ISSN 1827-8817 00903
di e h c a n cro
La vita può essere capita solamente all’indietro, ma va vissuta in avanti
Soren Kierkegaard
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 3 SETTEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La gigantografia della ragazza iraniana esposta al Campidoglio
Sakineh, finalmente si sveglia anche l’Italia
Davanti all’ambasciata di Roma centinaia di persone per salvare la giovane donna e difendere i diritti umani. Adesioni non solo politiche: anche Totti e Prandelli firmano l’appello
Santolini, Baldacci e Salvatori • pagine 18 e 19
Successo diplomatico di Obama e di Hillary Clinton. Si chiude con la volontà di un’intesa l’incontro di Washington
La pace è fatta. A parole Passo in avanti tra Netanyahu e Abu Mazen: «Siamo disposti a concessioni reciproche» Appello del Papa e Shimon Peres: «Ci vuole un accordo che tuteli i diritti dei due popoli» Il Senatùr ha cambiato idea (e strategia?)
Il dibattito sulle tesi di De Rita
Bossi: «Serve il federalismo, non le elezioni anticipate»
Cattolici, vi propongo una Rete
Il leader della Lega chiude le porte alle urne. Ma sulla pace nella maggioranza: «Evoluzione benigna? Io sarei più cauto»
di Rocco Buttiglione
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
L’ironia del Quirinale sull’interim allo Sviluppo
Napolitano: «Non c’è ancora un ministro? Lo dirò in giro» Il Capo dello Stato incalza l’esecutivo: «Serve una vera politica industriale». E poi scherza un po’ amaramente... a pagina 6
Il leader dei centristi alla festa dell’Api
Casini: «Se si vota subito noi andiamo da soli» «Secondo me, l’intesa per una legge elettorale alla tedesca è possibile anche con chi oggi vuole i collegi uninominali» a pagina 7 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO
iù delle parole, come sempre di prammatica, potrebbero avere un senso i segnali fisici. I sorrisi sono il pane della diplomazia, ma il pollice alzato con cui Abu Mazen ha salutato una frase particolarmente apprezzata di Bibi Netanyahu fa pensare a un seppur minimo cambiamento di rotta. Poi corroborato dalla frase con cui il presidente dell’Autorità palestinese ha condannato gli attentati contro i coloni israeliani avvenuti negli ultimi due giorni: « Non possiamo consentire a nessuno di fare qualcosa che mini la vostra e la nostra sicurezza», ha detto guardando Netanyahu. Che ha risposto, prima di entrare nel vivo del colloquio a porte chiuse, sottolineando: « Una pace vera tra israeliani e palestinesi può essere raggiunta solo con concessioni reciproche dolorose da entrambe le parti».
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I QUADERNI)
LA MEDIAZIONE SUL TAVOLO
Simulazione di un trattato possibile di Enrico Singer ochav Hashachar e Kyriat Arba. Per molti sono soltanto i nomi, anche difficili da pronunciare, che identificano i luoghi degli ultimi due attentati compiuti dai terroristi di Hamas per sabotare i colloqui di pace di Washington. A Kyriat Arba sono stati uccisi quattro israeliani martedì, a Kochav Hashachar ne sono stati feriti due il giorno dopo. Ma questi villaggi sono molto di più di un piccolo punto sulla carta geografica. Sono due dei 121 insediamenti ebraici in Cisgiordania, il territorio che dovrebbe diventare - con la Striscia di Gaza - il futuro Stato palestinese. Sono, forse, anche i più carichi di simboli, perché Kyriat Arba - dove vivono 1200 ebrei - è alle porte di Hebron, la più grande città araba del West Bank.
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• CHIUSO
el suo articolo su Corriere della Sera di martedì, Giuseppe De Rita ha messo subito in evidenza il punto decisivo della questione cattolica in Italia. Esso non riguarda tanto il che cosa vada fatto ma il come. Dopo la fine della Democrazia Cristiana il cattolicesimo italiano ha vissuto, vogliamo dirlo, una lunga stagione felice. Era un po’ come se fosse saltato un tappo che, nel momento in cui rappresentava in modo praticamente monopolistico la presenza politica dei cattolici, la contemporaneamente mortificava, non dava alle tante realtà che compongono quella presenza uno spazio vivo e attivo di protagonismo. È stato il cardinal Ruini a cogliere nella crisi della Dc anche una opportunità, liberando questa creatività di base e richiamandola non ad una unità politica ma ad una coerenza sui valori e ad un progetto culturale. Negli anni Novanta la presenza cattolica è cresciuta in tutti gli ambiti della società italiana. a pagina 20
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IN REDAZIONE ALLE ORE
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Vertice. Un forte appello per la fine del conflitto viene da Benedetto XVI e Shimon Peres, che chiedono stabilità
La pace a parole
Netanyahu e Abu Mazen aprono i colloqui: «Per dare un futuro al Medioriente siamo disposti a concessioni reciproche e dolorose» di Vincenzo Faccioli Pintozzi iù delle parole, come sempre di prammatica, potrebbero avere un senso i segnali fisici. I sorrisi sono il pane della diplomazia, ma il pollice alzato con cui Abu Mazen ha salutato una frase particolarmente apprezzata di Bibi Netanyahu fa pensare a un seppur minimo cambiamento di rotta. Poi corroborato dalla frase con cui il presidente dell’Autorità palestinese ha condannato gli attentati contro i coloni israeliani avvenuti negli ultimi due giorni: « Non possiamo consentire a nessuno di fare qualcosa che mini la vostra e la nostra sicurezza», ha detto guardando Netanyahu. Che ha risposto, prima di entrare nel vivo del colloquio a porte chiuse, sottolineando: «I pilastri della pace sono due, la legittimità e la sicurezza. I palestinesi devono riconoscere Israele come lo Stato del popolo ebraico, che ha diritti civili inalienabili. Un riconoscimento delle reciproche sovranità è indispensabile. Signor Abbas, io rispetto il desiderio del suo popolo di avere uno Stato e sono convinto che
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si possa conciliare con il bisogno di pace di Israele». Ma ha concluso: « Una pace vera tra israeliani e palestinesi può essere raggiunta solo con concessioni reciproche dolorose da entrambe le parti». Da parte sua, il presidente palestinese Abu Mazen ha ribadito la richiesta che Israele «ponga fine a tutte le costruzioni di nuovi insediamenti nei territori occupati e che sia rimosso completamente l’embargo su Gaza».
Ma il leader di Fatah ha poi aggiunto di volere «una nuova era per i popoli israeliano e palestinese, che porti pace, giustizia e sicurezza per tutti. La sicurezza è fondamentale per raggiungere questo obiettivo, e la pace e vitale non solo per Palestina ed Israele ma anche per l’intera regione». Le conclusioni sono state lasciate alla padrona di casa, Hillary Clinton: « So che non sarà facile, sappiamo che c’è molto scetticismo, i tragici atti terroristici di ieri ci ricordano i costi umani della guerra; solo voi potete creare pace e dignità per i due popoli» ha dichiarato
la Clinton. «Voglio dire a chi critica questo processo – ha aggiunto - unitevi a noi in questo sforzo; questa è un’opportunità per contribuire al progresso. Gli Usa daranno il loro pieno supporto: è anche nel nostro interesse che troviate un accordo. Ma dovete trovarlo voi, non saremo noi a imporlo». Anche perché sono i due presidenti a dover trattare
portavoce del movimento, ha poi attaccato l’Autorità palestinese affermando che i suoi servizi di sicurezza, dopo gli attacchi degli scorsi due giorni a coloni israeliani in Cisgiordania, ha attuata una massiccia ondata di arresti di sostenitori di Hamas. In cambio, però, un forte appello per la pace nella regione è venuto ieri da Castel Gandolfo, dove Benedetto XVI ha ricevuto il presidente di Israele Shimon Peres. I due, si legge nel comunicato emesso dopo la fine dell’incontro hanno espresso «l’auspicio che i colloqui diretti ripresi ieri a Washington aiutino israeliani e palestinesi a raggiungere un accordo rispettoso delle legittime aspirazioni dei due Popoli e capace di portare una pace stabile in Terra Santa e in tutta la Regione». Un ulteriore riferimento alla ripresa del dialogo è contenuto sempre nel comunicato vaticano, là dove aggiunge che «è
I leader del movimento islamico della Striscia di Gaza, tuttavia, avvertono i big riuniti a Washington: «Negoziati del tutto inutili». Le stesse parole pronunciate da Teheran
stata quindi ribadita la condanna di ogni forma di violenza e la necessità di garantire a tutte le popolazioni dell’area migliori condizioni di vita». “Clima di cordialità” per questo nuovo incontro tra due persone che si conoscono da tempo e che si erano già incontrati varie volte: in Vaticano nell’aprile 2006 e nel settembre 2007 e in Israele nel 2009, più volte, nel corso del pellegrinaggio del Papa in Terra Santa. Al viaggio del Papa e alla situazione della Chiesa cattolica in Israele fa poi riferimento la nota vaticano, quando dice che «i colloqui hanno permesso di esaminare anche i rapporti tra lo Stato d’Israele e la Santa Sede e quelli delle Autorità statali con le comunità cattoliche locali.
con la destra ortodossa israeliana e con Hamas. Che ieri ha definito i negoziati con Israele “inutili, illegali e destinati a fallire». Inoltre, secondo il movimento islamico, «la delegazione palestinese non ha ricevuto dal suo popolo il mandato per condurre le trattative col nemico sionista». Abu Zuhri,
Al riguardo, si è sottolineato il significato del tutto particolare della presenza di queste ultime nella Terra Santa e il contributo che esse offrono al bene comune della società, anche attraverso le scuole cattoliche. Infine, si è preso atto dei risultati raggiunti della Commissione bilaterale di lavoro, impegnata
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i convitati di pietra Meshaal e Hamas, lo scontro a tutti i costi
a pace si fa con il nemico. Ma il nemico a Washington non è stato invitato. Il segretario generale di Hamas, Khaled Meshal, resta nelle liste internazionali dei most wanted come terrorista, quindi non gli è concesso sedersi al tavolo della pace. Come durante il summit di Annapolis nel 2007, il movimento islamico subisce l’ostracismo da parte di coloro che promuovono un confronto politico. Certo, è un isolamento che Hamas è andato a cercarsi. Il suo atteggiamento di aggressività non è tollerato in queste occasioni. I recenti attacchi nel West Bank sono
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stati rivendicati prima dalle Brigate Ezzedine al-Qassam, il braccio armato del movimento islamico, poi direttamente da quest’ultimo.
È chiaro che Meshal e compagni – soprattutto coloro che vivono a Gaza – intendono proseguire con la lotta di resistenza armata, cercando di opporsi alla cooperazione che invece potrebbe nascere dalle trattative di Washington. In merito agli attentati contro i colo-
l ministro degli esteri israeliano, Avidgor Liebermann, è il grande assente a Washington. Il protocollo stabilisce che ai summit di questo genere prendano parte anche i capi delle diplomazie, a fianco dei loro primi ministri o capi di Stato. Così era avvenuto a Camp David nel 1978, in occasione del trattato di pace fra Egitto e Israele. Ma l’immagine più celebre risale al 1993, quando, sotto gli occhi di Bill Clinton,Yasser Arafat e Yitzakh Rabin si strinsero per la prima volta la mano. Alla destra dell’allora premier israeliano c’era Shimon Peres, in qualità appunto
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da anni nell’elaborazione di un Accordo relativo a questioni di carattere economico e si è auspicata una rapida conclusione del medesimo». Peres è giunto a Roma da Tel Aviv con un volo di linea atterrato poco prima delle 9 ed è arrivato a Castel Gandolfo, attuale residenza di Benedetto XVI, poco dopo, accompagnato da cinque collaboratori, dei quali due sono donne. Il presidente, che ha anche compiuto una visita dei giardini delle Ville Pontificie, si è incontrato dapprima per una mezz’ora con il segretario di Stato, card. Tarcisio Bertone, accompagnato dal segretario per i Rapporti con gli Stati, mons. Dominique Mamberti, e quindi col Papa.
Il colloquio è avvenuto in inglese. Al termine, il presidente ha donato al Papa una menorah, il candelabro a sette bracci della tradizione ebraica. Nella dedica incisa alla base si legge “A sua santità papa Benedetto XVI, il pastore che cerca di condurci ai campi delle benedizioni e ai campi della pace. Con grande stima”. Il candelabro è stato realizzato in argento da un artista israeliano. Il Papa ha ricambiato con una medaglia di bronzo di circa 14 centimetri incorniciata in travertino. Si tratta di una copia della medaglia posta da papa Alessandro VII nel 1657 all’interno della prima pietra del colonnato nord della Basilica di San Pietro. La medaglia porta inciso il progetto iniziale di sistemazione di piazza san Pietro, disegnato dal Bernini. Ma è difficile che questi doni possano fermare il sanguinoso conflitto che da decenni non dà tregua al Medioriente.
ni di Hebron, Abu Mazen ha preso le dovute distanze. In questo modo il suo governo vuole dimostrare la propria buona volontà nel riprendere le trattative. Tuttavia così si accentua la crisi aperta fra la presidenza dell’Anp e Hamas. Crisi che non permette di osservare i palestinesi come un soggetto unico. Viene da chiedersi, quindi, come Abu Mazen possa far accettare la sua linea di pace, nel mentre che Hamas cerca di fomentare il popolo palestinese per una terza Intifada e intanto provoca i coloni israeliani con i suoi raid in Cisgiordania.
Avigdor Lieberman e la destra religiosa di suo ministro degli esteri. Questa volta Benjamin Netanyahu è atterrato negli Stati Uniti da solo. Liebermann ha preferito rimanere a Gerusalemme, confermando così il suo personale scetticismo in merito alla ripresa dei colloqui.
«Credete che improvvisamente arriveremo a un accordo di pace?», ha detto il polemico leader del partito Yisrael Beitenu: voce degli ebrei immigrati dalla Rus-
sia e oggi alfiere dell’opposizione ai colloqui, all’interno del governo. «I palestinesi non vengono con sincere intenzioni di pace, bensì con nuove richieste che potrebbero ostacolarla». Lieberman ha aggiunto inoltre di essere contrario a prolungare il congelamento degli insediamenti in Cisgiordania oltre il 26 settembre, data di scadenza della moratoria. La sua posizione soddisfa quella maggioranza dell’opinione pubblica israeliana, che rappresenta il vero blocco al processo di pace. È contro di esso che si sta battendo Netanyahu.
Mahmoud Ahmadinejad, il padrino della guerriglia
utti i negoziati e i trattati di pace proposti in questi ultimi trent’anni si sono rivelati fallimentari». Il commento del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, non lascia dubbi sulla posizione del regime di Teheran. Mentre si espande la campagna di proteste contro la pena capitale che rischia di essere inflitta ad Hakineh, il governo degli Atyatollah conquista il suo momento di visibilità anche sulla ribalta di Washington. All’Iran piace che l’opinione pubblica mondiale parli della sua brutalità e delle sue opinioni controcorrente. per un re-
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gime autoritario il silenzio significherebbe la fine. Così sfrutta ogni occasione per provocare.
«Se non sono esaminati i principali problemi della Palestina, il fatto che due persone si riuniscano allo stesso tavolo e parlino non cambierà niente», ha aggiunto Ahmadinejad. Per proseguire appunto con gli ormai noti strali contro il «regime sionista che non può essere legittimato». Teheran, anzi,
Re Abdullah di Riyadh, l’islam più intransigente
l re Abdullah dell’Arabia Saudita, Custode dei Luoghi Santi dell’islam, è il secondo missing in action ai negoziati in corso. Perché la sua poltrona è vuota? Fin dal giugno 2009, gli osservatori internazionali avevano pensato che Obama avesse deciso di investire la maggior parte delle sue risorse diplomatiche per irrobustire i rapporti con il sovrano saudita. Questo per due motivi: gli interessi sul petrolio saudita, ma soprattutto l’ambizione di arrivare alla pace in Medio Oriente. La conferma di queste ipotesi si era avuta osservando come, in occasione della sua visita
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non esclude un intervento militare a suo danno da parte di Israele, con l’obiettivo di arrestare i suoi progetti nucleari. Il presidente iraniano ha sottolineato inoltre che l’assenza di Hamas, a suo giudizio “il movimento più rappresentativo nel mondo politico palestinese”, discredita i colloqui in corso. In questo modo, anche la presidenza dell’Anp ha perso il suo valore, che comunque sarebbe riconosciuto a titolo diplomatico presso il governo iraniano. L’ultima critica è stata riservata agli Usa, la cui mediazione “è irrilevante data l’alleanza con Israele”.
nella regione – sempre in quel periodo – il presidente Usa avesse preferito visitare prima Riyadh e poi Il Cairo. Obama era stato anche criticato per quell’inchino, un po’ troppo profondo, con cui aveva reso omaggio al sovrano saudita.
A sua volta, il presidente egiziano, Hosni Mubarak è probabile che non abbia gradito tutta questa attenzione tributata dagli Usa verso l’Arabia, acerrimo rivale dell’E-
gitto, nel mondo islamico sunnita, sia come superpotenza regionale e sia come capocordata tra i Paesi della Lega Araba nell’ambito dei negoziati israelo-palestinesi. A questo punto, l’assenza a Washington di entrambi i leader fa pensare che gli Usa preferiscano condurre le trattative senza gregari. È una scelta, questa, che semplifica i lavori e soprattutto, in caso di successo del summit, evita che la Casa Bianca sia costretta a spartirsi gli onori con altri soggetti, magari poco graditi a Israele e all’elettorato ebraico Usa. Testi a cura di Antonio Picasso
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l’approfondimento
La spartizione della West Bank è il primo nodo da sciogliere per realizzare la formula dei “due popoli, due Stati”
Simulazione di un trattato I «sacrifici dolorosi per tutti» di cui parla Netanyahu sono la soluzione del puzzle dei Territori con la rinuncia israeliana a gran parte degli insediamenti in cambio della nuova frontiera segnata dal “muro” di Enrico Singer ochav Hashachar e Kyriat Arba. Per molti sono soltanto i nomi, anche difficili da pronunciare, che identificano i luoghi degli ultimi due attentati compiuti dai terroristi di Hamas per sabotare i colloqui di pace di Washington. A Kyriat Arba sono stati uccisi quattro israeliani martedì, a Kochav Hashachar ne sono stati feriti due il giorno dopo. Ma questi villaggi sono molto di più di un piccolo punto sulla carta geografica. Sono due dei 121 insediamenti ebraici in Cisgiordania, il territorio che dovrebbe diventare - con la Striscia di Gaza - il futuro Stato palestinese. Sono, forse, anche i più carichi di simboli, perché Kyriat Arba - dove vivono 1200 ebrei - è alle porte di Hebron che, con i suoi 150mila abitanti, è la più grande città araba della West Bank, ma al tempo stesso, è stata una delle più importanti di Israele durante tutto il periodo che va dal Primo al Secondo Tempio (dall’833 al 536 avanti Cristo) da dove partì anche la rivolta di
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Bar Kochba contro i romani che si concluse con la distruzione del Secondo Tempio da parte delle armate dell’imperatore Tito nel 70 dopo Cristo. Un intreccio di vicende storiche e umane che è esemplare della contestata realtà di oggi. E lo stesso è per Kochav Hashachar (abitata da 1500 ebrei) che sorge alle porte di Ramallah, la capitale dell’attuale Anp - l’Autorità nazionale palestinese - che, prima dello scoppio dell’Intifada, era chiamata la Parigi della Cisgiordania per i suoi caffè e i suoi ristoranti dove si può ordinare, ancora oggi, anche il vino, cosa impossibile da altre parti di questi territori dove l’influenza islamica è più radicale, compresa Hebron dove non ci sono sale cinematografiche proibite dal fondamentalismo più intransigente, mentre a Ramallah c’è anche un festival del cinema.
In Cisgiordania oggi vivono due milioni di palestinesi e trecentomila israeliani, quasi tutti concentrati negli insediamenti.
Il più grande è Maale Adumin, una vera cittadina di 30mila abitanti ai margini del deserto che comincia a Est di Gerusalemme, e il più piccolo è sempre a Hebron, anzi è un quartiere di questa città - chiamato Hebron 2 - dove vivono appena 800 ebrei protetti da un imponente servizio di sicurezza. È il groviglio dei Territori. Ed è, anche, il problema più grosso da risolvere nell’anno di trattative che è appena cominciato. Assieme a quello dello status futuro di Gerusalemme e del ritor-
La Cisgiordania oggi è divisa in tre aree: un vero groviglio a pelle di leopardo
no dei rifugiati palestinesi che, per l’Anp, sono quattro milioni - una vera bomba demografica - e per Israele non sono più di 200mila. Ma tutto parte dal territorio che, secondo la formula dei “due popoli, due Stati”dovrà andare ai palestinesi. Se non si è mai stati da queste parti, non è facile rendersi conto di quanto sia complicata la situazione. Altro che “territorio a pelle di leopardo” di vietnamita memoria. Quella che comunemente chiamiamo Cisgiordania o West Bank (perché è a Ovest del
fiume Giordano) e che molti israeliani chiamano con gli antichi nomi di Samaria e Giudea, è stata occupata da Israele dopo la Guerra dei Sei Giorni vinta nel 1967 contro Egitto, Siria e Giordania che l’avevano attaccata. E, dopo gli accordi di Oslo del 1993, è divisa in tre settori.
Le aree A, B e C hanno statuti molto diversi. La zona A (circa il 17 per cento del territorio totale dove vive il 55 per cento di tutti i palestinesi) comprende le città più grandi - da Jenin a Tulkarem, da Nablus a Ramallah, da Betlemme a Hebron) ed è già passata completamente sotto il controllo dell’Anp. La zona B (il 24 per cento del territorio dove vive il 41 per cento dei palestinesi) è sotto amministrazione civile palestinese, ma sotto controllo militare israeliano. La zona C (il 59 per cento del territorio dove vive appena il 4 per cento dei palestinesi) è sotto il controllo totale degli israeliani. Nella cartina che pubblichiamo in questa pagina,
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Sul fronte opposto, l’esercito di Gerusalemme si starebbe preparando a una grande operazione
E intanto, a Beirut, Hezbollah resiste alle tentazioni di Teheran
I mullah iraniani li invitano a sabotare i colloqui di Washington, ma gli sciiti libanesi tentennano e alzano la guardia lungo la Blue Line di Pierre Chiartano l Libano del Sud sta diventando una bomba a orologeria, parallelamente all’avvicinarsi della resa dei conti tra Gerusalemme e il regime dei mullah iraniani. Da giorni e settimane la diplomazia iraniana sta esercitando pressioni su Hezbollah perché si attivi, organizzando azioni contro Israele, durante i colloqui di pace tra Israele e i palestinesi che si svolgono in queste ore a Washington. Ma Nasrallah da questo orecchio sembra ci senta molto, nonostante le apparenze. La situazione nel sud del Libano sta da poco risorgendo dal disastro della guerra-lampo del 2006. Non c’è alcuna volontà, né convenienza politica, di far soffrire di nuovo quelle pene a una popolazione stremata, In una regione, dove i bisogni quotidiani sono ancora legati alla necessità di avere acqua potabile, energia elettrica, delle strade percorribili e il lavoro. Sia il ministero della Difesa di Teheran che gli emissari di Alì Kamenei hanno tentato in tutti i modi di smuovere i loro alleati libanesi.
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Anche la notizia data in pasto alle agenzie sulle forniture d’armi potrebbe essere una mossa di questa strategia che vorrebbe forzare la mano al «Partito di Dio». Se il Libano dovesse richiedere assistenza, l’Iran è pronto a vendere armi a Beirut: lo aveva dichiarato il ministro della Difesa iraniano, generale Ahmad Validi, il 25 agosto. Mettendo Nasrallah nelle condizioni di muoversi, perché non sembrasse ci fosse una frattura palese tra Hezbollah e Teheran. Il governo libanese aveva subito aperto un conto corrente presso la banca centrale del Paese per ricevere fondi destinati all’acquisto di forniture belliche. Una iniziativa che era stata anche letta come una protesta contro la decisione dell’Amministrazione Obama di sospendere gli aiuti Il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. A sinistra la mappa della Cisgiordania, soldati israeliani e pastori palestinesi. In basso, il muro al confine
militari stanziati per il 2009 – pari a oltre cento milioni di dollari – nel timore che le armi potessero essere utilizzate contro Israele o finire negli arsenali di Hezbollah; dal 2006 ad oggi Washington aveva fornito al Libano 720 milioni di dollari in aiuti militari.
L’intelligence del Partito di Dio sarebbe stata attivata per vigliare discretamente alle spalle della Blu Line, la linea convenzionale che separa il Libano da
In Iran, il ministro della difesa s’era detto disposto a vendere armi al movimento di Nasrallah Israele. Il timore sembra essere quello legato ad una possibile provocazione messa in atto da agenti prezzolati dall’Iran, per far sfuggire di mano la situazione a chi vuole la pace nell’Alta Galilea. I limiti del mandato Onu della missione Unifil, che non permettono ai baschi blu di agire all’interno dei centri abitati, lasciano aperte le porte ad ogni possibile ipotesi su ciò che avviene sopra e sotto il territorio urbano a sud del fiume Litani. Un limite che, per stessa ammissione dei militari di Tsahal, inficia il pur ottimo lavoro svolto dai militari Onu, fino a pochi mesi fa sotto il co-
mando del generale italiano, Claudio Graziano. Dall’altro fronte ci sarebbero alcuni segnali che evidenziano come Israele si stia preparando o attaccare l’Iran o a lanciare una nuova offensiva nel sud del Libano contro gli Hezbollah. Lo afferma Asia News. Si tratta di una deduzione elaborata in base agli ordinativi di approvvigionamenti logistici militari effettuati nel corso delle scorse settimane dalle forze armate dello Stato di Israele. In particolare Israele avrebbe ordinato negli Usa, all’inizio di agosto, 284 milioni di galloni (un gallone Usa è circa 3,8 litri) di cherosene aeronautico del tipo JP-8, oltre a 100 milioni di galloni di gasolio per autotrazione (diesel) e di 60 milioni di galloni di benzina senza piombo – forniture anche queste con caratteristiche per impieghi militari. Il costo preventivato sarebbe di due miliardi di dollari. Se ne ha notizia da una notifica emessa, in conformità alle vigenti leggi americane, dal ministero della Difesa statunitense ed in particolare dal dipartimento della Cooperazione e sicurezza, (Defense security cooperation agency) lo scorso 5 agosto. Tale notifica è obbligatoria come preventiva comunicazione al Parlamento americano, in relazione a forniture militari destinate a Paesi esteri. Gli obiettivi di un possibile attacco nell’Alta Galilea sarebbero le strutture interrate che Hezbollah avrebbe costruito negli ultimi mesi, come centrali di comando e controllo per una nuova rocket Intifada contro lo Stato ebraico, come evidenziava il generale Gabi Ashkenazi, capo di Stato maggiore uscente dell‘Israel defence force (Idf), qualche settimana fa durante una visita in Italia. E anche il forte aumento dell’attività di spionaggio diretto (humint) dell’inteligence di Gerusalemme, è un segnale che si stia muovendo qualcosa di grosso a nord della Blue Line.
Le premesse politiche per un intervento israeliano contro le centrali nucleari ci sarebbero. Con il passaggio di mano dell’Iraq dal Pentagono, che non vuole un intervento israeliano in Iran, e il dipartimento di Stato che vede sotto una luce diversa un’operazione contro le strutture nucleari degli ayatollah, si aprirebbe il canale aereo per i raid dell’aviazione israeliana. Con l’avvio della missione Nuova Alba (New Dawn) ci potrebbero essere le condizioni addate per un intervento militare. Ma usare il condizionale è d’obbligo in questo caso. Il momento propizio potrebbe essere quello del passaggio di mano del sistema di difesa aerea iracheno dai militari Usa ai tecnici delle società private di sicurezza.
la zona A è segnata in arancione, la B in verde e la C in bianco. Gli accordi di Oslo dovevano essere il primo passo per l’accordo di pace finale, ma si sono, di fatto cristallizzati. Anzi, dopo la seconda Intifada - la rivolta palestinese cominciata il 28 settembre del 2000 - e l’ondata di attentati kamikaze nelle città israeliane, il governo di Gerusalemme ha deciso la costruzione dello “sbarramento di sicurezza”, il muro - che, in realtà, per la maggior parte del suo percorso è una barriera elettronica - che circonda ormai la Cisgiordania e ne segna quello che, secondo Israele, potrebbe essere il confine con il futuro Stato palestinese.
Certo, Abu Mazen, chiede che alla Striscia di Gaza - già passata all’Anp - si unisca tutta la Cisgiordania secondo i confini del 1967. Ma, come ha detto anche Benjamin Netanyahu dopo il primo incontro diretto di ieri, «un accordo sarà possibile soltanto con sacrifici dolorosi da tutte e due le parti». Il sacrificio israeliano è rinunciare a un grande numero d’insediamenti o ad accettare che diventino enclaves di minoranze ebraiche in territorio palestinese - e qui si apre tutto il capitolo, ancora da scrivere, delle garanzie del reciproco rispetto mentre il sacrificio palestinese è prendere atto che il nuovo confine passa lungo il muro che ha inglobato circa l’8 per cento del territorio della Cisgiordania, in particolare attorno alla zona di Gerusalemme. Nelle bozze più o meno segrete e, soprattutto, più o meno attendibili, che circolano sulla «pace possibile» di cui ha parlato anche ieri Barack Obama, ci sono proprio questi confini con alcune clausole accessorie: lo Stato palestinese sarà demilitarizzato almeno per una cinquantina d’anni. Sarà garantito ai palestinesi il proprio spazio aereo civile, con la possibilità per gli israeliani di sorvolare il Paese. I palestinesi erediteranno tutte le infrastrutture costruite dagli israeliani in questi anni per gli insediamenti senza dover versare un indennizzo e rimarrà una piccola minoranza di ebrei nel futuro Stato palestinese se alcuni coloni non vorranno rinunciare a lasciare luoghi religiosamente simbolici come Hebron. Quando sarà normalizzata anche la situazione con Gaza - che oggi è in mano a Hamas sarà costruito anche un passante di sicurezza da Beit Hanoun alla parte sudoccidentale della Palestina, una specie di corridoio di Danzica gestito dalle forze di sicurezza palestinesi e vigilato esternamente dagli israeliani. Ma sulla strada di una simile soluzione c’è ancora il problema della statuto di Gerusalemme e del ritorno dei profughi. E quello degli attentati di Hamas che rinnega la linea moderata di Abu Mazen e predica ancora la guerra.
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Morale padana. Il Senatùr vede «il federalismo al sicuro» e aspetta «il discorso di Fini», per i colonnelli «la nostra gente non vuole le urne, ma nel caso punirebbe solo il Cavaliere»
Lega in cerca di legalità Il Carroccio può davvero sacrificare tutto per il processo breve? Mentre Bossi frena sul voto, i suoi si interrogano sulla strategia di Errico Novi
ROMA. Non è un caso se l’onere di un’estrema mediazione ricade proprio su Bossi.Tra Berlusconi e la Lega, è quest’ultima a nutrire maggiori dubbi sull’armageddon elettorale. Lo fa capire ancora una volta proprio il Senatùr. Che si dice «cauto» sull’evoluzione benigna intravista da Napolitano, ma che dice anche di «non vedere per adesso» il rischio voto. Anche perché c’è il federalismo: certo, quello, assicura il capo della Lega, «l’abbiamo messo in cassaforte, anche se cadesse il governo il Consiglio dei ministri continuerebbe a riunirsi». Ma subito dopo Mirabello sarà proprio il Carroccio a trattare con Fini. Bossi può davvero accettare di tornare dagli elettori per il processo breve? La sola idea lo angustia. Ed ecco perché il capo della Lega attende con ansia le parole dell’ex leader di An.Teme di restarne inchiodato. Se nel suo discorso il presidente della Camera inserisse rassicurazioni su riforme e federalismo, i leghisti rischierebbero di apparire come alleati costretti a subire l’eventuale forzatura del Cavaliere in nome delle sue sole urgenze processuali.
E quanto pesa, questa prospettiva di seguire ciecamente la corsa al voto lanciata da Berlusconi, per dirigenti e militanti del Carroccio? Può essere sopportata senza traumi? Le opinioni sono varie. Ma tutte segnate da quella stessa preoccupazione che in queste ore assale il capo. Piergiorgio Stiffoni, senatore del Trevigiano di quelli in costante sintonia con la base, assicura tanto per cominciare che «noi non diamo nulla per scontato, nemmeno che si debba per forza tornare a votare». E si affida proprio all’estrema mediazione di Bossi, Calderoli e altri luogotenenti del Senatùr: «Qualcuno dei nostri lavora perché altri arrivino a più miti consigli». Altri, cioè Fini ma anche Berlusconi. Stiffoni aggiunge: «Non siamo preoccupati di doverci giustificare eventualmente per la fine anticipata della legislatura e la mancata realizzazione del federalismo. Gli elettori sanno bene chi sarebbe responsabile delle mancate riforme». E poi l’altro conforto: «Dai sondaggi si capisce che siamo quelli che guadagnerebbero di più, di gran lunga». Tanto da non scontare nessun forma di dissenso, tra gli elettori, per l’adesione alla linea berlusconiana su giustizia e legalità? Qui Stiffoni, come altri, si affida a una sorta di esorcismo identitario. Verdini? La cricca?
«Siamo diversi dai berlusconiani», dice Stiffoni. Ma Stefani teme l’astensionismo e chiede di «finirla con gli attacchi all’ex leader di An»
Le inchieste? Il processo breve? «Noi siamo assolutamente lontani da queste cose. Siamo abituati a fare pulizia in casa nostra, non ad intrometterci nelle faccende altrui». E basterà? «La gente capisce che non sono cose nostre. E il consenso aumenterà». Il che in fondo allude anche a un probabile travaso di voti dal Pdl al Carroccio.
Ma la cosiddetta diversità dei leghisti non verrebbe compromessa nel momento in cui ci si alleasse di nuovo con il Pdl? È un quesito al quale Bossi si dedicherà solo laddove le elezioni anticipate diventassero inevitabili. Nel frattempo il presidente della commissione Esteri della Camera Stefano Stefani, vicentino e iscritto anche lui alla schiera dei leghisti sempre in ascolto del“territorio”, osserva: «Andando in giro tra la gente mi rendo conto sempre di più che chi ci ha votato non vuole nuove elezioni. E non parlo solo dei militanti, degli iscritti coinvolti più direttamente, ma anche degli altri». Secondo Stefani «i cittadini non vogliono saperne di tornare alle urne e anzi credo che se davvero si votasse di nuovo l’astensionismo aumenterà in modo esponenziale». Magari proprio come forme di dissenso per una crisi aperta sul processo breve e sulla giustizia: «Sono cose che interessano a poca gente, e non parlo solo di quelli che votano per noi». Ed è proprio per questo che non gradirebbero lo scioglimento anticipato. «No. E non è edificante nemmeno quanto ab-
biamo visto e letto quest’estate. È ora di finirla». Anche con la tesi del complotto anti-berlusconiano che giustificherebbe tutto? «I cittadini sono stanchi di leggere sempre gli stessi titoli sui giornali, si tratti di Libero, del Giornale o di Repubblica. E non condivido gli attacchi a Fini: non portano da nessuna parte».
Meno benevolo con il presidente della Camera è Dario Galli, deputato e presidente leghista della Provincia di Varese. «Vediamo quanti finiani mettono davvero a rischio la ricandidatura», è il suo preambolo sulla crisi di maggioranza, «certo la soluzione migliore sarebbe andare avanti con questa maggioranza, ma se poi l’ex leader di An tiene in vita la legislatura per far saltare il federalismo...». Ipotesi lontana. «Io non credo che finirà tutto a causa del processo breve», dice
Ancora ironia sul governo dal Quirinale: «Serve un ministro allo Sviluppo? Passerò la voce»
Napolitano chiede un progetto industriale ROMA. Evidentemente Giorgio Napolitano ha finito le scorte di irritazione. Oppure l’atmosfera entusiastica con cui è stato accolto a Venezia l’ha contagiato. O forse è per l’evoluzione «più benigna» del quadro politico. Come che sia, sono due giorni ormai che per comunicare il suo punto di vista sulla contingenza politica ricorre a rotonde prese in giro. Mercoledì, interrogato sul processo breve, aveva ammannito agli ascoltatori un tradizionale «non faccio previsioni», seguito però da una stilettata al cuore del Cavaliere: «Ho già detto molto mentre si discuteva la legge sulle intercettazioni. Sapete che fine ha fatto quella legge?». Domanda ap-
di Marco Palombi parentemente innocua quanto cattiva, se si considera che il premier aveva tentato, giusto un mese fa, di ancorare le sorti della legislatura a quel ddl. Ieri l’argomento era invece di quelli che stanno molto a cuore al presidente della Repubblica: la sostituzione di Claudio Scajola al ministero dello Sviluppo economico, retto temporaneamente - da quattro mesi ormai - proprio da un Silvio Berlusconi in devastante conflitto di interessi. Il nuovo ministro glielo aveva promesso, «probabilmente per la prossima settimana», lo stesso uomo dell’interim in un incontro al Quirinale. Era il 23 lu-
glio. Adesso dunque, anche di fronte ad una crisi che continua a mordere l’economia reale, il capo dello Stato è passato all’irrisione.
Come mercoledì, anche ieri è partito con un classico monito da presidente della Repubblica: «È venuto il momento che l’Italia si dia una seria politica industriale nel quadro europeo, secondo le grandi coordinate dell’integrazione europea. Ne abbiamo bisogno per l’occupazione e per i giovani, che oggi sono per noi il motivo principale di preoccupazione». Serve dunque il ministro dello Sviluppo econo-
mico, gli fa notare un giornalista. «Lei crede? – è la risposta puntuta - Va bene, allora passo la voce…». Non di solo pane vive però il capo dello Stato, che quindi, accanto ad un gongolante Luca Zaia, è tornato a parlare anche di «federalismo come garanzia dell’unità nazionale» e del processo di devoluzione di poteri agli enti locali come di un processo «evolutivo dello stato democratico italiano che nacque ferocemente accentrato e che sta ora assumendo sempre più le caratteristiche di Stato delle autonomie». Non si è fatto mancare neanche, il presidente, un riferimento all’importanza del dialogo tra posizioni politiche diverse, unica via per cui an-
politica
3 settembre 2010 • pagina 7
Il leader dei centristi ospite della kermesse di Rutelli
Etica e governabilità? Serve il modello tedesco
Casini, alla festa dell’Api, rilancia il dibattito sulla legge elettorale e poi: «Se si vota subito, noi andiamo da soli» di Riccardo Paradisi erve una nuova legge elettorale anzi tutto, perché quella che c’è non va bene, genera un Parlamento di nominati» dice il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini ai giornalisti prima di salire sul palco della festa dell’Api a Labro (Rieti) per il suo intervento-intervista con Bruno Vespa. «Questa legge elettorale è un’indecenza. Perché consente a cinque persone di nominare mille parlamentari. Secondo me l’intesa per una legge diversa è possibile anche con chi oggi vuole i collegi uninominali perché basta pensare ad una legge proporzionale alla tedesca con il ’provincellum’, ovvero con il sistema di elezione delle province». Ma intanto, prima della riforma elettorale – aggiunge Casini – è necessario che si sciolga il nodo dell’interim allo Sviluppo economico: «In un momento così particolare è urgente che venga nominato un titolare a quel dicastero». Per quanto riguarda la vicenda di Gianfranco Fini e il suo destino politico Casini resta abbottonato: «Fini per ora è nel Pdl, deciderà lui il da farsi. Parlarne ora è prematuro. Ma aspettiamo di sentire cosa dice domenica a Mirabello». Con l’Api di Rutelli dice invece c’è grande condivisione su tante cose, sulla maggioranza dei temi. «È difficile trovare dissenso, anche se dissensi ce ne possono essere, come in tutte le famiglie. Ma questo con Rutelli è un percorso unito che io condivido».
«S
Galli. Pare più un auspicio, perché a Mirabello Fini ribadirà che le riforme si fanno. E allora la Lega come si regola, si barrica anche lei dietro il complotto anti-Cavaliere? No che non potrebbe, conviene Galli: «Si andrà alle elezioni se non ci sarà più una maggioranza, ma certo non per colpa nostra: noi ne usciremo puliti». Ecco la vera chiave interpretativa di riserva del Carroccio. «Non saremo noi a difendere cose indifendibili, anzi: continueremo a tenere bassi i toni, e al Nord parte dei voti del Pdl passerà a noi». Così i conti tornano. «E poi diciamolo: in questi due anni e mezzo la maggioranza ne ha avute di difficoltà, ma per l’assenteismo abnorme nel Pdl. Anche per questo la gente preferirà votare per noi. Prenderemo il 4 per cento in più, e secondo lei dove, se non al Nord? È Berlusconi che deve fare bene i suoi conti». Appunto.
che l’opposizione possa «farsi carico delle responsabilità di governo del Paese».
Ma è l’economia il centro dei pensieri di Napolitano in queste settimane: «Attorno alla questione dell’occupazione giovanile si stringono i nodi dell’economia - ha scandito ieri – C’è una nuova categoria di giovani che non sono impegnati né in processi formativi, né lavorativi, né di addestramento al lavoro. Noi dobbiamo dare delle risposte su tutti questi terreni». Lo stato dei nostri comparti industriali non è che lasci spazio all’ottimismo in questo momento: gli ordini stanno ripartendo ma le difficoltà degli ultimi anni si stanno ovviamente scaricando, oltre che sulle aziende più deboli, sui livelli occupazionali. È di ieri la notizia che il mercato dell’auto in Italia quanto strategico e simbolico
Qui sopra, una manifestazione della Lega: c’è molto nervosismo tra gli elettori del Carroccio a proposito della scarsa efficacia del governo. A destra, Pier Ferdinando Casini. Nella pagina a fianco, Giorgio Napolitano
per noi ognuno lo può capire – continua a perdere quota: le vendite ad agosto hanno raggiunto il livello più basso da 17 anni, quel 1993 che fu non a caso un anno di drammatica ristrutturazione del sistema Paese. Qualche altro dato aiuterà forse a capire perché l’assenza di un ministro dell’Industria in questo momento è una sciagura: i cassintegrati a zero ore a luglio erano 650mila, mentre sono 170 i tavoli di crisi aziendale aperti presso il ministero che fu di Scajola.Volendo far nomi, si parla di Telecom, Tirrenia, Ansaldo BredaFirema,Vinylis, Agile-Eutelia e decine di altri. Numeri e nomi a cui va aggiunta almeno una piccola constatazione: il ministro ad interim Berlusconi dovrà a breve emanare il regolamento di gara per i multiplex digitali a cui parteciperà Sky, casualmente principale concorrente di Mediaset.
non hanno niente a che fare con la democrazia liberale». Casini si riferisce alle recenti dichiarazioni di Antonio Di Pietro naturalmente ma dall’altra parte, aggiunge Casini, guardando al centrodestra, «questa estate non ha molto avvicinato al centrodestra persone che la pensano come me. Del resto da quelle parti sono la Lega e Tremonti che danno le carte». Uno scioglimento delle Camere oggi sostiene però Casini determinerebbe un fallimento politico di questo governo. Insomma sarebbe una schizofrenia da parte dei centristi pensare di fare un’alleanza. «Oggi noi alle elezioni faremo una proposta diversa al paese coscienti del fatto che esiste un’area vasta di non voto consapevole che attende proposte alternative a questo bipolarismo armato e inconcludente». Insomma non ci sono condizioni per fare alleanze né da una parte né dall’altra: «Se l’evoluzione di questi partiti è quella che vediamo oggi non se ne parla proprio». Casini però, da cristiano, spera nelle conversioni : di tutti, di Berlusconi e del Pd, persino di Di Pietro.
«Secondo me l’intesa per una legge diversa è possibile anche con chi oggi vuole i collegi uninominali. Penso al “provincellum”, ovvero un sistema di elezione delle province»
Rivolgendosi poi al governo Casini lancia un appello: «Dico alla maggioranza e a Berlusconi, togliete di mezzo questo processo breve, perché non ha nulla di credibile, non è una cosa che si può fare, è un’indecenza». E con l’Api di Rutelli è all’orizzonte un’alleanza? chiede Bruno Vespa a Casini: «Ma tu e Rutelli siete ancora fidanzati?» «L’importante – risponde Casini – è sposarsi il giorno delle elezioni». E però alla domanda se si va alle elezioni oggi con chi sta l’Udc Casini risponde secco: «Se oggi si votasse noi andremo da soli, e sarei serenamente incurante dell’esito elettorale. Ma insomma devo fare un’alleanza con chi teorizza che è un fatto positivo che a Marcello dell’Utri sia impedito di parlare sui diari di Mussolini? Ma questo atteggiamento, queste posizioni
Se si votasse oggi comunque il Pdl e la Lega otterrebbero il 46 per cento dei consensi, con il Carroccio in forte ascesa. È il dato riferito dallo stesso Pier Ferdinando Casini: «Un sondaggio consegnatomi poco fa ha rilevato dati incredibili. Per ogni voto della Lega ce ne sono due del Pdl. Due anni fa il rapporto era uno a 4,5, un anno fa uno a 3,5». Da tempo, ha ricordato, «andiamo dicendo che il centrodestra sta consegnando l’Italia alla Lega che, nel nord Italia ha doppiato il Pdl. ecco la conferma». Mentre Casini parla arriva una dichiarazione di Massimo D’Alema rilasciata dalla Festa nazionale del Pd a Torino: «Casini è diverso da Fini perché sta all’opposizione. Ecco perché l’Udc potrebbe essere un nostro alleato». E a proposito dell’Italia dei Valori: «Di Pietro pone un aut-aut o l’Idv o l’Udc? Questi discorsi vanno affrontati con più prudenza e meno propaganda. Di Pietro è già stato smentito dal suo stesso partito proprio qui in Pimenonte dove alle scorse regionale sia Idv che Udc sostennero la Bresso come candidata alla presidenza della regione». Giochi aperti insomma, a trecentosessanta gradi e in attesa di conversioni.
economia
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Conti. Il Pil dell’Eurozona sale dell’1%; solo +0,4% per l’Italia ROMA. Certo, il costo del danaro è rimasto ancorato all’uno per cento. Al minimo storico. Ma rispetto ai desiderata del mercato Jean-Claude Trichet non ha voluto esplicitare la durata della pax sui tassi né ha dato la sua disponibilità ad acquistare titoli di Stato come potrebbe fare il suo omologo americano, Ben Bernanke, pur di aiutare l’economia degli Stati Uniti. Di conseguenza, e in un’Europa che secondo il banchiere centrale crescerà un po’ di più rispetto alle previsioni, rientra nel capitolo delle mosse straordinarie della Banca centrale europea soltanto la proroga a tutto il 2010 delle misure per estendere la liquidità.
E per confermare le aste di rifinanziamento a una settimana e a un mese con una procedura di tasso fisso e volume illimitato Trichet – che ha parlato di decisione «presa con consenso» – deve aver fatto fatica a vincere le resistenze del direttivo dell’Eurotower. Nonostante l’appoggio della Bundesbank a rinviare i discorsi su exit strategy. Se il parallelo tra le mosse della Bce e quello della Fed sarebbe fatto dai mercati, allora la bocciatura di Trichet sarebbe netta. Infatti, dopo le parole del governatore, le Borse hanno risposto in maniera fredda. Infatti Londra ha chiuso con un +0,09 per cento, Parigi e Milano con un +0,21, mentre è stabile Francoforte. Ma respingere ogni confronto è stato lo stesso Trichet. Tanto da mandare a dire al collega americano: «È sempre meglio non cedere troppo al “sentimento” dei mercati perché l’andamento in corso ha molte caratteristiche di tipo ciclico». Eppoi la la Bce «non è eccessivamente delusa, in quanto non ritenevamo probabile mantenere tassi di crescita così elevati per un lungo periodo di tempo. Non abbiamo alcun tipo di ansia al riguardo». E non ha infuso ottimismo sui mercati neppure le stime rivi-
L’allarme di Trichet sulla doppia Europa «Cresciamo poco e in modo diseguale»: Ue a due velocità, lo dice anche la Bce di Francesco Pacifico
Il presidente della Banca centrale, Jean-Claude Trichet. In basso, il numero uno della Federal Reserve, Ben Bernanke. Le loro mosse per favorire la ripresa appaiano sempre più distanti trimestri del 2010 si è registrato «un rimbalzo più forte del previsto», gli ultimi dati «fanno prevedere un rallentamento nella seconda metà dell’anno sia a livello globale che nell’eurozona». Il banchiere ricorda e rivendica «di aver già detto in passato che non è nelle nostre previ-
L’Eurotower mantiene invariati i tassi all’1 per cento. Ben Bernanke ammette le responsabilità della Fed sulla crisi subprime ste al rialzo dalla Banca centrale per il 2010 e il 2011. Per l’anno in corso la crescita europea dovrebbe oscillare tra l’1,4 e l’1,8 per cento contro l’1 secco previsto in passato. Per quello prossimo si potrebbe arrivare a +1,4 per cento, in aumento di due decimali rispetto a quanto ipotizzato. Ma a leggere in filigrana le stime si scopre che fa temere soprattutto la fine dell’anno in corso. Perché sei nei primi due
sioni» il rischio di double-dip, di ricaduta nella recessione. «E ora più di prima». La ripresa c’è, ma è discontinua e segnata dall’incertezza, e Trichet, infatti, «non canta ancora vittoria». Nella mattinata di ieri Eurostat aveva fatto sapere che – complici gli investi-
menti e le esportazioni tedesche – il Pil dell’area euro e nella Ue a 27 è cresciuto tra il primo e il secondo semestre dell’1 per cento. Rispetto a un anno fa, il dato tocca il +1,9 per cento. Al riguardo registra un campanello d’allarme l’Italia: dopo il boom di inizio anno, l’economia italiana cresce meno della media eu-
ropea e soltanto dello 0,4 per cento nel secondo semestre (toccando il +1,1 per cento su base annua). Peggio, quindi, di quanto abbiano fatto le altri grandi d’Europa Germania (+2,2 per cento), Francia (+0,6) e Gran Bretagna (+1,7). Il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, ha richiamato la sua maggioranza a un comportamento più consono. Intervistato dall’Adnkronos, mette in guarda «il teatrino della politica, che per fortuna influisce poco sulle scelte di politica economica, impatta sul “mood”di carattere generale già provata da due anni e rotti di crisi, e incide sui consumi». Parlando del Belpaese, il commissario agli Affari economici, Olli Rehn, ha che «se le esportazioni continueranno a crescere, le nostre previsioni rimarranno positive». Per Trichet l’unica strada per rimettere in carreggiata il Vecchio continente sono le riforme. Lo si capisce quando «incoraggia il governo irlandese a prendere le misure appropriate» per contrastare la speculazione e ridurre il deficit. oppure quando plaude alla Germania e all’Austria, unici Paese a intervenire sul welfare e così a «garantirsi la moderazione salariale». Intanto, dall’altro lato dell’Atlantico, Ben Bernanke fa un altro passo per migliorare i rapporti con il mercato. E davanti alla Financil Crisis Inquiry Commission ha provato a ridisegnare gli ambiti di lavoro dei regolatori e quelli delle realtà finanziare.
Prendendo spunto dalla grande crisi, ha detto che «la lezione più importante è che le banche non devono essere autorizzate a diventare troppo grandi per fallire». Tanto da chiedersi se le istituzioni non debbano «essere pronte a intervenire e chiudere le grandi realtà finanziarie se minacciano la stabilità del sistema». Al riguardo ha ricorda che «Lehman Brothers non poteva essere salvata. Perché ogni tentativo di salvarla sarebbe stato inutile e avrebbe dato l’unico risultato di una perdita di denaro». Ma guai a guardare a quest’affermazione come un autodafé. «La Federal Reserve e le autorità di controllo americane», ammette, «avrebbero potuto fronteggiare meglio la crisi finanziaria innescata dai mutui subprime. Siamo stati lenti nell’identificare i rischi e a contrastare gli abusi nel mercato di questi prodotti».
L’
otto pagine per cambiare il tempo d’agosto
i m p r e s a
3 settembre (1976)
La sonda Viking 2 atterra su Marte e scatta le prime foto a colori
Cartoline dal Pianeta Rosso di Emilio Spedicato
el 1976, dopo quasi un anno di viaggio, scendevano su Marte due sonde gemelle, Viking 1 e 2. Primo contatto realizzato con il pianeta detto rosso, associato dagli antichi a violenze e amori illeciti con Afrodite, come li descrive Omero in un passo il cui significato profondo è stato evidenziato da Alfred De Grazia. Le due sonde erano costituite da un modulo orbitante, orbiter, e uno di atterraggio, lander. Tre erano gli scopi principali: ottenere fotografie ad alta risoluzione e a colori della zona di atterraggio; ne sono state ottenute di bellissime, in colore rossastro (ma qui è probabile un ritocco per adeguarsi all’idea del pianeta rosso), dove si vedono distese sabbiose e macigni dai profili non propriamente smussati; analizzare l’atmosfera, fatto che non ha dato clamorose variazioni rispetto a quanto era noto da tempo da foto terrestri e infine ricercare tracce di vita aliena, che non sono state notate nella regione visitata. Il problema Marte è oggi ancora aperto. Nel seguito vediamo alcune questioni relative alla conoscenza di questo pianeta. Accanto ai risultati ufficiali (che in astronomia ed astrofisica mutano rapidamente anche in modo clamoroso) vediamo alcuni approcci non tradizionali, ma suggeriti dall’ esperienza umana, tramandata a livello religioso, mitologico e nei testi antichi. Sulle bandiere di Turchia e Pakistan appare una grande mezzaluna con al centro una stellina a cinque punte. Credevo fosse un simbolo islamico e ne chiesi la spiegazione a Gabriele Mandel, fra le massime autorità nella cultura islamica (e non solo: è violinista, ceramista, scultore, calligrafo, poeta, parla una dozzina di lingue, ha pubblicato oltre duecento libri…). Mandel, ebreo che ha perso una dozzina di parenti nei lager, è anche un sufi, quindi musulmano nella tradizione dei suoi avi afghani. Mi disse che il simbolo era di origine turca con significato incerto.
N
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LA PERDUTA GENTE - CAPITOLO 24 (EPILOGO)
I TESORI DELLE CIVILTÀ - NINIVE
CINEMA CALDO - TRAVOLTI DA UN INSOLITO DESTINO...
Che cosa c’è alla fine del buio
Tra le rovine della città superba
Uno schiaffo di classe
di Carlo Chinawsky
di Alessandro Boschi
di Rossella Fabiani
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pagina 16 pagina 9 - liberal estate - 3 settembre 2010
Iniziamo i nostri scenari su Marte, pianeta che Obama ha promesso di fare oggetto di una importante missione, a partire dalla mezzaluna. Una ipotesi di lavoro è che la stellina a cinque punte sia Marte, quinto dei corpi celesti visti dalla Terra secondo gli antichi; dopo Luna, Sole, Mercurio, Venere e Marte. La stella a cinque punte sarebbe dunque associata a un pianeta associato a forza, violenza, guerra. La stella a sei punte di Davide e Salomone, i grandi re di un’epoca di pace, va invece associata a Giove, il re dei pianeti.
Nel simbolo la Luna ha una fase accentuata e una grandezza superiore a quella di Marte. Questo fatto può essere spiegato, altra ipotesi di lavoro, con una recente cattura della Luna e la contemporanea perdita di Marte quale precedente satellite della Terra. Questa cattura sarebbe avvenuta circa 9450 anni prima di Cristo, in corrispondenza del passaggio vicino alla Terra di un grande oggetto, di dimensioni comparabili con quelle della Terra. Tale oggetto perse un satellite, divenuto la Luna, e strappò alla Terra il precedente satellite, senza catturarlo. Tale precedente satellite, dopo una evoluzione orbitale durata quasi 9000 anni, sarebbe divenuto l’attuale Marte. Alla ipotesi di cui sopra si perviene con considerazioni, che chi scrive ha sviluppato nel libro Atlantide e l’Esodo: Platone e Mosè avevano ragione, in relazione alla fine di Atlantide, vista come un evento associato alla fine dell’ultima glaciazione. Fine che ora sappiamo essere avvenuta assai rapidamente,
forse in poche settimane. Probabilmente dovuta alla rottura del sottile fondo oceanico lungo le dorsali per la deformazione del nostro pianeta provocata gravitazionalmente dall’oggetto che passava vicino. Il magma fuoruscito generò immense piogge, riscaldamento dell’atmosfera, morte degli esseri viventi che non fossero al fresco su alte montagne, scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello dei mari. Che la Luna abbia una origine recente è affermazione di testi antichi, fra cui citiamo: nella Bibbia Giobbe loda Dio con la frase Signore di quando c’è la Luna e di quando non c’era e in antichi testi indù si dice che la Luna apparve quando il mare bollì. Per i Malekula della Nuova Guinea un tempo l’aria si riempì di vapori tali che era impossibile vedere;
La cattura della Luna è possibile in una interazione a 4 o 5 corpi come quella considerata (Sole, Terra, Luna, oggetto passante vicino alla Terra, Marte…), mentre è impossibile in una interazione a 3 corpi. La Luna entrò velocemente in orbita circolare (simulazioni di astronomi giappponesi per un problema simile hanno dimostrato che la circolarizzazione avverrebbe in meno di un secolo), forse su un’orbita più vicina, in cui appariva più grande e luminosa e l’anno aveva più di dodici mesi. L’archeoastronomo Brunod ha scoperto fra i graffiti della Val Camonica l’evidenza che nel quarto millennio a.C. i mesi fossero 13 e non 12. Da ciò seguirebbe una Luna più luminosa, e forse spiegheremmo la sacralità del 13 presso molti popoli antichi… Notia-
In questa pagina, due simulazioni della spedizione della sonda Viking inviata sul Pianeta Rosso il 3 settembre 1976 ge di Keplero, un precedente satellite per definire i tre mesi, in orbita a circa un milione di km di distanza. Se questo era Marte, sarebbe apparso meno luminoso e più piccolo della Luna! Marte è misterioso. Ha simile inclinazione sull’eclittica e velocità di rotazione come quella della Terra, fatto inspiegato, ma spiegabile per risonanza se per lunghissimo tempo fosse stato satellite della Terra. Ha una composizione simile a quella terrestre, ma una densità pari alla metà. Non ha campo magnetico; su questo non commentiamo perché esiste una spiegazione molto complessa e
Quanto sopra ha certamente senso se Marte fosse stato satellite della Terra, quindi in zona abitabile, con acqua liquida aperta a forme di vita… e la perdita dell’acqua si può spiegare in parte con lo strappo di Marte dalla Terra, provocato dall’oggetto che perse il suo satellite e con successivi passaggi ravvicinati. La presenza di un satellite prima della Luna è fondamentale perché la sostituzione con la Luna non abbia avuto conseguenze disastrose sulla Terra, e per spiegare le strutture sedimentarie dette varves. La questione dell’esistenza di vita fuori del nostro meraviglioso pianeta è un problema di estremo interesse, su cui si è discusso da secoli. Giordano Bruno fu condannato al rogo anche per avere ipotizzato vita intelligente in altri pianeti (ma chi sono i Troni,
associata a un fenomeno forse unico nella storia della galassia! Si credeva che non avesse acqua, invece molta acqua esisteva, perduta catastroficamente lasciando enormi strutture di erosione; e in piccole quantità sopravvive certamente nel suolo, oltre che ai poli.
dominazioni di cui parla San Paolo specie nella Lettera agli Ebrei, un tempo ricordati nella messa, dalla quale sono ora stati espunti? E forse che Jean Guitton non ha affermato di non avere problemi con l’esistenza di milioni di pianeti abitati da esseri intelligenti?).
Ha simile inclinazione sull’eclittica e velocità di rotazione come quella della Terra: perciò qualcuno ipotizza che un tempo fosse un nostro satellite
al loro dissolversi il mare aveva occupato molte terre e nel cielo appariva la Luna. Gli Arcadi, considerati il popolo originario della Grecia, secondo il libro De die natali di Censorino, affermavano che prima che la Luna fosse, l’anno aveva non dodici ma tre mesi.
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mo che quando la madre di padre Pio si sposò, aveva sotto la camicia 13 immaginette, probabile residuo di una antichissima venerazione per il 13… Le affermazioni di cui sopra sulla Luna possono essere giustificate in questo contesto. Quella di Censorino implica, per una leg-
L
o stesso giorno...
Quel giorno, lungo la sconfinata piana di Bonneville, nello Utah, fu il primo uomo a superare le 300 miglia orarie a bordo dell’avveniristico di Alfonso Francia Naipier-Railton Blue Bird bituati come siamo alla Formula Blue Bird, praticamente
Malcolm Campbell, per gli amici l’“uomo missile”
A
Uno di oggi, dominata da ragazzini viziati e antipatici, ci si dimentica quanto potessero essere affascinanti ed eccentrici i piloti del passato. Basti pensare a Malcolm Campbell, driver britannico amante del teatro, che dipingeva tutte le sue vetture di blu per omaggiare The Blue Bird, dramma belga da lui amatissimo. Tra il 1906 e il 1939 corse su qualunque mezzo meccanico in grado di raggiungere velocità ragguardevoli; che si trattasse di automobili, motociclette o motoscafi non faceva differenza. Se lo ricordiamo ancora oggi è però merito di un’impresa compiuta quasi alla fine della sua carriera, il 3 settembre del 1935. Quel giorno, lungo la sconfinata piana di Bonneville, nello Utah, Campbell fu il primo uomo a superare le 300 miglia orarie (ben 485km/h) a bordo dell’avveniristico Naipier-Railton
Il problema della vita fuori la Terra ha due aspetti: vita in generale o vita intelligente, vita nel sistema solare o vita nella galassia o nell’universo intero. Qui ci limitiamo al sistema solare, con riferimento a Marte. A fine Ottocento l’idea che i pianeti potessero essere abitati era alquanto diffusa, vedasi i famosi libri dell’astronomo Flammarion, ricchi di fantasiose immagini dei pianeti con foreste e animali. Schiaparelli, persona di vastissima cultura e conoscitore di latino, greco, ebraico e sanscrito, autore di una storia dell’astronomia, divenne famoso per avere individuato al telescopio delle strutture canaliformi su Marte. Queste furono tradotte in inglese come canals invece che channels, parola la prima che indica una origine artificiale, della quale Schiaparelli non era particolarmente fautore. Partì quindi una ricerca della vita su Marte, a cura del ricco astrofilo Percival Lowell, che costruì uno speciale telescopio in Arizona, dove il cielo era allora, in parte ancor oggi, estremamente limpido.Tuttavia la ricerca non diede evidenza di artificialità. Mezzo secolo fa si riteneva che Marte avesse le
seguenti caratteristiche: simile alla Terra nella composizione della crosta, nella durata del
giorno (ore 24 e mezzo), nell’angolazione dell’ asse di rotazione sul piano eclittico; differente nella densità, circa metà di quella terrestre, nel campo magnetico, quasi inesistente, e nell’ atmosfera, quasi inesistente che sin dalla sua formazione qualche miliardo di anni fa, si fosse trovato nella presente orbita, fra Terra e fascia degli asteroidi, geologicamente inattivo, privo di acqua, privo di vita oggi e in passato. Ora molto si conosce, grazie a telescopi
un missile travestito da macchina. La vettura era stata sviluppata nel biennio precedente con la collaborazione del pilota, accoppiando una carrozzeria estremamente leggera a un motore Rolls Royce che originariamente equipaggiava un idrovolante. Questo mostro, capace di sviluppare oltre 2500 cavalli, era potenzialmente velocissimo ma anche estremamente difficile da tenere in traiettoria; sembrava impossibile sfruttare tutta quella potenza correndo su terra. Fino a quel momento questo genere di prove si era tenuto nei deserti, dove i grandi spazi aperti riducevano i rischi e rendevano più agevoli eventuali soccorsi. La sabbia però era un fondo scarsamente aderente, che rendeva difficile oltrepassare una certa velocità. Campbell decise di tentare una nuova strada: portò la vettura a
più potenti, Hubble in particolare, e alla trentina di missioni inviate, la maggior parte delle quali hanno fallito il loro obiettivo, o esplodendo alla partenza, o cessando di inviare segnali, o schiantandosi su Marte. Alta percentuale di insuccessi ignota per missioni verso altri pianeti e
probabilmente si troverà che hanno eruttato solo qualche migliaio di anni fa. Marte deve avere avuto acqua in notevoli quantità, forse pari a un decimo di quella terrestre, e quest’ acqua è stata perduta catastroficamente, in un evento che ha scolpito immensi canyon. I bordi di queste strutture sono netti, il che, essendo i venti marziani ricchi di sabbia e raggiungenti anche 300 km/ora, indica una origine recente, altrimenti sarebbero smussati e molti canyon almeno in parte riempiti. È indicata la presenza di acqua a piccola profondità e la sua occasionale emergenza. Esistono inoltre strutture dal carattere artificiale, come accertato da analisi frattale con codici sviluppati per ragioni militari in Unione SovietiQueste ca. comprendono un migliaio di piramidi, varie strutture dove appare un viso osservato frontalmente o di lato, strutture a reticolo che sembrano indicare città, quella che appare una miniera a cielo aperto... Si veda il libro Ossimoro Marte del fisico Ennio Piccaluga. Un sensore sviluppato in Italia ha osservato presenza di metano e formal-
Deve avere avuto acqua in notevoli quantità, forse pari a un decimo di quella terrestre, ma forse è stata perduta catastroficamente, in un evento che ha scolpito immensi canyon. I bordi di queste strutture sono netti, il che, essendo i venti marziani ricchi di sabbia, indica una origine recente
che potrebbe avere una spiegazione tenuta segreta.
Ed oggi sappiamo che: Marte è geologicamente attivo, vulcani hanno eruttato per l’ultima volta non miliardi di anni fa, come si credeva, ma qualche centinaio di migliaia di anni fa; e
Bonneville, dove si trovava una spianata coperta da uno spesso strato di sale e l’aderenza era ottima. Il britannico non dovette faticare molto per superare quelle 300 miglia orarie che sembrarono allora un record ineguagliabile. Infatti non tenterà più di migliorarsi; convinto di avere fatto il massimo possibile, preferì dedicarsi ai record di velocità su acqua. Impiegò appena due anni a superare il primato mondiale.
deide, di solito associati a processi biologici. Quindi potrebbe esistere vita microscopica nel sottosuolo; se esista vita intelligente all’interno del pianeta è interessante speculazione, ricordiamo che Sagan ipotizzò che i satelliti marziani Phobos e Deimos fossero vuoti e utilizzati da alieni… Per quanto riguarda il passato e la presenza di strutture artificiali, entriamo in un campo molto aperto. Spiegare la vita avanzata su Marte nell’ orbita attuale, fuori della regione di abitabilità, non è facile. Le cose cambierebbero se in passato Marte fosse stato nella regione di abitabilità, quindi se fosse stato satellite della Terra prima della cattura della Luna. Allora il problema è rimosso, varie caratteristiche di Marte seguirebbero, specie se Marte fosse periodicamente passato vicino alla Terra. In particolare potremmo spiegare l’ affermazione biblica che al diluvio di Noè si aprirono le fontane del profondo e dell’alto. Quelle dell’alto costituite da parte delle acque degli oceani di Marte, perdute in un passaggio particolarmente ravvicinato… E le particelle di acqua che colpiscono ancora la Terra, visibili come lampi nelle foto notturne del nostro pianeta ed analizzate per la prima volta dall’astronomo Frank, potrebbero essere residui dell’acqua degli oceani marziani. Dalla missione su Marte promessa da Obama potrebbe seguire qualche risposta agli scenari descritti. Ma non si può escludere una parte delle scoperte venga secretata...
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IL GIALLO
CAPITOLO 24 Che cosa c’è alla fine del buio Un uomo smarrito, una figlia perduta. L’amore è sempre dolore. Ora, colonnello Stauder, il caso è chiuso di Carlo Chinawsky
rima domanda: Corradi, lei ha avuto il documento da Jorio e con lui ha iniziato una trattativa? Seconda: i suoi “amici” avevano contattato il collega suicida? Terza: Jorio aveva l’intenzione di far scoppiare il caso oppure non aveva pensato a quel foglietto come a potentissima arma di ricatto o strumento per ricavare soldi?
P
Corradi mi rispose così: Alcide Jorio non era affatto uno stupido o uno sprovveduto e tanto meno un disinformato; si rendeva conto quanto fosse scottante quel che aveva trovato a Parigi, cioè il documento in fotocopia, ma che non sapeva bene come venderlo o come usarlo “per piazzare una bombetta”- parole sue - sotto lo squallore di certe intese parlamentari e sotto la carriera dei trafficoni; aveva una gran voglia di vendicarsi dopo il trattamento ricevuto dal suo giornale; non aveva avuto “abboccamenti”e nessuno l’aveva fino ad allora “contattato”; in ogni caso temeva per la sua vita; aveva bisogno di soldi per aiutare la figlia; alla fine si risolse ad accettare la soluzione più redditizia e più silenziosa, cioè consegnare a un collega quel che teneva da parecchio tempo nel cassetto; non aveva fatto in tempo però a mantenere la promessa. «E lei dottor Corradi, s’è
fatto un’idea sulla sua fine?». «Non credo al suicidio… ». «Non lo è stato, infatti». Contrasse i muscoli. Probabilmente si riteneva un po’ responsabile dei travagli di coscienza di Jorio. E poi doveva avere il dubbio che i suoi “amici”avessero agito, per così dire, in maniera sbrigativa. Come a Parigi, come a Roma. «A questo punto, colonnello, non riesco a immaginare nulla. Non lo conoscevo bene. Alcide non era il tipo da volersi far conoscere… ». «Va bene», conclusi, e mi alzai. «Noi non ci siamo mai incontrati. Stia vicino alla sua famiglia e un po’ più lontano da certe cose. Questo il solo augurio che le posso fare». Mi guardò senza dire niente. «Aspetti», aggiunsi mentre stava già sulla porta. «C’è un’altra cosa che volevo chiederle. I suoi amici… mi perdoni se li chiamo in modo così vago… insomma loro non sanno, ripeto: non sanno, che il foglio gliel’ho dato io…». S’insospettì all’istante e strinse gli occhi in attesa di qualche altra sorpresa. «Lei crede che io ci lucri sopra? Questo vuol dire? Ma… ». «Un attimo. Non corra. Hamid potrebbe dire quel che vuole, nessuno gli crederà. La Digos non scherza, con quel che troverà sul suo conto. Quel documento era nello zainetto, l’ho preso io e i miei uomini sono fi-
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Non era affatto uno stupido o uno sprovveduto e tanto meno un disinformato; si rendeva conto quanto fosse scottante quel che aveva trovato a Parigi, ma non sapeva bene come venderlo o come usarlo “per piazzare una bombetta” datissimi, e ora è nella tasca della sua giacca. Dica ai suoi amici che l’arabo non ha voluto assolutamente aspettare… che era disperato… che aveva bisogno di soldi». «Non la seguo, colonnello». «Non farà fatica. La versione che deve dare è questa: lei probabilmente avrà… diciamo ventimila euro. Tutto qui. Se faccio una telefonata a Roma la crederanno». «E poi?» «La somma servirà a Patrizia Jorio. Che ha rischiato di crepare per faccende più grandi di lei. Ha capito, ora? Mi fido di lei». Fece un cenno col capo. Poi disse: «Mi sembra giusto. Speriamo che la versione regga». Mi avviai, con una macchina di servizio, all’ospedale San Paolo. Da lì mi aveva avvertito Pizzi: Patrizia stava meglio ed era in grado di sostenere una colloquio. Aveva una flebo al braccio, il colorito naturale le era tornato, almeno in parte. «Ti è venuta a trovare la tua mamma?». Scosse la testa. «Rappor-
ti difficili? Sai, ti ha vista qui, quando sei stata ricoverata… ». «E poi basta» disse in modo neutro, come già conoscesse il desolante copione familiare. «Vuoi che la chiami?». «Faccia lei» rispose con voce impastata.
I numeri di Jole ce li avevo. Composi prima il fisso poi quello del cellulare. Nessuna risposta. Mi venne un sospetto. Chiesi a Pizzi di andare a casa di Jole Santilli. E quella buonanima di brigadiere sapeva già che cosa doveva fare in caso di allarme, ne ero sicuro. «Chissà dov’è», fece la ragazza. «Patrizia» le dissi avvicinandomi il più possibile per evitare che le altre donne ricoverate, tre in tutto, ascoltassero: «Ora mi devi dire la verità sulla morte di tuo padre… ». C’era una donna anziana che pareva già cadavere, la pelle diafana, le vene del collo gonfie. Un’altra, molto giovane, probabilmente era reduce da un’esperienza di droga
o di intossicazione: fissava il soffitto e ogni tanto rideva come una demente. Sul suo comodino un elefantino di peluche, rosa. Se avessi dovuto riassumere in una sola parola quel che intravidi negli occhi di Patrizia avrei usato il termine nebbia. Quella nebbia che s’espande lungo gli argini del Po dell’Emilia, un fumo bianco che ogni tanto si dirada come per cortesia o paura o resa, per poi ricompattarsi fino a diventare muro, cortina del niente. Ma dietro ci sono suoni, fischi e fantasmi. I barcaioli si danno la voce, i remi affondano nell’acqua e riemergono con pesantezza. Versi di uccelli, sbatter d’ali. Di gabbiani, di fagiani. Musichette lontane, come s’udivano un tempo quando scorrevano quei barconi che erano bordelli naviganti, arie verdiane e bocche rosso fuoco, la smania di andare lontano e la tristezza di rivedere subito dopo le stesse sponde, il dialetto rotondo di terre fradice e piatte che è un antico rimboccare di coperte quando c’è la paura del buio e si pensa di essere soli al mondo.
Gli occhi le si gonfiarono di lacrime. La sua mano volle afferrare la mia. Gliela strinsi. Era sul bordo di un precipizio. La sua mente disordinata dipingeva il terrore di non sopravvive-
LA PERDUTA GENTE C’era in lei una stanchezza di destino: non lo riusciva a vedere, non sapeva in che direzione muoversi. «E una volta in cucina?». «Era come se avessi dovuto rispettare la sua volontà… forse la più forte che avessi mai visto in mio padre»
re e tentava di controllare le vertigini. «C’ero. Abbiamo litigato… non voleva che partissi… ». «Dove volevi andare e con chi?». «Io non sapevo dove, forse all’estero. Avrebbe deciso Hamid. L’avevo conosciuto da poco». «Bell’incontro. Un mascalzone. Lo sai che ti ha lasciata morire e se non fossimo intervenuti noi… ». Alzò la testa, poi l’appoggiò sul palmo della mano: «Non mi va mai bene niente nella vita, non so che fare… ». Le dissi che doveva chiarire con me, e in tutta confidenza, le circostanze della morte di suo padre. Allora mi raccontò di quella sera, con voce da bambina. Lei era lì, erano circa le dieci. Vide il padre eccitato, scontroso più del solito, le diede l’impressione di essere braccato. Un uomo in fuga, ma che non si decideva a partire: ecco come le ricordava. Lei gli parlò di Hamid, lui s’infuriò al solo sentire quel nome. «Ti è sembrato che lo conoscesse?». «No, o perlomeno non ci ho pensato… quel che ho temuto era una sua grande sfuriata. Per due motivi. Per il nome arabo e perché io ero decisa a lasciare Milano, l’Italia… ho cercato di farlo ragionare… ». «Dove eravate?». «Nel soggiorno. Poi ci siamo spostati in camera sua… ». «Che motivo avevate di andare di là?». «Ha detto che voleva
cambiarsi, non so… ». Padre e figlia in una camera da letto è un quadro familiare, normale. Oppure no? Tutta la puzza di fogna delle mie inchieste rischiava di inondare un resoconto innocente. Il sospetto inquina vergognosamente, anche se in certe occasioni fa da bussola. Nello sguardo di Patrizia qualcosa di strano, un’emozione avvinghiata al fondo dell’anima, parole imbrigliate. Captavo la presenza di qualcosa di inafferrabile. Che cosa sapevo veramente di lei? Che si drogava, che era stata compagna-schiava di Rosalba la romena. Troppo poco per tracciare il suo limite o la voglia di superarlo. «Ma perché mi fa questa domanda? È importante che lei sappia dove eravamo esattamente?». «Per l’inchiesta sì. Forse anche per te… ». «In che senso?». «Dovresti dirmi proprio tutto». Rimase muta per qualche minuto, poi scosse la testa. «Come vuoi. È stata una discussione molto animata, vero?». «Sì, mi ha dato anche due ceffoni…». Ma precisamente quando la schiaffeggiò? Aveva davvero importanza chiederglielo? Jorio s’era forse trovato di fronte a una figlia sfrontata e scandalosa? «E papà si è sentito male, è così?». Annuì. Poi aggiunse che lei fu presa dal panico, che ricordò una frase detta poco prima dal
Nelle puntate precedenti Stauder consegna Hamid alla Digos. Poi il brigadiere Pizzi svela al colonnello che Ernesto Corradi lavora al soldo dei servizi segreti. Poco dopo il colonnello ha un colloquio con il giornalista deviato, che ha offerto del denaro ad Hamid per assicurare il documento nelle mani degli apparati. Stauder capisce che c’è di mezzo l’interesse di pezzi di Stato deviati, collusi con la politica, e restituisce il foglio scottante a Corradi.
padre: «Vorrei farla finita». Lei non sapeva dei disturbi cardiaci. Divenne prima rosso in faccia, poi violaceo. E cadde come un sacco. Con le mani al petto e l’aria smarrita. Patrizia tastò il polso, gli toccò le vene del collo. Le parve che fosse morto. Le parve. «Come? Dici ´mi pare`,
ma… ». «Sì, ha capito… c’era casino infernale nella mia testa… avevo paura…e va bene, mi ero fatta… non sapevo un cazzo di niente… vivo, morto… no,no, era morto, stecchito, era finita… non volevo grane, volevo fuggire eppure quella frase era come un obbligo… ». «Obbligo a fare cosa? A inscenare un suicidio?». «Lei come lo sa?». «Lo so e basta. L’hai trasportato in cucina, vero?». Disse di sì. Aveva cominciato a sudare, abbondantemente. La ragazza del letto vicino mi lanciava delle occhiate, di tanto in tanto. Forse m’aveva scambiato per il padre. Il padre che sgrida, che si cala nella parte dell’adulto che vive con le regole, con la morale, con le minacce e le carezze, il solito genitore maschio che non sa come maneggiare quel corpo e quell’anima che sono sua figlia, ancora vicina e già lontanissima, così diversa dal neonato, dalla bimbetta che vezzeggiava quando indossava il vestitino a fiori, la fragile donnina che altre mani afferreranno. Mi disse sì con lo sguardo. Pareva esausta, e non solo per quel che le era entrato nelle vene. C’era in lei una stanchezza di destino: non lo riusciva a vedere, quindi non sapeva in quale direzione muoversi. «E una volta in cucina?». «Mi sono ricordata di quella sua frase, gliel’ho già detto… era come se avessi dovuto rispettare la sua volontà… forse la più forte che ho visto in mio padre… ». «E poi?». «E poi lei lo sa». «Dimmelo, anche se ti costa fatica».
Mi raccontò di aver aperto lo sportello del forno e di averlo messo lì. E di aver pianto come una fontana dopo aver aperto il gas, ma anche la finestra, lasciando la tapparella abbassata. Uno sprazzo di lucidità macabra nonostante fosse impasticcata e turbata. Alla fine via, senza chiudere la porta d’ingresso. A quella non aveva pensato, semplicemente. «Non volevo far rumore… poteva sbattere, non so… ». Dirle che suo padre poteva essere ancora vivo? Non era il caso. Non in quel momento. Mi limitai a farle ancora qualche domanda su eventuali donne frequentate da Jorio, e lei fece una smorfia: «Ah, questo non lo so… mai chiesto niente io». «Non lo hai mai visto in compagnia di una donna?». Sorrise debolmente come se la cosa le risultasse comica.
«Ma di che cosa parlavate al Samoa?». «Mi raccontava spesso i fatti di cronaca e io li ascoltavo. Forse mi ricordavo di quando ero piccola quando lui inventava storie terrificanti e fantastiche… non ci metteva mostri o streghe, ma uomini e donne normali che poi facevano cose strane… la cronaca nera, mi ha detto anni e anni dopo, è simile alle storie che mi raccontava un tempo, per farmi addormentare». «Ti mancherà?». Chiuse gli occhi e disse: «Sì». «E mamma?». «Una stronzissima, quella».
La baciai sulla fronte, stringendole le mani. Sentii la sua presa. Stavo per uscire dall’ospedale quando suonò il cellulare. Il meticoloso resoconto di Pizzi, un po’affannato all’inizio, poi più fluido e sintetico. Jole Santilli non era né a casa né a scuola. Il brigadiere si fece aprire la porta dalla custode. Nell’appartamento né cadavere, né sangue, né altro. Solo un foglietto bianco posato sulla mensola dell’ingresso. Solo tre parole: «Grazie, colonnello Stauder». «Lei, signore, crede che se sia partita…?». Probabile, risposi. Avremmo dovuto poi far diramare un comunicato. Un punto esclamativo nel gran mare delle esistenze disegnate a rebus, un’acqua dove a volte si nuota con il solo scopo di allontanarsi dalla terraferma. In taxi arrivai a casa di Marina. Sapevo che non c’era: avevo ricevuto qualche ora prima un suo messaggio telefonico. Laconico: “Salues de Madrid”. Entrai, inspirai il profumo della sua assenza e mi accorsi che sul tavolo, sotto una candela blu consumata a metà, c’era un foglio: “Sono lontana. Se sei qui come spero, sappi che se uno sfiora l’assoluto e non ci sono mani che lo spingono in quel meraviglioso vuoto è meglio vivere nell’indaffaratissima noia del relativo.Tua Pepa Marcos». La Pepa Marcos di Pedro Almodovar, sulla quale giocavamo spesso. Mi spogliai e m’infilai nelle lenzuola del suo letto. Spensi il cellulare. Avrei voluto premere il mio petto sulla schiena di Marina. Avrei voluto che i suoi capelli mi solleticassero le palpebre. Ma pensai anche a mia moglie ammazzata in piazza Mazzini. Ai figli che avrei potuto vedere correre nel corridoio storto della mia casa romana. Dove ora c’era solo un gatto.
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DIAMO I NUMERI onosci te stesso». La regola aurea, il primo dei pensieri e degli insegnamenti. Risale ai sette saggi greci, a uno di loro. Ma per essere saggi la matematica può anche non servire. Anche se qualcuno è diventato “saggio” anche grazie agli studi matematici. Ma si sa, nei tempi antichi le cose erano più sfumate. Se la vita complessiva era esemplare, se qualche frase era degna di diventare aforisma, se gli insegnamenti erano tali da finire per essere pilastri della cultura greca, e quindi poi occidentale, e magari da sintetizzarla, allora il titolo di saggio era ben meritato. Saggio per eccellenza, poi, se si entrava nella ristretta cerchia dei più rispettati di tutti, i Sette Saggi. Che se poi non erano sette era cosa saggia non stare a sottilizzare. Perché gli elenchi di tali illustri personaggi non è che siano poi così precisi, e non è che coincidano tutti. Per cui eccoci là, in difficoltà se cerchiamo di capire chi erano questi sette saggi, o quanti fossero.
«C
Sette volte sette In tutte le liste compaiono Talete di Mileto, il filosofo; Solone di Atene, il legislatore; Biante di Priene, oratore e poeta; Pittaco di Mitilene, politico. Ma quanti erano davvero i celebri Savi?
È che sette sembra essere un numero dal richiamo così fascinoso da essere irresistibile: sembra che spesso, in tutte le parti del mondo, si usasse prima decidere che i soggetti della categoria in questione dovevano essere sette, e poi si riempivano le caselle. Dev’essere stata una questione di saggezza, nonostante qualche inevitabile discussione e incongruenza. Torniamo ai nostri sette savi, pensatori e maestri vissuti nel mondo greco tra VII e VI secolo a.C. Non ci stiamo mettendo a questionare che di saggi meritevoli di entrare nel club ce ne potevano essere tanti altri, tra cui ad esempio in epoca successiva menti del calibro di Socrate, Platone, Aristotele, Zenone, Parmenide, Protagora, nonché su tutti Pitagora, che però, per la verità, in qualche lista marginale compare. No, non siamo noi a voler decidere chi deve stare dentro e chi fuori. Ci limitiamo a prendere atto che sono gli antichi ad averci tramandato decine di nomi per sette posti. Qualcuno doveva essere più saggio degli altri, però. Infatti quattro di loro hanno conquistato l’hit parade senza mai mollare i primi posti. In tutte le liste compaiono Talete di Mileto, il primo filosofo; Solone di Atene, il legislatore; Biante di Priene, oratore e poeta; Pittaco di Mitilene, politico. Questi non mancano mai, mentre gli altri sono un po’ ballerini. Platone, il primo a enumerare nel Protagora i sette
I sapienti dell’antica Grecia: molti di più che una ristretta élite di Osvaldo Baldacci
ll fragile Misone in altri elenchi si vede rubare il posto da Periandro di Corinto, che secondo alcune fonti sarebbe stato il vero titolare originario ma che Platone avrebbe scartato per antipatia saggi, aggiunge Cleobulo di Lindo, Misone di Chene (in seguito spesso trascurato) e Chilone spartano, sul quale però lui stesso manifesta qualche titubanza. Prima di Platone probabilmente la lista già esisteva
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come tradizione, e i nomi compaiono esaltati (ma non messi in serie) in molti autori precedenti, come Erodoto. Secondo Diogene Laerzio la lista si era formata quando capitò che una coppa dovesse essere consegnata al più saggio, e si scelse Talete che ritenendosene indegno la diede a un altro della lista e così via fino a Solone che la rimandò a Talete e poi uno di questi due concluse dedicandola ad Apollo. È questa valenza popolare che ha permesso alla lista di essere permeabile, come non sarebbe stata se fosse stata un’invenzione di Platone messa per iscritto e così fissata per sempre. Il fragile Misone in altre liste si vede rubare il posto da Periandro di Corinto, che secondo alcune fonti sarebbe stato il vero titolare originario
del posto ma che Platone avrebbe coscientemente scartato per antipatia verso il suo governo tirannico. Fatto sta che siamo già ad otto candidati per sette posti. L’elenco con Periandro al posto di Misone lo troviamo definito in Demetrio di Falero ed è quello che ebbe maggior diffusione nell’antichità, nonostante l’autorità di Platone. Plutarco scrisse un Convito dei Sette Savi in cui lo sciita Anacarsi prendeva il posto di Misone. Ma circolavano molte altre versioni, e ai quattro che si contendevano tre posti, Misone, Periandro, Chilone e Cleobulo, possiamo trovar sostituiti altri nomi di personaggi illustri e meno illustri, come, ma non solo, Epimenide di Creta, Leofanto Gorgiade, Aristodemo di Sparta, Ferecide di Si-
ro, Pitagora da Samo, Anassagora, Acusilao di Argo, Laso da Ermione, Orfeo, Epicarmo, Pisistrato il tiranno di Atene, Lino il cantore, Panfilo. La loro saggezza era di un carattere che si definisce sapienziale, cioè erano in grado di esprimere norme etiche e comportamentali che magari a noi appaiono abbastanza elementari (dal non mentire al non frequentare cattive compagnie), ma che per l’epoca rappresentavano i primi elaborati di una saggezza razionale e misurata ben differenziata da quella che era un po’ l’ethos e in genere i valori culturali precedenti, specie quelli omerici di cui era impregnata la civiltà greca fino a quel tempo. È quindi un po’ con loro che avviene un salto di civiltà che avvia il processo filosofico che fonda la civiltà occidentale. Scusate se è poco.
E non è un caso che molte di queste regole potrebbero valere benissimo ancora oggi, e forse qualcuna suona persino di particolare attualità. Come la definizione di quale sia lo Stato migliore: per Pittaco «quello dove non sia possibile che i disonesti governino e gli onesti non governino», per Talete «quello che non ha né troppi poveri né troppi ricchi», per Cleobulo «quello dove i cittadini temono un rimprovero più delle guardie», e per Chilone «quello dove si ascoltano le leggi e non gli oratori». E ancora, Solone: «Ai cittadini non consigliare ciò che piace, ma ciò che è la cosa migliore», «Bisogna scegliere la via di mezzo in ogni cosa», «Felice è quella casa che non deve le sue ricchezze all’ingiustizia, che le conserva senza mala fede, e le cui spese non dan luogo a pentimenti», «Fuggi il piacere che genera dispiacere». E Talete: «Non abbellire la tua immagine; sia bello invece il tuo agire», «Non esser ricco tramite l’ingiustizia», «La pigrizia è un tormento, la non padronanza di sé è un danno, l’ignoranza è un vizio». E Biante: «Ascolta molto. Parla al momento giusto», «Non lodare un indegno solo per la sua ricchezza». Pittaco: «Ciò che rimproveri agli altri, non farlo tu stesso», «Preferisco esser approvato da un solo uomo onesto, che da molti malvagi». Chilone: «La perdita incide meno gravemente del guadagno disonesto, perché la prima reca dolore solo una volta, il secondo sempre continuamente». Misone: «Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle parole». E così via. Attuali e moderni. Insomma, non saranno stati sette, ma erano saggi.
I TESORI DELLE GRANDI CIVILTÀ ttraversata dal Tigri, più rapido e più torrentizio dell’Eufrate, la pianura dell’Assiria gode di un clima più fresco di quello delle basse terre di Babilonia, il Paese confinante a sud, bruciato dal sole e spesso inondato dalle acque dei due grandi fiumi. E due fiumi, il Grande e il Piccolo Zab, permettono l’irrigazione, ma in tutte le epoche le piogge hanno fatto crescere piante di facile coltura come le graminacee, pascoli per capre e montoni selvaggi.
A
Il Paese assiro sembrava, insomma, destinato proprio a un agricoltura e a un allevamento fiorenti. E infatti è là che, quasi 10mila anni fa, gli uomini cominciarono a rendersi conto che avrebbero potuto nutrirsi con i loro prodotti invece di vivere in modo precario, da predoni, come era in uso da centinaia di millenni presso l’umanità paleolitica. Ora questo Paese che sembrava destinato a una civiltà agricola avrebbe visto invece nascere ed espandersi un popolo di guerrieri: gli Assiri. L’Europa classica ebbe soltanto una conoscenza assai vaga del Paese di Assur e degli Assiri. Le prestigiose città di Nimrud, Khorsabad e Ninive, situate nella regione delimitata dal Tigri e dal Grande Zab, erano state distrutte prima che i viaggiatori e gli storici avessero potuto visitarle e descriverle. Lo studio degli autori antichi permetteva, tuttavia, di distinguere numerosi “imperi” assiri che si sarebbero succeduti dal II millennio avanti Cristo fino alla caduta e alla distruzione di Ninive (612 avanti Cristo), celebrate un po’ più tardi dal profeta Nahum come una punizione per la crudeltà della città. La “grande città” era già entrata nella leggenda. Il Libro di Giona la descriveva come una città gigantesca, che richiedeva tre giorni di cammino per essere attraversata. Era un’impresa ardua fare concordare quelle notizie con le altre, piuttosto vaghe, dei geografi greci che non erano nemmeno riusciti a stabilire su quale riva del fiume si trovasse la città. Tuttavia, nel Medioevo, un rabbino spagnolo, Beniamino di Tudele, situò con esattezza le rovine di Ninive sulla riva orientale del fiume, di fronte a Mosul: in quella località, infatti, esistevano due colline, una delle quali era occupata da un villaggio dal nome di Ninivah. La posizione di Ninive fu confermata nel XIX secolo dagli inglesi Rich, Layard e Rawlinson, e dai francesi Botta e Place. Nel 1842 Botta, nominato console di Francia a Mosul, cominciò dapprima l’esplorazione di una grande collina vicino a Ninivah: Kujundshik. Non trovando quello che sperava, orientò le ricerche verso il villaggio di
NINIVE La capitale del regno assiro fiorita sulla riva sinistra del Tigri e poi devastata dai babilonesi nel sesto secolo avanti Cristo
Tra le rovine della Città superba di Rossella Fabiani
in scrittura cuneiforme, rivelano l’essenza del patrimonio intellettuale degli Assiri, attinto in gran parte dai Babilonesi. Un giovane assiriologo di grande acume, l’inglese G. Smith, si dedicò con tenacia alla lettura delle tavolette della biblioteca di Assurbanipal ed ebbe la sorpresa di trovarvi il testo del diluvio, che, in molti particolari, corrispondeva a quello della Bibbia. Altre spedizioni inglesi vennero successivamente a Ninive per esplorare sistematicamente più in profondità la zona e ricostruirono le tappe fondamentali della civiltà assira. Si apprese così che Ninive fu fondata nel VI millennio e che agli albori del II millennio avanti Cristo furono i nomadi Amoriti, venuti dalla Siria del Nord, a dare all’Assiria quella fisionomia che resterà legata alla storia. Ricerche effettuate dagli istituti iracheni delle antichità hanno permesso di ritrovare un palazzo-arsenale costruito da Asarhaddon (680-669 avanti Cristo), figlio di Sennacherib. E fu proprio Sennacherib a fare
Nel Medioevo, un rabbino spagnolo, Beniamino di Tudele, situò con esattezza le tracce del sito sulla sponda orientale di fronte a Mosul di Ninive la capitale dell’Assiria, al posto della città effimera che suo padre, Sargon, aveva costruito a Khorsabad. Costruì imponenti bastioni nei quali aprì 15 porte, protette simbolicamente da tori alati con teste d’uomo, geni buoni incaricati di terrorizzare il nemico. I bastioni costeggiavano, a ovest, il corso del Tigri e delimitavano un territorio lungo più di 5 chilometri, che era attraversato da un piccolo corso d’acqua.
Khorsabad, a una quindicina di chilometri di distanza. Esplorando la montagnetta dalla cima, scoprì la parte inferiore di due mura parallele, separate da una piattaforma di sei metri di larghezza. Botta credeva di avere scoperto Ninive. In realtà, si trattava del palazzo che il re Sargon II di Assiria (721-7056 avanti Cristo) si era fatto costruire: Khorsabad era stata, in un certo senso la Versailles di questo monarca. Restava, tuttavia, ancora da scoprire “la grande città” Ninive. Questa scoperta spetta all’in-
Quindici porte protette da tori alati con teste d’uomo: Sennacherib volle segnare così l’inizio del suo dominio glese Layard. Dopo avere esplorato la località di Nimrud, a sud di Mosul, Layard prese a esplorare la collina di Kujundshik e, più fortunato di Botta, s’imbattè nella parte sud-est della località, nel palazzo del re d’Assiria, Sennacherib, figlio
di Sargon (704-681 avanti Cristo). Questo palazzo, costruito a Ninive da Sennacherib, era stato ristrutturato dal nipote Assurbanipal (669-627 avanti Cristo) che vi aveva costruito la sua biblioteca: migliaia di tavolette di argilla, coperte di testi
E poiché questo non era sufficiente a irrigare la campagna intorno, Sennacherib decise di prendere l’acqua da sorgenti distanti 50 chilometri: un lavoro titanico che richiese la costruzione di un acquedotto di 5 arcate di pietra, larghe 22 metri, alte 9, sopra un baratro di quasi 300 metri. Nel suo palazzo, il Re fece rievocare i lavori dei campi che avevano permesso tale costruzione. Questo palazzo, presenta un’architettura interna sotto certi aspetti eccezionale. Così, per conoscere il quadro di vita di un re assiro, è meglio visitare prima il palazzo edificato a Kalak (odierna Nimrud) da Assurnazirpal II (883859 avanti Cristo). La sua esplorazione, cominciata da Layard, fu ripresa da Sir Max Mallowan in compagnia della moglie Agata Christie.
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TRAVOLTI DA UN INSOLITO DESTINO ... DDII LINA WERTMÜLLER
CINEMA CALDO
Uno schiaffo di classe di Alessandro Boschi n questo film del 1974 fa la sua comparsa uno degli insulti più divertenti e socialmente liberatori del cinema italiano. Non solo. Quando dopo giorni e giorni di angherie e vessazioni da parte della sofisticata altezzosa e soprattutto anticomunista Raffaella Pavone Lanzetti il proletario terrone Gennarino Carunchio si lascia andare a quel“bottana industriale”tutta la sala si unisce a lui e siamo sicuri che se all’epoca fosse già esistita il pubblico si sarebbe alzato in piedi per fare la ola. Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto è uno dei più riusciti film di Lina Wertmüller, abilissima anche come creatrice di titoli interminabili che racchiudono in parte il soggetto della storia. Che in questo caso è una storia quasi paradigmatica.
mo detto la natura non è più naturale, che inizieranno i problemi. Gennarino seppure sposato mollerebbe tutto per stare insieme a Raffaella. Ma lei, seppure addolorata, financo innamorata, non se la sente di fare altrettanto. È a questo punto che la Wertmüller fa vincere di nuovo le convenzioni.
I
Una bionda e bella signora d’alto bordo che insieme ad altri amici simili a lei, con la puzza sotto al naso, troppo belli e troppo puliti per risultare in una qualche maniera simpatici anche se sono comunisti, si mettono in mare per una crociera. L’equipaggio oltre a servire e riverire serve anche da bersaglio per le loro angherie e la forbice della prevaricazione sociale a poco a poco raggiunge una divaricazione sempre più esasperata. Troppo esasperata. Nel processo di immedesimazione tutti gli spettatori al pari dei vessati diventano insofferenti e aspettano che da un momento all’altro i ruoli si invertano e che Gennarino consumi la sua vendetta. L’occasione arriva quando la bottana industriale, nonostante Gennarino la sconsigli, lo costringe a prendere un gommone per un giro al largo. Rimarranno in panne e si rifugeranno in un’isola, (che nella realtà è Cala Fuili, sulla costa orientale della Sardegna). Qui le cose cambiano, radicalmente. L’isola è un posto selvaggio, non ci sono alberghi a cinque stelle, né lettini per massaggi né tanto meno massaggiatori. C’è solo la natura, selvaggia e in cerca di vendetta. Qualcuno ha detto che l’intelligenza è la capacità dell’uomo a sopravvivere, a procurarsi del cibo. In condizioni estreme è ovvio che chi è abituato da sempre alle emergenze si trovi più a suo agio, di conseguenza, in questa ridefinizione sociale Carunchio diventa più intelligente. Che poi sia anche un uomo, comunista, terrone e retrogrado è del tutto marginale. Adesso c’è la necessità di sopravvivere e lui sa cosa fare, la bottana industriale no. In pratica si dimostra che la condizione ambientale determina i rapporti dei forza. Se la natura è piegata a una certa classe allora quella classe sarà avvantaggiata. Se la natura è naturale allora vince che ne ha di più. Forse che il progresso ha prevaricato i più deboli? Chissà, ma le cose non sono così semplici. Perché dopo una prima fase di sottomissione con alcune delle scene più divertenti del film, i due giungono a un compromesso, molto più solido di quello storico che Raffaella nel film ipotizza come un confessionale dentro al quale nientemeno che Stalin assegna le penitenze: «Trenta Avemaria e trent’anni di Siberia!». Insomma, i due van-
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no a letto. Anche se in realtà il letto non c’è e l’appassionato amplesso, quasi ai limiti della censura, è davvero qualcosa di selvaggio e liberatorio: lui che l’odia ma che in fondo la desidera, e lei che lo disprezza ma al tempo stesso è attratta dalla sua rudezza e animalità. Semplicemente, i due si completano, sono fatti l’una per l’altro. Gli attori che interpretano i personaggi di Raffaella e Gennarino, Mariangela Melato e Giancarlo Giannini, sono i primi artefici del successo e della riuscita del film, ancora più della Lina Wertmüller. Perché il film vive tutto sulle loro interpretazioni. D’altra parte l’affiatamento della coppia era stato già ampiamente verificato due anni prima con
Perché se è vero che le donne che sposano i miliardari hanno sempre l’accortezza di innamorarsi, è altrettanto vero che una donna innamorata di un nullatenente prima di mollare tutto quello che ha per tutto quello che non avrebbe più ci pensa sempre molto bene. Quindi, in conclusione, Gennarino Carunchio e tutti i Gennarini della terra, comunisti poveri e terroni al massimo possono fare scoprire un mondo nuovo a una donna, farle assaporare l’amore vero, fatto di tutte quelle cose che non hanno mai nemmeno immaginato. Ma non possono fare altro che rassegnarsi a perderle. L’intercapedine tra i due mondi è fatta da un materiale troppo resistente. Così alla fine del film, dopo avere riso, fatto il tifo per il povero Carunchio, odiato la erre arrotata di quella splendida attrice che è la Melato, si resta con un po’ d’amaro in bocca. Il realismo di Lina Wertmüller, saggiamente , ci nega l’happy end. Due ultime considerazioni: il film è un film “italiano”, nel senso che solo gli italiani sono in grado di percepire certe atmosfere e certe sfumature. E di trasmettercele con la recitazione. Dimostrazione ne sia che il remake tentato da Madonna e dal marito Guy Ritchie è stato un fiasco colossale nonostante nel cast un italiano ci fosse, vale a dire proprio il figlio di Giancarlo Giannini, Adriano, che hanno pensato bene di chiamare Giuseppe Cuccurullo. Troppo poco, la porzione anglofona del film non regge il confronto e pregiudica il risultato. È un po’ come se Volfango De Biasi facesse un film sul baseball. Ultima considerazione: non prendetevela troppo se quasi sempre le donne ricche si sposano con uomini ricchi. Come dice Sigourney Weaver in Uno scomodo testimone di Peter Yates, «sono gli unici che frequentano».
L’isola è un posto selvaggio, non ci sono alberghi a cinque stelle, né lettini per massaggi. C’è solo la forza della natura incontrollabile e in cerca di vendetta. E c’è un grande duetto: Mariangela Melato e Giancarlo Giannini Mimì metallurgico ferito nell’onore. Lì il loro rapporto, sebbene clandestino, era molto più sereno (non c’era una bottana industriale, solo un cornutella cornificatrice, Agostina Belli). Ma qui i due sono ancora più bravi, e cambiano tutti i registri della recitazione. Si passa dall’insulto alla passione, alla sottomissione dovuta e a quella imposta. Ma si arriva anche alla tenerezza e all’amore, sempre in maniera credibile. Sarà proprio il ritorno alla civiltà, dove come abbia-
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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Adulte mai cresciute: furbe, antagoniste e ideologiche
LE VERITÀ NASCOSTE
Ci sono donne che passano la vita a odiare e strumentalizzare la società, le altre donne e gli uomini. Fingono lotte per “rispetto, democrazia, uguaglianza civile”, proclami sulla parità dei sessi, richieste che però nascondono mero opportunismo, voglia di sopraffazione, l’opposto dei propositi sbandierati. Ad esempio le “pari opportunità”, concetto con cui si relega l’uomo a personaggio di secondo piano e mezzo attraverso il quale ottenere i massimi privilegi con il minor sforzo. Ci domandiamo per quale motivo le altre donne sane non prendano in modo chiaro e netto le distanze da questa categoria di “adulte mai cresciute”, antagoniste, furbe e ideologiche, che usano vittimismo e arroganza assieme. Come possiamo pensare che, ad esempio, il dilagare di divorzi dove donne “accusano”falsamente ex mariti di violenze e quant‘altro solo per avere i figli tutti per sé o per vendetta o per interessi vari, possa contribuire a creare fiducia da parte degli uomini? Sarebbe bello e speriamo in un futuro dove la donna impara e fa esperienza nel lavoro, nella politica, compiendo un percorso umano e civico di merito, severità, etica e condivisione.
Una giovane cittadina ed il suo compagno.
STAGIONE DI RIFORME Siamo a uno spartiacque cruciale nella storia del Veneto. Con la proposta di Statuto presentata, abbiamo l’occasione di dare al popolo la sua Carta fondamentale, e di fare della nostra regione un avamposto di modernità che abbia come suo faro illuminante il federalismo e le sue radici nell’identità condivisa della nostra comunità. Si tratta di un passo importante per compiere quel cambio di marcia che avvii una nuova stagione di riforme, indispensabile per l’amministrazione e per il contesto socio-economico e culturale del Veneto.
Ellezeta
NESSUNA OPPORTUNITÀ PER I GIOVANI PROFESSIONISTI È evidente che la nomina di Damiano D’Autilia alla guida di Alba Service e quella di Gino Pepe alla Stp poco hanno a che fare con le competenze professionali, e ancora una volta la scelta del presidente ha dovuto cedere il passo alla peggiore politica. I nostri presentimenti si sono avverati: pur messo in guardia, il presidente Gabellone ha ceduto alle richieste della segreteria del partito che ha voluto utilizzare la Provincia come camera di compensazione per i servigi resi in campagna elettorale, con poco rispet-
to per le attese dei cittadini. Siamo al degrado della politica: l’idea che passa è quella che non ci sia alternativa al metodo di governo, che non ci sia differenza tra il centrodestra e il centrosinistra, considerato che entrambi gli schieramenti hanno agito allo stesso modo. L’idea che passa è che fra i due poli non ci sia alternativa al modo di fare politica. Per questo abbiamo scelto la terza via, nell’interesse del territorio e del cittadino. Sono convinto che sarebbe stato il caso di affidare questi incarichi a giovani manager e professionisti del settore, onde offrire opportunità professionali a chi ne ha le competenze e servizi adeguati ai cittadini. Ma l’appello è caduto nel vuoto, mortificato da una politica vecchia e stanca.
Giovanni Tundo
EVITATO UN CONTENZIOSO CON GLI OPERATORI TURISTICI Sono soddisfatto per la decisione di rividere il bando Pia Turismo di “Aiuti alle medie imprese ed ai consorzi di Pmi per programmi integrati di investimento”. Ero, infatti, preoccupato e perplesso sulle limitazioni previste dal bando, che finiscono per avvantaggiare solo un esiguo numero di grandi imprese, escludendo centinaia di piccole e medie imprese e consorzi di Pmi
L’IMMAGINE
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ABCHORAGE. In Alaska, una lotteria, con un primo premio di 500.000 dollari, era destinata a raccogliere fondi per sostenere la lotta alle violenze sessuali e dare supporto alle vittime. L’associazione Star (Standing together against rape - liberamente traducibile come Lottare assieme contro lo stupro). La lotteria ha avuto un buon successo, vendendo numerosi biglietti, ma ha avuto un esito inatteso: infatti, il biglietto vincente è finito in mano al 54enne Alec Ahsoak di Anchorage, condannato tre volte per abuso di minore e presente nel registro dei “sex offender”. Il fatto aveva spinto più di qualcuno a chiedere che il premio non gli fosse assegnato, ma poiché il regolamento non prevede “requisiti morali” per la vittoria, non c’era nessun tipo di motivazione perché Ahsoak non ricevesse il premio. Ahsoak ha dichiarato di avere cambiato vita, e ha annunciato che donerà 100.000 dollari alla Star. La direzione dell’associazione ha però ammesso: «non è esattamente così che immaginavamo si sviluppasero le cose…».
del settore turistico. Fra i requisiti previsti c’è anche quello di aver registrato un fatturato non inferiore a 8 milioni di euro nell’esercizio precedente. Perplessità ne avevo pure sui tempi, considerato che il bando era stato pubblicato il 17 giugno scorso e reso operativo già il 1 luglio, appena 15 giorni dopo. Un tempo piuttosto ristretto che certo non favorisce la costituzione di nuovi consorzi di Pmi in grado di concorrere. L’annuncio di voler modificare il bando a settembre consentirà di evitare un gravoso contenzioso con gli operatori turistici che già si sono rivolti al Tar per tutelare i propri interessi.
Giovanni Negro
I CALABRESI DI FIANCO AL PRESIDENTE SCOPELLITI
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e di cronach
Molestatore vince 500mila dollari
Faccia da figurina Se pensate si tratti di facepainting vi ingannate. Il volto di questa ragazza è imbrattato sì, ma non di tempere. Quelli che vedete sono adesivi, attaccati sulla pelle l’uno accanto all’altro in una specie di collage. Speriamo che la creazione sia facilmente “lavabile”
Il sistema sanitario calabrese necessita di profondi interventi che possano ricondurlo, al più presto, sulla strada dell’efficienza e della qualità. Da vera e propria emergenza, infatti, deve riproporsi come servizio essenziale da garantire ai cittadini. Non a caso, il governatore Giuseppe Scopelliti e la giunta regionale da lui presieduta, hanno posto, la sanità, tra i principali punti dell’agenda programmatica regionale. Non poteva essere altrimenti. Il forte debito e l’evidente disorganizzazione riscontrati, non possono e non devono essere elusi e sottaciuti. La situazione è drammatica e continuare a far finta di nulla sarebbe stato atto vergognoso. In tale contesto, la forte ed energica azione di risanamento - a partire dai tagli agli sprechi portata avanti dal nostro governatore non può trovare ostacoli e deve procedere a ritmi serrati. Per anni abbiamo assistito a uno uso clientelare e al quanto imbarazzante del servizio sanitario. Per troppi anni, la Calabria, è rimasta legata e vittima del cancro della malasanità e, soprattutto, di una gestione che ha seminato, tra le gente, sfiducia e diffidenza.
Giovanni Folino
mondo
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Regimi. In Campidoglio e alla sede del ministro delle Pari opportunità esposte le gigantografie della donna che Teheran ha condannato a morte
L’Italia scopre Sakineh Manifestazione davanti all’ambasciata iraniana a Roma: finalmente anche il nostro Paese si mobilita per i diritti di Pietro Salvatori
ROMA. Buon ultima in Europa, anche l’Italia fa sentire la sua voce per salvare la vita di Sakineh, la donna condannata a morte dal regime di Ahmadinejad. Riaccompagnato in Llibia l’amico Gheddafi, il nostro governo ha finalmente detto qualcosa a proposito di una vicenda drammatica e simbolica che sta scuotendo l’occidente. Ieri pomeriggio, davanti all’ambasciata iraniana a Roma si sono ritrovate in silenzio e con un fiore in mano centinaia di persone indignate dall’arroganza con la quale il regime di Teheran ormai regolarmente calpesta i diritti umani. Un manichino con le sembianze di una donna vestita di nero stesa sull’asfalto e ricoperta di pietre insanguinate sul piazzale antistante l’ambasciata, è stato il simbolo della protesta alla quale hanno aderito anche personalità più inaspettate, come Totti, Rossella Sensi e l’intera squadra di calcio della Roma o il ct della nazionale Cesare Prandelli. Alla manifestaizone, poi, c’era anche Riccardo Pacifici, rabbino capo della comunità ebraica di Roma che ci ha spiegato: «Ho sentito il dovere di portare la mia testimonianza, oltre che di tutta la comunità ebraica, in quanto cittadino italiano rispettoso della libertà della donna».
Tutto cominciò in sordina, qui da noi, il 12 luglio scorso, data dell’appello della sezione italiana di Amnesty International in favore di Sakineh. Indirizzato direttamente alla guida suprema dell’Iran, l’ayatollah Khamenei - in quanto sarebbe l’unico a avere il potere di annullare la sentenza di morte che grava sulla testa della donna quarantatreenne - il documento sottopone al leader della repubblica islamica tre richieste ben precise: non eseguire la condanna di Sakineh Mohammadi Ashtiani «per lapidazione o in qualunque altro modo», eliminare la legislazione che nel Paese consente la lapidazione e la flagellazione e depenalizzare l’adulterio, considerato tra i crimini più gravi nella legislazione coranica vigente in Iran. Domande che ovviamente non arriveranno mai alle sorde orecchie di Khame-
Il dubbio è che, una volta conclusa questa vicenda, cali di nuovo l’oblio fino al prossimo orrore
Ma l’impegno deve essere quotidiano e collettivo di Luisa Santolini embra incredibile che nel terzo millennio il mondo si debba mobilitare per impedire la lapidazione di una donna accusata di adulterio! Sembra incredibile che l’orrore della violenza più cieca e feroce fino all’omicidio debba ancora abbattersi su una donna e che occorra un incredibile sforzo diplomatico, mediatico, istituzionale e sociale per scongiurare un delitto che, dettato solo dalla crudeltà e dal fondamentalismo, non ha alcuna giustificazione, se mai l’uccisione di un essere umano possa avere una qualsiasi giustificazione! Eppure è così e il mondo occidentale assiste a questa tragedia cercando di mobilitare le coscienze, come è stato detto. Oggi come oggi non possiamo fare di più e ben vengano tutte le iniziative possibili per suscitare quella ondata di sdegno e condanna internazionale che può forse fermare la mano dei boia... Ma l’amarezza e il dolore sono grandi e non si può non andare alle parole pronunciate da Gesù duemila anni fa: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra!». Anche allora si usava lapidare le adultere, gli uomini si accanivano contro le donne ritenute colpevoli di un delitto che andava lavato nel sangue, le donne contavano poco o nulla. Ma da allora è venuta sulla Terra, in ogni angolo della Terra, una parola di giustizia, pace, tolleranza, perdono; e il mondo occidentale è cambiato e lentamente tutti i popoli della Terra hanno intrapreso un cammino fatto di dignità, fratellanza, rispetto, riconoscimento reciproco, ammissione di torti e di errori propri e altrui, fino ad applicare alla lettera il fatto che nessuno, conscio dei propri peccati, scagli la prima pietra!
S
che meno il nostro, che taglierà le relazioni diplomatiche con Teheran, non ci sarà alcun pronunciamento dell’Onu per imporre al dittatore che spadroneggia laggiù di arrivare a miti consigli, non ci sarà alcun Paese islamico moderato che farà la voce grossa, non ci sarà alcuna sanzione nazionale o internazionale. Semplicemente non succederà niente fino al prossimo caso, fino alla prossima mobilitazione, fino alla prossima ondata di sdegno che, specialmente se giunta a buon fine, sarà in grado di tranquillizzare le coscienze e far mettere il cuore in pace a tante anime belle che si agitano sulla scena pubblica senza cambiare la sostanza delle situazioni.
Lo so che esiste la real politik, che le ragioni della economia e dei vantaggi materiali la fanno da padrone rispetto ai beni immateriali e invisibili come i diritti umani; lo so che il mondo è pieno di dittatori violenti e non si può fare la guerra a tutti, che i perseguitati per le più diverse ragioni sono milioni e milioni, che soprattutto le donne sono da sempre vittime sacrificali di una violenza senza fine (anche in Italia); lo so che non possiamo sradicare il male che affligge l’uomo da quando è stato creato («sono forse responsabile io di mio fratello?» ha detto Caino), ma tutto questo non può bastare per metterci tranquilli; non può bastare sentirci impotenti e dunque giustificati, perché sono convinta che qualcosa in più si possa fare, tutti i giorni, tutti i mesi, da parte di tutti, ognuno nella situazione in cui si trova. Questa sarebbe una vera mobilitazione permanente e produrrebbe effetti dirompenti, insospettati ed efficaci. Il mio timore è che l’impegno collettivo e doveroso di queste ore durerà fino alla conclusione di questa tragica vicenda e poi l’oblio ancora una volta scenderà su tutto e tutti fino alla prossima volta. Fino ad un nuovo orrore. Mi auguro di sbagliare e sono pronta a ricredermi. Ma se ci saranno nuove condanne di lapidazione nei confronti di una donna in qualunque parte mondo, queste peseranno sulla nostra coscienza per i tanti peccati di omissione fin qui compiuti. Intanto cerchiamo di salvare da una morte orribile una donna in un Paese lontano e per molti sconosciuto, e proviamo a immaginare cosa si possa fare perché questo non succeda più.
Se ci saranno nuove condanne nei confronti di una donna in qualunque parte mondo, peseranno sulla nostra coscienza per i peccati di omissione fin qui compiuti
È una rabbia e un dolore grande constatare che nelle dittature dei fondamentalisti islamici non è così e il dolore per Sakineh Mohammadi Ashtiani (ricordiamocelo questo nome) si mescola alla rabbia per la cattiveria umana che prende corpo e forma in uno Stato che sostiene e teorizza queste pratiche tribali. È giusto e doveroso mobilitarsi, nessuno escluso. Ma sorge una domanda che esige una risposta: finita questa mobilitazione, finiti lo sdegno e la condanna, finiti gli appelli umanitari per il rispetto dei diritti umani cosa succederà? Sono molto scettica a riguardo, perché, a mio avviso, non ci sarà alcun Governo, men
nei, ma che sarebbero dovute essere il volano per una sensibilizzazione pubblica nei confronti della triste sorte che aspetta Sakineh. Complice l’estate, il caso della donna iraniana condannata a morte ha faticato a conquistarsi la propria fetta di spazio pubblico in Italia, almeno fino alle ultime settimane, quando, anche per la grande risonanza internazionale, l’eco della vicenda ha investito anche il nostro Paese. Si sono dunque susseguite manifestazioni, appelli, dichiarazioni di vicinanza e solidarietà: sia la società civile, sia la politica hanno adottato la causa di Sakineh, mettendola al centro del dibattito pubblico nazionale.
Il sindaco di Roma Gianni Alemanno, riprendendo una lodevole consuetudine già sperimentata da Walter Veltroni ai tempi in cui ricopriva la stessa carica, ha fatto esporre sulla facciata del Campidoglio una gigantografia del volto velato della donna, sotto la scritta «Per la vita di Sakineh», accogliendo di buon grado una proposta del capogruppo dell’Udc in comune, Alessandro Onorato. L’iniziativa è stata proposta per primo dal ministro Carfagna, che ha fatto esporre un manifesto analogo anche sull’edificio di piazza Colonna in cui ha sede il ministero delle Pari Opportunità. Anche il presidente piddino della Provincia di Roma, Zingaretti, ha esposto
mondo
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Si fanno sempre più tesi i rapporti del regime con l’Occidente
Una battaglia trasversale per una donna-simbolo
Dopo l’appello di Bernard-Henry Levy e le proteste in Francia, ormai tutto il mondo scende il piazza per lei di Osvaldo Baldacci
ROMA. Va avanti da settimane con alterne fortune e un risultato tutt’altro che scontato la campagna internazionale in difesa di Sakineh Mahammadi Ashtiani, la donna iraniana di 43 anni, madre di due figli, da 4 anni nel carcere di Tabriz dove ha già ricevuto 99 frustate ed è stata condannata a morte per lapidazione con l’accusa di due relazioni extraconiugali e quella (successiva) di complicità nell’omicidio del marito. Il suo caso ha ottenuto rilevanza internazionale da alcune settimane grazie all’impegno dei due figli e del suo primo avvocato, Mohammed Mostafaei, noto attivista dei diritti umani che difende in particolar modo la maggior parte dei minorenni condannati a morte in Iran. Difendeva, perché proprio in seguito al suo attivismo internazionale sul caso Sakineh le autorità iraniane gli hanno imprigionato moglie e cognato e lo hanno spinto all’esilio in Norvegia. l’immagine su palazzo Valentini, sede della giunta e del consiglio provinciale. «Non è pensabile - ha sottolineato Alemanno - che una giovane donna venga lapidata e uccisa: dobbiamo sostenere tutte le iniziative perché ciò non avvenga», mentre in un comunicato i ministri Frattini e Carfagna, che stanno seguendo la questione per conto del governo, hanno lanciato «un’azione senza precedenti per mobilitare le coscienze e contribuire a salva-
osservato un minuto di silenzio prima dell’inizio di ogni dibattito. Il presidente nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli, promotore del sit-in di ieri a Roma, ha ricordato che «anche l’Italia, come hanno già fatto diversi Paesi europei fra cui la Francia, deve far sentire forte la sua voce contro la violazione sistematica dei diritti umani» in Iran. Marina Sereni, vice-presidente dell’Assemblea nazionale del Pd, ha accolto con favore l’iniziativa del governo, che «dopo
Un manichino nero coperto di pietre è stata l’immagine più significativa della protesta nella Capitale alla quale, a sorpresa ha aderito anche Totti oltre a tanti politici di ogni colore re la donna da una sentenza brutale ed inaccettabile, la lapidazione». Fino a quando Sakineh non sarà salva e libera hanno aggiunto i due esponenti dell’esecutivo - il suo volto ci guarderà dal palazzo del governo italiano».
Il presidente della Regione Lazio Renata Polverini è stata tra gli ultimi a annunciare di aver dato la propria adesione alla mobilitazione internazionale organizzata da Adnkronos International. Ma anche il mondo del centrosinistra condivide e appoggia le iniziative del governo. Sia ieri che oggi a Torino, durante la festa nazionale del Partito Democratico, sarà
giorni di silenzio ha finalmente lanciato un appello affinché le autorità di Teheran risparmino la donna». La Cgil ha invitato tutti i propri iscritti «a firmare e a sostenere la mobilitazione internazionale per il rispetto della dignità e della libertà di tutte le donne iraniane». A palazzo Medici di Firenze, sede della Provincia, il presidente Andrea Barducci ha fatto srotolare una grande immagine di Sakineh. Anche il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini è sceso in campo contro la lapidazione di Sakineh: «Facciamo sentire alte le nostre grida - ha detto l’esponente centrista - le parole spesso sono le pietre grandi e più forti».
sta muovendo anche l’Unione europea: il ministro degli esteri Ue, Catherine Ashton, ha difeso Sakineh scrivendo tra l’altro che «è arrivato il momento che tutta l’Unione europea esprima collettivamente il suo rifiuto di pratiche di altri tempi». È poi in corso una raccolta di firme presso l’Europarlamento. Nel mondo, il Segretario di Stato americano Hillary Clinton ha parlato del caso Sakineh in una dichiarazione del 10 agosto che esorta l’Iran a rispettare le libertà fondamentali dei suoi cittadini e a non abusare della pena di morte. Importante la presa di posizione del presidente brasiliano Lula, che ha offerto ufficialmente asilo a Sakineh, mentre anche la Turchia di Erdogan è stata spinta a intervenire sull’Iran perché moderi la sua posizione: Brasile e Turchia sono due recenti alleati di Teheran sulla questione nucleare. In prima linea nella mobilitazione ovviamente le maggiori associazioni per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International ad Avaaz, ma anche grandi giornali, come il britannico Guardian, che dedica a Sakineh un imponente inserto.
Le violente (e volgari) accuse dei giornali di Teheran nei confronti di Carla Bruni hanno peggiorato la già precaria immagine internazionale del governo di Ahmadinejad
La pressione internazionale ha spinto il regime prima a rinviare l’esecuzione, poi ad aggiungere l’accusa di omicidio inizialmente assente, infine a presentare in televisione un filmato in cui Sakineh confessa gli adulteri e anche l’omicidio del marito, e sconfessa l’avvocato. Video-confessione che sarebbe stata estorta dopo due giorni di torture. L’attenzione internazionale è comunque molto alta, e certo ha “giocato” a favore della causa lo scontro dei giornali conservatori iraniani con la premiere dame Carla Bruni, accusata di essere una prostituta meritevole di morte. A poco sono valse le tiepide prese di distanza del governo iraniano. La colpa di Carla Bruni sarebbe stata proprio quella di essere stata tra le prime e più insistenti a muoversi in difesa di Sakineh. Dopo questa polemica il governo del presidente Sarkozy ha alzato il tiro. Il ministro degli Esteri Kouchner ha chiesto all’Unione europea di pensare a nuove sanzioni contro l’Iran e ha aggiunto nuove richieste di liberazione di altri iraniani condannati a morte, sottolineando come questi casi testimonino «il degrado costante dei diritti umani in Iran». Carla Bruni aveva scritto una lettera aperta a Sakineh rispondendo all’appello lanciato per primo alcune settimane fa dall’intellettuale francese Bernard-Henry Levy. È con quell’appello che il caso è diventato davvero internazionale, ed è a partire da quello che la Francia è divenuta la guida della mobilitazione mondiale. Con la Francia si
C’è però da segnalare anche la prudenza soprattutto della comunità iraniana all’estero. Tutti condividono la volontà di salvare Sakineh e l’orrore per la condanna, ma voci della dissidenza europea sottolineano come il suo caso non sia prioritario rispetto a quello di centinaia di prigionieri politici e di attivisti dei diritti umani scomparsi nel nulla, dimenticati in carcere e soggetti al rischio di essere messi a morte, oltre che torturati. Come il caso della giornalista Shiva Nazar Ahari che sarà processata domani. Membri dell’opposizione iraniana arrivano a dire che l’attenzione monotematica dell’occidente su Sakineh rischia di oscurare tutte le altre campagne quindi persino di favorire quel regime che emana quelle leggi che possono provocare altri infiniti casi Sakineh. Il premio Nobel Shrin Ebadi è arrivata a sostenere che in fondo il Ministero dell’Informazione di Teheran gioca col caso Sakineh proprio allo scopo di tenere occupata e distratta l’attenzione dell’occidente. E in molti si peritano di ricordare che in casi precedenti il regime ha mantenuto in vita i condannati giusto il tempo che avevano addosso l’opinione pubblica, per giustiziarli appena l’occidente s’innamora di un’altra causa.
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l’approfondimento
A proposito dell’articolo di Giuseppe De Rita e dell’inchiesta portata avanti da “liberal” sul ruolo dei cristiani in politica
La Rete dei credenti
Dopo la fine della Democrazia Cristiana, i cattolici in Italia hanno vissuto una lunga stagione felice segnata da una pluralità di voci e spazi di rappresentanza. È arrivato il momento di mettere in collegamento quelle esperienze di Rocco Buttiglione el suo articolo su Corriere della Sera di martedì, Giuseppe De Rita ha messo subito in evidenza il punto decisivo della questione cattolica in Italia. Esso non riguarda tanto il che cosa vada fatto ma il come.
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Dopo la fine della Democrazia Cristiana il cattolicesimo italiano ha vissuto, vogliamo dirlo, una lunga stagione felice. Era un po’ come se fosse saltato un tappo che, nel momento in cui rappresentava in modo praticamente monopolistico la presenza politica dei cattolici, contemporaneamente la mortificava, non dava alle tante realtà che compongono quella presenza uno spazio vivo e attivo di protagonismo. È stato il cardinal Ruini a cogliere nella crisi della Democrazia Cristiana anche una opportunità, liberando questa creatività di base e richiamandola non ad una unità politica ma ad una coerenza sui valori e ad un progetto culturale. Negli anni Novanta e nei
primi anni del nuovo millennio la presenza cattolica è cresciuta in tutti gli ambiti della società italiana. Esiste una dimensione di popolo del cattolicesimo italiano ed esiste un popolo cristiano, attivo nelle parrocchie, nei movimenti, nel volontariato… È una straordinaria riserva di energie cui attingere per rinnovare il Paese, che di questo rinnovamento ha bisogno. La situazione inizia a cambiare quando le questioni della bioetica entrano nel terreno della politica. Prima viene la Legge 40 sulla fecondazione assistita che verrà elaborata in Parlamento da una inedita alleanza trasversale di forze di maggioranza e di opposizione e che sarà poi difesa in un referendum che segna certamente un punto di svolta nella coscienza civile del Paese (forse è iniziata la fine dell’epoca della secolarizzazione). Poi viene la resistenza contro lo stravolgimento del matrimonio fondato sull’unione di un uomo e di una donna. È una resistenza parlamentare che avrà anch’essa
una grande conferma popolare con il Family Day che porta in piazza 1,5 milioni di persone a Roma a favore della famiglia. Infine viene la grande crisi economica con la domanda di una nuova politica di solidarietà nell’economia e nella società.Vedremo cosa esprimerà su questo terreno la prossima Settimana Sociale dei cattolici italiani. Credo si possa dire già da adesso che sarà forte la domanda di una nuova assunzione di responsabi-
Serve un nuovo partito, ma senza un «mandato dei vescovi»
lità. A tutto questo bisogna aggiungere il progressivo degrado morale della politica italiana e gli appelli ripetuti di Benedetto XVI perché una nuova generazione di cattolici entrino in politica per rinnovarla e purificarla.
Questi avvenimenti segnano il punto di arrivo della esperienza di Ruini e la necessità di andare oltre. Il rafforzamento della presenza nella società è stato protetto, sul versante della politica, da un modello teologicopolitico che potremmo chiamare di Ciro il Grande. Ciro il Grande fu un grande sovrano amico del popolo di Israele che lo liberò dalla deportazione in Babilonia e gli consentì di ricostruire il Tempio di Gerusalemme. Il popolo cristiano ha creduto in Ciro-Prodi ed è rimasto deluso. Ha poi creduto in CiroBerlusconi ed è rimasto, se possibile, ancora più deluso. Serve un nuovo modello, che io chiamerò il modello di Giuda Maccabeo. Giuda non attese un pa-
gano che proteggesse il popolo. Invitò il popolo a prendere nelle proprie mani il proprio destino. In questo Giuda Maccabeo somiglia a don Sturzo, che rivolse a suo tempo un invito analogo ai cattolici italiani con il suo Appello ai liberi e forti.
Qui si tocca il nodo sollevato da De Rita: come? Serve un laicato adulto. C’è però una grande difficoltà. Laici adulti ha significato per molto tempo in Italia laici che si muovono nella società mettendo fra parentesi la loro appartenenza al popolo cristiano. Abbiamo bisogno di un altro tipo di laici adulti. Laici che vivano l’appartenenza al popolo cristiano in modo così profondo ed originario da saperlo rappresentare sul terreno scivoloso della politica senza che i vescovi debbano continuamente dir loro quello che devono fare. C’è da superare una duplice difficoltà: l’idea che il laico adulto debba essere dissenziente, non legato o meno legato dal vincolo dell’ap-
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L’opinione di Carlo Costalli (Mcl), Marco Fatuzzo (Focolari) e Franco Miano (Azione cattolica)
«Ora serve una classe dirigente che unisca valori e politica»
Il mondo dell’associazionismo cattolico si dà appuntamento ad Assisi, dal 17 al 19 settembre, per elaborare insieme progetti e strategia di Franco Insardà
ROMA. «Sono d’accordo con Giuseppe De Rita soprattutto quando sottolinea la mancanza di livelli intermedi nel mondo cattolico. Molte associazioni e movimenti, infatti, si identificano quasi esclusivamente con l’impegno religioso e spirituale e non con quello socio-politico». Con la schiettezza tipica dei toscani Carlo Costalli, presidente del Movimento cristiano dei lavoratori, concorda con il sociologo e aggiunge: «non si può pensare che il ruolo delle associazioni sia quello di stampella acefala che ogni tanto ha un contentino dalla politica o di un’organizzazione che si ritira nel privato. L’analisi di De Rita è condivisibile e alcuni passaggi colpiscono proprio l’associazionismo». Franco Miano, presidente dell’Azione cattolica, ritiene invece che «i livelli intermedi non siano del tutto assenti. Siamo, però, consapevoli della necessità, ribadita più volte dal cardinale Bagnasco, di una nuova classe dirigente che nei fatti sappia tradurre ed esprimere la propria fede in atti concreti. Si tratta di una ricerca sia in termini personali sia associativi. La diffusione capillare sul territorio dei cattolici, ricordata da De Rita, è rispondente alla natura e alle caratteristiche della nostra associazione. Indubbiamente il mondo cattolico è alla ricerca di nuove modalità verso cui rendere significativa questa sua effettiva presenza». Sull’allontamentodei movimenti cattolici dalla politica concorda anche Marco Fatuzzo, coordinatore internazionale del movimento politico dei Focolari: «È un fenomeno che riscontriamo soprattutto tra i giovani. Il nostro movimento per bypassare questo situazione, ha organizzato in Italia e in tutto il mondo una rete di scuole di formazione politica rivolte esclusivamente ai giovani, aperta non soltanto ai cattolici, e improntata al dialogo. Proprio perché il limite della politica oggi è l’incapacità di dialogare tra culture e posizioni diverse, come dimostrano quotidianamente i talk-show televisivi. La realtà del nostro movimento è plurale, senza preclusione per alcuna appartenenza politica, seguendo il carisma della fondatrice. L’impegno sociale e politico del nostro movimento è animato dall’esperienza spirituale, ma non è escludente». Sul difficile rapporto tra giovani cattolici e politica concordano sia Carlo Costalli sia Franco Miano. Per il presidente del Mcl gli esempi quotidiani «non favoriscono la passione gli entusiasmi, anche se in alcune associazioni si registra una certa vivacità del mondo giovanile». Più ottimista Miano che fa un distin-
guo: «I giovani non sono affatto lontani dalla politica, ma dalle sue degenerazioni, basate sulla corruzione e le clientele, che non garantisce loro un futuro. Sono lontani da una politica che parla dei giovani, ma non li mette al centro e non li fa esse-
Il ruolo dei movimenti, il distacco dei giovani e l’impegno costante nella società re protagonisti. L’Azione cattolica è in prima linea a sostenere tutte quelle iniziative di formazione sociale e politica».
Il distacco dell’associazionismo dal contesto socio-politico per Franco Miano «da un lato c’è perché esistono esperienze che interpretano la dimensione religiosa come separatezza dalla realtà, però altri, e in questo gruppo c’è l’Azione cattolica, guardano alla realtà in profondità, riuscendo ad avere nella vita politica persone qualificate e coerenti con le proprie scelte che possono essere portatori di una testimonianza. Da un lato l’associazionismo ha bisogno di sviluppare maggiormente il suo impegno sociale e politico, ma non in termini di lobby bensì come impegno dei singoli, puntando sulla formazione. E proprio su quest’aspetto rispetto alle problematiche sociali e politiche si registra un deficit del mondo cattolico. La nostra associazione è in prima linea e tanti amministratori di vari schieramenti che provengono dalle nostre fila cercano di tradurre la dottrina sociale della Chiesa in esperienza concrete». Secondo il portavoce di Scienza e Vita Mimmo Delle Foglie negli ultimi anni ai cattolici in questi In alto Franco ultimi anni è mancata una straMiano, presidente tegia. Con lui concorda Carlo dell’Azione Costalli che ricorda come «negli cattolica; anni precedenti ci sono stati dei al centro Carlo momenti importanti nei quali il Costalli, mondo cattolico ha fatto sentire presidente il suo peso: dal Family day al redel Mcl e sopra ferendum sulla legge 40. È neMarco Fatuzzo cessaria una nuova discesa in dei Focolari campo e credo che sia cruciale
la prossima settimana dei cattolici italiani ad Assisi per verificare linee e forze per essere presenti in politica, ma anche nell’economia e nel sociale. I temi che fanno diventare decisivo il ruolo dei cattolici sono quelli che si richiamano alle nostre radici cristiane». Per il presidente dell’Azione cattolica i cattolici «hanno una visione d’insieme. Sicuramente scontiamo le difficoltà di un tempo sempre più contraddittorio e la ricerca della scelta migliore e sempre più difficile. La strategia d’insieme, intesa come valorizzazione della testimonianza di una comunità cristiana unita a partire dalla comunione ecclesiale, esiste.Tutte le associazioni, i gruppi e i movimenti debbono scoprire con più forza la passione per la vita politica uniti sui valori comuni e fondanti della nostra fede e impegnati nei vari schieramenti. Con queste premesse la diversità diventa una ricchezza». Anche Marco Fatuzzo rivendica l’impegno del movimento dei Focolari nella vita politica e amministrativa: «io stesso sono stato sindaco di Siracusa. Sarebbe opportuno che ognuno facesse la propria parte e gli stessi vescovi con tutto il rispetto, nel momento in cui chiedono un nuovo impegno per il laicato cattolico, dovrebbero fare la loro parte senza scavalcare i laici, intervenendo in prima persona anche sulle questioni politiche».
A proposito dei ruoli e dei politici cattolici impegnati in politica Franco Miano ritiene che la situazione «è così particolare che richiede una maggiore attenzione a quelle che sono le istanze del mondo cattolico, caratterizzate dalla passione per la persona, rispettata in tutte le fasi della sua esistenza, per la formazione del bene comune, per la legalità che significa partecipazione e democrazia effettivamente vissuta e praticata. Queste istanze sono del mondo cattolico, ma anche di ogni persona veramente appassionata del bene comune, della vita politica e amministrativa. Non si tratta di rappresentare degli interessi, quanto piuttosto di manifestare con tutti gli altri determinati valori fondati non sul magistero sociale, ma appartengono a ogni visione dell’uomo adeguatamente tale, che deve riuscire a incarnarli nel vissuto, nella storia concreta. Senza dimenticare che la fede è un bene così prezioso che si deve testimoniare da solo, senza bisogno di alcun riflettore, altrimenti perde la sua autenticità. Molte volte, purtroppo, l’essere cattolici viene usato strumentalmente.Viviamo in un periodo controverso e contraddittorio e in questo tempo la stessa testimonianza di fede di un credente cambia. È un momento di passaggio caratterizzato da una fase positiva di ricerca che non si sofferma sull’immediatezza del presente, rappresentato dal post moderno del quale parla De Rita. Una ricerca che per un cattolico è particolarmente stimolante in termini di testimonianza personale e di impegno».
partenenza ecclesiale, portatore addirittura di un progetto alternativo di Chiesa e di una visione individualistica del cristianesimo; l’altra difficoltà è la diffidenza clericale che in parte non vuole perdere potere, e in parte, non fidandosi di quel tipo di laico, ostacola globalmente la crescita di una leadership laica. Il laicato rimane quindi frammentato, confuso nella dimensione sociale, nella condizione così ben descritta da De Rita. Le emergenze dell’ultima fase dell’epoca Ruini hanno però imposto alcuni passi avanti. Le battaglie sulla bioetica non si sarebbero vinte senza quel coordinamento efficace che è stato Scienza e Vita. E Rete in Opera è (potrebbe essere) l’embrione di un coordinamento di una presenza sociale e civile.
Come è noto io sono convinto che sia necessario anche un partito politico che rappresenti laicamente il popolo cristiano. Sia chiaro: senza un mandato dei vescovi, come il Partito Popolare di Sturzo, giocando fino in fondo la propria responsabilità e senza pretese di monopolio. Un partito così non può crescere, però, se non c’è una rete intermedia, espressione di un cattolicesimo che vive nel popolo ed anche lo guida. Il partito che io auspico è la risposta ad uno stimolo, ad una provocazione che viene dalla base cristiana. Più forte sarà lo stimolo, più forte sarà il partito. Più i cattolici saranno incarnati nella vita del Paese, più facile sarà la loro rappresentanza. Oggi essi non sono rappresentati, ma insieme a loro non è rappresentata una gran parte del Paese. È da qui che nasce l’occasione di essere protagonisti nella costruzione di una nuova rappresentanza politica. Penso adesso ad una realtà come Rete Imprese Italia che vuole dare rappresentanza ai commercianti, agli artigiani, agli altri ceti medi produttivi. Non a caso De Rita è stato un protagonista anche nella costruzione di quel raccordo. Se i piccoli non si mettono insieme comanderanno sempre i potenti. Questo vale per la rappresentanza sociale come per la presenza politica dei cattolici, ed i due processi sono in qualche modo legati: l’uno senza l’altro è difficile che possa andare molto lontano. Infine una ultima considerazione sul tema della cristianità del popolo italiano, su cui si sono soffermati sia Cardini sia Messori nell’inchiesta pubblicata ieri da liberal. Io credo che il confine tra fede e incredulità passi nel cuore di ogni italiano. Non è possibile sapere esattamente quanti siamo e forse non è neppure importante. È più importante avere qualcosa da dire, una testimonianza da rendere anche sul terreno sociale e politico. Talvolta saremo maggioranza, talvolta saremo minoranza, come è normale in una democrazia. In ogni caso saremo cittadini di pieno diritto e contribuiremo alla crescita complessiva del nostro popolo.
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Cartolina da Venezia. Accolta in maniera tiepida la pellicola tratta dal libro di Rula Jebreal. Applausi invece per l’esordio cinematografico del nostro regista
Italia, buona la prima Ieri al Lido il film “La pecora nera” di Celestini e il (poco convincente) “Miral” di Julian Schnabel di Alessandro Boschi
VENEZIA. Il Julian Schnabel che non t’aspetti, quello che stamattina è stato proiettato alla Mostra di Venezia, in concorso, di fronte ad una platea che ha accolto in maniera piuttosto tiepida l’ultimo film del genialoide regista de Lo scafandro e la farfalla (niente fischi e qualche applauso). In effetti Miral, storia di una ragazza cresciuta a Gerusalemme Est che durante la sua esistenza si trova a fronteggiare gli effetti dell’occupazione e della guerra, risente troppo dell’impronte biografica e autobiografica del libro della giornalista Rula Jebreal dal quale è tratto. Togliamoci subito il dente, è proprio lei, la giornalista (ex) de La7 che durante una puntata di Annozero fu apostrofata, non è dato sapere con certezza da chi, come “gnocca senza testa”. Cosa che in effetti è vera solo a metà, perché Rula è davvero una donna bellissima ma altrettanto intelligente. Il che però non basta per scrivere un racconto che possa poi trasformarsi anche in un copione interessante, perché il film di Schnabel, non un autore qualunque, risulta ingabbiato in una storia intensa ma con poche opportunità narrative di rilievo. Ammesso e tutt’altro che concesso che raccontare la storia di Palestina ed Israele
statunitense. Molto bene è stato accolto invece il film di Ascanio Celestini, La pecora nera, unica opera prima in concorso. L’autore romano ha messo in scena la storia di una follia, che come molte follie non sa di essere tale. Salvator Dalì diceva: «L’unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo». Potrebbe essere il motto del bambino protagonista, figlio di un padre rude e di una madre costretta sul letto di un manicomio. La storia fa avanti e indietro dai “favolosi anni ‘60” (che anche allora curiosamente vengono definiti tali dai protagonisti...), fino ai giorni nostri, passando per Papa Paolo VI fino a Papa Wojtyla, con il presidente Giovanni Leone sullo sfondo e una società i cui cambiamenti producono solo impercettibili mutamenti nella vita del protagonista.
Celestini riesce nell’intento di raccontare una follia con gli strumenti della normalità, tanto è vero che almeno nella prima parte della pellicola non si riesce a capire se il giovane ospite dell’istituto interpretato dal piccolo Luigi Fedele, particolarmente credibile come bambino degli anni Sessanta, sia ricoverato o semplicemente adottato dalla suora che lo accudisce fin dalla morte della madre avvenuta nell’istituto stesso. Adulto, il protagonista ha le sembianze di Ascanio Celestini, che con le sue filastrocche e allitterazioni scandisce il ritmo in verità molto teatrale della vicenda. Questo è forse un po’ il limite del film, che potrebbe essere visto anche ad occhi chiusi, talmente fondante risulta la narrazione e la straordinaria capacità di Celestini di cambiare l’emotività della scena con delle sapienti variazioni di tono. Ma crediamo che si tratti di una scelta del tutto consapevole. Per chi come l’autore di Storie di uno scemo di terra si avventura in un territorio nuovo e pernicioso come il cinema è importante mantenere un piede in un territorio che si conosce bene, come il palco di un teatro, ambiente naturale di Celestini. E cosi la parola a diventare la vera protagonista, perché se è vero che la storia molto forte di una pazzia, della pazzia, è il nucleo del film, è altrettanto vero che è la voce che tiene tutto, incollando le orecchie dello spettatore molto di più di quanto non facciano le immagini. Il soggetto come dicevamo è tratto dal romanzo La pecora nera. Elogio del manicomio elettrico, dove è evidente il richiamo a terapie come l’elettroshock cui i pazienti venivano (e in certi casi
Il giovane cineasta romano è riuscito nell’intento di raccontare una follia con gli strumenti della semplice normalità durante l’arco di oltre mezzo secolo abbia bisogno di particolari afflati artistici.
D’altra parte l’onestà e la forza del racconto sono stati gli unici presupposti inseguiti dal regista. Obiettivo raggiunto ma un po’ di delusione per chi si aspettava qualcosa di meno convenzionale (di meno televisivo?) dal regista e pittore
A fianco, un’immagine del regista romano Ascanio Celestini, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia con il film “La pecora nera”. Sopra, l’attrice e modella Freida Pinto, protagonista della pellicola “Miral” di Julian Schanbel (nella foto in basso)
In Laguna, a tu per tu con il regista e pittore Julian Schnabel
«Ma la mia non è un’opera politica, è solo una storia che vuole emozionare» di Andrea D’Addio
VENEZIA. Julian Schnabel, ebreo newyorkese quasi sessantenne, non è mai stato un artista convenzionale. Prima come pittore, poi anche come regista, non ha mai scelto storie facili. Con Lo scafandro e la farfalla raccontò la degenza in ospedale, fino alla morte, del giornalista Jean-Dominique Bauby, attraverso l’unico punto di vista che il protagonista, malato della sindrome locked-in, aveva per vedere e comunicare col mondo: l’occhio sinistro.Vinse il premio per la regia a Cannes e fu candidato agli Oscar. Con Miral, basato sul libro che la giornalista Rula Jeabral scrisse nel 2004 con il titolo La strada dei fiori di Miral, è andato a Gerusalemme e nei territori limitrofi per raccontare il dramma di popoli da troppo tempo in guerra tra loro. Il film è dedicato a «tutti coloro che pensano che la pace
sia ancora possibile» e si chiude con i palestinesi in festa per la firma di quegli Accordi di Oslo che nel ’93 fecero pensare a un ritiro israeliano dai territori, mentre una didascalia informa come quella Dichiarazione di Principi non sia mai diventata realtà. Incontriamo Schnabel, a due passi dal palazzo del cinema di Venezia. Lui ha appena fatto un bagno al mare e ha ancora i piedi bagnati, una camicia verde hawayana con soli gli ultimi due bottoni legati e un’aria da non me ne importa nulla di come appaio, tipica del suo stile. La storia della Palestina e del conflitto con Israele è molto complessa e ricca di date importanti. Cosa avete dovuto tagliare a malincuore? Nulla, abbiamo raccontato esattamente ciò che volevamo dire. È vero,
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vengono) sottoposti. Ma quello di Celestini non è certo un attacco alle terapie particolarmente invasive, bensì una acuta osservazione nella direzione di quella sottile differenza che può fare di un essere umano un essere umano emarginato. La follia del piccolo protagonista srotola le proprie cause lentamente e in una maniera così delicata che il racconto riesce da un momento all’altro a cambiare la prospettiva di certe situazioni, che un attimo prima ci sembravano “normali” e che invece non lo erano affatto. Davvero un buon esordio.
c’è un conflitto da tanti anni, ma noi siamo partiti da una sceneggiatura, dalla storia di una persona. Il tempo della storia non è lo stesso della storia di Israele e della sua esistenza. I problemi li abbiamo avuti semmai nello sviluppo del personaggio, volevamo evitare le ripetizioni. È come fondere l’oro e ottenere dei filamenti, si parte dalla vita vera, ma ciò che risulta alla fine è un’opera d’arte. Se non ci fossimo curati delle persone, il film sarebbe stato noioso. Questa è una storia che tenta di emozionare con la gioventù di una ragazza che ha trovato la sua strada, io non sono un analista politico, non mi sono mai occupato troppo neanche della Palestina. È stato l’amore per Rula a spingermi ad informarmi. Oggi (ieri, ndr) si riaprono le trattative di pace a Washington tra Israele e Palestina. Cosa ti attendi da questi incontri? Mi auguro il meglio, spero che ognuno di loro possa fare davvero del proprio meglio, che entrambi mettano tutta la loro energia per cercare di ottenere qualcosa. Trasformare le dichiarazioni in realtà. Ho fiducia in Obama, è un bravo uomo, ma non de-
cide solo lui. Spero che possa fare qualcosa e che sia un evento importante, di quelli che si ricordano negli anni... Sarebbe bello se vedessero il film prima di riunirsi. Il problema però riguarda tutti noi, ognuno di noi ha la possibilità di fare qualcosa, sia anche solo sensibilizzazione. Come mai hai girato in inglese le parti di discorso in arabo? Ho girato sia in inglese sia in arabo, ma per me è importante che arrivi al maggiore numero di persone possibili, al di là della fedeltà linguistica. Non ho fatto un film palestinese, nel cast ci sono israeliani, americani, egiziani, c’è mia figlia che è di New York. Cosa si aspetta dalle reazioni di chi non condivide l’approccio con cui ha raccontato questa storia, forse più apprezzabile dai palestinesi che da tutti gli israeliani ebrei?
Ovviamente so che è un argomento sensibile ma, come quando dipingo, se a qualcuno non piacciono le mie creazioni, non mi faccio condizionare.Voglio potere portare avanti le mie idee, non rimango a casa. È molto importante uscire dall’idea di parlare del film solo in termini politici. È questa anche una delle ragioni per cui questo conflitto non sempre viene capito dagli osservatori esterni. Si parla di persone, ognuna con le proprie ambizioni, voglie, speranze. A prescindere da questo, sono davvero orgoglioso che la presentazione mondiale del film sia avvenuta in Italia e che qui esca prima che nel resto del mondo. Ero già stato qui per Basquiat, come pittore venni a vivere nel 1996 fino alla prinavera del 1997, e ogni volta che posso vado a visitare la Cappella di Giotto a Padova. L’Italia mi ha dato tante opportunità, così come le ha date a Rula quando lasciò l’orfanotrofio.
Vale la pena ricordare che giusto ieri c’è stato l’attacco frontale alla manifestazione da parte di Antonio Capuano, presente al Lido, fuori concorso, con il suo L’amore buio. Il regista napoletano, verace come i suoi film e come gli stessi altrettanto di sostanza, ha sparato a zero contro una Mostra a suo modo di vedere organizzata in maniera disastrosa e con un presidente di Giuria, Quentin Tarantino, in grado solo di apprezzare film superficiali e chiassosi. Il che dimostra che si può essere snob anche senza essere fighetti. Pensate un po’, vedendo i loro film noi siamo convinti che tra i due potrebbe nascere una grande amicizia. Comunque, la 67esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia sta entrando a poco a poco nel vivo e la fila alla biglietteria è sempre lunga. La nostra impressione è che sia più lunga di quanto non lo fosse anno scorso, il che dovrebbe garantire una sostanziale tenuta a fronte dei tagli di cui anch’essa avrà risentito. E che comunque, come dicono certi Governatori, non gli impediscono di essere appetita da chi la vorrebbe portare nella capitale. Storia questa piuttosto bislacca, che comunque dimostra ancora una volta come la Mostra possieda ancora la capacità di essere una notevole cassa di risonanza, specialmente per chi ha poco o nulla da dire. Per questo, se da una parte assistiamo alla presenza discreta di un presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che non essendo in visita ufficiale rifiuta la passerella, dall’altra si sbraita e si paventa su una Mostra di Venezia a Roma. Magari con Lido compreso.
ULTIMAPAGINA Riti. Il ministro Gelmini presenta il nuovo anno scolastico: «Non ci sono soldi per 200mila irregolari»
Tutti in classe, tranne i di Francesco Lo Dico ossimo nei panni dei precari che da Pordenone a Palermo sono in sciopero della fame da Ferragosto, considereremmo l’idea di attingere qualche caloria dal buffet che Mariastella Gemini ha elargito agli ospiti del suo sposalizio: capesante, insalate di granchi, tortini di finocchio, risotto all’astice, branzini e spigole. Occorre cibo assai succulento, per drenare la proluvie di succhi gastrici che Mariastella Gemini ha lasciato fluire anche negli stomaci più irsuti.
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Mentre impazzano le proteste di piazza, il ministro dell’Istruzione ha esibito ancora una volta l’ostinata acrimonia che caratterizza tutte le sue uscite pubbliche. Stavolta, l’impermalita avvocatessa, ha annunciato che non incontrerà le migliaia di persone che da anni lavorano nelle scuole italiane senza alcuna garanzia, per motivi politici. «Non occorre strumentalizzare il disagio come stanno facendo in questo momento alcune forze politiche. Si scopre – ha chiosato la ministra con l’aria di chi ha appena scoperto un moscerino a dimenarsi nel suo patè – che alcuni di quelli che protestano in piazza non sono precari ma esponenti di Italia dei Valori». Morale della favola, non incontrerà i precari perché sono tutti dipietristi sotto copertura. Dev’essersi trattato di un lavoro di intelligence sopraffino, perché al netto degli otto miliardi di euro scippati alla scuola, i precari con l’hobby del travestitismo in viola ammontano a duecentomila. Ma la Gelmini contesta ogni addebito e va all’attacco: «Non è possibile - prosegue - che il 97 per cento delle risorse complessive, 43 miliardi di euro circa, vengano utilizzate per stipendi come adesso. Se vogliamo una scuola di qualità non si può spendere solo il 3 per cento delle risorse». Certo è che se si fossero lasciati i soldi dove stavano, la qualità sarebbe riuscita un po’ meglio di questa. Secondo il ministro, 760 mila docenti in Italia «sono più che sufficienti» e il taglio vero sui precari sarebbe di appena 12mila cattedre. E poi Mariastella è una che quando razionalizza, non guarda in faccia nessuno: oltre a lasciare per strada duecentomila precari - e cioè gente che per decadi ha tenuto in piedi la baracca scolastica tra ferie non pagate, sedi svantaggiate, mancanza di continuità didattica, mancanza di continuità nell’anzianità di servizio - si è premurata anche di cancellare 87mila cattedre e 42 posti di personale non docente in tre anni. Ecco perché taccia di ingratitudine quanti assediano le piazze italiane al grido di “Futuro rubato“. «Chi protesta – si rammarica il ministro – non sa ancora di essere stato escluso dalle supplenze, questo si vedrà fra qualche settimana e non voglio aggiunge altre tensioni proprio in avvio dell’anno scolastico.
PRECARI Il ministro ha annunciato anche l’intenzione di punire le assenze eccessive: chi mancherà per oltre 51 giorni, sarà bocciato direttamente. E sui professori senza contratto ha aggiunto: «Sono tutti strumentalizzati per fini politici» Sono disponibile a un incontro con i precari quando vedrò che la nostra azione a sostegno anche dei precari sarà giustamente considerata e poi anche quando verificherò che gli accordi con le Regioni verranno adeguatamente presi in considerazione».
È l’indignazione preventiva, insomma, che manda su tutte le furie Gelmini. Che sottovaluta forse, quella discreta dose di intuito che suscita nel lavoratore italiano medio, ciascuna sillaba della “razionalizzazione dei costi“. «Se si vuole far passare l’idea che 200mila precari sono frutto della finanziaria e dell’azione del governo Berlusconi, allora non sono disponibile. Non sono disponibile a prestare il fianco agli attacchi al governo che può essere anche legittimo, ma noi andiamo avanti a lavorare», si difende la titolare del dicastero. Prestare il fianco giammai. Ci mancherebbe. Ci si accontenterebbe solo di un occhio, magari semichiuso. Quanto basta per comprendere di quali altri stenti è fatta la strada di chi sciopera per il posto. E c’è l’anno scolastico che incombe, per giunta. Il 2010 parte con 50mila classi senza insegnanti, mille e 600 senza presidi, 8 miliardi di euro in meno per i prossimi tre anni e 170mila docenti
e dipendenti della scuola pubblica condotti alla porta in nome dell’efficienza. Non tutto il male viene per nuocere, però. Sarà risolto il cornuto dilemma che aveva piccato il ministro dell’Istruzione. Contro il maestro unico, Umberto Bossi aveva tuonato che «se è un cattivo insegnante, rovina il bambino». Nel dubbio, non ci sarà neppure quello. Le cattedre vacanti sono ancora plurime, e niente è dunque di maggiore sollievo. Ma persino i dati di fatto, non scuotono una sola ciocca di Mariastella: «Docenti e dirigenti sono stati messi nelle condizioni di operare al meglio – ha spiegato in conferenza stampa – Le famiglie hanno premiato le novità: come i licei linguistici e i musicali. Inoltre, in un biennio il tempo pieno alla scuola elementare è cresciuto del 3 per cento. I posti per il sostegno cresceranno a 93mila e 700 unità. Nessun disabile rimarrà senza sostegno, ma non ci devono essere sprechi».
E puntuale come un cucù svizzero, fa capolino anche quest’anno il mantra del rigore. Argomento troppo ghiotto, per non essere digerito. E che poi ha pure la grazia di fare pendant con la severa montatura delle lenti. «Non si potranno superare i cinquanta giorni di assenza, pena la bocciatura», scandisce. «Questa misura – ha spiegato – servirà anche a bloccare la prassi di certi diplomifici dove si arriva al diploma pur avendo frequentato poco o nulla». Era ora che qualcuno riportasse la scuola sotto l’“egìda” degli istituti privati.