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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 11 SETTEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La politica italiana si trasferisce a Chianciano. Un laboratorio dei centristi per superare la crisi di questo bipolarismo

«Basta con l’Italietta» Riforme, politica estera e giustizia: Cesa rilancia la sfida del Partito della Nazione E Berlusconi attacca di nuovo i giudici, mentre Schifani difende Fini: «È imparziale» OLTRE IL FALLIMENTO

di E. Novi e R. Paradisi

Terza Repubblica, modello tedesco di Enrico Cisnetto aro Direttore, l’impegno profuso per realizzare “Cortina InConTra” mi ha impedito per 50 giorni di scrivere su liberal con la consueta cadenza settimanale. Ma mai come in questi ultimi due mesi, infatti, la politica italiana, che pure non si era certo risparmiata, ha dato prova di avere toccato il fondo. Il problema è che andando dietro agli stop and go di Berlusconi, alla furbizie tattiche di Fini o a quelle di Bossi, si rischia di perdere di vista il nocciolo della questione, che va ben al di là della pur ricca quotidianità che riguarda questa o quella situazione. E il tema di fondo è il fallimento della Seconda Repubblica. a pagina 6

C

LE RISPOSTE DEL PAESE

da pagina 2 a pagina 7

RUTELLI: «COSÌ FAREMO INSIEME IL NUOVO POLO» Parla il leader dell’Api: «Con l’Udc ci uniamo per riaf-

fermare la rivoluzione liberale che il centrodestra non ha fatto e le riforme che il centrosinistra non ha fatto».

FIORONI: «IL FUTURO È AL CENTRO, NON CON DI PIETRO» L’esponente del Pd guarda con grande attenzio-

ne la nascita del partito della Nazione: «E per salvare il Paese noi aderiremmo a un governo di responsabilità».

FORMIGONI: «LA LEGA SBAGLIA: NON È TEMPO DI VOTARE» Per il Presidente della Regione Lombardia il

Carroccio «non è un partito della responsabilità: ora non ha senso interrompere la legislatura».

GALLI DELLA LOGGIA: «SCEGLIETE DI ARGINARE LA SINISTRA» L’editorialista del Corriere della Sera difende il bipolarimo e dice: «In Italia non esiste un centro che vada a ricasco della sinistra».

Il terzo polo «c’è già: è quello degli italiani che hanno capito che l’attuale sistema è arrivato al capolinea e ci chiedono un segnale di novità, un progetto concreto per andare oltre». Lorenzo Cesa, segretario nazionale dell’Unione di centro-verso il Partito della Nazione, apre con questa seria presa di posizione il primo “Laboratorio delle idee” organizzato dai centristi a Chianciano e fissa i paletti sulle ipotesi di alleanze, sia al Pd che al Pdl, senza i quali i centristi andranno soli. Anche al prossimo appuntamento elettorale. Cesa dichiara anche “attenzione” al «lavoro che sta svolgendo Francesco Rutelli e alle scelte che sta compiendo Gianfranco Fini». Ma la giornata si è snodata anche attraverso un dibattito in cui Ernesto Galli della Loggia, Francesco d’Onofrio, Luigi Frati, Piero Alberto Capotosti e Mauro Magatti si sono interrogati sul cambiamento dell’Italia e sui nuovi strumenti necessari per comprendere questi cambiamenti. Strumenti che i politici non hanno ancora compreso. a pagina 2

Michael Novak

Economia e legalità, il Sud torna protagonista Acciaroli scende in piazza per l’ultimo saluto al suo sindaco. E Fitto prepara 100 miliardi per il Mezzogiorno Insardà e Pacifico • pagine 8 e 9

Mario Arpino

Europa e Stati Uniti, Bisogna combattere fratelli divisi dall’islam l’era degli estremismi

L’11 settembre colpisce ancora Obama torna sul rogo (rinviato) del Corano: «Non permetterò mai a nessuno di usare Dio per dividere il Paese». Mentre in Afghanistan la protesta si trasforma in tragedia e in Pakistan bruciano una chiesa Vincenzo Faccioli Pintozzi • pagina 24

seg1,00 ue a p agina 9CON EURO (10,00

Ieri i funerali di Vassallo

I QUADERNI)

• ANNO XV •

La libertà non può diventare una sfida: per fare una cosa giusta, il buon senso può fare più di una legge. Perché c’è sempre un modo per trovare un compromesso

L’attacco alle Torri Gemelle non è stato fatto solo contro gli Stati Uniti, ma contro tutto ciò in cui crediamo noi in Occidente. Troppo spesso, ormai, ce ne dimentichiamo

Michael Novak • pagina 25

Mario Arpino • pagina 24

Giovanni Reale

Ayaan Hirsi Ali

«La spiritualità è il no al Corano»

Ma il mondo unico resta un’illusione

«Rispetto delle religioni è rispetto delle libertà ma all’estremismo islamico va contrapposta una visione spirituale del cristianesimo», dice il filosofo Giovanni Reale

L’idea del presidente Usa che i musulmani moderati avrebbero accolto l’invito al dialogo è fallita. Eppure, se agiamo subito, la scontro di civiltà si può scongiurare

Gabriella Mecucci • pagina 26

Ayaan Hirsi Ali • pagina 27

NUMERO

177 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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festa di Chianciano

il fatto A Chianciano, il mondo della politica analizza il progetto per superare la crisi della Seconda Repubblica

L’Italia discute al Centro

Lorenzo Cesa apre il laboratorio verso il Partito della Nazione E intanto Berlusconi attacca i giudici, mentre Schifani difende Fini di Errico Novi

CHIANCIANO TERME (SIENA). Idee chiare. «Faremo il partito della nazione». Lo dice dal palco di Chianciano Lorenzo Cesa, che indica una data: «Il congresso fondativo ci sarà in primavera». Alla festa dell’Udc arriva una risposta netta anche sul tema delle alleanze: «Non siamo interessati a farne

LORENZO CESA Quando il 35% degli elettori diserta un turno elettorale come alle scorse Regionali, significa che un altro polo c’è già. È il polo di tutti quegli italiani che hanno capito che l’attuale sistema è arrivato al capolinea

con il Pd se prima non risolve il nodo dei suoi rapporti con la sinistra estrema», compreso Di Pietro, «né ci interessa una

coalizione di centrodestra che sia dominata dalla Lega». Il terzo polo «già esiste nei fatti, nelle aspettative del Paese, di chi è deluso dal fallimento dello schema attuale». E al lavoro «di Francesco Rutelli e Gianfranco Fini», aggiunge il segretario dell’Unione di centro, «guardiamo con interesse». Negli altri due schieramenti si tenta invece di rammendare gli strappi prodotti da idee sempre molto confuse. Soprattutto nella maggioranza: Bossi stempera gli ardori suoi e dei colonnelli leghisti ribadendo che il Carroccio non farà mancare la fiducia al governo. Anche l’esuberante alleato si adegua dunque alla nuova linea di Berlusconi: niente voto anticipato. Ma tutto avviene in capo a giorni di assoluto caos, vissuti in un cli-

ma di parossistica esasperazione. Tanto che devono intervenire anche altri per tentare di ricomporre un quadro ancora frantumato. Renato Schifani, innanzitutto. Il presidente del Senato prende la parola alla scuola di formazione politica del Pdl, a Gubbio, e riconosce che «per regolamento e Costituzione Fini non è affatto sfiduciabile, se esercita il suo ruolo con autorevolezza, imparzialità e professionalità che gli vengono riconosciute». Sigillo importante, che però dopo giorni di affermazioni completamente diverse. E’ lo stesso Fini a dire, dopo essersi dichiarato soddisfatto dell’intervento di Schifani, che si tratta della «prova di quanto fosse bizzarra» la pretesa di Berlusconi e Bossi. Il numero uno di Montecitorio aggiunge che «nulla può mettere seriamente in discussione la legislatura». Tutte repentine correzioni. Rattoppi che non cancellano l’idea di un «sistema politico definitivamente inceppato»,

come Cesa lo definisce più volte nel corso della sua relazione. Non basta nemmeno l’intervento di Berlusconi, che da Mosca minimizza lo scontro

FABRIZIO CICCHITTO Sarebbe auspicabile che si passasse da un bipolarismo selvaggio a uno civile, europeo. Ma questo avverrà quando cesserà la demonizzazione di Berlusconi interno alla maggioranza con parole comunque sprezzanti nei confronti di Fini: «Ho rassicurato i nostri amici russi sulla situazione in Italia, si tratta di piccole questioni di professionisti della politica che vogliono avere la loro aziendina. Ma andremo avanti per i tre anni della legislatura», assicura il

Cavaliere non senza concedere il solito allarme sull’Italia «oppressa dai magistrati». Basta a riportare tutto alla normalità? No, al limite i toni improvvisamente fiduciosi del premier – ma anche di Alfano e Frattini che pure si allineano al nuovo corso - tutti questi richiami alla governabilità sono sintomatici del disordine, se confrontati con le bordate sparate a raffica da Pdl e Lega fino a pochi giorni fa. Ed è a partire da queste contraddizioni che trova spazio il discorso di Cesa, la sua critica spietata a due colossi, Pdl e Pd, che di fatto «non ci sono più» e dunque l’invito ad «andare oltre» rivolto a tutte le componenti della società italiana. Al nuovo progetto, al partito della nazione, servono tutte le energie possibili, spiega il se-


festa di Chianciano gretario dell’Udc. Le energie di chi è deluso dall’attuale sistema e scivola verso il disincanto dell’astensione, di giovani, fa-

SAVINO PEZZOTTA Se questo bipolarismo è fallito, vogliamo ridurre la politica a rissa o trovare una via d’uscita sulle cose che ci uniscono con un patto per riformare le istituzioni?

miglie, imprese, disoccupati, associazioni. Di una presenza vera che esorcizzi il rischio di «partiti finti che tra poco celebreranno anche i loro congressi con delegati finti». Appello che Cesa rivolge nella convinzione che «noi abbiamo individuato la strada giusta mentre il resto, i due giganti d’argilla, si dissolvono ogni giorno». Così si va avanti: nel discorso che apre la festa di Chianciano e che parte dal ricordo del sindaco di Acciaroli Angelo Vassallo, di cui negli stessi minuti si tengono i funerali, Cesa fa notare che buona parte del lavoro necessario a costruire il nuovo partito è stata fatta e adesso se ne possono raccogliere i frutti, confrontandosi con le altre forze politiche. E infatti Cesa approfitta del palco di Chianciano, della sua

STEFANO ZAMAGNI Liberismo e neo-statalismo non sono più capaci di affrontare sfide. Per questo il partito della Nazione dovrebbe mettere in agenda un’alternativa a questo bivio. Accanto al pubblico e al privato si lasci crescere il civile relazione introduttiva, per fissare una data definitiva: «In primavera arriveremo al congresso fondativo del partito della nazione». Ci si giungerà dopo un percorso che passa per il tesseramento, già avviato e aperto fino al 30 novembre, e per i congressi provinciali e regionali, a far data dal 15 gennaio. La scelta è fatta, e fa perno su un cardine, spiega il segretario dell’Udc: superare l’attuale sistema, venire incontro alla richiesta di nuovo che emerge appunto «dall’astensionismo, ma anche dalla nascita di Rete imprese Italia, dalla manifestazione messa in cantiere da Confindustria e Cisl». Segnali in cui si può vedere che «c’è lo spazio per un terzo polo». Ed è questa la funzione che l’Unione di centro decide di darsi: essere terzi rispetto ai due pilastri del finto bi-

partitismo proprio perché quell’assetto si vuole mettere in discussione, e non per opportunismo tattico. Il futuro è scritto, al di fuori di alleanze «insostenibili», dice Cesa, sarebbero quali quelle «con un centrodestra dominato dalla Lega o con un Pd che non rompe con la sinistra». Così si presenta l’Udc su una scena «avvelenata per tutta l’estate da agguati e pestaggi mediatici: una vergogna». E trascorsa anche tra «mortificazioni» come quella di «un dittatore che viene a darci lezioni di religione». Il nuovo partito sta per nascere, battezzato dai corteggiamenti

FEDERICO VECCHIONI È stato sconcertante passare un’estate sotto il fuoco di polemiche interne alla maggioranza mentre un settore come l’agricoltura, strategico per l’Italia, viene semplicemente lasciato a se stesso di chi, Pdl e Pd, «ora si aggrappa a noi». Segno di una crisi inevitabile. «Ma il compito che dobbiamo assumerci ora non può essere quello di correre in soccorso dell’uno o dell’altro». Rispetto al tema della giustizia e del salvacondotto per il premier, chiarisce subito Cesa, c’è disponibilità per «soluzioni che tolgano a Berlusconi l’alibi di non poter governare», ma non «per amnistie mascherate e processi brevi o lunghi che modifichino i diritti dei cittadini: non ci si può chiedere più di questo», è il paletto fissato da Cesa, «né ci faremo trascinare nelle sabbie mobili,

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nel vicolo cieco del ci del Paese: ci sono appunto bipolarismo ostagquelli di un settore come l’agio delle forze più gricoltura», avverte il dirigente estreme». Con chi si dell’Unione di centro. Che poi CIRIACO DE MITA potrà costruire il ribadisce la solidarietà a RafDi Pietro legge nuovo percorso? Infaele Bonanni e invita quindi i la realtà politica tano Rutelli e Fini suoi interlocutori a riflettere hanno preso atto a con la stessa rozzezza sulla necessità di superare la loro volta del falli- con cui ha fatto il pm. Seconda Repubblica: «Molti di Bossi ricorre mento del sistema: noi avevano sperato che sarebagli insulti. sempre «Guardiamo a loro be stata in grado di cambiare il Non avevamo mai con attenzione. Se Paese: vent’anni buttati. Noi conosciuto questo fossimo entrati in abbiamo affrontato tre campalivello di degrado maggioranza per gne elettorali solitarie, non in sostituire i finiani solitudine. Una fatica esaltanavremmo firmato la nostra è nelle aspettative dei delusi, te. Chiedo anche a loro se non condanna». Conferma, il se- nelle richieste del sistema pro- ritengano necessario un camgretario dell’Udc, l’offerta del duttivo e nel tracollo del qua- biamento a partire dalla legge ministero dello Sviluppo eco- dro politico attuale. E la rispo- elettorale. E da un patto costinomico pervenuta nelle setti- sta del «partito della nazione», tuzionale nuovo», dice Pezzotmane scorse dal premier: ribadisce Cesa, è l’unica possi- ta accogliendo tra l’altro l’invi«Non ci interessa, l’importante bile. è che quel ministro sia final- Nel dibattito del pomente nominato». meriggio arrivano Va cambiato tutto, a comincia- riconoscimenti sire dalla legge eletto- gnificativi dai rela- DARIO FRANCESCHJNI rale: «Va riscritta e tori “esterni”. Dal L’obiettivo resta siamo disposti a di- presidente di Conquello di arrivare ad scuterne con tutti». fagricoltura Federi- uno schema analogo Soprattutto, «va eli- co Vecchioni, innanalla maggior parte minato il premio di zitutto: «Confermo delle democrazie, maggioranza: fun- la vicinanza della dove ci si divide tra ziona come una do- nostra associazione due grandi partiti, se sempre più alta al vostro partito, uno che governa per un drogato, una che può dare un e uno all’opposizione volta assunta di- contributo signifispiega effetti nefa- cativo nella dialettisti, si comincia a li- ca con la maggioranza». Vec- to rivolto in mattinata da Ernetigare, e poi la si chioni non manca di lamentar- sto Galli della Loggia. cerca di nuovo». si per un confronto estivo «Dall’inizio degli anni NovanRappresentazione «concentrato sulle “case” anzi- ta - ha spiegato Dario Franceperfetta per quanto avvenuto ché su questioni serie come schini - ci siamo illusi che fossinegli ultimi giorni. E il federa- quella delle politiche agrico- mo vicini alla fine della transilismo? Quello della Lega «è le». Rilievo accolto da Savino zione. Che bastasse una legge uno spot destinato a far cre- Pezzotta, che conduce l’ultima maggioritaria. Poi, nel 2008 è scere i costi, per questo lo abarrivata l’ultima debiamo bocciato. Ci sentiamo lusione. Ma l’obiettiveri federalisti, eredi della travo resta quello di ardizione sturziana. Ma bisogna rivare ad uno schemettere uno stop agli estremima analogo alla RENATO SCHIFANI smi della Lega che dividono il maggior parte delle Il presidente Fini non è Paese, come dall’altra parte democrazie occisfiduciabile se esercita non è possibile accettare di fa- il ruolo con imparzialità dentali, dove alla fire un passo insieme agli estre- e autorevolezza che gli ne ci si divide tra misti di Di Pietro e Grillo». due grandi partiti, vengono riconosciute. Non si possono nemmeno ipouno che governa e A meno che non si sia tizzare alleanze con schierauno che sta all’oppomacchiato di menti già andati in pezzi. «Si sizione». «Con la responsabilità, che a può solo guardare con attenglobalizzazione tutti me però non risultano zione alle scelte compiute da gli schemi sociali, Rutelli e da Fini, anche se con ma anche culturali e quest’ultimo su alcuni temi, a tavola rotonda della giornata ideologici sono saltati», è l’aspartire da quelli eticamente con Ciriaco De Mita, Fabrizio sunto da cui parte la lunga anasensibili, le nostre posizioni Cicchitto e Dario Franceschi- lisi di Cicchitto, «si sono aperti sono state finora piuttosto di- ni: «Capisco i problemi della spazi enormi per la vera casta, stanti». Ma il terzo polo già c’è: Fiat, ma non sono certo gli uni- quella della speculazione finanziaria: rispetto a questo il governo ha messo il sistema al riparo dalla crisi. Ma ora occorre un confronto fuori dagli schemi, è vero, perché andrebbe discusso il problema della crescita». Ma pur sempre nell’ambito del bipolarismo, sostiene il capogruppo del Pdl. Possibile farlo? No, risponde De Mita, se «il bipolarismo si riduce alle pernacchie e al turpiloquio di Bossi. All’indicazione del nemico. Non è possibile ragionare se il terreno del confronto è questo. Siamo in una sorta di impazzimento», ricorda l’ex presidente del Consiglio. Nel dubbio che i colossi di argilla riescano davvero a rendersene conto.


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festa di Chianciano

Il leader dell’Api, che oggi sarà al Laboratorio dei centristi, spiega qual è il nuovo progetto comune

«Cominciamo il Nuovo Polo» Parla Francesco Rutelli. «Con l’Udc ci uniamo non contro la Lega e il suo separatismo, ma per riaffermare la rivoluzione liberale che il centrodestra non ha fatto e le riforme democratiche mancate dal centrosinistra» di Franco Insardà

ROMA. «Certo, è necessario unirsi per fondare un Nuovo polo che si candidi a essere il punto di incontro con l’Udc, auspicabilmente con la componente finiana e con le altre forze autonomiste come il Movimento per le autonomie di Lombardo e le altre realtà democratico-liberalipopolari. Ma questo progetto avrà un senso se porterà alla nascita di una cosa nuova e più grande per rilanciare il Paese». Questa mattina il leader dell’Alleanza per l’Italia, Francesco Rutelli, è a Chianciano per ribadire i suoi progetti bellicosi contro il bipolarismo balcanico che blocca l’Italia. Tempi duri per i cofondatori? Durissimi, ma anche promettenti. Sono stati duri dal momento del concorso a fondare questi nuovi soggetti. Adesso tutto sommato stanno diventando tempi creativi, perché la fatica e il rammarico per la separazione hanno lasciato la strada a orizzonti nuovi. La cosa ovviamente vale anche per Fini, non soltanto per me. Lei ha definito il Pd un partito mai nato. E il Pdl? Un cittadino alla festa di Labro mi ha detto: «Lei ha scritto il li-

bro Un partito mai nato e adesso abbiamo capito che la causa è stata una lite in sala parto». Gli ho replicato che la battuta era buona, ma non coglieva il problema perché nel caso del Pd non è mai iniziato neanche il concepimento. Perché? L’unione di due soggetti o è l’inizio di una storia nuova, oppure inevitabilmente uno dei due assorbe l’altro. A destra il Pdl è stata un’esperienza che fondata sulla guida di Berlusconi, ma con il crescente condizionamento della Lega, fattore che poi ha provocato la rottura con Fini. Il Pd, anziché essere come avevo sognato, immaginato e voluto sciogliendo un partito come la Margherita con un patrimonio di voti a due cifre, è stato un regredire all’esperienza del Pds, pur con rispettabilissime posizioni di popolari e laici, che però sono stati collocati in posizione accessoria. Non c’è stata neanche quella che Emanuele Macaluso sostiene essere la somma di due partiti? Si è trattato di una sottrazione, perché soltanto un pensiero nuovo fa conquistare nuovi consensi.

Ne è sicuro? È successo con la Margherita, che ha ottenuto molti più consensi rispetto alla somma dei partiti fondatori. Ma la Margherita rappresentava un’idea nuova, un fattore riformista e di equilibrio della coalizione. Nel caso del Pd, invece, si sono persi elettori a sinistra, di centrosinistra, verso il centro e verso l’astensione. E qual è l’idea nuova di Alleanza per l’Italia? Unirsi per fondare un nuovo polo che si candidi non soltanto a essere il punto di incontro con l’Udc, auspicabilmente anche con la componente finiana, con le altre componenti autonomiste come il Mpa di Lombardo e con le altre realtà democratico-liberali-popolari, ma anche a crescere, a diventare una cosa nuova e più grande. Pensa quindi al Terzo polo? Preferisco chiamarlo Nuovo polo: è terzo nell’ordine di partenza, ma potrebbe diventare primo all’arrivo. Un primato che potrebbe conquistarsi proprie per la novità delle idee? Intanto questo progetto scaturisce dalle delusioni e dalla constatazione della non riuscita dei due poli. Da una parte Casini e

dall’altra io stesso abbiamo preso parte alla fase fondativa, cercando di contribuire a un equilibrio politico e a un profilo programmatico che non si sono realizzati. Pier Ferdinando si è coraggiosamente staccato alle ultime elezioni, ha corso da solo e ha iniziato la prefigurazione di un nuovo approdo che ora si vede più nitidamente. Ma non c’è solo l’esperienza negativa a creare fiducia per un nuovo soggetto; c’è una parte crescente di italiani scontenta di questo bipolarismo, e soprattutto un numero potenziale di delusi della politica che si sono astenuti e che potrebbe aumentare alle prossime elezioni. L’obiettivo? Il senso di questa operazione non è alchimia politica: l’elemento moltiplicatore scatta quando c’è una visione. Il senso della nostra convergenza deve essere quello di avanzare proposte radicalmente innovative per la crescita dell’economia, per il lavoro, per le famiglie, per le piccole imprese. Ci uniamo non per fare solo un discorso contro la Lega e il suo separatismo, ma per riaffermare da parte di chi è stato nel centrodestra la rivoluzione liberale che non c’è stata, e di chi è

stato nel centrosinistra un cambiamento fatto di riforme democratiche che non ci sono state. L’idea di un Partito della Nazione la stimola? Sì. Sul nome e sul processo per costruirlo ci dobbiamo confrontare e sceglieremo la migliore tra le varie proposte. La responsabilità nazionale e le larghe intese possono essere un modo per uscire dall’attuale stallo? Ho la sensazione che Berlusconi sia più alla ricerca di singoli parlamentari che non di questo approdo proposto da Casini e siccome, come ha osservato lo stesso leader dell’Udc, la parola decisiva spetta al Cavaliere perché ha vinto le elezioni temo che il condizionamento della Lega lo impedisca. Sarebbe uno sviluppo certamente positivo perché permetterebbe intanto di far decantare questa esasperazione del bipolarismo guerriero e dall’altra di concentrarci auspicabilmente sulle riforme da fare che sono urgenti. Purtroppo le risposte fin qui arrivate non sembrano positive. Quindi l’appello di Berlusconi ai suoi alleati alla responsabilità non è molto credibile.


ROBERTO FORMIGONI

«La Lega non è un partito della responsabilità» «Il Carroccio sbaglia a volere il voto anticipato: ora non avrebbe senso interrompere la legislatura» ROMA. Da politico attento, Roberto Formigoni è consapevole del momento difficile che sta vivendo il nostro Paese. Ma non ritiene che ci siano alternative. Il presidente della regione Lombardia non condivide le posizioni leghiste schiacciate sul voto anticipato. Spera piuttosto che in Parlamento vengano confermati i numeri della maggioranza necessari per continuare a governare. Presidente Formigoni, il premier ha fatto un appello alla responsabilità, un invito che viene anche da altre forze politiche: ritiene che ci siano le condizioni? C’è bisogno di uno scatto di responsabilità da parte della politica, perché è da tempo che si registrano battute d’arresto. Mi auguro che a fine settembre, quando ci sarà la verifica in Parlamento, ci siano le condizioni per permettere alla legislatura di andare avanti e al governo di svolgere la propria opera. Lavorare per salvare la maggioranza mi sembra un compito che giustamente Berlusconi vuole perseguire. E le spinte della Lega per un voto anticipato?

ROMA. È tra quei pochi che ha esternato un malessere non di facciata all’ipotesi di un’alleanza di «tutte le opposizioni per mandare a casa Berlusconi». Ma è anche uno dei pochi che pubblicamente ha detto di essere perplesso dall’ipotesi avanzata dal suo segretario, Pierluigi Bersani, di restaurare l’Ulivo sotto una nuova insegna. Beppe Fioroni, ex ministro dell’Istruzione e membro del direttivo democratico, interverrà oggi alla Festa dell’Udc di Chianciano. Onorevole Fioroni, siamo di fronte ad una crisi di governo? Io credo che ormai si sia aperta una crisi ben più ampia, una crisi dell’intero sistema, che travolge definitivamente quella che siamo soliti chiamare Seconda Repubblica. Siamo alla fine di un percorso che ha ridotto i partiti a dei fans club, senza la partecipazione tipica dei partiti liberali e democratici. Il tempo in cui il leader è anche il padrone è terminato. Fin qui ognuno cercava di portare a casa qualcosa, infischiandosene del bene comune. Oggi è il momento di voltare pagina. E come? L’ho detto e lo ripeto senza timore: sono contrario alle ammucchiate generali solo per raccogliere un voto in più dell’avversario. Dobbiamo essere alternativa credibile a Berlusconi e se l’idea fosse quella di tornare indietro io non credo che riusciremo a farcela. Dice no alla sinistra radicale? Per vincere bisogna rafforzare l’identità democratica del Pd e per farlo io non credo che sia opportuno guardare alla sinistra radicale. Piuttosto, bisogna essere

Non le condivido in questa fase. Bisogna fare di tutto per evitare lo scioglimento delle camere, perché non avrebbe senso interrompere la legislatura. Se poi a fine settembre non ci dovessero essere i numeri, allora il discorso cambierebbe. La nascita del Terzo polo può contribuire a superare un bipolarismo ingessato? Penso che gli italiani abbiano interiorizzato il bipolarismo: semmai vogliono migliorarlo. C’è spazio per un Terzo polo? Non credo, se lo si considera alternativo ai due già esistenti. Intorno a questo non c’è il consenso necessario, come hanno dimostrato le scorse elezioni politiche. Che prospettive vede per l’alleanza tra l’Udc di Casini, l’Api di Rutelli e il gruppo finiano? Ritengo che siano più le contraddizioni tra le posizioni di Fini da una parte e quelle di Casini e Rutelli dall’altra, che convergenze. Su tutto le posizioni asso-

lutamente divergenti in merito a temi importantissimi come le questioni etiche. Sono convinto che gli italiani preferiscano poter scegliere in prima persona le alleanze, le formazioni di governo e i leader prima delle elezioni. E che non gradiscano troppo che i partiti lo facciano dopo il voto. Questa alleanza Casini-Rutelli potrebbe essere identificata dai cattolici come un’area di riferimento? C’è certamente bisogno di un ritorno al protagonismo da parte dei cattolici che sono presenti in diverse formazioni, ma non in tutte. Ci può spiegare? Se si facesse una ricerca attenta, si scoprirebbe che la maggioranza dei cattolici si orienta verso i partiti di centrodestra o di centro, perché li sente più vicini ai valori della famiglia, della vita. Molti cattolici lavorano all’interno delle associazioni e dei movimenti della società civile, e quando è il momento di votare privilegiano le formazioni di centrodestra e di centro. Condivide l’analisi di Giuseppe De Rita sullo scarso impegno dei cattolici in politica? Credo che ci sia bisogno di uno scatto in avanti, ma in questo c’è una responsabilità di noi politici nel non aver creato spazi maggiori di partecipazione. Oggi i partiti appaiono più di prima delle associazioni chiuse, e c’è poca apertura ai contributi esterni. All’ordine del giorno c’è per i partiti l’esigenza di fare un esame di coscienza: bisogna finalmente consentire ai cittadini di intervenire nelle decisioni (f.i.) e nei progetti.

BEPPE FIORONI

«Altro che Di Pietro, il futuro è al Centro» «Un governo di larghe intese che risani i conti e cambi la legge elettorale noi lo appoggeremmo» di Francesco Capozza attenti a ciò che accade al centro. Non per niente lei oggi sarà a Chianciano, alla festa dell’Udc. Casini e Rutelli sono due persone ragionevoli e i loro partiti non si distanziano poi molto dalle nostre vedute. Credo che un ragionamento non solo elettorale con loro sia oltre che possibile, auspicabile. Però entrambi vedono Di Pietro come il fumo negli occhi… Di Pietro potrebbe creare con noi un’alternativa democratica a questo governo. Condivido, di massima, la sua lotta contro l’illegalità, ma non mi trovo assolutamente d’accordo a portare questa battaglia nelle piazze. In più, ultimamente l’Idv mi sembra più interessata ad erodere consensi a noi e ad allearsi con il movimento di Grillo piuttosto che creare una coalizione vincente insieme a noi. Tutto questo è un vulnus grave. Che ne pensa del governo di responsabilità nazionale invocato da

più parti? Facciamo una netta distinzione tra quello che intende Berlusconi come “responsabilità nazionale” e quello che intendiamo noi. Per lui si tratta di fare una campagna acquisti incentrata a far sopravvivere un governo ormai in agonia, per noi si tratta di non accentuare la crisi economica che attanaglia il paese e di ridare ai cittadini la possibilità di scegliere chi mandare in parlamento. Un governo con questi obiettivi, risanamento dei conti pubblici e riforma elettorale, noi siamo pronti ad appoggiarlo. Comunque, va dato atto che Berlusconi ha deciso di parlamentarizzare la crisi, o no? Berlusconi, come sempre, è arrivato in ritardo. Doveva venire in parlamento tre mesi fa, certificare la crisi della sua maggioranza e salire al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Invece sta prendendo tempo per la sua campagna acquisti tra i deputati di altri partiti. Comunque lo aspettiamo in parlamento e siamo curiosi di sentire quello che avrà da dire.

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Nelle parole di Bossi l’espressione responsabilità risuona molto poco. Il governo, quindi, è sempre più in balia della Lega? Si ha la netta sensazione che per il Pdl il ruolo della Lega sia sempre più determinante, non solo numericamente e non solo per le pretese che vengono avanzate in modo sempre più arrogante. Finora nel Pdl questi atteggiamenti del Carroccio sono stato visti con benevola disapprovazione, considerandoli delle mattane o delle bravate, ma così non è. Il Nuovo polo come si rapporterà con il Pd e le proposte di alleanza? Il punto di intesa ci potrebbe essere sulla seconda proposta avanzata dal Pd. La prima, quella battezzata come “nuovo Ulivo”, mi pare piuttosto la riproposizione dell’Unione più spostata a sinistra. Il ‘secondo cerchio’ipotizzato da Bersani che presuppone un ragionamento basato sulle regole e sulle questioni istituzionali, può avere il senso di una convergenza nazionale di fronte a una emergenza. Preferisco comunque l’idea del nostro Nuovo polo perché ogni nuova aggregazione deve avere un carattere progettuale positivo e costruttivo. E le nostre affinità sono molto più solide. Quali saranno i rapporti del Nuovo polo con il Pd? Siamo forze autonome che avranno rapporti certamente costruttivi, ma distinti. Il ritorno alle urne a breve per voi non sarebbe auspicabile. Non è auspicabile per il Paese, mentre, paradossalmente, la nostra prospettiva elettorale accelererebbe. Perché? Metterebbe tutti di fronte alla necessità di trovare una convergenza nel breve termine. Con quale legge elettorale? Abbiamo presentato in Parlamento la proposta di un sistema elettorale alla tedesca, lo stesso ha fatto l’Udc e su questo ci sono ulteriori convergenze. È chiaro che su questo argomento si giocheranno gli ultimi mesi della legislatura sia in caso di scioglimento anticipato sia con una conclusione ordinaria. Lo spera? Tornare al voto con una legge che impone il premio di maggioranza è aberrante per una democrazia. Se a questo aggiungiamo il potere di nomina dei caballeros fedeli ai capi dei partiti siamo quasi al golpe, rispetto alla rappresentanza dei cittadini. In giro si contesta, ma non ci si confronta. Il clima della nostra festa di Labro è stato splendido. La stessa atmosfera si è sempre respirata a Chianciano alle feste dell’Udc. Non mi scandalizzo quando ci sono delle contestazioni e delle critiche; ogni politico la deve saper accettare. Cosa diversa è quella di forze che legittimano in modo irresponsabile comportamenti intolleranti e violenti che, invece, vanno isolati.


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festa di Chianciano Legge elettorale e sistema economico

Terza Repubblica, modello tedesco Prima di tutto bisogna dire agli italiani che un intero sistema politico è fallito. Secondo: bisogna subito scegliere un nuovo metodo di voto. Terzo fare una radiografia, onesta anche se impietosa, dei nostri conti pubblici. E infine occorre avere la consapevolezza che non serve un «terzo polo», ma un nuovo inzio di Enrico Cisnetto aro Direttore, l’impegno profuso per realizzare “Cortina InConTra” mi ha impedito per 50 giorni di scrivere su liberal con la consueta cadenza settimanale. Non ti nascondo che, a parte le motivazioni cogenti, la cosa non mi è costata troppo, anzi. Non per liberal, naturalmente, che ho continuato a seguire ed apprezzare, bensì per gli argomenti sui quali avrei dovuto dire la mia. Mai come in questi ultimi due mesi, infatti, la politica italiana, che pure non si era certo risparmiata, ha dato prova di avere toccato il fondo. Il dibattito (si fa per dire) ha raggiunto livelli così infimi da creare repellenza, e francamente seguirlo per dovere di cronaca rischia di abbassare a quel livello di indecenza anche chi di solito vola più alto.

C

Ma non è solo una questione di “stomaco”. Qui il problema è che andando dietro agli stop and go di Berlusconi, alla furbizie tattiche di Fini o a quelle di Bossi, si rischia di perdere di vista il nocciolo della questione, che va ben al di là della pur ric-

ca quotidianità che riguarda questa o quella situazione. E il tema di fondo è il fallimento, definitivo e completo, di quella stagione politica apertasi nel 1994 che abbiamo impropriamente chiamato Seconda Repubblica. Lo so, caro Direttore, che lo abbiamo detto e scritto tante volte – figurati che io l’ho pronosticato prima che accadesse, purtroppo inascoltato per anni – ma vale la pena ribadirlo oggi, per evitare di cadere nella trappola di credere che quella cui stiamo assistendo sia una partita alla quale sia utile partecipare. E vale a maggior ragione la pena di dirlo mentre è in corso l’appuntamento di Chianciano, dove si spera che l’ex (?) Udc sappia finalmente trovare la strada verso quel Partito della Nazione finora più evocato che costruito. Dunque, rifuggiamo dalla tentazione di attribuire torti e ragioni a Fini, e specularmente a Berlusconi. Non facciamoci prendere dalla voglia di stabilire se la Lega sta facendo il gioco del Cavaliere perché si sono divisi i

compiti o al contrario se sta facendo il doppio gioco, e sarà quella la mano assassina che butterà a mare il governo, e dunque dalla voglia di partecipare al grande concorso a premi «a chi rimane in mano il cerino?» nella corsa verso le elezioni anticipate. Chiamiamoci fuori, chiamatevi fuori amici riuniti a Chianciano. Intanto,

te pensare a come costruire la Terza, mostrando di non comprendere che da questo drammatico default politico-istituzionale, ben peggiore di quello che portò con Tangentopoli alla fine della Prima Repubblica, nessuno potrà chiamarsi fuori.

Per questo, ci sono quattro cose su cui bisogna lavorare. Primo: spiegare agli italiani che la crisi, irreversibile, non è di questo o quello, ma del sistema politico nel suo insieme. Derivante dalla pretesa di applicare all’Italia, peraltro senza averne minimamente la necessaria cultura, uno schema politico che non gli è proprio, quello del maggioritario. Secondo: di conseguenza, occorre avanzare subito – proprio mentre è più fragoroso il rumore del crollo della credibilità della politica – una proposta che indichi il nuovo metodo di voto, l’impianto istituzionale e il sistema politico. Per quanto mi riguarda la scelta è fatta da tempo: copiare la Germania, tanto per la legge elettorale quanto per l’assetto istituzionale, e la

Il tema di fondo è il fallimento definitivo di quella stagione politica apertasi nel 1994: la Seconda Repubblica perché in casi come questi vale sempre la regola che alla fine non rimane vivo nessuno. E poi perché gli italiani non perdoneranno coloro che si attardano a regolare i conti della Seconda Repubblica senza minimamen-

Grande Coalizione (con esclusione delle forze estreme, giustizialiste e secessioniste) come schema politico per almeno una legislatura. Affidando la revisione della Costituzione a un’Assemblea Costituente. Tutto questo non va semplicemente evocato, ma deve tradursi in una proposta esplicita su cui chiamare ad esprimersi le forze politiche e sociali e la società civile. Terzo: radiografare senza indulgenze all’ottimismo di maniera o al pessimismo disfattista, la condizione di salute della nostra economia e indicare le riforme strutturali necessarie per restituirle la competitività perduta e quindi la capacità di svilupparsi. Anche qui soccorre quanto detto da tempo e in tempi non sospetti. Analisi: stiamo faticosamente recuperando quanto abbiamo lasciato sul terreno nel terribile biennio scorso, lavoro nel quale siamo comunque solo a metà dell’opera, ma questo recupero non cancella, anzi in certi casi accentua come nel confronto con la Germania, il gap preesistente alla Grande Crisi rispetto alla capacità di crescita del pil europeo e mondiale; dun-


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Intellettuali a confronto sulla cecità della politica di fronte alle trasformazioni della società

Bipolarismo e Grande Centro, può vincere l’Udc? Capotosti, Galli della Loggia, Frati, D’Onofrio e Magatti discutono sul realismo delle prospettive politiche del partito della Nazione di Riccardo Paradisi

CHIANCIANO. «Sono cambiate le strutture della società italiana, è cambiato lo scenario geopolitico planetario, s’è profondamente modificata la cultura e l’antropologia del Paese: la crisi deriva dal ritardo di comprensione di questo cambiamento da parte delle classi dirigenti». Francesco d’Onofrio entra subito nel merito della tavola rotonda sul declino italiano che vede sul palco del Palamontepaschi Ernesto Galli Della Loggia, Piero Alberto Capotosti, Luigi Frati e Mauro Magatti. Dove nasce la crisi? Secondo Magatti, preside della facoltà di Sociologia della Cattolica di Milano, dallo smarrimento delle radici culturali cattoliche del Paese, che «non sono radici di parte, ma comuni. È questa identità profonda che il Paese e le sue classi diri-

LUIGI FRATI: «Quello che frena di più lo sviluppo del Paese è un blocco oligarchico che non vuole la modernizzazione. Ed è un problema che riguarda anche l’università»

genti sembrano aver smarrito, ma questa identità culturale è il fattore d’equilibrio che consentirebbe la ricostruzione e la modernizzazione del Paese».

Se Luigi Frati ritieme che «ciò frena di più lo sviluppo del Paese è il blocco oligarchico che non vuole la modernizzazione (e l’università ha iniziato con difficoltà un percorso di analisi di questo fenomeno), Magatti misura le dimensioni di questo smarrimento dall’estensione del consenso leghista al nord, dove il bacino elettorale del Carroccio è l’esatta pantografia di quella che era l’area di radicamento della Democrazia cristiana. «È qui che si pesa quanto grave è la cesura tra elite e opinione pubblica, quanto le classi dirigenti abbiano smesso di dare forma di rappresentanza al Paese e di quanto abbiano dimenticato la lezione sturziana di mettersi in ascolto della società, di conoscere e interpretare esigenze e sentimenti delle categorie, delle associazioni dei corpi intermedi. Stare al timone non significa comandare ma dare l’intonazione ispirata dall’ascolto del Paese profondo. Che altrimenti diventa preda di

demagogie». L’astrazione delle elite dal principio di realtà genera dunque l’incapacità di leggere i cambiamenti e di governarli. E rispetto alla Prima Repubblica, in effetti, è cambiato tutto. L’editorialista del Corriere della Sera Galli Della Loggia riassume in tre snodi la crisi economica, sociale e politica italiana sullo sfondo delle mutazioni davvero epocali degli ultimi vent’anni. «Nella Prima Repubblica la spesa pubblica e l’uso perequativo del welfare consentivano margini di manovra larghi coi quali imprese e sindacati riuscivano a comporre il conflitto sociale. Quei margini oggi non esistono più. E non esistono - ecco il secondo elemento - perché sono entrati in scena i concorrenti asiatici, ha fatto irruzione nell’economia mondo la globalizzazione dei mercati che elimina quelle rendite di posizione. Infine con la fuoriuscita dalla guerra fredda l’Italia ha perduto la sua centralità strategica per gli Stati uniti. Che oggi guardano con più interesse ai Balcani che al nostro paese». Tutto questo si riflette nella politica italiana, smarrita e in affanno. Ma Galli Della Loggia non è d’accordo sull’analisi della crisi che si fa qui a Chianciano. Il bipolarismo non c’entra secondo l’editorialista del Corriere. «Nei sistemi parlamentari è fisiologico che non ci sia un centro. Anche la Democrazia cristiana in fondo era un finto centro, era un blocco culturale e politico che si contrapponeva alla sinistra, si chiamava di centro ma poteva dirsi di destra se non fosse che la destra in Italia era occupata dai neofascisti. Questa è la realtà del centrismo cattolico in Italia e in Germania. Questa funzione d’antagonismo alla sinistra è venuta meno in Italia quando Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario democristiano, abbandona il campo moderato e s’acquartiera a sinistra, lasciando a un’altra destra, quella berlusconiana e leghista, una prateria da

PIETRO A. CAPOTOSTI: «Facciamo come la Germania, dove il cancellierato ha consentito di gestire agevolmente anche il passaggio cruciale e l’urto formidabile della riunificazione tedesca»

MAURO MAGATTI: «Tutto deriva dello smarrimento delle radici culturali cattoliche del Paese, che non sono di parte, ma comuni. È questa l’identità profonda che il Paese ha perso»

conquistare». E la crisi in cui si dibatte il bipolarismo italiano, come la spiega l’editorialista del Corsera? Per esempio: perché l’ultimo quindicennio politico ha generato ali estreme e come la Lega e l’Idv di Di Pietro? All’obiezione Galli della Loggia risponde che «senza questi connotati negativi il bipartitismo può funzionare benissimo, senza la presenza di Berlusconi e della Lega da un lato e senza il dipietrismo

dall’altro, soggetti che col loro stile politico particolare sono un elemento di esasperazione, anche l’Italia avrebbe un bipolarismo normale». Piuttosto il dato di crisi vero è che nessuna forza politica ha un programma per il paese: «Non mi risulta che esistano o stiano per essere messe a punto a destra, a sinistra o al centro proposte compiute per riformare il welfare, piani precisi per assorbire il debito pubblico».

Senonché il bipartitismo segna il passo anche là dove ha sempre goduto d’una sua normalità, fa notare il presidente emerito della corte costituzionale Piero Alberto Capotosti. «In Gran Bretagna è in difficoltà – dice Capotosti - in Australia l’attuale premier ha avuto un solo voto in più di maggioranza. Noi abbiamo buttato via il

GALLI DELLA LOGGIA: «Nei sistemi parlamentari è fisiologico che non ci sia un centro. Perciò è necessario che ci sia un blocco culturale e politico che si contrappone alla sinistra»

sistema proporzionale, introdotto il bipolarismo senza porci il problema di modificare la Costituzione. S’è visto il risultato: governi in crisi perenne, proliferazione di partiti - dal 2006 al 2008 in parlamento c’erano oltre trenta gruppi politici – nascita in vitro di partiti artificiali, senza tradizione politica e che in Europa non esistono, cartelli elettorali che non a caso oggi implodono dopo paurose crisi di identità». Cambiare questa legge elettorale dunque. Come? «Facciamo come la Germania, dove abbiamo una formula come il cancellierato che ha retto la repubblica federale e che ha consentito di gestire agevolmente anche il passaggio cruciale e l’urto formidabile della riunificazione tedesca. Che permette governi di coalizione come quello attuale di Berlino». In breve: per il presidente emerito della Corte costituzionale occorre un disegno costituente per modificare il nostro assetto istituzionale e riformare legge elettorale: «Questo potrebbe essere in larga parte l’obiettivo programmatico del Partito della Nazione che sta nascendo». E alla fine D’Onofrio rassicura Capotosti: «Il nostro obiettivo è proprio questo».

que, abbiamo da affrontare e risolvere in un colpo solo tre problemi che si vanno drammaticamente sommando, e cioè colmare le distanze competitive che abbiamo accumulato nel periodo 1992-2007, recuperare le quote di reddito e di produzione perse nel 2008-2009, evitare di perdere punti nel nuovo quadro geo-politico-economico mondiale che si sta determinando nella globalizzazione post-crisi. Proposta: si facciano subito la riforma delle pensioni, portando l’età pensionabile a 67 anni, quella della sanità, riportando le competenze in capo allo Stato, quella della semplificazione dei diversi livelli amministrativi (abolendo le Province, diminuendo a metà il numero dei Comuni, accorpando le Regioni più piccole a quelle maggiori e cancellando molti enti minori tipo le Comunità montane), quella della liberalizzazione di molti dei servizi pubblici e privati, con annessa privatizzazione delle municipalizzate. In più si metta mano una tantum al debito pubblico mettendo sul mercato attraverso una società veicolo da quotare in Borsa i beni mobili e immobili dello Stato e degli enti locali. Quarto: chi lavora a favore dei primi tre punti, smetta di parlare di “terzo polo”. Ho già spiegato qui, e l’ho ribadito a Labro intervenendo alla festa dell’Api di Rutelli e Tabacci, che la necessità di costruire una nuova forza politica – che è maledettamente in ritardo – oggi non coincide più con la necessità, ahimè terminata con le elezioni del 2006, che essa sia“terza”.Terza di che?

Se il bipolarismo ha perso entrambi i poli su cui si regge, non ha più nessun significato immaginare la creazione di una “forza terza”. Al contrario, adesso serve costruire una “prima forza”, sostitutiva dell’esistente, il quale è ancora “vivo” solo formalmente, in attesa che il “morto” – la Seconda Repubblica – venga definitivamente dichiarato tale e seppellito. Quello che viene chiamato il “dopo Berlusconi” altro non è se non la necessità di individuare uomini, risorse e strategie per fare al più presto ciò che lo stesso Cavaliere fece nel 1994: raccogliere, senza continuità alcuna, l’eredità di chi aveva avuto il consenso fino a quel momento. Allora la catarsi fu Tangentopoli, oggi l’implosione del sistema berlusconiano. Ma la condizione è la stessa. E come a Berlusconi non venne l’idea di fare una “terza forza”, necessariamente subordinata per quanto consistente, così oggi il tema è quello di una forza primaria che sappia ricostruire un nuovo sistema politico. Quello di cui al punto secondo di questo schema di ragionamento. Quello della nascente Terza Repubblica. Il compito è arduo, i tempi sono stretti. Ma ora o mai più. (www.enricocisnetto.it)


politica

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Non solo eroi. Oltre seimila persone, numerosi esponenti politici e i gonfaloni di molti comuni ai funerali di Angelo Vassallo, assassinato in un agguato

Scontro sul Mezzogiorno Il vescovo: «Gli assassini sono bestie, mi auguro che non siano mescolati tra di noi». Casini: «Smettiamola con le litanie» di Franco Insardà

Non servono né soldi né federalismo, ma Stato, garanzie, sicurezza e libertà

ROMA. «I responsabili dell’omici-

Il sindaco-pescatore e il Sud che sogniamo

dio di Angelo Vassallo sono più simili a bestie che a uomini. Mi auguro che non siano mescolati tra noi o che siano sprofondati sulle loro poltrone a guardare in tv questa grande manifestazione di affetto per Angelo». Parole dure quelle del vescovo di Vallo della Lucania, monsignor Rocco Favale, ai funerali del sindaco di Pollica. La pioggia e il vento che spazzava il porto di Acciaroli dove si è celebrata la messa funebre non hanno fermato le oltre seimila persone che hanno voluto rendere omaggio al sindaco-pescatore. Il paese era tappezzato di manifesti con il suo volto e la scritta “Ciao Angelo, eroe del Cilento”. Una sua gigantografia a colori campeggia sulla torre normanna che domina il porto rimo-

Il ministro dell’Ambiente Prestigiacomo assicura: «Il Cilento non sarà lasciato solo. Faremo di tutto per salvaguardare questa zona» dernato e rilanciato proprio da Vassallo e i suoi amici hanno issato uno striscione sul quale si leggeva “Ora ci chiamiamo tutti Angelo Vassallo: sei e sarai sempre vivo in mezzo a noi”. La sua bara all’uscita della chiesa dell’Annunziata è stata accolta da applausi e dal suo delle sirene delle barche dei suoi amici pescatori.

Monsignor Favale nella sua omelia ha richiamato l’amore di Vassallo per la sua terra e ha esortato a difenderla chi contintuerà a vivere nel Cilento. «Non lasciatevi prendere dalla prospettiva degli affari d’oro - ha ammonito -, soprattutto se derivanti da denaro di dubbia provenienza. Tenetevi stretti i sacrifici fatti dai vostri antenati. Siate voi i veri padroni del Cilento e proteggete i vostri figli come sentinelle del territorio. Accontentatevi del poco. Questi sicari sono la dimostrazione dell’abbrutimento della razza umana». Il vescovo di Vallo della Lucania si è chiesto: «Perchè lo hanno fatto? Forse per qualche affare sul territorio che è stato smascherato o rifiutato da Angelo. Povere bestie umane».

di Giancristiano Desiderio funerali di Angelo Vassallo, il sindacopescatore di Acciaroli ucciso dalla camorra, sono i funerali dell’intero Mezzogiorno. Forse, di una nazione. Tutta l’Italia con i tanti Gonfaloni di paesi, istituzioni, enti, comunità era idealmente presente sul piazzale del porto del piccolo paese cilentano: ma il nostro Paese è fatto così, ci sono i simboli, ma non le azioni. E qui, invece, contano le azioni. Il prete ha invitato i meridionali a ribellarsi. Come dire che il cambiamento e il progresso civile del Mezzogiorno passano prima di tutto attraverso i meridionali: o si ribellano loro e prendono in mano i destini dei loro comuni grandi e piccoli, delle città e delle amministrazioni o la politica non è in grado di fare granché. Possibile? Se è possibile uccidere un sindaco onesto e capace senza suscitare una reazione nazionale vuol dire che è tutto è possibile in peggio per il Mezzogiorno d’Italia. Un sindaco è assassinato sulle strade della sua terra ma tutti si occupano del destino del Pdl e di Bossi che vuole il voto anticipato e di Berlusconi che non sa che pesci pigliare. Se per il Sud non è una priorità la morte di Angelo Vassallo per mano della camorra allora che cosa realmente conta?

I

Quando si giungerà tra qualche settimana a parlare finalmente alla Camera della fiducia da riconoscere al governo si tornerà - vedrete - a parlare di Angelo Vassallo. Il nome del sindaco di Acciaroli entrerà in Parlamento e nel dibattito politico. Infatti, tra gli ormai famosi cinque punti scelti da Berlusconi per chiedere nuova fiducia per l’esecutivo c’è anche il Mezzogiorno. Così, proprio così compare nelle cronache e nelle dichiarazioni: Mezzogiorno. Cosa sia poi questa politica per il Mezzogiorno nessun lo sa. Sarà la solita storia di sempre: un po’di soldi - magari anche tanti - liberati un po’ di qua e un po’ di là. Ma sono i soldi che possono fare la fortuna futura del Mezzogiorno? Non sono invece proprio i soldi dati senza controllo a piegare il meridione in un destino di sottosviluppo e regresso civile? Il ministro Tremonti ha voluto sottolineare gli sforzi fatti dal governo per il Sud. Se avesse parlato il ministro Maroni le sue parole avrebbero avuto una maggiore ragionevolezza: il responsabile del Viminale si è dato da fare per contrastare il crimine orga-

nizzato che tiene sotto di sé intere aree e regioni meridionali. L’uscita di Tremonti, invece, ha più il senso della beffa: la Banca per il Sud è sbagliata fin dal nome. Il problema meridionale non è economico. Il problema del meridione è civile. La storia dell’Italia e la storia nella storia d’Italia che prende il nome di “questione meridionale” ce lo insegna ormai da molti anni. Il progresso materiale ed economico del Mezzogiorno c’è stato negli ultimi decenni a partire dal dopoguerra; tuttavia, a fronte di quel progresso materiale c’è stato un arretramento civile o un uso delle risorse pubbliche che ha causato una sorta di nuova feudalità. La verità non va negata se si vuole fare qualcosa di costruttivo e positivo per il Mezzogiorno.

Il controllo della spesa è fondamentale. Il federalismo potrebbe essere un’ulteriore affare per i gruppi camorristici e mafiosi. Lo faceva rilevare con acume ed esperienza qualche giorno fa Raffaele Cantone, il magistrato anticamorra che conosce bene la mentalità e la pratica del crimine organizzato. Più i centri di spesa si avvicinano al territorio e più la camorra si ingolosisce. Il federalismo per il Mezzogiorno ha più il senso della beffa che dell’occasione di riscatto. La sua società civile è troppo debole e facilmente soggiogabile dalle forze che utilizzano con metodo e calcolo preciso la violenza per controllare terre, cose e uomini. Il Sud cresce economicamente se cresce civilmente, ma non cresce civilmente se si investe solo sull’economia. Del resto, i dati pubblicati ieri sulla crescita economica dell’Italia parlano con chiarezza: il meridione arranca, arretra, non ce la fa. Le sue forze sono troppo assiepate intorno agli enti locali e la sua struttura economica dipende in modo irragionevole e irrealistico dalla gestione della spesa, ma il controllo di questa gestione a sua volta produce regresso civile e politico. La strada da seguire è nelle cose stesse: né soldi né federalismo, ma Stato, garanzie, sicurezza e libertà. Siano i meridionali stessi a chiederlo e volerlo nel nome di Angelo Vassallo.

Ieri al porto di Acciaroli c’era anche tante personalità politiche, dal segretario del Pd Pier Luigi Bersani, al leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, dal ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo al sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, dal presidente della Regione Puglia Nichi Vendola all’ex governatore della Campania Antonio Bassolino e con il presidente dell’Anci Sergio Chiamparino i gonfaloni di tantissimi comuni, province e regioni. Accanto al feretro, presidiata da carabinieri in alta uniforme, insieme al gonfalone del comune di Pollica, era deposta una corona inviata dal presidente della Repubblica. Napolitano aveva inviato un messaggio di cordoglio all’amministrazione comunale nel quale esprimeva «profonda commozione e solidarietà per il barbaro crimine dell’assassinio di Angelo Vassallo che da sindaco aveva dedicato le sue energie e il suo impegno alla tutela della legalità indifesa degli interessi della popolazione». Il presidente aveva invitato le istituzioni a stringersi «intorno alla famiglia della vittima e alle forze dello Stato chiamate a far luce sull’accaduto e ad affermare le ragioni della giustizia». Il segretario del Pd Bersani ha annunciato per il 20 settembre a Pollica un confronto sui temi del Mezzogiorno e della legalità promosso dal Pd. «Sarà questa - ha detto Bersani - l’occasione per fare il punto della situazione con gli amministratori locali di quest’area».

Il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini è voluto essere presente alle esequie di «un amministratore onesto». «Bisogna smetterla - ha detto Casini - con le litanie sul Sud. Il Mezzogiorno va aiutato dal Nord e dal resto del Paese». E tutta l’Udc da Chianciano si è raccolta per ricordare Angelo Vassallo con un mi-


politica

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L’annuncio del ministro alla Fiera del Levante: in Cdm a ottobre

E ora Fitto accelera sul Piano per il Sud Verso lo sblocco dei fondi Fas, riprogrammati su pochi progetti strategici per evitare sprechi di Francesco Pacifico

Attivisti di Legambiente al funerale del sindaco di Pollica. A destra: Giulio Tremonti. Nella pagina a fianco: Angelo Vassallo

nuto di silenzio. «Vassallo è stato un sindaco coraggioso e impegnato nella difesa della legalità», ha detto il segretario centrista Lorenzo Cesa. Da Chianciano è arrivata anche la proposta di intitolare a Vassallo la scuola di formazione politica permanente dell’Udc.

Il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano ha dichiarato: «Adesso ascolteremo le esigenze che ci vengono espresse dal territorio per estendere i nostri sforzi e la nostra attenzione anche al salernitano». Mantovano ha sottolineato come per la Campania il ministro Roberto Maroni «dal settembre 2008 è periodicamente impegnato e il governo in questi anni è stato al fianco dei sindaci con strumenti normativi e con risorse. La morte di Vassallo è un motivo in più per attuare quello che già era in programma e cioè estendere le nostre attenzioni, dopo Napoli e Caserta, anche all’area del salernitano». Un impegno ribadito anche dal ministro Prestigiacomo: «Il Cilento non sarà lasciato solo. Faremo di tutto per salvaguardare questa zona». Mentre il governatore pugliese Vendola ha evidenziato la passione di Vassallo per la sua terra : «C’è un Sud ferito e offeso dalla presenza delle mafie, ma c’è anche un Sud virtuoso coraggioso e orgoglioso come quello incarnato dalla meravigliosa parabola di un sindaco perbene, ambientalista come Angelo Vassallo. Qui c’è un grande Sud che oggi ha fatto di Pollica la propria capitale della legalità, della bellezza e del coraggio». Per il presidente della Svimez Adriano Giannola l’omicidio di vas-

sallo evidenzia «in modo drammatico quanto, a volte, può costare caro nel Mezzogiorno stare dalla parte giusta, rispettare e far rispettare le leggi e le istituzioni, lottare contro corruzione e clientele. Il suo operato di sindaco virtuoso e responsabile getta luce su una categoria di amministratori locali in prima linea nell’affermare la legalità quale presupposto di democrazia e sviluppo economico. Con le sue scelte concrete e coraggiose, Vassallo è il simbolo di molti meridionali che in questi anni si sono schierati senza se e senza ma dalla parte delle istituzioni». Sull’esempio di Vassallo si è soffermato Chiamparino ricordando come «in questi ultimi anni i sindaci e gli amministratori locali sono stati indicati come i responsabili di sperpero e a molti di noi tutto questo può aver fatto pensare di lasciare tutto. L’ esempio che ci lascia il sindaco Vassallo ha la capacità e la forza di spingere tutti noi a continuare la nostra azione di amministratori locali e di continuare a essere, con ancora maggiore determinazione, i punti di riferimenti per le nostre comunità».

Alla famiglia di Vassallo e ai suoi concittadini ha voluto portare la sua solidarietà anche il regista Mario Martone, reduce dal Festival di Venezia, che proprio ad Acciaroli ha girato il suo film sui moti risorgimentali nel Cilento e che di Angelo Vassallo era diventato amico. Il vicesindaco di Pollica Angelo Pisani, amico e collaboratore di Vassallo, alla fine dell cerimonia ha chiesto alle istituzioni e alla politica un impegno per il paese anche in nome del suo eroe.

ROMA. Era atteso per lo scorso inverno. Ma complice la crisi con i finiani e la necessità di dimostrare che questo governo non è sproporzionato sull’asse del Nord, il Piano Sud dovrebbe arrivare entro ottobre in Consiglio dei ministri. Raffaele Fitto lo annuncerà questa mattina a Bari, all’inaugurazione della Fiera del Levante, dove un anno l’ex titolare dello Sviluppo economico, Claudio Scajola promise che a breve sarebbero stati sbloccati i Por della Regione. Per la cronaca lo scorso luglio quei soldi sono stati rimessi in gioco dal Cipe, che ha disposto la riprogrammazione di quasi 13 miliardi di euro. Infatti il ministro agli Affari regionali con delega ai fondi europei – illustrando le linee guide del Piano – si soffermerà sullo sblocco dei Fas «concentrando le risorse disponibili su pochi progetti strategici, evitando la parcellizzazione del passato». E parliamo di risorse che tra nuovi e vecchi Fas e fondi di coesione europei sfiorano i 100 miliardi, da spalmare su quattro priorità: infrastrutture, incentivi, ricerca e sicurezza.

sui conti della Puglia. E dovrebbe essere l’occasione per dimostrare che, a differenza di quanto ripetono Fitto e Tremonti, la sanità non presenta buchi. E che da almeno un decennio la spesa del comportato, in base al numero di abitanti, è sottostimata per 200 milioni di euro.

Sul rapporto con i governatori – critici sono anche il siciliano Lombardo e il lucano De Filippo – Fitto replica che «non sono mancati i momenti di confronto e che le analisi sui fondi europei hanno dimostrato che non sempre sono stati spesi nel modo e nei tempi giusti. Ma senza generalizzare va trovato una strategia per invertire la tendenza». E la strada passa per definire poche priorità, che portino benefici all’area nel suo complesso. E nella logica della concentrazione il ministro segnala accanto alla Salerno-Reggio Calabria e al Ponte sullo Stretto, «le quattro linea di alta capacità che debbono essere completate o costruire, mentre sulla viabilità ci sono la Napoli-Bari e la Palermo Catania». Sul versante infrastrutturale le priorità sono anche la banda larga e la rete idrica, in un processo che dovrà vedere camminare assieme coinvolgimento dei privati e un impegnativo piano d’opera. Dopo l’omicidio del sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, sono molte le attese sul versante della sicurezza. Pur volendo aspettare l’esito delle inchieste, il ministro sottolinea la necessità di «rafforzare la legalità e di sostenere chi tra mille difficoltà si occupa di amministrazione locale». Eppure il concetto da far passare è che non si è all’anno zero. «Abbiamo fatto una verifica con il ministro Maroni e ci siamo resi conto che il grosso del lavoro è stato fatto con il Pon sicurezza.Va da sé le risorse servono per implementare queste misure». Da riconquistare poi ci sono anche gli imprenditori, che attendono soprattutto una parte del Piano Sud: quella della riforma degli incentivi. Fitto appoggia la loro richiesta di rimodulare i fondi soprattutto attraverso il sistema del credito d’imposta. C’è da convincere Tremonti, che 48 ore fa ha detto che nel Meridione «prima del federalismo ci vuole lo Stato». Al riguardo, tra i due ci sono state molte tensioni. «In passato abbiamo avuto delle divergenze di opinioni e ognuno di noi ha fatto bene a sottolinearle. Ma ora stiamo lavorando bene, anche perché è comune l’obiettivo di migliorare la spesa del mezzogiorno».

In ballo ci sono 100 miliardi. Il ministro: «Non siamo squilibrati sul Nord». Vendola: 200 milioni in meno per la sanità

Individuate le priorità con il ministro Giulio Tremonti, già dalla settimana prossima Fitto discuterà dell’agenda con i ministri competenti, per poi definire il quadro generale con il presidente del Consiglio. Il quale non sarà a Bari. Toccherà quindi al titolare degli Affari regionali mandare un forte segnale politica in un’area dove è alta la concorrenza con i finiani. E sarà un messaggio di ottimismo, con il quale sottolineare la bontà dell’ultima rilevazione Istat del Pil (+0,5 per cento nel secondo trimestre con lo 0,4 previsto e +0,9 già acquisito) e spiegherà che «per il presidente del Consiglio, come dimostra l’accelerazione al Piano sud, il Sud resta una priorita. Perché non parlerei di squilibrio sull’asse del Nord, visto che nel Mezzogiorno non sono mancati interventi in passato, e che per il futuro si vuole dare una visione strategica al problema». Davanti a lui, questa mattina, ci sarà anche il governatore della Puglia, Nichi Vendola. Il quale in passato aveva accusato il ministro di volersi «prendersi una rivincita contro di me» e il governo di voler estromettere le Regioni dell’area dalla programmazione dei fondi. Chi gli è vicino fa sapere che oggi il portavoce di Sinistra e libertà vorrebbe evitare nuove polemiche, anche perché è pronto a presentare il governo tra qualche settimana, quando presenterà una due diligence


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politica Alleanze. Il Pd è incapace di guardare con serenità all’elettorato moderato

ROMA. A volte ritornano, i comunisti di Ferrero e Diliberto. Da una settimana sono riapparsi ad animare il dibattito interno del Partito democratico, che li ha risuscitati dopo averli estromessi brutalmente dal Parlamento col muso duro della maggioritaria vocazione delle elezioni politiche del 2008. Il Pd toglie, il Pd dà, e Ferrero e Diliberto sono ricomparsi sulla scena pubblica, ancorché nessuno in Italia ne avesse sentito la mancanza e avesse di loro chiesto notizie in giro. Dall’inizio della sua segretaria, Bersani si è premurato di dare acqua ai cespugli che s’affannano intorno al Pd, per provarsi nell’esperimento botanico del nuovo Ulivo. Uno dei primi atti compiuti da segretario, è stato quello di intrattenere incontri bilaterali con Radicali, Partito socialista, Sinistra e libertà, Verdi e Comunisti. Dalle prime riunioni subito dopo all’elezione a segretario, sono seguiti nuovi incontri, coordinati dal luogotenente bersaniano Migliavacca o causali, come l’avvicendamento delle delegazioni del Pd e di Rifondazione comunista al cimitero romano del Verano per l’anniversario della morte di Togliatti.

La settimana scorsa La Stampa aveva ventilato l’ipotesi che Ferrero, Diliberto e compagni finissero addirittura nelle liste del Pd in cambio di un sostegno alla causa anti-berlusconiana. Ieri, con molti giorni di ritardo, la rettifica di Filippo Penati ha ripetuto e avvalorato la notizia, smentendo che il Pd darà ospitalità ai comunisti, ma confermando implicitamente che nel nuovo Ulivo, o almeno nella grande alleanza anti-berlusconiana, i comunisti di Ferrero e Diliberto ci saranno eccome. Il fatto è che Paolo

Bersani continua a dare acqua a tutti i cespugli che s’affannano intorno al partito Ferrero, il ministro del governo Prodi che la mattina partecipava al Consiglio dei ministri e la sera andava a manifestare contro se stesso, proprio non si sente di riconoscere la leadership della sinistra radicale a Nichi Vendola, che ha per altro battuto all’ultimo congresso di Rifondazione comunista. Allo stesso modo Oliviero

Comunisti (italiani): a volte ritornano L’estrema sinistra torna ad animare il dibattito interno al Partito democratico di Antonio Funiciello

“Europa” e veltroniani all’attacco: «Non torniamo al Vietnam di Prodi»

Il Nuovo Ulivo sbanda a sinistra ROMA. Sarà perché ancora brucia il ricordo del “Vietnam del governo Prodi” (così è stato definito), sarà perché con le tensioni nella maggioranza ormai il gioco comincia a farsi davvero duro e non c’è piu’ tempo da perdere, ma il doppio cerchio di Pier Luigi Bersani (Alleanza democratica/Nuovo Ulivo) sbanda subito sul lato sinistro. Il nodo è l’alleanza con la Federazione della sinistra, cioè Ferrero e Diliberto. Data per certa, con tanto dell’offerta di posti in lista alla Camera, da Europa e dal Corriere della Sera, smentita dalla segreteria e abbondantemente “cannoneggiata” da veltroniani e ex popolari. Da giorni il malumore covava, tanto che i veltroniani Marco Minniti, Walter Verini e Giorgio Tonini si erano spinti a chiedere una riunione della Direzione proprio per chiarire il nodo dell’alleanza con la sinistra. Ieri mattina, oltre ad un articolo del Corsera, è stato però Europa ad attaccare: «Il Pd resuscita i non-riformisti che potranno tornare a insidiarlo domani», ha scritto il direttore Stefano Menichini, «Ferrero e Diliberto, l’elettorato li ha lasciato fuori dal Parlamento, i responsabili di due anni di Vietnam del governo Prodi». Europa individua il «punto grave» nel rapporto con un elettorato più largo e moderato: «Il messaggio è: non votateci, noi stiamo bene con Diliberto». Il quotidiano stigmatizza

l’intesa: seggi sicuri alla Camera (non al Senato, dove se si vota con il “porcellum” ogni voto sarà determinante), patto di non belligeranza e voti alle primarie al candidato democratico ufficiale: «Il Pd lo fa a dispetto di Vendola e forse per indebolirne le chances nelle primarie», si legge. La smentita ufficiale del disegno arriva da Filippo Penati, capo della segreteria di Bersani: «Stupisce che possano trovare credito veline infondate costruite ad arte e fatte circolare con sapienza per suscitare zizzania e manipolare il dibattito interno del Pd.Trovo paradossale che si chieda la convocazione degli organismi dirigenti del partito sulla base di informazioni di questo tipo». Stesso tono da parte del coordinatore Maurizio Migliavacca («informazioni destituite di ogni fondamento»). Candidature e patto sulle primarie li smentisce lo stesso Ferrero parlando di «notizia falsa e destituita di ogni fondamento». Il leader del Prc chiarisce che «l’oggetto di pubblico confronto tra noi e il Pd è la costruzione di un fronte democratico per battere Berlusconi e superare l’emergenza democratica, non la partecipazione all’Ulivo, al governo né tantomeno la partecipazione nelle liste del Pd».

Diliberto, il ministro della Giustizia che lavorò al rimpatrio dagli Usa e alla liberazione della terrorista Baraldini, considera inaccettabile stare all’ombra di Nichi. Quindi, non c’è che dare una mano al collega ex ministro Bersani alle primarie contro Vendola, per poi allearsi col Pd e ritornare in Parlamento.

Personalismi. Tra Vendola e Ferrero e Diliberto non c’è alcuna sostanziale differenza: Vendola è la poesia e il duo Ferrero-Diliberto la prosa della stessa litania massimalista. Poesia e prosa stantie, ma ancora accattivanti presso un elettorato radicale di sinistra. Basti ricordare soltanto la recente crociata dei tre contro l’accordo di Pomigliano, in totale sintonia con la FiomCgil. Nella logica dell’alleanza di tutti contro Berlusconi e nello scena dei due cerchi di Bersani, escluderli appare però immotivato. Già, ma dove comprenderli? Nel primo cerchio del nuovo Ulivo o nel secondo cerchio dell’Alleanza democratica? Sembra la Divina Commedia, ma è solo la solita commedia del Pd, incapace di porre un argine a sinistra e guardare con serenità a quell’elettorato moderato che fa vincere ovunque le elezioni. Esattamente quanto a Bersani, ma soprattutto a D’Alema, sta chiedendo da mesi Casini, più volte invitato a capeggiare una nuova alleanza di centrosinistra, salvo poi rimanere con lui nel vago sui confini di questo cartello elettorale. Al momento, il diametro del secondo cerchio di Bersani è troppo ampio per apparirgli credibile. D’altro canto, Bersani non intende escludere Ferrero e Diliberto, che avevano considerato anche l’ipotesi di entrare in lista col Pd perché, alleati all’ombra di Vendola e Di Pietro, rischierebbero fortemente di non superare il quorum del 2% della Camera e del 3% del Senato, previsto per le liste singole coalizzate. Il Pd prova a giocare con due mazzi di carte: col mazzo di centro in coppia con Casini e col mazzo di sinistra in ammucchiata coi cespugli. Mischiare i due mazzi è la missione impossibile in cui Bersani ha deciso di provarsi e di rischiare l’esistenza stessa del Pd.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Prossimamente sugli scaffali

AUTUNNO DA LEGGERE di Pier Mario Fasanotti

on ci sono proprio alibi per chi legge poco o niente o ner conto, e sulle quali liberal tornerà in modo approfondito. Pietro Citati magari sostiene di non trovare mai quel che vorrebbe. NemLeopardi, ci fornirà un ponderoso scritto biografico e critico su Leopardi (Monmeno in questa estate che sta morendo con una certa dadori). Nadia Fusini ha scritto, per lo stesso editore, Di vita si Shakespeare, fretta. I libri della stagione autunnale sono tanti e almuore che ha come sottotitolo Lo spettacolo delle passioni cuni sono molto buoni, anzi ottimi. Il compito di segnanel teatro di Shakespeare. Di un altro grande della letPirandello, D’Annunzio. larli è sempre un’operazione intrisa di senso di colteratura, Luigi Pirandello si occupa Matteo Collura Il ritorno di Piperno e di Luis pa: e se dimenticassimo alcuni titoli? Sono nucon Il gioco delle parti (Longanesi): uno studio Sepúlveda. La biografia di Murnau merose le omissioni, inevitabilmente. Coserio e brillante di un uomo complesso, al me sono numerose e invadenti le segnaladi là degli stereotipi psicoanalitici e soprate i misteri di Saint-Exupéry. Non ci sono più zioni sui cosiddetti cavalli vincenti o promesse di tutto dei pettegolezzi e luoghi comuni che franalibi: ognuno può trovare pane genialità: quanto rumore giornalistico per la ripresa camente hanno un po’ graffiato, nel tempo, il profilo per i suoi denti. Piccola narrativa di Alessandro Piperno con Persecuzioni, asso di di uno scrittore fondamentale per capire il Novecento, non solo quello italiano. Qui di seguito qualche suggerimento, fatta picche della Mondadori! Nemmeno al Moravia più famoso e guida ai libri in salva la premessa dell’incompiutezza selettiva… artisticamente più maturo fu dedicata tanta attenzione. Ci piace couscita munque avvertire i lettori su alcune uscite delle quali non si può non te-

N

Parola chiave Cuore di Maurizio Ciampa Le invenzioni al passato degli Scissor Sisters di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

Whitman, la rivelazione sulla spiaggia di Paumanok di Roberto Mussapi

La verità su Atlantide di Rossella Fabiani Venezia: i migliori visti da vicino di Anselma Dell’Olio

Alla festa naturale di Francesco Casorati di Marco Vallora


autunno da

pagina 12 • 11 settembre 2010

Le regole della solitudine. La Sellerio ripropone, e per fortuna, uno dei più straordinari romanzi della spagnola Alicia Giménez-Bartlett (Vita sentimentale di un camionista). Racconto sulla solitudine: del protagonista Rafael ma anche delle donne. L’autrice è affascinata dal lavoro di quegli uomini che, come cavalieri della strada, si ritengono ancora dominatori. Ma il mondo cambia e loro spesso non s’accorgono di ciò che contengono le case che scorrono al loro fianco. Non ci sono solo le facciate, la superficie delle cose. «Poteva godersi il piacere di correre sul camion mentre gli altri dormivano nei loro buchi, piantati lì come alberi in fila». Un incontro sconvolge la vita di Rafael, uomo ossessionato dall’idea del cambiamento. E le donne sono anche questo, chilometro dopo chilometro. Poi il suo cosmo crolla. La sua vita è sconvolta dopo un incontro. Perderà tutto, sotto i colpi della tenerezza.

Napoli. Curioso rivedere con gli occhi di tre scrittori diversissimi una delle città più contradditorie, più poetiche e più disperate del mondo occidentale. Napoli, appunto. L’Adelphi (dopo Kaputt) continua a pubblicare l’opera di Curzio Malaparte: un’altra puntata vincente, con una Mondadori che non intende rivalutare i suoi immensi cassetti. La pelle racconta la peste morale del 1943. Donne che si vendono, uomini che fanno scempio di sé e si calano nell’inferno dell’abiezione, bambini precocemente vecchi e viziosi. Emergono le forze oscure e potenti della città «dalla schifosa pelle», quella da salvare a tutti i costi. Ma c’è anche la pietà. Sándor Márai, con Il sangue di San Gennaro, guarda gli straccioni napoletani, emblema di un mondo crollato dopo il conflitto mondiale. Un mondo pulsante e dolente. Màrai, ungherese nato nel 1900, ha vissuto a Napoli dal ‘48 al ‘52, prima di partire per l’America. E infine Anna Maria Ortese, con Mistero doloroso, scandaglia la Napoli del Settecento, «raccolta entro un silenzio incantato», raccontando della fanciulla Florida e del suo amore per un pallido principe. Le pagine della Ortese ricordano da vicino quelle del suo celebre Il cardillo addolorato, ma sono testo a sé che racchiude il dolore «antico e caro» per ciò che amiamo e perdiamo.

tanto sublime e tanto profondo». Una terra che continua a troneggiare nelle nostre immaginazioni.

cogliere voci, sussurri, pettegolezzi. Vien fuori una Turchia che proprio non immaginavamo. Eppure esiste.

Le vite, i luoghi. L’editore Castelvecchi manderà in libreria tre libri che sono altrettanti profili di artisti e città. Cominciamo con Roma e dal suo cantore, Gioacchino Belli (Li libbri nun so’ robba da cristiano), il quale a margine dei suoi celebri sonetti scrisse: «Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che è oggi la plebe di Roma». Paolo Roversi tratteggia invece, in Charles Bukowski il carattere e l’esistenza del più smaliziato tra i narratori americani. Il quale diceva: «Tutti gli scrittori sono dei poveri idioti. È per questo che scrivono». Roversi si avvale dell’importante testimonianza di Fernanda Pivano. E poi D’Annunzio: Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, in Fiume di tenebra, raccontano l’avventura di Fiume che vide il Vate abruzzese protagonista. Anche come vittima indicata di una congiura internazionale, prima che le truppe regolari spazzino via un sogno, una visione pericolosa del mondo. Novant’anni fa ci fu appunto il «Natale di sangue».

I perdenti. L’irlandese Joseph O’Connor si cimenta in una serie di racconti d’amore in Una canzone che ti strappa il cuore (Guanda), pescando spunti nel cimitero dei fallimenti. L’autore si dice ancora persuaso sul fatto che «una certa dose di infelicità sia sicuramente necessaria, se vuoi fare l’artista… infatti le persone che hanno sofferto e quelle che hanno subito un danno posseggono un’apertura al mondo che in genere non hanno le persone felici». Lo scrittore, fratello della famosa cantante Sinéad O’Connor («No, non posso parlare di lei», ammette), ha fatto per anni il giornalista («Non ero bravo per niente») e spiega che se prima era innamorato dei fatti, oggi lo è delle parole. In uno dei racconti parla di un corteggiatore arrogante che però finge di essere quello che non è, ossia sicuro di sé. È colui che segretamente vuole essere rifiutato. Ha tanti difetti, ma non gli manca la tenerezza.

Volto inedito. Il cileno Luis Sepúlveda è solitamente ricordato per i toni delicati, la tematica dell’amore e della solitudine. Stavolta la sua raccolta di racconti, Ritratto di un gruppo con assenza (Guanda), sorprende tutti parlando del dittatore Pinochet, degli effetti del surriscaldamento globale del pianeta, dei comunisti di ieri e di oggi che sono prigionieri di una grande illusione, della Colombia che trasuda violenza, dei ragazzi poveri che giocano al pallone. Sepùlveda ricorda, a proposito del dittatore, una frase che pronunciò dinanzi a un ministro

Anni Settanta. Qualcuno lo ricorderà: nell’agosto del 1974 i newyorkesi guardarono in alto, tutti insieme. Un funambolo attraversò il vuoto tra le Torri Gemelle, in equilibrio su un cavo d’acciaio. Una passeggiata tra le nuvole, una delle numerose storie di Colum McCann, irlandese trapiantato negli Stati Uniti che, in Questo bacio vada al mondo intero (Rizzoli), ha l’ambizione di descrivere, con abili pennellate narrative, un Paese in bilico tra potenza e rovina. Tanti e tutti diversi i protagonisti: prostitute, immigrati, preti, artisti, reduci dal Vietnam. Dell’autore Frank McCourt ha detto: «Nessuno scrittore ha raccontato New York e l’America in modo anno III - numero 32 - pagina II

Per certi versi. Molti editori, e lo sappiamo bene, sono riluttanti a pubblicare poesie. Si dovrebbe pensare a libretti a basso prezzo, ma questa è una considerazione del tutto personale.Tra le eccezioni figura l’editore Fazi, uno che ci crede ancora. E che ha appena mandato in libreria, nella collana «Le strade», l’opera di Claudio Damiani, nato a San Giovanni Rotondo ma romano d’adozione (vedi recensione a pagina 19, ndr). La Mondadori si appresta a celebrare il francese Yves Bonnefoy con un «Meridiano» (L’opera poetica). L’apparato informativo e critico è preciso e imponente, il testo francese a fronte come è giusto. Personaggi e interpreti dell’autunno editoriale. Da sinistra, in senso orario: D’Annunzio, Leopardi, Curzio Malaparte, Shakespeare, Mehmet Murat Somer e Colum McCann

Zone d’ombra. Si sa davvero tutto dell’autore del Piccolo principe, tradotto in ben 210 lingue? No. Ci sono lati nascosti e ambigui, posti il rilievo da Jean-Claude Perrier, giornalista, editore e, in questo caso, abile archeologo letterario (I misteri di Saint-Exupéry, Cavallo di Ferro). Indagine sui complessi rapporti con la politica, soprattutto durante la seconda guerra mondiale, sulla sua mancata carriera cinematografica, sui suoi amori non proprio semplici, i problemi di successione che videro sua moglie e sua madre una di fronte all’altra. Una biografia che riserva molte sorprese. Paura dal Nord. Ancora uno scandinavo, a ricordarci che il genere giallo è angoscia e trivella nell’animo umano. In A. L’alfabetista (Newton Compton) Torsten Pettersson, finlandese, «credibile e spaventoso» come ha detto un critico, insegue un serial killer che appone la sua firma sulle vittime. L’ambiente è, ovviamente, un borgo tranquillo. Molte elucubrazioni attorno ai macabri indizi: religione, omosessualità, psicopatologia, gusto del rebus? Si legge a un certo punto: «Lei non respira più ma lo faccio io per lei, rapido e affannato. Ora stiamo insieme e io sono i suoi polmoni e la sua bocca. Tendo l’orecchio. Il vento soffia sulla pianura. Non arriva nessuno sul vialetto e ho tutto il tempo per quello che devo fare.Tiro fuori il coltello».

leggere

tedesco. Parlavano dell’olocausto e della polemica, tristissima, sul numero delle vittime. L’ospite europeo precisò che «un solo morto sarebbe stato abbastanza per condannare il regime nazista». Obiezione del padrone di casa: «Noi lo avremmo fatto meglio». Sepùlveda si dice convinto che un «processo di Norimberga» avrebbe aiutato il Cile a conquistare la «normalità democratica».

Colori turchi. Una trama a sfondo giallo che ricorda il ritmo e lo stile di Pablo Almodovar, come ha scritto The Guardian. Noto ai lettori italiani per l’affascinante Scandaloso omicidio a Istanbul (Sellerio), Mehmet Murat Somer, nato ad Ankara nel 1959, torna a occuparsi del suo detective anomalo e divertente, innamorato di Audrey Hepburn, in Gli assassini del profeta (Bompiani). Un indagatore che qualcuno ha definito «la Miss Marple della Turchia, anche se alle gonne di tweed preferisce i leggins di pelle nera». Non manca tensione, ma anche comicità in questa commedia nera, che sorprende a ogni pagina. C’è un grosso guaio a Istanbul: vengono uccisi i travestiti, e in modo sempre più bizzarro. L’imprevedibile e «sessualmente scorretto» detective si mette sulle tracce di un serial killer, si aggira in ambienti che solo pochi come lui conoscono bene, in grado anche di rac-

Sul vampiro. Si moltiplicano, oggi, i libri sulle creature che vivono nell’ombra e che succhiano sangue. Ma si rischia di dimenticare il regista Friedrich Wilhelm Murnau, autore di Nosferatu e di Aurora, capolavoro del cinema muto. S’intitola Murnau la biografia edita da Alet. L’autrice è una critica letteraria, Lotte H. Eisner, e ripercorre le tappe del grande artista che è stato irrinunciabile punto di riferimento per registi tedeschi come Herzog, Fassbinder e Wenders. Disinnesco. Molte vite svaniscono sopra una mina che salta. My Luck, quindicenne soldato igbo (tribù della Nigeria) è stato addestrato come sminatore nell’Africa orientale. Giungla, guerra, sangue, soprusi: il protagonista ricorda e racconta, nel tentativo di portare la sua coscienza sull’orlo del pozzo dal quale le circostanze lo hanno fatto precipitare. Chris Abani, nigeriano, racconta, in Canzone per la notte (Fanucci), il chiasso e il silenzio dei morti, senza alcun timore di guardare in faccia il grande orrore. Lo fa con pietà, verismo e poesia. L’ingegnere. Leonardo Sinisgalli era tante cose: ingegnere, pubblicitario, poeta. In Pagine milanesi (Hacca editore) si trovano gli scritti comparsi su L’Italia letteraria, dal 1933 al 1936. È ben delineata una Milano sorprendentemente moderna. Spontaneo il paragone con la Milano di oggi, che arranca, che ha il fiato (e il pensiero) corto. Storie di amicizia, incontri, conversazioni sull’urbanistica di una città che ha sempre avuto fama di essere grigia e dimessa.


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CUORE ulla grande scena delle culture d’Occidente il cuore fa da protagonista, nonostante i conflitti laceranti che da sempre lo abitano, le emblematiche irrequietezze o le affannose intermittenze, e dunque nonostante l’enigmatica irregolarità dei suoi battiti. Ne deriva che la «logica del cuore» di cui parla Blaise Pascal non è una logica e cioè un insieme linguistico coeso e coerente, è piuttosto un vivo, ribollente, talvolta squassante (per Pascal il cuore è in «rivolta»), palpitare di emozioni. Attraverso queste vibrazioni d’anima, questi tremori del cuore, possiamo cogliere, se siamo disponibili a farlo, il complesso, e quasi inafferrabile, dislocarsi del nostro essere al mondo, e forse anche il suo senso. Il cuore è la misura del nostro stare al mondo. È il cuore che consente a ogni uomo di sentire la vita che lo attraversa e lo conduce, e qualche volta lo colpisce confondendolo. Ma diversamente da ogni altro sapere, il sapere che viene dal cuore si sviluppa attraverso inusitati e imprevedibili passaggi, percorsi sotterranei, tracce non visibili, e si manifesta con la luce improvvisa e saettante del lampo. Non ha i tratti della conoscenza stabile e ferma nel tempo. Il cuore, luogo i cui si annidano i fantasmi e le ossessioni, ricomincia sempre da capo. Contano poco la memoria o l’esperienza. Il cuore è instabile per sua natura, ed è incredibilmente loquace. Ama dirsi, ama pronunciarsi, può prendere anche le forme del delirio, cerca comunque le parole per poter parlare, e spesso, non trovandole, le crea, le inventa. Di qui l’affinità, che ha i tratti quasi di una segreta complicità, che lega il cuore all’esercizio della poesia o all’espressione artistica.

S

Probabilmente nessuna altra parola del nostro lessico mentale ha avuto una ramificazione tanto estesa, come un grande albero dalle fonde radici e dai copiosissimi frutti.Tanto che chi ha voluto comporre «una storia del cuore» come ha fatto di recente lo studioso norvegese Ole M. Hoystad (il suo libro è uscito in aprile dall’editore Odoya) si è trovato costretto a partire per un lungo e avventuroso viaggio che lo ha portato, o sballottato, dal «mondo di Gilgamesh» all’antico Egitto, dalla Bibbia alle scritture cristiane e a quella coranica, per poi approdare alla scoscesa e frastagliata regione che è l’età moderna, attraverso Montaigne, Shakespeare, Rousseau, fino a Nietzsche e oltre, nel cuore raggelato di molto Novecento o quello disincantato di oggi, che ha almeno apparentemente prosciugato le emozioni fondamentali del vivere. E anche lo psicanalista junghiano James Hilmann, volendo inseguire le linee mobili di un possibile «pensiero del cuore» (il suo libro L’anima del mondo e il pensiero del cuore, che raccoglie diverse conferenze sul tema, è uscito da Garzan-

È un organo della conoscenza in uno stato di perenne tensione, capace di penetrare quello che ci circonda più di quanto arrivino a fare il calcolo o il raziocinio. È la misura del nostro esistere

Nella macina del mondo di Maurizio Ciampa

«Sentire le stelle e l’infinito in alto», scriveva Van Gogh al fratello Theo... E ancora: «Quando dipingi un fiore, entra nella vita di quel fiore», raccomandava sul finire del Seicento Shitao. Sussurri del cuore, decifrazioni del sensibile che sapevano comprendere e restituire sulla tela... ti nel 1993) si è spinto all’indietro fino a sant’Agostino, grande custode ed esploratore degli interni umani, dello «scrigno» del cuore (Cor meum, ubi ego sum, quicumque sum, diceva Agostino. «Mio cuore, dove io sono quello che sono»). Un ultimo esempio, per cogliere la trama spezzata, il denso intreccio con cui si offre la parola cuore: il libro dello psichiatra-filosofo, e direi soprattutto scrittore, Eugenio Borgna (Le intermittenze del cuore pubblicato da Feltrinelli nel 2003). Qui il discorso clinico e l’espressione letteraria godono della stessa tersa attenzione. Nella congerie delle emozioni, nel loro disordine, nella «vertigine

della gioia», nei picchi del dolore, Borgna vuole arrivare a fissare l’elemento rivelativo dell’umano. Il cuore è uno specchio dell’uomo. I suoi battiti, le sue pulsazioni, i suoi crampi, i suoi collassi, sono il ritmo diseguale del suo dispiegarsi. E il campo o il teatro in cui si sviluppa è la vita di ogni giorno, è la vita di ogni uomo. Dostoevskij, Silvia Plath o la nostra Antonia Pozzi, Rainer Maria Rilke o Marcel Proust, gli autori cui Borgna più frequentemente ricorre, fanno parte di una nuova genìa di martiri o di santi, che possiamo chiamare i martiri del cuore. «Voci, voci. Ascolta, mio cuore, come so-

lo i santi sapevano ascoltare», dice Rilke nelle sue Elegie duinesi. Sarebbe tuttavia fuorviante pensare questo ascolto come una sorta di esclusiva della poesia o più in generale della letteratura, che, soprattutto nell’ambito della modernità, si è stretta attorno al cuore come a un suo perno fondamentale, avvicinando, e quasi identificando pathos e conoscenza. Santo e martire del cuore è chiunque soffra più di quanto possa sostenere, chi si espone alla vita, e in essa s’inoltra, a tal punto da restarne rapito o in ostaggio. Quella che, per convenzione o consolidata e pigra consuetudine, chiamiamo «malattia mentale» non è che un’accelerazione del cuore, la vertigine che può prendere chi si è spinto più lontano. «Il cuore in fiamme, o il fuoco del cuore - dice Eugenio Borgna - sono metafore vive… che ci fanno contemplare la nostra anima totale».

Il «cuore in fiamme» è dunque un organo della conoscenza in uno stato di perenne tensione, capace di penetrare il mondo più di quanto arrivi a fare il calcolo o il raziocinio. In un possibile «pensiero del cuore» conoscere non è il risultato di un processo d’astrazione, non è un guardare dall’alto o da lontano, e non è un punto di prospettiva, si tratta piuttosto di un essere dentro, mondo nel mondo, uomo nella «macina del mondo», come dice il poeta Mario Luzi. Il cuore sente il mondo, lo ascolta appunto, e ascoltandolo ne ricapitola la trama, sentendolo lo elabora, un po’ come se lo ruminasse facendone la carne e il sangue che tengono in vita l’uomo. Lo avevano capito i pittori cinesi dell’età classica, Shitao ad esempio o Zhu Da, vissuti sul finire del Seicento nel drammatico passaggio fra la dinastia Ming e quella Qing. La decifrazione del sensibile che la loro pittura mette in atto promuove un’intelligenza del mondo dal profilo assai singolare: dipingere è farsi toccare dalle cose che animano il mondo. «Quando dipingi un fiore - raccomanda Shitao - entra nella vita di quel fiore. Senti come quel fiore sente. Come il fiore prendi la luce, distenditi nel vento, perdi le foglie, torna a fiorire». Shitao si china sulle forme di vita più fragili e fugaci, erbe e fiori, semi e insetti. Trasferendo sulla carta quelle esistenze precarie, dà loro protezione. Si annulla così la distanza fra il pittore e il mondo, e il pittore si trasforma in erba e fiore, seme e insetto. È il cuore a operare questa metamorfosi. Mi pare sia così, pur in un contesto assai diverso, nel dinamismo mistico che segna la pittura di Vincent Van Gogh. I suoi «vortici» stellari o gli ulivi torturati dal vento e dal sole di Provenza, sono i segnali di una metamorfosi («mi viene il desiderio di rifarmi l’anima», dice Van Gogh). «Sentire le stelle e l’infinito in alto», scrive Vincent al fratello Theo. Sentire. Ancora il cuore.


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Pop

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musica

SOGNANDO MORANDI a un Sanremo reality di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi è una canzone, pigiata in quel miscuglio di suoni fra discomusic da Studio 54 e dance stile people from Ibiza, che dimostra tutta la loro genialità: Comfortably Numb dei Pink Floyd. L’hanno presa, snocciolata, accelerata e trasformata nel pezzo che i Bee Gees da febbre del sabato sera non sono mai riusciti a incidere. Incavolarsi? Macché: Roger Waters e David Gilmour l’hanno apprezzato eccome, quel gioco di prestigio fatto di voci in falsetto. Come dire: da The Wall al Dancefloor. Sicché, nel 2004, la Comfortably Numb da luci stroboscopiche si è infilata nell’album Scissor Sisters; poi, nel 2006, ci ha pensato TaDah a inanellare bei numeri: un milione e quattrocentomila copie vendute solo in Gran Bretagna, blockbuster in America, disco d’oro in Italia. Scissor Sisters, gruppo newyorkese dell’orgoglio gay, coniuga disco e rock, dance e burlesque, glam e drag queen. Lo fa con stile, però. Senza cioè calcare troppo la mano, puntando a un pubblico il più eterogeneo possibile. Gli U2, per dirne una, li hanno voluti qualche anno fa come supporter nel loro Vertigo Tour. E loro, dal vivo, non solo hanno dimostrato di non essere mordie-fuggi ma sono riusciti a ipnotizzare centomila persone a Trafalgar Square e alla 02 Arena di Londra. Nel 2008, baciati dalla gloria e dalle lodi di Elton John, Andy Bell degli Erasure, Kylie Minogue, Pet Shop Boys e New Order, decidono che è tempo di un nuovo disco. Che esce dallo studio d’incisione ma finisce nel cestino. Meglio ripensarci su e rivedersi più in là. Ana

all’occhio di Vespa alle mani di Morandi. Il palloncino Sanremo ha già iniziato a staccarsi da terra. È la prima fase, quella autunnale del totoconduttore. Fino a qualche giorno fa si parlava di Bruno Vespa, l’imenottero nazionale che i cultori di Dickens riconosceranno nella figura di Huria Heep. E Vespa ci ha fatto sognare alla finale del Campiello, chiedendo di zoommare sulla scollatura di Silvia Avallone. Abbiamo immaginato un Sanremo fatto tutto di zoommate strategiche, su decolletè ma non solo, per par condicio avrebbe dovuto esaminare col teleobbiettivo le cariatidi di qualche concorrente stagionato, o i contrafforti di qualche nuova proposta baldo e masculo. Insomma un Sanremo fatto di zoommate e di punti forti, un riscatto dell’anatomia e della fisiologia sul ballo del potere. Chissà l’audience... E invece no. Ci tolgono Vespa e chi ci mettono? Gianni Morandi. Ha confermato il direttore di Raiuno, Mauro Mazza: «Sarebbe una bella scommessa per noi e per lui. Morandi è un nome importante e siamo in contatto con lui in vista di una decisione». Ora, un Morandi vecchio stile, stile bravo ragazzo che fa la maratona di New York sarebbe una bella delusione. Un Morandi pacifista del Vietnam, un Morandi uno su mille, un Morandi col Contrabbasso, un Morandi fatti mandare dalla mamma con la bottiglia di latte in mano. Una rovina sarebbe. E invece magnifico sarebbe un Morandi stile imitazione di Fiorello: incazzatissimo, crudele con i concorrenti, feroce con le vallette, scostante col pubblico. Un Sanremo Reality dunque. In cui, come nelle riunioni di redazione, la fanciulla bella e sciapa venga chiamata «sciacqua», e l’ospite merluzzo «er cojone». Un Sanremo verità. Grazie alle mani di Gianni, ancora più potenti degli zoom di Bruno.

D

C’

Le invenzioni al passato degli Scissor Sisters

Jazz

zapping

Matronic, la cantante che all’anagrafe fa Ana Lynch, prende a frequentare un corso di scrittura creativa; il chitarrista Del Marquis (Derek Gruen) si mette a produrre dischi in proprio; il tastierista e bassista Babydaddy (Scott Hoffmann) si dà alla pittura; il batterista Paddy Boom (Patrick Seacor) si dà invece alla macchia e non torna più (verrà rimpiazzato da Randy Schrager, in arte Randy Real). Jake Shears, al secolo Jason Sellards, vocalist, è l’unico a non arrendersi: raggiunge le discoteche di Berlino e proprio lì s’immagina l’essenza del nuovo repertorio. Ricontatta i compagni, si affida alla produzione di Stuart Price (già artefice dei successi di Madonna e The Killers) e il gioco è fatto: s’intitola Night Work, sfoggia in copertina un ancheggiante scatto fotografico di Robert Mapplethorpe ed è un rimbalzar continuo di citazioni e riferimenti. Se il brano che dà il titolo all’album occhieggia fra discomusic (il «tiro» ritmico) e glam rock (le chitarre elettriche), Whole New Way saltella con un orec-

chio a Stayin’ Alive dei Bee Gees e l’altro a Bad di Michael Jackson. Fire With Fire, invece, mette in fila l’Elton John più «piacione!, un ritornello che fa rima con Abba e la chiusura da musical hollywoodiano, mentre Any Which Way è pura Saturday Night Fever ma con l’unghiata funky tipica dei Jamiroquai. E se il rock bello tonico di Harder You Get, fra ZZ Top e Robert Palmer, sembra fatto apposta per introdurre Running Out (molto New Wave anni Ottanta con tendenza Psychedelic Furs), il technopop spettegola con Something Like This (azzeccata la citazione a Radioactivity dei Kraftwerk) e Skin This Cat. L’ultimo poker di pezzi tira in ballo Erasure e Bronski Beat (Skin Tight), Giorgio Moroder e Pet Shop Boys (Sex And Violence), A-ha (Night Life), Thriller di Michael Jackson, Frankie Goes To Hollywood e Bee Gees (Invisible Light).Tutto, insomma, scivola via che è un piacere. Per la gioia del popolo della notte. Scissor Sisters, Night Work, Polydor/Universal, 19,50 euro

Dialogo a tre su Canzoni, Preludi e Notturni

pesso, nel mondo del jazz, le opere discografiche più importanti e significative sono realizzate di getto. È il caso di un disco recentissimo nato su iniziativa del pianista milanese Enrico Intra che ha voluto accanto a sé il contrabbassista toscano Giovanni Tommaso e il batterista romano Roberto Gatto. Musicisti con i quali Intra non aveva mai avuto occasione di suonare, scelti per essere i suoi partner nell’esecuzione di sette pagine che Intra aveva composto l’anno scorso, dedicate ai suoi nipoti e ispirate alla musica classica che Intra ha sempre praticato anche se mai ufficialmente. Apparso nel mondo del jazz, non ancora ventenne, il 7 marzo 1955, Intra ebbe immediatamente il plauso della critica e del pubblico che lo applaudì al 5° Festival del Jazz di Milano. «Speranza nascente del jazz italiano» fu definito dalla stampa specializzata. E quando

S

di Adriano Mazzoletti

l’anno successivo fu pubblicato il suo primo disco venne recensito con entusiasmo: «A occhi chiusi possono essere scambiate per incisioni di qualche pianista americano, ciò che non credo possa accadere per nessun altro pianista italiano». Pianista jazz, inizialmen-

te fu attratto da due pianisti di grande talento, Russ Freeman e André Previn e in seguito, come molti, da Bill Evans. Intra aveva però studiato con Federico Zeiss, un insegnante assai noto e nel corso della sua carriera fu più volte tentato di ritornare ai suoi primi interessi. Nel 1969 registrò con Giancarlo Barigozzi, Carlo Milano, Angelo Arienti e Giancarlo Pillot una versione jazz del Concerto in do maggiore K. 467 di Mozart. Alla fine degli anni Sessanta una Messa Jazz e nel 1971 collaborò con Severino Gazzelloni. Il disco appena pubblicato, dal titolo Canzoni, Preludi, Notturni, è pensato per favorire il dialogo fra i tre musicisti. Astratti i Preludi, intimi i Notturni,

melodiche le Canzoni. A differenza di Enrico Pieranunzi che ha rivisitato in chiave jazzistica Domenico Scarlatti, o Riccardo Arrighini che ha saputo fondere il jazz con la musica lirica (Verdi e Puccini) e classica (Vivaldi e Chopin), le composizioni di Intra sono, come detto, originali, ma grazie alla sua straordinaria sensibilità tutte le pagine sembrano scaturire dalla fantasia di un musicista accademico e jazzista al tempo stesso. Fatto forse unico, dove l’uno (il musicista accademico), non sovrasta l’altro (il jazzista), ma il tutto viene mirabilmente fuso. Il Trio (Intra Tommaso Gatto), Canzoni Preludi Notturni, Alfamusic, Distribuzione Egea


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arti Mostre

asa Felicita, a Cavatore, nei pressi di Alessandria, con questo nome così piemontese e gozzaniano, ha ormai una nobile tradizione di mostre di artisti piemontesi, da Calandri a Saroni, da Soffiantino a Tabusso a Ruggeri, ed era inevitabile che si giungesse a Francesco Casorati, che per la cura di Marco Rosci e Adriano Benzi, ha modo di ricostruire qui il filo tenace d’una coerente passione per la grafica e la festosa labilità dell’acquerello. Dalle recenti occasioni di Porti, Paesaggi scritti e dialoghi d’alberi con piedistallo, sino alle primissime prove 1955-‘56, ove già venivano in scena gabbie, più metafisiche che realistiche, ariosteschi Cavalieri antichi, lambiccate officine metropolitane (nel senso anche di Metropolis) saturate dalla morsura dell’acquatinta, «con ossidazione», e poi le inconfondibili, medioevali Battaglie lunari, ove alla sommità di lance, alabarde, morsi e cavalcature, si profila sempre la nitida sagoma di quell’aggrappata Pavarolo, che gli avrebbe offerto una scappatoia al cognome di famiglia: Francesco Casorati Pavarolo. Come una decorazione, campestre e fruttifera. Una bella coerenza, che non rischia mai la ripetitività. Certo, perché da un lato (abbandonate le atmosfere nere ed esistenzial-realiste di Omino sul carretto, 1965, tra Caruso e Vespignani, o le macule Ecole de Paris, pur fascinosissime e petros’astratte di Caccia alla luna, 1962 o Il Fiume) Casorati si è sempre dibattuto, sia pure allegramente e spensieratamente, tra questo lieve almanaccare fiabesco, alla Calvino, e una rigida sintassi, inesorabilmente catturante, griglia à plat, che quasi precede i suoi racconti. «Spensieratamente», potrebbe suonare anche avverbio equivoco, ma non va mal interpretato: perché la sua ragionata poetica di evasione dalle catene del tempo realistico (la mostra non a caso si intitola Finzioni della realtà) va compresa e letta quale scelta coraggiosa e quasi isolata

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argomenti meno prevedibili, vien fuori che tra tutti gli animali di casa Casorati (a parte il bestiario di carte da gioco, che abita il suo serraglio pittorico) oltre ad anitre, oche e cacatua, non manca nemmeno il pappagallo storico, che era magna pars d’un’opera epocale, di Kounellis, alla Biennale. Come i molti altri animali rabdomanti, che appunto menano le danze del suo popolatissimo caravanserraglio d’Esopo: gazze ladre sorprese con ancora in bocca il fil rouge della pittura che non s’arresta mai, di opera in opera, e ogni volta si rinnova, come l’onda che sempre muore e rinasce, nel Cimitero marino di Valery. Qui ogni immagine scura, funerea, rembrandtiana è come fugata dalla festa naturale di forme libere, pneumatiche e rasserenate: l’onda si fa arabesco di scrittura misteriosa, e anche le macchine sono come mondate dal loro uffizio alienante. Come nel Tinguely, citato pure da Rosci, ma senza nessun rumor di ferraglia o d’apocalissi: macchine per moltiplicare matasse di disegni, che finiranno di salire spumosi al cielo, come labirinti di Klee o di sprofondare in un oceano, che non conosce più mostri, ma soltanto festosi coralli. Abbiamo ricordato Valery, per evocare quel suo meraviglioso Dialogo dell’Albero, in cui le fronde fermentano, sino a esaurire l’orizzonte, in un interminabile ghirigoro calligrafico alla Casorati. Ed è lì che Lucrezio ricorda al pastore Titiro, che l’albero non è soltanto fronde e tronco appariscenti, ma anche quel pescare misterioso entro la linfa della terra, in una sorta d’orizzonte ctonio, specchiato. Ed è esattamente quello che scopriamo in questi mari: che hanno sotto di sé altri mari, altri cieli, altri orizzonti infiniti. Quelli d’una regale fantasia che trapana le terre banali.

Alla festa naturale di Francesco Casorati

Moda

di Marco Vallora d’abbandonare gli spessori invischianti della moda engagé, allora dominante, o del poverismo programmatico, quasi imperialista, nella Torino di Sperone e Pistoi, per reinnescare meccanismi arruginiti, ove i canarini da carillon tornano a pigolare, voluminosi piroscafi si fanno trascinare nel profondo da tenaci orate, che han la forza di millenarie murene, alla Plinio il Vecchio, tra case sventrate, che hanno la teatrale consistenza di cartoni da set improvvisato, ma salutano giulive con

mani di mattoni, lievi e nomadi come aquiloni, senz’evocare i soliti drammatici terremoti nazionali. E arzilli stabilimenti, d’archeologia industriale sepolta, tornano a far vorticare volani e pulegge, per produrre nuvole innamorate, uccelli d’origami e tele su tele, appese a stendere, come panni di bucato. Perché poi la storia - anche delle divergenze d’arte - è ben strana, e così nella conversazione di Casorati con il padrone di casa, Adriano Benzi, che lo pungola su

Francesco Casorati. Finzioni di realtà, Cavatore (Alessandria), Casa Felicita. In proroga (per informazioni: 0144-329854)

Frugando nel passato, per sapere da dove veniamo ome nella pubblicità di Fox Retro («Erano Avanti!») che ripropone vecchie, gloriose serie televisive (Quincy, A-Team, Magnum P.I.), anche la moda, esasperata dal dilagante vintage, ci prepara un autunno ispirato al guardaroba della nonna.Vitino sottile e gonne a campana che arrivano ai polpacci abbinate a corti giacchini con colletto da signorina per bene e borse decisamente anni Cinquanta (Louis Vuitton). Le ambientazioni, le pettinature, persino i colori della serie cult «Mad Man» dilagano nei negozi e ai party: si è già visto un assaggio a Venezia, alla Mostra del Cinema con teste ondulate e chignon, abiti fascinosi da dive, stile quando Hollywood era Hollywood. Corpini ricamati, scarpe con tacco sottile e fiocchetto bon ton. A sorpresa, spuntano icone imprevedibili, come Doris Day, un po’trascurata dagli stilisti, o donne dell’alta società internazionale mai state icone della passerella, genere Rose Kennedy, immortalata nelle foto di famiglia con

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di Roselina Salemi abiti a fiori e vezzosi giri di perle, o Nadine de Rothschild che appuntava spille di smeraldi sulla spalla destra per valorizzare i suoi occhi verdissimi, o anche, tanto per guardare in alto, il look regina Elisabetta, vituperata per i suoi tailleur pastello, ma adorabile in versione sportiva, da caccia al cervo, (studiarsi Helen Mirren in The Queen): giacche di tweed, twin set, Barbour, mocassini. Basta aver pazienza, prima poi la moda ingoia, macina, mastica e ricrea tutto. Per il momento ha sputato con sdegno gli anni Ottanta e Novanta. Perciò avremo un inverno con kilt tinta unita, giacche di velluto e golf a losanghe come quelli di Ballantyne (che a un certo punto, per svecchiare, li ha ridotti drasticamente a favore di colori meno classici e più giovani), mocassini college da portare anche con gli abiti di chiffon, scarpe a punta-punta, galosce e borse bon ton ziesche, recuperate magari in fondo a un armadio, a fantasia liberty, o addirittura ricamate a piccolo punto (ma di seta) da mettere disinvoltamente sui jeans.

Inquieta questa figura femminile, chic, filiforme, danzante dentro gonne rigonfie come quelle di Prada che enfatizzano la vita e il seno, inquieta questo ritorno di guanti e guantini da signora d’altri tempi con la calza al ginocchio, gli occhiali a farfalla e il cerchietto tra i capelli. Può attirare una ragazza questo stile granny, come lo chiamano gli inglesi? Forse sì, perché ci sarà sempre quel tocco moderno, una spilla di strass sul parka, i camperos con il kilt, la gonna a ruota o a pieghe larghe con qualche giubbotto spiazzante. Certo, così è faticoso, anche parecchio, e bisogna avere buon gusto, cosa che non abbonda. Ma fa tenerezza la determinazione con cui la moda, frivola per definizione, votata all’apparire-per-essere, fruga nel passato alla ricerca di un oggetto-simbolo, di qualcosa che ci garantisca la continuità con il presente, creando l’illusione di un’eleganza senza tempo. Non ci sono più nuove idee? No, semplicemente, per una volta, abbiamo bisogno di guardare indietro, di sapere da dove veniamo. Verso dove andiamo, chissà chi lo sa.


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il paginone

Non è “scienza di confine” ma opera di revisionismo storico e archeologico il libro del matematico Emilio Spedicato sulle due più grandi catastrofi ricordate nei testi antichi: la scomparsa della mitica isola e gli eventi connessi all’Esodo degli Ebrei dall’Egitto. Sulle orme di Velikovsky, uno studio rigoroso che dimostra la plausibilità di eventi considerati “inusuali” ra i primi a darne notizia fu Platone nei dialoghi Timeo e Crizia. Da allora studiosi, ricercatori e appassionati non hanno mai smesso di cercare Atlandide, il mitico continente scomparso. Sull’argomento non mancano studi e libri a centinaia con le ipotesi più diverse e bizzarre. Capita anche che qualcuno arrivi a possedere sul tema più di 400 volumi. Insomma, pare non ci sia giorno che a un qualche «ricercatore indipendente» (amano chiamarsi così per lo più i dilettanti di questa o quella disciplina che scelgono nei loro studi di non attenersi alle linee guida dei veri esperti) non venga in mente una nuova idea che presto o tardi finisce col trasformarsi in un libro. C’è da dire tuttavia, che in questa congerie di pubblicazioni tutte più o meno fantasiose, qualche studio interessante e serio si trova. Qui ne segnaliamo uno fresco di stampa e uscito con il titolo Atlantide e l’Esodo. Platone e Mosè avevano ragione (Edizioni Aracne, 13,00 euro) del fisico e matemati-

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Il passaggio ravvicinato di un grande oggetto che cedette alla Terra un satellite, divenuto poi la Luna. Ecco la causa della distruzione più studiata della storia co milanese Emilio Spedicato. Di Spedicato esiste una ricca e interessante bibliografia che rivela la coltissima preparazione dell’autore - come quando parla della collocazione geografica dei viaggi di Gilgamesh - che tradisce la sua straordinaria intelligenza e curiosità.

Spedicato oltre a un invidiabile curriculum tecnico-scientifico, possiede un vastissimo bagaglio di conoscenze umanistiche e letterarie che comprendono molte lingue antiche e moderne, tra le quali l’ebraico, il greco, il latino, l’arabo, un po’ di cinese, l’ungherese e, ovviamente, molte lingue europee, la musica - l’autore è anche un eccellente pianista e compositore - e per ultimo, la sua disciplina preferita: la geografia nella quale è versatissimo. Fin da giovane Spedicato si lasciò avvincere dall’opera del geniale ebreo russo Immanuel Velikovsky (1895-1979), autore del libro Mondi in collisione, divenendone a distanza di anni, prima un appassionato lettore e cultore e in seguito, in certo qual modo, uno dei più degni e stimolanti continuatori. Ed è grazie a Spedicato che l’editore Luigi Cozzi è riuscito a ottenere dagli eredi il diritto di traduzione dell’opera omnia di Velikovsky in italiano. Velikovsky ha almeno due grandi meriti. Il primo è quello di essere riuscito a fornire anno III - numero 32 - pagina VIII

bastevoli prove sulla veridicità storica degli eventi «inusuali» della Bibbia; il secondo, davvero fondamentale, di avere provato a dimostrare che la cronologia accademica ufficiale per l’Egitto sarebbe sbagliata, riconducendo il clamoroso errore al noto archeologo ed egittologo francese Jean François Champollion (1790-1832). Ora, è proprio su questa stessa linea di revisionismo storico e archeologico che si muove Spedicato. In particolare in questo suo libro che affronta le due più grandi catastrofi ricordate nei testi antichi. La prima è quella di Atlantide riferita da Platone usando informazioni date in Egitto a Solone, per la quale l’autore porta avanti una tesi più che plausibile e accetta la data platonica spiegando l’evento nel contesto della fine, avvenuta velocemente, dell’ultima glaciazione. Mentre la collocazione della capitale della mitica isola viene stabilita ad almeno sessanta metri sotto il livello del mare, nel settore meridionale di Hispaniola (chiamata anche talvolta Santo Domingo o Haiti, è la seconda isola delle Antille per dimensioni, e si trova a est di Cuba e a ovest di Porto Rico), una tesi questa che trova pochi ma importanti consen-

La verità su

di Rossell

si. Quanto alla fine, o meglio, alla distruzione di Atlantide, questa sarebbe stata provocata dall’impatto di un meteorite sull’Oceano Pacifico o dall’effetto gravitazionale di un grande corpo celeste di passaggio vicino alla Terra. Scrive a questo proposito Spedicato: «Proponiamo come causa il passaggio ravvicinato di un grande oggetto, che cedette alla Terra un satellite, divenuto la Luna». Se la cronologia di Spedicato è corretta, ci troveremmo all’incirca nel 9500 avanti Cristo. La seconda grande catastrofe citata dalle fonti antiche riguarda l’Esodo degli Ebrei dall’Egitto. Partendo da un passo di Orosio, Spedicato associa l’evento al diluvio di Deucalione e all’esplosione di Fetonte, questo considerato un corpo celeste in orbita instabile attorno alla Terra. L’autore poi propone un nuovo itinerario di Mosè nel Sinai e individua il luogo del passag-

gio, un evento spiegato in modo diverso dagli altri studiosi. Infine vengono spiegati come fatti reali le vicende narrate da Platone e nella Bibbia. Quale che sia allora il credito che si è disposti a dare alla misteriosa vicenda di Atlantide, questo libro è scritto con esemplare rigore, serietà e vera cultura. Elementi assai rari nei libri che trattano l’intrigante ma confuso campo delle cosiddette fringe science (scienza di confine).

Il libro dell’Esodo comincia con il racconto degli ebrei ridotti in schiavitù dagli egiziani e disprezzati dal faraone fino alla ribellione che farà fuggire gli ebrei per ritornare in Palestina. È in questo contesto che si inserisce la storia del cosiddetto passaggio del Mar Rosso da parte degli ebrei e della distruzione dell’armata egiziana che li inseguiva. Questo evento segue altri


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mento alla famosa esplosione che avvenne nel 1908 in Siberia, dove migliaia di chilometri quadri di foresta furono distrutti. Dalle fonti antiche - tutte riportate nel volume - l’autore ricava le seguenti informazioni di tipo fisico-geografico. Prima del passaggio del Mar Rosso gli ebrei si trovavano bloccati fra mare e montagne, avendo Baal Sefon a sud e Migdol a nord. In questo frangente fu osservato uno strano fenomeno nel cielo: il fermarsi dell’Angelo di Dio e della colonna di fumo. Nella notte soffiò a lungo un vento da sud, da interpretarsi come un vento caldo. Prima della fine della notte gli ebrei poterono entrare nel letto asciutto del mare. All’alba gli egiziani iniziarono l’inseguimento, ma ebbero problemi con i carri, quindi le acque ritornarono e distrussero quanti erano entrati nel letto marino. Le montagne furono viste sobbalzare. Fetonte, considerato dai

dali sconvolti dall’esplosione, e dal fatto che la costellazione Eridano ha la forma geometrica del fiume Eider.

Secondo l’autore, Mosè partì dalla regione orientale del Delta, dalla terra di Goshen, dove molti ebrei erano impegnati in lavori di costruzione (fatto di cui gli scavi dell’austriaco Manfred Bietak hanno dato conferma archeologica). I testi dicono che il suo itinerario fu lungo e inusuale. Spedicato esclude quindi quello lungo il Mediterraneo o le varie strade nella parte settentrionale del Sinai, al contrario è convinto che Mosè si muove lungo la costa occidentale del Sinai raggiungendo l’importante santuario di Baal Sefon, da localizzarsi nella punta del Sinai, l’attuale Ras Muhammad, che lo scrittore ritiene fosse un santuario dei Pani, i navigatori dell’India, che raggiungevano l’Egitto seguendo i monsoni con navi smontabili tenute insieme da corde di fibra di cocco (tecnologia tuttora esistente nelle Laccadive). La parola Sefon è probabilmente una variante di Siva/Shiva, la divinità principale dell’India pre-ariana, il che spiega anche interpretazioni tradizionali quali Signore del Nord (il trono di Shiva è infatti sul monte Kailas, a nord dell’India), o Signore delle mosche (nei templi indiani si offre burro alle statue, il che attira mo-

Il passaggio del Mar Rosso è associato, partendo da un passo di Orosio, al diluvio di Deucalione e all’esplosione di Fetonte, un corpo celeste in orbita instabile pagani responsabile dei vari eventi avvenuti allo stesso tempo, dopo una serie di caotiche evoluzioni nel cielo si avvicina alla terra provocando incendi e infine esplodendo per effetto di un fulmine di Giove, nella regione del fiume Eridano, dove si trova l’ambra. Lo scenario proposto dall’autore parte dallo scritto di Orosio ipotizzando che l’oggetto chiamato Fetonte fosse un bolide di dimensioni forse di qualche chilometro, catturato dalla forza di attrazione del nostro pianeta. L’oggetto, dotato

u Atlantide

la Fabiani

eventi straordinari noti come le Dieci piaghe d’Egitto e precede la consegna a Mosè delle Tavole con le leggi da parte di Yahvè. Per gli eventi descritti nell’Esodo, Spedicato sottolinea che esistono varie interpretazioni. C’è quella ortodossa, che li vede come miracoli compiuti da Dio su richiesta di Mosè. C’è quella di chi ritiene il libro composto molto tempo dopo gli eventi descritti, che sarebbero essenzialmente delle fabbricazioni prodotte per attribuire agli ebrei un’antichità storica simile a quella dei popoli dove avevano passato molti anni in esilio. E ancora, c’è quella allegorica, tipica di molti Padri della Chiesa e teologi di oggi. Infine c’è quella di studiosi come Goedicke e Velikovsky che li considerano speciali eventi naturali. L’approccio del nostro autore appartiene all’ultima categoria. Spedicato è convinto che i testi antichi riportino una descrizione essenzialmente

fedele di eventi accaduti - a parte alcuni errori nella trasmissione o nella traduzione e che in tempi antichi il nostro pianeta abbia interagito catastroficamente con oggetti extraterrestri. In questi termini, come affermato da Platone, si spiegano le tre grandi catastrofi da lui citate, la più antica quella di Atlantide, la più recente quella di Deucalione.

Per questa ipotesi lo scrittore si avvale di un passo delle Storie contro i pagani di Paolo Orosio, amico di Agostino, usa diverse citazioni che si trovano nell’Esodo, in Giuseppe Flavio, nelle Leggende degli Ebrei, in autori latini e greci che trattano di Deucalione e di Fetonte, e si avvale della conoscenza che si ha oggi degli effetti di un’esplosione nell’atmosfera di un asteroide o di una cometa, ovvero di eventi classificabili come Super Tunguska, con riferi-

inizialmente di un’orbita caotica, deve avere avuto una serie di frammentazioni, immettendo nell’atmosfera una quantità di polvere e colpendo la terra con alcuni frammenti, eventi con i quali si possono spiegare le Dieci piaghe d’Egitto. Il suo nucleo, avvicinatosi all’atmosfera nel giorno cruciale del passaggio del Mar Rosso, avrebbe inizialmente interagito con questa, provocando incendi per l’onda di calore prodotta dal contatto e, infine, penetrato negli strati più densi, sarebbe esploso sul fiume Eridano che Spedicato identifica con il fiume Eider, nello Schleswig Holstein, un importante fiume che fino al Medioevo formava con lo Schlei una via di passaggio diretto fra Mare del Nord e Baltico. L’identificazione proviene dal riferimento alle lacrime di ambra delle sorelle di Fetonte alla sua morte, ambra emersa in grande quantità dai fon-

sche, che secondo le idee relative alla metempsicosi non possono essere uccise). Qui Mosè, che aveva probabilmente contatti con i Pani, si impadronisce dell’oro e muove verso Migdol, quasi sicuramente una fortificazione nella regione di Eilat, zona portuale e di miniere di rame. La strada per Migdol è quasi tutta montuosa, salvo una piana abbastanza estesa nella presente Nuweiba, da identificarsi con Pi-Hahirot. Per raggiungere Nuweiba, Mosè e i suoi necessitano di vari giorni, dovendo attraversare due passi, con una strada resa più difficile dai vari terremoti che Fetonte aveva prodotto nei mesi precedenti. Durante questo tempo il faraone è informato del furto dell’oro, motivo per cui invia contro Mosè delle truppe. I carri devono essere portati per mare, non potendo viaggiare per la difficile strada seguita da Mosè. Sono portati quasi certamente da grandi navi dei Pani partite dal porto di Tebe, in fondo allo Wadi Hammamat, oggi chiamato Marsa Gawasis. E nel 2004 sono state scoperte in due caverne presso tale porto numerose navi smontate, datate non meno di 3.500 anni fa. I carri sbarcano a Pi-Hahirot, l’attuale Nuweiba, unico luogo lungo la costa dove il terreno avrebbe permesso loro di manovrare. Gli egiziani vi trovano Mosè bloccato da una frana che aveva reso impraticabile la strada che passava fra il mare e una catena di montagne invalicabili. L’itinerario proposto, circa tre volte più lungo di quello tradizionale lungo il Mediterraneo, è motivato dalla necessità di acquisire l’oro di Baal Sefon, e si svolge con il deserto a sinistra e il mare alla destra, esattamente come affermato da Cosmas Indicopleustes, che ben conosceva il Mar Rosso e che è stato ignorato dagli studiosi di Mosè.


Narrativa

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libri John Banville CONGETTURE SU APRIL Guanda, 285 pagine, 17,50 euro

ohn Banville, nato a Wexford, Irlanda, nel 1945, è uno dei più famosi e grandi scrittori d’Europa. Con Il mare ha vinto nel 2005 il Booker Prize. Ebbene, ora immaginiamo che mister Banville abbia mandato un suo dattiloscritto a un editore, usando uno pseudonimo. Immaginiamo che Banville telefoni per sapere qualcosa del suo romanzo. L’editore, o comunque un editor della casa editrice, potrebbe rispondergli così: «Mio caro giovanotto, ma si rende conto? Lei impiega quasi settanta pagine per rivelare che ai piedi del letto della giovane donna ritenuta scomparsa ci sono delle macchie di sangue. Ma via, lei non conosce affatto il ritmo del racconto, lei doveva entrare subito nel vivo della vicenda… o forse si crede Proust?». Facile immaginare, a questo punto, la sonora risata di Banville. Oppure la smorfia di amarezza per aver constatato che oggi molti considerano i romanzi una sorta di collage di sms, all’insegna della rapidità, dimentichi che un’atmosfera, essenziale in un testo narrativo, è spesso più importante dei meri fatti. Probabilmente, seguendo l’immaginazione per assurdo, anche un editore italiano calcherebbe sul «difetto imperdonabile» della lentezza. Canone letterario in base al quale si dovrebbero buttare sul fuoco migliaia di capolavori. E con tutta probabilità l’editore italiano, suggestionato dai sondaggi del marketing, direbbe al sessantenne Banville di turno che non si vendono autori con i capelli grigi. Banville, nell’ultimo romanzo pubblicato in Italia da Guanda, Congetture su April, non ha paura di far fare passi lenti ai suoi personaggi. È insomma lontano dal ridicolo ritmo del cartone animato e descrive il mondo quale è. Con i suoi tempi. April Latimer è una giovane medico che vive da sola. Appartiene a una famiglia spocchiosa e ricca, «quelli dell’altra parte» come dirà un detective della polizia. Ha una ristretta e fedele cerchia di amici, e tra questi c’è Phoebe, figlia dell’anatomopatologo Quirke, personaggio cui Banville è molto affezionato e al quale ha affidato complicati casi da sbrogliare. È la fragile Phoebe che dà l’allarme: April è scomparsa da una settimana. Trova sotto una pietra la chiave di casa ed entra: tutto apparentemente normale, compreso il consueto disordine. C’è però un particolare importante che emergerà

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Con Banville alla ricerca di April Dublino avvolta nella nebbia di febbraio e un passato da scandagliare. In un racconto che non teme i passi lenti

Il bibliofilo

di Pier Mario Fasanotti

e darà il via a varie congetture: il letto non è disfatto, anche se attorno ci sono indumenti di vario genere. Quirke, appena uscito da una clinica dove è andato per disintossicarsi dall’alcol, inizia la sua riassieme all’ispettore cerca Hackett, così timoroso nello scomodare la famiglia Latimer, la stessa cui appartiene un ministro. Siamo in una Dublino avvolta completamente nella nebbia di febbraio. Banville in due righe è come se ci portasse per mano proprio lì: «Nel silenzio ovattato la città pareva sconcertata, come un uomo cui si abbassi di colpo la vista». Cercare notizie su April è difficile: «Era il tipo per cui la gente si preoccupava, non perché non fosse in grado di badare a se stessa, ma perché era fin troppo sicura di saperlo fare». La giovane medico non ha più rapporti con la madre e con il resto della famiglia. Qualcuno dei Latimer addirittura la chiama «stronzetta». Non si fa trovare? Be’, sono affari suoi. Gelido è anche il fratello, medico pure lui. Ma questa sprezzante indifferenza non convince Quirke. L’ispettore scopre che per le scale c’era sempre un ragazzo di pelle nera ad aspettarla. Non solo lui, però. In effetti tra gli amici ci April c’è Patrick, originario del Niger. A poco a poco - del resto è così che si svolgono le vicende umane - Quirke viene a sapere che Patrick era innamorato di April, tuttavia non ricambiato se non con amicizia casta e affettuosa. Non voglio rivelare certamente l’esito delle ricerche sul destino di April, solo dire che la giovane donna era incinta e che probabilmente (diciamo così) le tracce di sangue trovate sul pavimento… Come in tutti i romanzi di Banville, persone, ambienti e situazioni hanno il marchio della complessità. Ogni personaggio è un intreccio di circostanze, di umori. Un misto di passato e presente. E per sapere cosa sia successo ad April si dovrà scandagliare il passato che, come accade spesso, lancia i suoi tentacoli su un presente tormentato e tenuto segreto.

La perfezione della grafica nel nome di Majakovskij e edizioni La Vita Felice ripropongono, in versione anastatica, uno dei gioielli dell’arte tipografica novecentesca, arricchito dalla classica traduzione di Ignazio Ambrogio: Per la voce di Vladimir Majakovskij (128 pagine, 10,00 euro). Il poeta russo affidò a El Lisitskij la progettazione del volumetto durante il soggiorno berlinese del 1923. Berlino era all’epoca la capitale del costruttivismo russo all’estero, straordinaria fucina di nuove idee e fermenti artistici. Il libretto, concepito come un’antologia dei testi majakovskijani che maggiormente si prestavano alla lettura in pubblico (da cui il titolo), venne composto nello stesso anno in una piccola tipografia della città tedesca, per conto delle Edizioni di Stato di Mosca. Il poeta aveva infatti l’abitudine di intraprendere vere e proprie tournée lungo lo sterminato territorio sovietico per declamare in pubblico i versi che l’avevano reso famoso, nonostante le autorità gli rimproverassero un ermetismo di fondo non sempre recepito dalle masse. Majakovskij, che si sentiva ripetere in continuazione di non venire compreso dagli operai e dai contadini, esasperato, scriverà nel

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di Pasquale Di Palmo 1927 la poesia intitolata Le masse non vi capiscono che presenta il seguente significativo incipit: «Fra scrittore/ e lettore/ ci sono i mediatori,/ e il gusto/ del mediatore/ è il più mediocre». Per la voce, comprendente tredici poesie di Majakovskij, è stato concepito da El Lisitskij, nominato non come illustratore ma come «costruttore del libro», in maniera quanto mai singolare: le pagine infatti si consultano come una rubrica dove, al posto delle lettere dell’alfabeto, figurano i temi trattati nelle poesie. El Lisitskij adottò al riguardo una soluzione semplice e geniale al tempo stesso, inserendo in margine a ogni singola voce della rubrica un piccolo simbolo grafico che sembra anticipare le icone del linguaggio informatico. Il mio Maggio, Internazionale, Armata delle Arti, Cadetto, Sole sono alcuni delle voci che si avvicendano nella rubrica che può dunque essere consultata con facilità da un eventuale dicitore o attore per la lettura in pubblico. Così El Lisitskij ricordò l’impresa: «Questo libro di poesie di Majakovskij è

Esce in anastatica “Per la voce”, affidato dal poeta nel 1923 all’estro di El Lisitskij

destinato a essere letto ad alta voce. Per risparmiare al lettore la ricerca delle singole poesie, ho fatto uso della rubrica. Questo libro è formato solo col materiale della cassa dei caratteri. Sfruttate le possibilità della stampa a due colori (sovrapposizioni, incroci di tinteggiature, e così via). Le mie pagine stanno alle poesie in un rapporto forse analogo a quello del pianoforte che accompagna il violino. Come per il poeta dal pensiero e dal suono si forma l’immagine unitaria, la poesia, così io ho voluto creare un’unità equivalente con la poesia e gli elementi tipografici». Al repertorio rivoluzionario di Majakovskij, fatto di esortazioni e apologhi dall’intento dichiaratamente sociale, si accompagnano così le modernissime soluzioni grafiche di El Lisitskij che, basandosi sul contrasto tra inchiostro rosso e nero, riesce a comporre un libro che diventerà una sorta di feticcio novecentesco, una Bibbia di Gutenberg dell’era moderna, i cui rari esemplari sono contesi dai collezionisti più importanti a suon di cifre elevatissime. Tale reciprocità tra poesia ed elemento visivo costituisce un tratto essenziale dello straordinario connubio tra poeta e «costruttore del libro», tanto che Majakovskij sosterrà che Per la voce «è dal punto di vista tecnico una perfezione assoluta d’arte grafica».


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poesia

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Il risveglio di Walt Whitman di Roberto Mussapi l grande poeta americano Walt Whitman (West Hill, Long Island 1819-Camden 1892), cantore della natura e della sua anima, è una figura unica nella poesia moderna: crea, come gli antenati greci e latini, dei miti. Come ispirato direttamente da Omero, Virgilio, Lucrezio, Ovidio, attinge alla natura, vi si immerge generandone una lettura magica, multiforme, favolosa, tramutandone la realtà in mito e poema. Per Whitman la natura non è iscritta nel mondo vegetale e animale, negli elementi primari dell’acqua, dell’aria, della terra: la natura è natura naturans, forza animante che agisce nello stelo d’erba come in ognuno di noi, anelito alla creazione che ripete il disegno divino nella sua onnipotenza. Fanno parte della natura le città che sorgono popolose come alveari, obbedendo all’istinto umano di aggregazione e socialità. Fanno parte della natura i ponti che l’uomo edifica per congiungere le rive, in uno slancio edificante che Whitman vive come potenza erotica.

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Ma primigenia nella sua opera, nel suo vasto poema Leaves of grass, Foglie d’erba, la potenza del mare, il cui fondo custodisce il segreto della nostra origine e del nostro destino, il mare la cui voce accompagna e culla i moti del giorno e della notte. Il mare come condizione di lontana nascita e di morte, suono ripetuto, oscillante, cullante, in ultima analisi immutabile. Mentre esiste un suono, una voce, che rivela a lampi la pienezza dell’essere e lo strazio per l’impossibilità che essa perduri nel tempo mortale: il canto dell’uccello. Un canto in cui gioia e dolore si mescolano indelebilmente, e da quel canto il giovane Whitman apprese, da adolescente, i segreti della poesia, e il suo destino di poeta, il cantore che fonde gioia e dolore, vita e morte, nella voce, nella melodia appresa dagli uccelli. Una storia di genesi della poesia e una cosmologia dell’anima, questa fiaba mito, la prodigiosa Dalla culla che oscilla eternamente, di cui ho proposto alcuni versi, ma che va letta interamente nel suo passo fluviale di poema o di fiaba. Eccolo, il mito. Una volta a Paumanok, quando era nell’aria il profumo dei lillà e cresceva l’erba del quarto mese, due ospiti pennuti vennero dall’Alabama, due insieme, e fecero il nido, e quattro uova verde chiaro macchiate di bruno. E ogni giorno il maschio volava qua e là, nei paraggi, e ogni giorno la femmina covava sul nido, muta, con gli occhi ardenti, e ogni giorno lui, che era un ragazzo curioso, senza disturbarli, con cautela spiava, assorbiva, traduceva. Finché all’improvviso un mattino, forse uccisa, senza che nulla il suo compagno potesse sapere, la femmina non era a covare il

il club di calliope

E non lo dimentico,

nido, e non tornò ma fondo il canto del mio cupo demone e fratello, quel pomeriggio né il seguente, non riche mi cantò al lume della luna sulla grigia spiaggia di Paumanok, comparve mai più. coi mille canti liberi in risposta, Il ragazzo continuò a spiare quel luogo, i miei canti svegliati in quel momento, da allora vedeva il e con loro la chiave, la parola che sorge dalle onde, maschio, solo, lo osservò per tutta l’ela parola del canto più dolce e di tutti i canti, state, a volte coperquella parola forte e deliziosa che strisciando ai miei piedi to dal suono del mare, di notte sotto (o come una vecchia che dondola la culla, la luna piena, di avvolta in vesti chiare, piegata di lato) giorno svolazzare tra rovo e rovo, e mi sussurrò il mare. quando il mare era quieto e taceva allora lo udiva, il maWalt Whitman schio, l’ormai solitario ospite dell’Ada Dalla culla che oscilla eternamente labama. Il bambino traduzione di Roberto Mussapi non dubitava, l’uccello si rivolgeva con la sua voce ai venti del mare. L’uomo, anni dopo, quando ormai è diventato poeta, ri- l’uomo che cammina lungo il mare ora si fa ancora più corda quanto perfettamente ascoltando l’uccello vivido, atroce: vede, come di fronte a uno specchio sulaveva compreso: «Chiamava la sua compa- le spiagge di Paumanok, nella luce della semiluna gialgna riversando significati che io solo tra la che si effonde, vede il ragazzo, estatico, coi piedi nututti gli uomini conosco. Io li conosco, gli di, nelle onde, con i capelli fluttuanti nel vento, e rivive altri probabilmente ne sono all’oscuro, la rivelazione di quell’istante: l’amore troppo a lungo ma io ho fatto tesoro di ogni nota e ho compresso nel cuore del fanciullo che all’improvviso appreso quella lingua musicale, perché fluisce bruciando in un tumulto, e il significato di quel più volte, scivolando non visto sulla canto si distende limpido e naturale nelle orecchie e spiaggia, schivando nel silenzio i rag- nell’anima, ecco il trio che si compone in un’unità nagi di luna, confuso con tutte le ombre scente, il canto dell’uccello motteggiatore, il suono del e le forme oscure del mare di notte io, mare, il bambino che sta mutando, mentre il bardo, il a piedi nudi, ancora bambino, con il poeta, rompe la sua scorza, nasce da quell’accordo. vento che mi scompigliava i capelli, io E la rivelazione, e la domanda improvvisa, piena, restavo a lungo in ascolto, in silenzio». Ascoltava per appropriarsi del segreto di «Demone o uccello, ascolta! È solo per la tua sposa che quel canto per poi tradurlo, con la sua vo- canti? O non canti forse anche per me, qui ogni sera e ce umana. Ricorda che l’uccello chiamava a ogni notte, davanti al mare su su quel palo muschioso? voce alta, spandeva la sua voce sulle onde, la in- Perché io ero un bambino, e l’uso della lingua dentro di vocava. O forse lei era quella piccola macchia scura me dormiva. Ma io ti ho udito, il tuo canto mi ha risvesulla luna, allora pregava l’astro di non tenerla più co- gliato. Adesso, in questo istante io so e capisco perché sì lontana. A volte cantava alla terra, dicendole a vo- sono vivo, e perché sono venuto al mondo, e perché soce alta che era nascosta in qualche anfratto, in qual- no qui, qui e ora. Mi sveglio, ho appreso il tuo canto e che cespuglio, invisibile ma viva, accanto. In qualche in esso il mio destino di poeta, già mille voci hanno ininotte stellata si rivolgeva agli astri: forse lei era salita ziato a cantare in me, per non morire». da loro, la pregassero di ridiscendere, di tornare al Questo ricordava sulla spiaggia di Paumanok Walt Whitman, l’incontro con la coppia di uccelli e il canto compagno che per lei cantava. L’uomo sta camminando lungo la riva del mare, i piedi del maschio rimasto solo, e il lutto, e il suo matrimonio nell’acqua, ricorda quella gola tremante e il segreto con la voce e la bellezza che lo avevano iniziato, sulla che il bambino aveva colto di quel pianto. Il ricordo del- spiaggia, di notte, a diventare poeta.

SE IL TEMPO FERISCE... CON GENTILEZZA in libreria

di Giovanni Piccioni

Quanto era bianca la neve dell’85 e fredda e sconosciuta per noi bambini come ci trovò splendidamente impreparati con le buste della spesa legate ai piedi una camera d’aria per discese mozzafiato. Qualche volta in altre terre l’ho rivista, non ci crederai, è rimasta bianca come allora.

Daniele Mencarelli

e Poesie di Claudio Damiani, (Fazi editore, 15,00 euro), raccolgono una produzione che va dal 1987, con Fraturno, al 2008, con Il fuoco sulla fortezza, inedito. Siamo di fronte a una poesia che sceglie un linguaggio semplice, quasi elementare, per dire una verità personale e non solo personale. Nel senso che, lontanissima da ideologie e mode letterarie, richiama continuamente la fragilità e la bellezza tragica, perché finita, dell’esistenza. Al centro dei versi di Damiani ci sono l’uomo e la natura, i quali vivono, quasi simbioticamente, una vita breve, con le sue «leggi», di vita e di morte. Proprio il tema della morte assume un rilievo centrale, ed essa viene rivestita ora da un’aspirazione che richiama il cristianesimo, ora dagli echi di una visione classica. Tutto viene comunque riconosciuto e accettato con accenti lievi e sereni: «Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà,/ che bello che non siamo eterni,/ che non siamo diversi/ da nessun altro che è vissuto e che è morto,/ che è entrato nella morte calmo/ come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto/ e poi, invece, era piano». La gentilezza, passato, presente e futuro, la natura, i luoghi familiari: tutto si compone in un medesimo destino, segnato dal tempo che «scivola» e «ferisce».

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di Enrica Rosso have a dream, ho un sogno. Quello di Daniela Giordano, pluripremiata attrice e regista, era quello di far scoprire il cuore segreto dell’Africa attraverso la conoscenza del suo teatro. Con pazienza e dedizione, caparbietà e tanto lavoro ha quindi iniziato a raccogliere, selezionare, tradurre, proporre, testi provenienti dal Continente Nero scoprendo scritture teatrali che ci offrono la possibilità di un contatto più sincero con una cultura di cui l’Occidente ancora tanto ignora avendone esportato solamente i luoghi comuni. Poi il salto per dare una forma a tutto il materiale raccolto. È iniziata così nove anni fa l’avventura, dapprima concentrata sul territorio sub-Sahariano e in seguito allargata all’intero territorio, di Festa d’Africa Festival per «vincere sul silenzio con la forza della creatività». Ospitato nel Teatro Palladium-Università Roma Tre, dal 15 al 18 settembre con l’Adesione e il premio di Rappresentanza del presidente della Repubblica, questo festival internazionale delle culture dell’Africa contemporanea a cura di Crt scenaMadre scandaglia quest’anno il tema della «Diversità culturale un bene per tutti». Si parte il 15 con una tavola rotonda condotta dal direttore di Rai Radio 3 Marino Sinibaldi sul tema «Immigrazione-Cittadinanza». Politici, giuristi ed esperti del settore sono invitati a dialogare con il pubblico in sala per focalizzare sul diritto di cittadinanza per le seconde generazioni. A seguire verranno presentati i film Sei nel mondo di Camilla Ruggiero e Fratelli d’Italia di Claudio Giovannesi sul tema dell’integrazione degli adolescenti immigrati nel nostro Paese. Il giorno dopo la compagnia tunisina L’art de le deux rives presenta in prima nazionale e europea Zirriat bliss - I semi di lucifero, per la regia di Hafedh Kalifa con le musiche di Evelina Meghnagi. Una pièce ispirata a Le serve di Genet per raccontare di un femminile sepolto in territori oscuri, ma non so-

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Televisione

Teatro Le mille e una malia di mamma Africa MobyDICK

lo; il testo sviluppa, infatti, metaforicamente la problematica dell’annosa questione tra Israele-Palestina con uno sguardo privilegiato al conflitto interno palestinese. Da non perdere la prova delle due straordinarie protagoniste: le

spettacoli

tunisine Ben Yahia Jalilla e Dalila Meftafi. Il 17 sarà la volta degli italiani della compagnia Divano Orientale Occidentale diretta da Giuseppe L. Bonifati e Cecilia Di Giuli che presenteranno Ammaliata, orchestra popolare per coro e sei seggiole, una ricerca sui ritmi che prende spunto dalle lingue calabresi per fondersi con le suggestioni linguistiche dei territori confinanti in una malia di suoni. Per poter assaporare l’atmosfera del chiaro di luna in Senegal, la serata di sabato 18 si colora dei suoni del Keur Senegal di Lamine Dabo. Quindici artisti in scena tra danzatori, acrobati, musicisti, ballerini e naturalmente cantanti per dar vita a quello che in wolof, la lingua nazionale senegalese, significa casa. Inoltre ogni pomeriggio alle 19.30 Alessandro Jedlowsky e la stessa Giordano coordineranno gli incontri con artisti immigrati. Allestita per l’occasione nel foyer del Teatro, l’esposizione di Alessandra Toro che presenta tre etnie che hanno lottato per l’autodeterminazione dei popoli: i Chewa del Malawi, i Sahrawi del Sahara Occidentale e i San del Kalahari. Come tutti noi abbiamo ormai imparato durante l’estate it’s time for Africa. Daniela Giordano l’ha capito prima.

Festa d’Africa Festival 2010, Roma,Teatro Palladium dal 15 al 18 settembre, info: www.teatropalladium.it

DVD

QUANDO EMIR SUONAVA IL PUNK ROCK rima ancora di fare cinema, e di immaginarlo come un indiavolato corollario polifonico alla caotica ebbrezza delle sue composizioni, Emir Kusturica faceva il musicista a tempo pieno nella band dei No Smoking. Apertamente schierato contro il regime di Tito, il combo slavo aveva intrapreso un lungo tour europeo, testimoniando la forza propulsiva delle nuove generazioni che sognavano dei Balcani nuovi di zecca. Il regista rievoca quel divertente viaggio on the road in Super8 stories, chiassosa pellicola che rievoca oggi un mondo che non c’è più in maniera provocatoria e scanzonata insieme.

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PERSONAGGI

FINO ALLA FINE DEL ’900 INSIEME A PATTI SMITH ra l’estate in cui morì Coltrane. L’estate di Crystal Ship. I figli dei fiori levavano le braccia vuote e la Cina esplodeva l’atomica. Jimi Hendrix dava fuoco alla sua chitarra a Monterey. E in quell’atmosfera mutevole, per niente accogliente, un incontro casuale cambiò il corso della mia vita». Si intitola Just Kids, la splendida autobiografia con la quale Patti Smith racconta il suo viaggio nella musica. Capace di ritrarre una NewYork lunare con pastelli onirici e raffinato impianto letterario, la lady del rock verga trecento pagine in bilico tra autoanalisi e poesia. Un’opera preziosa da un’artista sconfinata.

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di Francesco Lo Dico

Un avvocato ad alta tensione in fascia protetta

na graziosa annunciatrice ci informa: «Il programma è riservato soltanto a un pubblico adulto». Rai 2, con questo avvertimento di facciata, manda in onda (per la seconda volta: la prima risale all’estate scorsa) Anna Winter, in nome della giustizia. A tarda serata, uno penserebbe. Assolutamente no: alle 21 in punto, prima fascia serale d’ascolto, quando il piccolo schermo è davanti ai bambini e ai ragazzini. Per carità, l’obiezione che muoviamo non riguarda certo il primo piano di una ventenne con indosso solo uno striminzito paio di mutandine (trasparenti). Riguarda il contesto: la ragazza è tenuta prigioniera in una camera con le pareti rivestite di materiale bianco insonorizzante, un luogo che a prima vista pare una cella di manicomio d’altri tempi. Lei, con la vista an-

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nebbiata, annaspa, striscia a terra, tenta di procurarsi (invano) un varco. Tutto è bianco, anche i pantaloni che due uomini si tirano su. È scena di stupro ripetuto, di prigionia tra le più atroci. Alle 21. Non male, cara Rai, non male. E viene da chiedere: non avevate altro da mandare in onda, perlomeno fino alle 23? Evidentemente no. L’episodio della serie, con l’attrice

Alexandra Neldel come protagonista, continua fino ad arrivare, tra un’angoscia e l’altra, tra un suicidio e tante idiozie della polizia, alla conclusione catartica: liberazione della ragazza e arresto dei colpevoli, studenti universitari ricchi e annoiatissimi. La Wonder Woman degli episodi è una giovane avvocato, Anna Winter appunto, che si batte da sola in quanto non creduta praticamente da nessuno. Siamo nella Berlino dei nostri giorni, una città tutta vetro e acciaio, immersa in atmosfere che ricordano il tono ossessivo di David Lynch. Nella scena finale non manca lo sbatter d’ali dell’alibi psico-sociale: uno dei ragazzi che finirà in galera se la prende con il padre, preside dell’università da 15 mila euro a semestre, in quanto colpevole d’essere genitore assente (e il ragazzo è anche orfano di ma-

dre). Un piccolo «branco» che germina in un ambiente falsamente didattico, dove l’insegnamento è asservito alle tasche dei finanziatori e alla logica dell’efficientismo da capitalismo amorale. L’avvocato Winter si mette pure nei guai, come sua abitudine, pur di lottare contro l’ingiustizia. Abituati all’abilità televisiva dell’ispettore Derrick, ci sorprendiamo anche per un’altra cosa: in questa serie la polizia pare la polizia più stupida d’Europa. Il detective in azione (o in non-azione) è ottuso, lontanissimo da qualsiasi parvenza di dubbio. Che siano stati così i gerarchi nazisti? In ogni caso le gesta di Anna Winter tengono alta l’attenzione dei telespettatori, anche quando l’«arrivano i nostri» risulta essere qualcosa di sgangherato sul piano della tattica para-militare. L’impianto narrativo è dunque salvato dalla protagonista, che ovviamente ha una vita sentimentale tormentata, tra un passato che stenta a svanire e un futuro che solo gli ottimisti possono intuire felice o quasi. (p.m.f.)


Cinema

MobyDICK

venuta bene la 67° Mostra dell’arte cinematografica di Venezia; un ottimo presagio per il direttore artistico Marco Mueller, in scadenza di mandato. Un sapiente mix di autori affermati, vecchi maestri e giovani promesse, la rassegna entusiasmava già sulla carta, e a conti fatti, pure. Ecco un assaggio dei film di quest’anno; degli altri daremo conto quando escono in sala. Tra i film già nei cinema ci sono due dei più attesi, Somewhere di Sofia Coppola e Miral di Julian Schnabel. Il film della regista di Lost in Translation e Marie Antoinette ha diviso la critica per generi: maschi a baffo moscio, femmine felicissime. A noi colpisce la cocciuta bravura di una figlia di Hollywood che ha scelto la strada del cinema indipendente. Il suo quarto film racconta di un attore diventato famoso da poco. Johnny Marco (Stephen Dorff) è separato dalla moglie e ha una figlia, Cleo (Elle Fanning) di undici anni. Vive nell’albergo famoso di Sunset Boulevard, prediletto degli artisti alternativi, quello in cui è morto John Belushi per overdose. Johnny non è di passaggio, allo Chateau Marmont ci vive; si concede in modo acefalo alla vita facile, vuota e pseudo-siba-

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Venezia: i migliori visti da vicino di Anselma Dell’Olio una ragazza araba-israeliana (o palestinese, se preferite) nata nel 1973 e cresciuta in mezzo alla prima Intifada, con flashback sulla fondazione d’Israele, e sulla storia della madre di Miral, prima bistrattata, poi alcolista e suicida. È anche la storia di Hani Hosseini, agiata araba maronita, finanziatrice e direttrice di una scuola-orfanatrofio per bambini arabi abbandonati, tra cui Miral-Rula. Finisce con la giovane protagonista spedita in Italia verso un futuro radioso di giornalista, e con un accorato appello per la pace in Medio Oriente. Peccato che non si vede mai che la scuola salvifica è cristiana.

ritica tipica di Tinseltown (Lustrinilandia), il più calzante dei nomignoli di Los Angeles, dopo il meno noto Hollyweird. La star rimbalza da una festa all’altra, da una donna all’altra: laggiù, se sei divo, orde di donne stupende t’inseguono «con il materasso sulla schiena» come si dice. Il divo non ne tralascia nessuna, né disdegna di rimorchiarle dove capita, ai semafori, da auto a auto, come usa in un non-luogo (somewhere, appunto) dove chi va a piedi è sospetto. Sono incontri fugaci, futili; tutti sono sradicati, tutti vengono da qualche altra parte; i non famosi sono in cerca dell’occasione d’oro, dell’incontro che li lancerà nel pantheon degli idoli adorati e strapagati. Cleo vede poco suo padre, sempre in giro per lavoro. Durante un weekend estivo, padre e figlia scorazzano nella nera Ferrari di lui, auto che segnala il rango del pilota.Tra gite, videogiochi e una lezione di pattinaggio artistico (papà nemmeno sapeva che la figlia ci si dedica da tre anni) telefona l’ex moglie: parte per un periodo indeterminato da sola («Devo pensare un po’ a me»). Johnny dovrà occuparsi di Cleo nelle settimane che restano

prima del mese di campeggio estivo, quelle colonie di lusso dove gli agiati americani parcheggiano figli ingombranti durante le vacanze. All’inizio è smarrito; ma senza accorgersene, tra un viaggio in Italia insieme ai Telegatti e le uova alla Benedict che prepara la ragazzina con premura materna, la sua vita prende forma, calore famigliare e senso. Alla fine, quando il taxi che porterà Cleo al campeggio sparisce e lui rientra solo all’hotel, è colto da una violenta depressione, nota agli indigeni come The L.A. Dips. È il più perfetto, sottile ritratto deadpan della vita in un somewhere infernale truccato da paradiso.

Miral, quarto film di Julian Schnabel, artista di fama internazionale, è tratto dal romanzo autobiografico di Rula Jebreal, che firma anche la sceneggiatura. Da Basquiat a Prima che sia notte a Lo scafandro e la farfalla, il pittore-regista ha fatto film sempre più belli e sorprendenti. Con questo billet-doux offerto alla nuova compagna Jebreal, artisticamente segna il passo. È il racconto didascalico della formazione di

La pecora nera, opera prima di Ascanio Celestini, ha suscitato entusiasmi e qualche mugugno. Però si festeggia l’arrivo di un nuovo sguardo d’autore sulla scena italiana.Tratto da un testo teatrale, il film racconta i matti e un manicomio, la suora buona che lo dirige, e la vita di un ragazzino che cresce tra disagi e miseria. La nonna lo protegge, regalando uova fresche alla maestra che vorrebbe bocciarlo, e alla suora che ha in cura sua figlia, la madre del ragazzo, malata di mente. Le forze dell’opera sono una voce originale (anche si sente troppo il monologo filmato) e un ottimo cast, ben diret-

Prima, provvisoria classifica dei film proiettati al Festival diretto da Marco Mueller, in scadenza di mandato, di cui s’invoca la riconferma data l’ottima edizione di quest’anno. In pole position “Somewhere” di Sofia Coppola e “Miral” di Schnabel. Da non perdere “Potiche” di Ozon

to; se ci fosse una storia da seguire, avrebbe annoiato meno. La lodata lingua incantatoria fuori campo, alla lunga può irritare. Alcuni critici lo amano senza riserve; altri aspettano l’opera seconda, nella speranza di una trama che invogli a vedere come va a finire.

La passione di Carlo Mazzacurati, secondo film italiano in concorso, va lodato per il solo fatto di essere una commedia, rara avis in un festival di cinema. Silvio Orlando è un regista disoccupato con il blocco dello scrittore. Il produttore minaccia di tagliargli l’assegno mensile se non scrive subito un copione, quando deve correre in Toscana perché il Comune minaccia il sequestro della casa di campagna per la scoperta di un affresco antico, trovato durante la riparazione di un guasto. La Pasqua è vicina, e il sindaco (Stefania Sandrelli) gli chiede di dirigere la tradizionale rappresentazione paesana della Via Crucis; se rifiuta, denuncerà il reperto prezioso alle Belle Arti, e addio casa e redditizio affitto agli stranieri. Il film è ben costruito e girato; si ride, specie all’inizio, gli attori sono ben diretti, ma la storia si perde nel finale. Sono ottimi il metereologo tv gigione di Corrado Guzzanti e il ladro riformato dall’amore per il palcoscenico e il Vangelo (tutti e due scoperti in carcere) di Giuseppe Battiston. L’amore di tanti registi per Silvio Orlando è un mistero. Più che un attore è una maschera da commedia dell’arte (come Totò, Giulietta Masina e Monica Vitti) con la stessa faccia dolente sia nelle commedie sia in drammi come Il papà di Giovanna. Funziona bene solo nei film di Nanni Moretti, chissà perché. Potiche di François Ozon è la seconda commedia del concorso principale, ragion di più per invocare la riconferma di Mueller. Spassosissimo adattamento di un testo teatrale, è ambientato negli anni caldi delle occupazioni delle fabbriche. Catherine Deneuve è Suzanne, la potiche del titolo: sta per una moglietrofeo, che fa bella figura e poco più. Poi il marito è sequestrato dagli operai della sua fabbrica in sciopero perché rifiuta sdegnosamente la trattativa, ha un coccolone dopo il rilascio e viene mandato via in convalescenza. Suzanne lo sostituisce e sorprende tutti con la sua attitudine al comando. Come nelle migliori pochade, segue una brillante girandola di tradimenti ed equivoci a sfondo sessuale. Ozon guarda con affettuosa ironia la lotta di classe, la guerra tra i sessi e la rivolta femminile, riproposte con sapienza e tempi comici perfetti. Sonoramente divertente dall’inizio alla fine. Da non perdere.


Avventura

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ra le tante inutili polemiche letterarie che ogni estate nascono per riempire le pagine cosiddette culturali dei quotidiani altrimenti desolatamente vuote, c’è stata quella sulla carenza di grandi romanzi italiani e/o sul fatto che autori significativi vengono presto dimenticati e/o sui cosiddetti over 40 non adeguatamente valorizzati. Polemiche oziose che lasciano il tempo che trovano e che non vanno al sodo della questione. E cioè, sono le cricche dei critici che lanciano e sostengono, oppure ignorano e non valorizzano questa o quell’opera, ma per motivi che non riguardano quasi mai la sua qualità letteraria, ma ben altri paramenti... E ciò vale per gli autori trentenni come per gli autori ottantenni. Ad esempio, chi conosce Guglielmo Milani da Pavia, e quale posto occupa nelle patrie lettere? Chi lo sa alzi la mano. Nessuno la può alzare perché nessuno conosce Guglielmo Milani, ma parecchi invece conoscono Mino Milani prolificissimo scrittore per ragazzi, collaboratore del Corriere dei Piccoli e della Domenica del Corriere, ma anche direttore della Biblioteca Civica di Pavia e (anche se per breve tempo) del quotidiano La provincia pavese, autore di decine e decine di romanzi per la gioventù, ma anche per adulti, di opere storiche, di saggi, di sceneggiature per fumetti eccetera, eccetera. Frequentatore di tutte le possibili sfaccettature dei generi popolari, dall’avventura al western, dal romanzo d’amore alla storia di guerra, dalla ricostruzione storica al fantastico, ma anche alla fantascienza (perlomeno quella a fumetti con l’indimenticabile I cinque della Selena, disegnato da Dino Battaglia per il Corrierino). Ma di lui, come di molti altri, la critica cosiddetta ufficiale poco s’interessa poiché sono «autori di serie C».

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ai confini della realtà

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È la definizione che lo stesso Milani dà di se stesso in un volumetto autobiografico (L’autore si racconta, Franco Angeli, 110 pagine, 14,00 euro) dedicato a questa parte della sua attività letteraria, e che concorre proprio in questi giorni alla terza edizione del Premio Salgari a Negrar (Verona) dedicato ai libri d’avventura, poi ampliato anche alle altre e alla sua vita (ha oggi 82 anni); come Piccolo destino (Mursia, 186 pagine, 14,00 euro), entrambi non solo una miniera d’informazioni, di personaggi e di aneddoti, ma anche una possibilità di entrare nel cantiere di lavoro dello scrittore e soprattutto nel suo universo mentale: perché ha scritto di certi argomenti e in che modo intendeva i «generi» di cui si occupava. Molto ironicamente Milani, parlando dell’inizio della sua carriera di scrittore per ragazzi e constatando che, al di là del successo di vendite, era regolarmente ignorato sul piano critico, si rese conto, come detto, «d’essermi lette-

La buona battaglia del soldato Mino di Gianfranco de Turris rariamente iscritto alla serie C». Ma Alessandra Avanzini e Luciana Bellatalla, curatrici della collana «Linee» della Franco Angeli, ideata appositamente per dar voce a questa categoria di narratori, presentando il testo di Milani chiosano: «Altro che “autori di serie C”! Per essere scrittori per bambini e per ragazzi bisogna essere scrittori di serie A, scrittori con una marcia in più. Questi scrittori, infatti, devono saper costruire un mondo nel quale il

non fa altro che difendere a spada tratta il senso del proprio lavoro in un mondo che pian piano lo sta dimenticando (è la verità, nonostante i suoi personali successi). E questo è il lato dal mio punto di vista più importante dei suoi due libri, al di là delle tante persone e situazioni che descrive (Mosca, la redazione del Corriere dei Piccoli, i disegnatori del settimanale, la sua trasformazione in mano ai manager che volevano «adeguarlo ai tem-

Come uno dei suoi eroi Tommy River, Milani, prolificissimo scrittore per ragazzi, che ha dedicato tutta la vita alla sua vocazione, difende il suo operato, da troppi considerato “di serie C”. In un’autobiografia che concorre al Premio Salgari. Autore da cui tutto è cominciato… bambino/ragazzo possa “perdersi senza perdersi”, usandolo per dar vita a una piacevole e protetta versione personale e originale. D’altra parte non è forse questo lo scopo di tutta la buona letteratura?». Parole sacrosante in un mondo, quello della letteratura per ragazzi, che a quanto pare resta valido sino ai 12-14 anni allorché i nostri pargoli, crescendo, scoprono i videogiochi, il web, le chat, facebook e compagnia bella, abbandonando la lettura come dimostrano da anni le statistiche che regolarmente si fanno. Ora, Milani nella sue «autobiografie»

pi», trasformandolo in quell’ibrido - anche linguistico - che fu Corrier Boy, la sua chiusura; ma anche la collaborazione alla Domenica del Corriere con la gestione della famosa rubrica «La realtà romanzesca», ecc. ecc.). Disgustato da ragazzino dai libri edificanti che gli lasciavano «un senso di nausea», il giovane Guglielmo già Mino trovò la sua «salvezza» prima in Salgari poi nella «Romantica mondiale» di Sonzogno e nella Morte di Arturo di Mallory: amore, morte, audacia, magia, viltà, coraggio, tradimento, generosità, vendetta, perdono. La strada era segnata. Romanzo di avventura e

quindi d’evasione: «Da un mondo come il nostro, dove caparbiamente si cerca di rendere tutto prevedibile (…) l’unica via d’uscita è il libro, e più è d’avventura, meglio te ne vai». Ma si sa l’obiezione: «Da dove vuoi evadere? La tua vita, la tua attualità, la tua quotidianità sono qui, e te la devi vedere con loro, caro mio». Non si può sfuggire ai «temi forti». E quindi: «Evadere? Pessima idea». Ma dice Milani, e noi con lui avendolo scritto non si sa più quante volte: «Disastrosa la prospettiva di ritrovare a sera, sulle pagine del libro, il richiamo ai problemi che mi hanno assillato durante il giorno, e che saranno gli stessi domani (…) Dico solo che, se domani li dovrò affrontare, non ho voglia di raccontarli, e meno che mai di farlo secondo regole non scritte, ma politicamente corrette, sussurrate suadevolmente o raccomandate con indice severo».

Ahi, ahi, ahi, Mino Milani non si rende conto di quel che dice? Non sa che l’Ordine dei Giornalisti o il Ministero delle Pari opportunità hanno già annotato il suo nome nella lista nera dei reprobi? Non sa che passerà dalla serie C alla serie Z? Per nostra fortuna restano i suoi moltissimi romanzi per ragazzi e adulti che nessuna commissione potrà emendare come leggiamo in 1984, o come invece si fa con molte favole risciacquate nella melassa buonista. Ci resta così per fortuna la saga di Tommy River ispirato da Ombre rosse, uscita man mano sul Corrierino e poi in volume negli anni Sessanta (gli otto romanzi sono stati poi riuniti da Mursia in due tomi nel 1976): Tommy, guarda un po’, è nientemeno che un sudista ferito a Gettysburg che fa del coraggio, della forza morale, del rispetto, del senso della giustizia e del dovere la sua livrea, come ogni vero eroe che si rispetti. Egli combatterà la sua «buona battaglia» anche se non «vince» sempre. La sua vera sconfitta gli giunge solo dalla «realtà industriale» che lo scaccia dalle sue terre, una realtà «nella quale Tommy non può e soprattutto non vuole vivere». Tommy, come altri protagonisti delle storie di Milani - Sir Crispino, o Efrem, il ragazzino soldato di ventura, o Martin Cooper (1968), il «fantarcheologo» precursore, se così si può dire, del Martin Mystére di Alfredo Castelli (1982) - sono tutti personaggi della «biasimata evasione» che ci raccontano «un’altra vita, improbabile e tuttavia parallela a quella reale». Questo è Mino Milani che ha anche il coraggio politicamente scorretto di parafrasare a modo suo il famigerato motto di Brecht, così: «Se sono beati i popoli cui non occorre un eroe, sono sventurati quelli che all’occorrenza non ne trovano»! Onore delle armi, dunque, a Mino Milani che ha ormai scritto tutto quel che doveva scrivere seguendo sino in fondo la propria vocazione.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

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Declino nell’etica del lavoro. Abbasso il burocratismo

LE VERITÀ NASCOSTE

L’etica del lavoro tende al declino. Mentalità erranti antepongono il burocratismo all’operosa imprenditorialità privata, che è motore di progresso e benessere. Politici elettoralisti rischiano di svilire la democrazia a demagogia. Vi sono malati immaginari, falsi invalidi e presunti poveri. Molti fuggono dai lavori più faticosi e rischiosi nella terra, nell’edilizia e nella fabbrica. Tende a scomparire il microallevamento di bestiame, che impegna l’allevatore tutti i giorni dell’anno. Alcuni preferiscono l’ozio, il sollazzo o gli espedienti alla fatica del lavoro. “Attento, ti fanno lavorare!” esclama l’anziano ladro Capannelle (C. Pisacane) al pugile suonato (V. Gassman). Alcuni dipendenti possono utilizzare ferie lunghe, nonché permessi, congedi e aspettative per motivi personali e familiari; molti hanno beneficiato di pensionamenti baby o comunque anticipati. L’orario di lavoro può essere corto e l’assenteismo abusivo. Non mancano dipendenti “fuori stanza”, pause caffè, disbrighi di commissioni personali in orario di servizio; turismo congressuale e viaggi spacciati per missioni. Anche a seguito del Sessantotto, rischiano di diffondersi propensioni goderecce e pretese spinte: “vogliamo tutto e subito”.

Gianfranco Nìbale

VIVA LA GERMANIA Molti dicono che il motore europeo è tedesco, io dico magari! Perché l’efficienza e la bontà dei macchinari teutonici è nota in tutto il mondo: il problema è invece politico, perché una nazione che riesce a creare un equilibrio istituzionale interno, a incrementare l’economia e a bacchettare anche le banche, proponendone la tassazione, non può che dare fastidio.

Bruna Rosso

BIPOLARISMO IMPOSSIBILE Il quadro politico italiano, si sta ingarbugliando sempre di più, il top di tale situazione si è raggiunto il giorno dello strappo o meglio della cacciata di Fini e dei suoi adepti dal Pdl.Tuttavia, fatta qualche debita eccezione, anche l’opposizione non può di certo cantare vittoria. Dalla nascita del Pd, cioè quasi tre anni or sono, si sono succeduti alla sua guida tre segretari di partito che, per motivi diversi, ha evidenziato il fallimento di un progetto. Le differenze presenti all’interno dei due schieramenti sono molteplici. L’unica tuttavia che riusciva a far prevalere un polo rispetto all’altro consisteva nella figura carismatica di Berlusconi, il quale riusciva a cristallizzare all’interno di una

sola casa politica personalità e personaggi politici dai percorsi differenti, se non proprio agli antipodi.Ora assistiamo allo sgretolamento della figura di Berlusconi e alloc sbriciolamento del “sogno” di un bipolarismo-bipartitismo preso a modello dagli Usa e dall’Uk. Personalmente sono contento di questa battuta d’arresto. L’Italia è una nazione che storicamente ha sempre rappresentato l’insieme di varie culture, usi, costumi e tradizioni diverse da nord a sud, da regione a regione, da paese a paese, quindi rincorrere la chimera di racchiudere tante peculiarità diverse in due recinti distinti e opposti non solo è impraticabile, ma è causa di un malcontento popolare. Il nostro Paese non ha bisogno di una divisione bipolare a livello politico, in quanto nel nostro sistema parlamentare vi deve essere l’obbligo di dare voce e rappresentanza a quelle minoranze di qualsiasi colore politico. Sarei propenso alla reintroduzione del sistema proporzionale, con tutti i correttivi necessari affinché non ci sia la riedizione della Prima Repubblica, laddove partitini di basso peso specifico erano in grado di imbrigliare l’azione di governo. Un primo intervento in tal senso potrebbe essere il varo di una riforma elettorale

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polemica la creazione di un’area dedicata a gay e lesbiche nel cimitero di Copenhagen, in Danimarca. L’idea in realtà nasce da un gruppo per la tutela dei diritti degli omosessuali, che voleva dare la possibilità a gay e lesbiche di essere sepolti in mezzo a gente che avesse condiviso il loro orientamento sessuale. E infatti è stata proprio l’associazione ad affittare lo spazio per oltre 45 urne, spazio che sarà separato dal resto del cimitero da un triangolo disegnato sull’erba con dei ciottoli, ai cui vertici saranno piantate delle bandiere arcobaleno. L’eventuale uso di questi spazi sarà ovviamente del tutto volontario. Critiche all’iniziativa non sono mancate, perché in molti in questo gesto vedono, da un lato una potenziale ghettizzazione degli omosessuali, dall’altro c’è anche chi trova di cattivo gusto il fatto che il proprio orientamento sessuale venga “sbandierato” anche dopo la morte, e soprattutto molti, secondo cui non si dovrebbero fare distinzioni nei cimiteri in base alle preferenze sessuali.

con la reintroduzione delle preferenze, e aggiungerei che le candidature nei vari colleggi debbano essere espressione di gente legata al territorio. Tutto ciò deve essere fatto contemporaneamente a un altro passo fondamentale, ossia quello di una vera attuazione, da parte dei partiti, di un codice etico, barriera alla quale chiunque voglia affacciarsi alla politica deve sottomettersi. Tale operazione deve essere fatta sopratutto per due motivi: quello di garantire i principali interlocutori dei politici, ossia i cittadini, e quello di garantire gli stessi politici qualora nel prosieguo del loro percorso dovessero imbattersi in problemi giudiziari. Tutto ciò al fine di mettere sullo stesso piano aspetti fondamentali per uno stato di diritto come il nostro, e cioè etica, legalità e garantismo. Altro discorso merita la questione della rappresentanza delle categorie lavorative e imprenditoriali: credo sia produttivo bipolarizzarle, mettendo al centro della questione l’ausilio che potrebbero dare tali enti da un punto di vista tecnico e non politico.

IL VOTO FA PAURA?

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e di cronach

Cimiteri per lesbiche e gay

Kentucky tempestoso Christian County, nel sudovest del Kentucky, è stata fondata nel 1797 e prende il suo nome dal Colonnello William Christian, un veterano della Rivoluzione americana che, dopo la guerra, si ritirò nei pressi di Louisville.

Continuo a registrare tra la gente un senso diffuso di nausea nei confronti della politica e preoccupazione per l’eventualità che le elezioni anticipate risultino alla fine l’ennesimo onere di noi cittadini. Forse per molti è l’usuale trampolino di lancio per la loro iniziativa politica, ma la maggior parte resta a guardare incredula che una buona politica della destra sia andata incontro ai disfattismi. Credo che la cosa sia molto più grande della stessa vicenda Fini, perché di polemiche vissute ne abbiamo viste tante, e come le storie piccanti sul premier sono andate, per fortuna, nel cestino del computer disumano; anche le mille illazioni sul privato del presidente della Camera potevano giustamente fare la stessa fine.

Gennaro Napoli


mondo

pagina 24 • 11 settembre 2010

Anniversari. Una manifestazione davanti alla sede Nato afgana si trasforma in tragedia: un morto. E in Pakistan i fondamentalisti bruciano una chiesa

«Dio non divida gli Usa» Obama torna sul rogo del Corano: «Siamo un Paese unito, fatto di uomini con valori comuni e religioni diverse» di Vincenzo Faccioli Pintozzi io «non dividerà mai l’America, un Paese fatto di uomini uniti che danno al divino nomi diversi». Il presidente Barack Obama non cita direttamente il folle che ha proposto di bruciare il Corano, un pastore evangelico americano di nome Terry Jones, ma mette in campo i valori fondati della propria nazione per richiamare all’unità ed evitare nuovi attacchi contro gli occidentali nel mondo. Parlando dalla Casa Bianca, il presidente si è limitato a dire: « Bruciare il Corano è contrario ai principi che hanno fatto nascere questo Paese. Spero che chi lo ha proposto cambi idea». E poi ha spiegato meglio il suo pensiero: « Siamo una nazione unita, composta da persone che danno a Dio nomi diversi. Ma nessuno riuscirà a farci del male con divisioni basate su differenze religiose o etniche. Gli Usa non sono mai stati in guerra con l’islam, ma con i terroristi di al Qaeda. I quali hanno fatto molte più vittime tra i musulmani».

D

Dobbiamo, ha aggiunto Obama, «essere sicuri di non cominciare a metterci l’uno contro l’altro. E farò qualsiasi cosa finché sarò presidente degli Stati Uniti per ricordare al popolo americano che noi siamo una nazione sotto Dio. Possiamo chiamare Dio con nomi differenti, ma restiamo una sola nazione». D’altra parte, i dubbi sull’iniziativa della Florida sono numerosi. Forse era soltanto ricerca di pubblicità a buon mercato, forse tramite lui parlava la pancia più profonda non soltanto degli Stati Uniti, ma del mondo occidentale. Fatto sta che la giostra in cui si è trasformato il rogo del Corano, lanciato dal pastore Terry Jones per oggi – prima confermato, poi annullato, poi riconfermato e ora in un ridicolo limbo – ha avuto effetti negativi e trasformato lo scontro di civiltà in una battaglia che si combatte con il fuoco. Già, perché se il religioso (da molti sospettato di pura pazzia) vuole dare alle fiamme il testo sacro per i musulmani, questi rispondono dando fuoco alle chiese faticosamente costruite nei Paesi islamici. Men-

Anche la democrazia, se esasperata, può divenire fanatismo

Va combattuta l’era degli estremismi di Mario Arpino uesta mattina ho trovato sul pc un messaggio di una nostra amica americana che, in italiano, suonerebbe pressappoco così: «Cari amici, prendetevi un momento, domani, per ricordare ciò che accadde l’11 settembre. È stato certamente un attacco diretto contro gli Stati Uniti, ma è anche stato, e ancora lo è, un attacco indiretto contro tutto ciò in cui il mondo occidentale crede. Non dimenticate! Il Radicalismo, in ogni sua forma, va affrontato con una forza sufficiente che ci dia la certezza che non avrà più alcuna occasione per crescere. Naturalmente, non mi ero dimenticato di ciò che accadde. Nessuno lo potrà dimenticare, anche se la fabbrica del politicamente corretto - che in Occidente, e in Europa in particolare, è sempre aperta - ha cercato di rimescolare i termini e di confondere le idee. Però, il messaggio mi ha fatto riflettere. Primo: da quella data l’Occidente non è più riuscito a vincere una guerra, e quindi a concludere con la pace. Sarà colpa dell’asimmetria , come subito si era cominciato a dire, o magari - mi si permetta un’eresia - dell’Onu che, impedendo ormai a chicchessia la vittoria, di fatto impedisce anche la pace.Tante le soluzioni di compromesso, focolai per crisi future, ma nessuna soluzione reale. Anche questo fa pensare. Ma se l’Onu lo abbiamo voluto noi, la guerra asimmetrica, con la sua inversione nei rapporti di forza, è frutto dei tempi. Il radicalismo islamico non l’ha inventata, ma ne è fruitore. Se ne era già accorto nel 1878 Otto von Bismark, quando vedeva nel suo tempo un momento straordinario nel quale «…il forte è ormai debole per via dei suoi scrupoli morali e il debole si va facendo forte grazie alla propria spregiudicatezza».

Q

Una premonizione? Non lo so. Certo è che questo tipo di valutazione, che amplia di molto il significato e la caratterizzazione dei conflitti, introduce per la prima volta un concetto nuovo. Il confronto è stato sottratto al campo di battaglia e ricollocato in un più ampio contesto sociopolitico, economico ed etico-culturale. Altro tema di riflessione, introdotto dalla nostra amica, è quello del radicalismo. Lei, naturalmente, intendeva quello islamico, che ne è certo la forma più emblematica, vuoi per i fini vuoi per il disprezzo della vita umana. Ma vi è anche il radicalismo del reverendo Terry Jones, che protervamente si ritiene infallibile e, non ostante venga “sconsigliato”ai più alti livelli, si propone di fare di tutti i Corani un grande falò. Scandalo in tutto il mondo islamico, con morti e feriti, anche se ora sembra aver receduto. Ora, bisogna anche sapere che di reverendi Jones in America ve ne sono tanti. Hanno sempre avuto spazio, quando ciascuna setta - o chiesa - era convinta di stare nella verità rivelata e non ammetteva deroghe. Il suo pensiero bizzarro non deve meravigliare. La letteratura Usa è piena di queste figure di predicatori, mistificatori o semplicemente fanatici estremisti, tollerati tuttavia in nome della democrazia. Caldwell ce lo insegna. Ma se la democrazia diventa un idolo, non è anche questo fanatismo? Oggi ci troviamo di fronte ad un effetto cumulo di radicalismi, di cui quello islamico è di certo il più nefasto. A noi resta il dovere di combatterli tutti, vincendo. Senza ipocrisie, perché tutti gli -ismi sono pericolosi.

La manifestazione svoltasi ieri in Afghanistan contro il rogo del Corano organizzato da una chiesa della Florida. I manifestanti hanno bruciato il manichino del pastore Jones. Sotto, lo stesso Jones incontra l’imam Rauf tre migliaia di manifestanti scendono in piazza in Indonesia e Afghanistan, dove c’è scappato anche il morto, e le organizzazioni islamiche, quelle delle altre religioni e buona parte del mondo politico mondiale condannano la proposta.

Mentre va in scena l’ultimo atto (in ordine di tempo) di questa farsa, infatti, dal Pakistan giunge notizia che estremisti hanno attaccato tre chiese nel distretto di Narowal e che una è stata incendiata nel villaggio di Saidpur. Gruppi fondamentalisti hanno affermato che incendieranno tutte le chiese cristiane del Paese, se Jones brucerà il Corano. I 20 milioni di cristiani pakistani vivono in questo momento sotto una pressione fortissima, sebbene fin dal momento nel quale si è saputo del progetto del pastore della Florida, Chiese e organizzazioni cristiane abbiano espresso la loro ferma condanna dell’iniziativa. Il vescovo di Lahore, Alexander John Malik,

manifestante ucciso davanti a una base della Nato. Nel Paese la protesta si è estesa in almeno cinque province. Diverse centinaia di dimostranti si sono radunati a nord di Kabul, mentre circa 2mila persone hanno marciato verso un edificio governativo a Farah. E proteste sono in corso anche a Badghis, a Ghor e a Herat. Stamattina il presidente Garzai aveva messo in guardia il pastore contro il proposito di bruciare il Corano e mosse anche sul piano diplomatico sono venute da Indonesia e altri Paesi. Oggi un portavoce del Ministero degli esteri iraniano ha definito “un atto provocatorio e satanico” l’iniziativa del pastore per la quale, ieri, l’Organizzazione della Conferenza islamica parlato di una “oltraggiosa via di odio”. Sempre ieri, mentre il pastore si recava a New York per parlamentare con l’imam Rauf e la sua moschea a Ground Zero, sono scesi in campo anche i vescovi degli Stati Uniti. Che si sono espressi su entrambe le

Senza nominarlo, il presidente ha parlato del pastore Jones: «Spero che quest’uomo si fermi, preghi e faccia marcia indietro nel suo folle proposito» ha definito Jones “mentalmente malato” aggiungendo che «si sta procurando una popolarità a buon mercato, compiendo un simile atto malvagio». Notizie di proteste vengono da tutto il mondo musulmano. Una vittima c’è stata in Afghanistan: un

controverse questioni: « Tutti gli atti d’intolleranza verso una comunità religiosa non dovrebbero trovare spazio nel nostro mondo, per non parlare della nostra nazione che è fondata sul principio della libertà religiosa». Sulla vicenda è interve-


mondo

11 settembre 2010 • pagina 25

C’è sempre un modo per raggiungere un ragionevole compromesso

Europa e Stati Uniti: fratelli divisi dall’islam

La libertà non può diventare una sfida: spesso il buon senso può più di una legge per fare la cosa giusta di Michael Novak er due volte l’America è stata costretta alla guerra a causa di un attacco costato la vita a molti civili: il 7 dicembre 1941, quando i bombardieri dell’aeronautica giapponese - cogliendo tutti di sorpresa - bombardarono Pearl Harbor in una bella e assolata domenica mattina e affondarono la flotta americana nel Pacifico. E l’11 settembre 2001, giorno dell’anniversario della cocente sconfitta dell’attacco musulmano alle mura di Vienna inferta dal Generale Sobieski, quando un gruppo politico radicale di musulmani interruppe una bella mattinata di settembre. Un lunedì per l’esattezza, l’11 settembre 2001, un giorno lavorativo, e proprio mentre le Torri gemelle, scelte come obiettivo, si stavano riempiendo di persone. Questi attacchi, in entrambi i casi, possono essere analizzati per comprendere il carattere degli americani: siamo un popolo placido, con uno spiccato senso della giustizia e amanti della quiete. Ma questo solo fintanto che non ci fanno arrabbiare. Il motto nelle nostre gare di atletica è: Don’t get mad, get even (non ti arrabbiare, vendicati, ndr). Certo, i dovuti passi prima di arrivare allo scontro diretto li facciamo tutti. Ci armiamo con la dovuta lentezza, ma quando lo abbiamo fatto non c’è più nulla in grado di fermarci dal distruggere il nostro nemico. Molti europei potrebbero non ricordare Pearl Harbor, perché l’Europa ha vissuto sulla pelle e sofferto in prima persona la Seconda Guerra mondiale. Ma non c’è europeo che non ricordi l’11 settembre 2001. Quel giorno mi trovavo in Europa, e i miei amici del Vecchio Continente soffrivano esattamente alla stregua degli americani, in modo essenzialmente simpatetico. Eppure, oggi, la maggior parte del mondo ancora stenta a comprendere il carattere americano. Le visioni politiche e morali che guidano i nostri media sono pressapoco le stesse di ogni elite secolare. Ma il nostro popolo rimane di centro destra ed è profondamente innamorato del suo Paese, intimamente patriottico e affezionato alle tradizioni religiose. Noi non possiamo tollerare che un gruppo, nel nome di Colui (seppur in modo improprio) gli attacchi di NewYork sono stati perpetrati, costruiscano un trionfante memoriale di “riconciliazione”. La volontà di voler addivenire a una riconciliazione è ammirevole, ma se è incapace di esprimere sensibilità e comprendere che la creazione di un centro islamico nei pressi di Ground Zero - e per di più senza mai aver pubblicamente denunciato ogni forma di islamismo militante e politico - ferisce profondamente la memoria di coloro che il primo incontro con l’Islam lo hanno avuto quando i loro cari si sono lanciati dalle finestre del World

P

nuta anche l’ambasciata degli Stati Uniti presso lo Santa Sede, attraverso una dichiarazione nella quale si condanna il piano del pastore Terry, prima ritirato, poi riproposto, poi di nuovo ritirato: «Esponenti governativi al più alto livello, incluso il presidente Obama, e molte organizzazioni private e privati hanno pubblicamente condannato questa iniziativa. Inoltre, apprezziamo le dichiarazioni arrivate dal Vaticano nelle quali si esprime contrarietà a tali progetti. Atti irrispettosi come quelli pianificati dal gruppo Dove World Outreach Center non rappresentano in alcun modo i sentimenti del popolo e del Governo americano. Noi crediamo fermamente nella libertà religiosa e nella libertà d’espressione: essi sono diritti universali, custoditi nella Costituzione degli Stati Uniti e nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. In ogni caso, noi riaffermiamo la nostra convinzione che la deliberata distruzione di ogni libro sacro è un atto ripugnante».

Infine, è intervenuto l’arcivescovo di NewYork,Timothy Dolan, intervistato da Radio Vaticana: «È contro la Bibbia, contro la pura religione e la pura fede. L’11 settembre rappresenta un giorno di memoria per tutti, per i cattolici, per i musulmani, per gli ebrei. Noi ci ritroviamo insieme per un evento che ormai è quasi una solennità a New York. È una festa di preghiera, è una festa di pace e di giustizia.Tutta la città di New York è riunita per ricordare tutte le persone che sono morte nell’attacco dell’11 settembre. Non è una giornata contro nessuno, non è contro gli islamici: in questo momento noi siamo

uniti e siamo uniti come figli di Dio. L’11 settembre qui a New York rappresenta un ponte tra le religioni». Un ponte che molti sperano di non vedere crollare quando il pastore Jones deciderà che cosa fare.

Dato che oramai la sua sembra più una contrattazione aperta fra il rogo del Corano e la costruzione della moschea a Ground Zero. Anche perché, spiega il costituzionalista Usa Tim Zick, docente alla William and Mary Law School di Williamsburg, Virginia, non ci sarebbero vie legali negli Usa per impedirgli di attuare la sua azione. Il massimo che le autorità Usa potrebbero cercare di fare sarebbe applicare alcune norme antincendio, ma a parte questo non ci sarebbe modo di fermarlo». «Per il governo prosegue - ci sarebbe stata la possibilità di fermarlo solo se avesse esortato altri a commettere violenze. Invece aveva solo detto che avrebbe bruciato copie del Corano nel terreno della sua chiesa, e questo non è un delitto». «Quello che molti europei trovano difficile da capire - prosegue il costituzionalista – è che la libertà d’espressione in vigore in America dà pochi margini per fermare un comportamento apertamente offensivo». Del resto, spiega ancora l’esperto, «il governo non può neppure impedire che siano bruciate bandiere. La gente può fare ogni genere di cose odiose senza interferenze del governo. Il Primo emendamento protegge in modo robusto l’autonomia di un cittadino». È la democrazia a tutti i costi, bellezza, alla quale però dovrebbe essere applicato da tutti il buon senso per evitare danni.

Trade Center, non è un buon segnale. Allo stesso modo non possiamo tollerare quel “pastore” che da una minuscola chiesa dellla Florida annuncia trinfante di voler bruciare i libri del Corano. Quell’uomo non è altro che un asino. In entrambi i casi, le parti offese hanno il diritto (sancito dalla legge) di fare quello che stanno facendo. I nostri tribunali permettono di bruciare la bandiera americana e la Bibbia nel nome della libertà di espressione.

Un consorzio privato esercita un diritto reale sulla sua proprietà, benché non proprio dovunque, visto che esistono delle leggi con precisi distinguo zona per zona. Abbiamo già molte moschee a Manhattan, centinaia a New York e negli Stati limitrofi e sono migliaia se consideriamo gli Stati Uniti globalmente. Il problema non è la costruzione di una nuova moschea a New York, ma se quest’ultima venga usata in maniera provocatoria. Su questo punto, però, gli americani non concordano, benché non ci sia alcun dubbio che la maggioranza desideri che la questione venga affrontata con maggiore cautela e negoziata quanto più possible. Una chiesa cristiana accanto Ground Zero simbolizzerebbe la preghiera e il ricordo dei morti. Ma era Allah l’ultimo nome pronunciato dai terroristi suicidi che quel giorno uccisero 3mila americani, ed è stato con la benedizione di un imam che hanno dirottato gli aerei. Chiamare il centro di cultura islamica che dovrebbe sorgere a Ground Zero Cordoba house, dedicandolo così alla presa della città spagnola nel 711 d.C. - il picco dell’invasione musulmana sulle popolazioni cristiane in Europa cominciata con Maometto nel 632 – deve far riflettere. C’è sempre il modo di convergere su un ragionevole compromesso. E soprattutto quando si toccano emozioni e sentimenti così intimamente collegati alla morte, al fuoco e al sangue è necessario - nel nome di una riconciliazione mettere in atto una politica di forte diplomazia e capacità negoziale. Il sindaco di NewYork si è dimostrato stupidamente imprudente ad agire precipitosamente e ad infervorarsi con passione all’avallo del progetto. Nel farlo, non ha tenuto conto del benessere e dei pensieri di un’intera comunità. Lasciateci sperare che il folle pastore della Florida ritorni sulle sue decisioni. Lasciateci sperare che il sindaco di NewYork ritorni alla prudenza e al negoziato, rispondendo così ai desideri di tutti I suoi cittadini, specialmente quelli che ancora sono in lutto per quella mattina dell’11 settembre 2001, così come quei musulmani che genuinamente apprezzano le libertà religiose e le opportunità economiche di questa, loro, nuova terra.

Il reverendo della Florida è un asino, ma anche il sindaco di New York si è fatto prendere la mano da un principio che può offendere tutta la città


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l’approfondimento

La moschea a Ground Zero e il rogo del libro sacro: due casi che non hanno nulla a che fare con la religione

Il vero no al Corano

«Il rispetto delle religioni significa rispetto delle libertà: ma l’estremismo islamico è destinato a rafforzarsi, se ad esso non si contrappone una visione spirituale del cristianesimo»: parla il filosofo Giovanni Reale di Gabriella Mecucci

ROMA. Il pastore Terry Jones, dopo aver tentennato conferma: brucerò il Corano. Poi un nuovo contrordine: non lo brucerò, mentre divampa la violenta protesta islamica nel mondo. Un ottovolante. Intanto la storia della moschea a Ground Zero sta diventando una telenovela: un giorno si fa, l’altro no. I due episodi riaprono una ferita mai del tutto sanata, proprio mentre ricorre il nono anniversario dell’11/9. Jones è un cristiano fanatico, quelli della moschea sono ovviamente islamici: c’è uno scontro fra religioni? Risponde il filosofo cattolico Giovanni Reale. Professore, cosa ne pensa del rogo del Corano? È una provocazione assolutamente inaccettabile. Si tratta di un atteggiamento estremistico che commette un gravissimo errore: confonde l’Islam e il suo libro sacro con una visione ideologizzata della religione che si è trasforma in violenza. Non è uno scontro fra religioni, ma fra due idelogie che strumentalizzano le religioni.

E il fatto di voler costruire una moschea là dove sono state brutalmente assassinate dall’estremismo islamista tremila persone, come lo giudica? Questo è un problema estremamente complesso. Capisco la posizione assunta dal Presidente degli Stati Uniti. E tuttavia, vorrei osservare: è coerente spiritualmente la scelta di costruire una moschea proprio nel luogo della strage con l’obiettivo che si pone, e cioè riconoscere e inchinarsi al lutto? Perché proprio lì? Non è forse questa una forma inconscia, non meditata, non compresa di violenza? Perché non innalzare quel tempio altrove e non là dove si è materializzato uno dei drammi più potenti della storia? L’umiltà spirituale mi sembrerebbe imporre un comportamento meno plateale. Capisco dunque Obama, ma non avrei preso quella posizione. L’immensità della tragedia di cui Ground Zero è il simbolo, consiglierebbe a suo parere di evitare di costruire una moschea in

quel luogo? È questo che vuol dire? Insomma, quella tragedia chi l’ha provocata? No, non è stato l’Islam in quanto tale, è innegabile però che le sue radici si ritrovano in ciò che discende dall’Islam: in una sua distorsione, in una sua interpretazione errata e sciagurata. Se dunque gli adepti di quella religione vogliono onorare i 3000 morti, vogliono non pregare per loro, perché lo debbono fare invadendo quello spazio. È un modo spettacolare che non ha nulla di quell’umiltà, di quella con-

La posizione di Obama è comprensibile ma puramente di tipo politico

trizione che una tragedia come Ground Zero richiederebbe. Non lo capisco questo comportamento: mi sembra rientri in quel concetto di uomo che non separa ciò che è materiale da ciò che è spirituale. Professore, alla luce di quanto è andato dicendo le ripropongo la domanda iniziale. I due comportamenti: quello del pastore Jones in modo immediato e violento, quello degli islamici in modo più sottile ripropongono, anche se diversamente, uno scontro

fra le due religioni? Guardi, il messaggio religioso trascende le categorie storiche. Lo dico anche per quanto riguarda i cattolici: la Chiesa trascende i palazzi del Vaticano, la Chiesa è il corpo di Cristo. Solo una lettura ideologica delle due religioni - una forse inconscia, l’altra violenta - può portare all’invasione della sfera spirituale, all’irruzione in questa di ciò che è materiale. Questi comportamenti, anzichè risolvere il problema, lo enfatizzano. La scelta di bruciare un libro sacro come il Corano è più grave, più pesante di quella di costruire una moschea, ma anche quest’ultima non mi piace. Il rogo del Corano può scatenare la reazione islamica? Ottiene l’effetto uguale e contrario rispetto a quello che in teoria vorrebbe ottenere. Ma anche voler costruire la moschea proprio lì non va: il rispetto spirituale non si esprime così. Che impressione fa ad un filosofo cattolico quale lei è, questo uso improprio, in


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La cronaca di questi giorni dimostra come l’islam sia strumentalizzato da chi ci odia

Il mondo «unico» non esiste, eppure lo scontro si può evitare L’idea di Obama che i musulmani “moderati” avrebbero accolto l’invito al dialogo è fallita, ma la guerra si può scongiurare. Se agiamo subito di Ayaan Hirsi Ali os’hanno in comune la proposta di costruire una moschea a Ground Zero, il proposito di incenerire copie del Corano nell’anniversario dell’11/9, la cacciata dei missionari americani dal Marocco avvenuta all’inizio dell’anno, il bando alla costruzione di minareti in Svizzera emanato l’anno scorso e il recentissimo bando del burqa in Francia? Tutti e cinque i casi sono stati presentati dai media occidentali come questioni di libertà e tolleranza religiosa. Ma questa non è la loro vera essenza. Fondamentalmente, invece, sono tutti sintomi di quello che il politologo di Harvard, Samuel Huntington (scomparso nel 2008, ndr.), ha chiamato “scontro di civiltà”. Nello specifico, lo scontro fra islam e Occidente. Conviene sintetizzare brevemente, per coloro che ne ricordano soltanto il titolo, in cosa consiste la teoria di Huntington. Nel mondo post Guerra Fredda, sostiene l’autore, esistono sette o otto civiltà storiche che compongono il blocco essenziale della società: fra queste le più importanti sono quelle composte dagli occidentali, dai confuciani e dai musulmani. Ma il rapporto di potere fra queste realtà sta cambiando. L’Occidente è in declino, l’islam è in piena esplosione demografica e le civiltà asiatiche - in particolar modo quella cinese - sono in rapida ascesa economica. Secondo Huntington, inoltre, sta emergendo un ordine mondiale basato su queste civiltà in cui gli Stati che condividono affinità culturali coopereranno e si raggrupperanno fra di loro, facendo quadrato attorno alle nazioni più forti.

C

La pretesa universalista dell’Occidente, inoltre, sta trascinando questa civiltà in uno scontro diretto con le altre: i casi più seri riguardano l’islam e la Cina. Così come la sopravvivenza dell’Occidente dipende dagli americani, gli europei e gli occidentali pronti a unirsi nella difesa della loro civiltà contro gli attacchi delle civiltà non occidentali. Il modello di Huntington, in special modo dopo la caduta del comunismo, non era popolare. L’idea più affascinante era quella presentata dalla Fine della Storia, il testo pubblicato nel 1989 da Francis Fukuyama, secondo cui tutti gli Stati si sarebbero equiparati in un unico standard istituzionale di democrazia improntata sul capitalismo liberale, senza mai entrare in guerra. Lo scenario roseo dei neocon era ugualmente un mondo “unipolare”, governato da un’egemonia americana senza rivali. In entrambe le ipotesi, eravamo diretti verso il Mondo Unico. Il presidente Obama, a modo suo, è un “mondo-unicista”. Nel suo discorso al Cairo del 2009, ha proposto una nuova era di comprensione fra America e mondo islamico. Il suo dovrebbe essere un mondo basato «sul rispetto reciproco, e … sul riconoscimento del dato secondo

cui America e islam non sono esclusivisti, e non hanno bisogno di entrare in competizione. Al contrario, vanno nella stessa direzione e condividono principi comuni». La speranza del presidente era che i moderati musulmani avrebbero accolto il suo invito di amicizia. La minoranza estremista – priva di uno Stato, come al Qaeda – sarebbe stata messa fuori gioco con i droni. Natuaralmente, nulla è andato secondo i suoi piani. E a perfetta dimostrazione della debolezza di questo approccio e della superiorità della tesi di Huntington, si può portare il recente comportamento della Turchia. Secondo

Il conflitto interno alle culture europee sull’ingresso di Ankara nella Ue è un caso da non dimenticare l’ottica “mondo-unicista”, il Paese della Mezzaluna è un’isola di musulmani moderati in un mare di estremisti.Tanto che il presidente americano, sulla base di questo presupposto, ha invitato personalmente l’Unione europea ad includere la Turchia in seno alla Ue. Ma l’illusione che la Turchia fosse moderata è velocemente stata superata dai fatti. Un anno fa, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan si è congratulato con l’iraniano Mahmoud Ahmadinejad per la sua rielezione nonostante questa fosse stata evidentemente truccata. Poi ha stretto un accordo con il Brasile per cercare di diluire lo sforzo americano di intensificare le sanzioni nei confronti di un Iran impegnato a conquistare l’atomica. Più recentemente, la Turchia ha sponsorizzato la Freedom Flotilla salpata per sfondare il blocco israeliano di Gaza e dare una mano ad Hamas. Certo, è innegabile che in Turchia ci siano ancora dei secolaristi fedeli al credo di Ataturk, padre fondatore della loro Repubblica. Ma questi non hanno più né il controllo dei posti chiave in seno al governo né un diretto peso in seno all’enclave militare. Oggi il dibattito a Istanbul è apertamente rivolto alla cosiddetta “alternativa ottomana”, e guarda ai giorni in cui il Sultano controllava un impero che andava dal Nord Africa fino al Caucaso. Tutti i Paesi arabi, fatta eccezione per l’Iraq, sono guidati da despoti di vario tipo. E tutti i gruppi di op-

posizione che contano su un appoggio delle popolazioni locali sono guidati da organizzazioni islamiste come la Fratellanza Musulmana egiziana. In Egitto, l’era Mubarak sta finendo. Gli Usa potranno garantire la successione? Se sì, il resto del mondo musulmano chiederà a gran voce ad Obama il motivo di questo suo doppio standard: perché tanto impegno per le elezioni in Iraq e non per l’Egitto? L’Algeria, la Somalia, il Sudan? È difficile immaginare un solo Paese musulmano che vada nella direzione di un mondo unicista. Il maggior vantaggio del modello proposto da Huntington è di presentare il pianeta esattamente così come è, e non come vorremmo che fosse. Ciò ci consente di distinguere fra amici e nemici. E ci aiuta a identificare i conflitti in corso fra le civiltà, soprattutto nella storica rivalità fra arabi, turchi e persiani nella leadership del mondo islamico. Ma il dividi et impera non può essere la nostra unica via politica. Abbiamo bisogno di capire quanto la crescita dell’Islam radicale sia il frutto di un’attiva campagna di propaganda. Secondo un report della Cia scritto nel 2003, i sauditi hanno investito negli ultimi trent’anni almeno 2 miliardi di dollari l’anno per diffondere il loro messaggio fondamentalista. La risposta dell’Occidente nel promuovere la nostra civiltà è stata pressoché nulla. La nostra civiltà non è indistruttibile: ha bisogno di essere attivamente difesa. E questo è forse il messaggio più importante lasciatoci in eredità da Huntington. Il primo passo per vincere lo scontro di civiltà in atto è comprendere cosa pensa l’altra “metà della mela” e smetterla con l’illusione di un mondo unico.

alcune occasioni bellicoso delle religioni? Sa cosa mi viene in mente? Ripenso al Grande Inquisitore di Dostojevski che dice a Cristo tu hai sbagliato, devi essere condannato e messo a morte. E Gesù come risponde? Baciandolo sulla bocca. Qui c’è il più totale e straordinario rovesciamento spirituale: quel bacio è un gesto grandioso di amore. Che cosa ha a che fare questo col bruciare il Corano? Ed è molto distante anche da chi per fare ammenda invade un luogo simbolico, cerca di farsi notare. Non è un atto di amore nemmeno questo. Non ha nulla a che vedere con l’amore cristiano che si ritrova nel bacio al Grande Inquisitore. Mi scusi, ma Cristo non è anche libertà: la libertà dunque di costruire ovunque si voglia - un tempio? In questo senso non ha ragione Obama? Ho già detto che rispetto profondamente la posizione del Presidente. Mi permetto però di obiettare che la libertà deve legarsi a dei valori. E cioè: io sono libero di costruire là la moschea, ma non posso farlo proprio nel luogo simbolo di una tragedia che scaturisce da concetti desunti sciaguratamente - questo mi preme sottolinearlo - ma che comunque originano, anche se erroneamente, da me. Non è amore questo. Il gesto di Obama non lo definirei sbagliato, ma foriero di conseguenze negative: è un gesto di libertà politica, non di amore. Del resto professore c’è il rischio che la scelta di costruire la moschea a Ground Zero venga travisato da certa cultura islamica. Come se l’aver distrutto le due torri fosse all’origine di una vittoria che ha portato a edificare in quel simbolo del capitalismo demoniaco, il tempio musulmano.. Nel mondo ci sono state tre grandi rivoluzioni: quella della violenza, che trae origine da Caino, quella del vincere convincendo, che nasce con la grande filosofia greca, e la terza, la più grande di tutte, la rivoluzione cristiana, che si fonda sull’amore. Questo nella cultura islamica non lo vedo. Del resto, quello che fanno con le donne è emblematico. Si ricorda che cosa risponde Gesù a chi gli porta un’adultera che deve essere lapidata in base alla legge? “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”. E alla donna cosa ha detto? “Vai e non peccare mai più”. Questo amore totale c’è solo nel messaggio cristiano. Il che non vuol dire che i cristiani, la Chiesa siano sempre stati coerenti. Ma è anche vero che ci sono nella loro storia straordinari esempi. Faccio solo un nome: madre Teresa di Calcutta. Non vedo altrove niente di simile.


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il personaggio della settimana

Grazie all’Occidente, la donna è stata per ora risparmiata. Ma quante altre, nell’oscurità delle prigioni di Teheran, vivono lo stesso dramma?

Tutte le altre Sakineh

Il loro simbolo è il volto di Neda. E combattono contro la repressione, sempre più capillare. Chi non si sottomette viene fustigata, imprigionata, torturata, condannata, lapidata di Gennaro Malgieri a nuova rivoluzione iraniana, quella che si sta dispiegando per le strade di Teheran, Shiraz, Isfahan, Bam, Tabriz, ha il volto di una giovane donna assassinata: Neda Agha Soltan. I killer di Ahmadinejad l’uccisero il 20 giugno 2009 nel corso di una manifestazione pacifica contro i brogli elettorali grazie ai quali era stato rieletto il fantoccio della Guida suprema Alì Khamenei ai danni del candidato moderato Moussavi. Neda da allora ha ispirato e guidato idealmente le donne iraniane, che già si identificavano

L

nelle lotte di Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, riassumendo nella sua tragedia quella di un fronte composito, espressione del cambiamento e della volontà di riscatto di una società che dimostra inquietudini crescenti nei confronti dell’oppressivo regime degli ayatollah. Fronte nel quale la componente femminile non soltanto è maggioritaria, ma dimostra di essere anche la più attiva e dunque anche la più perseguitata. La vi-

cenda di Sahinek Mohammadi Ashtiani, condannata alla lapidazione per presunto adulterio oltre che per l’ancor più improbabile assassinio del marito in combutta con l’amante, ed in attesa che la sospensione della sentenza venga commutata in riforma della stessa fino al ribaltamento del verdetto, ha tenuto il mondo in apprensione. Grazie alla mobilitazione di numerosi paesi occidentali, la donna è stata per ora risparmiata. Ma quante altre, nell’oscurità delle prigioni iraniane, vivono lo stesso dramma della sventurata il cui avvocato difensore è stato costretto a fuggire all’estero ed i parenti sono continuamente minacciati dai pasdaran? Si dice che siano centinaia, ma nessuna organizzazione umanitaria può accertare né il numero né le condizioni delle detenute.

La più nota di cui si ha notizia è la blogger Shiva Nazar Ahari, che rischia la condanna a morte per il suo attivismo in favore dei diritti umani. E mentre si aspetta che vengano eseguite le quattordici lapidazioni decretate da tribunali islamici in tutto il Paese, un’altra coppia di presunti adulteri,Vali Janfesfani e la sua compagna Sariyeh Ebadi dal 2008 vengono tenuti segregati e vivono nel terrore che ogni volta che si aprono le porte delle loro celle possano chiudersi per sempre alle loro spalle. Il carcere di Orumiyeh, tra i più tetri insieme a quelli di Evin e Tabriz, dove vengono perpetrate le peggiori torture che si possano immaginare, è praticamente diventata la tomba di due morti viventi. Un’altra donna, peraltro con la cittadi-

nanza olandese (la circostanza non indifferente dovrebbe smuovere le autorità europee), Zahra Bahrami aspetta che il boia faccia il suo mestiere. È stata arrestata nel corso delle manifestazioni contro Ahmadinejad nel dicembre 2009 e condannata a morte il 16 agosto scorso con le accuse di far parte di un gruppo terroristico, di contrabbando di cocaina e di essere un pericolo per la sicurezza nazionale. Inutile dire che nessuno, tranne i giudici, ha potuto visionare le carte processuali, né ascoltare le testimonianze a carico dell’imputata. Non risulta che nessuna delle numerose delegazioni europee recatesi a Teheran per fare affari con il governo di Ahmadinejad abbia sollevato la questione della detenzione dell’olandese-iraniana. Donne, sempre donne. E, naturalmente, per depotenziarle, il regime le accusa soprattutto di reati sessuali, di pubblica immoralità, di comportamenti indecenti, di offese all’Islam.

Naturalmente si battono per i loro diritti e per quelli del popolo iraniano, con un coraggio che non ha precedenti nella storia recente. Si potrebbe stilare un lungo elenco al riguardo, ma risulterebbe sempre incompleto poiché della sorte di numerose “rivoluzionarie”, perlopiù appartenenti al movimento dell’Onda verde, non si sa nulla, se non che sono sparite, sottratte ai familiari anche per strada, nei locali, negli uffici. Come le 33 donne dell’ associazione “Madri in lutto” aggredite ed arrestate dalla polizia durante una veglia pacifica nel parco Laleh a Teheran il 9 gennaio di quest’anno: non si sa dove siano e che fine abbiano fatto. Si sa, invece, che Hengamen Shaidi, giornalista ed attivista femminista, è stata arrestata il 25 febbraio scorso e deve scontare sei anni di carcere per «propaganda contro il sistema». C’è tutto in questa ambigua frase con la quale si è giustificata la sua condanna. C’è, soprattutto, la volontà del regime di reagire alla sfida che apertamente ormai chi viene portata con le armi di cui può avvalersi. E le donne sono un problema in più, perciò l’accanimento contro di loro è maggiore. Toglierle di mezzo accusandole di adulterio, non soltanto spalanca alle malcapitate la via dell’inferno islamico attraverso la lapidazione (pena che oltre che in Iran vige soltanto in Afghanistan dove si raccomanda di non usare pietre troppo grandi al fine di rendere l’agonia più lenta), ma le espone al pubblico ludibrio posto che i reati sessuali, dopo quelli contro la sicurezza dello Stato, sono considerati i peggiori dalla morale corrente.Togliere di mezzo un’avversaria particolarmente agguerrita è facile per i guardiani del khomeismo, ma è anche paradossale che ciò accada se si tiene conto che in Iran la prostituzione è molto fiorente fiorente, almeno quan-


11 settembre 2010 • pagina 29 sociale poiché il solo scopo della loro vita è deve essere quello di mettere al mondo bambini, allevarli ed educarli. Una visione contro la quale soprattutto le giovani iraniane si ribellano pur sapendo di correre rischi non indifferenti. Oltre a intellettuali come il regista Jafar Panahi e Abbas Kiarostami, numerose scrittrici sono schierate con il movimento di opposizione. Si dice che “Leggere Lolita a Teheran” di Azar Nafisi abbia fatto più male al regime di un bombardamento poiché si tratta di un romanzo-testimonianza sull’aspirazione alla libertà intellettuale prima e dopo la rivoluzione del 1979. E così altri saggi e racconti che hanno contribuito ad aprire gli occhi dell’Occidente su una realtà non sempre tenuta debitamente sotto controllo.

to il mercato della droga, rifornito dai pusher afghani che sono poi tanto i talebani quanto i signori della guerra legati al governo in carica. L’immoralità è tollerata soltanto se si paga il giusto al pasdaran o al basiji. Senza contare i cosiddetti “matrimoni a termine”: esibendo un opportuno documento che comprova l’avvenuta unione, questa può anche durare lo spazio di qualche ora o qualche giorno, magari consumata in uno dei tanti alberghi della zona elegante di Teheran dove vive la nomenclatura e non soltanto negli alberghetti adiacenti il bazar trasformati alla bisogna in veri e propri bordelli, con buona pace della polizia religiosa che sa sempre come, dove e quando deve fare irruzione per sorprendere i “coniugi” che magari non sono in regola con l’apposita attestazione rilasciata dall’ayatollah delegato alla bisogna.

Già nel 1906 presero parte alla rivoluzione costituzionale e negli anni del potere dei Pahlavi, segnati da un forte impulso occidentalista, rivendicarono la loro identità supportando le manifestazioni che culminarono purtroppo con il ritorno di Khomeini in patria nel quale videro il restauratore di un’autonomia culturale e politica, senza purtroppo prevederne le involuzioni che non mancarono di manifestarsi quasi immediatamente. Il 6 marzo 1979, Khomeini annunciò una serie di misure restrittive delle libertà per le donne e lanciò addirittura una

donne furono escluse da numerose attività e vennero introdotte regole particolarmente rigide sull’abbigliamento.

Per coloro che trasgredivano la pena prevista andava da tre mesi ad un anno di prigione, oltre al pagamento di un’ammenda ed alla flagellazione. Il risultato della repressione è stato che l’età media della prostituzione è passata dai 27 ai 20 anni ed il numero delle ragazze fuggite di casa è salito al 30%. Per di più è aumentato di quattro volte il numero dei suicidi delle donne rispetto agli uomini. Nonostante tutto la co-

Nel fronte contro Ahmadinejad, la componente femminile non soltanto è maggioritaria, ma è anche la più attiva

È anche contro questa ipocrita stortura che le donne si battono perché gli ayatollah gettino la maschera che hanno indossato da oltre trent’anni e mostrino il loro vero volto che porta i segni di una corruzione di cui in Occidente non c’è adeguata contezza. Ci si indigna per un singolo caso, ma una mobilitazione generale e permanente contro i brutali sistemi polizieschi dello sciismo iraniano non c’è stata dopo il ladrocinio elettorale di Ahmadinejad che continua ad essere considerato interlocutore da tutti i governi che pure dicono di battersi per i diritti umani, a cominciare da quelli dell’Unione europea. L’opposizione agli ayatollah si attendeva una maggiore determinazione da parte del mondo libero e soprattutto le donne, vittime di speciali attenzioni, avevano molto investito sulla sensibilità occidentale al punto di esporsi fino a violare le rigide regole comportamentali che scandiscono la loro vita. Non è la prima volta che il “sesso debole” si rivela “forte” in Iran.

fatwa che prevedeva la condanna a morte per quante sostenevano i Mujahedin che si opponevano ai mullah.

«Esse – proclamò – possono essere uccise, torturate, violentate e le loro proprietà confiscate». Non una parola del genere si legge nel Corano, tradito da quel tetro ayatollah la cui opera demolitrice della società iraniana è oggi ben continuata da Alì Khemenei suo degno discepolo, grazie agli sgherri di Ahmadinejad. La presidenza di Khatami non fu più tollerante, contrariamente a quanto si è portati a ritenere. Le

scienza femminile non s’è fatta sottomettere. Al grido di «abbasso Khatami, abbasso Khomeini» dal 2001 all’avvento di Ahmadinejad le donne sono state protagoniste delle più imponenti e riuscite manifestazioni contro il regime. Ma sono servite a poco. La repressione da qualche anno è diventata più capillare. Chi non si sottomette viene fustigata, torturata, imprigionata, condannata, lapidata. È questo il sistema degli ayatollah per guadagnare ai loro sudditi il Paradiso di Allah. Khamenei ha detto di recente che le donne non hanno diritto a svolgere un’attività politica o

Nel mondo islamico, il regime iraniano non è certo il peggiore. Ma questo non lo assolve neppure minimamente. A Teheran si sommano alle tendenze fondamentaliste di carattere culturale, civile e religioso ad una misoginia di fondo sconosciuta in altri Paesi, compresa l’Arabia Saudita. Misoginia che viene utilizzata a scopi politici per marcare con la persecuzione delle donne il potere sulle famiglie da parte degli ayatollah. Nel sistema iraniano, tradizionalmente, quindi a prescindere dall’islamizzazione, la famiglia è l’elemento sociale dal quale tutto discende e nel suo ambito la donna è davvero il soggetto prevalente; una volta però fuori dalle mura domestiche non conta più niente o niente dovrebbe contare. Su questo fa leva il regime islamico iraniano e perciò la donna è maggiormente esposta e, dunque, più fragile. Ma essa oggi vuole riprendersi il suo ruolo dentro e fuori la famiglia. Anche per questo cerca di emanciparsi prima che può. La condizione di single è vista dagli ayatollah come una seria minaccia, ma non possono farci nulla. Chi si può mantenere lecitamente lo fa, altre – tra cui molte minorenni – si prostituiscono pur di non sottostare al controllo familiare che coincide con quello del regime intessuto di ricatti e delazioni. Perciò in città come Teheran la ribellione giovanile è molto diffusa, soprattutto tra le donne, ed alimenta sentimenti di indipendenza rispetto ai quali le autorità sono seriamente preoccupate. Ma non capiscono che la repressione è il modo migliore per far crescere il disagio e creare il disordine. Gli assetti civili nuovi difficilmente potranno essere trovati nei prossimi anni. Intanto le donne si danno da fare, meglio e più degli uomini. Per quanto la polizia bussi sempre più spesso alle loro porte nel cuore della notte, nulla sembra fermarle. Tantomeno la paura di finire nelle segrete di Evin o di Tabriz. Gli ayatollah sono più terrorizzati di loro, si dice a negli internet café di Teheran dove si danno appuntamento tutti i pomeriggi ragazze che sfoggiano foulard colorati, di marca occidentale, che a stento coprono la metà del capo. Sono affascinanti come le loro coetanee americane ed europee, ma a differenza di queste danno un senso allo loro eleganza trasgressiva opponendosi in nome della libertà all’oppressione che le minaccia, con tanti saluti a Khamenei e ad Ahmadinejad.


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speciale venezia

Cartolina da Venezia. Per le opere italiane, a meno di una clamorosa risalita di “Noi credevamo”, c’è da sperare solamente in qualche premio accessorio

And the winner is... “La versione di Barney”, “Road To Nowhere”, “13 Assassins” Il vincitore del Leone d’oro potrebbe essere fra questi tre film di Alessandro Boschi

VENEZIA. Con la proiezione avvenuta ieri dell’atteso Barney’s Version tratto dal fortunatissimo omonimo romanzo di Mordecai Richler e diretto da Richard J. Lewis, si è in pratica conclusa la sfilata dei favoriti per la vittoria del Leone d’oro alla 67^ edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il che non significa che magari sarà proprio il non ancora visto film di Julie Taymor, The Tempest, a vincere. La cosa ci sembra però piuttosto improbabile, almeno in relazione ai nostri gusti. Una cosa è certa, quest’anno non c’è stato un film che abbia fatto gridare al capolavoro. Ci sono però alcune pellicole che a nostro modo di vedere, per vari motivi, potrebbero salire sul gradino più alto del Lido. Lo stesso Barney’s Version potrebbe accaparrarsi qualcosa, magari una Coppa Volpi per la quale avanzano seriamente le loro candidature Dustin Hoffman e Paul Giamatti, rispettivamente come attore non protagonista e attore protagonista.

Non crediamo che possa ambire a qualcosa d’altro, in quanto pur trattandosi di un film particolarmente riuscito accolto alla fine della proiezione da applausi scroscianti parliamo pur sempre di un prodotto poco da Festival, convenzionale e impeccabile nella confezione, caratteristiche queste che finiranno con il metterlo fuori gioco. Un Leone a sorpresa ma graditissimo potrebbe essere quello a Takashi Miike e al suo 13 Assassins, intelligente rivisitazione del (quello sì) capolavoro assoluto di Akira Kurosawa I sette samurai. Che Miike prende come ispirazione salvo poi ribaltarne completamente le istanze principali. Un fatto è che la proiezione è stata lungamente applaudita, si parla di oltre 10 minuti di acclamazione alla presenza di un Marco Müller radioso e un Quentin Tarantino adorante. Sulla cinefilia di quest’ultimo si è spesso disquisito, anche a sproposito. Si è fatto questo ragionamento. Siccome, come per esempio ha affermato Antonio Capuano, a lui piacciono storie d’azione e ammazzamenti con squartamenti e spruzzi

6 sale di proiezione, 22.505 biglietti venduti, 3.427 giornalisti accreditati, 229 dirette tv

E ora diamo i numeri sulla Mostra del Cinema di Pietro Salvatori

VENEZIA. AVenezia sta per calare il sipario, e noi diamo i numeri: cosa è successo, che vi siete persi, quali sono stati i record che l’anno prossimo il Festival dovrà nuovamente superare. 67, come il numero di edizioni che si sono raggiunte quest’anno. La prima è del 1932. Nel 1933 non si tenne. L’idea iniziale era quella di legarla alla cadenza della biennale. Ma il successo della manifestazione fu clamoroso a tal punto che dal 1934 a oggi il Lido si è fermato una sola volta: era tra il 1942 e il 1946 (esclusi), a causa della guerra. 9, come i premi ufficiali che, salvo sorprese, saranno assegnati oggi. Anzi 8, visto che il premio alla carriera è già stato ritirato da John Woo. Saranno il Leone d’oro per il miglior film; i 2 Leoni d’argento, 1 come premio speciale della giuria, l’altro per la miglior regia; 2 Coppe Volpi, per le migliori interpretazioni maschile e femminile; i 2 premi «Marcello Mastroianni», assegnati alle migliori interpretazioni di attori emergenti; e infine il Queer Lion, che dal 2007 premia il «miglior film con tematiche omosessuali & queer culture». 5, come i presidenti delle varie giurie. Quentin Tarantino per la selezione ufficiale, Shirin Neshat, artista iraniana, per la sezione Orizzonti. Fahit Akin premierà la migliore opera prima, Shimizu Takashi, regista giapponese, il miglior film 3D dell’anno. Infine il nostro Valerio Mastrandrea assegnerà il riconoscimento alla miglior pellicola della sezione Controcampo italiano. I 5 presidenti dovranno

fare i conti con gli 86 lungometraggi selezionati fra le 4251 opere di 102 Paesi prese in considerazione. 24 nel concorso ufficiale, 29 fuori concorso, 21 nella sezione Orizzonti e 12 per il Controcampo italiano. La parte del leone (e si spera in tutti i sensi) la fa l’Italia: sono 44 i film, tra corti, medi e lungometraggi presenti in laguna. Seguono gli Stati Uniti con 19, la Francia con 11, la Cina e il Giappone con 7. Gran Bretagna a 6, Austria, Spagna e Russia a 4, Germania, India e Hong Kong a 3 chiudono la classifica delle nazionalità più rappresentate. Fanalini di coda, con 2 titoli, la Corea del Sud, la Finlandia, la Grecia e la Tailandia. Sono stati diciassette, invece, i Paesi che hanno portato almeno un film alla corte di Marco Muller. 6 le sale in cui pubblico, invitati e giornalisti hanno seguito le proiezioni. Il PalaBiennale la più capiente, con i suoi 1700 posti. La sala Volpi e la sala Pasinetti le più piccole, con le loro 150 poltrone a testa. 22.505 i biglietti venduti per assistere alle proiezioni, tra cui 930 abbonamenti sottoscritti dai fedelissimi che non hanno voluto perdersi proprio nulla. 3.427 i giornalisti accreditati, di cui 1.339 stranieri, che hanno raccontato il Festival minuto per minuto. 853 le testate cartacee con almeno un inviato a Venezia. Hanno superato di gran lunga quelle online, ferme a 223, nonostante siano state un terzo di più di quelle presenti l’anno scorso. Il web è stato superato anche dalle televisioni. Ben 229 canali hanno trasmesso immagini dal red carpet del Lido.

di sangue assortiti, sarà piuttosto difficile che un film d’autore possa vincere. Sbagliato, perché in realtà Tarantino, essendo appunto un cinefilo, predilige di certo un genere, che poi è quello che pratica, ma apprezza e soprattutto conosce un’incredibile varietà di autori e di loro prodotti. Per questo non ci sarebbe molto da stupirsi se alla fine della corsa la spuntasse un film come The Ditch, La fossa, del cinese Wang Bing, apprezzato documentarista alle prese con un film (parzialmente) di finzione. È stato infatti saggiamente osservato che The Ditch è una storia universale. Che prende spunto dalla terribile vicenda dei dissidenti politici cinesi che negli anni ’50 per motivi il più delle volte risibili venivano deportati nel campo di concentramento di Jiabiangou, nel cuore del deserto del Gobi. Un film che forse molti maoisti, perché pare che anche oggi qualcuno ne sia rimasto, farebbero bene a vedersi. Il film ci dà anche il destro per sottolineare come opere che una volta venivano classificate come documentari erano facilmente distinguibili dai film di finzione. Oggi questa differenza si è andata via via affievolendosi e sembra destinata a scomparire. Altro film ostico ma di sostanza è Post Mortem di Pablo Larrain, giovane regista cileno che con Tony Manero aveva già stupito aggiudicandosi il primo premio al Torino Film Festival. L’autopsia di Salvator Allende che Larrain ci mostra con ricchezza di dettagli, in maniera quasi morbosa è uno degli shock più forti della Mostra.

Per il momento il regista ha dimostrato di avere due must: il periodo in cui le sue storie si svolgono, vale a dire gli anni Settanta, e Alfredo Castro, straordinario attore qui alle prese con un personaggio dimesso ma altrettanto terribile quanto lo spietato assassino interpretato in Tony Manero. Anche lui da tenere in considerazione per la Coppa Volpi. Chi invece potrebbe piazzare la zampata del vecchio Leone, è il caso di dirlo, è il grande Monte Hellman, presente al Lido con il sofisticatissimo e cinefilissimo Road to Nowhere. Sofisticato in quanto sostenuto da una struttura a matrioska, con un film che sta dentro a un altro film, e che quando si è convinti di aver-


speciale venezia

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Sono tutti registi che stanno conquistando il pubblico internazionale

Una nuova alba per il cinema tedesco Akin, Tykwer, Becker, Hirschbiegel, von Donnersmarck Ecco chi sono gli astri delle cineprese teutoniche di Andrea D’Addio

VENEZIA. Raccontano storie senza confi-

ne afferrato il senso ecco che Hellman spariglia di nuovo le carte, come se dicesse: “Pensavi di avere capito tutto? E invece no!”. Ma la verosimiglianza non sembra preoccupare il regista newyorkese, ciò che gli interessa è creare un’atmosfera da noir, alla quale abbandonarsi senza troppe domande. Forse esageriamo con i richiami, ma a noi Road to Nowhere ha ricordato un po’ Mulholland Drive di David Lynch, stesso fascino, stesse atmosfere e stessa confusione perfettamente programmata. C’è poi chi sostiene che Darren Aronofsky possa fare il bis (dopo The Wrestler di due anni fa) con Black Swan, ma sarebbe davvero troppo, non ne parliamo nemmeno.

E gli italiani? Escludendo possibili Leoni, a meno di una clamorosa risalita dell’unico papabile, Noi credevamo di Mario Martone, c’è da sperare che ci si possa aggiudicare qualche premio accessorio, comunque gradito e in alcuni casi meritato. Come ad esempio un riconoscimento al cast del regista napoletano, con una quantità enorme di attori e di facce sempre giuste. Qualche speranza ce la dà pure l’esordio dell’ottimo Ascanio Celestini. Il suo La pecora nera è molto piaciuto. È pur vero che trattasi di film particolarmente parlato in cui le immagini risultano spesso accessorie, ma l’argomento è forte e attuale (la pazzia e la libertà lo sono sempre). La passione di Carlo Mazzacurati ha il pregio di essere una delle poche commedie in concorso e pure ha divertito ed è stato accolto con favore da pubblico e critica. In più ci sarebbe Silvio Orlando, ma l’attore napoletano la Coppa Volpi se l’è già aggiudicata, e anche piuttosto di recente. Infine, chi veramente meriterebbe il riconoscimento come migliore attrice è Alba Rohrwacher. La sua interpretazione di Alice nel peraltro non riuscito La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo è davvero incredibile, per il lavoro fatto sul personaggio e sul proprio corpo, ammesso e non concesso che sia possibile scindere l’uno dall’altro. Ecco, se dovessimo scommettere un euro lo scommetteremmo sull’attrice fiorentina. E se, sempre costretti, dovessimo indicare un Leone d’oro ne indicheremmo due: Road To Nowhere e 13 Assassins.

A destra, il regista tedesco Tom Tykwer; in alto, locandine e fotogrammi dei film “Post mortem”, “Road to Nowhere”, “The Dish”, “13 Assassins”. A sinistra, il Leone d’oro

ni di temi, lingue e stili. Sono il volto del cinema tedesco contemporaneo, cineasti che si stanno impossessando non solo del proprio connazionale pubblico, ma di tutto quello europeo e ogni tanto anche dell’America. Parliamo di Fatih Akin, Tom Tykwer, Wolfang Becker, Oliver Hirschbiegel, Florian Henckel von Donnersmarck e di un movimento che non intende fermarsi. Ieri a Venezia Tom Tykwer ha portato in competizione Drei, sua particolarissima rivisitazione di un triangolo amoroso (lui, lei l’altro e di nuovo lui). Un film che ha turbato per alcune scene forti, ma che ha imposto nell’agenda festivaliera un argomento molto sentito nelle metropoli di oggi, in particolare modo a Berlino: quello dell’annullamento dell’identità sessuale come primo passo per una ridefinizione dei propri rapporti interpersonali, seguito delle riflessioni di fine anni ’70 di Michel Foucalt e Jacques Derrida. Nel ’98, con Lola corre, Tykwer fu il primo tedesco a girare un film di successo nella riunita Berlino, riuscendo a scrivere una storia che mostrasse, attraverso le corse della protagonista, la vicinanza delle varie parti della città. Dopo aver diretto produzioni internazionali come Profumo e The International,Tykwer è tornato a girare in Germania perché l’apporto sia economico sia di maestranze (la scuola di cinema e i teatri di posa della scuola di cinema Babelsberg, nella vicina Postdam, sono ormai tra i migliori al mondo) hanno poco da invidiare a Hollywood.

sul Canal Grande. Per un nostro Muccino con Will Smith, a Berlino si ha ben più di un nome da esportare in giro per il mondo. Ma non solo: è il mondo che va da loro, visto che gli ultimi film di Tarantino (Inglorius Basterds) e di Roman Polanski (L’uomo nell’ombra), sono stati giati proprio alle porte della capitale.

Insomma, sono lontani, e non rimpianti, i tempi del Nuovo cinema tedesco, quel movimento i cui rappresentati continuano a realizzare lavori, ma senza più rappresentare un modello da perseguire. Erano 26 i cineasti che nel febbraio 1962 firmarono un manifesto dichiarando la morte del vecchio cinema, denunciando la decomposizione dell’industria precedente e promettendo di riconquistare fama internazionale: Papas Kino ist tot (Il cinema di papà è morto), la nuova ispirazione era francese, la “nouvelle vague”. Del gruppo che si formò con successo allora, rimangono le opere e alcune persone, ma il fuoco si è spento da tempo. Kluge non gira dal 1986, Syberberg dal ’97. Giusto, Straub aveva portato già all’estremo le sue convinzioni artistiche prima che la moglie Danièle Huillet decedesse. Reitz non dirige da 4 anni e non riesce ad allontanarsi dalla saga di Heimat. Schlöndorff è ancora in attività, ma in pochi, anche in Germania, seguono i suoi lavori. Purtroppo, anche chi non firmò il Manifesto perché arrivato sulla scena artistica qualche anno dopo, ma ne sposò quel modo di porsi, non riesce più a ripetere i successi del passato. Herzog ha trovato nel documentario la sua forma preferita, e quando si ricimenta con la finzione gli esiti non sono esaltanti. Il remake dell’anno scorso di Il cattivo tenente con Nicolas Cage fu fischiato Venezia, non raccolse consensi neanche l’altrettanto recente My Son, My Son, What have Ye Done mentre quello che nel 2006 doveva essere un vero e proprio blockbuster, L’alba della libertà, neanche fu distribuito in Italia. Wenders non azzecca un film dal Million Dollar Hotel del 2000, riuscendo da allora a collezionare una serie continua di flop (La terra dell’abbondanza, Palermo Shooting) tanto che l’ultimo progetto è un cortometraggio in 3D per la Regione Calabria. Margherete Von Trotta è ormai presenza fissa delle giurie di tanti festival italiani, ma molto meno del set. Solo il tempo ci dirà se questo nuovo fermento artistico durerà nel tempo.

Ormai, la scuola di recitazione e i teatri di posa della scuola di cinema Babelsberg, nella vicina Postdam, sono considerati tra i migliori al mondo

Sempre a Venezia, lo scorso anno, Fatih Akin (La sposa turca, Ai confini del paradiso) conquistò tutti con la sua irresistibile commedia Soul Kitchen, storia di un nuovo ristorante turco alla periferia di Amburgo e dei due fratelli che lo gestiscono, mentre sono ancora nelle memorie di tutti noi il coraggio di pellicole come La caduta (sugli ultimi giorni di Hitler) firmato da Hischbiegel (anche lui poi chiamato dagli States), la straordinaria ironica malinconia di Good Bye Lenin di Becker e l’irriverenza del Mein Fürher dello svizzero ebreo (ma tedesco d’adozione) Dani Levy. Il prossimo progetto di von Donnersmarck, regista e sceneggiatore dell’indimenticabile Le vite degli altri, è il thriller The tourist con Johnny Depp e Angelina Jolie, filmato proprio le scorse settimane


ULTIMAPAGINA

Giappone. La verifica dei registri anagrafici svela la frode: 230mila anziani oltre i cento anni risultano scomparsi

Che bluff l’invasione degli di Francesco Lo Dico gni aspetto deponeva a favore della decisione irrevocabile. C’era per esempio il signor Chu che friggeva sushi panciuti desquamandoli ancora guizzanti, e floridi polli che si lasciavano impanare mentre ancora ruzzolavano nell’aia. C’era la forte suggestione di Ang Lee, la sempre suggestiva barba bianca di Confucio, e i quadricipiti snelli che spingevano gli uomini canuti fino all’Himalaya con la stessa forza desultoria di un giovane stambecco. E se proprio ti toccava, non c’era da ingrugnarsi: una guarnita rete di ospedali ti accoglieva amorevole dopo aver risolto da un pezzo l’eterna roulette delle sacche di sangue.

O

ponici su dieci al di sopra dei sessantacinque anni (con raddoppio previsto per il 2050), 32mila centenari entro ottobre, l’ apotropaica presenza di Tomoji Tanabe, che con i suoi 112 anni è l’uomo più vecchio del mondo, un’aspettativa di vita, per chi nasce oggi, che rasenta gli 86 anni, le vecchiette giapponesi medaglia d’oro nella specialità del tiro alle cuoia. Dati che avreb-

questo caso, è un classico della commedia all’italiana: perché i parenti serpenti hanno gozzovigliato sulle ossa di Sogen per tre decadi intere. Per loro accusa di frode, e processo. Ma l’orribile vicenda non era che il vaso di Pandora. Subito insospettito, il Governo ha fatto scattare una retata a partire dagli uffici anagrafici di tutto il Paese. E in men che non si dica, è arrivata

ULTRA-NONNI

Sarà che in questa

bero mandato a gambe all’aria la nostra Inps, e fatto crescere in modo esponenziale il numero di cassonetti nei quali i nostri anziani hanno affogato le amarezze della social card. La terra del Sol Levante, avrebbe procurato insomma evidenti benefici al nostro anziano medio, che nel paniere dell’Istat corrisponde alla figurina di Umberto D. Sarebbe ora il caso di celebrare la qualità della vita giapponese, i vecchi che danzano come libellule ignari dell’artrosi, la scarsa presenza di tabagisti, e la dovizie di cruditè assortite.

L’inchiesta è scattata il mese scorso, quando Sogen Kato, 111 anni per l’anagrafe, viene trovato in casa mummificato: i parenti l’avevano nascosto per frodare lo Stato

Italia l’idea di pensione fa pendant con un cagnolino lurido al guinzaglio, e un cappello trattenuto a mezz’aria, ma tutto ci aveva persuaso a prenotare la nostra reincarnazione in una sala parto delle isole Okinawa. Gli ultimi dati provenienti dal Giappone parlavano di un’oasi geriatrica a misura di italiano: due nip-

E invece la festa (che si terrà davvero, il 17 settembre, nella Giornata dell’anziano), viene rovinata il mese scorso, quando due funzionari di Tokyo hanno la magnifica idea di felicitarsi con Sogen Kato. Ha compiuto centoundici anni, e l’occasione merita un brindisi con adeguato vino d’annata. Bussa che ti bussa, non apre nessuno. Che Sogen Kato sia andato a fare bisboccia con altri ragazzacci troppo arzilli? Dev’essere stata una festa particolarmente lunga, perché l’ultimo compleanno celebrato da Kato risale a trent’anni prima. A casa, poche ore dopo, verranno trovati i suoi resti come in un brutto horror d’appendice. Ma la sceneggiatura, in

la sentenza: in tutto il Giappone si contano 230mila ultracentenari scomparsi o dispersi. È così da piscina olimpionica della terza età, il Giappone è improvvisamente diventato una pozzanghera di imbrogli. Il ministro della Giustizia ha detto che alcuni dei desaparecidos potrebbero essere morti addirittura durante la seconda guerra mondiale, probabilmente durante i disordini post-guerra. E altri potrebbero essere emigrati senza segnalare il trasferimento alle autorità locali. E certo un congruo numero di parenti sbadati, potrebbe non essersi accorto della loro morte. Nel gruppo di super-anziani irripereribili, se ne conterebbero molti al di sopra dei centocinquant’anni. Che se fossero vivi, andrebbero catturati e studiati dalla Nasa. La storia prevederebbe a questo punto il pistolotto, abbinato a un premuroso buffetto al nostro Cavaliere che si designa immortale.

Ma pietosamente non taceremo che ancora resiste nel Sol Levante il mito delle isole Okinawa: cinque centenari ogni diecimila abitanti, contro uno su diecimila dei paesi più industrializzati, 440 tra uomini e donne oltre il secolo di vita, arterie libere, bassisima incidenza di tumori, malattie cardiache e cardiovascolari. E cosa più importante, il 90 per cento di questi, sono donne. Se il Cavaliere gradisse, quando verrà l’età di prender moglie, e porre fine alle biricchinate giovanili, saprebbe dove scegliere la donna giusta con cui fare progetti.


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