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di e h c a n cro

Bisogna essere molto forti per amare la solitudine

Pier Paolo Pasolini 9 771827 881004

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 9 SETTEMBRE 2010

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Senatùr sprezzante: «Napolitano lo incontriamo la prossima settimana, prima devo andare in montagna»

Berlusconi in un cul de sac Consigli (non richiesti) a un premier prigioniero dei suoi errori

Il Cavaliere parlerà in aula a fine mese e dice: «Non voglio le elezioni. Ma Bossi insiste: «Se Silvio non si dimette, voteremo noi contro il governo». E così si resta in un vicolo cieco ADORNATO: TROPPI AUTOGOL, ALLA FINE CADRÀ PER MANO DI BOSSI

ROMA. Silvio Berlusconi si è messo in un cul de sac. Forse ce l’ha spinto Bossi, forse ci si è messo da solo, ma ora non sa che cosa fare. Prendete quel che è successo ieri. Da una parte, il Pdl ha annunciato minacciosamente che tra il 27 e il 30 settembre in Parlamento il premier andrà in Parlamento a chiedere la fiducia sui cinque punti d’agosto. Fiducia che, come è noto, Fini gli ha già assicurato domenica scorso a Mirabello. Dall’altra Bossi ha ancora più minacciosamente annunciato che la Lega è pronta sia a sfiduciare il proprio governo.

Soltanto un governo di responsabilità nazionale può farci uscire dal pantano

RICOLFI: IL VOTO NON GLI CONVIENE, IL SUO CONSENSO È IN CALO Difficilmente, dopo una nuova tornata elettorale, potrebbe riavere una maggioranza stabile

CACCIARI: DOVREBBE APRIRE UNA FASE NUOVA, MA NON LO FARÀ Ha una sola scelta: ammettere il fallimento. Finirà invece punito dal risultato del Senato

OSTELLINO: NIENTE DA FARE, SIAMO IN MANO AI DILETTANTI Ha commesso tutti gli sbagli possibili e adesso non ha chanche: ne pagherà le conseguenze

segue a pagina 2

Ancora incidenti dopo la contestazione a Schifani

Bonanni aggredito alla festa Pd Il segretario della Cisl attaccato a Torino dai centri sociali a colpi di petardi. Bersani: «È un atto squadrista» Francesco Lo Dico • pagina 10

Mecucci, Capozza e Novi pagine • 2,3,4,5

Teheran conferma: «Decideranno i giudici»

Dopo le polemiche alla Mostra di Venezia

Fermata la lapidazione, Sakineh salva (per ora)

Salviamo Mazzini, non era un terrorista!

Viaggio nella nuova compagnia di bandiera di cui nessuno parla più

Do you remember Alitalia? La società non va male: meno ritardi e nuove rotte in arrivo. Ma non durerà: è troppo piccola per competere con i low cost e troppo grande per misurarsi con i colossi. Il futuro resta con Air France di Francesco Pacifico

ROMA. Rocco Sabelli ha un cruccio: dove trova-

Primo successo della comunità internazionale: il regime iraniano costretto a bloccare l’esecuzione della donna

Sollevazione di storici contro la lettura estremista del padre del Risorgimento nel film di Mario Martone

Vincenzo Faccioli Pintozzi • pagina 16

Riccardo Paradisi • pagina 12

EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

175 •

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re i soldi per aprire nuove rotte verso le ricche Shanghai o Mumbai. E se è difficile convincere i “patrioti” che l’accompagnano dal 2008, è più facile fare proseliti presso il socio francese. Il quale non esclude un ulteriore sforzo dopo i 323 milioni impegnati per il 25 per cento di Alitalia. Soprattutto se a Palazzo Chigi gli inquilini cambieranno prima del previsto. Perché in Air France prendono molto sul serio l’amministratore delegato quando ripete fino all’ossessione che servono investimenti per cambiare davvero le cose. Che soltanto svoltando in direzione del lungo raggio si esce dallo stallo di compagnia troppo piccola per sfidare i carrier internazionali, ma troppo grande per fare concorrenza alle lowcost. a pagina 9

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la polemica

prima pagina

Bufera sulle parole della finiana Napoli

pagina 2 • 9 settembre 2010

La gaffe delle onorevoli in vendita di Pietro Salvatori

ROMA. Avranno un bel da fare le colombe di entrambi gli schieramenti da qui a fine settembre, data nella quale Silvio Berlusconi riferirà in Parlamento sulla situazione complicata della propria maggioranza, se queste sono le premesse. «Non escludo che senatrici o deputate siano state elette dopo essersi prostituite». Parole pronunciate non da un greve avventore di un bar qualunque della capitale, ma di Angela Napoli, parlamentare prima di An, quindi del Pdl. Parole ancora più esplosive se si considera che la Napoli è stata uno di quei parlamentari che hanno fatto armi e bagagli e sono passati sotto le insegne di Futuro e Libertà. Ma soprattutto che le destinatarie della sua invettiva sono da identificarsi, ovviamente, nelle sue ex colleghe rimaste nel partito di Berlusconi, anche se nell’intervista non vengono esplicitamente nominate. «È chiaro – ha continuato l’esponente finiana intervistata da Klaus Davi per Klauscondicio - che, se non si punta sulla scelta meritocratica, la donna spesso è costretta, per avere una determinata posizione in lista, anche a prostituirsi o comunque ad assecondare quelle che sono le volontà del padrone di turno». Le parole della Napoli hanno subito scatenato le reazioni indignate dell’intero mondo della politica. Sono state proprio le parlamentari del Pdl a rispondere per le rime alle accuse. «È aberrante che lo scontro con i finiani stia portando, giorno dopo giorno, ad un fuoco di fila meschino e volgare contro le nostre donne, a nome delle quali esprimo il più profondo sdegno», sono state le parole di Barbara Saltamartini, mentre Beatrice Lorenzin ha etichettato lo «squallido e infamante» attacco come frutto «dell’astioso e rancoroso modus operandi che hanno messo in scena i finiani negli ultimi mesi». Alessandra Mussolini ha tirato direttamente in ballo Fini chiedendo «la convocazione immediata dell’ufficio di presidenza della Camera dei deputati per prendere i provvedimenti del caso». L’intervento del presidente di Montecitorio non si è fatto attendere. In una nota, Fini stesso ha infatti messo in chiaro che «ledere la dignità delle deputate con accuse generalizzate quanto teoriche, e quindi indimostrabili, non puó essere consentito», nel rispetto del Parlamento e delle tante donne impegnate in politica «con passione e disinteresse». Il presidente della Camera, che non può permettersi passi falsi, né personali, né da parte degli esponenti del proprio gruppo, in un momento nel quale Berlusconi sta cercando un modo per costringerlo a rassegnare le dimissioni, ha invitato Angela Napoli a scusarsi dopo aver ammesso la gravità delle proprie parole. «Alla domanda del conduttore ho risposto: non lo escludo», ha tenuto a precisare l’ex esponente di An rispondendo alle sollecitazioni del proprio leader. Per poi continuare: «non penso che con tale affermazione io abbia inteso criminalizzare le colleghe del Parlamento italiano, né ritengo che debbano sentirsi da me oltraggiate». Solo alla fine del comunicato le sospirate parole auspicate da Fini: «comunque me ne scuso». In difesa della propria collega è intervenuta Flavia Perina, deputata finiana e direttrice del Secolo d’Italia, attaccando l’ambiguità delle interviste-spettacolo di Klauscondicio, che avrebbe teso una «trappola» alla Napoli: «inviterei Davi ad approfondire il tema dei prostituti: quelli che magari barattano un seggio con la genuflessione al padrone di turno».

l’inchiesta Consigli (non richiesti) a un presidente del Consiglio prigioniero dei propri errori

Il Cavaliere senza cavallo

Berlusconi vuole continuare con la fiducia, ma la Lega minaccia di non votarla per andare alle urne. Quale può essere la via d’uscita? Rispondono Ricolfi, Cacciari e Ostellino ROMA. Tenta di uscire dall’angolo. Di sfuggire al destino obbligato delle urne. «In questo momento serve stabiltà, non le elezioni», proclama il premier davanti all’ufficio di presidenza del Pdl. «Abbiamo un’immagine positiva all’estero e dobbiamo continuare a lavorare con serenità e governare». Tutto il contrario di quanto affermato da Bossi poche ore prima. Pur di interrompere la legislatura il capo del Carroccio dice di essere disposto persino a non votare un’eventuale mozione di sfiducia: «È possibile». E invece Berlusconi divide la sua strategia da quella del Senatùr. Ci prova almeno. Anche se ancora non riesce a dare l’impressione di essersi effettivamente affrancato dalla parossistica indecisione degli ultimi tempi. Resta sul tavolo infatti la questione di Fini: per ora si provvederà a spogliare di ogni incarico di partito i parlamentari che hanno aderito a Futuro e libertà. Discorso che non vale per gli incarichi di governo. Resta dunque la sensazione che il Cavaliere sia finito in un cul de sac. Ora tenta faticosamente di uscirne. Forse ce l’ha spinto Bossi, forse ci si è messo da solo (per non saper controllare i suoi eccessi di collera). Alla riunione di Palazzo Grazioli viene fuori anche che tra il 27 e il 30 settembre in Parlamento ci sarà la resa dei conti. Salvo che Fini in persona, domenica scorsa a Mirabello, ha già detto chiaro e tondo che i suoi diranno sì a quei

cinque punti. Insomma: tra il 27 e il 30 settembre Berlusconi andrà alla Camera a incassare una fiducia che dovrebbe rimettere in moto l’attività di governo.

Dovrebbe. Perché poi dall’altro versante, sempre ieri, si son dette cose diverse: «La via maestra resta quella delle elezioni». Parola di Umberto Bossi.Alla Camera il nostro ha spiegato che per andare al voto «le possibilità sono due. O ci sono le dimissioni di Berlusconi o c’è un voto contrario sui 5 punti».Vuoi vedere che la Lega sta meditando di non votare la fiducia di fine settembre? «Ci sono anche queste possibilità...», bofonchia il Bossi. E, signor ministro, nel malaugurato caso, la Lega come spiegherebbe la sfiducia a se stessa ai cittadini? «I nostri elettori sono padani e vogliono la Padania libera e se quelli là fanno un governo tecnico contro il Paese, portiamo 10 milioni di persone a Roma». Morale: Berlusconi pensa che sarebbe meglio governare. Bossi invece pensa che sarebbe meglio votare. In un improvviso sussulto di moderazione il presidente del Consiglio aggiunge che «non ci saranno leggi ad personam». Il presidente Napolitano accogile con sollievo la svolta. Fa notare che nessuno gli ha chiesto incontri. Cosa dovrebbe fare Berlusconi per uscire dal cul de sac e tornare a occuparsi del Paese? Lo abbiamo chiesto a tre osservatori attenti: Luca Ricolfi, Massimo Cacciari e Piero Ostellino.


l’intervista

«Alla fine cadrà per mano di Bossi» Adornato: solo un governo di responsabilità nazionale può farci uscire dal pantano di Gabriella Mecucci Berlusconi è finito in un cul de sac. Liberal parla di dilettanti della politica. Adornato, come può uscire il premier dall’angolo angusto dove si è cacciato? Lo diciamo ormai da mesi: Berlusconi ha una sola via d’uscita, farsi promotore di un governo di responsabilità nazionale. Deve rivolgere un appello a tutte le forze politiche per arrivare ad una grande svolta politica in nome dell’interesse nazionale. Ma attenzione: i tempi per sfruttare questa chance stanno quasi per scadere. Agli errori si aggiungono errori. Ai dilettantismi altri dilettantismi. Se le cose continuano così Berlusconi non ne uscirà più. Perchè invece le larghe intese? Perchè è l’unica strada che può restituire a Berlusconi una grande strategia politica. Nessun’ altra scelta glielo consente. Prendiamo l’ipotesi Bossi: elezioni il prima possibile. Una proposta questa che innazitutto insospettisce. Nessuno può prevedere il risultato elettorale, ma posto che le cose vadano al meglio per il sodalizio Pdl-Lega - è molto dubbio che al Senato ci sia una maggioranza. A me sembra che la corsa di Bossi verso le elezioni sia dovuta proprio alla voglia del leader del Carroccio di verificare che al Senato non c’è una maggioranza, mentre alla Camera c’è. Una situazione ideale per proporre un governo Tremonti. Berlusconi ce l’ha con Fini ma chi in realtà dovrebbe temere di più l’asse Bossi-Tremonti. Se poi i tempi delle urne si allungassero, forse diventerebbe complicato per Lega e Pdl vincere persino alla Camera. Dopo aver disatteso tutte le promesse di modernizzazioni e di riforme, pur disponendo di una maggioranza inusualmente ampia, perchè dovrebbero essere premiati dagli italiani? Davvero Berlusconi pensa di poter condurre una campagna elettorale sostenendo che il governo ha disatteso le promesse per colpa di Fini?

C’è però una seconda possibilità per il premier. Continuare a governare, visto che Fini ha assicurato il proprio sostegno all’esecutivo... Questa è un’ipotesi ragionevole. Capisco che Berlusconi sospetti che per questa strada lo si voglia logorare. O che pensi che accettare questa proposta rappresenti un cedimento a Presidente della Camera, insomma che egli tema di apparire, come dice Bossi, un leader dimezzato. La causa del suo male però è lui medesimo e non altri.

Davvero pensa di poter condurre una campagna elettorale dicendo che se il governo ha fallito è solo per colpa di Fini?

LUCA RICOLFI

Il voto? Non gli conviene. Il suo consenso sta scendendo «Dovrebbe andare avanti, ma Fini dovrebbe smettere la contestazione» di Errico Novi

Delle responsabilità del premier parliamo dopo. Torniamo al governo di responsabilità nazionale? Per aspera ad astra. Sembra la via più impervia ma è l’unica, lo ripeto, che farebbe “riconquistare” a Berlusconi una vera strategia politica, chiudendo con il triste spettacolo delle risse. Un governo di responsabilità consentirebbe di affrontare le grandi questioni che sono squadernate davanti all’Italia, sulla cui urgenza concordano da Mario Draghi a Emma Marcegaglia, da Mario Monti sino allo stesso Tremonti, che recentemente ha ricordato come sia arrivato il momento di impegnarsi nel piano di rilancio della nostra economia facendo riforme indispensabili. Berlusconi operi allora in questo scenario, che è quello della grande politica. Accetti il governo di responsabilità proposto da Casini.Tutti dicono che vuole ricucire con l’Udc, ebbene lo faccia accogliendo una grande idea per il Paese. Tanto promettendo

qualche posto di governo al giovedì, per poi tentare di comprare qualche parlamentare al venerdì, non andrà da nessuna parte. Vale quello che abbiamo detto nel 2008: i nostri valori non sono in vendita. Solo un grande progetto politico che risponda all’interesse nazionale può far uscire il Paese dalla palude. Lo farà Berlusconi? Credo di no. Perché? E perché lo dice proprio lei che ha cercato di dare una definizione teorica del berlusconismo come corpo politico e non come avventura peronista? Berlusconi oggi si trova nell’angolo proprio perchè ha tradito il berlusconismo. Ha scelto da solo di incamminarsi verso il tramonto, verso la fine politica e culturale della sua avventura. Forse non ci sarà ancora una piena sanzione elettorale perchè i tempi tra le due cose spesso non coincidono, ma verrà anche quella. Perchè culturalmente e politicamente è finita? È molto semplice. Berlusconi entra in politica e conquista consenso politico grazie a due qualità molto importanti: è un riformatore e una federatore. La prima caratteristica è quella che lo propone come possibile artefice della modernizzazione economica e della rivoluzione liberale. Cosa che in quindici anni non è mai riuscito a fare. Da una parte i governi da lui guidati non hanno varato le riforme liberali, dall’altra hanno smesso persino di farne una bandiera. La seconda caratteristica di Berlusconi è stata la straordinaria capacità di federatore: di mettere insieme un gruppo con spirito secessionista come la Lega, un partito sgualcito dall’esperienza della Prima Repubblica come il Msi, che – grazie anche a lui – si è trasformato in An, e assieme all’Udc un’aria vasta e composita di centristi, di cattolici liberali, di ex democristiani. Un capolavoro politico. La Casa delle Libertà è un passaggio importante nella storia politica italiana. È un bruco da cui sarebbe potuta nascere la farfalla: cioè un grande partito popolare

ROMA. Luca Ricolfi non dismette l’abito dello scienziato nemmeno di fronte a un magma all’apparenza indecifrabile come il travaglio della maggioranza. E perciò considera tutte le possibili alternative disposte sul tavolo davanti al presidente del Consiglio. Anche le più complicate e inconsuete per Berlusconi. Ma poi arriva a una conclusione, se si vuole, oggettiva: «La cosa migliore sarebbe andare avanti con questo Parlamento, trovare un accordo con Fini e mettere da parte il risentimento personale, l’idea stessa che Berlusconi ha della dialettica interna come lesione della sua maestà. Ma a una condizione: che anche Fini faccia un passo indietro e smetta di guidare l’opposizione interna. Se continuasse a farlo, è comprensibile il timore di Pdl: trovarsi con un arbitro che ha un ruolo decisivo e che però lo interpreta con spirito di parte». Un patto, dunque, che preveda sì un ritorno a più miti consigli da parte del Cavaliere ma anche un ripiegamento del suo rivale. Esito in apparenza ormai utopistico, al quale però Luca Ricolfi

liberale di massa. Invece c’è stato il predellino.. In quel momento Berlusconi cessa di essere il grande federatore. Da allora in poi si determinano una serie di eventi concatenati per cui l’Udc viene spinta fuori dall’alleanza e An viene annessa. Non si va verso un partito democratico, con un’identità elaborata e discussa insieme, ma si va verso una Forza Italia allargata. Quello che Fini ha detto a Mirabello, era vero già allora. Insomma, Berlusconi resta solo con Bossi, a cui ha regalato la golden share dell’alleanza. Il premier non è più nè riformatore nè federatore. Un formidabile autogol. Il federatore ora divide, espelle.. Più riduce le sue alleanze e più restringe, accorcia il suo futuro politico. È come i 10 piccoli indiani: prima Casini, poi Fini. Rimarrà solo con Bossi e un giorno toccherà a lui dirgli che non conta più niente. Berlusconi è ormai in preda ad una paranoia strategica di cui non si rende più conto. Sta cercando di capire cosa gli conviene fare. Ebbene l’unico vero interesse, anche personale, di un premier lo si può trovare solo laddove vive l’interesse nazionale. È questo l’uovo di Colombo. Ma è difficile, purtroppo per l’Italia, che Berlusconi lo trovi.

arriva appunto al termine di un rigoroso ragionamento. E allora partiamo dai dati di fatto, professore: cosa dovrebbe fare, Berlusconi? In Italia come in tutti i Paesi democratici esiste un ciclo del consenso. All’inizio c’è la luna di miele e il consenso è al massimo. Dura un anno e mezzo, poi comincia a calare e raggiunge il minimo tre-quattro anni dopo le elezioni, per poi riprendere quota con la mobilitazione tipica della campagna elettorale. Nel caso di Berlusconi siamo un po’ in anticipo: il suo consenso è calato già da un po’. Presumibilmente continuerà ad andar giù nel prossimo anno e mezzo. Quindi? Prima va al voto e meglio è, in teoria. E in pratica? Allora, se ragioniamo sul margine di consenso che Lega e Pdl possono avere, è meglio votare il 27 novembre, come dice Bossi. Ma è anche vero che il terzo polo si coalizzerebbe.

La Lega è secessionista se resta isolata, ma se si coalizza con un grande partito nazionale viene costituzionalizzata


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E a quel punto Berlusconi riuscirebbe sì a ottenere il premio di maggioranza alla Camera, ma al Senato sarebbe decisivo un partito esterno alla coalizione Pdl-Lega, magari l’intero terzo polo. Qui arriviamo a uno snodo che personalmente osservo da un punto di vista diverso rispetto ad altri commentatori. Faccia pure l’eretico. Non è detto che nell’attuale geografia l’unica coalizione possibile sia il centro che si allea con la destra o con la sinistra. Potrebbe anche essere il Pd a completare questa eventuale maggioranza incompiuta. Ardita ipotesi. Proviamo a ragionare sul tema centrale dei prossimi anni, il federalismo: se disponessimo le varie forze politiche su un diagramma cartesiano, l’ordinamento dei partiti più favorevoli alla riforma federale vedrebbe prima la Lega, quindi il Pdl ovviamente, ma subito dopo, udite udite, l’Italia dei valori, poi ancora il Pd, che possiamo distinguere in un Pd del Nord federalista e in un Pd meridionale contrario, fino al gruppone centrista con Fini, Casini, Lombardo e Rutelli. Quindi non è detto che l’Udc per esempio sarebbe la forza più adatta ad integrare una maggioranza zoppa come quella che verrebbe probabilmente da una nuova prova elettorale. Insomma, con le elezioni non si risolve nulla. A meno che Berlusconi e la Lega non riescano a vincere anche al Senato. Cosa che però mi pare assai improbabile. Insomma, non se ne verrebbe a capo. Diciamo che sempre sul piano teorico un incrocio tra il binomio Berlusconi-Bossi e il Pd potrebbe non essere insensato, se partiamo da un presupposto: la Lega è secessionista se resta isolata, ma se si coalizza con un grande partito nazionale viene costituzionalizzata e assume un orientamento diverso. E questo compito può essere svolto anche da Pdl e Pd insieme. È chiaro che in questa estrema ipotesi il presidente del Consiglio... ...non potrebbe essere Berlusconi. No, A quel punto ci vorrebbe una soluzione come Giulio Tremonti. È tutto molto complicato, ma se si esclude questa ipotesi c’è da chiedersi cosa si torna a fare a nuove elezioni. Si torna dal popolo ma c’è il rischio che il popolo incasini ancora di più il mazzo, diciamo così. E allora professore? Allora se ragiono con la mia testa, anziché sforzarmi di mettermi dentro quella del Cavaliere, penso che la cosa migliore sarebbe andare avanti. Da una nuova tornata elettorale, infatti, difficilmente potrebbe venire fuori una maggioranza in grado di governare meglio dell’attuale. Tirando le somme, Berlusconi dovrebbe mettere dunque da parte il suo risentimento personale, la sua insofferenza all’idea che qualcuno possa ledere la sua maestà con una semplice critica, e rimettere insieme il quadro attuale. È così. E sarebbe nell’interesse del Paese più ancora che in quello di Berlusconi. Ma anche su questo mi permetta di procedere con un ulteriore dubbio. Dica pure. Diversamente da quello che pensa la maggior parte dei commentatori, senza escludere il quotidiano per cui scrivo, io credo che il comportamento di Fini non sia istituzionalmente corretto. Chiarisco che a mio giudizio sui contenuti Fini le ha indovinate tutte: dalla democrazia interna allo stato di diritto alla lotta alla mafia. Ma un presidente della Camera non può permettersi di fare politica dall’interno di un partito. Bertinotti ha fatto una battuta in due anni e se la ricordano tutti. Quindi Fini è a sua volta in contraddizione? Proprio se assumi quelle posizioni sullo stato di diritto, sulla sacralità delle istituzioni, poi devi fare il presidente della Camera e basta. Capisco la preoccupazione di Pdl e Lega per una conduzione dei lavori condizionata dalle posizioni politiche che Fini ha assunto. Ma se Berlusconi mettesse da parte l’idea della lesa maestà e si accordasse con Fini in modo che il cofondatore, a sua volta, lasciasse la scena ai suoi parlamentari senza più guidarne le iniziative, secondo lei sarebbe sostenibile la situazione? Sì, è evidente che se nella maggioranza resta un certo gruppo di persone che fa battaglia politica all’interno del Pdl, si può andare assolutamente avanti. Il problema c’è fin quando a condurre questa battaglia è il presidente della Camera in persona. Ma se per esempio qualcuna delle fondazioni ortodosse del Pdl mettesse in discussione la linea del partito, Berlusconi non potrebbe adontarsene, se non vuole confermare la tesi di chi vede conculcata nella maggioranza la libertà di confronto.

l’inchiesta

MASSIMO CACCIARI

Non ha scelta: ammettere il fallimento e farsi da parte. Ma non ci credo «Dovrebbe favorire l’apertura di una nuova fase: non lo farà e sarà punito» di Errico Novi

ROMA. Accettare il fallimento. «È l’unica cosa che andrebbe fatta. Berlusconi dovrebbe ammettere di aver fallito, e lavorare per favorire un assetto politico diverso. Ma non lo farà mai. Non è psicologicamente in grado di accettare una svola del genere. Figurarsi preparare nuove elezioni in modo da creare un assetto più equilibrato dell’attuale. Non lo farebbe mai. Eppure sarebbe questa l’unico atto responsabile. Massimo Cacciari è spietato nella sua analisi. Il sistema politico è entrato in una crisi profonda, spiega. Non solo il Pdl, anche il Pd «non esiste più». Bisogna prenderne atto. «E invece rischiamo di andare a precipizio verso una nuova campagna elettorale in cui nessuno si farà carico di ammette le proprie contraddizioni e i propri errori. Con il risultato che la coalizione Pdl Lega sarà

un’anatra zoppa e che quindi si formerà comunque in Parlamento una maggioranza di cui il Cavaliere non potrà essere il leader. Perciò, dice il filosofo che ha contribuito a costruire il Pd, davvero non restano altre mosse al presidente del Consiglio se non la resa. E invece si ragiona ancora di assedi alla presidenza della Camera. «Non sembrerebbe esserci spazio per mezzucci o rammendi. E la questione non riguarda solo in centrodestra, ma tutte le componenti della politica italiana, dal Pd all’area di centro». E come uscire da questa situazione? «Converrebbe affrontarla con chiarezza e razionalità. Un’interruzione della legislatura con forze politiche che non hanno indicazioni strategiche da dare ai propri elettori sarebbe però un rischio immenso». In realtà il Cavaliere sembra avvertire dal suo punto di vista il pericolo nascosto dietro la spinta di Bossi a imboccare immediatamente la via del voto. «Allora si dica che si è aperta una crisi politica radicale, ci si presenti il più presto possibile agli elettori. Ma con dei programmi, dei progetti: nel merito di contenuti ma anche di alleanze, coalizioni, rapporti fra le diverse aree. Se siamo persone responsabili deve accadere questo, non è pensabile andare a votare alla cieca». Una crisi che riguarda sì tutti, ma che investe in primo luogo Berlusconi: «Era certo di avere stravinto, ma non è andata così. C’è una diversità antropologica tra l’imprenditore e il politico. In politica non è che basta acquisire il pacchetto di maggioranza, come se fosse una spa». Alle orecchie del premier arrivano in queste ore mille suggerimenti su come muoversi. Ma la scelta che Cacciari indica come la più responsabile sembra troppo lontana dal suo orizzonte, come dice lo stesso filosofo: «È psicologicamente incapace di affrontare una situazione del genere. Mi auguro che cerchi di metabolizzare il fallimento della sua linea politica, comprenda che il Pdl non esiste più, come d’altra parte non esiste più il Pd, e favorisca una soluzione politica diversa». Un Berlusconi che manda in pensione sé stesso? «Mi rendo conto che s tratta di pura utopia. Succederà che prima o poi si andrà a votare senza progetti, con un Pd che spero metabolizzi il fallimento del suo e che cerchi un’intesa seria con l’area di centro, anche in vista di nuovi assetti parlamentari».

Secondo Cacciari il Pdl non esiste più, ma qualcosa di nuovo si sta andando a determi-


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nare anche nell’area di centrodestra: «Mi pare che Tremonti stia lavorando su una destra almeno economicamente responsabile che possa governare gli impulsi leghisti». Siamo ancora in alto mare, dunque, o, per dirla con le parole del filosofo, è ancora tutto «in mente dei». Finirà dunque male: «Si andrà a votare al massimo in primavera.Tutti come sono in questo momento, tutti nascondendo affannosamente le proprie insufficienze e le proprie contraddizioni». Nessuna possibilità all’orizzonte di un cambiamento della legge elettorale. «Credo che si voterà con questo sistema in questa legislatura non vedo proprio i margini per una modifica». Uno scenario tutt’altro che roseo: «Novanta su cento ne uscirà un’anatra zoppa. Napolitano darà l’incarico a un esponente dl Pdl che non sia Berlusconi. In quel momento diventerà determinante l’area di centro. Il presidente della Repubblica non rinvierà di nuovo alle urne. Diventerà dunque determinante la scelta che vorranno fare». Per uscire da questa situazione magari il premier dovrebbe fare un appello a tutte le forze responsabili, nel tentativo di uscire dall’impasse e formare un nuovo governo, anche presieduto da lui stesso. Un po’quello che sostiene Pisanu. «No – taglia corto il professore – questa possibilità non esiste. Se Berlusconi apre la crisi non riavrà l’incarico. Dovrebbe dimettersi e lasciare l’incarico a qualcun altro. Ma è un’ipotesi impensabile».

La palla, dunque, all’indomani di una possibile caduta del governo, passerà dalle mani del Pdl a quelle di tutte le forze politiche.«Sarà fondamentale, lo ribadisco, capire cosa farà il centro. Ma anche, e soprattutto, il Pd. Deve sciogliere le proprie ambiguità di fondo, da che parte guarda per proporsi come alternativa di governo, visto che la sua scelta bipolare è miseramente fallita». Non c’è dunque proprio nessuna possibilità per un lieto fine nella parabola politica berlusconiana? «In altri tempi sarebbe potuta avvenire. Ma ormai questo governo è talmente condizionato dalla Lega che non esistono più ipotesi soft. Doveva pensarci prima, ma non è nella sua natura. Dopo la vittoria schiacciante del 2008 si era ormai convinto che l’azienda era sua». Impossibile, per Cacciari, conciliare l’anima imprenditoriale di Berlusconi con quella politica. «Anzi, è la dimostrazione vivente che un imprenditore non deve fare politica. Il berlusconismo è finito, e con lui lo schema bipartitico e bipolare, sul quale speravo anche io. Ora bisogna capire una cosa fondamentale: potrà essere l’area di centro una valida alternativa di governo?».

PIERO OSTELLINO

Ha fatto tutti gli errori possibili. E ora paga le conseguenze «Non ci sono soluzioni: siamo finiti nelle mani di una massa di dilettanti» di Francesco Capozza

ROMA. Certo, Silvio Berlusconi non ha bisogno di consigli, ma la situazione è ingarbugliata parecchio: Bossi urla che vuole andare alle elezioni anche a costo di sfiduciare il governo (ma chi glielo spiega che il presidente Napolitano poi è costretto dalla legge a cercare una nuova maggioranza in Parlamento?), mentre il premier punta a incassare la fiducia-capestro sui «cinque punti» a fine settembre. Insomma, nel marasma ci vorrebbe qualche idea più chiara. Lo chiediamo a uno che di idee se ne intende: l’editorialista del Corriere della Sera Piero Ostellino, un politologo che ha sempre fatto della «liberatà» dai partiti un suo vanto assoluto. Allora, dottor Piero Ostellino, per diversi esperti di cose politiche Berlusconi si è posto con le sue stesse mani in un cul de sac, per al-

tri è ad un bivio. Lei come la pensa? Io penso semplicemente che siamo in mano ad una massa di dilettanti della politica!. Chiaro. Tutto qui? Se vuole vado avanti, anche se questo potrebbe bastare… Vada avanti… Io credo che Berlusconi, l’autocrate per antonomasia, abbia fatto un errore madornale ad espellere Fini dal Pdl. Ha voluto cacciare chi manifestava diversità di opinione ed ora ne paga le conseguenze. Il capo intende il partito come un’azienda e, giustamente, se in un’azienda non fai quello che dice il capo: “fora dale balle”. Visto che non vuole dirmi come Berlusconi si dovrebbe comportare in futuro, mi dica almeno come si sarebbe dovuto comportare nel passato prossimo. Semplice. Invece di cacciare Gianfranco Fini e di fatto anche i suoi accoliti, avrebbe dovuto riunire tutto il partito e non solo l’ufficio di presidenza (ma per Berlusconi è normale intendere tale organismo come il consiglio di amministrazione di una delle sue aziende). A quel punto avrebbe posto un problema politico e avrebbe potuto, anzi, dovuto mettere ai voti una sfiducia individuale nei confronti del Presidente della Camera. Da quel voto, mi pare pacifico, Fini sarebbe stato messo in minoranza e a quel punto sarebbe stato posto di fronte ad un problema etico, visto che nessun problema costituzionale si frappone tra lui ed il mantenimento della sua carica. Questa è la democrazia, bellezza! Ma visto che l’ignoranza politica dilaga, ecco i risultati. In poche parole Berlusconi avrebbe potuto assistere ad una resa di Fini senza sporcarsi le mani? Dentro i partiti, in una democrazia ovviamente, le teste si contano, non si pesano. Se uno è l’amministratore delegato del partito più grande del Paese non può saperle certe cose, tant’è che ha avuto la geniale idea di andare dal capo dello Stato a chiedere le dimissioni del presidente della Camera. Roba da pazzi, anzi, da incompetenti della politica. Dà ragione a Fini allora… No, ma certo che quando Fini parla – come ha fatto l’altra sera da Mentana - di analfabetismo costituzionale è difficilmente confutabile. A lei Berlusconi proprio non piace. A me non piacciono gli incompetenti della politica. Purtroppo Berlusconi ha il difetto di essere pure circondato da incompetenti. Si, ma a qualcuno sarà venuto in mente di consigliarlo in modo meno avventato, non crede? Può darsi, ma come si fa a dire no all’autocrate? Se lo fai, quello ti caccia. Poveraccio, non ha nemmeno tutti i torti: lui ci mette la faccia, i soldi e le idee. Quelli neppure le idee… A lei non garba nemmeno Fini, dica la verità? Quello che proprio non mi va giù è che uno che per decenni ha rappresentato l’ala più conservatrice della Destra italiana oggi se ne vada su un palchetto a Mirabello a dire: «Il vero liberale sono io». Ma stiamo scherzando? Uno che ha detto no al governo Maccanico – che almeno avrebbe prodotto per la prima volta in sessant’anni qualche riforma in un Paese dove si parla tanto di riforme ma poi nessuno fa un bel niente – che ancora più che conservatore definirei “reazionario”, ecco, uno così mi viene a dire di essere l’unica alternativa liberale a Berlusconi? C’è da ridere, se non venisse da piangere. Proprio non mi vuole dire che cosa farebbe, se fosse Berlusconi? Ormai non c’è più nulla da fare, gliel’ho detto. Gli errori possibili li ha fatti tutti. Adesso ne paga le conseguenze. Quindi la annovero tra quelli del cul de sac? Veda lei…


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Ricette. Inizia oggi a Perugia l’incontro nazionale di studi delle Acli dedicato all’Unità, il federalismo e la solidarietà

«Occorre un patto per l’Italia» Andrea Olivero: «C’è un bisogno disperato di fare insieme delle riforme» ROMA. «Italiani si diventa. Unità, federalismo e solidarietà», è questo il titolo dell’incontro nazionale di Studi delle Acli, che si svolgerà a Perugia dal 9 all’11 settembre. Alla 43esima edizione parteciperanno anche monsignor Giancarlo Bregantini, Andrea Riccardi, Gian Antonio Stella, Ilaria Buitoni Borletti, Rita Borsellino, Agnese Moro, Franco La Torre, Stefania Grasso, Rosa Calipari, Aldo Bonomi, Gianfranco Viesti, Giorgio Campanini, monsignor Vincenzo Paglia ed Enrico Letta. Per il presidente delle Acli, Andrea Olivero «l’obiettivo di questo incontro è proprio quello di capire come si può costruire un federalismo che possa aiutare a crescere l’unità del nostro Paese, Completando quel processo di costruzione dell’Italia che è ancora incompleto e imperfetto per molti aspetti determinanti della nostra identità». Presidente, come pensa che si possa ottenere questo risultato? Si tratta di una riflessione su quello che deve essere un nuovo patto nel nostro Paese. Se ne parla da anni, ma è il momento di fare qualcosa di più, individuando alcune tematiche intorno alle quali costruire questa unità. Purtroppo si stanno perdendo delle grandi opportunità. In che senso? Alcuni elementi che potrebbero rappresentare una spinta per la crescita, siccome non si riescono a gestire, diventano dei grandi problemi. Su tutti l’immigrazione che potrebbe aiutarci a ridefinire la nostra

di Franco Insardà

A queste giornate nazionali di studio delle Acli, giunte alla 43esima edizione, parteciperanno anche esponenti di altre associazioni; in basso il presidente Andrea Olivero le ricadute saranno nazionali. Pensare che una parte possa staccarsi e abbandonare il Sud a se stesso è pura utopia. In questo momento particolare per la politica è d’accordo con la proposta dell’Udc di un governo di unità nazionale? Guardiamo con interesse a questa proposta perché c’è un bisogno disperato di fare insieme delle riforme per far ripartire il Paese, guardando al bene comune. Noi, come Acli, abbiamo la massima attenzione per tutti quelli che hanno la

«Anche nel Terzo settore ritengo che ci sia bisogno della crescita di una classe dirigente capace di svolgere una funzione più politica» identità, mettendola anche un po’ in discussione, e che invece sta lacerando il Paese. La stessa questione generazionale che dovrebbe essere naturale sta dividendo la nostra società, senza riuscire a trovare una corretta distribuzione di ruoli tra tra le varie generazioni. Senza dimenticare il tema del rapporto tra Nord e Sud. Appunto. Esiste una precisa consapevolezza delle difficoltà del Mezzogiorno, ma si tratta di una sfida che riguarda tutto il Paese. Se non si riesce a vincerla

prospettiva di allargare la partecipazione e durante le nostre giornate di studi approfondiremo l’argomento. La partecipazione si ottiene anche con una legge elettorale diversa? Senza dubbio, l’attuale sistema mortifica tutti i cittadini e in particolare le organizzazioni sociali. Ci siamo resi conto che con questa legge elettorale nessuno guarda alla società civile, perché non occorrono teste pensanti e uomini che hanno una loro autonomia, ma degli yes-man.

Qual può essere il ruolo del Terzo settore? Cercheremo di illustrare il nostro modello di federalismo, per evitare il rischio che si sposti semplicemente la responsabilità dal governo centrale a quelli regionali, secondo una logica di sussidiarietà verticale, senza mettere in discussione i rapporti all’interno della società, senza attivare nuove energie. Non dimentichiamo che l’Italia più che di identità regionali è composta di città, paesi, borghi e questa è la caratteristica che va sviluppata per fare in modo che le organizzazioni sociali, a partire da quelle del Terzo settore, siano soggetti che partecipino di più alla vita democratica. Su questo si basa la vostra idea di federalismo? Si basa sulla storia italiana e sul municipalismo sturziano. Non è un federalismo contro qualcuno, ma un sistema che cerca di migliorare le condizioni di vita di tutti. Negli ultimi anni la partecipazione dell’associazionismo si è affievolita, come ha rilevato anche Giuseppe De Rita. Sicuramente c’è una difficoltà

maggiore rispetto ad altri momenti della storia delle organizzazioni sia sociali sia cattoliche. È importante sottolineare che molti, pur agendo meno sul fronte politico, hanno dato un buon contributo all’economia. Un settore che interessa oltre 800mila lavoratori e rappresenta una consistenza nelle opere sociali, impensabile fino a venti anni fa. Il mondo delle associazioni, quindi, è in movimento? Stiamo cercando di trovare le modalità per lavorare insieme e porteremo i risultati di queste giornate di studi fra quindici giorni ad Assisi all’incontro delle associazioni cattoliche e a metà ottobre alle settimane sociali della Chiesa cattolica. C’è il tentativo delle Acli di fare un po’ da regia a tutti il movimento, sperando di riuscire a rispondere alla sfida lanciata da De Rita, consapevoli di dover fare la nostra parte. I cattolici non sono stati determinanti nel costruire 150 anni fa l’Italia, ma hanno dato un contributo al suo sviluppo. Oggi non possiamo stare alla finestra. E sul fronte politico? Il mondo del Terzo settore de-

ve cercare di superare questa afonia, tornando a essere più visibile con un apporto politico maggiore, richiesto dalla stessa società. Ovviamente bisogna costruirsi un ruolo che non sia collaterale ai partiti, per evitare di perdere autonomia. Bisogna credere con più determinazione in un ruolo politico, prospettando un’idea di società e discutendo sui provvedimenti che incidono profondamente sulla vita delle persone. Anche nel Terzo settore ritengo che ci sia bisogno della crescita di una classe dirigente capace di svolgere una funzione più politica. L’invito del Papa a rinnovarsi era rivolto a tutti, anche alle associazioni. Con queste prospettive ritiene che si possa diventare italiani? L’italianità è un elemento che, pur tra mille difficoltà e incertezze, tutti cogliamo. Occorre selezionare quelli che sono gli elementi positivi per farli emergere. Mi riferisco all’accoglienza, alla solidarietà e allo sviluppo dell’attività collaborativa. Questa è l’Italia che ci piace e non l’italietta dell’arrangiarsi, piagnona e propensa a uno scarso rispetto della legge. L’omicidio del sindaco di Pollica dimostra quanto sia difficile agire nella legalità. Questo Paese, purtroppo, ha bisogno sempre di eroi perché si abbia la consapevolezza di certe situazioni.Finora non si è riusciti a creare degli anticorpi e a far sì che la legalità diventi la normalità. C’è una possibilità di diventare italiani nel senso più positivo che passa attraverso la precisa volontà di tutti di fare un passo in avanti per diventare un Paese unito. Da chi dipende? Dalla politica, dalle società civile e dalla Chiesa che debbono assumere la consapevolezza di questa sfida e ci scommettano. Nel nostro incontro di Perugia cercheremo di dare delle buone motivazione per impegnarsi in questa direzione ai nostri dirigenti, ma anche alle forze sociali con le quali ci confrontiamo per lanciare questa sfida e questo potremmo essere il risultato miglio nell’anno del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Diversamente il rischio è la retorica e le divisioni sul passato.


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Il sindacato di Landini indice quattro ore di sciopero

Le celebrazioni a Roma per l’8 settembre del 1943

Scontro tra Fiom e Marcegaglia sul contratto

Napolitano ricorda l’attualità della Resistenza

ROMA. Il giorno dopo, la disdetta del contratto dei metalmeccanici da parte di federmeccanica divide le categorie sociali. Intanto, la Fiom – su proposta del segretario generale Maurizio Landini – ha deciso di indire, entro il 16 ottobre, quattro ore di sciopero. Dopo di che, «in ogni territorio e in ogni azienda metalmeccanica decideremo le forme più appropriate», ha spiegato Landini.

ROMA. Il messaggio storico e

Opposta, naturalmente, la reazione del presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia: «La disdetta è solo una questione tecnica, è un atto di chiarezza», ha detto. «Sembrava che i lavoratori non avessero più un contratto. Il contratto ce l’hanno e stanno avendo gli aumenti», ha aggiunto il capo degli industriali. «Abbiamo firmato il nuovo contratto nell’ottobre 2009 con decorrenza 1° gennaio 2010, quindi per noi è questo quello valido, che è migliore rispetto al precedente», ha aggiunto. «Abbiamo firmato tutti i contratti di tutti i settori anche con la Cgil, come quello del tessile, dell’alimentare e altri: quindi il problema vero è la Fiom che non accetta nessun cambiamento che renda le aziende più competitive», ha proseguito Marcegaglia che poi ha ribadito la posizione di mar-

L’allarme dell’Fmi: riforme per ripartire Il Fondo Monetario analizza le prospettive dell’Italia di Alessandro D’Amato

ROMA. In Italia la ripresa è più debole che in Francia e Germania «perché un persistente problema di competitività limita lo spazio per la crescita dell’export e il programmato consolidamento fiscale indebolisce la domanda privata». Il Fondo Monetario Internazionale, nel World Economic Outlook sulla crescita mondiale, stila una pagella non onorevole per il nostro paese. E prevede anche brutte notizie per il prodotto interno lordo. L’Italia quest’anno crescerà dello 0,9%, mentre nel 2011 il Pil avanzerà dell’1%, secondo quanto stima il Fondo Monetario Internazionale, che ha mantenuto inalterate rispetto alle ultime rilevazioni di luglio le proprie stime sulla crescita 2010 rivedendo invece al ribasso di 0,1 punti percentuali quelle per il 2011. Il governo prevede invece un Pil in aumento dell’1% quest’anno e dell’1,5% nel 2011. La differenza in effetti è minima, e discrepanze del genere negli anni precedenti sono sempre rientrate alla fine dei conteggi annuali. Ma il rischio per il paese è che oggi i mercati vedano anche ogni piccola differenza tra i dati dei governi e quelli delle altre istituzioni in negativo, con ripercussioni pesanti sui tassi italiani. In ogni caso, il quadro generale dipinto dall’Fmi rimane fosco. Prospettive poco positive anche per la ripresa mondiale che “resta fragile”. I rischi al ribasso per l’economia, sottolinea il Fondo, «restano elevati», soprattutto per le economie avanzate, a causa di un «elevato livello di disoccupazione che pone grandi delle sfide sociali». Nella bozza, l’Fmi stima che «più di 200 milioni di persone nel mondo sono disoccupate, con un aumento di oltre 20 milioni dal 2007». E le previsioni per i mesi e l’anno a venire non sono per niente favorevoli, soprattutto sulla scorta dei dati americani. Per l’Italia il Fondo prevede una percentuale dell’8,7% nel 2010 e dell’8,6% nel 2011, in lievissimo calo ma sostanzialmente stabile in un anno in cui il lavoro è destinato ancora evidentemente a soffrire. L’Fmi chiede anche che il consolida-

mento fiscale cominci entro l’anno prossimo: «Le politiche di bilancio dei governi si stanno muovendo dagli stimoli a breve termine ad un consolidamento di medio periodo. Tuttavia affermano gli economisti di Washington - le politiche fiscali devono urgentemente mettere a punto misure per ridurre i deficit nel medio periodo». Il Fondo è infatti convinto che ciò sia necessario «non solo per contrastare e alla fine invertire il consistente rialzo dei livelli di debito pubblico, ma anche per cerare maggior spazio di manovra nel breve periodo». Non è da dimenticare tuttavia, secondo il Fmi, che «gli aggiustamenti di bilancio devono essere supportati da riforme strutturali». E quali sono, le riforme strutturali? Meno tasse, meno spesa, suggeriscono da Washington. «È di massima importanza - si legge - il fermo impegno verso strategie ambiziose e credibili per ridurre i deficit nel medio termine, preferibilmente con riforme delle tasse e della spesa che diventino effettive nel futuro e sostengano investimenti e lavoro nel medio periodo». Si tratta di un obiettivo «più urgente ora di sei mesi fa, dal momento che potrebbe esser necessario un ulteriore accomodamento fiscale a breve termine se l’attività economica globale rallentasse molto più del previsto». L’Fmi avverte infine che «in assenza di piani di medio periodo credibili, tuttavia, tale supporto potrebbe causare nuove turbolenze sui mercati del debito sovrano che a loro volta potrebbero minare l’efficacia di qualunque misura di sostegno».

«Le politiche fiscali devono mettere a punto urgentemente misure per ridurre i deficit nel medio periodo»

tedì della Federmeccanica, cioè che sulla decisione della disdetta del contratto del 2008 non ha influito la Fiat. «Abbiamo fatto la riforma degli assetti contrattuali che prevede deroghe e sanzioni nel 2009. È un’accelerazione rispetto a quanto già previsto allora. È ovvio che Fiat lo richiedesse per poter fare in modo che l’accordo di Pomigliano rientrasse nel nuovo contratto dei metalmeccanici, ma è un’operazione tecnica». Infine, Emma Marcegaglia ha “addolcito” i toni: «Il momento è complesso, abbiamo poche speranze, ma auspichiamo che la Fiom ci ripensi e si sieda al tavolo insieme a noi per proseguire in questo cammino».

E da registrare, sui numeri del Fmi, la reazione del presidente degli industriali Emma Marcegaglia: «Sul fronte economico c’è qualche miglioramento, come per il tessile, come vediamo oggi - ha aggiunto Marcegaglia a margine della presentazione di Milano Unica, il salone italiano del settore -, ma se il Paese non diventa più competitivo, se le nostre aziende non riescono a essere forti e conquistare i mercati mondiali, noi andiamo in difficoltà».

politico della Resistenza è «sempre attuale». Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ieri ha tenuto a sottolinearlo intervenendo a Porta San Paolo alla cerimonia che ricorda l’8 settembre 1943, data dell’annuncio dell’armistizio che segna anche l’inizio della Resistenza a Roma in difesa della Capitale occupata dai nazisti. Napolitano, assieme al ministro della Difesa Ignazio La Russa e ai rappresentanti delle istituzioni locali, ha deposto una corona di alloro presso il monumento del Parco della Resistenza dedicato agli 87 mila militari caduti tra il 1943 e il 1945. Il Capo dello Stato ha ricordato «i momenti eroici che hanno segnato la conclu-

sione tragica della vita dei nostri soldati e ufficiali» lodando l’iniziativa del Comune di Roma per aver «posto una bellissima lapide in ricordo delle donne che hanno perso la loro vita per la libertà». Napolitano si è anche fermato a salutare le Associazioni dei Partigiani e dei Corpi militari che hanno combattuto la Seconda Guerra Mondiale. «Mi pare che il significato di questa cerimonia sia del tutto evidente e sempre attuale» ha affermato. Successivamente, il presidente della Repubblica ha scoperto una targa presso il Parco della Resistenza in ricordo delle donne che tra l’8 e il 10 settembre hanno sacrificato la vita per la difesa della città: la targa è collocata in un’aiuola dove sono state piantate 55 rose ad alberello.

In occasione delle celebrazioni, poi, a Porta San Polo e al Parco della Resistenza, l’Esercito Italiano ha portato sui luoghi delle eroiche battaglie di Roma del settembre 1943 uno dei carrarmati che dopo El Alamein erano rientrati in Italia e combatterono in quei giorni di 67 anni fa contro i tedeschi. Si trattava di alcuni semoventi da 105/25 e da 75/18 che riuscirono ad impegnare i paracadutisti tedeschi sulla Ostiense ed a Porta S.Paolo.


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politica

Inchiesta. L’azienda verso un trimestre record, ma il pareggio è ancora lontano. Il gap è sul versante commerciale

Do you remember Alitalia? La compagnia funziona. Ma è troppo grande per vincere i low cost e troppo piccola per battersi coi colossi. Il vero futuro è Air France di Francesco Pacifico occo Sabelli ha un cruccio: dove trovare i soldi per aprire nuove rotte verso le ricche Shanghai o Mumbai. E se è difficile convincere i “patrioti” che l’accompagnano dal 2008, è più facile fare proseliti presso il socio francese. Il quale non esclude un ulteriore sforzo dopo i 323 milioni impegnati per il 25 per cento di Alitalia. Soprattutto se a Palazzo Chigi gli inquilini cambieranno prima del previsto. Perché in Air France prendono molto sul serio l’amministratore delegato quando ripete fino all’ossessione che servono investimenti. Che soltanto svoltando in direzione del lungo raggio si esce dallo stallo di compagnia troppo piccola per sfidare i carrier internazionali, ma troppo grande per fare concorrenza alle lowcost.

R

Prima della pausa estiva Sabelli e il presidente Roberto Colaninno avrebbero sondato i soci italiani per capire se c’è la disponibilità a rilanciare e a iniettare nuovi capitali. I grandi nomi (i Riva, i Ligresti o i Gavio) avrebbero declinato in attesa del consuntivo di fine anno. I piccoli (i Carbonelli d’Angelo, i D’Avanzo o i Maccagnani) avrebbero spiegato che in questa fase è troppo complesso per loro muovere capitali. Un no deciso, nel quale s’intravede anche il timore di un aumento capitale. Che non tutti potrebbero sottoscrivere, con il risultato di ribaltare gli equilibri azionari e impedire quello che è a cuore a tutti, IntesaSanpaolo in testa: vendere al socio Air France quando la compagnia sarà risanata garantendosi una forte plusvalenza. Non sembrerebbero intenzionati a mettere soldi freschi i Benetton, per i quali la permanenza nel capitale della Magliana va collegata al controllo di Adr, la società che gestisce lo scalo di Roma, e di Adf, proprietaria degli aeroporti di Firenze e di Torino. Si vocifera che più che l’operato di Sabelli e Colaninno, per la famiglia di Ponzano sarà vincolante la decisione del governo sugli aumenti delle tariffe aeroportuali. Che Giulio Tremonti blocca in malo modo. Allo stesso modo è difficile che intervenga Carlo Toto, diventato dopo la cessione di Air One sia azionista sia uno dei principali lessor di aeromobili della nuova Alitalia attraverso alcune sue controllate irlandesi.

Tutti i favori del governo ai nuovi soci

Privatizzazione a carico dello Stato Romano Prodi l’aveva promessa ad Air France. Ma poi, con l’implosione del governo e il no di Fintecna ad addossarsi debiti e dipendenti, l’Alitalia è finita nell’orbita di IntesaSanpaolo. Infatti il suo capoazienda, Corrado Passera, è stato il player della fusione tra la storica compagnia controllata dal Tesoro e l’AirOne di Carlo Toto. Che, va ricordato, avrebbe avuto debiti con Ca’ Sass vicini ai 100 milioni. Non meno discutibile l’ingresso nella cordata poi diventata Cai di imprese titolari di licenze pubbliche come (i Benetton o i Gavio) o interessate al business degli appalti pubblici (Ligresti o gli Angelucci).

A rendere l’operazione sono state alcune scelte del governo Berlusconi. Prima delle elezioni del 2008 il premier aveva dato l’assenso all’acquisizione di Alitalia da parte di Air France. La quale, dopo l’asta lanciata da Tommaso Padoa-Schioppa – comprava il 100 per cento del vettore per circa 138 milioni e dava 608 milioni per le obbligazioni in circolazione, chiedendo in cambio la cassa integrazione per oltre 1.600 dipendenti. Saputo del passo indietro dei francesi, Berlusconi ha incentrato la sua campagna elettorale sull’italianità dell’Alitalia. Quindi ha appoggiato in toto l’operazione delineata da Corrado Passera già durante gli anni del centrosinistra. Per far ripartire in bonis la compagnia, Giulio Tremonti ha riscritto la legge Prodi sui fallimenti, in modo che debiti e vecchi asset di Alitalia finissero in un bad company da liquidare. È stato garantito alla good company una moratoria antitrust sulla tratta MilanoRoma e una mobilità lunga 7 anni per i dipendenti in esubero. Misure costate al contribuente circa 2 miliardi di euro. Soltanto dopo Air France ha rilevato il 25 per cento di Cai, diventandone il player.

Al riguardo va registrato un contenzioso tra il costruttore abruzzese e la Magliana in relazione al prezzo pattuito (circa 492 milioni di euro) per la sua compagnia. Dopo un’attenta analisi sui beni, il valore del magazzino, il carico delle manutenzioni, gli oneri sociali fino a un accertamento fiscale in atto da parte delle agenzia delle entrate, le parti discutono su una discordanza vicina ai 30 milioni di euro. Che sulla carta l’imprenditore autostradale potrebbe dover restituire. Nulla, però, che metterà a rischio la permanenza di Toto o la sua fornitura di aerei. Al riguardo – e forse per prevenire contestazioni – Sabelli ha fatto scrivere a verbale in cda che questo azionista mette a disposizione le macchine «ai prezzi di mercato, se non ai migliori». Così al management non restano che tre strade: guardare alla Borsa (ma i tempi non sono quelli più adatti), fare ricorso alla leva dell’indebitamento (operazione tutto sommato sostenibile visto che l’indebitamento è legato soprattutto al leasing degli aerei) oppure velocizzare la cessione del 75 per cento in mano italiana al socio Air France. Lo statuto della compagnia prevede che fino al gennaio del 2013 gli investitori italiani non possano vendere le loro quote. Se vogliono uscire devono girarle agli altri “capitani coraggiosi” della prima ora, ma non ai transalpini. A meno che non si decida a maggioranza qualificata di far saltare il lock up e anticipare una fusione che è nelle cose. Ed è di questo che stanno discutendo Sabelli, Colaninno, il player finanziario della nuova Alitalia, il banchiere Corrado Passera, e gli emissari del Ceo dei francesi, Pierre-Henry Gourgeon. Dalla Magliana dicono questo tavolo «è perennemente aperto, ma che la maggiore difficoltà sarebbe di“estetica politica”». Difficilmente Silvio Berlusconi, dopo che nel 2008 ha fatto dell’italianità del vettore una bandiera, darebbe il via libera all’operazione. Anche valutando un’integrazione tra i due vettori sul modello British-Iberia, in grado secondo le prime valutazioni di garantire agli attuali azionisti di Alitalia una quota vicina al 10 per cento del nuovo colosso. Discorso diverso se si andasse ad elezioni anticipate, con il conseguente ribaltamento degli attuali equilibri. Eppure ai francesi conviene chiudere l’operazione prima del tempo. Vuoi perché lo farebbe a un prezzo minore rispetto a quello che pagherebbe a turn around terminato, vuoi perché le performance italiane potrebbero migliorare il conto economico di un colosso che ha perso un miliardo e

mezzo nel 2009. Perché incrociando i conti con le difficoltà seguite alla crisi, la nube del vulcano Eyjafjallajökul e gli ostacoli tipici di un turn around, le cose poi non vanno molto male alla Magliana. E andrebbero ancora meglio se il governo accetterà di riconfermare gli sgravi su oneri sociali e il risarcimento per lo stop dopo l’eruzione islandese, che da soli valgono liquidità per 40 milioni di euro. Certo, parliamo di un’azienda che è ripartita senza debiti e che ha scaricato sullo Stato passivi e 7mila dipendenti, con un conto per il contribuente vicino ai 2 miliardi di euro. E che nonostante il monopolio sulla ricca tratta Milano-Roma (giro d’affari 6,8 miliardi) ha dovuto far slittare il pareggio di bilancio di un anno, al 2012, tanto che a metà 2010 ha registrato un indebitamento pari a 769 milioni. Eppure il risultato operativo, in perdita l’anno scorso per 273 milioni, ha toccato quota -129 milioni di euro nel secondo trimestre 2010. E dovrebbe scendere a fine anno a -120 milioni di euro, contro le previsioni che fissavano un -200 milioni. Sempre a metà anno i ricavi sono saliti a 1,48 miliardi, mentre nel terzo trimestre, quando gli italiani vanno in vacanza, si dovrebbe arrivare al miliardo, cifra capace di attutire i bassi incassi del periodo invernale. Nei primi sei mesi sono saliti a 10,6 milioni i passeggeri trasportati, con un+ 3 per cento rispetto al primo semestre 2009. Mentre nello stesso lasso di tempo il load factor, il livello di riempimento dei velivoli, è cresciuto fino al 68 per cento (+9,3 punti) e l’indice di regolarità è stato del 99,6 per cento e quello della puntualità del 82,5 (+11). Ma sono due le cifre che inorgogliscono Sabelli e che lo rincuorano ogni qualvolta qualche socio gli rinfaccia che nel piano Fenice l’ebit per il 2010 doveva essere a -72 milioni: il livello del costo del lavoro per 14mila dipendenti che pesa sul bilancio è minore del 9 per cento (un terzo rispetto ai grandi concorrenti); in cassa sono presenti 500 milioni tra incassi e linee di credito non utilizzate per 200 milioni. Soldi, impensabili per la vecchia Alitalia, che quanto meno garantiscono la gestione ordinaria anche per il prossimo anno. Rispetto al passato bassa è anche la conflittualità. Vuoi per la crisi, vuoi perché molti dei piloti non riassorbiti dalla vecchia compagnia hanno trovato altrove lavoro, come dimostra la scelta dell’Emirates di fare a Milano la selezione per 300 assunzioni. Ma la situazione potrebbe peggiorare in autunno.Tra i sindacati si guarda ai livelli occupazionali tra i lavoratori di terra, circa 9500, forse


politica

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annunciato nel cda di luglio, a margine dell’approvazione della trimestrale che il grosso dei 60 milioni da investire a fine 2010 andranno per il rinnovamento della flotta. La quale, nonostante 159 aeromobili complessivi, ne ha soltanto 20 destinati al lungo raggio contro i 139 di breve e medio raggio. Non bastano certamente la trentina tra A330 e A320“affittati”da Carlo Toto, ma servono gioielli come l’Airbus 380 o il Boeing 787 Dreamline, costosissimi e dai lunghi tempi di consegna. Senza dimenticare un know how che la nuova Alitalia non ha più.

troppi per questa Alitalia. Di più, gira una voce che potrebbero esserci 800 esuberi nel comparto, e che è stata legata anche alla volontà dell’azienda di superare i conflitti sorti con la Cgil prima dell’estate. Al di là del ricorso alla cassa integrazione e della mancata conferma degli stagionali tipica del periodo invernale, l’azienda ha progetti meno bellicosi. Cioè quello di recuperare produttività tra questi lavoratori, accusati di garantire i livelli dei piloti e degli assistenti di volo. Di conseguenza – e sul modello Pomigliano – si starebbero studiando meccanismi per una migliore turnazione e per ridurre l’assenteismo. Il problema, quindi, sta tutto negli investimenti per riposizionare una compagnia, nata sull’idea che si potesse campare di rendita blindando la ricca rotta Milano-Roma e intascando le alte royalties riconosciute da Air France per il traffico venduto in code sharing. Un primo passo nella direzione giusta è stata aver ricollocato il marchio Air One in uno smart carrier, unendo vocazione più turistica, offerte per una clientela giovane e servizi a valore aggiunto che le low cost non possono dare come le partenze dal Terminal 1 di Malpensa. Ma non basta perché in due anni il mercato italiano dei trasporti ha vissuto una rivoluzione copernicana. Spiega Oliviero Baccelli, economista e vicedirettore del Certet della Bocconi: «Ci sono due fattori che hanno modificato il quadro competitivo. Intanto la concorrenza che sulla Milano-Roma oggi fa l’alta velocità (controlla il 45 per cento del mercato,

Sabelli e Colaninno hanno bisogno di risorse per gli investimenti sul lungo raggio. Così si studia come anticipare l’integrazione tra la Magliana e il vettore francese. Ipotesi che piace a tutti i soci “patrioti”, ma non a Palazzo Chigi. Contenzioso con Carlo Toto sul prezzo pattuito per AirOne

ndr), con le ferrovie entrate in maniera massiccia in questo campo rispetto a quanto pensavano in Alitalia nella fase progettuale. Eppoi bisogna fare i conti con un prezzo dei biglietti aerei sceso in media del 20 per cento». La leva è nel lungo raggio. L’unico che in questa fase può garantire margini a una compagnia con 14mila dipendenti. Sabelli lo sa bene visto che vuole annunciare già prima delle fine dell’anno i nuovi collegamenti per Shanghai e per Rio, per poi ritornare in India. Anche a costo di rallentare i rafforzamenti che pure ci saranno sul point to point (per esempio verso Minsk) o sulla flotta regionale. In questa logica aiuta l’accordo stretto lo scorso 7 luglio con Air France-Klm e Delta Air Lines per combinare sulle tratte transatlantiche i servizi di biglietteria come le tariffe, così come le intese di codesharing strette con China Air. Ma seppure aiuta muoversi all’interno dell’alleanza di Sky team per guardare al Far east, servono nuovi aerei. Tanto che l’Ad di Alitalia ha

«Per i grandi vettori intercontinentali», sottolinea Baccelli, «sono centrali le attività del cargo, che la nuova Alitalia ha girato ad Air France, e le sinergie con gli aeroporti. Allo stato attuale Fiumicino non è ancora in grado di fornire i servizi necessari». Al riguardo è emblematico che quest’estate non si sono ripetuti i drammatici ritardi nella riconsegna dei bagagli di un anno fa, soltanto perché l’Adr, la società di gestione dello scalo romano, ha coordinato in prima persona le attività e perché l’ex compagnia di bandiera ha selezionato meglio le aziende alle quali subappaltare le operazioni di handling. Eppoi c’è da fare i conti con la qualità dell’offerta di una flotta vecchia. Soltanto in prossimità dell’estate si è portato a termine il programma di rinnovamento delle cabine di medio raggio e il rivestimento in pelle delle poltrone. Senza contare che le degustazioni di cibi ricercati a bordo lanciata sotto la spinta dell’ex ministro delle Politiche agricole, Luca Zaia, è stata bloccata dal suo successore Giancarlo Galan per l’esoso costo (6 milioni di euro). Molto scalpore ha fatto la notizia che sui voli di medio raggio il vettore non fornisse più quotidiani. E la toppa messa da Sabelli – una convenzione con testate che garantivano copie omaggio come il Giornale, Libero e il Riformista – ha fatto gridare allo scandalo perché viaggiare sull’ex compagnia di bandiera comportava leggere soltanto quotidiani graditi al premier. Ma dove c’è maggiore terreno da recuperare è sul versante commerciale (che è stata rimodulata su quattro classi) come quello del marketing. E se il nuovo sito è partito soltanto nello scorso luglio, i tour operator vanno su tutte le furie quanto sentono Sabelli vantarsi che la sua Alitalia non è più quel vettore «considerata da molti, non soltanto dai vip, una compagnia cui si poteva chiedere tutto, favori, biglietti e avanzamenti di classe senza pagare». Dal mondo del turismo lamentano che alla Magliana pretendono gli incassi ogni sette giorni e non più mensilmente. Non si comprende la fine degli sconti sulle tratte di feederaggio o la scarsa duttilità mostrata quando si chiede di poter gestire più biglietti come si fa con un charter. A dirla tutta questo è un vecchio problema, nato nel 2003 quando l’allora amministratore delegato Pier Francesco Mengozzi tagliò le commissioni per i tour operator. Ma la cosa non sembra spaventare più di tanto la Magliana, dove si fa notare che se si è avuto un aumento dei ricavi, è proprio perché non si fa sconto a nessuno.


panorama

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Petardi dei centri sociali contro il leader della Cisl che lascia la manifestazione senza parlare

Aggressione a Bonanni Lancio di fumogeni alla festa del Pd. Bersani: «È squadrismo» di Francesco Lo Dico

TORINO. Ennesimo episodio funesto, alla festa del Pd di Torino. Stavolta tocca al segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, raccogliere il testimone della contestazione dal presidente del Senato, Renato Schifani. Arrivato a piazza Castello per tenere un dibattito, il sindacalista si è trovato in mezzo a una gragnola di insulti, fischi, urla, lanci di banconote finte da cinquanta euro e fumogeni, tanto da essere costretto a lasciare la manifestazione senza parlare.

Secondo la ricostruzione di alcuni presenti, nel corso dei tumulti, Bonanni è stato raggiunto da un fumogeno proveniente dalla folla, che per fortuna lo ha lasciato indenne spegnendosi su un lembo del suo giubbotto. «Sono frastronato, ma sto bene - ha fatto sapere il leader della Cisl - Sono stato vittima di un’aggressione incivile e squadrista da parte dei centri sociali di Torino. Un’aggressione che nulla ha a che fare con il confronto democratico e con la politica». Uno dei contestatori ha informato che il gruppo che ha fischiato Bonanni era composto da operai ’’anche di Mirafiori’’, da precari e da studenti. Ma secondo le forze dell’ordine si tratterebbe di esponenti dell’area antagonista. La polizia è intervenuta ma non ci sono stati tafferugli. Purtuttavia l’incidente occorso a Bonanni non ha scoraggiato la protesta, che è proseguita anche in seguito all’abbandono della sala Bobbio da parte del sindacalista. «Il denaro è un buon servo e un cattivo padrone», hanno continuato a scandire in manifestanti, che esponevano anche alcuni striscioni in grado di riassumere in maniera sapida il movente della contestazione: «Marchionne comanda e Bonanni obbedisce». La spiacevole accoglienza riservata a Bonanni dagli ospiti

della festa piddina, è stata duramente riprovata dal vicesegretario democratico Enrico Letta: «Voi non avete niente a che fare con la democrazia. Siete il contrario di cui ha bisogno il Paese. Siete antidemocratici», ha gridato ai manifestanti. Ma Letta ha poi adombrato dietro ai lievi disordini qualche responsabilità delle forze dell’ordine: l’episodio è frutto di una «responsabilità gravissima della questura. Ciò a cui abbiamo assistito è gravissimo, è l’espressione del rifiuto della democrazia e ritengo che siano stati compiuti reati molto gravi». Ancora più esplicito, il vicesegretario ha denunciato «assolute falle nel servizio di sicurezza. Non essere in grado di gestire la situazione dimostra che la cosa è sfuggita di mano». Dopo

voratori e del paese». Non più tardi di ieri. Bonanni aveva manifestato il proprio favore verso la decisione di Federmeccanica di disdire il contratto dei metalmeccanici, che secondo il sindacalista «cambia in meglio le cose perché esaurisce il vecchio contratto e applica prima il nuovo». Parole che avevano incassato l’alto gradimento di Emma Marcegaglia, secondo la quale «la disdetta è una questione tecnica, un atto di chiarezza». Il vero problema – aveva fatto sapere la presidente di Confindustria - è la Fiom che non accetta il cambiamento». «È ovvio che la Fiat richiedeva questa cosa per poter fare in modo che l’accordo di Pomigliano rientrasse nel nuovo contratto dei metalmeccanici – aveva spiegato la Marcegaglia – ma è una questione tecnica: siamo andati avanti su una strada che abbiamo iniziato nel 2009 e che ha subito solo un’accelerazione».

Nei giorni scorsi i grillini avevano contestato duramente il presidente del Senato Schifani. Enrico Letta: «Siete il contrario della democrazia» aver espresso ’’piena solidarieta’’’ a Bonanni, Letta ha chiesto approfondimenti sulla vicenda. «Oggi - ha aggiunto - ritengo che siano stati compiuti reati gravi e spero che si analizzi fino in fondo per capire cosa è successo». Immediata intanto, la presa di posizione della Cisl. Che in un comunicato ribadisce che Bonanni ’«è’ stato oggetto oggi pomeriggio a Torino di una contestazione violenta da parte di un gruppo di aderenti ai centri sociali di Torino. Si è trattato di una aggressione incivile e squadrista che nulla a che vedere con il libero confronto democratico, nè con il mondo del lavoro’». «Nel condannare l’episodio – prosegue la nota del sindacato – la Cisl conferma che non si farà intimidire da nessuno nella sua azione sindacale e proseguirà nella sua linea di responsabilità e riformatrice nell’interesse dei la-

E a sua volta, Bonanni aveva attaccato anche la Fiom: «I metalmeccanici della Cgil conoscono solo le loro regole. Secondo la Fiom noi dovremmo convivere esclusivamente con le sue imposizioni e i suoi veti senza alcuna capacità nostra di interloquire con gli altri», aveva notato il sindacalista. Che aveva però auspicato che la Cgil rientrasse in partita.

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio l destino politico di Gianfranco Fini è (quasi) tutto scritto nel libro di Enzo Palmesano inequivocabile fin dal titolo: Gianfranco Fini. Sfida a Berlusconi (Aliberti editore). Ma chi è Palmesano? «Io non sono un giornalista qualsiasi, uno dei tanti che avrebbero potuto scrivere un libro su Gianfranco Fini». E ha ragione. Perché Palmesano è quello dell’“emendamento Palmesano” ossia il documento di condanna dell’antisemitismo e delle leggi razziali approvato al congresso di Fiuggi il 27 gennaio 1995 quando veniva al mondo la destra post-fascista di An. Quel documento che diede credibilità alla “svolta di Fiuggi” fu in origine mal visto dallo stesso Fini che, però, poi lo digerì e lo fece mandare giù ai suoi colonnelli.

I

Non poteva esserci giornalista più giusto di Palmesano, che per anni ha lavorato al Secolo d’Italia ed è stato, da «fascista di sinistra», direttore del Roma, per scrivere questa sorta di “Fini visto da vicino” o una “biografia critica”che prima della “rottura finale tra Berlusconi e Fini”, prima dell’espulsione dei triumviri dal Pdl e prima della nascita dei gruppi autonomi, prima di tutto e di tutti aveva già descritto l’intera parabola di Fini “dalla leadership del Pd al fi-

Il romanzo della sfida di Gianfranco nismo debole” e ne aveva tratto le conclusioni: o Fini crea “una sua formazione politica” oppure tira a campare nella tranquillità del “finismo debole” e imbocca così la strada dell’“eterno ritorno verso l’almirantismo”. Come ha messo in luce Giuliano Ferrara, la “conversione” di Fini è seria anche e proprio perché per diventare un leader istituzionale accettato non ha esitato da destra a adottare idee e sensibilità di sinistra. Palmesano, non senza malizia, fa notare che c’è stato un tempo in cui Fini fu un acerrimo nemico del finismo e che la svolta di Fini nasce quando l’ex delfino di Almirante capisce che, anche dopo il Predellino, non è destinato a essere il delfino

di Berlusconi. Non è un caso se in quella che è la “Bibbia del finismo” ossia il libro Il futuro della libertà Fini non cita mai, ma proprio mai, Silvio Berlusconi. Eppure, in quel “manifesto politico” del presidente della Camera c’è un limite che Palmesano individua nella differenza stessa della destra italiana rispetto alla destra di Sarkozy: la destra francese è figlia dell’antifascismo, quella italiana del neofascismo. La “nuova creatura” di Fini - la “destra dei diritti” e del “patriottismo costituzionale” - è una sorta di “destra immaginaria” che già Pino Rauti cercò di realizzare ma senza un concreto successo perché nella storia italiana si torna sempre al punto di partenza: l’equiparazione tra destra e fascismo.

In fondo, sembra suggerire Palmesano, la sfida di Fini a Berlusconi è la sfida di Fini con se stesso: la nascita di una destra anticomunista e antifascista e che questa “nuova creatura” venga al mondo in opposizione al Cavaliere che “sdoganò” la fiamma tricolore del Msi è solo l’ennesima capriola della intricata storia italiana. Una sfida che è appena cominciata.


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Oggi, intanto, nella cittadina toscana avrà vita la prima sessione della scuola di formazione politica

Verso la “festa della Nazione” Pronto a Chianciano il laboratorio di idee dell’Udc per superare la crisi del bipartitismo di Franco Insardà

ROMA. I riflettori della politica italiana nel fine settimana saranno puntati su Chianciano dove inizia domani la tre giorni dell’Udc . Sarà un “Laboratorio delle idee”, caratterizzato dallo slogan “Verso il Partito della Nazione”. Un progetto che l’Udc ha messo in campo da tempo e sul quale sta lavorando per costruire un’alternativa politica nella quale possano riconoscersi i moderati cattolici e liberali e che possa unire il Paese. I lavori saranno aperti dalla relazione del segretario nazionale dell’Udc, Lorenzo Cesa. Poi Ernesto Galli della Loggia, professore di Storia contemporanea all’università Vita-Salute San Raffaele e politologo, Mauro Magatti, professore di Sociologia alla Cattolica di Milano, Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte Costituzionale, Luigi Frati, rettore della Sapienza, si confronteranno, moderati da Francesco D’Onofrio, sul tema: “L’Italia dalla Prima repubblica al bipartitismo: radiografia di una crisi”. Sul tappeto, i guasti prodotti da un bipolarismo mastodontico negli ultimi quindici anni, un progetto politico ormai del tutto distante dalla volontà dei cittadini, che da tempo ormai hanno dimostrato rilevante consenso verso una scena politica assai più articolata, nella quale il Centro giocherà un ruolo sempre più determinante. Nel pomeriggio è previsto l’intervento del presidente del Senato, Renato Schifani. La discussione continuerà con Dario Franceschini, presidente del gruppo Pd alla Camera, Ciriaco De Mita, con il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola e con Fabrizio Cicchitto, presidente del gruppo Pdl alla Camera. I lavori saranno presieduti dal presidente della Costituente di Centro, Savino Pezzotta. La giornata di sabato avrà come tema di discussione “Al centro la responsabilità nazionale”. Un meeting che ha nel titolo il richiamo a una politica in grado di tornare a governare davvero in funzione degli italiani, che assediati dalla crisi e da un mercato del lavoro sempre più feroce, attendono ancora un segnale da questa legislatura che li ha sistematicamente ignorati in nome di insostenibili baruffe interne che lasciano il Paese in una condizione di abbandono. L’incontro della mattina alle ore 10, presieduto da Ferdinando Adornato, coordinatore della Costituente di Centro, avrà come protagonisti Andrea Riccardi, professore di Storia contemporanea alla Terza Università di Roma e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Stefano Zamagni, presidente dell’Agenzia delle Onlus, il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, il filosofo Massimo Cacciari, il costituzionalista Michele Ainis e il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso.

te del gruppo Udc al Senato, Gianpiero D’Alia e di Giuseppe Fioroni, deputato del Pd. I lavori pomeridiani saranno coordinati da Rocco Buttiglione. L’appuntamento di Chianciano si chiuderà domenica mattina. Dopo la Santa messa delle 9,30 e una serie di contributi sul tema, alle 11,15 è previsto l’intervento di chiusura di Pier Ferdinando Casini, intervistato dal direttore del tg della 7, Enrico Mentana.

Domenica mattina Pier Ferdinando Casini (intervistato da Enrico Mentana) chiuderà la kermesse che punta a definire i contorni del percorso verso il nuovo Partito

Ecco il programma giorno per giorno Venerdì 10 settembre: (ore 10.30) Lorenzo Cesa introduce il tema «L’Italia dalla Prima Repubblica al bipartitismo, radiografia di una crisi». Intervengono: Luigi Frati, Ernesto Galli della Loggia, Mauro Magatti, Piero Alberto Capotosti. Presiede: Francesco D’Onofrio. (ore 16.00) Intervengono: Andrea Riccardi e Stefano Zamagni. (ore 16.30) Intervento di Renato Schifani. (ore 17.00) Intervengono: Ciriaco De Mita, Nichi Vendola, Dario Franceschini, e Fabrizio Cicchitto. Presiede: Savino Pezzotta. sabato 11 settembre (ore 10.00) «Al centro della responsabilità nazionale». Intervengono: Raffaele Bonanni, Michele Ainis, Pietro Grasso. Presiede Ferdinando Adornato. (ore 16.30) Intervento di Francesco Rutelli. (ore 17.00) Interventi di: Roberto Formigoni, Italo Bocchino, Giuseppe Pisanu, Giuseppe Fioroni, Massimo Cacciari, Gianpiero D’Alia. Presiede: Rocco Buttiglione. domenica 12 settembre (ore 11.15) Enrico Mentana intervista Pier Ferdinando Casini.

Nel pomeriggio, alle 17, sarà la volta del presidente della regione Lombardia, Roberto Formigoni, di Giuseppe Pisanu, presidente della commissione antimafia, del leader dell’Alleanza per l’Italia, Francesco Rutelli, del presidente del gruppo Futuro e Libertà alla Camera, Italo Bocchino, del presiden-

Qui sopra, due scorci dell’edizione dello scorso anno della «festa» dei centristi, programmata sempre a Chianciano. In alto, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini

Intanto oggi il Pala Montepaschi di Chianciano ospiterà la prima sessione della scuola permanente di formazione politica centrista denominata “Generazioni in formazione. Un Ponte sul Futuro”, curata da Enzo Carra e dalla responsabile Anna Paola Sabatini. Una serie di seminari e laboratori nei quali saranno impegnati circa trecento giovani provenienti da ogni parte d’Italia, che approfondiranno i temi economici, sociali ed etici, le dottrine politiche, la legge elettorale, il federalismo e la comunicazione politica. Al termine del corso verranno rilasciati attestati di partecipazione, in vista delle prossime iniziative della scuola che culmineranno con l’assegnazione, per i più meritevoli, di borse di studio per la frequenza a master universitari sulla formazione politica. Anche questa un’iniziativa doverosa e quanto mai auspicabile, che cerca di riavvicinare alla politica attiva le nuove generazioni sempre più sconcertate dall’immane saccheggio operato a loro danno in ambito scolastico e universitario. E un modo concreto per riportare sotto l’ombrello della politica responsabile, centinaia di giovani sempre più sfiduciati. «In questa fase di profonda diffidenza verso la politica e di forte disorientamento della società ha spiegato il segretario nazionale Lorenzo Cesa ci è sembrato doveroso ripartire proprio dalla formazione, per contribuire a creare una nuova generazione di politici giovani e preparati, che sappiano agire in modo etico e responsabile nell’interesse dei cittadini e del Paese». Tra i relatori figurano esponenti politici bipartisan come Enrico La Loggia (Pdl), Pino Pisicchio (Api) e Roberto Zaccaria (Pd), parlamentari dell’Udc, professori universitari, ma soprattutto molti giovani rappresentanti dell’Udc sul territorio nazionale. Nelle vesti di semplici osservatori, invece, i massimi dirigenti nazionali del partito, a partire da Pier Ferdinando Casini e Lorenzo Cesa.


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ario Martone che tra un’aperitivo e un applauso al festival di venezia definisce Giuseppe Mazzini ”un terrorista” non è originale. A voler prescindere dalla pubblicistica e dalla storiografia antiunitaria e neoborbonica qualche anno fa era stato lo storico francese Pierre Milza a parlare del padre del repubblicanesimo italiano più o meno negli stessi termini: «A mio avviso - diceva Milza illustrando alcuni temi contenuti nella sua allora ancora inedita Histoire de l’ Italie - Mazzini può apparire come il padre del terrorismo italiano. Il fenomeno delle Brigate rosse, con i gruppi contigui, è nato dalla disperazione e dai sogni impossibili di giovani provenienti dal marxismo e dal cattolicesimo radicale. Ma c’ è anche una tradizione mazziniana di spirito terroristico. Durante i colloqui organizzati a Science-po, alcuni fuoriusciti italiani, come Oreste Scalzone, esclamavano: ”Siamo i figli di Mazzini». Anche Alì Agca diceva di essere Gesù Cristo durante il processo per l’attentato a Karol Wojtila ma non per questo s’è ricostruita una genealogia ideologica tra i due. Insomma già il fatto di chiamare a testimone della sua teoria Oreste Scalzone poteva bastare a porre qualche seria ipoteca alla tesi di Milza. Ma c’è qualcosa che zoppica anche dal punto di vista della logica storica nella sua ipotesi.

M

Lo storico francese proclama infatti che i terroristi italiani provenivano dal marxismo e dal cattolicesimo radicale e, al tempo stesso, che Mazzini può apparire padre del terrorismo italiano. Peccato gli faceva notare in tempo reale Maurizio Viroli che «Marxismo e cattolicesimo radicale erano le due ideologie che Mazzini combatté per tutta la vita e la sua idea politica era esat-

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Per fare battage al suo film sul Risorgimento presentato a Venezia, Mario Mar

MAZZINI

ma quale terrorista, e di Riccardo Paradisi

tamente l’ opposto dell’ uno e dell’ altro». Nei testi di Mazzini peraltro non viene mai esaltato il terrorismo, né è possibile considerare il teorico del repubblicanesimo italiano come un cattivo maestro alla Toni Negri, per dire. Non solo perché Mazzini era abituato a pagare di persona, con l’esilio e la persecuzione, ma perché la sua non era un’offensiva terroristica bensì una guerra di liberazione nazionale.

Scalzone e i suoi amici dunque, che si paragonavano agli esuli del Risorgimento e ai fuorusciti italiani in Francia fra le due guerre, non avevano evidentemente ben chiara la differenza tra irredentismo e sovversione. E comun-

Sostenere che l’autore Dei Doveri dell’uomo, il fondatore della Giovane Italia sia stato un cattivo maestro come Toni Negri significa o non conoscere lui, le sue idee, la sua predicazione o non conoscere che cosa è stato e cosa è il terrorismo que non basta eleggersi eredi di qualcuno per esserlo davvero. Si chiama sempre in causa l’attentato fallito di Felice Orsini contro Napoleone III del 1858, (attentato fallito – Napoleone III resta illeso – ma che costa la vita a dodici persone) per addossarne la paternità a Mazzini. Peccato che Orsini con Mazzini avesse già rotto e che Mazzini stesso ebbe a deprecare quell’azione scriteriata, che non aiutava la causa della guerra d’indipendenza nazionale. Azione maturata nella testa di Orsini anche come atto d’accusa per il presunto tradimento di Mazzini verso la Carboneria. A dare del terrorista a Mazzini ci pensò anche Bettino Craxi. Nel 1985, alla Camera dei deputati, di-

fendendo le ragioni dei palestinesi il segretario socialista paragona Yasser Arafat a Mazzini: «Anche lui organizzava attentati e portava la mano omicida contro il tiranno». Giorgio La Malfa se lo ricorda bene quell’intervento visto che era diretto contro di lui e i repubblicani che invece della politica palestinese non condividevano nulla. «Craxi comprendeva e sosteneva le ragioni del terrorismo palestinese – dice a liberal La Malfa – perché gli israeliani avevano torto. Opinioni, per carità, però a me sembra che l’uso di questa logica sia scivoloso, porta al grado zero morale e culturale per cui nessuno è terrorista e tutti sono terroristi. Craxi era armato da un’intento polemico, non so cosa armi il regista Martone contro Mazzini, temo una grande superficialità o l’astuzia elementare di fare battage per il suo film. Certo – ammette La Malfa – Mazzini mandava i suoi compagni a morire ma non è che con questo era diventato un terrorista: agiva nella costruzione di un grande ideale nazionale che era l’Italia unita. È che questi registi italiani si limitano a leggere i giornali, non affinano i concetti. Poi c’è l’intento commerciale e non mi sorprende che certe sparate ab-


il paginone

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rtone usa la vecchia polemica sul terrorismo presunto di quello che una volta era un ”Padre della patria”

Un’accusa senza fondamento, secondo gli storici. Per Maurizio Viroli si tratta di ignoranza o malafede, per Mauro Canali di anacronismo, Giovanni Belardelli parla invece di superficialità. A Giorgio La Malfa l’Italia fa l’impressione d’un Paese che ormai sembra avere perduto la testa. Dove tutto si confonde

era un patriota

biano i loro effetti. Questo è un paese dove ormai si affastella tutto, è un Paese che ha perso la testa». Guerra liberazione nazionale dunque. Persino gli hindu indipendentisti coltivavano un culto nei confronti di Mazzini. Geminello Alvi nel suo Uomini del Novecento (Adelphi) ha ricordato la devozione per lui di un grande leader dell’indipendentismo indiano e di un grande yogi come Sri Aurobindo. Ed erano numerose le simpatie che legavano gli hindu in lotta contro il colonialismo inglese ai “profeti” del Risorgimento italiano. Terroristi anche loro? Terroristi tutti gli indipendentisti? Certo, come ha ricordato Canfora erano i marxisti a criticare le azioni violente dei mazziniani: «Marx derise il carbonarismo e «Senza Patria, voi non avete direttamente o indirettamente influenzò né segno, né voto, la maturazione di Mazzini attraverso la né diritti. Siete i bastardi formazione della Prima Internazionadell’Umanità… Non le», ma non è paragonabile quello che otterrete fede né protezione. hanno fatto i marxisti dopo la predicazione leninista con le azioni esemplari Dove non è patria non è delle compagnie della buona morte patto comune al quale possiate richiamarvi: regna mazziniana. Non solo per la vastità e la qualità delle violenze ma perché i primi solo l’egoismo degli volevano la dittatura del proletariato e i interessi, secondi l’indipendenza nazionale. e chi ha predominio «Intendiamoci – chiarisce Giovanni Belo serba». Così scriveva lardelli che a Mazzini ha dedicato un liGiuseppe Mazzini bro recente (Mazzini, il Mulino) – il no(interpretato nel film di non era contro la violenza politica. Martone da Toni Servillo qui stro Negli anni sessanta lo invitarono a un sopra) uno dei padri della convegno sulla pace e lui non andò, era patria assieme a Camillo convinto che le guerre d’indipendenza Benso conte di Cavour (foto si dovevano fare e le azioni che organiznella pagina accanto) e a za sono di tipo insurrezionale. Il terroriGiuseppe Garibaldi, smo però è un’altra cosa che appartiene (immagine di lato) a una tradizione politia diversa, alla tradizione anarchica per esempio. Il parallelo con l’11 settembre fatto da martone

Nei suoi testi non c’è nessuna apologia del terrorismo. Certo, non era un pacifista, ma perchè credeva nella lotta per l’indipendenza

invece è proprio assurdo». Mazzini percepisce se stesso come profeta della patria. Un profeta ma non un santo. Se le pagine Dei doveri dell’uomo profumano infatti di una religione laica fondata sul sacrificio e sul dovere, il suo nazionalismo andava oltre la semplice difesa dell’autodeterminazione dei popoli: «Era un difensore delle nazionalità, che però difendeva il diritto dei popoli europei all’espansione coloniale “civilizzatrice”– ricorda Belardelli – delineando perfino per l’Italia un destino espansionista “romano” in Tunisia e Libia». Insomma, anche l’appropriazione che di Mazzini cercò di fare il fascismo è definita da Belardelli «unilaterale, ma non del tutto arbitraria».

Una cultura politica quella di Mazzini figlia del pensiero forte quindi ma insomma niente a che vedere con le infamie di via Fani, per dire, o con con la prassi leninista del terrorismo come strategia di guerra comunista o addirittura con i macelli rituali dell’11 settembre come è arrivato a dire Martone. Mauro Canali, docente di storia dei partiti politici, che ha visto il film a Venezia, nota come Martone abbia molto calcato la mano su Mazzini «in un gioco tra passato e presente molto ardito. Uno dei personaggi incarcerati, Domenico Lopresti, interpretato dall’attore Lo Cascio, parla coi suoi compagni come un brigatista rosso. Insomma un’anacronismo che non tiene conto del contesto storico, dei diversi riferimenti culturali». Del resto che Mazzini fosse un patriota più che un eversore, un riformatore morale più che un sovvertitore di stati è il pensiero stesso di Mazzini a dimostrarlo. Nell’opera del 1860 dedicata agli operai italiani, Dei doveri dell’uomo (pubblicato ora dalle edizioni Polistampa con una prefazione di Carlo Azelio Ciampi) Mazzini scrive: «Senza Patria, voi non avete né segno, né voto, né diritti. Siete i bastardi dell’Umanità… Non otterrete fede né protezione. Dove non è patria non è patto comune al quale possiate richiamarvi: regna solo l’egoismo degli interessi, e chi ha predominio lo serba». L’accusa di Mazzini terrorista, lo abbiamo detto, non è nuova, Maurizio Viroli, professore di teoria politica all’università di Pricenton, già presidente dell’associazione mazziniana, ci ricorda che essa data addirittura dal Risorgimento «quando gli veniva mossa sia dalle autorità austriache che da quelle piemontesi. Un’accusa strumentale perché sostenere che Mazzini fosse un terrorista significa o non sapere che cosa è il terrorismo o non conoscere che cosa pensava e predicava Mazzini.Che non ha mai raccomandato il terrorismo a nessuno. Mazzini aveva dell’emancipazione nazionale una concezione di liberazione basata sul dovere. E tra questi doveri c’era la lotta per l’indipendenza dai borboni e dagli austriaci che non se ne sono andati dall’Italia dopo un cordiale invito a farlo. Se se sono andati perchè qualcuno s’è sacrificato fino alla morte perché questo avvenisse. Mazzini diceva che i popoli non si emancipano con la menzogna ma con la verità. Dire che Mazzini è stato un terrorista è una menzogna, e non aiuta a fare di questo paese una nazione libera, cosciente della propria identità e della propria storia».


mondo

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Media. Freddati da uomini armati o fatti saltare in aria. I reporter iracheni sono sotto attacco e gli omicidi restano irrisolti

Stampa rosso sangue In Iraq è strage di giornalisti: dal 2003 ad oggi ne sono stati ammazzati 322. Su commissione di Luisa Arezzo iyad Assaray da cinque anni lavorava a Baghadad per la tv di Stato al Iraqiya. Martedì mattina, mentre con la sua auto stava andando nel suo studio televisivo, un commando lo ha accerchiato e freddato svuotandogli addosso il caricatore di una pistola. Ma senza far particolare rumore, visto che l’arma era provvista di silenziatore. Laureato in legge, Assaray - il primo giornalista ad essere ammazzato dopo che gli Stati Uniti hanno annunciato ufficialmente la conclusione delle di operazioni combattimento da cinque anni lavorava ad al Iraqiya, dove aveva iniziato come cronista, poi conduttore di programmi religiosi ed era di recente passato a presentare un prestigioso talk-show politico. Evidentemente scomodo. Dopo l’assassinio l’emittente irachena ha messo in onda la foto del giornalista con una banda nera in segno di lutto (così come ha fatto per l’assassinio di altri 15 suoi colleghi) e ha avviato una diretta per discutere con politici e telespettatori dell’omicidio. Diretta introdotta dal laconico commento del direttore della rete: «Questa morte non sarà certo l’ultima». Poche parole per confermare quello che in Iraq tutti sanno e che qui invece si fatica a vedere: dall’inizio della guerra, nel 2003, il paese è diventato il posto più pericoloso al mondo dove esercitare la professione di reporter. Non solo per i giornalisti stranieri, ma soprattutto per i colleghi iracheni: in otto anni ne hanno ammazzati 322. La strage arriva a 352 se si considerano anche i 30 reporter stranieri assassinati.

R

Un’interminabile striscia rossa che da anni colpisce il cuore dell’informazione irachena. Un lungo necrologio che non ha mai visto associare, al nome dell’ucciso, il nome dell’assassino. Aqeel Mohammad Rasheed Al-Janabi, direttore del quotidiano Al-Faiha, pugnalato

davanti alla soglia di casa; Ahmad Shawkat, direttore del settimanale Bila-Itjah, vittima di un commando armato entrato nella notte dentro il suo appartamento per freddarlo nel sonno; Mahdi Khashnaw, direttore di Nassree, quotidiano curdo, assassinato durante un’assemblea del partito curdo ad Arbeel. Un attentato diritto al cuore dell’informazione della piccola enclave: in quell’occasione rimasero a terra 12 giornalisti. Selwan Abdelghani Medhi alNiemi, giornalista e colpevole di aiutare il lavoro dei colleghi di Voice of America è stato fatto saltare in aria assieme a sua madre e sua figlia di 4 anni. Sua moglie, che era a casa, è stata rapita e di lei non si è saputo più nulla. Ismael Tahir Mohsin, reporter dell’Associated Press, ucciso davanti a casa sua da un uomo col passamontagna, così come Liqa’ Abdul Razzaq (una donna, e sono pochissime), volto di Al-Sharqiya Tv, colpita mentre camminava per le vie della capitale. Stessa sorte per Nasralla Al Dawoodi, direttore di Al Iraq Daily. In cinque sono morti nell’attentato alla redazione di Al Arabiya nel 2004.

Omicidi su cui nessuno sembra indagare e che restano vivi solo per il certosino lavoro svolto dal Cpj Committee to protect journalists fondata nel 1981 da alcuni corrispondenti di guerra americani e fino allo scorso anno guidata da Walter Cronkite (uomo di punta della Cbs e storico inviato durante la guerra in Vietnam) e oggi presieduta da Paul E. Steiger, managing editor del Wall Street Journal. Il loro lavoro è preciso e puntuale, ma per la triste lista dei morti in Iraq bisogna andare sulle pagine di Brusselstri-

bunal.org, un’organizzazione di giornalisti e intellettuali fondata da persone del calibro di Jacques Derrida (il filosofo francese scomparso nel 2004 e direttore di ricerca presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales) e Samir Amin, il famoso economista egiziano filo marxista. Viste le origini, la Ong è nata con l’intento di «smascherare i crimini commessi dagli Usa con l’invasione dell’Iraq», ma sulla conta dei morti è certamente il punto di riferimento degli iracheni.

Come Reporters sans Frontieres, che proprio ieri ha pubblicato un paper intitolato: The Iraq war: a heavy death toll for the media e denunciato non solo l’impunità garantita agli assassini nel 99 per cento dei casi, ma anche l’inidssolubile ed evidente legame che fa di queste morti dei certi omicidi su

Secondo l’Ipi il decennio 2000-2010 è stato il più luttuoso di sempre e il 2009 l’anno con il più alto numero di vittime: 110 commissione. La verità che si cerca di far circolare, infatti, è che la maggior parte delle vittime sia morta per una tragica fatalità: l’Iraq è luogo di guerra, terra minata per definizione, gli attentati sono all’ordine del giorno e la possibilità di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato sono altissime. Ma nella maggior parte dei casi non è così. Come abbiamo già visto, si tratta di esecuzioni mirate. Esattamente come nell’attentato più famoso di tutti, quello al Palestine hotel nell’ottobre del 2005. Il Palestine non è un luogo qualunque: è il centro nevralgico di raccolta della stampa estera ed è lì che i terroristi decisero di piazzare una betoniera imbottita di esplosivo mentre due auto bomba si lanciavano ad alta

velocità contro le recinzioni fortificate poste a difesa della strutture. L’attacco devastò l’intera hall del grande albergo, frantumando i vetri della struttura e di quelle adiacenti. Il bilancio fu di 17 morti, soprattutto giornalsiti della tv irachena Al Hurra (finanziata dagli statunitensi). Lì nessuno fu in grado di negare che si trattava di un attentato, troppo plateale l’azione e mirato l’obiettivo. Ma nessuno spende una parola per l’omicidio del giornalista Sardasht Osman.

Questo studente di lingua e letteratura inglese di 23 anni, che scriveva sotto lo pseudonimo di Dashti Othman sul giornale Ashtiname e su diversi siti indipendenti come sbeiy.com, awene.com, hawlati.info e Ivinpress.com, era stato rapito il 4 maggio scorso davanti alla facoltà di lingue dell’Università Salahadin d’Erbil da individui armati. Nessuno indagò, nonostante le denunce della famiglia che la sparizione era da collegare a un articolo che il ragazzo aveva scritto pochi giorni prima su di un alto funzionario di governo del Kurdistan iracheno. Nessuno spese un minuto di tempo per avviare un’inchiesta, nemmeno dopo che il suo corpo venne ritrovato - privo di vita - a Mossoul. Secondo i dati del rapporto an-


mondo

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Cosa significa vivere sotto una minaccia continua

Io, donna e scrittrice nell’inferno di Baghdad Kawthar al Lubede lavora a “Voices of Iraq” e ogni giorno spera di tornare a casa di Laura Giannone he sia il posto più pericoloso al mondo dove lavorare è ormai accertato. Soprattutto per i giornalisti iracheni. Perché a voler informare l’opinione pubblica a Baghdad e dintorni si rischia moltissimo: la pelle per l’esattezza. Ne sa qualcosa Kawthar al Lubede, che di rischi ne corre parecchi. Oltre ad essere donna, Kawthar vive sola, per giunta in una delle aree più pericolose di Baghdad: Dora City. Arruolata dall’agenzia di stampa Voices of Iraq per seguire le attività del Parlamento iracheno, Kawthar divide la sua vita «tra la paura e la gioia di fare il più bel mestiere del mondo». Quando hai cominciato questo lavoro? Nel 2002, sotto l’era di Saddam Hussein. Lavoravo in un settimanale pubblicato a Baghdad che si chiamava Tikrit. In quel periodo, la mia libertà era molto limitata. Eravamo continuamente sottoposti alla sorveglianza degli uomini di Saddam. La caduta del regime ha segnato ovviamente una svolta importante nella mia vita professionale. Dall’oggi all’indomani i giornalisti iracheni erano diventati liberi di scrivere ciò che volevano. Eravamo come bambini invitati a muovere i primi passi nel mondo della stampa libera. Molte sono state le cadute iniziali, ma la sete di correre era tale nella nostra categoria che nulla ci avrebbe fermato. Almeno così pensavamo sino ai primi attentati che purtroppo hanno interrotto sul nascere questa stagione di libertà assoluta. Da allora? Da allora è tornata la paura. Rispetto all’era Saddam, le fonti di pressione sono molto più diversificate e imprevedibili. Con Saddam c’era da temere soltanto - per modo di dire - gli uomini del regime, ovvero il partito unico, oggi la maggior parte dei giornalisti devono fare i conti con una molteplicità di attori che vogliono soffocare la libertà di stampa. Ovviamente i terroristi sono i primi da temere. Negli ultimi sei anni, ho ricevuto due lettere che contenevano minacce di morte, mentre una volta sono rimasta vittima di un sequestro. Il che tutto sommato è davvero poca roba rispetto ai colleghi rimasti uccisi. Quotidianamente cosa significa? Significa alzarsi ogni mattina e pregare Dio di tornare a casa sana e salva.

C

Ogni giorno impiego circa quattro ore per recarmi sul posto di lavoro e altre quattro per rincasare. Lo stesso tragitto ai tempi di Saddam mi avrebbe costato non più di 30 minuti. Quattro ore è un lasso di tempo infinito, durante il quale uno si chiede se il bus sul quale viaggia verrà colpito da un’autobomba. Non conto più le volte in cui ho sfiorato un attentato… e la morte il giorno in cui è saltato per aria il tribunale di Baghdad. Ho sentito la terra tremare, c’era sangue ovunque, un momento terribile di cui sono uscita salva per miracolo. In realtà, mi sento più sicura sul posto di lavoro. La Green Zone è un’area molto protetta, così come il Parlamento iracheno di cui copro le attività. Questo mi consente di non girare troppo in città, il che è un bene ma anche un male. Perché? Fare reportage sul terreno è il modo migliore per capire cosa sta accadendo nel paese. Io invece sono costretta a coprire i dibattiti parlamentari. A volte mi capita di andare fuori e fare dei servizi su tematiche sociali o ambientali, ma è meglio non correre troppi rischi. Detto questo, non tutto è negativo. Stare in Parlamento e vedere i nostri uomini politici confrontarsi a viso aperto mi ha fatto capire quanto essenziale sia la democrazia per il popolo iracheno. Questo nonostante la corruzione dilagante. Che cosa significa essere donna e giornalista in un paese come l’Iraq? Significa convivere con lo sguardo degli uomini, una minaccia permanente che prima non esisteva. È forse l’unica cosa che rimpiango del regime di Saddam Hussein. Se sotto la sua dittatura essere donna significava rispetto, oggi invece siamo paragonate a degli animali. Io vivo a Dora City, nel Sud di Baghdad, dove predominano Al Qaeda e le milizie di Al Madhi. Ogni volta che torno dal lavoro mi devo cambiare e mettere un vestito consono ai loro codici morali. A Baghdad le donne non possono nemmeno più contare sui poliziotti, da quando i miliziani estremisti hanno iniziato a integrare i corpi di polizia, le cose sono peggiorate. Hai visto morire molti tuoi colleghi? Diciamo che sono tantissimi i colleghi uccisi che conoscevo.

Negli ultimi 6 anni, ho ricevuto due lettere che contenevano minacce di morte e una volta sono rimasta vittima di un sequestro. Per fortuna finito bene

nuale dell’Ipi - International Press Institute - il decennio che sta volgendo a termine è stato il più luttuoso della storia della stampa mondiale e il 2009, in particolare, è stato l’anno con il più alto numero di vittime: 110 giornalisti uccisi nell’esercizio della loro professione, contro i 66 del 2008 e i 56 del 2000. Un vero decennio di morte, in cui sono caduti 735 giornalisti (al netto dell’anno in corso): 238 giornalisti sono stati uccisi in Asia, 202 in Medio Oriente e Nordafrica, 162 nelle Americhe, 68 in Europa, 53 nel resto dell’Africa e 12 ai Caraibi. Il record, manco a dirsi, spetta all’Iraq e ai suoi giornalisti, seguito dalle Filippine, dal Messico, dalla Somalia e - poco lontano - dalla Russia. Prima dell’Iraq, il record era in mano al Rwanda, quando decine di operatori del-

l’informazione morirono durante il genocidio del 1994. Cifre a cui si deve aggiungere l’intimidazione continua: perché l’Iraq è un mondo dove l’ideale del “giornalista sentinella”, difensore civico della collettività, e quello del cittadino informato, consapevole attore della realtà, sono costantemente insidiati. Un dato per tutti: nell’ex “regno”di Saddam almeno 871 reporter sono stati fermati, 1472 aggrediti o minacciati, 912 media censurati e 56 giornalisti sono stati rapiti. Di loro non si ha più nessuna notizia. Di ognuno di loro si conosce nome e cognome, ma agli occhi dell’opinione pubblica internazionale l’unico giornalista iracheno che si ricordi è Muntazer al-Zaidi: l’uomo che lanciò la sua scarpa contro il presidente Bush.

Sopra, il giornalista iracheno Muntazer alZaidi: l’uomo che lanciò la sua scarpa contro il presidente Bush durante una conferenza stampa nel 2008; in apertura: l’immagine adottata dall’Onu in occasione della giornata per la libertà di stampa per denunciare la strage dei giornalisti; a sinistra: l’hotel Palestine di Baghdad, sede della stampa straniera


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Iran. L’ultimo appello viene da una risoluzione dell’Europarlamento l mondo festeggia un primo successo nel caso di Sakineh Mohammadi Astieni, condannata per adulterio e omicidio alla lapidazione: la pena, infatti, è stata sospesa su ordine del capo dell’autorità giudiziaria iraniana e non sarà applicata, almeno per il momento. Lo ha dichiarato ieri Vahid Kazemzadeh, membro della Commissione per i diritti umani, un organismo semi-ufficiale che dipende dal capo dell’autorità giudiziaria iraniana. Kazemzadeh, che ha quindi confermato quanto già annunciato dal ministero degli Esteri di Teheran, ha spiegato all’agenzia Fars di aver visitato in carcere Sakineh. Questa avrebbe negato «qualsiasi maltrattamento e tortura» e si sarebbe detta “sorpresa” dalla diffusione di notizie in base alle quali avrebbe «ricevuto colpi di frusta dopo la pubblicazione su un quotidiano britannico della foto» di una donna senza velo erroneamente attribuita a lei. È stato il figlio di Sakineh, Sajjad Ghaderzadeh, a denunciare nei giorni scorsi la nuova condanna a 99 frustate inflitta alla madre, aggiungendo che almeno da due settimane gli è impedito di incontrarla. Ma anche questa denuncia è stata smentita da Kazemzadeh, secondo il quale Sakineh avrebbe «affermato di incontrare tutte le settimane i figli Farideh e Sajjad». Kazemzadeh ha infine affermato che la donna avrebbe anche attaccato il suo ex avvocato, Mohammad Mostafaei, fuggito da alcune settimane in Norvegia: «Ha detto di non aver mai incontrato Mostafaei, che pubblica senza il suo consenso informazioni che la disonorano». Parole di prammatica, una difesa d’ufficio prevedibile da cui va estrapolata la verità: che, per

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Sakineh, il mondo ha fermato il boia Il regime di Teheran: «Lapidazione per ora bloccata, decideranno i giudici» di Vincenzo Faccioli Pintozzi

giose dell’Iran ha spiegato come mai nel Paese la polizia continua ad arrestare e minacciare giornalisti e avvocati difensori dei diritti umani, decine di professori universitari vengono licenziati e gli studenti riformisti vengono picchiati. Il motivo è semplice: «Nell’islam non vi è posto per democrazia, libertà e diritti umani». E non

Ma dalla città santa di Qom, l’imam che guida il presidente avverte: «La nostra religione non è fatta di diritti umani: è contro il male» ora, Sakineh non verrà lapidata. Ma questo non toglie che siano ancora a rischio lapidazione decine di altre donne, nel Paese, di cui il mondo ignora la situazione. Per non parlare delle migliaia di dissidenti e attivisti dell’Onda verde che languono nelle carceri del regime islamico, colpevoli di aver osato sfidare il presidente Mahmoud Ahmadinejad e la sua rielezione fasulla. Ed ecco che assume molto rilievo il discorso con cui, ieri, una delle massime autorità reli-

lo dice qualche fomentato pastore della Florida, ma Mesbah Yazdi, religioso dei Talebani sciiti, in un discorso riportato dal sito iraniano roozonline.com. Parlando a gruppi paramilitari, soldati e seguaci, egli ha sottolineato che l’Iran «non è un luogo in cui indietreggiare per motivi culturali contro coloro che promuovono la corruzione». E in un velato accenno al caso di Sakineh e a tanti altri, ha aggiunto: «Le persone deviate dal punto di vista morale o sessuale, e i promo-

Il “lider maximo” parla in difesa di Israele

E Castro sgrida il regime Fidel Castro critica Mahmoud Ahmadinejad esortandolo a smetterla di negare l’Olocausto e a diffamare gli ebrei. In una lunga intervista con Jeffrey Goldberg, della rivista americana The Atlantic, il “lider maximo”sottolinea che gli ebrei «vengono diffamati da oltre duemila anni. Credo che nessuno al mondo - osserva Castro - abbia ricevuto lo stesso trattamento riservato agli ebrei. Sono stati attaccati molto più che i musulmani. Sono stati sempre accusati di tutto. Nessuno ha mai addebitato ai musulmani ogni male. Gli ebrei hanno vissuto un’esistenza molto più difficile di qualunque altro. Non c’è niente a confronto dell’Olocausto». Secondo il padre della rivoluzione cubana, 84 anni appena compiuti, il governo di

Teheran servirebbe meglio la causa della pace riconoscendo “l’unicità” della storia di Israele e provando a capire meglio perché Israele teme per la sua sopravvivenza. Castro ha quindi raccontato come da piccolo ha scoperto il concetto dell’antisemitismo: «Avevo 5 o 6 anni ed era venerdì santo. Quel giorno sentivo dire che Gesù era morto e che ad ucciderlo erano stati gli ebrei. Pensate quanta era l’ignoranza popolare». L’Iran dovrebbe capire, ha proseguito Castro, «che il popolo ebraico è stato cacciato dalla sua terra e perseguitato in modo terribile in tutto il mondo per oltre 2000 anni. Sono sopravvissuti grazie alla loro cultura e alla loro religione, due elementi che hanno tenuto loro insieme, uniti».

tori di ogni altro tipo di corruzione, devono essere soppressi». Mesbah Yadzi è membro dell’Associazione dei maestri del Centro teologico di Qom (Jame Modaresin Hoze Elmie Qom) e grande sostenitore di Ahmadinejad. «Quando un presidente riceve la conferma del supremo leader – ha detto – obbedire a lui è obbedire a Dio». Una simile visione fondamentalista spiega quanto succede in Iran, dove nei giorni scorsi a Shiraz, decine di studenti - seguaci dell’ayatollah riformista Dastgheib, contrario alla rielezione di Ahmadinejad – sono stati picchiati nella moschea di Qoba. Gli attivisti democratici sono preoccupati anche del licenziamento di 40 professori dell’università di Teheran, avvenuto da marzo ad oggi. Gli attivisti condannano l’allontanamento dei professori come una “pulizia politica” delle facoltà all’origine del movimento dell’Onda verde, critica dei risultati elettorali dell’anno scorso.

Il ministro della Scienza, Kamran Daneshjoo ha dichiarato che le università non tollereranno professori che non sono «in sintonia con il regime della Repubblica islamica». Il leader religioso sciita ha anche accusato di essere “nemici di Dio” [mohareb] tutti coloro che si oppongono alla Repubblica islamica dell’Iran e alla presidenza di Mahmoud Ahmadinejad. Ne hanno fatto subito le spese l’attivista per i diritti umani Shiva Nazar Aharim editore sito web “Comitato per i diritti umani dei reporter”. Shiva, arrestata il 14 luglio del 2009, a oltre un mese dalla rielezione di Ahmadinejad, è stata liberata su cauzione il 23 settembre dello stesso anno. È stata arrestata di nuovo il 20 dicembre scorso e accusata di essere “mohareb”, un’accusa molto grave. Il suo processo era atteso in questi giorni. Un’altra personalità che è stata accusata di essere “mohareb” è Badrolssadat Mofidi, segretario generale dell’associazione dei giornalisti iraniani, condannato di recente a sei anni di prigione e al divieto di fare attività giornalistica per cinque anni. Ma i leader dell’Occidente illuminato, e le star del mondo del cinema e dello sport, di questi altri poco sanno. E forse poco vogliono sapere, perché un conto è una - vera o finta adultera, che rischia una fine orrenda; altro è chi si oppone a un regime ricco di petrolio e con l’atomica a disposizione.


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L’indagine interna punta il dito contro altri colossi del cemento

Dal Vaticano a Hillary Clinton, bocciata la proposta evangelica

Bp all’attacco: «Ci sono altri responsabili per il disastro»

Condanna globale per il rogo del Corano

NEW YORK. In un rapporto in-

NEW YORK. Dopo l’allarme

terno, il gigante petrolifero Bp indica se stesso, altre società, e una serie di fallimenti meccanici come i colpevoli dell’esplosione nel Golfo del Messico della piattaforma “Deepwater Horizon” per la trivellazione in alto mare. Il rapporto di 193 pagine pubblicato sul sito web della società, oltre a non risparmiare accuse ai propri dipendenti spiega che l’incidente è stato causato da una complessa serie di fallimenti meccanici e da decisioni umane rivelatesi fallimentari. Bp, come già aveva fatto in altre occasioni, torna a incolpare Transocean, proprietaria della piattaforma, e Haliburton,fornitrice del cemento utilizzato nella struttura.Secondo le indagini condotte da Mark Bly, responsabile della sicurezza Bp, a provocare l’esplosione sarebbe stata una bolla di metano che ha risalito la trivella. Bp non ha ancora capito né come né perché si sia formata la bolla, né ha stabilito perché la valvola di sicurezza non abbia sigillato, come avrebbe dovuto, il pozzo dopo l’esplosione. Le conclusioni del rapporto interno non possono essere considerate definitive, visto che al momento diverse agenzie del governo americano stanno conducendo le proprie indagini sull’incidente dello scorso 20 aprile, in cui sono morte 11 persone, e che ha provocato la fuoriuscita di quasi 800 milioni di litri di petrolio nel Golfo del Messico.Tuttavia, la pubblicazione del rapporto indica la chiara volontà del gigante petrolifero di non mettere (almeno, non da sola) la mano al portafogli per risarcire le numerose vittime del disastro. Oltre ai familiari dei defunti, infatti, Washington ha chiarito che sarà Bp a pagare per il mancato guadagno dell’immensa flotta di pescatori che, a causa della fuoriuscita del greggio, non sono ancora nelle condizioni di rimettere in piedi il mercato ittico. Questo è il principale sostentatore delle famiglie della costa, che ora chiedono i danni.

lanciato dal comandante delle truppe Usa in Afghanistan David Petraeus, si moltiplicano gli appelli per scongiurare il rogo dei corani in piazza l’11 settembre. Anche il Vaticano ha condannato il “Koran Burning Day”, definendo oltraggiosa l’iniziativa di Terry Jones, il pastore dalla Chiesa evangelica Dove World Outreach Center di Gainesville, in Florida. «Ogni religione, con i rispettivi libri sacri, luoghi di culto e simboli ha diritto al rispetto ed alla protezione: si tratta del rispetto dovuto alla dignità delle persone che vi aderiscono ed alle loro libere scelte in materia religiosa», ha detto la Santa Sede che in una nota, esprimendo «viva

Ecco i retroscena dell’affaire Kabul Bank Una storia di ordinaria corruzione in Afghanistan di Pierre Chiartano

KABUL. In questi giorni in Afghanistan non si parla d’altro che del fallimento della principale banca privata del Paese, di proprietà del fratello maggiore di Karzai, Mahmood, e del fratello minore del vicepresidente Fahim, Haseen. La bancarotta della Kabul Bank, provocata da operazioni speculative finite male, è stata evitata in extremis dall’intervento della Banca centrale afgana e del Tesoro americano, ma questo non ha placato il panico dei correntisti, che hanno preso d’assalto gli sportelli per ritirare i loro risparmi. Sullo sfondo della storia emerge una situazione che potrebbe, cambiando solo i nomi, essere un racconto di ordinari intrallazzi della prima repubblica o della seconda. Infatti, come documentava il New York Times di ieri, alla base dello scandalo ci sarebbero una serie di operazioni elettorali in puro stile florentin: voto di scambio, tanto per capirci. Cose che fanno storcere il naso ai calvinisti sulle rive del Potomac, ma sorridere un politico italiano che abbia almeno fatto una campagna per le comunali. Un fatto, comunque, di cui non menar vanto. Lo scorso anno, alla vigilia delle elezioni presidenziali, l’attuale presidente aveva assolutamente bisogno di un appoggio da parte dei tagiki, che potremmo definire una delle etnie d’opposizione assieme agli hazara. Il sistema migliore era distribuire posti e potere per garantirsi l’appoggi alle urne. Cosa c’era di meglio di una banca allora? Il tagiko era un uomo d’affari chiamato Haseen Fahim che avrebbe fatto il nome di suo fratello, il generale Muhammad Qasim Fahim. Così il presidente Karzai pensava di tacitare un antico nemico, con un bel curriculum per corruzione e violazione dei diritti umani, e guadagnare l’appoggio elettorale tagiko. Mahmoud e Muhammad oltre a riempire le casse della campagna elettorale del presidente, avrebbero riempito anche quelle delle rispettive famiglie, con un mare di prestiti per decine di milioni di dollari. È chiaro che quando si è avvicinato lo spettro di un fallimento della banca tutto sia venu-

to a galla. «Fahim è diventato vicepresidente, e la banca ha finanziato la rielezione di Karzai» dicono tutti a Kabul, naturalmente con l’accortezza di non essere citati. Chiaramente gli interessati non vogliono commentare, né Haseen Fahim raggiunto telefonicamente in Germania dal Nyt e neanche il presidente Karzai. Comunque lo scandalo potrebbe mettere in pericolo questa alleanza, ragion per cui si sta facendo di tutto per porre rimedio al possibile crack finanziario. Non ultimo chiamare in causa Washington e il suo portafoglio. Ricordiamo che Muhammad Qasim Fahim era soprannominato «lo sceriffo» ed era stato uno dei generali più vicini al Leone del Panshir, il leggendario comandante Massoud, assassinato dai talebani alla vigilia dell’attentato alle Torri gemelle.

Dopo la cacciata degli studenti coranici da Kabul, Fahim fu scelto nella comunità di fuoriusciti che viveva a Bonn in Germania, come futuro ministro delle Difesa di Karzai. Ma il rapporto fu subito difficile erano troppo diversi. Karzai erudito e senza esperienza militare, l’altro un signore della guerra poco istruito. La Kabul Bank, fondato nel 2004 da un ex campione di poker e da un ex contrabbandiere di pietre preziose, ha finanziato tutte le campagne elettorali di Karzai e Fahim. Ma sopratutto ha investito somme consistenti nel mercato immobiliare di lusso a Dubai: principale canale di riciclaggio di capitali frutto del narcotraffico (governativo, ma anche talebano) e dell’appropriazione indebita degli aiuti finanziari internazionali. Migliaia di risparmiatori terrorizzati hanno affollato la settimana scorsa gli sportelli della Kabul Bank per avere indietro i loro soldi e metterli al sicuro sotto al materasso. L’istituto, interamente privato, per conto del governo, paga gli stipendi dei dipendenti pubblici, dell’esercito e degli insegnanti. Il buco oggi sarebbe di circa 300 milioni di dollari.

La bancarotta dell’istituto è stata evitata in extremis dalla Banca centrale afghana e dal dipartimento del Tesoro americano

preoccupazione. A quei deprecabili atti di violenza - spiega il testo - non si può porre rimedio contrapponendo un gesto di grave oltraggio al libro considerato sacro da una comunità religiosa».

Anche il capo della diplomazia americana, Hillary Clinton, è scesa in campo contro il progetto: «Sono incoraggiata dalla condanna chiara e senza equivoci di questo gesto irrispettoso e disgraziato, (condanna) giunta dai leader religiosi di tutte le fedi (dai cristiani evangelici ai rabbini ebrei), così come dai dirigenti americani laici e dai leader d’opinione», ha detto il segretario di Stato in occasione di una cena di interruzione del digiuno islamico (l’Iftar), organizzata dal Dipartimento di Stato per il Ramadan. Anche il suo portavoce, Philip Crowley, in precedenza aveva denunciato l’incendiario progetto del pastore Terry Jones come “provocatorio” e “contrario al valori americani”. Buon ultima l’Unione Europea che ha “condannato” il progetto per bocca di Catherine Ashton, capo della diplomazia dell’Ue. Ma gli organizzatori non si fermano. E dicono: «Crediamo fermamente che sia Dio che ci chiama a farlo».


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speciale venezia

Cartolina da Venezia. Il film, che dall’attore è diretto e interpretato, racconta di un ladro di Boston alle prese col sequestro di una bella direttrice di banca...

Storie d’amore e di rapine Ieri al Lido è stata la volta di “The town” di Ben Affleck. Che in conferenza dice: «Mi ha ispirato “Gomorra”» di Alessandro Boschi

VENEZIA. Pare che “abitante di Charlestown”, piccolo quartiere di un miglio quadrato di Boston, sia sinonimo di ladro di professione, con una particolare tendenza, e predisposizione, per gli assalti ai furgoni blindati e, in subordine, alle banche. Il film diretto e interpretato da Ben Affleck, The town, presentato ieri fuori concorso alla mostra di Venezia, racconta la storia di uno di loro, uno dei più brillanti, ovviamente interpretato da Affleck, un po’ più credibile del solito.

Comunque non dimentichiamoci che quello che spesso viene definito uno dei più bei manzi del cinema ha già al suo attivo un Oscar (in comproprietà con il “fratello”Matt Damon) per la sceneggiatura originale di Will Hunting genio ribelle. Segno evidente che sopra quei muscoli c’è un cervello che funziona. Affleck, che ha esordito alla regia nel 2007 con il convincente Gone baby gone, ha realizzato un prodotto di valore, a dimostrazione che se anche la storia in sé è piuttosto semplice, una buona mano e una recitazione convincente contribuiscono alla riuscita di un film più che dignitoso. Come dicevamo la storia è quella di Doug MacCray, leader di una

banda di quattro elementi, tra i quali spicca il bravissimo Jeremy Renner, amico per la pelle di Doug e “duro” del gruppo. Durante una rapina a una banca i nostri sono costretti a prenderne in ostaggio il direttore, che non è il solito attempato e pacifico signore, ma una bella sventola interpretata da Rebecca Hall. La fuga però riesce e l’ostaggio viene rilasciato, non senza prima averle sottratto la patente in modo da poterlo minacciare in caso di emergenza. Non contento Affleck decide di scoprire se la bella ha notato qualcosa che potrebbe mettere i quattro nei guai. A questo punto, bello lui, bella lei, indovinate un po’? Nel frattempo un altro bello, il protagonista della premiatissima serie Mad men, siccome qui è un agente della FBI, si mette sulle tracce dei malviventi che nemmeno un mastino. The town è tratto da un romanzo di successo di Basil Iwanyk, Prince of Thieves, che bene si attaglia al protagonista anche nella declinazione cinematografica. La sua uscita nelle sale è prevista per il prossimo 8 ottobre, distribuito dalla Warner Bros Italia. A questo punto, sbrigate le formalità, vi dobbiamo una curiosa dichiarazione rilasciata da Afflek durante la conferenza stampa: «Quando ho iniziato a girare, ho portato con me alcune pellicole che ho amato molto e che mi hanno ispirato. Tra queste, Gomorra.

Credo infatti che alcune storie non possano prescindere dal luogo dove si svolgono. Io personalmente non conosco i luoghi descritti da Garrone, eppure li percepivo. Ho cercato di fare lo stesso con Boston, che diventa personaggio della storia». Il buon Afflek, credeteci, l’ha sparata davvero grossa. È vero che il tutto si svolge a Boston, città complicata e interessante, ma le implicazioni ambientali di cui parla il regista, i riferimenti al film di Garrone sono del tutto gratuite. Ma la professionalità degli artisti statunitensi si vede anche in queste cose. Non parlano mai a sproposito, specialmente quando le sparano grosse. Non è un caso che questa sua dichiarazione sia stata rilanciata da tutte le agenzie: manzo sì, scemo no. Un velo di tristezza scende oggi sul Lido. All’uscita del film di Abdel Kechiche, Venus noire, decisamente meno memorabile del precedente Cous Cous, abbiamo appreso della scomparsa di Piero Vivarelli. Vivarelli era uno dei personaggi più simpatici che ci sia mai capitato di incontrare in un mondo che non trasuda simpatia. Tra i suoi film ci piace ricordarne uno che forse non sarà mai annoverato tra i capolavori del cinema italiano, ma che per noi rappresenta quello spirito bizzarro e divertente di Vivarelli. Ci riferiamo alla versione per il grande schermo di Satanik. Non possiamo poi

dimenticare Il dio serpente, Super rapina a Milano (regia attribuita a Celentano, anche interprete, ma di fatto realizzata da Vivarelli, pare in coppia con Lucio Fulci), Rita la figlia americana, con Rita Pavone, e infine La rumbera. Lucio Fulci sosteneva che lui, Vivarelli e Sergio Corbucci rappresentavano il lato sinistro di via Veneto. La quale cosa va letta in due modi.

Il primo è che i tre erano notoriamente di sinistra, il secondo, meno nobile, è che da quel lato della strada più famosa di Roma di solito passeggiavano le prostitute. Categoria alla quale si sentivano evidentemente di appartenere in quanto i tre erano prestatori d’opera per qualsiasi genere di produzione. Va anche aggiunto che Vivarelli era

Il caso del film “The American”, interpretato da George Clooney, che dipinge l’Abruzzo come una terra algida

L’Italia inverosimile degli americani di Anna Camaiti Hostert giudicare dal titolo, il nuovo film The American sembrerebbe ritrarre dal punto di vista europeo un personaggio, quello di George Clooney, proveniente dagli States. Jack, Edward o Mr. Butterfly, come viene chiamato dalle due bellissime protagoniste, è un killer a pagamento che decide di farla finita con il mestiere. Dopo l’ultima avventura terribile in Svezia, si rifugia in Italia per quello che considera il suo incarico finale. Il regista del film, l’olandese ormai stabilitosi a Londra Anton Corbjin, riprende qui un tema che gli è caro: la sofferenza quotidiana del vivere. Clooney, bravissimo nel dipingere in modo realistico la pena esisten-

A

ziale che il suo mestiere gli ha procurato, non riesce tuttavia a catturare l’affetto del pubblico nel tentativo di redimersi da una vita violenta. Il regista che aveva girato il suo film precedente in bianco e nero, riporta qui, seppure a colori, il suo mood cupo e dark.

In realtà, quello che il titolo annuncia, lo sguardo europeo, e in questo caso italiano, sul protagonista (il film si svolge in Abruzzo) è ancora una volta lo sguardo americano, e in generale del mondo anglosassone, su un’Italia inverosimile. Una delle poche conoscenze che Jack riesce a fare è il prete del paese, interpretato dal veterano Paolo Bonacelli, il quale

parla inglese e usa nei suoi confronti il banalissimo stereotipo secondo cui gli americani non sono interessati alla storia perché vivono nel presente. E Violante Placido, Clara, la prostituta che Jack incontra in una casa chiusa, parla un inglese quasi perfetto, vede film in lingua e ha un’eleganza che la fa sembrare una modella di Vogue. Ma dove sono in Italia i bordelli pubblici? La critica alla mancanza di un realismo conduce altrove. Se infatti il lavoro del regista ci risparmia il folklore tipico dei film americani sull’Italia, non è ancora privo di quegli stereotipi sul nostro Paese che tanto piacciono oltreoceano. La freddezza e il dolore dell’esistenza di Jack non


speciale venezia

9 settembre 2010 • pagina 19

In Laguna il quarto lungometraggio del regista di “Cous Cous”

Il ritorno (shock) di Abdellatif Kechiche

“Black Venus”: storia disumana delle umiliazioni e degli atroci abusi subiti dalla Venere Ottentotta di Andrea D’Addio

molto fiero di avere preso nella sua vita solo due tessere: quella del club degli interisti leninisti (esiste, lo giuriamo), e quella del partito comunista cubano, regolarmente firmata da Fidel Castro. Piero aveva avuto anche una brillante carriera da musicista, suoi sono infatti gli hit degli anni Sessanta di Adriano Celentano Il tuo bacio è come un rock e 24.000 baci. Anni fa, proprio qui al Lido, Tarantino gli si prostrò davanti chiamandolo maestro. Cosa, immaginiamo, che non abbiano mai fatto autori di ben più sottile spessore. Però italiani. Ci mancherà Piero, ci mancherà la sua energia e il suo atteggiamento verso la vita. Stava cercando di realizzare un nuovo film sui paracadutisti. Sembrava fosse sul punto di riuscirci. Magari adesso si riposerà un po’.

sono semplicemente il frutto di un’estetica algida che definisce un personaggio attraverso i colpi incisivi di un bisturi freddo, ma preciso. Nelle intenzioni del regista mirano infatti a descrivere a tutto tondo il protagonista, che tuttavia l’immaginazione del pubblico non riesce a catturare perché gli mancano gli strumenti di approfondimento. Il sottofondo del paesaggio dovrebbe colmare questa mancanza, ma è privo di anima. Mr. Butterfly, il cui nome è forse la cosa più sofisticata, non cattura simpatie in quanto la sua solitudine ostentata e sofferta non riesce ad armonizzarsi con un paesaggio freddo e di maniera. Il panorama di un Abruzzo brullo e secco è osservato con uno sguardo assente e privo di quella potenza terragna che esala dalle sue montagne e dai paesi caparbiamente arrampicati su di esse. Il film fa di quella parte d’Italia ancora un sottofondo bello ma muto, di cui non si comprende

A destra, un fotogramma del film di Kechiche “Black Venus”. In alto, una scena della pellicola “The town” di Ben Affleck. A sinistra, George Clooney, protagonista di “The American”

né la sofferenza, né la passionalità profonda. Così il film non descrive lo sguardo italiano su un outsider, l’americano, ma la percezione di quello sguardo da parte chi lo osserva dal di fuori. Ed è distante.

La storia del protagonista infatti è completamente avulsa da quella dei suoi abitanti che ancora una volta, esclusi i due personaggi che Jack avvicina e che sono assai poco credibili come figure locali, sono semplicemente delle comparse. La critica americana l’ha dipinto nella maggior parte dei casi come un thriller europeo, cioè lento, e si è divisa tra chi l’ha considerato un film d’autore e vi ha trovato una similitudine con Le Samurai di JeanPierre Melville e chi l’ha trovato profondamente noioso. Unica caratteristica comune, l’apprezzamento della bellezza del paesaggio italiano.

VENEZIA. «Cerco sempre di osservare le persone cercando una via per capirle. È da qui che nascono i miei film e il mio obiettivo è sempre che gli spettatori possano gettare sui personaggi lo stesso sguardo di tenerezza che provo io riprendendoli». Parole pronunciate ieri da Abdellatif Kechiche alla presentazione del suo nuovo lavoro, Black Venus, e che ben riassumono il filo rosso che unisce tutta la sua filmografia. Per ora si tratta solo di quattro pellicole, oltre la già citata Venere Nera, anche Tutta colpa di Voltaire (2001), La schivata (2003) e Cous Cous (2007), ma tanto basta per fare di lui un vero e proprio autore, forse il più importante dell’ultimo cinema francese. C o n Bl a c k V e n us , per la prima volta Kechiche si confronta con la storia, quella vera. Nel 1817, presso l’Accademia reale di medicina, l’anatomista Georges Cuvier espose il cervello, la vagina e l’intero calco del corpo di una ottentotta (popolazione tra le più antiche ad aver popolato l’Africa australe) da poco deceduta. Lo scopo era scientifico, l’organo riproduttivo della donna, con le labbra interne molto sviluppate, era motivo di grande curiosità per i naturalisti dell’epoca, ma la violazione che fecero dell’integrità, seppur solo del cadavere, di Saartjie Barman fu analogo ad uno stupro. Per due secoli quel materiale è stato esposto al Museo dell’Uomo di Parigi, prima che il Sud Africa lo reclamasse e, nel 2003, al momento della consegna, lo accolse festante come simbolo dell’integrità della donna e, in misura minore, ennesimo passo di una rielaborazione critica dello sfruttamento coloniale europeo degli africani. Kechiche ci racconta l’avventura europea della povera Saartje, partita per sua scelta assieme al suo ex datore di lavoro (gli faceva da domestica) dal Sud Africa per l’Inghilterra, per essere mostrata come fenomeno da baraccone prima e, in seguito, con un altro amico-protettore, come prostituta nei bordelli francesi, dopo essersi negata, da viva, ad un’approfondita analisi scientifica. Lo sguardo di Kechiche è tanto vicino al cuore della protagonista, al suo disagio e alla sua disperazione di sapere di non poter tornare indietro, quanto avaro di semplifica-

zioni narrative. In un mondo dominato dall’ipocrisia, dove è l’etica? Ha diritto una donna ad esporre il proprio corpo e la propria diversità se pensa che sia quello il suo talento? E non è forse razzista anche l’atteggiamento di chi pensa che una donna del genere non possa avere deciso il tutto indipendentemente di esibirsi, e non sotto costrizione? Se la morbosità della gente diventa positiva preoccupazione e sensibilità verso una “vittima”, la si può giustificare? Poche volte capita che, il manifesto di intenzioni di un regista trovi poi conferma nel film, ma davvero qui «si lascia allo spettatore il compito di riflettere, di darsi delle risposte» come dice Kechiche. È per questo che le quasi tre ore di Black Venus scorrono velocemente così come erano state in passate le analoghe, lunghe durate, dei suoi precedenti film. Non c’è azione, anzi spesso c’è eccessivo autocompiacimento nel filmare, ma la tensione è continua, tanto sono indefinibili intenzioni e significati: il porsi domande è continuo. Questa è la grandezza di Kechiche, un uomo probabilmente un pizzico presuntuoso (qui a Venezia dedicherà pochissimo tempo all’attività stampa), ma arguto, originale, avvolgente, grande osservatore di corpi e fenomeni d’integrazione sociale riusciti e falliti.

«Cerco sempre di osservare le persone», ha detto ieri alla stampa il cineasta, «cercando una via per capirle. È in questo modo, da qui, che nascono i miei film»

Con l’autobiografico Tutta colpa di Voltaire ci raccontò le problematiche ambizioni di un immigrato con il desiderio di fare cinema, con La schivata ci portò tra gli scolari tredicenni della banlieu parigina tratteggiando una storia straordinariamente sincera e potente (con solo attori non professionisti) non a caso candidata all’Oscar, e poi, con Cous Cous, ci ritrovammo a Marsiglia, in una famiglia tunisina con tutte le loro vere difficoltà ad aprire il loro nuovo ristorante, tra debiti, ambizioni, tradimenti, seconde mogli e figli abbandonati. Più che integrazione, coincidenza di volti, discorsi, problemi. Africa, Europea, Mediterraneo, identità che perdono quei confini che la Venere ottentotta, due secoli fa, visse come invalicabili e che Kechiche cerca, film dopo film, di rendere artisticamente un unico, mutevole, insieme.


società

pagina 20 • 9 settembre 2010

on Enrico dal Covolo, sacerdote, docente di letteratura cristiana antica, è stato vice-rettore della Pontificia Università Salesiana ma soprattutto postulatore generale delle cause di canonizzazione della famiglia Salesiana. Oggi ricopre l’incarico di Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense. A lui abbiamo posto alcune domande per capire in quale direzione e quali sono le tematiche di fondo che caratterizzeranno il suo operato alla guida dell’università del Papa. Don Enrico, il 30 giugno è stato nominato nuovo rettore magnifico della Pontificia Università Lateranense, senza dubbio un riconoscimento importante da parte del Santo Padre. Che cosa ha provato mettendo piede quella mattina in un’Aula Magna gremita di studenti e professori? Quali le sue sensazioni? La sensazione più forte è stata quella di trovarmi a una “svolta” della mia vita. È vero che insegno ormai da quarant’anni, e che da venticinque sono professore in un’altra università pontificia, quella dei Salesiani di Don Bosco. Ma essere rettore dell’“Università del Papa” è per me una realtà nuova, molto impegnativa e stimolante. La medesima sensazione l’ho provata qualche giorno dopo, il 7 luglio, quando Benedetto XVI mi ha accolto, esclamando con un sorriso: «Oh, il mio magnifico rettore!...». La società in cui viviamo pone davanti continue sfide, ed evidenzia una lenta e inesorabile perdita dei valori: come può l’università inserirsi in questo panorama? Tocchiamo uno dei punti che mi stanno maggiormente a cuore. Si parla ormai comunemente, nel nostro contesto occidentale, di un’“emergenza educativa” che interpella vivamente la società, la famiglia, la scuola, l’università... Questa emergenza è determinata dalla dissoluzione dell’idea stessa di “verità” e dei concetti correlati di “bene” e di “male”. Da parte sua, l’università – etimologicamente intesa come universitas scientiarum, cioè come luogo di dialogo fecondo fra tutte le scienze – sa di avere una missione precisa: quella di accompagnare gli studenti nella scoperta della verità. Per parafrasare un’espressione famosa di sant’Agostino, nell’università «si cerca con il desiderio di trovare la verità, e la si trova con il desiderio di cercarla ancora». In questo panorama, che rappresenta un’“alternativa critica” rispetto al modo di pensare del “sistema”, si colloca la missione degli universitari. In una recente intervista all’Osservatore Romano

D

Università. Parla Don Enrico dal Covolo, da giugno al vertice della Lateranense

«Io, magnifico rettore di Benedetto XVI» di Ludovico Bitetti lei ha individuato alcuni punti essenziali del suo nuovo incarico, come l’emergenza educativa e la formazione dei formatori.

essere la risposta dell’università) non possono essere soltanto due slogan, e neppure semplicemente dei titoli accattivanti per convegni e dibattiti.

queste due istanze verrà a configurarsi un dialogo scientifico globale potremo dire di averle affrontate a un livello realmente “universitario”: e

Sono di fronte a una “svolta” nella mia vita, a una realtà nuova, molto impegnativa e stimolante. Gli atenei sanno di avere una missione precisa: quella di accompagnare gli studenti nella scoperta della verità Può spiegarci meglio come intende operare? Alla luce di quello che abbiamo appena detto, “emergenza educativa” (che è la situazione del momento) e “formazione dei formatori” (che dovrebbe

Don Enrico dal Covolo (nella foto grande con Benedetto XVI) è stato vice-rettore della Pontificia Università Salesiana. Oggi è il rettore del’Università Lateranense (nella foto qui a fianco)

Un sano realismo invita a considerare queste due istanze come “trasversali” rispetto all’intera attività di ricerca, di studio e di insegnamento delle facoltà e degli istituti dell’università. Solo quando attorno a

questo vuol essere l’impegno particolare del nuovo rettore. C’è un aspetto che pensa possa giovare di più al futuro dell’università? Ritengo che una via importante sia quella della comunicazione, nelle due direzioni di percorso, verso l’interno e verso l’esterno dell’università. Per questo motivo abbiamo avviato un nuovo ufficio di stampa e comunicazione, coinvolgendo un pool di esperti di comunicazione e di giornalisti. Che cosa si sentirebbe di dire a uno studente che vuole intraprendere gli studi universitari nella Pontificia Università Lateranense? Gli raccomanderei anzitutto di ponderare bene le sue scelte, alla luce dell’identità precisa dell’“Università del Papa”. In secondo luogo, gli raccomanderei di sfruttare al massimo le risorse di una università come questa: l’eccezionale apertura internazionale e intercontinentale che essa offre, con la coerente possibilità di relazioni e di prospettive; il fatto di trovarsi “nel cuore della Chiesa”; e finalmente la possibilità, più facile rispetto ad altre università molto affollate, di mettersi alla scuola personale di un vero maestro, piuttosto che di un semplice professore. Dovrebbe trattarsi di una persona esemplare, capace soprattutto di assicurare nell’itinerario individuale di studio e di ricerca il necessario equilibrio tra una base culturale sufficientemente ampia e l’area specifica di competenza.


spettacoli

9 settembre 2010 • pagina 21

Musica. Crosby, Still & Nash: il successo del tour italiano di una delle band che ha fatto emozionare intere generazioni

Un trio che non invecchia mai di Alfredo Marziano

In questa pagina, alcune immagini, anche dal vivo, della band americana Crosby, Still & Nash. In basso, una foto della loro recente performance live al “Paleo Music Festival in Nyon”, in Svizzera, lo scorso 22 luglio 2010

avid Crosby ha 69 anni, Graham Nash 68, Stephen Stills - il ragazzino del trio - 65. Inutile negarlo, chi li ha visti dal vivo in Italia a luglio, a Lucca o a Milano, a Roma o ad Aosta, sapeva di tuffarsi in un oceano di nostalgia. Perché per chi naviga da tempo sull’onda degli “anta” e non ha abdicato agli amori di gioventù la loro musica resta una sirena irresistibile: la summa, l’archetipo, il riflesso immacolato di quella Arcadia westcoastiana che nutrì a lungo i nostri sogni (anche se l’unico californiano doc del trio è il losangelino Crosby), le utopie Sixties cullate tra delicati arpeggi di chitarra acustica, galoppanti jam elettriche e celestiali armonie vocali, il marchio di fabbrica della ditta. Sono dei sopravvissuti - il baffuto David nel senso letterale del termine -, sono appesantiti, imbolsiti, terribilmente invecchiati (a parte Nash, un distinto signore che ha mantenuto il consueto aplomb).

della «tre giorni di pace e musica». E Woodstock, il peana che Joni Mitchell scrisse al megaraduno di Bethel mordendosi le mani per non esserci potuta andare, è tornata ad aprire i loro concerti. Che assomigliano a un juke box celestiale: Crosby, poeta lunatico e visionario, sventola ancora la bandiera freak di Almost Cut My Hair, ricorda il sogno frantumato dagli omicidi di Bob Kennedy e di

Ma basta evitare di scrutarne impietosamente rughe, cicatrici e pinguedine, socchiudere gli occhi e aprire le orecchie per riscoprirli come allora: quando sul palco di Woodstock, insieme a Neil Young ed emozionati da “farsela addosso”, incantarono mezzo milione di persone; quando, il giorno dopo in tv al Dick Cavett Show, raccontarono la loro eccitazione e il loro stupore, Crosby a ricordare quell’immensa moltitudine che «sembrava l’esercito macedone accampato», Stills con la chitarra acustica, il poncho sulle spalle e gli stivaloni ancora inzaccherati dal fango

Martin Luther King (Long Time Gone), immagina un futuro post-atomico in fuga dal pianeta terra (Wooden Ships), professa il suo credo nella reincarnazione (Déjà Vu), intona la sua incantevole ode all’eterno femminino (Guinnevere). Stills, sanguigno rocker texano, ha perso la voce ma libera ancora la chitarra elettrica negli assoli di Bluebird (reperto dall’epoca dei Buffalo Springfield), sfoggia il suo virtuosismo fingerpicking su Helplessly Hoping, celebra l’amore libertario con Love The One You’re With. E Nash, il compassato inglese appena insignito di

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un Order of the British Empire conferitogli dalla Regina, presidia il lato più pop, romantico e accattivante del repertorio (Teach Your Children, l’esotica Marrakesh Express, l’inno alla quiete domestica di Our House ispirato alla sua breve love story con la Mitchell), senza dimenticare i temi sociali che gli stanno da sempre a cuore: l’antimilitarismo di Military Madness e di In Your Name, un ponte gettato tra il Vietnam e l’Afghanistan, e l’utopia di Chicago,

dunque anche di se stessi. È un miracolo che siano ancora insieme, loro che furono il primo supergruppo della storia presto turbato da epici conflitti d’ego, da furibondi scontri di personalità. Ed è un portento che siano ancora tutti vivi: “Croz” in particolare, che i Sixties li ha vissuti pericolosamente e gli Ottanta ancora di più, tra incidenti stradali e arresti plurimi per detenzione di cocaina e porto d’armi abusivo (in quegli anni la rivista Spin gli dedicò una cover story intitolata “La morte di David Crosby”). Era

Chi li ha visti dal vivo a luglio, sapeva di tuffarsi in un oceano di nostalgia, fatto di utopie Sixties, delicati arpeggi di chitarra acustica, galoppanti jam elettriche e celestiali armonie vocali. Da sempre il marchio di fabbrica del gruppo americano scritta di getto dopo i violenti scontri che turbarono la Convention democratica del ’68. Oggi i loro concerti omaggiano anche i grandi contemporanei: il vecchio amico Young (Long May You Run), i Beatles di Norwegian Wood, il Dylan di Girl From The North Country, gli Stones di Ruby Tuesday, gli Allman Brothers di Midnight Rider, gli Who di Behind Blue Eyes, classici testati dal vivo in preparazione all’album di cover cui i tre stanno lavorando con Rick Rubin, il produttore che regalò una seconda giovinezza artistica a Johnny Cash. Un pantheon rock, una celebrazione degli anni Sessanta e

diventato il simbolo drammatico del crollo degli ideali hippy, un uomo in sfacelo, la maschera grottesca di se stesso. È rinato a seguito di un trapianto di fegato ma soprattutto grazie al

ricongiungimento con James Raymond, il figlio che aveva dato in adozione nel 1962 e che ha ritrovato nel 1995 (da allora non si sono più lasciati, nella band di CSN suona le tastiere).

Young è un mito intoccabile dai tempi del grunge, i CSN per anni sono stati considerati scaduti, fuori tempo massimo, persino un po’ patetici. Ma intanto proprio nel pieno dell’estate è uscito Be Yourself, un disco che la figlia di Nash, Nile, ha dedicato all’illustre papà coinvolgendo i più bei nomi della nuova scena neo-folk americana, Bonnie “Prince” Billy e i Vetiver, Robin Pecknold dei Fleet Foxes e Brendan Benson dei Raconteurs, nella riproposizione per intero del suo primo e celebrato album solista del 1971, Songs For Beginners. Segno che i vecchi ragazzi sanno ancora parlare ai ragazzi di oggi, e leggere lo spirito del tempo. Come tanti coetanei, Neil compreso, avevano sbandato paurosamente negli anni ’80. Si sono ripresi nei ’90, rinfrancati dall’ascesa alla Casa Bianca di Bill Clinton, un baby boomer come loro; con i Bush si sono riscoperti fieri oppositori dell’establishment (il Freedom Of Speech Tour di quattro anni fa, concepito da Young come commento a caldo sul conflitto iracheno), con Obama hanno visto realizzarsi uno dei sogni della loro generazione. La loro musica ha conservato una sua magica risonanza, sa ancora toccare le corde intime del cuore. Sarà il mito indistruttibile di “quella” California, saranno quelle parole che malgrado tutto nutrono ancora sogni e speranze dell’umanità: «Saremo liberi», «possiamo cambiare il mondo».


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Valorizzazione dei musei statali: servono più servizi per i turisti Non penso che sia così semplice aumentare il prezzo dei musei statali anche se pagare 6,5 euro per l’Accademia dove risiede il David e altre opere, mi sembra poco, penso comunque che spazi di collaborazione vi siano. Mi sembra possibile una sinergia tra Stato ed enti locali sulla valorizzazione degli spazi dei musei statali, dove da anni soggetti privati organizzano mostre che danno ottimi risultati economici. Ben vengano delle proposte, l’importante è che siano offerti servizi aggiuntivi ai turisti che non sono limoni da spremere ma la vera ricchezza della città. È fin troppo scontato che chi viene a Firenze e alimenta il turismo sia la vera economia della città. Chi viene a Firenze non lo fa per vedere il sindaco che si inventa slogan a ripetizione, ma perché vuole vedere il David di Michelangelo o le opere degli Uffizi. Quei milioni di turisti restano a Firenze, visitano, comprano, mangiano nei ristoranti e stanno negli alberghi, e quindi alimentano l’economia fiorentina e indirettamente anche le tasse comunali. Fare la guerra legale per la proprietà del David farebbe ridere il mondo che ci guarderebbe prima con divertimento e poi con compassione.

Gabriele Toccafondi

RICHIESTA DI AIUTO PER IL PAKISTAN L’appello di Ban Ki-mun e del Papa sta risvegliando le coscienze, ma ancora debole è l’iniziativa dell’Italia e del mondo per portare il soccorso necessario. Di fronte ad una catastrofe ben più grave del terremoto di Haiti e che sta ampliandosi per le perdite subite e la mancanza di acqua potabile, cibo, assistenza sanitaria, riparo adeguato, la mobilitazione e la solidarietà stentano però a manifestarsi in modo adeguato. Sembra che le sofferenze di 6 milioni di pakistani preoccupino meno di quelle dei 2 milioni di haitiani, che i 3,5 milioni di bambini a rischio in Pakistan non abbiano la stessa importanza e dignità che sono state riconosciute a quelli haitiani. Intersos sta cercando di portare soccorso, dopo aver visitato la regione del Khyber Pakhtunkhwa, in particolare i distretti di Mansehra, Mardan, Hari-Pur

e Nowshera. Abbiamo avviato distribuzioni di beni alimentari ed acqua potabile a circa duemila persone tra gli sfollati più bisognosi del distretto di Nowshera. I fondi a disposizione per il pronto intervento sono però limitati, e senza ulteriori aiuti la nostra azione rischia di non potere garantire adeguate risposte ai crescenti bisogni. La situazione continua a essere tragica e la gente colpita ha perso tutto e ha bisogno di tutto. Per sostenere Intersos nell’emergenza Pakistan: conto corrente postale: n. 87702007- conto bancario: Banca Popolare Etica, IBAN IT 07 U 05018 03200 000000 555000

Syed Riaz

TELEVENDITE NASCOSTE IN QUIZ FASULLI Continuano imperterriti i quiz tv fasulli. Denunciati e più volte condannati, senza interruzione vanno in onda e fregano sol-

Il Lago del Tuono Il Thunder Lake è uno dei moltissimi laghi della riserva indiana di Red Lake, un territorio che si estende in nove contee nel nord del Minnesota. Si tratta (a parte la capitale dello stato, Minneapolis) del posto abitato dal maggior numero di nativi americani in tutti gli Stati Uniti

di agli italiani. Il tutto sempre grazie ai numeri 899, 894 e 895. Si tratta di quelle trasmissioni che invitano a telefonare per indovinare il titolo di una canzone facile facile, per poter vincere fino a diecimila euro. Tutto finto, non si tratta di un quiz, ma di una televendita di loghi e suonerie per cellulari (ma questo il telespettatore non lo sa). Le telefonate mandate in onda sono palesemente fasulle. Le domande solo del

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

tipo: Chi canta Non ho l’età? Risposte: Nilla Pizzi, Claudio Villa, Branduardi, Baglioni, Goggi, Mina, e così via. Ovviamente nessuno indovina Gigliola Cinguetti. E sono tanti che compongono ripetutamente i numeri 899, 894 e 895, pagando uno o due euro ad ogni inutile telefonata, da cellulare o fisso. Ma non erano stati disabilitate queste numerazioni a sovrapprezzo?

Lettera firmata

da “Asharq Alawsat” dell’08/09/10

Ci vuol altro che un missile! l presidente iraniano Ahmadinejad ha lanciato la sua campagna per promuovere una nuova immagine del Paese sciita. Il commento a firma di Ali Ibrahim, è uscito sul quotidiano saudita, pubblicato a Londra. E ciò che si scrive in questi fogli, è ciò che non si ha il coraggio di pubblicare, in lingua araba, nei propri Paesi. In visita nel Qatar, il presidente iraniano si è prodigato a presentare all’emiro, Jabr Al Thani, una nuova apparecchiatura per effettuare «nanoscopie». Una tecnologia alla portata solo di quattro o cinque Paesi al mondo.

I

Il messaggio è chiaro: stiamo diventando una potenza tecnologica e il nucleare è solo un aspetto della crescita iraniana. Una nuova politica inaugurata con la presentazione del bombardiere senza pilota, poco tempo fa. Siamo un grande Paese, potente, in grado di utilizzare la migliore tecnologia anche nella produzione industriale. Al tempo stesso è stato un messaggio carico di presagi negativi anche per l’Occidente. Ma la risposta dell’emiro è stata altrettanto chiara. Ha paragonato il regalo dell’apparecchiatura scientifica a qualcosa di simile che fece il leader egiziano Gamal Nasser al padre, e che il dono sarebbe stato messo nella medesima dimora. Insomma: grazie, avanti un altro. E gli allegati al messaggio subliminale sono che le cose nella regione non sono poi cambiate dagli anni Cinquanta e Sessanta, per i qatarini. Lo slogan nasseriano «siamo in grado di produrre tutto, dagli aghi ai missili»

potrebbe essere tranquillamente riesumato, nonostante la situazione mondiale sia mutata e anche certi equilibri internazionali abbiano subito un terremoto. Molti anni fa c’erano i rappresentanti dell’ideologia del nazionalismo secolare che combattevano contro i turbanti e gli esponenti del clero che volevano conquistare la politica e il governo. Oggi, che quel movimento clericale è riuscito a raggiungere i propri obiettivi e governa, ad esempio, in Iran, usa lo stesso linguaggio, la stessa retorica del vecchio nazionalismo ideologico, con differenze che sono solo di facciata. «Non si vuole imparare dal passato» sottolinea l’autore dell’articolo. E non perché non si prenda nella dovuta considerazione un progresso scientifico e il percorso di crescita di

una nazione, ma per l’uso che si fa di questi strumenti. Quando diventano dei mezzi per alimentare la propaganda e non per acquistare un posto di maggior rilievo sulla scena internazionale, da utilizzare per il progresso e lo sviluppo del proprio Paese. Insomma, con al prosa involuta che distingue sempre la stampa araba quando parla di un altro Paese della regione, il quotidiano saudita manda un messaggio preciso, specialmente in un momento in cui la casa regnante dei Saud sta attraversando un periodo di crisi col ritiro delle truppe Usa combattenti in Iraq. Minacciata dal vicino Yemen e dall’estremismo wahabbita, ma soprattutto dalla voglia destabilizzatrice di Teheran. E a guardare bene, tutti gli annunci fatti dal regime sciita degli ultimi mesi, dai droni volanti ai battelli veloci lanciamissili alle centrali atomiche riguardano tutte tecnologie militari. Al contrario, nessun annuncio con fanfare sulla situazione economica iraniana, sulle condizioni generali di vita di quella popolazione.

Neanche una parola sull’altissimo livello di disoccupazione che, a seconda delle valutazioni, oscilla tra il 12 e il 25 per cento. Per non parlare dell’inflazione galoppante. Tanto che i “bazaarini”, i commercianti che sono stata la base della rivoluzione komehinista, lo scorso mese hanno indetto un poco ortodosso sciopero, chiudendo totalmente tutti gli esercizi commerciali. Insomma, se si parla di progresso ci vuol altro che un motore a razzo.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LE VERITÀ NASCOSTE

Si aggredisce da solo per non andare a lavoro ABERDEEN. Steven Reid potrebbe essere un novello aspirante Tyler Durden. Il 23enne infatti si è picchiato da solo, conciandosi anche decisamente male, per cercare di evitare una giornata di lavoro, come uomo delle pulizie in un hotel. Secondo la ricostruzione della polizia, il ragazzo stava andando al lavoro, quando si è reso conto di non avere per nulla voglia di lavorare quel giorno, e quindi ha avuto un’idea che gli è sembrata geniale: ha preso un rasoio che aveva in tasca e si è procurato diversi tagli, poi ha raccolto un sasso e si è inferto diversi colpi alla testa e al corpo, andando poi alla polizia e denunciando un’aggressione. La polizia inizialmente aveva credu-

to alla storia, ma la fidanzata di Steven non ha voluto coprirlo, e le contraddizioni che ne sono emerse hanno portato a un nuovo interrogatorio di Reid, che ha confessato di avere simulato l’aggressione perché voleva una giornata di riposo. Il ragazzo è stato denunciato per simulazione di reato. Singolare anche la storia di Emmalee Bauer, 25enne, ormai ex dipendente della catena di hotel Sheraton. La ragazza però non si accontentava di scansare il lavoro, ma ha pensato bene di tenere (ovviamente, durante l’orario di lavoro) un blog in cui spiegava come lavorava il meno possibile. A partire dallo stesso scrivere i post: «scrivere su questo blog fa sembrare che stia la-

ACCADDE OGGI

RIFLESSIONI SULLA RU486 Le linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza e le linee guida sulle modalità di utilizzo della Ru486 sono documenti recentissimi. Sia le linee di indirizzo che le linee guida rappresentano una sintesi interessante, in cui sono presenti sia dati scientifici che preoccupazioni di tipo bioetico. La linea prevalente nel mondo cattolico è quella di applicare la legge 194 là dove apre spiragli sulla prevenzione in ordine alle motivazioni che spingono all’aborto. I volontari del Movimento per la Vita sono presenti per offrire alla donna un’alternativa fattiva, attraverso il dialogo e l’eventuale presa in carico. La 194 offre, in linea teorica, questa opportunità, laddove venga colta da intelligenti e non ideologizzate amministrazioni sanitarie locali, in quanto afferma il valore della tutela della maternità. E allora, quale migliore tutela della maternità, se non quella di offrire, nei consultori, attraverso l’incontro, l’informazione e la riflessione, una possibile alternativa all’aborto? Siamo proprio sicuri che non possano esserci alternative? In passato il problema era essere o pro-life o pro-choice. Gran parte del mondo femminista rivendicava, come prioritario, il diritto alla scelta e a una scelta libera. La scelta, però, perché sia libera presuppone un’informazione completa. La scelta può cambiare radicalmente se vengono aggiunte o omesse determinate informazioni. La presa di coscienza delle informazioni esige nel contempo un adeguato periodo di riflessione. La Ru486 impedisce questo adeguato periodo di riflessione. Tutto viene fatto in fretta! Per questo ri-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

9 settembre 1934 A Torino si aprono i I campionati europei di atletica leggera 1942 Seconda guerra mondiale: un idrovolante giapponese sgancia una bomba incendiaria sull’Oregon 1943 Viene costituito il comitato di Liberazione nazionale 1944 Seconda guerra mondiale: L’Unione Sovietica libera la Bulgaria 1945 L’ammiraglio Grace Murray Hopper scopre il primo bug - una falena 1948 Viene creata la Repubblica popolare democratica di Corea 1956 Elvis Presley appare per la prima volta al The Ed Sullivan Show 1973 Belgrado: Novella Calligaris diventa campionessa mondiale degli 800m stile libero, stabilendo il nuovo record del mondo con il tempo di 8’52”97 1993 L’Olp riconosce il diritto di Israele all’esistenza in pace e sicurezza 2001 Ahmad Shah Massoud viene mortalmente ferito in un attentato suicida compiuto da agenti di al Qaeda

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

vorando duramente su qualcosa di importante». Raggiungendo una condizione per certi versi invidiabile, poiché «lavoro molto meno e vengo pagata molto di più che in tutti i miei lavori precedenti». Ma uno dei responsabili di Emmalee ha scoperto il suo diario, e la ragazza è stata inevitabilmente licenziata.

tengo che la Ru486 non colpisca solo la posizione pro-life, ma anche quella prochoice. Siamo all’aborto “mordi e fuggi”, in cui non c’è più tempo per pensare. E allora su che cosa si decide? La libertà non può essere cieca, ma ha come base la verità e la conoscenza. Chi ignora, è libero? La prima schiavitù è infatti l’ignoranza. Ma l’apprendimento avviene nel tempo. Il tempo dà una comprensione più completa e approfondita. Bendetto XVI ha richiamato che «nel nostro tempo vi è un deficit di pensiero». Anche perché diamo poco tempo al pensiero. Un tempo si chiamava spazio di meditazione. Nelle “linee” elaborate dal ministero si insiste infatti molto sull’aspetto informazionale e sulla preoccupazione che la donna venga resa cosciente di tutti i problemi e i rischi connessi con la somministrazione della RU486. L’informazione viene garantita, ma il problema è che manca il tempo per pensare. Decidere di un figlio in una settimana? Siamo alla follia pura! Essa viene poi fatta passare come la pillola dell’aborto “facile”. Ma è davvero così? La stessa casa farmaceutica produttrice ha ammesso ben 29 decessi legati al suo uso, in tutto il mondo. Molti effetti collaterali, come emorragie o possibili infezioni. Mentre nell’aborto chirurgico tutto avviene nel giro di poche ore, in quello farmacologico, in genere, occorrono circa non meno di 3 giorni. La Ru486, se non si dovessero realizzare le condizioni di ricovero, riporterebbe l’aborto nella solitudine, a cui la legge 194, almeno nelle sue intenzioni teoriche, ha cercato comunque di sottrarre la donna.

Glauco Santi

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

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UNA MACRO-PROVINCIA CON LECCE, BRINDISI E TARANTO L’idea di una regione Salento affascina ma non convince, soprattutto in un periodo come questo dove occorre razionalizzare la spesa pubblica e risparmiare. Non penso che in tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo, in cui un terzo delle famiglie del Mezzogiorno d’Italia sono a rischio povertà e non possono permettersi le cure mediche (e nei casi più gravi neanche i generi alimentari di prima necessità), possa esserci spazio per un nuovo carrozzone amministrativo, con quello che comporta in termini di spese e costi e con indubbi benefici e vantaggi economici per il territorio. Quotidianamente assistiamo agli sforzi di tanti amministratori attenti, costretti a tagliare le spese per non aggravare la già difficile situazione dei bilanci degli enti locali, molti dei quali a rischio dissesto. Da tempo poi, si è aperto un dibattito sulla possibile riduzione delle Province o sulla loro eliminazione, con il conseguente passaggio di competenze ai comuni e alle regioni. Anche questo per tagliare e ridurre spese inutili che finiscono per gravare solo sulle tasche dei cittadini. È evidente, se questa è la situazione, che pensare ad una regione Salento vuol dire non solo andare controcorrente rispetto al resto del Paese e del Mezzogiorno in particolare (che in questo momento ha bisogno di restare unito, come avvertono anche i Vescovi della Cei), ma rischiare di aggravare una situazione politico-economica già difficile da gestire. Pensare di poter determinare da soli il nostro sviluppo economico, sociale e politico è pura presunzione. È vero che le tre province del Salento hanno una storia che le accomuna. Ma abbiamo molti dubbi sui vantaggi, soprattutto economici, che potrebbero derivare dalla nascita di una nuova micro regione. Al limite, se proprio vogliamo unificare, si potrebbe pensare ad una “macro-provincia”, a riunificare cioè l’antica Terra d’Otranto. Questo consentirebbe di razionalizzare spese e servizi, di non avere inutili doppioni di uffici pubblici a distanza di pochi chilometri. Non solo: una macro-provincia avrebbe più forza rappresentativa ai tavoli delle decisioni, regionali e nazionali. È questa la direzione verso cui dobbiamo e possiamo andare, per restare con i piedi per terra e rispondere alle istanze che ci vengono quotidianamente dai cittadini e soprattutto dalle famiglie che ancora guardano con attenzione e speranza alla politica. Salvatore Ruggeri

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ULTIMAPAGINA Scienze. Passeranno questa notte a distanza ravvicinata dal nostro Pianeta, i due corpi celesti segnalati dalla Nasa

Gli asteroidi con il morale per di Francesco Lo Dico iccome è invalsa l’abitudine di infiocchettare i parapiglia naturali in volgari nomignoli da odalisca, è l’ora delle pari opportunità. Nel più totale arbitrio, li chiameremo perciò Eurialo e Niso. Tanto più che dei due caratteristi virgiliani ereditano il gusto per le sortite notturne, il bisogno di tutelare la propria privacy nonostante la discreta inclinazione criminogena (fondamentale, in questo senso, l’intercessione della Santanchè) e una certa predisposizione alla corsa solitaria, ma anche in due. Votati al fallimento, come nella migliore tradizione del Nazareno, of course.

S

Diciamo la verità. I due asteroidi che stanotte, o forse la prossima, sfioreranno la Terra a una distanza estremamente ridotta, hanno dei nomi assai poco suggestivi, e tocca perciò inventarsi qualcosa. Il primo dei due, Eurialo, è noto alla scienza come 2010 RF12 e volerà a soli 77mila chilometri dalla Terra. Per noi, quanto basta per mandare all’altro mondo un’utilitaria e mezza vita di una suocera. Per lo spazio, con tutto il rispetto per la suocera, poco più di un’inezia. Stessa cosa dicasi – nome bigio e distanza a portata di Lambretta – per il secondo asteroide. Per gli astrofisici 2010 RX30, da noi già conosciuto come Niso: solo un po’ dietro Eurialo, in studiato surplace, a 231mila chilometri da casa nostra. Detto questo, sarebbe ora il momento di lanciare il grido d’allarme sulla Terra sotto assedio. E invece la troupe di Emmerich rimandi le riprese, perché la Nasa ci toglie ogni speranza di hollywooodiano impatto. «Diciamolo subito – spiegano gli esperti di Spaceweather – non ci sono pericoli di impatto con il nostro pianeta e non è in atto un particolare bombardamento di asteroidi contro la Terra. Si tratta solo di una pura coincidenza». E quindi la notizia è che resteremo ancora tutti qui, buoni e cattivi, ancora per un poco. E che purtroppo si andrà ad elezioni, tanto per cominciare. E magari continueremo a vivere, no n degni di tutto questo, nei centocinquant’anni migliori della nostra storia. I due infidi, nel senso degli asteroidi, saranno per niente visibili a occhio nudo. Perciò quanti desiderano votarsi a coppie da avanspettacolo migliori, faranno bene a dotarsi di telescopio. Anche qui per problemi di statura. Per via delle ridotte dimensioni, e della velocità supersonica con cui si muovono, il tandem Eurialo e Niso potrà essere scovato solo

TERRA da astrofili in possesso di notevole esperienza. I due corpi celesti non sono infatti inclusi nella blacklist dei Pha (Potentially Hazardous Asteroids, che nonostante l’immane sforzo di traduzione significa ciò che avete capito: “asteroidi potenzialmente pericolosi”). Per entrare nell’esclusivo database dei terroristi spaziali, e avere una taglia addosso, pure gli asteroidi devono rispondere a precisi requisiti: mole importante (un diametro superiore ai 100 m), e accertata contiguità con gli ambienti terrestri (non più di 7 milioni e mezzo di chilometri dal più vicino punto sciistico). In fondo anche loro, nascondono armi di distruzione di massa. Mica bazzecole.

Niso saranno opportunamente catalogati, in maniera tale da rendere ancora più corposi gli studi per tentare di deviare il corso dei loro cloni cattivi. Non mette troppo di buon umore, ad esempio, l’appuntamento del primo ottobre. Non si tratta di voto anticipato, vivente l’ineffabile Porcellum, ma di un asteroide dal personalino invidiabile. Grande e grosso, con 2,1 km di diametro, passerà a soli 12 milioni di chilometri dall’angolo cottura più vicino. Una distanza che in chiave astronomica equivale a una pinzillacchera. Se il colosso di pietra avesse scelto di fare la nostra conoscenza, ci avrebbe portato in dono un cratere di oltre ventisei chilometri di diametro e una profondità di ottocento metri. Piccole cortesie tra ospiti. Ma se ancora pensate che tutto sommato, pistola alla tempia, preferireste il cavaliere premio Nobel o la Gelmini maestra d’asilo dei vostri figli, forse vi servirà sapere che gli asteroidi potenzialmente pericolosi sono ad oggi più dei codicilli ideati ogni giorno da Ghedini: 1144, pericolosi, ma per fortuna solo potenzialmente.

E pure nella più fantasiosa delle ipotesi, da Orson Welles a Dick Cheney, non ci sarebbe nulla da temere. Seppure Eurialo e Niso decidessero di fare una capatina nell’orbita terrestre, andrebbero in mille pezzi, provocando sulla Terra lo stesso tipo di sconquassi che scatenano nella storia della letteratura gli haiku di Sandro Bondi: impercettibili. Bastardi senza gloria, i due corridori di pietra? Non del tutto, perché niente passa invano e anche Eurialo e

Abbastanza, però, da convincere la Nasa, a pensare a una missione robotizzata capace di monitorarne buona parte e studiarne l’effettiva carica esplosiva. Accadrà attorno al 20142015, dicono, mentre nel 2019 sarà il turno di un uomo in carne ed ossa. Il primo a mettere piede su un asteroide. Per quella data, Eurialo e Niso, saranno belli che dimenticati. Passati invano, senza fare alcun danno, dalle nostre parti meritano un pizzico di riconoscenza.

Nonostante la mole ragguardevole, non corriamo alcun rischio. «Diciamolo subito – spiegano gli esperti di Spaceweather – non ci sono pericoli di impatto e non è in atto un bombardamento contro di noi. Si tratta solo di una pura coincidenza»


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