli ShangYin fossero buoni cacciatori, in realtà costoro vivevano principalmente di agricoltura e di allevamento. Tutto lascia credere che non fossero nomadi o che almeno non lo siano più stati dal momento che si stabilirono ad Anyang. Non andavano mai con i loro greggi alla ricerca di pascoli; i re cacciavano per catturare la selvaggina necessaria ai sacrifici, non per nutrirsi. Molti quesiti e risposte incisi sulle ossa divinatorie si riferiscono alle colture: «È questa un’annata adatta per il miglio?», «Questa è un’annata buona per il riso?», «Quest’annata è propizia per la saggina», «Mietete il grano». Questi indizi portarono gli archeologi a pensare che i cereali di base degli Shang-Yin fossero stati il riso, il grano, il miglio, la saggina. Inoltre, questo popolo allevava ani-
Dal 1928 al 1937 si succedettero quindici campagne di scavi. Gli archeologi riportarono alla luce più di 3mila frammenti usati nei riti divinatori mali (maiali, cani, montoni, bovidi, cavalli e anche volatili), senza dubbio a scopo alimentare. Gli Yin amavano bere: usando miglio e altri cereali, preparavano bevande alcoliche, indispensabili per i sacrifici; si facevano anche libagioni dopo la sepoltura di un defunto. In quanto al bere, gli dei e gli spiriti non erano da meno degli uomini. Fra duecento recipienti di bronzo portati alla luce ad Anyang, due terzi furono identificati come recipienti usati per bere. Si pensa che l’alcolismo sia stata una delle cause che fece perdere il trono all’ultimo sovrano yin.
superbi vasi di bronzo trovati in certe tombe ci fanno immaginare quanto meravigliosi debbano essere stati gli ornamenti di questo insieme architettonico. I palazzi degli Yin erano solitamente costruzioni a un solo piano. I tetti dovevano senza dubbio essere stati fatti con materiali deperibili, come la stoppa o il legno, poiché non è stata trovata nessuna traccia di laterizi o tegole. Sono state, invece, ritrovate sparse per tutta la città, oltre ai resti del palazzo e di templi, innumerevoli buche. Si pensa che in questa
Imponenti sculture, opere di rivestimento e superbi vasi di bronzo: tutto testimonia i fasti della capitale e dei suoi palazzi specie di fosse vivesse il popolo. Utilizzando le proprietà del loess di cui era fatto il terreno che può essere intagliato in grossi massi senza franare - i costruttori avevano perfezionato questo tipo di abitazione scavato nel suolo, simile a una
trappola da caccia. Queste fosse da abitazione avevano in genere un pavimento di terra battuta e presentavano al centro una buca per le scorte e probabilmente anche un tetto. Potevano avere forma rotonda, quadrata, rettangolare oppure irre-
Se dobbiamo credere ad alcune iscrizioni delle ossa divinatorie che riguardano i bozzoli dei bachi da seta, gli Shang-Yin dovevano conoscere le tecniche della sericoltura e della tessitura di raffinate stoffe di seta. Peraltro, sono state trovate tracce di sete che avevano avvolto oggetti di bronzo rinvenuti in una tomba yin. Gli Shang-Yin conoscevano, poi, anche l’uso della ruota, che non usavano solo per i carri, ma anche per la lavorazione dei vasi e per l’agricoltura. È anche molto probabile che i carri insieme con i cavalli fossero il mezzo principale di trasporto dei nobili.
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CINEMA CALDO
AMERICA OGGI DDII ROBERT ALTMAN
C’era oggi in America di Alessandro Boschi a subito detto che l’estate in questo film è del tutto accessoria. Nel senso che le storie raccontate nel libro da Raymond Carver e nel film da Robert Altman non si svolgono dichiaratamente nella stagione più calda. Però a noi così sembra forse perché è una bella giornata quella in cui si susseguono gli avvenimenti e soprattutto perché quando America oggi vinse il Leone d’oro alla mostra di Venezia (a pari merito con Tre colori – Film blu di Kieslowski) l’estate c’era ancora.
del pasticcere ignaro sono solo uno dei modi che il regista usa per scandire un ritmo che non ha nessuna pietà, come il caso che concatena e incatena le nostre esistenze.Troppo elegante da dire, in fondo. Ma in realtà quella che ci racconta il film di Altman è di uno squallore assoluto. I personaggi, oltre venti, sono tutti portatori di vite ordinarie. Per questo tutt’altro che ordinario è il film, perché ha la forza e il coraggio di far vedere senza raccontare, senza nessuna coscienza critica che minaccia dall’alto.
V
Partiamo dalla trama, fatta di più trame perché la sceneggiatura dello stesso Altman e di Frank Barhydt ha dovuto concentrare in poco più di tre ore nove racconti e una poesia. Siamo a Los Angeles, su cui incombe una minaccia alata... quella della mosca della frutta. È qui che si svolgono le vicende dei numerosi e compositi personaggi. Tom Waits interpreta Earl Piggott, che guida una lussuosa limousine per conto terzi. Per proprio conto invece beve, ed è sposato con Doreen (Lily Tomlin). La quale fa la cameriera, in maniera anche turbolenta, in un fast food. Purtroppo Doreen investe con l’auto Casey, figlio di Howard Finnigan (Bruce Davison) che di mestiere fa l’opinionista alla tv. Casey è convinto di non essersi fatto nulla di grave perciò impedisce alla donna di accompagnarlo in ospedale. Purtroppo non è cosi e cade in coma. Il pasticciere che ha preparato un bellissimo dolce per il compleanno di Casey, e che naturalmente non sa nulla, non può sapere di quello che sta succedendo al ragazzo, assilla la famiglia con sgradevoli telefonate: la torta è pronta e nessuno passa a ritirarla. Il nonno del bimbo, Paul Finnigan (Jack Lemmon, immenso come sempre) si rifà vivo dopo molti anni. Paul non ha mai visto il nipote e il primo incontro avviene ovviamente in ospedale. Paul ha lasciato la famiglia perché la moglie lo aveva colto in flagrante adulterio con la cognata. Incredibilmente il nonno traditore piuttosto che dalla sorte del nipote è più colpito da quello che sta succedendo a un ragazzo figlio di una coppia di colore. Il quale verrà sottoposto a due interventi ma se la caverà. Il medico che tenta di salvare Casey, Wyman Ralph (Matthew Modine), è il marito della pittrice Marian (Julianne Moore). A Ralph vengono spesso i piedi freddi perché teme che la moglie lo tradisca. O meglio, che vent’anni prima lo abbia tradito. Il che in effetti è accaduto, come la moglie esasperata finirà con l’ammettere aggiungendo anche dettagli francamente evitabili in casi “delicati”come questo. Breve interruzione. Dopo questo film Julianne Moore fu soprannominata “la rossa”. Pare in virtù della sua esibizione senza biancheria intima. La Moore nel film fa una bella tirata senza mutande, scusate ma relata refero. La sorella di Marian la vermiglia (meglio?), Sherri Shepard (Madeleine Stowe, prima del chirurgo plastico quindi bellissima) è sposata a Gener alias Tim Robbins, poliziotto che più marcio non si può. Betty Weathers (Frances Mc Dormand) è la sua
amichetta. Il poliziotto ha anche un altro pregio, odia gli animali, e in particolare il cagnolino di famiglia che deposita lontano da casa. Inutile dire che i figli di Gener adoravano la bestiola. In tutto ciò la sua amante Betty viene tormentata dall’ex marito (Peter Gallagher). Il quale, reso pazzo dalla gelosia le distrugge casa. Naturalmente la gelosia era del tutto giustificata perché la vivace Betty era in effetti insieme all’amante. Non Gener, un altro. Ditemi la verità, non vi è venuta voglia di vedere questo film? Vi possiamo assicurare che non tradisce le numerose aspettative. La grandezza di Altman sta nel ritmare le storie, nel calibrarle e nell’intersecarle senza che nessuna perda la tensione. Quella che viene fuori è un’America che fa fatica, e che forse per questo ha bisogno di “scorciatoie” emotive (Short cuts, il titolo in originale può significare anche questo). Sarà
Il film racconta un Paese che fa fatica e che forse per questo ha bisogno di “scorciatoie” emotive. E il terremoto sembra liberare tutto ciò che incombe nelle nostre vite in un finale altrimenti impossibile
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colpa di Reagan? Tutto sommato il presidente attore se n’era andato già da quattro anni. Più verosimile che ci sia qualcosa (ma cosa?) di incombente sulle nostre vite e che, proprio come il terremoto finale, autentico deus ex machina, chiude il film chiudendo le storie che una chiusura non possono avere. Perché sia Carver che il regista percepiscono la realtà come un circuito che non finisce e che difficilmente ha un lieto fine. Sono tre i giorni che trascorrono? O forse sono tre anni? Le telefonate orribili
Molte volte dopo America oggi si è parlato di film “all’America oggi”. Significando con questo il tentativo di altri registi di imbastire il ritratto di una società compiuta nella sua immobilità senza speranze, nella sua apocalisse quotidiana. Segno evidente questo che il vecchio maestro aveva colpito nel segno, senza clamori, senza gridare, come nel suo costume di uomo e artista. Altman ci fa capire la nostra sordità, perché ci vuole un terremoto per risvegliarci dal limbo quotidiano. Perché almeno per qualche istante si resti tutti in ascolto di qualcosa di più grande delle nostre piccole cose che, misere, riempiono le nostre giornate. America oggi è un film durante il quale tutti o quasi si incontrano ma nessuno ti resta accanto. Nemmeno se ti investe con la macchina, come accade nell’episodio del drammatico incidente. Ma anche in una situazione cruenta come lo scontro tutto sembra scivolare, senza che si avverta la necessità di fermarsi un attimo. Restano i rimpianti, il dolore, e quella necessità inappagata di condividere che ci lascia dolenti e vuoti, senza capire come e perché siamo arrivati ad essere quelli che oramai siamo.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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Stop agli esperti della politica del cucù, sempre critici e brontoloni Stiamo rivedendo in azione il consueto monologare dei professionisti del pregiudizio contro il Veneto. Sono politici e intellettuali che a mesi alterni - veri esperti della politica del cucù - si prendono la briga di spiegarci come e qualmente l’autonomia non abbia futuro, lo sviluppo economico e culturale debba andare sempre da un’altra parte, le istituzioni debbano rimanere per questa ragione ostili ed estranee.Per questa pattuglia di irriducibili il commento è a freddo: non ci si prende neanche la briga di leggere la proposta di Statuto avanzata meritoriamente dal Pdl e dalla Lega che sono la maggioranza del consiglio regionale, che hanno lavorato con pazienza e rigore attorno a una proposta davvero innovativa, peraltro con l’avallo e l’assistenza scientifica di illustri costituzionalisti. Sfugge invece ai costituzionalisti di ritorno che l’unico organismo che davvero può discutere, respingere o approvare la proposta della maggioranza è il consiglio regionale del Veneto e che, per una volta, i resistenti del centralismo a oltranza non hanno voce in capitolo. Si tratta di una autonomia sulla quale, credo, il consiglio e i consiglieri saranno, a prescindere dalle appartenenze, custodi gelosi.
Ellezeta
CHIUSURA AL TRAFFICO DI MOLTE STRADE: E IL PARERE DEI COMMERCIANTI? Con l’ordinanza che stabilisce la chiusura parziale o totale di numerose vie della città di Trani, si sono creati non pochi disagi in termini economici ai commercianti presenti sulle strade in questione. Ci si chiede se prima di deliberare, qualcuno dell’amministrazione abbia ascoltato il parere dei commercianti lasciati sempre più soli da questa maggioranza. L’Udc si impegnerà, pertanto, a sostenere strenuamente le ragioni dei commercianti in tutti le sedi istituzionali.
Dino De Marinis
INCENERIMENTO DELLE CARCASSE Èstato approvato un emendamento al Ddl relativo all’incenerimento delle carcasse di animali da reddito, che introduce la possibile erogazione di contributi regionali ai comuni, per l’effettuazione, in via diretta o attraverso operatori del settore, del servizio di trasporto, raccolta e incenerimento anche delle carcasse degli animali da affezione. Molto spesso infatti nell’impossibilità di poterle cremare, le carcasse venivano seppellite presso giardini pubblici o gettate nei cassonetti di rifiuti con evidenti ricadute negative sul
piano dell’igiene e salute pubblica. La norma introdotta permetterà ai molti cittadini proprietari e amanti di animali domestici di vivere in modo meno difficile e traumatico il momento doloroso della dipartita di quell’essere che gli ha donato per anni, amore e compagnia.
MariannaCaronia
MODIFICARE LA LEGGE ELETTORALE Ai grossi e gravi problemi attualmente sull’agenda politica di questa calda estate: manovra economica, intercettazioni e federalismo fiscale, si è aggiunto quello delle correnti all’interno del Popolo delle libertà, perché fanno temere, ad ogni piè sospinto, qualche scivolone del governo. Le ricorrenti prospettate ipotesi di formazione di nuove maggioranze parlamentari alimentano i sospetti di rottura che serpeggiano nella maggioranza, avvelenandone il clima, per cui più volte è stato minacciato il ricorso alle urne. In tale situazione, non sarebbe bene pensare anche alla modifica della legge elettorale per renderla più democratica, abolendo il premio di maggioranza, la soglia di sbarramento e reintroducendo per il parlamento nazionale il voto di preferenza? È incontestabile che le motivazioni,
L’IMMAGINE
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Foglie a quattro ruote Come saranno le auto del futuro? Probabilmente più buffe e stravaganti e soprattutto - si spera - più rispettose dell’ambiente, come promettono di essere questi tre prototipi. Quello al centro per esempio, si ispira a una foglia e sarebbe in grado di catturare le sostanze inquinanti restituendo ossigeno
LE VERITÀ NASCOSTE
Divorzia dalla moglie timida TAIPEI. Un uomo ha ottenuto il divorzio, richiesto perché la moglie è talmente “timida” da rifiutare di fare sesso anche dopo un anno di matrimonio. I due, entrambi insegnanti, si sono conosciuti attraverso un’agenzia di incontri matrimoniali, e si sono sposati dopo tre mesi di fidanzamento. I problemi però erano iniziati già la prima notte di nozze, quando lei ha dormito vestita e avvolta in una coperta. Quando lui si è avvicinato nella speranza di un contatto intimo, lei lo ha respinto e il giorno dopo è tornata dalla madre. Solo grazie alla mediazione dell’agenzia la donna ha alla fine firmato un contratto in cui accettava di fare sesso con il marito, ma solo a scopo di procreazione, e pretendeva letti separati. Dopo un anno “in bianco”, l’uomo ha deciso di chiedere il divorzio. La donna si è giustificata nel processo spiegando che la prima notte di nozze era stanca e malata. Il giudice però non ha considerato questa giustificazione valida per tutto l’anno successivo, e la donna è stata condannata a rimborsare all’ormai ex marito le spese per l’acquisto della casa e anche i danni morali.
che hanno determinato le modifiche, non hanno prodotto il risultato che si prefiggevano. Il continuo ricorso ai voti di fiducia, malgrado la grande superiorità numerica, è la riprova della fragilità della maggioranza. Il bipolarismo che ormai da più lustri si sta cercando inutilmente di introdurre, come pure gli sbarramenti, appartengono ad altre culture che non si adattano al nostro modo di vivere e di intendere la politica. È pacifico che spesso dalle minoranze giungono pregevoli contributi, ed è grave che lo sbarramento del 5 per cento abbia privato considerevoli forze politiche di una rappresentanza. Fortunatamente alla ripresa democratica, nel 1946, non vi erano sbarramenti elettorali perché altrimenti avremmo perso il contributo determinante di Carlo Sforza, di Randolfo Pacciardi perché il Partito repubblicano italiano raggiunse il 4,4 per cento, né tanto meno di Piero Calamandrei perché gli azionisti raggiunsero l’1,46 per cento, né quello dell’ex presidente del Consiglio Ferruccio Parri e di Ugo La Malfa, che spesso viene ricordato anche dagli avversari politici per la lungimiranza politica-economica che provocò il miracolo economico, perché la loro lista “Concentrazione democratica Repubblicana” raggiunse appena lo 0,40 per cento. Non bisogna mai dimenticare che quasi sempre sono le minoranze che fanno la storia. Privare le minoranze, sia a livello nazionale che regionale, provinciale e comunale, con gli sbarramenti della loro rappresentanza equivale equivale a un dannoso e controproducente autolesionismo, perché ci priviamo di conoscere e di confrontarci con contributi di idee. D’altra parte, le crisi di governo, a qualsiasi livello, sono frutto spesso di implosione, in quanto le maggioranze, molto spesso, sono dei cartelli elettorali con poche cose in comune.
Luigi Celebre
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Anticipazioni. Si intitola «Un viaggio» e lo pubblica Rizzoli: è la parola definitiva su una stagione che ha cambiato il mondo
Tutte le verità di Blair «Piango le vittime, ma sull’Iraq non accetto processi»: esce l’autobiografia dell’ex premier di Gloria Piccioni, Gabriella Mecucci e Francesco Lo Dico a dei rimorsi?». La domanda dell’alto funzionario pubblico incaricato di fare luce sulla legittimità della guerra in Iraq si abbatte come un macigno sulla testa di Tony Blair. È il 28 gennaio del 2009, e la secca domanda di Sir John Chilcot, rischia di mandare in frantumi il partito laburista scosso dalla contestata gestione Brown. Sono trascorsi nove anni da quel primo maggio del 2003 in cui la seconda guerra in Iraq era cominciata. La brutta avventura irachena rappresenta il cuore de Un viaggio, l’autobiografia di Tony Blair, da oggi in vendita nelle librerie di tutto il mondo: in Italia lo pubblica Rizzoli (pp 824, 24 euro). Ebbene, nel Viaggio Blair confessa di provare rabbia per quella inchiesta, affidata proprio a Chilcot, che «era diventata un processo alla nostra buona fede», ma anche sincera angoscia per le migliaia di vittime: «Loro sono morti e io, la persona incaricata di decidere sulle circostanze che hanno condotto alla loro morte, sono ancora vivo». Ma dopo il tormento, Blair risponde fieramente all’angosciante domanda di Chilcot: «Non posso avere rimorsi sulla decisione di andare in guerra». I rimorsi sono legati al passato, spiega l’ex premier, che semmai preferisce parlare di responsabilità: «Posso solo sperare di redimere in parte la tragedia di quelle morti con le azioni di una vita, la mia vita, che ancora va avanti».
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Più avanti l’ex inquilino di Downing Street torna a vagliare il dilemma che lo spinse ad appoggiare il conflitto. «Lasciare Saddam al potere era un rischio maggiore che deporlo», scrive Tony, che però ammette una errore prospettico: «non avevamo previsto il ruolo di al-Qaeda e dell’Iran». E poi, naturalmente, il peso di una data che cambiò il mondo: «Senza l’11 settembre, la guerra in Iraq non sarebbe scoppiata», scrive Blair, ammettendo che alcuni settori del governo americano, avessero enfatizzato a torto il ruolo di Baghdad nell’attentato. Restava comunque il fatto che esso «non era un attacco mirato a colpire un bersaglio politico definito», ma «una dichiarazione di guerra totale» come il mondo non ne aveva mai viste prima.
«Se c’era un un popolo che aveva bisogno di liberarsi era certamente il popolo iracheno», annota Blair, che anticipa un primo giudizio sugli esiti: «Avevamo iniziato combattendo Saddam, ma avevamo finito col combattere le stesse forze reazionarie contro cui lottiamo in ogni parte del Medio Oriente», confessa. La decisione fatale arriva in un tormentato Natale trascorso a Chequers. «Sapevo che quella poteva essere la fine della mia carriera politica. Volevo solo sapere qual’era la cosa giusta da fare». Blair aveva scelto la guerra. Anni dopo, gli esiti di quel conflitto sono illustrati dall’ex premier con un secco distinguo: «La campagna militare
ti e feriti sul fronte. Le lungaggini e i giochi sporchi della guerra, fiaccano l’iniziale ottimismo che aveva salutato in America l’intervento armato. Schiacciato dal fronte interno, Blair subisce anche l’enorme impatto bellico suscitato dai kamikaze. «A metà del 2006 era ormai chiaro che la campagna militare non stava procedendo bene», scrive Blair. Il resto, come in un brutto film già visto, è storia nota. A Blair tocca trarre le conclusioni. «Dovremo essere co-
«Brown? In politica gli do zero» Alle elezioni del 2005, la rottura con il vecchio amico lair non trascura di parlare di una parte delicata della sua lunga vicenda politica: lo scontro intestino con Gordon Brown. Per la verità, quando erano ancora giovani di belle promesse, i due furono grandi amici e si aiutarono lealmente anche se non sempre le loro idee coincidevano. Basti pensare che Tony era favorevole all’ingresso della sterlina nell’euro mentre Gordon manifestava ancora fra il 2000 e il 2001 tutte le sue perplessità. L’amicizia si ruppe nel 2005, prima della campagna elettorale per il terzo mandato. Blair era allora nel mirino della grande stampa e della Bbc per uno scandalo “inesistente” – così lo definisce il libro – che aveva coinvolto la moglie Cherie. Ma soprattutto la ragione degli attacchi era la guerra in Iraq. I sostenitori di Gordon e lo stesso Cancelliere dello Scacchiere ritenevano che Tony sarebbe stato all’origine della sconfitta. Tutta la campagna elettorale fu dunque all’insegna della “presa di distanze” da lui. Gli attacchi della stampa contro Dowing Street erano incessanti, d’altro canto nel 2004 era accaduta una cosa che confortava il premier inglese: la rielezione di Bush che lo favoriva. Nel libro, il presidente republicano viene definito come l’uomo politico “più integro”, più caratterizzato da forti convinzioni e da comportamenti coerenti con queste. Il capo della Casa Bianca – questo traspare dal racconto di Blair – nonostante su molte questioni aves-
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di conquista fu un grande successo, la campagna civile di ricostruzione invece no».Tony non fa fatica a confermare l’inadeguatezza dei piani americani per il dopo Saddam, sebbene rivendichi tre parziali successi della missione: innanzitutto fu evitato il disastro umanitario, fu poi scongiurato l’impiego di armi chimiche e biologiche da parte di Saddam, e impedito infine che i pozzi petroliferi venissero incendiati, salvando così il territorio da una catastrofe ambientale. Ma «quel che andò storto», spiega Blair, «fu il versante della sicurezza». Emergono frattanto attraverso le inchieste giornalistiche di Gilligan alcune notizie non corrispondenti al vero, sulla base delle quali era stato giustificato l’intervento in Iraq. «L’intelligence aveva commesso un errore a proposito dei 45 minuti», ma si trattava di «un errore» e non certo di «dolo», si difende l’ex inquilino di Downing Street. Ma Blair non cerca alibi: «La nuda e innegabile verità è che non trovammo mai le armi di distruzione di massa». Blair finisce nella tenaglia dei media, il clima intorno a lui si fa incandescente, cresce lo sdegno per mor-
struttori di nazioni, e in Iraq abbiamo chiaramente sbagliato su questo punto», innanzitutto. E poi «potenziare il prima possibile le forze di sicurezza gestite dalla popolazione locale», cosa che fu fatta in Iraq con enormi ritardi. Terzo punto: «L’azione politica deve affiancare la sicurezza e la ricostruzione». Con il senno di poi, sono questi i principali errori individuati da Tony Blair. «Avremmo potuto fare di più e meglio, questo è certo», «ma non c’è mai stata né mai ci sarà una campagna di qualsiasi natura che non si svolga diversamente dal previsto».
Dai pentimenti sul piano strategico, Blair passa infine a sciogliere il nodo doloroso delle vittime di guerra. Chi furono i responsabili? «Non i soldati americani o britannici», dice. «Abbiamo lottato per il diritto degli iracheni a un governo democratico». L’ex inquilino di Downing Street conclude citando la lettera recapitatagli da un donna irachena assassinata dai terroristi. «Che cosa mi direbbe oggi?», si chiede Blair. Probabilmente, gli chiederebbe se ha dei rimorsi.
se opinioni diverse dalle sue era molto simpatico al leader del New Labour.
Ma torniamo al conflitto con Brown. Tutta la campagna elettorale del 2005 è dunque all’insegna dello scontro fra i due, malgrado i sondaggi sin dall’inizio diano il Labour in testa di almeno cinque punti. I motori della propaganda non sono ancora accesi quando uno stretto collaboratore di Gordon pubblica una biografia del Cancelliere dello Scacchiere in cui si fa riferimento al “tradimento”di Tony e al suo esserne “vittima”. È chiaro che l’entourage di Brown riteneva probabile una sconfitta. La vittoria sarebbe stata possibile solo se i due leader fossero andati a cercarsi i voti in aree politiche e sociali diverse, e persino distanti. In realtà il New Labour uscì abbastanza bene dal voto: con un margine di vantaggio sui Tory di una sessantina di parlamentari. Perse il 4 per cento dei consensi, ma li cedette ai Lib Dem e quindi i conservatori non realizzarono il sorpasso. Secondo Blair, però, i dirigenti del partito sbagliarono l’analisi di quella vittoria: si convinsero cioè che «ce la saremmo cavata meglio con un leader diverso, ossia Gordon». In realtà quello del 2005 fu «un classico voto di protesta, facilmente recuperabile durante il terzo mandato, in tempo per la quarta candidatura, purchè non perdessimo il leale sostegno al New Labour che ci era rimasto fedele». In questa parte del libro l’ex pre-
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Quell’alleata imprevista: Lady D. «Io volevo cambiare il Paese, lei cambiò la monarchia» volte la storia avanza per vie impreviste. Strani, impensabili connubi, che non avresti mai detto possibili, una volta stabiliti danno degli esiti insperati, contribuendo, come due affluenti che sgorgano nello stesso fiume, a rendere più ampio il letto dove le acque riprendono un unico, rapido corso. È questo il caso dell’Inghilterra di Tony Blair e di Lady Diana. Un Paese in via di trasformazione, alle prese con riforme e provvedimenti che dopo la caduta dei Tory di John Major dovevano inaugurare un approccio più moderno ai problemi, capace di spezzare le catene del conservatorismo anche di stampo laburista. Lo spiega bene nelle sue memorie l’ex inquilino del n. 10 di Downing Street nel capitolo dedicato alla principessa Diana.
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«Io fui l’unico a credere nella vittoria mentre i dirigenti del partito sbagliarano totalmente sia le previsioni sia l’analisi dei risultati», dice a proposito del dissidio divenuto ormai clamoroso mier inglese fa balenare che – se ci fosse stata un’analisi più corretta del risultato del 2005 – la strada di Camerun verso Downing Street sarebbe stata molto più accidentata e che il Labour avrebbe avuto parecchie chance di vincere per la quarta volta. La sconfitta, insomma, è da attribuire tutta quanta alle scelte di Brown poiché al suo posto ci voleva un uomo che non avesse partecipato alla decisione di fare la guerra in Iraq. Sicché conflitto fra Tony e Gordon si fece sempre più pesante al punto che Brown, pur di attaccare Blair, diventò un sostenitore dell’ingresso della sterlina nell’euro. Si erano così ribaltate le vec-
chie posizioni: mentre Blair si trasformava in un europeista scettico – anche perché sentiva sul collo l’opposizione dei Tory – Brown abbandonava la sua storica posizione. La lotta interna a un partito produce effetti stupefacenti.
Da quel momento in poi – si legge sempre ne Il viaggio – il premier si disamora e si disimpegna. Gordon si schiera contro di lui persino quando stabilisce un vantaggioso rapporto privilegiato con Angela Merkel. Finisce così la leadership di Blair, la storica collaborazione con Gordon, nonché il lungo periodo di governo nel New Labour.
Si conobbero nel 1997, a ridosso delle elezioni, a casa di Lord Mishcon, un membro del Labour che organizzò la cena proprio per farli incontrare. Fin dal primo scambio, il premier appena eletto non ebbe dubbi: il motto “New Labour, New Britain”si incarnava perfettamente nel temperamento della principessa. «Qualsiasi cosa il partito laburista avesse in parte, lei lo possedeva in toto». La Diana che l’ex premier descrive è sorprendentemente simile alle immagini che di lei sono da subito circolate in una gran parte di mondo. Luminosa come una stella, straordinariamente affascinante, spontanea, normale, capace di parlare con tutti e con tutti di interagire alla pari, regale ma umana, audace e anticonformista, scherzosa e buona conversatrice, attiva e determinata nel mettersi in gioco in prima persona. Nonostante la sua vulnerabilità, che non nascose in quella famosa intervista rilasciata a Martin Bashir della Bbc nel 1995 sul fallimento del suo matrimonio, era dotata di una forte volontà e le sue emozioni erano di una tale intensità da far immaginare a Blair che potevano essere davvero pericolose se in lei, al posto del bene, avessero avuto il sopravvento rabbia o risentimento. Una grande intelligenza emotiva sostenuta da forti capacità analitiche che si esprimevano nei contatti che dal quel primo incontro lei e il primo ministro mantennero con regolarità. Blair ricorda un colloquio in particolare, che influenzò da lì in avanti il suo atteggiamento pubblico, sull’utilità e la forza delle immagini fotografiche e sul modo migliore di utilizzarle. Insomma mentre i laburisti cambiavano l’immagine della Gran Bretagna, l’“im-
prevedibile meteora” Diana, essenza dello zeitgeist del suo tempo, «cambiava quella della monarchia».
venzionale - scrive Blair - e la sua non era una morte convenzionale; e non ci sarebbe stata nessuna reazione prevedibile».
Gran parte del capitolo è naturalmente dedicata alla scomparsa dell’ormai ex principessa. È curioso di come il resoconto di quelle ore, l’atmosfera che si respirava corrispondano a quanto
Il primo scoglio fu quello di scegliere le parole da pronunciare nella chiesa di Trindom, dove Blair tenne la sua prima dichiarazione: cosa avrebbe voluto Diana che si dicesse di lei? Pochi
L’ultima volta che si erano visti, a Chequers, la residenza di campagna del primo ministro, Tony e Diana avevano avuto un colloquio franco ma teso su Dodi Al-Fayed. E alla fine si erano spiegati narrato da Stephen Frears nel bellissimo film The Queen del 2006 che valse a Helen Mirrer il premio Oscar come miglior attrice protagonista nei panni di Elisabetta II. L’ultima volta che si erano visti, a Chequers, la residenza di campagna del primo ministro, Tony e Diana avevano avuto un colloquio franco ma teso su Dodi Fayed, ma si erano spiegati. La notte del 30 agosto 1997, alle due, Blair fu svegliato dalla presenza di un poliziotto vicino al suo letto che gli riferì come la principessa fosse rimasta gravemente ferita in un incidente stradale e della necessità di mettersi subito in contatto con l’ambasciatore inglese a Parigi Michael Jay che di lì a poco gli comunicò la morte di Diana. Fu autentico dolore, prima della preoccupazione di come gestire la situazione, il primo sentimento provato dal premier. E subito dopo la consapevolezza che lo sforzo sarebbe stato quello di coordinare una immensa ondata di lutto planetario in modo dignitoso ma fedele alla commozione e all’amore che circondavano la sua figura. «… Non era una persona con-
Dall’alto, in senso orario: Tony Blair, Lady Diana, la copertina dell’autobiografia da oggi nelle librerie, poi l’«odiato» successore Gordon Brown e una colonna di soldati inglesi che lasciano l’Iraq
pensieri, annotati sul retro di una busta, più efficaci di qualunque discorso studiato a tavolino, e tre parole magiche, da lì in poi indelebili: principessa del popolo. Poi il secondo problema: come intervenire sull’atteggiamento della casa reale. Mentre «le manifestazioni di dolore e rammarico si stavano trasformando in una manifestazione di massa a favore del cambiamento», da Balmoral, dove la regina stava come da protocollo trascorrendo le vacanze estive, si spandeva assordante il rumore del silenzio. Che Diana fosse percepita come un pericolo dall’establishment monarchico non c’erano dubbi, ma ora il rischio era che si innescasse nei confronti della regina che taceva una reazione a catena di risentimento dalle conseguenze catastrofiche. Blair voleva proteggerla, difendere il suo amore per i nipoti rimasti orfani e, nello stesso tempo, non dividere il Paese. Ci riuscì, grazie alla mediazione del principe Carlo: la regina parlò e lui con i figli scese in mezzo alla gente che affluiva inesausta davanti alle sedi reali in un doloroso pellegrinaggio. Anche grazie a Blair la Candle in the wind commemorata dalle note di Elton John nell’abbazia di Westminster ha potuto continuare a brillare senza tremolii.
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l’approfondimento
Prosegue il dibattito aperto da “liberal” sull’articolo di Giuseppe De Rita dedicato al rapporto tra cristiani e politica
Cattolici deboli, nazione in crisi Il vero rapporto tra credenti e cosa pubblica implica l’aspirazione alta e forte a governare per esprimere i valori di riferimento di una grande cultura. Nelle epoche in cui questa viene meno è l’intera comunità a pagarne il prezzo giudicare dallo spazio che giorno per giorno la stampa dedica a questo argomento, sembra che la domanda sul peso dei cattolici nella politica occupi uno dei primi posti nell’interesse generale. Costituisce di fatto un punto nevralgico nel dibattito contemporaneo, essenziale per capire cosa stia cambiando nella nostra società; quali siano i valori emergenti; come mutino le abitudini degli italiani anche in rapporto al voto, e - cosa tutt’altro che secondaria - cosa pensano di questo problema la Chiesa in generale e la Chiesa italiana in particolare. Questa volta è stato un articolo di Giuseppe De Rita a riaccendere il dibattito, lanciando tre provocazioni che meritano una puntualizzazione. La prima riguarda il riferimento al cattolico post moderno. Non si parla quindi di cattolici simpliciter, ma di cattolici post moderni che nell’attuale quadro politico, sia a destra che a sinistra, sembrano avere scarso peso. La seconda provocazione riguarda la loro diffusione sul territorio, che nonostante tutto sembra ampiamente positiva anche in contesti og-
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di Paola Binetti gettivamente difficili come l’Umbria, dove secondo De Rita domina una tradizione comunista e massonica (difficile non dargli ragione…). La terza provocazione infine riguarda proprio la fede, come unica forza capace di resistere all’edonismo imperante, che mentre fa promesse che non può mantenere, svuota di senso la nostra vita, corrompendola con forme sempre vecchie e sempre nuove di inquinamento ideologico.
A l la p r i m a pr o v o c a z i o n e , che riguarda il chi è del cattolico di oggi, occorre dire che la definizione di post moderno va stretta. Il cattolico, oggi come ieri, ha sempre dovuto affrontare il confronto con il tempo, il suo tempo, come sfida essenziale per garantire e dimostrare la sua stessa esistenza. Le categorie di modernità, e post-modernità, come quelle di vecchio e nuovo, non hanno senso, mentre è la categoria della fedeltà quella che esprime la misura della sua identità. Non si tratta di sentirsi e magari di credere di essere cattolici mo-
derni, o cattolici adulti, cattolici post secolarizzati o cattolici post mediatici. Ma semplicemente cattolici fedeli o non fedeli, laddove il contenuto della fedeltà è da sempre il contenuto stessa della evangelizzazione e forse proprio per questo oggi della improcrastinabile ri-evangelizzazione. Un contenuto creduto e vissuto, nella propria fede e nelle proprie opere. Quindi la risposta a questa prima provocazione è tutta contenuta all’interno di una proposta di fedeltà rinnovata ed esigente. Coraggiosa, quando è necessario, di-
Non ci sono credenti «post moderni»: il nodo è sempre la fedeltà
screta ed efficace nella stragrande maggioranza delle occasioni: la fedeltà nel quotidiano e non delle eccezioni.
La seconda provocazione riguarda la presenza dei cattolici sul territorio, così diffusa che «non c’è gara rispetto alle ambizioni di metter su circoli e squadre da parte di chi sente di non avere un suo quotidiano radicamento nel reale quotidiano». La provocazione in questo caso nasce dal confronto con i circoli, per esempio del Pd e con la squadre, recentemente evocate del Pdl. Ma la diffusione dei cattolici nel territorio risponde a logiche ben diverse di quelle dell’appartenenza politica, che spesso riflette anche un ben preciso opportunismo. C’è una dimensione verticale, che è quella della comune Fede in uno stesso Dio, e una dimensione orizzontale che è quella della carità, che affonda le sue radici nell’etica della cura di cui la parabola del buon samaritano resta la metafora insuperata. Circoli e squadre sembrano volti ad un proselitismo in cui chi
aderisce può restare schiacciato nella logica di un anonimato di gruppo, dove avrà ben poche, se non nessuna!, possibilità di far sentire la sua voce, di incidere sulle scelte che si faranno, di esprimere anche solo una preferenza per questo o per quel candidato. I cattolici, gelosi cultori della loro libertà, perché ben consapevoli delle proprie responsabilità, tendono ad evitare quegli ambiti in cui sanno di non potersi permettere il lusso né della prima né della seconda. La capillarità della loro diffusione avviene sempre per piccoli nuclei di minoranze creative che gemmano con grande spontaneità dai gruppi più affollati e numerosi. Perché è lì che i processi decisionali si accumulano nelle mani di pochi, espropriando i più di un diritto che in ultima istanza è anche un dovere. Per questo dare vita a nuovi soggetti è un dovere reclamato con insistenza dalla propria coscienza. Non è un processo di divisione, ma un processo di moltiplicazione. Basta pensare all’infinito numero di associazioni, di movimenti, di ordini e di congregazioni, le cui differenze specifiche sfuggono ai più,
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Un tema di grande attualità
Quale rappresentanza nel Ventunesimo secolo?
mentre collabora con gli altri, dà attuazione alle parole pronunciate dal Signore nell’ultima cena, quando pregava per l’unità dei cristiani: «Ti prego che siano una cosa sola, come Tu Padre in me ed Io in Te…». Quindi la risposta a questa seconda provocazione riguarda la capacità dei cattolici di saper vivere nello stesso tempo uniti a Dio e agli altri. A poco servono le comode etichette di cattolico, quando sono sprovviste delle scomode esercitazioni pratiche che si traducono nella vita di preghiera e nello spirito di servizio, necessario per contribuire a realizzare il bene comune insieme agli altri.
ROMA. Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera di martedì ha analizzato la condizione dei cattolici e delle associazioni rispetto al loro rapporto con la vita sociale e, soprattutto, politica. Per De Rita a una «consistenza quantitativa del popolo cattolico», a una «diffusione capillare sul territorio» non corrisponde un peso analogo nel mondo politico. Secondo il segretario generale del Censis non c’è gara tra la presenza territoriale delle parrocchie italiane «rispetto alle ambizioni di mettere su circoli e squadre da parte di chi sente di non aver un suo quotidiano radicamento nel reale quotidiano». Ma, sempre secondo De Rita, mancano «al popolo cattolico i livelli intermedi prima di condensazione della propria forza poi di finalizzazione dello sviluppo collettivo del Paese». Le associazioni esistono, ma si tratta «di strutture dove il fondo identitario è più religioso e spirituale che d’impegno civile». Su questi temi liberal ha avviato un dibattito tra esponenti cattolici e dell’associazionismo: dal presidente delle Acli, Andrea Olivero, allo storico Franco Cardini, dal vaticanista del Giornale Andrea Tornielli allo scrittore Vittorio Messori e al portavoce di Scienza e Vita e direttore del portale Piùvoce.net Mimmo Delle Foglie. Quest’ultimo ritiene giusta l’analisi di De Rita perché ai cattolici «in questi anni è stato chiesto di fare altro, arretrando dalla dimensione politica. Non c’è più una strategia. Il ruinismo una strategia e una visione l’aveva: in quello schema i cattolici che non avevano più un partito politico di riferimento avevano come compito, secondo sensibilità e vocazioni, quello di fecondare le diverse realtà politiche ritrovandosi sui valori nei momenti essenziali». Uno dei punti deboli secondo il professor Cardini è, invece, il fatto che «la maggior parte dei cattolici non segue più l’autorità della Chiesa su questioni di condotta e di dottrina. Non c’è più una vita liturgica, una disciplina. L’associazionismo ha perso il suo ruolo perché ha perduto il richiamo superiore». Sul ruolo dei politici cattolici Franco Cardini è ancora più diretto e critico: «De Gasperi non si sarebbe mai sognato di farsi fotografare mentre prende la comunione, per dire. Nessun cattolico si sarebbe mai sognato di fare propaganda con la religione. Oggi invece i valori cristiani sono bandiere di propaganda e i cattolici non s’indignano. Da circa tre secoli, da quando il cristianesimo ha cessato di diventare una misura di carattere politico e sociale ed è sempre più diventato un fatto di coscienza individuale». Andrea Tornielli ritiene invece che «a dispetto della visibilità mediatica ci sono molti cattolici impegnati sui vari fronti a partire da un’esperienza di fede che fanno in adesione a certi valori. Direi anzi che forse rispetto al passato è cresciuta una sensibilità dovuta a certe intuizioni del magistero». Dal versante delle associazioni Andrea Olivero ritiene che «non è semplice per nessuno e nemmeno per il mondo dell’associazionismo avere questa capacità di interpretare i valori e portarli a quelle mediazione politica che è necessaria».
La terza provocazione lanciata da De Rita infine è tutta nella forza della fede che non può non esprimersi anche sul piano sociale e che riflette un ben preciso modello antropologico. De Rita identifica chiaramente tre ambiti applicativi, che si intersecano profondamente: la capacità di vivere il territorio come un valore aggiunto rispetto alla pura dimensione logistica, un luogo in cui essere con l’altro e per l’altro; la capacità di produrre relazioni interpersonali significative con tutti, includendo le nuove solitudini e i moderni fenomeni di emarginazione; e la capacità di fare cittadinanza attiva, partecipando generosamente e con piena responsabilità ad iniziative di volontariato, in cui si impegnano le varie forme di associazionismo, cattolico e non cattolico. La domanda iniziale di De Rita su come dare peso al popolo cattolico risulta in fin dei conti pleonastica. Nessuno potrà mai dare peso al popolo cattolico e tanto meno ciò avverrà nei partiti e nell’agone politico, se i cattolici in prima persona non si riapproprieranno della loro stessa vocazione cattolica. Ossia se non sapranno essere fedeli fino in fondo al messaggio evangelico, se non sapranno declinare responsabilità personale e unità tra di loro, se non individueranno luoghi e spazi concreti della nostra società da fecondare con i valori essenziali della nostra fede. Ed è su queste tre dimensioni che si costruisce la cultura del laicato cattolico, con una grande fedeltà al messaggio evangelico e una piena e condivisa responsabilità nel tradurlo in pratica nella complessità delle sollecitazioni della vita quotidiana.
condivisa per far fronte a situazioni in cui si perde il senso della coesione sociale. Quando alcuni vizi capitali vengono contrabbandati come valori sociali. Basta pensare all’avarizia, contro cui il Vangelo pronuncia parole durissime, anche nel famoso discorso della montagna contro gli ipocriti ed i farisei. Quando la vita e la famiglia perdono quel ruolo essenziale che dovrebbe farne il motore attivo di tutta la vita politica, a cominciare dalla tutela della coesione sociale, della ricerca scientifica, e della ripresa economica, come ha recentemente fatto notare anche Ettore Gotti Tedeschi. È allora che la domanda posta da De Rita assume un significato diverso e non riguarda più la possibile presenza dei cattolici nei diversi partiti politici. Riguarda invece il peso che riescono ad avere i valori espressi dalla cultura di ispirazione cattolica. La testimonianza personale è sempre possibile, anche nell’opposizione a idee e progetti in contrasto con le proprie convinzioni. Ma il rapporto tra cattolici e politica implica l’aspirazione, alta e forte, a governare per esprimere, materializzandoli, i valori di riferimento di una cultura e di una tradizione a cui non basta aver radici cristiane, occorre che produca frutti coerenti. Il valore delle radici si misura da
Il valore delle radici si misura da ciò che di fatto producono e che diventa patrimonio di tutti
Dall’alto: Giuseppe De Rita, Andrea Olivero, Vittorio Messori e Franco Cardini. Nella pagina a fianco, «Spogliazione di Francesco davanti al padre» di Benozzo Gozzoli (1452), affresco dell’abside della chiesa di San Francesco a Montefalco
mentre sono ben presenti nel cuore e nelle mente di quelli che vi prendono parte. La dimensione unitiva è quella della Fede, mentre la dimensione distintiva è quella delle opere.
Di tutti c’è bisogno, per tutti c’è posto, e grazie a tutti si disegna il mosaico complessivo e variegato del mondo cattolico. Guai se qualcuno volesse invadere lo spazio altrui o sottrarre all’altro risorse ed energie. Sono tantissimi i passaggi del Vangelo in cui la ricchezza della molteplicità dei carismi diventa espressione della stessa onnipotenza di Dio, della sua saggezza e della sua bontà, della sua bellezza e del suo straordinario amore alla libertà degli uomini. È il capolavoro della vocazione cristiana, per cui ognuno si sente sollecitato ad essere pienamente se stesso, sa di dover far fruttare i suoi talenti; ma nello stesso tempo,
La politica arriva dopo, ma certamente arriva, con forza ed energia quando le domande che riguardano il bene comune stentano a trovare risposta e si sente l’urgenza di un’azione
ciò che di fatto producono e che diventa patrimonio di tutti. Ringraziando Dio, ci sono cattolici eccellenti, nel senso di coerenti e coraggiosi, in tutti, ma proprio in tutti partiti politici. Il loro peso però è strettamente proporzionale da un lato alla loro qualità specifica (la loro fedeltà) e dall’altro alla loro concentrazione quantitativa. Il che significa che è necessaria coesione interna, capacità di fare rete, capacità di superare tensioni e diversità, per convertirle in ricchezza e in unità. Capacità di essere convinti e convincenti per attrarre il consenso necessario a superare le diverse competizioni elettorali. È questo probabilmente ciò che De Rita chiama la creazione di un tessuto intermedio con specifiche dinamiche intermedie. Tessere questo tessuto è compito specifico del laicato cattolico, un laicato maturo e responsabile, consapevole e coraggioso.
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spettacoli
Cartolina da Venezia. Le pellicole sono 27, suddivise in due filoni: il primo va dagli anni ’30 alla metà degli anni ’70. L’altro, dalla fine degli anni ’70 al 1988
Quando l’Italia rideva Da Totò ad Alberto Sordi, da Renato Rascel a Carlo Verdone: al Lido va in scena la retrospettiva dedicata al cinema comico di Andrea D’Addio
VENEZIA. Da una parte le ossessioni omicide e le vendette di Black Swan e Machete e dall’altro le risate italiane. Il Festival di Venezia si affida al nazionale cinema di genere per riequilibrare i toni forse troppo cupi dell’apertura. Quest’anno la retrospettiva scelta dal direttore Muller si intitola La situazione comica 1937-1988 e può essere ritenuta un ideale seguito delle passate retrospettive presentate con successo al Lido negli ultimi anni, da Italian Kings of the B’s - Storia segreta del cinema italiano nel 2004, fino a Questi fantasmi 2. Cinema italiano ritrovato nel 2009. «Il comico», si legge sul sito del Festival, «è sempre stato il grande polmone economico e popolare del nostro cinema, dai tempi di Totò giù fino ai cinepanettoni, ottenendo però solo raramente un’adeguata attenzione critica. Ora, con questa rassegna, la Mostra di Venezia intende suggerire una sorta di risarcimento culturale ad un genere troppo spesso rimasto nell’ombra».
Le pellicole che verranno presentate da qui all’11 settembre sono ventisette, suddivise in due grossi filoni. Un primo, più corposo (venti lungometraggi più alcuni filmati di breve durata) è incentrato sul cinema comico che va dagli anni ’30 (Tempo Massimo, diretto da Mario Mattioli nel 1934 è il più datato) alla metà degli anni ’70. L’altro, più esile (solo 7 titoli), sarà dedicato ai film più moderni, dalla fine degli anni ’70, al 1988. A curare la rassegna sono Domenico Monetti e Luca Pallanch e quel marco Giusti, già autore di Stracult, trasmissione televisiva che da anni cerca su Raidue una riconsiderazione di quel cinema di genere italiano spesso snobbato dalla critica. Proprio lui, parla così della sua sezione: «Si tratta di parziale risarcimento ad un genere che ha visto finora solo attestati postumi: da Totò a
Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Non hanno ottenuto nulla dalla critica, se non da morti». A tal proposito,Villaggio è solito ricordare come «un attore comico ha solo due scelte per essere consacrato: morire o essere chiamato da Fellini, come è accaduto a me e a Benigni in La voce della luna». Si inizia dalla fine e così come film d’apertura si è scelto proprio il più moderno tra quelli in programma: Compagni di Scuola di Carlo Verone. Ieri pomeriggio, nella prestigiosa Sala Perla, centinaia di spettatori, italiani e stranieri, hanno assistito e riso seguendo le figuracce, la malinconia e le battute di Piero, soprannominato il Patata quando grida per telefono alla moglie: «Ma quali strafiche? Ma quali strafiche? Quali? Ma se erano orribili all’epoca del liceo, pensa adesso che so’ diventate queste no?», senza accorgersi che le sue ex compagne lo stanno ascoltando, o quando subisce il discorso del suocero maschilista. «Dopo aver visto Il grande
freddo di Lawrence Kasdan mi venne in mente che anche la cena di classe che avevo avuto qualche giorno prima poteva essere sviluppata come film. Comunicai l’idea a Mario Cecchi Gori, che mi disse - Quanti sono i personaggi? Sei, sette? - No, diciotto. - Diciotto attori? Troppi, e tu quand’è che fai ridere con diciotto attori? - Aspetta, aspetta, facci andare avanti». Il risultato fu quello che molti considerano il migliore lavoro dell’autore romano, l’unico comico italiano ancora capace di portare migliaia di spettatori in sala ad ogni suo film.
Lo stesso Verdone avrà l’onore di guidare la visione di Lo scapolo interpretato da Alberto Sordi, suo riconosciuto padre artistico, e il corale Un giorno in pretura (in cui Sordi riprese il
personaggio di Nando Morioni), mentre Gianmarco e Ricky Tognazzi presenteranno Il mantenuto con il padre Ugo. Alessandro Gassman anticiperà invece Lo scatenato, un’acuta satira sul mondo della pubblicità e della televisione che il padre Vittorio interpretò alla fine degli anni ’60, quando il boom del piccolo schermo cominciava a diventare normalità e i paradossi venire a galla. Si rivedranno anche Franco Franchi e Cicco Ingrassia, Renato Rascel, Alighiero Noschese,Tino Scotti, Eduardo e Peppino De Filippo, Macario,Totò, Aldo Fabrizi, Lando Buzzanca, Nino Manfredi e Walter Chiari.
Tanti, imprescindibili nomi del nostro cinema, in alcune delle loro migliori interpretazioni, la cui bellezza estetica sarà accresciuta dal prezioso lavoro di restauro in molti casi operarato dalla Cineteca Nazionale.Tra le chicche della rassegna ci sarà la proiezione di Tutta la città canta, insolita incursione nel comico del maestro del cinema di paura Riccardo Freda, Io non spezzo... rompo, con uno divertentissimo Alighiero Noschese che fa il verso al Volontè di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e alcuni cortometraggi muti con protagonista Totò. Curiosità c’è anche intorno a Gli Allegri Masnadieri (1937) di Elter, una delle poche incursioni cinematografiche con le star dell’avanspettacolo teatrale degli anni 30’ e ’40, Guido e Ciccio De Rege. Ad accompagnare le varie pellicole del “vecchio” cinema comico, saranno “mostri sacri” del calibro di Lorenza Indovina, Mario Monicelli, Marco Risi, Emanuele Salce e Franca Valeri, uomini e donne che vissero quel periodo diventandone tra i volti e gli autori più apprezzati. Per la gioia del presidente di giuria Quentin Tarantino, al Lido arriveranno anche Edwige Fenech e Barbara Bouchet per presentare La moglie in vacanza e l’amante in città. Legato, seppur indirettamente alla rassegna, è anche l’omaggio che il festival dedicherà a Vittorio Gassman, di cui lo scorso giugno è ricorso il decimo anniversario della morte. Sarà visibile una versione restaurata di Profumo di donna, con cui Gassman vinse il David di Donatello e il premio per migliore attore al festival di Cannes del ’75, mentre Giancarlo Scarchilli ha presentato proprio ieri il documentario Vittorio incontra Gassman. Tanti filmati d’epoca, uniti dalle testimonianze di chi con lui lavorò o ebbe modo di conoscerlo, da Scola a Castellitto, passando per Monicelli, Proietti, Verdone e tanti altri. Nel 2000, quando Gassman morì,
la Mostra non gli dedicò nessuno spazio commemorativo. Il proposito è di provare a colmare, seppure con dieci anni di ritardo, questa lacuna.
Tornando alla rassegna, un posto d’onore, quantomeno per quanto riguarda i film moderni, è occupato dalla famiglia Vanzina. Saranno infatti proiettati sia quel Vacanze di Natale, padre di tutti i film natalizi prodotti da Aurelio De Laurentiis, sia Eccezionale... veramente, uno dei titoli più venduti in Italia quando si parla di dvd. Non solo: anche il papà di Carlo ed En-
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La pellicola ha un ottimo cast, ma un ritmo troppo didascalico
Darren Aronofsky non fa il bis
Difficile per il regista di “The Wrestler” replicare il successo, quest’anno, con il nuovo “Black Swan” di Alessandro Boschi
VENEZIA. Black Swan è l’opera con cui fatto il suo tempo e che è costretta a la-
rico, ovvero Steno, avrà l’onore di essere ricordato con la presentazione dell’ormai cult Febbre da cavallo. Renato Pozzetto, altra icona del nostro cinema anni ’80, sarà presente con Il ragazzo di campagna di Castellano e Pipolo, mentre per Paolo Villaggio si è optato per Fracchia la belva umana, firmato da Neri Parenti. Molti di loro, Diego Abatantuono, Lino Banfi, Christian De Sica, Enrico Montesano, Renato Pozzetto, Gigi Proietti, Paolo Villaggio, calcheranno nei prossimi giorni il palazzo del cinema per parlare di una fase cinematografica nazionale che, nei suoi limiti, riusciva comunque a raggiungere tutti i tipi di pubblico e ancora oggi, ad ogni replica televisiva, registrano ascolti sempre in termini di milioni di spettatori.
All’epoca fu considerato il “polmone” dell’industria cinematografica, ora è invece semplicemente un miraggio più volte evocato con rimpianto da quegli stessi addetti ai lavori che allora lo snobbavano come cinema di serie B. Lo stesso Oscar Fiore, unico Premio oscar italiano quest’anno grazie alle musiche di Avatar, subito dopo la consegna della statuetta, alla domanda sul perché fosse andato negli Stati Uniti a costruirsi una carriera ha spiegato come in Italia serva «un cinema commerciale. Il cinema americano è un’industria, mentre in Italia è sempre stato un movimento culturale, che il governo deve supportare economicamente per arrivare a dei risultati».
In alto, Totò e Peppino. A sinistra, Renato Rascel e Vittorio Caprioli. A destra, la locandina del film “Black Swan” di Darren Aronofsky, tra le pellicole in concorso alla 67esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Darren Aronofsky si ripropone in concorso alla 67^ edizione della Mostra, dove appena due anni fa era uscito da trionfatore con The Wrestler interpretato da Mickey Rourke. Allora il suo film era stato uno degli ultimi ad essere proposto, mentre quest’anno Black Swan è stato il primo. Ma difficilmente, crediamo, gli riuscirà il bis. È una storia di doppi, di immagini riflesse all’infinito dagli specchi presenti in quasi tutte le inquadrature per sottolineare, in maniera fin troppo didascalica, la personalità disturbata della protagonista che ha il problema di far emergere il suo lato oscuro per interpretare al meglio l’allestimento tchaikovskijano del Lago dei cigni. Il problema è che anche Aronofsky dimostra di non saper padroneggiare il doppio insito nella struttura del film. Tanto è vero che dopo un po’sembra di essere precipitati nelle ossessioni di David Cronenberg. Si ha sempre la sensazione, vedendo certi film del regista newyorkese, che il (suo) subconscio la faccia troppo da padrone. Il che non aiuta una pellicola che ha nella bravura degli attori, e nella innegabile “mano” del regista, i suoi punti di forza. Certe scene al limite dello splatter finiscono con il rendere disturbante una storia che crea presupposti degni di un epilogo migliore. Ci riferiamo alla involuzione del film nei momenti cruciali, in cui il personaggio interpretato magnificamente da Natalie Portman dovrebbe subire lo “scatto” emotivo, risolto con espedienti visivi più che con una vera idea narrativa.
sciare la corona alla più giovane rivale piombando in una depressione autodistruttiva.
Di tutt’altro genere il film diretto da Robert Rodriguez in comproprietà con Ethan Maniquis, Machete. Dopo aver visto qualche giorno fa I mercenari (The Expendables) di e con Sylvester Stallone, ecco un altro film muscolare con una trama che si racconta in poche parole: «Creduto morto dopo lo scontro con un boss, l’ex agente Machete fugge in Texas per dimenticare il passato ma finirà per cadere in una trappola. La sua vendetta sarà feroce». Tutto qua, ma basta e avanza per mettere in scena un adrenalinico fumettone cui partecipano godendosela anche attori del calibro di Robert De Niro, Jessica Alba, Lindsay Lohan, Michelle Rodriguez, Steve Seagal e Don Johnson. Più il protagonista, che forse è il meno noto ma titolare di una faccia che vista una volta non si dimentica più: Danny Trejo. Il quale, oltre ad avere interpretato tutti e tre i film di Robert Rodriguez della serie Dal tramonto all’alba, possiede un curiosa caratteristica. Che sempre a Rodriguez (e Tarantino) deve: i suoi personaggi si chiamano spesso come coltelli o utensili da lavoro: anche nel film per ragazzi Spy Kids si chiamava Machete. Nel già citato Dal tramonto all’alba, i baristi Razor Eddie e Razor Charlie (“Razor”, rasoio) e Navajas (che in spagnolo vuol dire coltello) in Desperado. Machete lo è stato anche in Grindhouse e lo sarà di nuovo, per lo meno per lo meno così dicono i minacciosi titoli di coda dell’ultima pellicola. E a dimostrazione di quello che spesso sosteniamo, e cioè che nel cinema tutto si lega, sappiate che Danny Trejo ha iniziato per caso a fare l’attore dopo che il regista Andrei Konchalovski lo aveva visto insegnare a tirare di pugilato ad Eric Roberts che ra uno dei protagonisti del suo A trenta secondi dalla fine. Ed Eric Roberts è proprio uno dei cattivi de I mercenari, che pure consigliamo a chi vuole divertirsi senza dovere affrontare particolari elucubrazioni mentali.
Il cineasta dimostra di non saper padroneggiare il doppio insito nella struttura del film: dopo un po’ sembra di essere nelle ossessioni di Cronenberg
Non ci meraviglieremmo se Black Swan si aggiudicasse qualche riconoscimento per gli effetti speciali. Bravi come dicevamo tutti gli attori, dalla giovane Mila Kunis alla matura e sempre magnifica Barbara Hershey nel ruolo della madre ossessiva. Bravo anche Vincent Cassel, geniale direttore del balletto che intuisce le potenzialità nascoste della dolce Nina. Lasciamo per ultima Wynona Rider, alla quale il regista ha affidato un ruolo ingrato. Nel senso che le tocca interpretare l’etoile in disarmo, che ha
ULTIMAPAGINA ecisamente in controtendenza con i devastanti tagli alla Cultura che ci vorrebbero ridurre a burattini tristi e insensati, da domani al 5 settembre avrà luogo la VII edizione del «Festival della Mente» primo festival in Europa dedicato alla creatività e ai processi creativi. Diretto da Giulia Cogoli e promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia e dal Comune di Sarzana, offre un programma teso all’approfondimento culturale. Una staffetta di letture, conferenze, spettacoli, concerti e performance con una sezione di laboratori dedicati ai giovanissimi. Sono settanta gli eventi previsti affidati a protagonisti di varia formazione che si avvicenderanno nella tre giorni condividendo con gli astanti il loro sapere e soprattutto i loro percorsi creativi per espugnare la stupidità degli opinionisti televisivi. Una formula molto gradita al pubblico come dimostrano le 40 mila presenze della passata edizione.Tutti gli interventi sono strutturati appositamente per il contenitore Festival e sono consultabili gratuitamente in versione MP3 e video sul sito www.festivaldellamente.it oltre che pubblicati da Laterza in forma divulgativa di brevi saggi e per i lettori più tecnologici scaricabili dal sito www.bookrepublic.it.
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Il primo appuntamento è dunque alle 17.30 di domani con la lectio magistralis di Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, sul paesaggio come bene comune, luogo d’incontro tra natura e cultura espressa nei segni che l’uomo le impone plasmandola; a seguire il critico d’arte Achille Bonito Oliva proporrà un’analisi delle avanguardie storiche fino alla multimedialità. Contemporaneamente, ma in altro sito, Stefano Bolognini, presidente della Società Psicoanalitica Italiana, farà il punto sull’eredità freudiana. Alle 19,30 il professor Alessandro Barbero ordinario di Storia medievale racconterà, alla vigilia dei 150 anni dall’Unità, la visione che dell’Italia ebbe Cavour. Alle 21.15 andrà in scena l’ironia feroce di Alain Bennett nella confezione di Licia Maglietta e Nicoletta Maragno. A conclusione di questa prima giornata alle 23.15 il genetista Edoardo Boncinelli spiegherà come avviene la creazione della crescita individuale da parte dell’essere umano.
Eventi. Da domani a domenica ritorna il «Festival della Mente»
Tutti a Sarzana dove la cultura fa di Enrica Rosso
SPETTACOLO il lacaniano Massimo Recalcati a esplorare l’enigma del desiderio, il poeta Valerio Magrelli che si domanda quale il ruolo della poesia nell’odierno scenario; ancora Barbero sulla figura di Garibaldi. Gli Avion Travel presenteranno nel dopo cena una autobiografia creativa in musica; il filosofo Salvatore Natoli disquisirà sul coraggio delle azioni e per gli insonni, ultimo appuntamento ancora con Boncinelli sull’invecchiamento della macchina umana.
Se non siete ancora sazi di Sapere potete prenotarvi per gli «Approfondimenti a numero chiuso». Il 4 una tripla possibilità: la neuro scienziata Ludovica Lumer che indagherà l’identità tra arte e scienza; l’autrice Laura Bosio con le voci della spiritualità femminile attraverso i testi delle mistiche o l’esplorazione dei vincoli che intercorrono tra la realtà e la sua rappresentazione cinematografica in compagnia del critico Roberto Escobar e di Paolo LeDopo una notte di sogni la mattina di dome- grenzi professore di Psicologia cognitiva. Donica la junghiana Lella Ravasi Bellocchio illu- menica mattina l’autore Alessandro Robecchi strerà i legami tra identità e realizzazione fem- e il teorico dell’informazione Giuseppe O. Longo, in separata sede, entrambi minile; il cognitivista Paolo sul tema della satira. Per inseLegrenzi i legami tra creatignare ai più giovani che la covità e stupidità; ancora a pronoscenza, oltre che privilegio, è posito di stupidità e furbizie gioia e divertimento, scoperta e Gianni Celati e Nunzia Palviaggio, tantissime proposte mieri daranno voce ad una seanche per la fascia di età comlezione di testi dell’attore Attipresa tra 4 ai 14 anni curata da lio Vecchiatto, impavido istrioMarina Cogoli Biroli: laboratone d’antan. Cinque gli appunri, spettacoli, incontri, caccia al tamenti nell’arco del pomerigtesoro ed eventi serali perché i gio: il glottologo Alberto Innonostri figli non si intorpidiscacentini con la sua indagine etino passivamente ingoiati dalla mologica; Javier Cercas, il più tecnologia, ma mantengano viimportante scrittore civile va la coscienza della loro unispagnolo e Aldo Cazzullo a Vincenzo Cerami e, cità e bellezza. parlare di letteratura e realtà; in alto, Licia Maglietta, due protagonisti del festival di Sarzana
Sempre più numerosi gli eventi della kermesse «creativa»: dal teatro (con Licia Maglietta) alla letturatura (Cerami), alla psicoanalisi
Si riparte sabato con due autori a confronto: lo spagnolo Enrique Vila-Matas e Andrea Bajani che si palleggeranno un dialogo su letteratura e meta letteratura, mentre il giornalista Paolo Ruiz, avvalendosi delle sue esperienze di inviato speciale, ci introdurrà alla scoperta del rapporto tra andatura e narrazione. Nel pomeriggio si potrà scegliere tra la presentazione dell’iPad come metafora dell’anima umana a cura del filosofo teoretico Maurizio Ferraris e il grecista Guido Rizzi che illustrerà il cammino ai confini dell’anima tra mito e follia, mentre Gianvito Martino, direttore della divisione di Neuroscienze del San Raffaele di Milano ci illuminerà sull’uso e manutenzione del cervello; inoltre i disegnatori Francesco Tullio Altan e Sergio Staino converseranno dell’Italia di oggi con parole disegni, satira; lo scrittore irlandese John Banville e il critico Ranieri Polese riflette-
ranno sulla bellezza nell’arte. Verso sera poi lo junghiano Luigi Zoja ci parlerà dell’individuazione della mente, lo storico Georges Didi-Huberman dei mostri dell’immaginazione; Barbero della visione dell’unità d’Italia di Vittorio Emanuele II. Dopo cena Vincenzo Cerami ci intratterrà con il suo raccontospettacolo Una vita di parole; Ilvo Diamanti docente di Comunicazione dei meccanismi dell’insicurezza; il genetista Boncinelli della maturità del corpo e della mente.