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Il pregiudizio è un vagabondo senza mezzi visibili di sostentamento

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Ambrose Gwinnett Bierce di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 17 SETTEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

«Chiuderemo i campi», dice il presidente francese. «La smetta di fare il populista», gli risponde il leader della commissione

Sarkozy si traveste da rom Provoca, batte i pugni, si scontra violentemente con Barroso perché Parigi possa violare impunemente le regole europee.Ad applaudirlo solo l’inviato di Bossi, Silvio Berlusconi AI CONFINI DEL RAZZISMO

di Errico Novi

La sicurezza prima di tutto. Ma senza capri espiatori

ROMA. In Europa volano pa-

di Riccardo Paradisi rutti, sporchi e cattivi: così vengono rappresentati i rom, gli zingari come un’accezione generica e spregiativa ha finito col chiamarli. E d’altra parte nascondersi dietro al dito del politicamente corretto è inutile oltre che stupido: è chiaro che i rom non sono popolari. Disturbano i loro campi – già da decenni bersaglio nel nostro Paese d’attentati incendiari e di assalti – disturba la spregiudicatezza, spesso illegale, con cui vivono.

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Un piccolo Napoleone Lo scrittore Todorov

Sarkomorfosi, «Ora è chiaro gli autogol a tutti di un leader che la Francia che voleva non è più guidare la patria l’Europa dei diritti» Maurizio Stefanini • pagina 4

Valerio Venturi • pagina 5

role grosse. A Bruxelles, i capi di governo della Ue dovevano discutere di Corea e accordi commerciali, invece si è gridato di rom, di accoglienza e soprattutto dell’orgoglio ferito dei francesi. Perché il botta e risposta di mercoledì tra Sarkozy e la Reding ha lasciato il segno. Sia al vertice, sia durante il pranzo ufficiale, il presidente francese ha chiesto ripetutamente le scuse ufficiali della commissaria alla Giustizia Unonché vicepresidente dell’esecutivo). Scuse che non sono arrivate, ragione per la quale Sarkozy ha cominciato a urlare durante il pranzo e ha continuato anche in conferenza stampa: «Non faremo nessuna marcia indietro e continueremo a smantellare i campi illegali», ha tuonato il presidente francese. a pagina 2

Parla Gianpiero D’Alia, capogruppo Udc al Senato

«Vi racconto il laboratorio Sicilia» di Franco Isardà

ROMA. «Noi rimaniamo al centro». La posizione del presidente dei senatori dell’Udc, Gianpiero D’Alia, alle prime avvisaglie di fronda da parte di alcuni esponenti siciliani, è chiara. «Che Cuffaro, Mannino e Romano pensino sia necessario cambiare linea nel rapporto con Berlusconi, è un problema loro e non dei siciliani». a pagina 7

Via libera allo spin off di Fiat Auto

Presentati i conti del Centro Studi

La terza rivoluzione di Marchionne

Confindustria insiste: «Riforme per la ripresa» Il viaggio per avvicinare cattolici e anglicani

God Save the Pope: può farcela Ratzinger? Una svolta storica: i soci approvano la nascita di una società nella quale riversare i debiti e i veicoli industriali. Così il Lingotto sarà libero di fare nuove alleanze e cambiare il contratto

Ieri il Pontefice è arrivato in Gran Bretagna dove spera di chiudere una ferita lunga cinque secoli: Luigi Accattoli e Marco Respinti giudicano una visita dal valore epocale

Dopo aver denunciato un governo senza maggioranza, Viale dell’Astronomia parla di un esecutivo senza politica. «In queste condizioni, l’uscita dalla crisi è a rischio»

Vincenzo Bacarani • pagina 11

Luigi Accattoli e Marco Respinti • pagine 18 e 19

Gianfranco Polillo e Alessandro D’Amato • pagine 8 e 9

EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

181 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

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l’editoriale

Così si torna al “capro espiatorio” di Riccardo Paradisi rutti, sporchi e cattivi: così vengono rappresentati i rom, gli zingari come un’accezione generica e spregiativa ha finito col chiamarli. E d’altra parte nascondersi dietro al dito del politicamente corretto è inutile oltre che stupido: è chiaro che i rom non sono popolari. Disturbano i loro campi – già da decenni bersaglio nel nostro Paese d’attentati incendiari e di assalti – disturba la spregiudicatezza, spesso illegale, con cui vivono nelle nostre città: la loro sola presenza produce disagio, appare provocatoria, perturbante.

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E non a caso il rom, lo zingaro è il protagonista degli incubi notturni di molti europei. Nel sogno il rom incarna la nostra ombra, il nostro lato rimosso – spiegano gli psicanalisti – che proprio perché negato ci fa paura, ci inquieta e ci minaccia. È per questo motivo in fondo che l’iniziativa di Sarkozy di espellere i rom dalla Francia (i rom senza cittadinanza, d’accordo, ma i rom, loro, prima di tutti gli altri irregolari) trova nella

Francia profonda un favore che non si proclama ma che s’indovina. Ed è per questi motivi che anche la destra italiana s’allinea coi cugini transalpini. Da Silvio Berlusconi che s’affretta ad appoggiare l’amico Sarko a Umberto Bossi che plaude alla linea del governo francese perché «La maggior parte dei furti li fanno i rom», poi Dio saprà distinguere gli innocenti. La ”destra nuova”finiana che Sarkozy ha eletto a suo modello invece tace. Magari s’è distratta. Intendiamoci è sicuramente esagerato paragonare i rimpatri forzati dei rom alle deportazioni della seconda guerra mondiale e chi lo fa non ha il senso della misura. Però è così che si comincia. S’elegge un gruppo, un’etnia impopolare a capro espiatorio e su di lei si stornano frustrazioni e rabbie diffuse generate dalla crisi economica o da una dolorosa e magari necessaria riforma delle pensioni. S’addita il nemico oggettivo e dopo la sua monattizazione si passa a consumare il sacrificio della sua espulsione (in questo caso). È un meccanismo preciso,

descritto alla perfezione da quel gigante della cultura francese ed europea che è René Girard nel suo capolavoro che è appunto Il capro espiatorio. Ma questa è morale si dirà, la politica è geometria di potenza, affare per volpi e leoni, dimensione dove a contare è soltanto la bruta realtà effettuale delle cose. Discorso pericoloso. In primo luogo perché sulla china della realpolitik, del fine che assolve i suoi mezzi, possono giustificarsi molte cose. In secondo luogo perché non è detto che la realpolitik la si debba sempre agire, ci si può trovare a subirla.

tismo – o le persone di destra piuttosto che quelle di sinistra? E a proposito di realpolitik davvero si può realisticamente pensare che un Europa percorsa da flussi migratori imponenti possa pensare di difendere se stessa chiudendosi nel recinto securitario delle sue residue e fragili certezze? E per quanto? E come si fa a non rendersi conto che proprio così perde la sua identità. Così dimentica e congela le sue radici cristiane – già eliminate dalla sua costituzione – ma anche il portato laico della sua migliore storia culturale: l’equilibrio, la capacità di sintesi, la ragione, la misura. La logica e la morale. Che dovrebbero avvertire ogni coscienza del fatto che una volta designato qualcuno come colpevole per quello che è e non per ciò che fa s’è già compiuta una lunga falcata sulla via che porta all’inferno.

Si comincia così. S’elegge una categoria come colpevole e su questo si stornano frustrazioni e rabbie diffuse

Chi garantisce infatti che dopo i rom il capro espiatorio, mutati i rapporti di forza, non siano domani i magrebini, per dire o gli ebrei di origine ungherese – e la Francia ne sa qualcosa d’antisemi-

il fatto In Europa volano parole grosse. Doveva essere un vertice sulla Corea, ma si è parlato solo della «rivolta di Parigi»

Zingarata a Bruxelles

Barroso: «Sarkozy la smetta col populismo». Ma il francese insiste: «Sui campi rom decido io». E poi vanta l’accordo con Berlusconi di Errico Novi

ROMA. Aspirava a essere il nuovo leader dell’Europa, finisce con ispirarne il volto peggiore. Nicolas Sarkozy atterra sul vertice dei capi di Stato e di governo dell’Unione con il carico pesante della circolare anti-Rom, dei rimpatri e del violento scambio di accuse con Viviane Reding. Come se non bastasse già tutto questo, trasforma il pranzo dei 27 in una lite definita «inedita» per la sua asprezza dal premier bulgaro Borisov e da altre fonti. Si difende passando all’attacco, chiede «spiegazioni» per le critiche della commissaria europea alla Giustizia, le definisce «un’umiliazione» per il suo Paese. Il fatto stesso che il Consiglio si trasformi in uno scontro «acceso», per usare l’aggettivo di Borisov, deprime l’immagine dell’Europa, ne fa vacillare la credibilità di soggetto politico riconoscibile e coeso. Impressione a cui pone almeno in parte rimedio Bar-

roso, intervenuto a sua volta dopo la conclusione dei lavori: «È vero che abbiamo sentito commenti esagerati», osserva il presidente della commissione Ue davanti ai giornalisti, «ieri Viviane Reding lo ha riconosciuto, penso che altri dovrebbero fare lo stesso, rinunciando a un certo populismo», è la stoccata per Sarkozy.

La questione rom dunque degenera quasi in rissa. Bruxelles tenta di conservare comunque, nel corso della giornata, un profilo misurato, a parte la discussione tra Barroso e Sarkozy. Al termine del Consiglio, che alla vigilia si pensava di dedicare agli accordi con la Corea, il presidente Van Rompuy e altre fonti comunitarie spiegano che «si è deciso di rinviare a un prossimo vertice il dibattito su una strategia di lungo temine per risolvere la questione dei rom». Di fatto è un’accelerazio-

ne rispetto alla pretesa francese (e italiana, e da ieri anche del premier ceco) di «sollecitare l’intera Ue a farsi carico complessivamente dell’emergenza». Un passo verso le attese di Sarkozy, mosso peraltro senza offrire per ora alcuna copertura politica ai provvedimenti estremi di Parigi. La cautela dei partner non impedisce l’ulteriore scorribanda demagogica del presidente francese, che alla fine del summit ribadisce la sua posizione: il suo Paese è «la prima terra d’accoglienza per gli esiliati d’Europa e tale vuole restare» ma non può accettare che «intere famiglie vivano all’interno di campi illegali e non dignitosi». Aggiunge, Sarkozy, di essere rimasto scioccato, insieme con altri leader (Berlusconi innan-

zitutto) per il paragone tra i recenti rimpatri di Parigi e le deportazioni della Seconda guerra mondiale. Rilevo imputabile alla Reding ma per il quale la commissaria Ue alla Giustizia aveva già rivolto le sue scuse (accettate) mercoledì pomeriggio, chiarendo che non voleva mettere sullo stesso piano i fatti delle ultime settimane con le tragedie del XX secolo. Non basta, tanto che, durante il pranzo con Barroso e gli altri capi di Stato, il paragone viene impugnato dal capo dell’Eliseo come uno dei principali argomenti.

L’iter della procedura d’infrazione non dovrebbe conoscere clamorose accelerazioni. Resta però la frattura diplomatica tra Bruxelles e Parigi. Difficile da

comporre in tempi brevi, se si considerano le motivazioni dell’Eliseo in questa vicenda, come fa notare il sociologo Marc Lazar interpellato dall’agenzia Apcom: «Sarkozy è mosso da ragioni squisitamente di politica interna, vuole far leva sulle paure dei francesi che mettono la sicurezza al primo posto, da una parte, e che detestano l’euro dall’altra». Offensiva sui rom e scontro con Bruxelles: una strategia dunque studiata al millimetro, secondo il professore, che aggiunge: «Sarkozy se ne infischia dell’Europa, fa questo doppio gioco cavalcando i sentimenti anti-rom e anti-europeisti dei francesi, anche per compensare l’impopolarità della riforma previdenziale appena approvata dall’Assemblea». Interpretazione che spiega un po’ tutto, compresa la vaghezza delle risposte alle obiezioni della Reding sollevate dall’Eliseo e dal ministero dell’Immi-


la testimonianza Dalla diplomazia all’accoglienza: parla Vittorio Emanuele Parsi

«A che serve un’Italia senza politica estera?»

«Idee e basso profilo, due cose che non abbiamo più. Per questo in Europa contiamo sempre di meno» di Pietro Salvatori

ROMA. Nessun membro nello staff del superministro degli Esteri Ashton. Il nome di Draghi che si allontana sempre di più dalla guida della Bce. E, ultimo schiaffo al prestigio internazionale del governo, Albania e Uganda, i soli due Stati non proprio di primissimo piano, nei quali il rappresentante dell’Unione Europea avrà il passaporto italiano. Che succede, non contiamo più nulla in Europa?

«La questione delle nomine della diplomazia europea è emblematica». Lo sostiene Vittorio Emanuele Parsi, professore di relazioni internazionali. Uno dei massimi esperti nel settore, anche grazie a una solida esperienza sul campo maturata negli anni di insegnamento tra Washington, Phnom Penh, Novosibirsk e Beirut. C’è poco da fare se Francia, Gran Bretagna, Germania e, ultimamente, Polonia, esercitano molta più influenza di noi in ambito comunitario: «Sono Paesi finanziariamente e economicamente più importanti di noi». L’unico modo di risalire la china, secondo il professor Parsi, è anche quello invocato da più parti per dare una scossa al panorama politico interno: «Bisogna fare le riforme. A partire dal sistema istituzionale sciatto con il quale dobbiamo convidere, che ci consegna governi fragili e poco influenti. Per continuare con il mercato del lavoro. È mai possibile che deve arrivare un signore dal Canada, Sergio Marchionne, a dirci che siamo fermi agli anni Settanta e non siamo competitivi?». Berlusconi, al contrario, sembra voler partire dalla contingenza politica. Almeno questo è quello che appare all’indomani delle dichiarazioni a sostegno della politica sui rom di Sarkozy. Una posizione nella quale qualche osservatore ha voluto leggere un tentativo di scardinare l’asse franco-tedesco. «Non credo che Berlusconi pensi a questa possibilità. Nessuno in Europa ci pensa, l’intesa tra Francia e Germania è insostituibile». Qual è allora la spiegazione dell’intervento del premier? «Su alcuni temi - è la versione di Parsi - Sarkozy e Berlusconi sono su posizioni vicine. Entrambi hanno forze politiche che si collocano alla loro destra, dalle quali non si devono far scavalcare. Le politiche sull’immigrazione spesso rispondono anche a queste esigenze tattiche». Ma, a guardare bene, forse qualche elemento di novità nell’inedito asse tra Roma e Parigi lo si potrebbe individuare: «Si avverte una condivisione di un fastidio per politiche europee generalmente distanti dalla gente. Un rifiuto dell’euroburocrazia di Bruxelles. Ma se in Italia questo elemento di fastidio e irritazione è sempre stato presente, per la Francia è una novità singolare. A Sarkozy sembra dare fastidio il fatto che in Europa tutti si sentano in grado più o meno liberamente di predicare sulla pelle degli altri». La lite di ieri con il presidente della commissione Barroso ne è l’ennesima testimonianza, in effetti.

Il Cavaliere sta provando a riprendere in mano il pallino del dibattito europeo cavalcando questo fastidio di Sarkozy. Ma è destinato a fallire: «Non è questo il modo di indirizzare il dibattito nell’Unione. Semplicemente per il fatto che il tema è estremamente pericoloso, non di facile spiegazione al grande pubblico, e giuridicamente spinoso. I rom non sono una forza lavoro attiva alla stregua di altre minoranze, né tanto meno perseguitati politici, provenendo da Paesi europei». Ma la difficoltà del tema non è l’unico motivo per il quale la strategia berlusconiana si rivela fragile. «L’Europa si allarga - fa notare il professor Parsi - È assolutamente fisiologico che in una comunità di 25 Paesi si conti di meno che in una da 10 o 15». Poche le possibilità per l’Italia di riacquistare la centralità di un tempo: «Nemmeno quando Prodi è stato presidente dell’Ue siamo stati in grado di rilanciarci. Certo, ci può essere l’ostacolo degli stereotipi, non lo nego, ma ci sono anche dei dati di fatto che ci impediscono di risollevarci». Per esempio? «L’intera politica estera italiana degli ultimi anni è legata al credito acquisito attraverso le operazioni di peacekeeping. Abbiamo mandato uomini sovradimensionati rispetto al potere effettivo del nostro Paese, assumendoci i rischi connessi per mantenere la linea di galleggiamento di un certo credito internazionale». Espedienti che funzionano con gli alleati. «A Obama questa cosa va benissimo, non è interessato alle nostre polemicucce per le quali Berlusconi dovrebbe essere preso a schiaffi appena mette piede alla Casa Bianca. Per lui è il leader di una nazione alleata». Ma funzionano meno in Europa, «della quale siamo soci, non alleati. E con i soci devi avere delle idee, proporre una linea. Occorre una preparazione solida e un basso profilo. Tutte le cose, insomma, di cui l’Italia difetta».

Al fondo di tutto c’è anche un problema oggettivo: è davvero fisiologico che in una comunità di 25 Paesi si conti di meno che in una da 10 o 15

Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy. A sinistra, la commissaria Ue alla Giustizia Reding. A destra, Vittorio Emanuele Parsi e Josè Manuel Barroso grazione parigino: nella riunione di mercoledì sera si è concordato di puntare sul fatto che, formalmente, la circolare del 5 agosto non ha dato luogo ad azioni specifiche contro singole etnie, che non si è fatta distinzione tra campi abusivi e che i 950 espulsi sono stati raggiunti dal provvedimento non perché rom ma perché trovati in posizione irregolare.

Abbastanza per guadagnare tempo, considerata anche l’utile sponda offerta a Parigi da Silvio Berlusconi. Al pranzo dei 27 il presidente del Consiglio italiano sostiene che la posizione francese deve considerarsi legalmente corretta e non costituisce violazione del Trattato Ue. Il Cavaliere ne approfitta anche per rilanciare la tesi che dovrebbe essere solo il presidente della commissione a pronunciarsi su questioni che riguardano gli Stati membri. Elemento sul quale il Con-

siglio europeo non concorda, mentre viene sancito sia il diritto dei singoli Paesi a far rispettare la certezza della legge sul proprio territorio sia quello della commissione a vigilare sul rispetto degli accordi comunitari. C’è invece un riflesso tutto italiano, che in fondo definisce la cifra effettiva dell’ultima iniziativa di Sarkozy: Umberto Bossi si iscrive infatti subito nella schiera dei difensori dell’Eliseo, sostiene che il presidente francese «sta facendo bene» e che «è da attribuire ai rom la maggior parte dei furti». Certo, il Senatùr si premura di ammettere che «i rom non sono il diavolo», poi però aggiunge: «Fin quando rubi ai ricchi è un conto, ma se una persona povera torna a casa e se la trova messa sottosopra si incazza» e così l’ultima impennata parigina sulla sicurezza declina in una farsesca caricatura di Robin Hood.


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l’approfondimento

Le mille trasformazioni di un leader che si era dato un solo, ambizioso obiettivo: rilanciare la grandeur del suo Paese

Sarkomorfosi

Quando fu eletto, disse che avrebbe ridato alla Francia la guida dell’Europa. Dopo tre anni e mezzo, non solo non guida la Ue, ma ha perso anche l’appoggio dei tedeschi. Almeno in questo, ha raggiunto il suo mito: Napoleone di Maurizio Stefanini llora, ecco qui un capo di Stato dalla statura piuttosto bassa, ma dall’ego a essa inversamente proporzionale. È alla testa della Francia, ma in realtà il suo cognome lo segnala subito come uno che francese di origine non lo è. Malgrado ciò, è l’essenza del suo programma portare la grandeur della Francia alla conquista dell’Europa e del Mondo. Un programma, peraltro, che fonde elementi di destra e elementi di sinistra in un miscuglio strano, anche se tale da suscitare aspiranti imitatori in vari luoghi. Che più? Ha lasciato la moglie un po’più rustica che lo aveva accompagnato nella scalata al potere, e considerata ormai inadeguata al suo rango. E l’ha sostituita con un’altra moglie dal fascino sofisticato e cosmopolita, anche se lo sovrasta in statura in modo imbarazzante. Il problema però è che non solo è una straniera: molti dei suoi stessi seguaci sostengono che gli porta jella, e da quando ha iniziato a farsi

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vedere in giro con lei non gli ne è andata più bene neanche una. Da ultimo, in seguito a un suo problema con un popolo dell’Est ha finito per mettersi contro tutta quell’Europa che pensava di conquistare facilmente in un solo boccone, e gli altri europei lo hanno affrontato in Belgio, isolandolo e facendolo a pezzettini. Per la verità, lui contava su un importante rinforzo: ma questi è arrivato in irrimediabile ritardo. Ah, e c’è anche di mezzo un’isoletta di lingua inglese al largo dell’Africa.

Napoleone? Sarkozy? Be’, tutti e due. L’aveva d’altronde detto Karl Marx a proposito di un altro Napoleone intermedio, il III, che quando la storia si ripete, la seconda volta è in farsa. Va detto che se di Sarkozy si sa che è 1,65, di Napoleone non è certo se fosse effettivamente 1,55 o 1,57, come riferiscono certe fonti, o 1,67, come ritiene in effetti la maggior parte degli storici. Insomma, pasragonare i due su quell’aspetto particolare,

è in realtà fare torto al grande corso. Specie se si pensa di quanto l’altezza media era minore ai suoi tempi rispetto a oggi. Ma Napoleone faceva l’errore di mostrarsi sempre circondato da granatieri altissimi, che lo facevano sembrare più piccolo del normale; la propaganda ostile specie britannica accentuò questa immagine; e per questo quando furono divulgati i dati dell’autopsia sarebbero stati interpretati in riferimento alle misure in piedi e pollici inglesi,

Il Belgio non porta fortuna ai francesi, da Waterloo a Bruxelles

che erano più ridotti di quelli francesi. Più accorto, Sarkozy ha invece fatto annullare i limiti che impedivano l’arruolamento in polizia di chi misurava meno di 1,60: in modo simile a quanto si racconta si fosse fatto con Vittorio Emanuele III, abbassando a 1,53 la statura minima per fare il soldato, in modo da evitare al principe ereditario l’onta di essere riformato.

Il Re Sole, che con 1,60 era più basso di entrambi, lanciò

invece la moda dei tacchi e della parrucca altissimi, con i quali riusciva a oltrepassare i 2 metri. E anche Jean-François Mitterrand era in proporzione. Se si hanno presenti la Reggia di Versailles, le conquiste di Napoleone e la piramide parigina che è stata ribattezzata “di Mitterrandsete”, sembrerebbe confermato lo stereotipo anglosassone sui governanti francesi dall’ego inversamente proporzionale alla loro altezza. Non fosse che Charles De Gaulle e Valery Giscard d’Estaing avevano un ego egualmente debordante, pur essendo altissimi.

Come il chiaramente corso Napoleone Bonaparte era diventato francese solo perché l’anno prima della sua nascita la Repubblica di Genova aveva venduto l’isola a Luigi XV; così anche Sakozy è di padre ungherese; nonno materno ebreo sefardita di Salonicco poi convertito al cattolicesimo ma con parenti israeliani e uno zio rabbino; nonna materna di fami-


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Parla Tzvetan Todorov, il filosofo bulgaro (francese d’adozione) che indaga il rapporto con l’altro

Parigi capitale della fratellanza? Solo uno slogan. E ora si vede

«Una decisione che rischia di minare la coesione dell’Europa è figlia di una cattiva politica: quella che pensa solo ai propri interessi» di Valerio Venturi zvetan Todorov, filosofo bulgaro, allievo prediletto di Roland Barthes e da cinquant’anni “adottato” dalla Francia (dove vive), ha sempre indagato il rapporto con l’altro e le tematiche relative all’accoglienza. È quindi la persona giusta per esprimere un’opinione sull’azione di Nicolas Sarkozy contro i rom e del contrasto venutosi a creare tra Unione Europea e Francia, deflagrato quattro giorni fa nelle accuse mosse all’Eliseo dalla commissaria Viviane Reading e ieri nello scontro verbale fra il presidente francese e quello della Commissione Ue, José Manuel Barroso. Professore, la Francia, paladina dei diritti umani, patria dei valori dell’uguaglianza, della libertà e della fratellanza, si ritrova ad espellere i rom ed a pensare di revocare la cittadinanza a chi delinque. Una mutazione impensabile? Come la pensa il popolo francese? Io non credo che la Francia sia il paese della liberà e dei diritti dell’uomo; è solo uno slogan formulato in questo luogo e niente più. Ci sono molti episodi, sia qui che altrove, che illustrano che le magnifiche parole scritte dopo la rivoluzione francese possono rimanere non applicate. La Francia non fa eccezione e quello che accade ora è, a tutti gli effetti, una reazione vile, che a molti osservatori appare per quel che è: più come un bisogno della maggioranza di governo di ritrovare la popolarità, che un’azione che derivi da un qualche principio democratico o repubblicano. Ovviamente c’è chi dissente. Crede che la Ue abbia fatto bene a contrastare Sarkozy? Ogni stato gestisce le sue politiche interne e in Europa ci sono variazioni inevitabili, ma penso anche che ci sono principi generali che la Ue ha ragione di ricordare a tutti; che il riferimento a una regola comune ha qualcosa di postiivo, sempre, e si trova alla base di tutte le esigenze morali e giuridiche, che sono comuni a tutti, e in questo risiede la loro forza. Per quale motivo i rom sono sempre nell’occhio del ciclone? La ragione è visibile: è che i rom, nella popolazione europea, sono minoritari e i modi di comportamento che hanno sono differenti. Hanno comportamenti che non corrispondono a quelli della maggioranza, in un certo modo tutto il mondo li considera un po’ inquetanti perché non si adeguano alla norma. In effetti, non si dovrebbe reagire in que-

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sto modo, ma si capisce perché lo si fa. I rom non sono contro la legge, ma i costumi loro sono diversi dai nostri. E la popolazione è sempre in all’erta quando i modelli di comportamento condivisi non sono universalmente applicati. Sarkozy è arrivato all’Eliseo pensando di dare il proprio stile all’Europa. Immaginava di poterla “governare”. Le cose non sono andate

Gestire il problema dei nomadi è una cosa; accusarli di essere alla base di ogni crimine, è un’altra così, e in questi giorni si ritrova nel mirino dell’intero continente. Che ne pensa? Il presidente, poco prima delle elezioni, ha preso misure per rinforzare l’unione dei Paesi europei, per quello che concerne il voto del trattato di Lisbona, ad esempio. Ma in Francia c’è sempre una certa ambiguità rispetto all’Europa. I politici francesi sono europeisti qundo l’Europa accetta le posizioni transalpi-

ne. Soffrono nel vedere che la Francia è un Paese come tutti gli altri e vorrebbero che la Francia tornasse a dare il passo, a dominare. Invece la Francia viene ripresa... Ieri il presidente Sarkozy ha accusato la commissaria europea Reading di averlo criticato perché del Lussemburgo, come se il problema fosse l’origine geografica delle persone. In realtà si rifiuta l’interesse a lavorare (ed esprimersi) per l’interesse generale. La Ue, invece, deve preoccuparsi di questo. All’interno degli Stati membri si dà troppo peso all’interesse particolare. E invece, per principio, non bisognerebbe combattere qualcosa se non per il bene di tutti. Questo prima decade del nuovo millennio sembra caratterizzarsi per una assenza di morale, o meglio: la morale non sembra più essere un metro da seguire. Nessuna nuova etica, nessuna nuova immagine dell’uomo sembra nascere all’orizzonte. E la politica, che presupposti può avere? Non penso che la politica si debba sottomettere alla morale. Credo che la morale debba pensare agli individui e la politica al bene comune. Un buon politico è chi fa gli interessi di tutti, e non di una parte di un partito o di un Paese. Mi sembra che non sia per la morale che si cacciano i rom; questa è solo cattiva politica, perché tale decisione rischia di minare la coesione europea. Non è bene che ci siano questi contrasti e che si cerchi un capro espiatorio, non importa quale. Il nostro recente passato ci dimostra che le accuse collettive sono contro di noi e che con queste distruggiamo solo noi stessi. Non è perché una cosa è più o meno morale, che va o non va fatta, ma perché farla è buona politica, interessata al bene di tutti. Comunque esiste un problema: la Ue apre e aspira alla circolazione; però questo è impossibilie. Le solidarietà sono nazionali e non dell’Unione: sono cose nazionali. Bisogna riflettere su questo. Rispetto ai rom: una cosa è prendersi in carico il problema di una popolazione nomade da gestire; un’altra è accusareun popolo di essere alla base di ogni crimine.

glia savoiarda. Insomma, come è stato più volte ricordato, nessuno dei suoi avi viveva in Francia prima del 1860, anno della cessione della Savoia da parte del Regno di Sardegna. Il particolare forse non è solo anneddotico: quando ci si chiede sul come faccia il presidente di Francia a ritrovarsi in campo internazionale così isolato nel momento in cui sono francesi gran parte dei pezzi grossi della tecnocrazia internazionale, dal direttore del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn a quello del Wto Padcal Lamy, al presidente della Banca Centrale Europea Jean-Claude Trichet; bisogna appunto ricordare che rispetto a questo establishment Sarkozy è quasi altrettanto outsider di quanto non fosse Napoleone rispetto all’establishment della sua epoca. Forse per questo ha potuto cavalcare una battaglia come quella sui rom che è sì popolare; ma certamente in contrasto con due secoli e passa di storia francese sull’accoglienza, dalla Rivoluzione Francese in poi. Sarkozy combina però queste idee di destra assieme a principi sinistreggianti a proposito in materia di diritto di famiglia: così come Napoleone metteva assieme i principi della Rivoluzione assieme alla restaurazione dell’istituto monarchico. E come per Napoleone Maria Luigia, anche per Sarkozy Carla Bruni non ha coinciso con l’inizio di un momento politicamente favorevole.

Eppure, mentre Napoleone per fare la guerra guerreggiata ai russi si è trovato contro gli europei a Waterloo, Sarkozy per fare la guerra delle espulsioni ai nomadi si è trovato contro gli europei in modo solo figurato al Vertice di Bruxelles. Che, comunque, a Bruxelles è abbastanza vicino, ed è finita in una figurata Waterloo. Che più? Emmanuel de Grouchy, maresciallo dell’Impero e Pari di Francia, a Waterloo arrivò in ritardo a dare man forte a Napoleone perché si era perso; Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio italiano, a Bruxelles è arrivato in ritardo a dare man forte a Sarkozy per via di un finestrino rotto. Un’importante differenza c’è però sull’isoletta di lingua inglese al largo dell’Africa. Napoleone, infatti, a Sant’Elena ci morì in esilio. Sarkozy su Arros, isola delle Seeychelles, ha il semplice, grave motivo di imbarazzo per via del sospetto di evasione fiscale che vi fa pesare su Liliane Bettencourt: la proprietaria dell’Oréal, la cui fortuna era gestita da una società in cui era sta assunta la moglie di Éric Woerth: dal 2007 al 2010 ministro del Bilancio e tesoriere del partito di Sarkozy Ump, prima di diverntare al marzo ministro del Lavoro. Dive Sarkozy finirà, è questo che è ancira da chiarire.


diario

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Partito democratico. Rischia di saltare la kermesse, già convocata per fine ottobre, della componente “franceschiniana”

Veltroni si muove. Ma anche no L’asse con Fioroni spacca il fronte degli ex-popolari e preoccupa Bersani

opo un’estate passata a litigare se chiamarsi compagni o meno, se ritrovarsi alle feste dell’Unità o alle feste Democratiche, nel Pd è cominciata una discussione politica forse un po’più sensata. Discussione che s’incentra sull’iniziativa di un documento politico promosso da Veltroni e Fioroni e ridisegna gli equilibri interni al partito. Nel testo si rilancia l’idea originaria del Partito democratico, così come tratteggiata nel discorso del Lingotto del giugno 2007, e si promuove la nascita di un movimento che se ne faccia portatore. Un tentativo di alzare l’asticella del confronto politico interno, allo scopo di arricchire l’offerta politica del partito, in vista di elezioni che sembrano, se non imminenti, vicine. La novità è data dall’asse Veltroni-Fioroni (che pure già furono l’uno segretario del Pd e l’altro responsabile dell’organizzazione), che cerca di autonomizzarsi e andare ad un confronto dialettico con Bersani, non mettendone in discussione la leadership del partito. Non è bastata, insomma, la virata bersaniandalemiana pro vocazione maggioritaria degli ultimi giorni, con tanto di intervista per ribadire un pilastro del Pd veltroniano, quella coincidenza tra premiership e leadership in passato tanto osteggiata.

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La conseguenza diretta della presentazione nei prossimi giorni di questo documento è stata l’apertura di una crisi profonda dentro Area democratica, la macro componente che aveva unito fassiniani, vel-

chi mesi: Franceschini, non firmando il documento e contrastando apertamente l’iniziativa, si è messo da parte; cosicché, dopo la componente di Area democratica e le sottocomponenti che la animavano, i franceschiniani staccandosi dal corpaccione popolare hanno dato vita alla prima sottosotto-componente. Fioroni porterà il grosso dei suoi a sostenere il documento, mentre Franceschini è ormai il più stretto alleato di quel D’Alema che aveva così aspramente avversato durante il congresso.

Il segretario del Pd non vuole certo morire “occhettiano” e potrebbe accettare l’idea di non essere lui il (perdente) candidato premier troniani, popolari, parisiani e rutelliani (senza Rutelli) nel sostegno congressuale a Fraceschini contro Bersani. Negli ultimi mesi Area democratica s’era ritrovata un paio di volte a Cortona, per cercare di mettere insieme una corrente organizzata che non disperdesse i contenuti su cui si era qualificata la candidatura franceschiniana. Missione impossibile dopo che Franceschini aveva accettato di fare il capogruppo alla Camera e, insieme, il leader della minoranza interna. Difatti l’ambiguità è durata po-

scere, prima o dopo, un redde rationem. Che ci sarà, ufficialmente, la settimana prossima con una riunione delicatissima di Area democratica. Franceschini aveva, infatti, convocato dal 21 al 24 ottobre ad Amalfi la terza kermesse di Area democratica che, visti gli sviluppi, rischia clamorosamente di saltare. Si vedrà la settimana prossima. Anche Piero Fassino, che era stato il coordinatore della mozione Franceschini, giudica negativamente il documento Veltroni-Fioroni. Anche se in questi giorni è parecchio impegnato ad occuparsi della babele torinese: nonostante sia chiaramente il più forte dei possibili successori di Chiamparino che il centrosinistra può proporre, la sua candidatura è, in città, fortemente contrastata. Il vecchio paradosso di Tafazzi.

di Antonio Funiciello

Neppure Franco Marini firmerà il documento VeltroniFioroni, ma il vecchio lupo marsicano non pare aver avuto successo nel tentativo di tenere un po’ di popolari su una linea di maggiore prudenza.

I popolari appoggeranno l’iniziativa, producendo una ulteriore spaccatura tra gli ex democristiani confluiti nel Pd, dopo le rotture degli anni passati di Enrico Letta e Rosy Bindi. La stessa rivalità tra Fioroni e Franceschini andava avanti da troppo tempo per non cono-

«Serve una scossa per tornare ai livelli del 2008»

Repubblica tv: l’intervento ROMA. Walter Veltroni assicura che la sua iniziativa di presentate un documento non ha l’obiettivo «di segare l’albero ma di puntellarlo» perché al Pd serve «una scossa» per risalire dal 24,6% che gli attribuiscono gli ultimi sondaggi. In un lungo intervento a Repubblica tv, l’ex segretario del Pd rivendica anche i risultati ottenuti quando era lui alla guida dei Democratici: «Ribadisco che quello del 2008 fu un successo politico e una sconfitta per la sfida di governo e oggi guardando quel 34% lo si vede. Quando mi sono dimesso c’era un lavoro per segare l’albero, io invece non cerco di segare albero ma di puntellarlo. Non metto in discussione la leadership, per me il segretario è Bersani, mentre ricordo che poco prima del voto in Sardegna fu messa in discussione esplicitamente la mia leadership, con candidature

altre, a me invece interessa la politica del Pd». «Il Pd a cui io pensavo e penso - spiega ancora Veltroni - può essere il Pd di Bersani basta solo aprire le braccia, non chiudersi, non arroccarsi, raccogliere tutte le energie messe in campo con le primarie, oggi i rapporti politici sono in movimento, ma le alleanze sono più facili se sei più forte, altrimenti rischiano di essere disperate. Noi dobbiamo presentarci dicendo votate per noi e governiamo per cinque anni, ma la condizione è che ci sia un Pd forte, ambizioso, aperto, che apra le braccia, io sento il rischio che si chiuda, e che la cosa migliore da fare col 24,6% sia gettare l’olio su chiunque», quindi «se la mia iniziativa è una scossa, come ha scritto qualche giornale, lo è per ricominciare a camminare non per fare male».

Bersani, da par suo, guarda preoccupato a quanto accade nel suo partito. Malgrado D’Alema, Letta e Bindi non perdano occasione per ribadire che il segretario è naturalmente il candidato premier, l’ex ministro continua a schernirsi, muovendosi con prudenza. La malelingue del Nazareno non perdono occasione di interpretare l’appoggio incondizionato che i suoi alleati interni gli rivolgono, come un modo per accollargli la molto probabile sconfitta elettorale e chiedergli subito dopo di farsi da parte. Non sarebbe la prima volta e Bersani non è nato ieri. Se, infatti, egli dovesse capeggiare uno schieramento formato da Pd, Radicali, Socialisti, Verdi, Sinistra e libertà, Di Pietro, Federazione comunista e magari grillini, difficilmente l’Udc di Casini accetterà di fare parte dell’impresa. Si riprodurrebbe, a conti fatti, non tanto lo schema dell’Unione, quando quello del cartello dei Progressisti capeggiati da Occhetto che perse amaramente le prime elezioni bipolari della storia patria nel lontano 1994. Bersani non vuole morire occhettiano e, quindi, potrebbe accettare l’idea di non essere lui il (perdente) candidato premier, per non essere spodestato il giorno dopo la sconfitta. La partita nel Pd si complica. I prossimi giorni, con la Direzionale nazionale del partito convocata nel fine settimana, saranno decisivi per misurare in nuovi equilibri interni e prospettare gli scenari futuri.


diario

17 settembre 2010 • pagina 7

Tra le aziende coinvolte, Emmelunga, Aiazzone Network srl, Emmedue

Dopo le polemiche legate a «Sanremo» e «Grande Fratello»

A Roma,sessanta perquisizioni a commercialisti e imprese

L’Antitrust blocca il televoto dai call center

ROMA. Sessanta perquisizioni, che hanno determinato altrettanti iscrizioni nel registro degli indagati, avvenuti in studi di commercialisti e in sedi di importanti imprese che operano a livello nazionale sono stati svolti ieri dalla Guardia di Finanza, nell’ambito di un’indagine aperta dalla Procura di Roma che procede per ipotesi del reato di violazione della legge in materia di imposte e sul valore aggiunto. Tra le aziende sottoposte a perquisizione ci sono la Aiazzone Network srl, Visa Diffusione Moda, Emmedue, Emmecinque, Emmelunga e Conad del Tirreno.Tra gli studi visitati dagli investigatori anche quello dell’attuale presidente della Confcommercio di Roma Cesare Pambianchi. A dirigere le indagini sono i pubblici ministeri Francesco Ciardi e Maria Francesca Loi coordinati dal procuratore aggiunto Nello Rossi.

ROMA. Grande Fratello, X-Factor, Sanremo, Miss Italia: show e spettacoli televisivi Rai e Mediaset che hanno in comune una cosa, ovvero che il vincitore del concorso lo scelgono i telespettatori tramite il televoto. E le truffe sono in agguato. Sotto forma di acquisto di voti tramite call center e aziende simili, come si è visto in molte occasioni che sono finite anche sulle prime pagine dei giornali, con tanto di titolari degli esercizi che ammettevano candidamente di aver venduto “pacchetti” di voti telefonici. Alla faccia di chi da casa partecipava votando soltanto una volta, come imporrebbero i regolamenti. Per questo l’Antitrust, con due lettere formali inviate

A determinare l’indagine, il tentativo di evitare evasioni fiscali attraverso il trasferimento all’estero di società in pericolo di dissesto per evitare non solo la bancarotta fraudolenta ma, come prevede il codice fallimentare evitare il fallimento. Il magistrato procede per violazione dell’articolo 11 del decreto 1974/2000 che punisce con la

Terzo polo: la Sicilia diventa il laboratorio D’Alia spiega la stagione nuova della giunta Lombardo di Franco Insardà

ROMA. «Noi rimaniamo al centro, fedeli agli elettori». La posizione del presidente dei senatori dell’Udc, Gianpiero D’Alia, alle prime avvisaglie di fronda da parte di alcuni esponenti siciliani, è stata subito chiara. E l’esponente centrista aggiungeva che «ogni dissenso è legittimo. Che Cuffaro, Mannino e Romano pensino sia necessario cambiare linea nel rapporto con Berlusconi, è un problema loro e non certo di tutti i siciliani». Oggi che il quadro è più chiaro D’Alia si conferma come il punto di riferimento dell’Udc nell’isola. Senatore D’Alia che cosa succede in Sicilia? Il problema vero è che cosa accade in Italia. Il presidente del Consiglio ha aperto una stagione di caccia ai parlamentari dell’opposizione e, quindi, si è rivolto anche a quelli del nostro partito. Alcuni, pochi per la verità, sembrano subire il fascino di Berlusconi. Il senatore Quagliariello ha dichiarato che il Pdl non è alla ricerca di qualche deputato Udc. Forse non si è sentito con Berlusconi, che la pensa in modo molto diverso. Lo strappo di Romano, Mannino, Drago, Ruvolo e Cuffaro la preoccupa? Affatto. L’Udc ha un voto consolidato e la maggioranza dei nostri elettori, come confermano anche i sondaggi, è d’accordo con la scelta di andare da soli. Tra questi ci sono, ovviamente, anche i siciliani e, quindi, non c’è motivo di preoccupazione. E le minacce che l’Udc perda i consensi in Sicilia? Quando ci si colloca sul mercato l’obiettivo è quello di vendere la propria merce, rendendola più grande e più bella di quanto non sia. Questo fa parte del gioco. Fascino di Berlusconi o scelta politica? Loro hanno espresso una linea politica che non è quella votata da nostri elettori. Il segretario regionale dell’Udc Saverio Romano, qualche giorno fa in un’intervista, ha dichiarato di non poter spiegare ai suoi elettori un’al-

leanza diversa da quella con Berlusconi. Questa posizione mi fa ritenere che non abbia portato consensi all’Udc nelle ultime elezioni politiche, dal momento che il nostro partito ha sempre dichiarato che non ci saremmo schierati né con Berlusconi né con Veltroni, ma saremmo andati da soli con Casini. La nostra linea non è mai cambiata, cosa che invece hanno fatto questi amici affascinati dal Cavaliere. Lei non ha avuto tentazioni scissioniste? Io sono geneticamente connaturato ai cristianodemocratici, mi verrebbe difficile pensare a una cosa diversa. Quanti dell’Udc siciliano condividono la sua scelta? Ogni giorno che passa molti, con documenti e comunicati, dichiarano la prosecuzione del loro impegno con il nostro partito. Martedì il governatore Raffaele Lombardo presenterà la sua nuova giunta: l’Udc ci sarà? Lo vedreremo. Lombardo ha dichiarato di voler formare una giunta di tecnici, valuteremo le persone indicate dal governatore e quali saranno i programmi. La vecchia logica degli organigrammi, che ha fatto soltanto male alla Sicilia, non ci interessa. Se dovesse fallire quest’altro tentativo di Lombardo si andrà a elezioni anticipate in Sicilia? Sono convinto che si riuscirà a formare la giunta e ci sarà una maggioranza in grado di sostenerla. La Sicilia diventa quindi un laboratorio politico per il Terzo polo? In Sicilia c’è una grande voglia di cambiamento che attraversa tutti i partiti, Udc in testa. Noi vogliamo essere una forza moderna e riformista vera anche alla Regione. Dobbiamo assecondare questa voglia di cambiamento. Udc, Mpa, finiani e Api rappresentano la maggioranza? Certamente è una maggioranza che asseconda la sensibilità dei siciliani e la loro voglia di cambiamento.

«Nell’isola c’è voglia di cambiamento. L’Udc vuole essere una forza moderna e riformista vera anche alla Regione»

reclusione da 6 mesi a 4 anni chiunque, per non pagare imposte sui redditi e sul valore aggiunto o altre pene e sanzioni amministrative, aliena o compie atti fraudolenti sui propri e su beni altrui idonei a rendere inefficace la riscossione coattiva. Come si è detto sono state fatte 60 perquisizioni e a finire nel mirino degli investigatori, per quanto riguarda gli imprenditori, sono coinvolti nell’indagine tra gli altri Giampiero Palenzona, Renato Semeraro, Gian Mauro Borsano con i suoi figli Giovanni e Margherita che operano nel settore dell’arredamento, Marco Adami, Guido e Michele Di Veroli imprenditori edili.

a Mediaset e Rai al termine delle verifiche effettuate dopo avere ricevuto numerose segnalazioni di consumatori, relative al Festival di Sanremo e al Grande Fratello, ha chiesto di escludere le utenze business dal meccanismo del televoto. «Ci aspettiamo che le due società si adeguino alle nostre indicazioni – dichiara il Presidente Antonio Catricalà – perché altrimenti saremmo costretti ad aprire due procedure sanzionatorie. Il meccanismo del televoto deve essere trasparente: il voto degli spettatori che seguono una trasmissione invogliati anche dall’idea di potere contare nella scelta di un candidato non può essere falsato, nemmeno potenzialmente, dai voti che arrivano dai call center».

Secondo quanto ricostruito dall’Autorità l’attuale meccanismo rende infatti possibile, da parte di operatori specializzati del settore, l’effettuazione di un numero molto rilevante di telefonate, per esprimere preferenze già predeterminate su specifiche scelte. Queste preferenze, quindi, potrebbero non essere una manifestazione delle simpatie del pubblico dei telespettatori ma espressione di accordi di acquisto di interi (a.d’a.) pacchetti di televoto.


economia

pagina 8 • 17 settembre 2010

Recessione. Per il 2010 ci sono margini per far salire il Pil all’1,2% Ma l’evasione fiscale ha raggiunto livelli «sbalorditivi»

Una ripresa evasiva Confindustria fa i conti della crisi: senza grandi riforme, il peggio arriverà il prossimo anno di Gianfranco Polillo vevamo scritto più volte sulla fragilità della ripresa che si è manifestata, nell’economia italiana, nei primi sei mesi dell’anno. Ed ora, puntuale come l’autunno, arriva il responso del Centro studi di Confindustria. Come l’autunno, perché l’inverno si può ancora evitare, a condizione che si esca dalle attuali turbolenze parlamentari e la politica torni a fare il suo modesto mestiere, ponendo un limite alle pur legittime aspirazioni personali per occuparsi, di nuovo, dei gravi problemi del Paese. Letta in controluce, questa è la diagnosi di base su cui ruota il ragionamento complessivo dell’Organizzazione imprenditoriale italiana. «L’estate – è detto nel report – ha accumulato nuovi dubbi sugli sviluppi dell’immediato futuro. La messe di statistiche congiunturali è stata più scarna di notizie positive e fa presagire un rallentamento. È legittimo il timore che la frenata sia determinata dal prevalere di venti contrari che impedi-

A

scono il consolidamento e l’audella fase tosostenibilità espansiva».

Sembra un epitaffio, su quello che poteva essere ed invece non è stato. Esiste tuttavia ancora una debole speranza. Non è il nostro inveterato ottimismo a parlare, ma i dati stessi citati dal Centro studi, a conferma della propria tesi. Nel 2010, il Pil italiano crescerà, sempre secondo quelle previsioni, dell’1,2 per cento. Più che un auspicio è quasi una certezza, visto che finora la cosiddetta crescita acquisita è dello 0,9 per cento, come certificato dall’Istat. A quel traguardo manca, quindi, poco. Se ancora reggerà la congiuntura internazionale, non dovrebbe essere difficile raggiungere quella soglia. Soglia che è, seppure leggermente, superiore alle previsioni di inizio anno che indicavano valori ben più bassi. Meglio di niente e non solo per quel che riguarda le condizioni dell’economia reale. Da quel piccolo gradino – una differenza che varia tra lo 0,4 e lo 0,2 – do-

Chi è Luca Paolazzi, il direttore amato-odiato del Centro Studi

Quant’è solo l’uomo dei numeri (primi) di Emma di Alessandro D’Amato

vrebbe venire anche un piccolo ristoro per le debilitate finanze pubbliche italiane. Un aiuto al contenimento del deficit e del debito. Più incerte sono invece le prospettive per il prossimo anno. La crescita potrebbe essere dell’1,3 per cento e non dell’1,6 per cento, come precedentemente indicato. Una bassa marea che impedisce alla navicella italiana di prendere il largo. Se così fosse – dice sempre Confindustria – ci vorranno anni – l’appuntamento è per il 2013 – per ritornare ai livelli di reddito che precedettero la crisi. Un’eternità.

Non sarà facile reggere questo ritmo, specie sul fronte sociale. Si sono già persi – queste le stime – 450 mila posti di lavoro. Alla fine dell’anno il tasso di disoccupazione sarà pari all’8,7 per cento, per crescere ancora, fino al 9,3 per cento, l’anno successivo. Occupazione, quindi, con il “freno tirato”. Le previsioni sono al ribasso (meno 1,8 per cento nel 2010) con un leggero sollievo

Emma Marcegaglia parla agli associati durante la scorsa assemblea di Confindustria. Sotto, Luca Paolazzi, direttore del Centro Studi

ROMA. «La manovra triennale del Governo poggia per oltre quattro quinti su misure di contenimento della spesa primaria. Una doppia sfida, mai riuscita prima in Italia, che comporta un’inevitabile alea di sovrastima, oggi non valutabile, dell’efficacia degli interventi». E ancora: «Il rischio è quello di dover ricorrere a nuove misure fiscali, acuito dal passaggio del federalismo fiscale. C’è il rischio di una sottostima delle erogazioni che si renderanno necessarie per completare le opere pubbliche già in cantiere e per mettere mano a quelle promesse». Parole e musica del Centro Studi Confindustria diretto da Luca Paolazzi, e si parla della Finanziaria 2008 presentata da Giulio Tremonti in epoca ancora pre-crisi (anche se i grandi scossoni stavano arrivando). Una stroncatura bella e buona, quella che veniva dal “direttore dei numeri” di viale dell’Astronomia, ma che acquistava tutto il suo valore ricordando che appena il giorno prima la prima manovra dell’attuale governo era stata promossa a pieni voti niente popò di meno che da Emma Marcegaglia, ovvero, il capo di Paolazzi.

E non finisce qui: in epoche ancora più recenti Paolazzi si è preso anche del «corvo anti-italiano». A definirlo così, senza nominarlo, il ministro a-sua-insaputa


economia

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cinando. Né questa prospettiva può essere allontanata con la ricetta Fiom. Vale a dire maggiori rigidità e blocco degli straordinari. Il costo del lavoro, in Italia, cresce molto più della produttività. Introdurre ulteriori vincoli nell’utilizzazione degli impianti, significa uccidere quel piccolo volano – la ripresa delle esportazioni – che da solo ha “fatto”il Pil del secondo trimestre dell’anno in corso.

Di fronte ad una realtà così complessa, l’economia italiana ha reagito in due modi diversi. Le aziende che avevano filo per tessere si sono ristrutturate e conquistato nuove posizioni di

L’occupazione ormai ha il freno tirato: si sono già persi - queste le stime 450 mila posti di lavoro. Alla fine dell’anno, il tasso di disoccupazione sarà pari all’8,7%, per crescere ancora, fino al 9,3%, l’anno successivo

(più 0,4 per cento) l’anno successivo. Esiste, infatti, un bacino di forza lavoro inutilizzata che fa da tappo all’ingresso nel mercato delle nuove leve. Ugualmente alto il ricorso alla Cassa

integrazione: 475 mila unità di lavoro nel 2010, contro le 335 del 2009. Diminuirà, seppure lentamente, solo a partire dal 2011. Non c’è da stare allegri. L’Italia vantava un primato, nei

Claudio Scajola, che durante un incontro su Fiat organizzato dalla Cisl, rispondendo alle previsioni di peggioramento del Pil dal -1,9% al -2,5% (fatte a febbraio): «Nessuno può dire oggi se queste previsioni saranno confermate, tantomeno quei centri studi nazionali che si compiacciono di diffondere il pessimismo, rivedendo siste-

confronti internazionali. Era riuscita a combattere meglio di altri la piaga della disoccupazione, che negli Stati Uniti è prevista al 10 per cento. Oggi questi valori si stanno pericolosamente avvi-

Nato nel 1958, laureato in economia politica alla Bocconi e per oltre 20 anni al Sole 24 Ore, professore universitario a Palermo e un’esperienza breve ma significativa – dal 1984 al 1986 – al Centro Studi della Fiat, Paolazzi non ha bisogno di presentazioni: per lui parlano i numeri. Quel-

Portato a viale dell’Astronomia da Montezemolo, lo studioso ha sempre divulgato previsioni che poi si sono rivelate esatte. Soprattutto quando non coincidevano con quelle del governo maticamente al ribasso di un mezzo punto percentuale le stime effettuate dagli istituti internazionali. Basta con questi corvi che passano per strada». All’epoca pure Maurizio Sacconi si unì al coro: «Anche sulle stime sui tassi di disoccupazione c’è qualcuno che si esercita nel piacere del peggio». Un redivivo Totò che vuole la patente di jettatore? Mica tanto: nel frattempo quell’anno il Pil è calato di cinque punti percentuali (come previsto poi da Confindustria nelle stime successive), mentre Scajola non è più ministro dello Sviluppo. E i tassi di disoccupazione sono quelli di Confindustria, non quelli – ottimistici – del governo.

li che dal centro studi di Confindustria fanno spesso irritare i governi in carica, ma poi si rivelano giusti e corretti, anche se nessuno si scusa. All’organizzazione degli imprenditori approda nell’ottobre 2007, mentre Luca Cordero di Montezemolo è al timone, e tutti ne parlano come di un uomo vicino al presidente di Fiat e Ferrari. Di sicuro, i rapporti con lui sono buoni ancora oggi, mentre quelli con la Marcegaglia, si sussurrava, lo erano meno. Si sussurrava talmente tanto che a un certo punto (il 9 giugno 2008) il Corrierone lo annuncia chiaro e tondo: «Nuovi arrivi in Viale dell’Astronomia, Emma Marcegaglia aggiusta la squadra. Dopo il commia-

mercato. Altre si sono semplicemente inabissate. Il peso del sommerso è infatti notevolmente cresciuto. Le nuove stime parlano di un 20 per cento del Pil. Addirittura il 27 per cento, se si esclude la pubblica amministrazione. È un Mezzogiorno – e lì che si concentrano queste attività – che continua a regredire, accentuando gli squilibri territoriali. Un malessere che monta e

to di Carlo Calenda, nei prossimi giorni toccherà al Centro Studi. Luca Paolazzi chiuderà la parentesi confindustriale per tornare al Sole 24 Ore. Del resto Luca Cordero di Montezemolo, dopo l’ uscita di Sandro Trento, voleva un interinato, per lasciare poi la mano alla nuova presidenza. Che non ha perso tempo. E, accogliendo le istanze della base, che in più occasioni ha chiesto di potenziare il think tank confindustriale, ha scelto il nuovo capo: nome top secret fino all’ultimo, anche perché gli ultimi accordi sono in via di definizione, ma arriverà nei prossimi giorni. Cognome straniero e “profilo” da ricercatore». Da allora sono passati più di due anni, e Paolazzi è ancora lì. Evidentemente è riuscito a convincere anche Emma, sia che non c’era bisogno di alcun «cognome straniero» per dirigere un centro studi che va già benissimo, sia che forse è il caso di aggiustare un po’ il tiro sul governo che «non c’è», come ha detto – e poi rettificato – la presidente degli industriali. In tempi di Centri studi schierati e schieratissimi, e mentre persino i numeri delle istituzioni finiscono per essere messi in dubbio, c’è chi taccerà anche Paolazzi di antiberlusconismo. Peccato, perché se lo è, il suo è l’unico antiberlusconismo serio: quello dei numeri.

che rischia di trasformarsi in un boomerang di carattere politico. Lo si è visto in questi giorni nella dialettica parlamentare e nella tentazione di dar vita ad un Partito del sud che faccia da argine allo strapotere – presunto o reale che sia - della Lega Nord. È un pericolo che non va sottovalutato. Può innescare una deriva corporativa che, specie in vista del federalismo fiscale, frantumi quel che resta dell’Unità nazionale. Naturalmente se aumenta il peso del sommerso, cresce anche la pressione fiscale a discapito di chi le tasse, volente o nolente, è costretto a pagarle. Le cifre, indicate da Confindustria, sono da capo giro: per il 2009 parlano di una pressione fiscale effettiva di oltre il 54 per cento. Quasi 4 punti in più delle stime, ancora fresche di stampa, dello scorso giugno. Nulla a che vedere con le cifre ufficiali che la riducono (43,2 per cento) di oltre 10 punti. A fronte, dice Confindustria, levasione fiscale ha raggiunto livelli «sbalorditivi»: le risorse sottratte ogni anno alle casse dello Stato raggiungono i 125 miliardi, secondo i calcoli del centro studi.

Che conclusione trarre da questa diagnosi? Si parlerà di eccesso di pessimismo. Di una realtà di tutti i giorni che fa a pugni con le cifre ufficiali. Si illustreranno i mille esempi di un consumo gaudente: dai ristoranti ai viaggi all’estero. Ma le cifre sono quelle che sono. Esse hanno un riscontro nelle elaborazioni dei principali centri internazionali. Anche quelle sarebbero sbagliate? Ne vogliamo citare solo una. Fonte Eurostat: l’istituto europeo di statistiche cui spetta il compito di controllare, con un metodo uniforme, i dati di tutti i paesi europei. Nel 2000 il Pil pro-capite degli italiani, corretto per la diversità del potere di acquisto, era superiore (2,8 per cento) alla media dei paesi che compongono l’Europa a 15. A distanza di dieci anni siamo sotto di circa 7 punti, con una caduta (9,4 per cento) ben superiore. Non è stato solo un fenomeno italiano. La stessa Francia ha subito una sorte analoga con una flessione, comunque molto più limitata, del 2,9 per cento. Ma tutte le altre economie – Germania, Spagna e Inghilterra – sono andate avanti. Possiamo, quindi, consolarci imprecando contro il traffico – ma dove prendono i soldi gli italiani? – o contro le fila in qualche negozio a la page. Non sarebbe, tuttavia, consigliabile. Meglio guardare in faccia la realtà per affrontare una situazione difficile, ma non impossibile. Sempre che prevalga a tutti i livelli – politici, sociali ed istituzionali – un minimo senso di responsabilità nazionale. Altrimenti lo stillicidio delle cattive notizie continuerà e noi daremo la colpa al termometro, invece di curare la malattia che fa alzare la sottostante temperatura.


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panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Povere scuole di Napoli senza sostegno a scuola napoletana non solo non riesce a garantire il diritto (dovere) allo studio, ma anche le aule, i banchi, il giusto numero di insegnanti di sostegno. L’anno scolastico non poteva iniziare peggio sia per gli alunni sia per i docenti. E, come accade spesso e volentieri in questi casi, il ministro è accusato di essere il responsabile di tutti i mali del mondo della scuola. Se fosse così, i problemi del sistema dell’istruzione avrebbero già una soluzione: cambiare il ministro. Invece, cambiano i ministri ma la scuola non cambia mai se non in peggio. Tuttavia, le cose che accadono al Sud non sembra si verifichino al Nord.

L

Gli edifici scolastici non sono belli a vedersi e non sono sicuri a starci dentro. In questi casi, però, prendersela con il ministro - chiunque sia non ha senso: lo stato e le condizioni delle scuole materne ed elementari dipendono dai Comuni, mentre degli istituti di scuola secondaria sono responsabili le Province. In fondo è questo un principio federalista ante litteram: gli enti locali curano le scuole del territorio. Invece, tanto per ricordare il caso della provincia di Napoli, è noto che ben la metà degli edifici scolastici non è a norma e il 30 per cento ha bisogno di interventi urgenti. Dunque, se scuole, istituti, edifici non sono in buone condizioni è perché le amministrazioni locali non curano gli interessi della scuola come invece ne curano altri molto secondari dal punto di vista civile ma primari per tornaconto politico e clientelare. E vero che due anni fa a Rivoli è morto un ragazzo in aula per il crollo del controsoffitto, ma non dimentichiamo che a San Giuliano di Puglia per il lieve sisma del Molise venne giù un scuola materna e 27 bambini morirono con la loro maestra. Una brutta storia che non appartiene agli eventi delle calamità naturali ma ai fatti della vita civile meridionale perché quella scuola fu costruita in modo scriteriato. Se la responsabilità dello stato degli edifici è degli enti locali, il reclutamento e l’utilizzazione del personale docente dipende dal ministero. Sennonché, le cose sono un po’ più complicate di quanto non si immagini. L’ingresso nel mondo scolastico può avvenire in molti modi e, purtroppo, l’amministrazione dell’assistenza degli alunni disabili è un capitolo triste della vita scolastica perché questo tipo speciale di insegnamento è utilizzato (anche) come cavallo di Troia: si entra a scuola come insegnante di sostegno si presta servizio per alcuni anni in quel ruolo e poi si accede al canale dei docenti di ruolo. Con il risultato, però, che si ingrossano oltremisura le fila del corpo docenti e si crea un buco nell’organico dei professori di sostegno. Non è raro, inoltre, che in una gestione allegra delle graduatorie il docente di sostegno sia impiegato al posto sbagliato. Come a dire che il sostegno è per il docente e non per il disabile. In questi casi, la vera responsabilità del ministro non è da ricercarsi nei tagli, ma nella mancanza di controlli.

«Il welfare del futuro? Quello delle opportunità» Economia e sussidiarietà secondo Stefano Zamagni di Franco Insardà

ROMA. «È scontato dire che l’economia debba fare i conti con l’etica, perché l’una è una costola dell’altra. La questione vera è quella di stabilire quale matrice etica è la più adeguata per affrontare i problemi economici». È da qui che secondo l’economista Stefano Zamagni, presidente dell’Agenzia delle Onlus e tra i principali consulenti di Joseph Ratzinger per l’enciclica Caritas in veritate, bisogna partire per tradurre nella realtà il concetto di sussidiarietà e superare «un welfare statalistico e un’economia mercatistica». Quante sono le matrici etiche dell’economia? Fondamentalmente quattro: l’utilitaristica, la contrattualistica, la deontologica e l’etica delle virtù. Da dove partire? La crisi di questi ultimi anni ha dimostrato che l’etica utilitaristica, basata sul principio che il bene di un singolo deve confliggere con quello degli altri senza preoccuparsi delle conseguenze e con l’idea che una qualche mano invisibile trasformi l’egoismo in bene collettivo, non è più adeguata alle esigenze del progresso dei nostri sistemi economici. È stata smentita sia dalla storia sia dalla riflessione teorica. Risultato? Ritengo che la strada da seguire debba essere quella dell’etica delle virtù, basata su un concetto opposto: ognuno deve perseguire il proprio bene, ma insieme con quello degli altri. Quali sarebbero le conseguenze? Accettare questo indirizzo comporta delle grosse implicazioni a livello sociale, economico e politico, perché il Parlamento dovrà legiferare seguendo questo indirizzo, superando le troppe differenze di vedute e norme spesso sono contraddittorie e ambigue. E sul piano economico? Accettare l’etica della virtù come base del discorso economico vuol dire rinnegare l’impostazione statalistica che finora è stata data al nostro welfare. Questo modello aveva delle motivazioni storiche, ma oggi siamo nelle condizioni di cambiare. In che modo? Bisogna che entri in gioco la società civile organizzata in condizione di parità con l’ente pubblico e con la business community. Questi attori vanno coordinati, stabilendo le modalità che in alcune

parti d’Italia sono state applicate con successo. E così superare la logica seconda la quale il welfare deve servire per migliorare le condizioni vita delle persone. Invece? Il welfare deve servire per migliorare le capacità di vita. Come si concilia con il rapporto tra Stato e mercato? In Italia si passa da un eccesso all’altro: dalle posizioni neoliberali a quelle neostataliste. In tutti e due i casi ci troviamo di fronte a posizioni inapplicabili. Da soli, il mercato e lo Stato non ce la possono fare. Per questo motivo bisogna sviluppare un pluralismo delle forme d’impresa che passa per la modifica del libro I titolo II del Codice civile. Parliamo della riforma Alfano-Sacconi? Se ne discute da qualche mese ed era stata preparata dal precedente governo. Prevede un pluralismo delle forme istituzionali d’impresa, senza alcuna discriminazione, da quelle profit, alle sociali, alle non profit e a quelle che hanno una motivazione ideale. Qual è l’obiettivo? Riconoscere al non profit gli stessi diritti delle altre imprese economiche a partire dall’accesso al credito. Come vede il futuro della nostra economia? Siamo a un punto di svolta, perché le persone sono stufe di questa situazione e hanno bisogno di ideali e valori. Ma quali sono le prospettive della sussidiarietà? Occorre distinguere tra il modello universalistico e quello particolaristico. Nel primo i corpi intermedi della società devono avere lo spazio che meritano però la loro azione deve essere rivolta a tutti. Il modello particolaristico si basa su principi ideali e si rivolge soltanto a quei cittadini che condividono quei principi ideali. Collegata a questa distinzione c’è quella tra il primo welfare, quello statale, e il secondo integrativo. Nel senso che ci si chiede che tipo di sussidiarietà bisogna applicare ai due welfare.Tutti parlano di sussidiarietà senza specificare se si riferiscono al modello universalistico o a quello particolaristico. E la confusione regna sovrana come accade per il federalismo.

La strada da seguire è quella dell’etica delle virtù: ognuno deve perseguire il proprio bene, ma insieme con quello degli altri


panorama

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L’ad del Lingotto e John Elkann presentano la nuova operazione: «Finalmente l’auto è libera da escavatrici e trattori»

La terza rivoluzione di Torino Dopo Chrysler e guerra sindacale, ecco il via libera ufficiale allo scorporo di Fiat Auto di Vincenzo Bacarani pin off vuol dire in inglese, quasi letteralmente, “al di fuori”. Con l’operazione approvata ieri a larga maggioranza dagli azionisti, la Fiat Auto torna a essere una società indipendente e dedicata esclusivamente, come ai tempi del mitico Senatore e di Valletta, all’automobile. È tramontata, insomma, l’era romitiana della grande holding, delle scatole cinesi, della Fiat che a un certo punto si occupava anche di assicurazioni furto e incendio e di cioccolatini. «Ofelé fa ’l to mesté» («Pasticciere fai il tuo mestiere») soleva dire Gianni Agnelli prendendo in prestito un proverbio piemontes-lombardo quando gli proponevano operazioni di investimento su aziende di altri settori. Come dire: ciascuno faccia quello che sa fare veramente. Ma ragioni di mercato, che in genere equivalgono quasi alla ragion di Stato, hanno invece portato la Fiat a partire dagli anni Ottanta – nonostante le perplessità dell’Avvocato - a costruire un gigante che spaziava in tutti i rami commerciali. Risultato: una crisi alle soglie del Duemila che è costata una perdita di un miliardo di lire al giorno, una prospettiva nera di chiusura di stabilimenti e di perdite di migliaia di posti di lavoro.

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Ieri, l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne ha quasi completato la sua opera di riassetto dell’azienda. Dopo l’operazione di acquisto di Chrysler (operazione portata a termine senza tirar fuori di tasca un centesimo, ma vendendo know-how), dopo lo sparigliamento attuato sul fronte caldo sindacale italiano con la disdetta, da lui telecomandata, del contratto metalmeccanici, l’ad del Lingotto passa a una nuova fase di assestamento della più grande industria italiana. Le motivazioni ufficiali e di facciata sono il rilancio del settore auto, lo svincolo da legami e lacciuoli che la gestione di una holding impone. In realtà la motivazione principale è rappresentata dai debiti. Fiat Auto, dopo questa operazione, avrà un indebitamento netto consolidato di 1,5 miliardi di euro, mentre Fiat Industrial

(cioè il resto del gruppo costituito da Cnh macchine agricole, Iveco veicoli commerciali e Fpt Industrial and Marine) di 10 miliardi di euro. Fiat Auto, dunque, può liberarsi di gran parte dei debiti accumulati dalle altre società del gruppo e dunque avrà più possibilità di stringere nuove alleanze e di procedere, per-

anni, frenato dalle perdite e dai debiti di altre componenti del colosso torinese così come l’aveva disegnato negli anni Ottanta Cesare Romiti.

È la rivoluzione di Marchionne, un supermanager che alcuni degli imprenditori del settore auto non esitano a paragonare al “guru” del-

La nuova società avrà meno debiti di quella vecchia e soprattutto molta più liquidità: condizioni ottimali per stringere altre alleanze ché no?, a nuove acquisizioni tipo Chrysler. Sulle spalle del settore auto non graveranno più le perdite di esercizio di altri settori. «Finalmente – lo ha detto lo stesso amministratore delegato - l’Auto è libera dalle escavatrici e dai trattori», una dichiarazione che fa trasparire quanto il settore Auto sia stato a lungo, soprattutto in questi ultimi

l’informatica Steve Jobs della Apple, forse a causa dei maglioni che entrambi prediligono rispetto al look tradizionale di giacca e cravatta, oppure a causa dei continui colpi di scena nelle scelte strategiche. Lo spin off rappresenta quasi una sorta di rivoluzione nel sonnacchioso pianeta industriale italiano, una rivoluzione che avrà effetti su

Lo «spin off» votato dall’85,4% dei soci

Tre ore per un sì TORINO. Sono bastate tre ore ai soci Fiat per dire di sì, a larga ma non larghissima maggioranza, con una percentuale di sì pari all’85,4%, mentre i no sono stati il 15,4%, oltre a una piccola quota di astenuti. Ogni azionista riceverà un’azione Fiat Industrial per un’azione Fiat posseduta. Il processo di scorporo si completerà entro fine anno, Fiat Industrial a approderà Piazza Affari dal 3 gennaio 2011. Le due società si spartiranno il debito industriale in parti uguali, 2,5 miliardi a testa, con una liquidità di 10 miliardi per Fiat e di 3 miliardi per Fiat Industrial. L’obiettivo per Fiat è di crescere da 22 a 64 miliardi di euro di fatturato da qui al 2014 e per Fiat Industriali da 19 a 29 miliardi nello stesso arco temporale. La cosa più importante però, come ha sottolineato Elkann, è la possibilità di «dar vita a due Fiat, forti, con ambizioni, obiettivi e persone pronte a

realizzarli». Marchionne invece è tornato sulle motivazione dello scorporo di attività «profondamente diverse tra loro», che finora non era stato effettuato «perché era in corso un processo di risanamento. Adesso però questo processo è completato e continuare a tenere insieme settori così diversi ha perso la propria ragion d’essere. Questo è il momento giusto per procedere alla scissione. I due gruppi che emergeranno dalla scissione avranno una maggiore libertà di azione, anche nel caso si presenti la possibilità di stringere alleanze». La più importante di queste, naturalmente, è quella con Chrysler, dove Fiat potrebbe salire al 35% del capitale. Nessuna intenzione invece di abbandonare l’Alfa Romeo, per la quale si era parlato di un interesse da parte di Volkswagen».

tutti i campi, non ultimo quello del mondo del lavoro. Lo scorporo del settore auto della Fiat, infatti, non inciderà soltanto sulla politica di sviluppo industriale e sulle quotazioni di Borsa, ma avrà effetti innovativi anche nel settore dei rapporti sindacali. La Fiom-Cgil guarda con apparente indifferenza a questa operazione epocale, concentrandosi invece su litigi e presunte violazioni contrattuali dell’azienda commettendo così un errore strategico, mentre le altre organizzaioni sindacali cercano di capire quali effetti potrà avere sull’occupazione un’operazione del genere. Lo scorporo del settore auto

dagli altri settori significa per Marchionne una maggiore libertà di azione e significa per la Fiat Auto una infinita possibilità di collaborazioni e sinergie in grado di competere con aziende automobilistiche straniere che hanno una produttività e una capacità di commercializzazione ben maggiore dell’azienda torinese. Lo spin off, in sostanza, è il terzo grande passo che l’amministratore delegato del Lingotto ha deciso di fare. Gli altri due precedenti sono stati: acquisizione di Chrysler e modifica sostanziale e robusta delle normative contrattuali sindacali. Quale sarà il prossimo passo?


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iamo a fine estate, ma il pensiero su Shakespeare non può fare a meno di correre laddove la calda stagione viene celebrata dal Bardo; ovvero dove l’elemento marino diventa preponderante nella narrazione, come avviene in Pericle, Principe di Tiro o anche nel grande dramma di Antonio e Cleopatra. Il Sogno è forse il primo capolavoro dell’Autore, dove anche l’impatto metateatrale - il “teatro nel teatro”, che è uno dei più grandi leitmotiv di Shakespeare - si esprime già nella piena maturità, creando come suo pendant una compagnia di attori, guidata dall’esuberante, esilarante capocomico Bottom, che sembra anticipare quella degli Scalognati di Pirandello nei Giganti della montagna. E il Sogno è stato sempre salutato da un grandissimo successo, che ha ispirato anche la celebre versione musicale di Mendelssohn, con la marcia che quasi sempre viene suonata anche nelle cerimonie nuziali della nostra epoca.

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il paginone

La commedia è probabilmente il primo capolavoro del Bardo,

Essere, n Significato e funzione della dimensione onirica nella celebre opera di Shakespeare “Sogno di una notte di mezza estate”

Ma anzitutto dobbiamo rilevare come per la prima volta nella storia del teatro il motivo del sogno assurga non solo a titolo ma anche come materiale di riflessione che, nella drammaturgia posteriore a Shakespeare, diverrà sempre più ricorrente: basti pensare a La vita è sogno di Calderon, Il sogno è una vita di Grillparzer, Il Principe di Homburg di Kleist, La Torre di Hofmannsthal, il Doppio Sogno di Schnitzler, la Rappresentazione di un sogno di Strindberg, il Sogno, ma forse no di Pirandello, il Calderon di Pasolini, insieme a tante altre creazioni che poi, nel cinema, si sono ancor più sedimentate; e qui non possiamo dimenticare la splendida ed eccitante versione di Woody Allen A Midsummer Nigth’s Sex Comedy. Ma il sogno shakespeariano si coniuga con l’estate, e questo conferisce un’aura di leggerezza e una magica aleatorietà che non lascerà mai l’officina dell’Autore, e lo supporterà in tante sue grandissime creazioni, dal sogno della regina Mab in cui esploderà la fantasia di Mercuzio in Romeo e Giulietta (testo pervaso di analogo onirismo), fino alle fate e agli elfi de La Tempesta. L’ambientazione della commedia ci riporta nella Grecia shakespeariana: Teseo, il duca d’Atene, annuncia le sue nozze con la bella Ippolita, regina delle Amazzoni. Ma sopraggiunge il nobile Egeo, la cui figlia Ermia è stata promes-

di Franco Ricordi

sa a Demetrio ma si è innamorata di Lisandro. Così la vicenda degli innamorati si evolverà dall’Atene classica nel “bosco di mezza estate”, dove incontreremo anche la suddetta maccheronica compagnia teatrale. Ma qui è ancor più significativa la traccia di un anelito all’India, alla Grande Madre del Velo di Maya, che in effetti risulta anche parte essenziale dell’intreccio: il conflitto fra il re e la regina delle Fate, Oberon e Titania - che sta al centro della collisione nella commedia - è causato dal fatto che

quest’ultima si sia presa come paggio un bel ragazzo rubato ad un re indiano; il paggio è gelosissimamente custodito da Titania, e quando Oberon le chiede esplicitamente di dargli quel ragazzo, lei risponde: «Mettiti il cuore in pace, il regno della Fate non basta a comprare da me quel fanciullo». Così Oberon si vendicherà del rifiuto di Titania attraverso il suo “aiuto”, il Puck, che come tutti ricordano verserà sulla bella addormentata un liquido magico che la farà innamorare della prima cosa che vedrà al suo risveglio, la famosa testa d’asino di Bottom. Da questi e da ulteriori indizi si può arguire come l’anelito per la sapienza indiana - che passa anche attraverso l’intercessione delle amazzoni mediorientali presenti nel testo - siano uno dei principali riferimenti attraverso cui si può interpretare il Sogno; e non è un caso che Arthur Schopenhauer, il filosofo occidentale che per primo ha fatto riferimento alla sapienza indiana nel suo capolavoro Il mondo come volontà e rappresentazione, abbia poi citato proprio Shakespeare e il Sogno per indicare il senso dell’apparenza che inganna; così, pur non toccando mai la terra indiana nelle sue opere teatrali, il Bardo di Stratford attinge quella tematica che Schopenhauer per primo consegnerà alla filosofia occidentale, attraverso i Veda, i Pura e le Upanisad, e che non a caso il regista Peter Brook (grande interprete e allestitore del Sogno) vorrà attingere attraverso un cele-

bre spettacolo sul Mahabharata: «È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista né che non esista, perché ella rassomiglia al sogno... e meglio di tutti l’ha compreso Shakespeare».

E così accadrà alla bella Titania quando, al risveglio, si troverà davanti la testa d’asino, con tutte le implicazioni erotiche che tale sovrapposizione comporta (l’asino è nella mitologia l’animale più dotato). Ma è evidente come nel corso della commedia, già dal finale del I atto quando i quattro giovani innamorati, Lisandro, Demetrio, Elena ed Ermia si rincorrono disperati nel bosco di Atene, l’essenza del sogno si scontri in maniera frontale con le prerogative e l’impossibilità dell’amore. Anche su di loro il Puck ha versato lo stesso liquido magico e l’inadeguatezza del sesso con l’amore, che arriverà fino alle narrazioni nichiliste di Milan Kundera, sembra qui presagita proprio nella fatuità di tutti gli innamoramenti e contro-innamoramenti, in particolare nell’estrema passione di Titania per il suo “Asino d’oro” che il Bardo sa ben rubare ad Apuleio, sempre con un occhio nei confronti delle amatissime Metamorfosi di Ovidio. E in questo modo entriamo per la prima volta in quella “seconda vita durante la vita”che per Shakespeare rappresenterà un motivo drammaturgico costan-


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, dove anche il leitmotiv del “teatro nel teatro”, si esprime già nella piena maturità

non essere o sognare? A sinistra, uno scatto di una rappresentazione teatrale del “Sogno di una notte di mezza estate”. A destra, un’immagine della casa di Shakespeare. In basso, tre moderne locandine della celebre commedia del Bardo. Nella pagina a fianco, un’illustrazione del drammaturgo

Per la prima volta, le “visioni” notturne ed estive descritte dall’autore assurgono non solo a titolo ma anche a materiale di riflessione che, nella drammaturgia posteriore a Shakespeare, diverrà sempre più ricorrente te, anche nella sua riflessione più alta. Non possiamo dimenticare come lo stesso dubbio di Amleto trovi il suo limite proprio nell’essenza del sogno: «Morire, dormire, forse sognare... ah qui è lo scoglio; che in quel sonno di morte, che sogni possano venire, quando abbiamo già lasciato questa veste mortale...». Il sogno è per Shakespeare il tramite fra l’essere e il non-essere, quella zona di confine oltre alla quale non possiamo sapere, non possiamo accedere, il mistero dell’esistenza. Ma il sogno è anche una materia ben precisa che, se per lui diventerà oggetto di ulteriori narrazioni e riflessioni teatrali, si tramuterà artisticamente nella celluloide del secolo XX, nella possibilità propria soltanto del cinema di una visione assoluta che ci irretisce e ci avvince nel fantastico. E cer-

to si potrebbe immaginare come anche la magia del cartone animato, dove la fantasia si coniuga con la parossistica possibilità della visione, abbia origine in questo straordinario “sogno spettacolare shakespeariano”: basti pensare ad un film di animazione come il celebre Fantasia, e alla possibilità che il Sogno stesso fosse realizzato con la leggerezza e insieme lo sconvolgimento visivo del cartone animato. Tuttavia nel teatro non è così: Shakespeare non lavora sopra una materia cinematografica, anche se le sue ombre potrebbero essere la sua luce e origine prima. Egli ci dirà proprio all’apice della sua carriera, per bocca di Prospero, come noi «siamo della stessa materia di cui sono fatti i sogni, e la nostra piccola vita è cinta di sonno».

Dunque il sogno è in qualche modo una “materia”, la materia più autentica della nostra vita, per lo meno un materiale di cui il poeta drammatico si serve per elaborare la quintessenza del teatro. E in effetti una grande parte delle sue opere si può dire intrisa di quello che oggi potremmo chiamare materiale onirico, il tramite fra l’essere e l’apparenza, fra illusione e realtà. Siamo già alla psicoanalisi, o per lo meno alla Traumdeutung, l’interpretazione dei sogni di Freud. E non c’è dubbio che in Shakespeare il sogno sia e rimanga l’elemento di evanescenza, di transitorietà, anche nella mancanza del ricordo; ma poi anche nelle impenetrabili visioni, ovvero nell’incubo che gli spettri procurano ai dormienti. Sotto questo aspetto Shakespeare anticipa anche Kleist, e il bellissimo quadro di Fuessli con Titania e la testa d’asino sembra quasi un tramite fra i due poeti. La poetica di Kleist e Fuessli - che come noto è stato il più grande Shakespeare’s painter - ci

aiuta pure a comprendere bene l’essenza del Puck, il fondamentale “aiuto regista” che ci congeda alla fine. Questi è stato spesso paragonato, più che a un folletto, ad un vero e proprio demonio dei sogni. E si dovrà ricordare come la parola inglese dream derivi dal tedesco traum, alla stessa maniera in cui nightmare proviene da nachtmahr. Ma “incubo” si può dire in tedesco anche Albtraum, ovvero “sogno causato dagli elfi” (Alb). E la mitologia descrive gli elfi che si posano sul petto dei dormienti, e che in questa maniera sono causa dei loro incubi: esattamente come vediamo nel celebre quadro di Fuessli, L’incubo. Così il Puck può essere interpretato proprio come quel coboldo magico, quel demone leggero e maligno, che di notte va a visitare uomini e donne analogamente alla Queen Mab di Mercuzio. Attraverso il Sogno Shakespeare fonda l’officina teatrale che proseguirà per tutta la sua grande avventura poetica: la leggerezza comica con cui si produrranno gli attori improvvisati della recita di “Piramo e Tisbe” non è una dichiarazione di impotenza del teatro, ma al contrario l’attestazione della sua precarietà ma anche finitezza esistenziale: quella stessa metafora che sarà ribadita in tono tragico da Macbeth.

E se Harold Bloom ha scritto che dobbiamo considerare Freud come un “pensatore shakespeariano”(che secondo lui non aveva il “complesso di Edipo”quanto il “complesso di Amleto”), a maggior ragione siamo tenuti a considerare la grande opera di Freud come il seguito della più autentica filosofia shakespeariana. Una filosofia che non si è mai espressa attraverso trattati, ma che dall’elaborazione del Sogno in poi ha infranto le barriere fra ricerca sistematica e ispirazione poetica. E attraverso il congedo del Puck si apriranno le porte di quello che sarà il “teatro del sogno”: come afferma il Principe di Homburg: «Che altro è se non un sogno»?


mondo

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Pakistan. Bhatti, ministro federale per le minoranze, è da anni nel mirino degli estremisti islamici: «Pronto a morire per la giustizia nel mio Paese»

La denuncia di Shahbaz «La legge sulla blasfemia è divenuta uno strumento di tortura. Va eliminata prima che vengano massacrate le minoranze» di Vincenzo Faccioli Pintozzi a tempo ricevo telefonate minatorie da parte di estremisti islamici del mio Paese che minacciano di uccidermi. Ma questo non mi impedirà di continuare il mio lavoro per le minoranze del Pakistan.Voglio che la situazione migliori per coloro che soffrono, e ringrazio il Papa e il ministro Frattini per l’impegno espresso a favore della libertà religiosa». Shahbaz Bhatti, Ministro federale per le minoranze del Pakistan e uno degli attivisti per i diritti umani più attivo dell’Asia meridionale, racconta a liberal la situazione della sua nazione – tormentata dal fondamentalismo islamico e da una sempre più instabile situazione politica – a poche ore dalla fine della sua visita ufficiale in Italia.

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Di recente Bhatti, di fede cattolica, è stato minacciato perché ha chiesto giustizia per le vittime di Gojra e per il suo impegno parlamentare volto all’abolizione della controversa legge sulla blasfemia. Il 30 luglio scorso migliaia di fondamentalisti islamici hanno assaltato il villaggio di Koriyan, bruciando 51 case cristiane. Il primo agosto, almeno tremila estremisti hanno preso di mira la comunità cristiana di Gojra, bruciando vive sette persone (tra cui due bambini e tre donne) ferendone diciannove e incendiando un centinaio di abitazioni. Il ministro, che è anche presidente di All Pakistan Mi-

norities Alliance (Apma), spiega: «Il governo è a conoscenza delle minacce dei fondamentalisti. Essi ci vogliono colpire perché facciamo del nostro meglio per assicurare protezione e giustizia alle vittime di Gojra e per la battaglia in Parlamento volta all’abolizione di tutte le leggi discriminatorie nel Paese». Bhatti ribadisce «di non essere spaventato da questi atti codardi» e conferma di «rimanere saldo nella mia missione: lottare per la parità dei diritti delle minoranze e una loro posizione rispettabile in seno alla società». Il ministro, parlamentare cattolico di lungo corso, è

Dal 1986 al 2010 almeno 993 persone sono state incriminate per aver profanato il Corano o diffamato il profeta Maometto. Fra questi 479 erano musulmani, 120 cristiani, 340 ahmadi, 14 indù e 10 di altre religioni stato nominato dal governo Zardari “Ministro pakistano per la difesa delle minoranze”. La nomina è arrivata nella notte di domenica 2 novembre, era il 2008, e per la prima volta la carica è stata equiparata agli altri dicasteri che formano l’e-

secutivo. In passato la tutela delle minoranze era affidata a una figura di rango inferiore, che doveva lavorare alle dipendenze di un Ministro della squadra di governo.

Bhatti, insieme ai membri che formano il nuovo esecutivo, ha prestato giuramento di fronte al presidente Asif Ali Zardari nel corso di una speciale cerimonia che si è svolta il 3 novembre a Islamabad. Volontari, lavoratori e simpatizzanti dell’Apma in diverse zone del Pakistan hanno festeggiato distribuendo dolciumi e danzando al ritmo dei tamburi. L’associazione si è sempre battuta per promuovere l’unità, il dialogo interreligioso, la giustizia sociale, i diritti umani e la libertà religiosa per tutte le minoranze del Paese: dai cristiani agli indù, dai sikh ai parsi, senza distinzione alcuna. Dopo aver prestato giuramento, il neo-ministro ha sottolineato di aver accettato la carica «per difendere le comunità oppresse ed emarginate del Pakistan» e di aver dedicato la propria vita «alla battaglia per l’uguaglianza, la libertà religiosa e i diritti delle minoranze». Egli aggiunge di voler «lanciare un messaggio di speranza per quanti vivono nella sofferenza e nel dolore». Per svolgere al meglio il compito, dice a liberal, si è affidato «a Cristo, il nucleo centrale della mia vita. Anche in questi giorni romani, ho avuto la certezza di essere nel giusto. Ho incontrato Benedetto XVI,

Shahbaz Bhatti, cattolico, è divenuto ministro del governo Zardari nel novembre del 2009. Rischia la vita per le sue denunce ma non come ministro; mi sono presentato a lui come un figlio, e le sue parole e la sua testimonianza mi hanno incoraggiato e continuano a sostenermi nella mia lotta contro le discriminazioni». Shahbaz Bhatti ha fondato il movimento di ispirazione cristiana Apma nel 1985 e fra le sue prime battaglie c’è la lotta contro la legge sulla blasfemia, introdotta nel 1986 e usata per reprimere le minoranze religiose del Paese con un particolare riferimento alla comunità cristiana, la più colpita dalla nuova normativa.

La legge sulla blasfemia è il peggior strumento di repressione religiosa in Pakistan: essa è

Fotostoria di un massacro

L’autore della legge

1986: il dittatore pakistano Zia-ul-Haq promulga la legge

Le prime proteste

1990: la prima manifestazione contro il reato di blasfemia

Il vescovo martire

1998: il vescovo John Joseph si uccide contro gli abusi legali

stata introdotta nel 1986 dal dittatore pakistano Zia-ul-Haq per difendere da offese e ingiurie l’islam ed il suo Profeta, Maometto, ed è ormai diventata uno strumento di discriminazioni e violenze.

La norma è prevista alla sezione 295, comma B e C, del Codice penale pakistano e punisce con l’ergastolo chi offende il Corano; essa prevede anche la condanna a morte per chi insulta il profeta Maometto. Le accuse a carico dei – presunti – blasfemi sono spesso false o motivate da interessi meschini, generano scandali e spingono folle inferocite a farsi giustizia. Anche se arrestati in base al-

La piccola vittima

1998: la prima bambina cristiana a subire le conseguenze del decreto

Il pogrom del Punjab

2002: Gojra è teatro dei primi scontri contro i “blasfemi”


mondo

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Dal 1984 a oggi sono morti 107 ahmadi, 719 sono stati arrestati. Ora, al rientro in Pakistan, «è mia intenzione proporre leggi a tutela dei diritti delle minoranze. Aumenterò gli sforzi per promuovere l’unità e la comprensione reciproca per contrastare l’intolleranza, l’odio, il pregiudizio e la violenza. Io voglio ringraziare il presidente Zardari e il premier Raza Gilani, perché riconoscono il valore delle minoranze all’interno degli equilibri del Paese, dando un senso di parità nei diritti di tutte le componenti della società pakistana». La sua fede cristiana lo aiuta: «L’ho abbracciata sin da piccolo, toccato dal racconto del sacrificio di Cristo per il suo popolo». In gioventù

Rashid e Sajid Masih Emmanuel, due fratelli cristiani a processo con l’accusa di blasfemia, sono stati uccisi a luglio a colpi di arma da fuoco all’uscita del tribunale. Sarebbero stati dichiarati innocenti

l’accusa di un solo testimone, i malcapitati rischiano violenze e torture dalla polizia.

Diversi giudici – su pressione delle folle, aizzate dai locali mullah – hanno comminato la pena di morte anche senza alcuna prova contro gli accusati. Insieme con le ordinanze Hudood – regole strette di diritto penale che, basate sul Corano, puniscono anche con la flagellazione e la lapidazione i comportamenti incompatibili con la legge islamica come adulterio, gioco d’azzardo, uso di alcol – la legge sulla blasfemia fornisce l’esempio di una legislazione fra le più settarie e fondamentaliste, oltre che essere un

Arresti a catena

2004: la polizia porta via un uomo accusato di blasfemia

modo per procedere verso la radicale islamizzazione del Paese. Secondo i dati della Commissione nazionale di Giustizia e Pace della Chiesa cattolica (Ncjp), dal 1986 al 2010 almeno 993 persone sono state incriminate per aver profanato il Corano o diffamato il profeta Maometto. Fra questi 479 erano musulmani, 120 cristiani, 340 ahmadi, 14 indù e altri 10 di altre religioni.

Essa costituisce anche un pretesto per attacchi, vendette personali o omicidi extra-giudiziali: 33 in tutto, compiuti da singoli o folle inferocite. Dal 2001 a oggi, sempre secondo Ncjp, almeno 50 cristiani sono

Il giardiniere eretico

2006: un colpo alla testa uccide un giardiniere ahmadi

stati uccisi utilizzando come pretesto la legge sulla blasfemia. A questi si aggiungono quelli delle altre minoranze religiose del Paese, oggetto di violenze da parte di estremisti musulmani che, in alcuni casi, finiscono per colpire anche i fedeli dell’islam. La comunità ahmadi, confessione di ispirazione musulmana che non riconosce Maometto come ultimo profeta, considerata per questo eretica da sunniti e sciiti, dichiara che nel 2009 sono stati uccisi almeno 12 fedeli.

Le scuole dell’odio

ha organizzato incontri mirati allo studio della Parola di Dio, prima di dedicare la propria vita alla difesa delle minoranze. Numerosi i riconoscimenti ricevuti nel corso degli anni, fra i quali il premio per la Libertà religiosa ricevuto in Finlandia nel 2003, il premio per la Pace,

Il secondo pogrom

insignitogli da una organizzazione americana nel 1998 e un premio per la lotta a favore dei diritti umani in Canada l’anno successivo. Nella sua attività parlamentare non ha mai dimenticato di far sentire la voce degli emarginati e degli oppressi, dei quali ha promosso i diritti in ogni sua battaglia politica.

Ora, racconta a liberal, «sono pronto a qualsiasi sacrificio per il popolo, sono pronto perfino a versare l’ultima goccia di sangue: queste minacce non mi fermeranno». In Pakistan, sottolinea, «sono presenti alcune frange che sono contro la pace e l’armonia sociale, ma dobbiamo combatterle con coraggio. Ci sono loro dietro l’assassinio dei due fratelli cristiani, uccisi sulle scale del tribunale che li ha dichiarati innocenti». Il riferimento è a Rashid Emmanuel e Sajid Masih Emmanuel, i due fratelli cristiani a processo con l’accusa di blasfemia uccisi a luglio a colpi di arma da fuoco all’uscita del tribunale. Un commando di sconosciuti ha colpito all’esterno del tribunale di Faisalabad, nel Punjab. I due uomini, ammanettati, dovevano rientrare in carcere al termine dell’udienza, che li aveva riconosciuti innocenti. Era da giorni che la comunità cristiana della città aveva lanciato l’allarme, nel timore di nuovi attacchi. I musulmani avevano promosso una manifestazione di protesta, in cui chiedevano la condanna a morte per i due fratelli cristiani. Il delitto è stato una vera e propria esecuzione mirata. I due uomini erano ammanettati e sono risultati un facile bersaglio per i fondamentalisti; durante l’attacco è rimasto ferito anche un poliziotto, poi salvatosi. Bhatti, per aver chiesto alle autorità di fare giustizia sull’accaduto, ha riceuto diverse richieste di dimettersi dal suo incarico. Ma questo, conclude con liberal, «non avverrà, non per questi motivi. Io continuo sulla mia strada, ringrazia chi ci aiuta e spero che la situazione possa migliorare il prima possibile. È necessario che la giustizia trionfi, anche e soprattutto nel Pakistan dei giorni nostri».

“Libertà”religiosa

2007: per un’inchiesta, le madrasse 2009: Gojra torna al centro della Oggi: le chiese dei cristiani sono centri di reclutamento cronaca. Un altro raid la distrugge vengono piantonate dall’esercito


quadrante

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Diplomazia. Il Medioriente si mobilita per giocare un ruolo chiave ui prodest? A chi giova, verrebbe da chiedersi, la ripresa dei colloqui tra israeliani e palestinesi? Da parte occidentale, sappiamo che gli Stati Uniti hanno pressato per questo, in vista delle elezioni di novembre e per dare nuovo lustro alla loro posizione di superpotenza mondiale, capace non solo di fare la guerra, ma anche di spendersi per la pace. Nel suo ermetismo, la dichiarazione del presidente dell’Anp, Abu Mazen, spiega molto di più di quanto non facciano tante analisi geopolitiche. «Ai colloqui non c’è alternativa, per questo devono continuare», ha detto ieri il leader palestinese a margine del summit con il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton. Sforzi che, finalmente, sono stati percepiti come inevitabili anche da parte del governo israeliano. Da sottolineare è anche l’interesse, in seno al mondo arabo, che le pericolose frizioni vissute nel corso di quest’anno vengano riassorbite. Certo, in questo caso non abbiamo a che fare con un soggetto monolitico e unanimemente interessato alla chiusura del capitolo “pace in Medioriente”, secondo le linee che si stanno delineando. Al contrario, è la frammentazione a caratterizzare lo scenario dei governi regionali. Tuttavia, in antitesi con questo quadro, emerge un fil rouge confortante.

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In questi giorni, si è tenuta la 134 esima sessione della Lega Araba a livello dei ministri degli Esteri dei Paesi membri. Per quanto non si possa dire che durante il vertice siano stati affrontati i problemi strutturali che dividono il mondo arabo, comunque l’avvenimento ha fatto emergere una volontà di intenti comune. Come ha detto Abu Mazen, anche per

A chi serve il Summit israelo-palestinese? Dall’Egitto all’Arabia Saudita, dal Libano alla Siria: tutti vogliono “sfruttare” i Colloqui di Antonio Picasso

volta, sta cercando di approfittare di questa fase di recupero di ossigeno in cui versa l’Egitto per scalzarlo definitivamente e guidare la cordata dei Paesi del Golfo persico alla guida della Lega. Così facendo, oltre al governo del Cairo, ci rimetterebbero anche quello giordano e quello siriano. Se le redini del processo di pace israelo-palesti-

Amman ha riconosciuto Israele e ha consolidato i rapporti con i palestinesi. Ora chiede che questi due la ripaghino per l’impegno i Paesi arabi i colloqui sono l’unica soluzione. L’Egitto ha bisogno di rimarcare la sua leadership di fronte all’Arabia Saudita. Le voci che circolano sulla salute malferma del suo Presidente, Hosni Mubarak, possono essere fugate solo con un successo diplomatico del Cairo. La ripresa dei negoziati, per i quali in passato la potenza nordafricana si è spesa in modo esplicito, costituiscono la migliore occasione di rilancio della sua immagine. La monarchia saudita, a sua

nese passassero nelle mani dei potenti e ricchi emirati del Golfo - i quali già vantano la propria visibilità internazionale nel settore petrolifero - le coste mediorientali del Mediterraneo perderebbero sensibilmente quel valore che, già ora, resta limitato alla questione dei negoziati. Giordania, Libano e Siria non hanno le risorse petrolifere dei sauditi oppure del Qatar. La questione palestinese è per loro un volano di attenzione e di sopravvivenza. Sia il piano egiziano sia

Occhi puntati sul prossimo vertice della Sirte

E la Lega Araba si prepara Prossima fermata: summit della Sirte. La 134 esima riunione dei ministri degli Esteri dei Paesi membri della Lega Araba si è chiusa mercoledì al Cairo, confermando l’appuntamento tra qualche settimana, nella città libica, per il tradizionale incontro semestrale al quale prenderanno parte i Capi di Stato e di Governo. L’unione collegiale dei Paesi arabi ha manifestato una rara ma virtuosa linea di azione comune nell’ambito del processo di pace israelo-palestinese. Si tratta di un caso che vanta pochi precedenti nella storia della Lega, dalla sua fondazione, nel 1945, a oggi. Creata con l’obiettivo di risolvere in senso comunitario le problematiche del mondo arabo e stabilire una linea di concertazione fra le diverse cancellerie, la Lega è risultata

spesso la cassa di risonanza dei conflitti e delle rivalità fra i singoli membri. Le divisioni tribali e le incomprensioni di carattere religioso si sono dimostrate molto più inossidabili della diplomazia, squisitamente di carattere occidentale, che i suoi fondatori avrebbero voluto iniettare in Medio Oriente. La Lega Araba avrebbe potuto fare da apripista ad altre organizzazioni collegiali, per esempio l’Unione Europea oppure quella africana. Così non è stato. Oggi la concorde visione di appoggiare, seppur con riserva, i negoziati di pace fra Abu Mazen e Netanyahu va contro la tradizionale inefficacia della Lega. Per questo ne merita il plauso. Tenendo presente però che tutte le altre problematiche regionali restano ancora aperte. (a.p.)

le ambizioni di Riyadh, però, hanno un punto debole. Il Cairo rischia di pagare lo scotto della separazione in casa dell’Anp. Fatah e Hamas continuano a evitare un confronto. Se i negoziati arrivassero a un risultato positivo, Abu Mazen potrebbe essere comunque sconfessato dall’opposizione che il movimento islamico gli sta facendo ormai da anni. Il valore degli accordi presi verrebbe meno e i relativi promotori, appunto Mubarak, ne subirebbero i contraccolpi. Il tallone d’Achille dei sauditi risiede invece nella scarsa fiducia che re Abdullah e il suo governo riscuotono in sede palestinese. Hamas, si sa, si appoggia ostinatamente all’Iran. Una posizione che, a priori, esclude la possibilità che l’Arabia si assuma l’incarico di mediatore fra il movimento islamico da un lato e al-Fatah dall’altro, o peggio ancora Israele.

Abu Mazen, da parte sua, è convinto che l’intero mondo arabo - ma soprattutto gli emiri del Golfo - sfruttino la questione palestinese come specchio per le allodole. Evitando che si giunga a un accordo con Israele, si evita di affrontare gli altri nodi che sono propri del mondo arabo-islamico e che nessuno intende toccare perché non appaiono prioritari. Al di là di questi bizantinismi, la posizione della Giordania e della Siria è molto più chiara. Lo stesso vale per il Libano. Beirut quanto Damasco si stanno spedendo per mantenere quei delicati equilibri attuali che potrebbero portare a una stabilità interna che i due governi non vivono da tempo. Nel Paese dei Cedri l’esecutivo presieduto da Saad Hariri, supportato anche da Hezbollah, non ha neanche un anno di vita. Affinché si possa parlare di un Libano “normale” nella sua politica domestica, è necessario che le criticità esterne non lo mettano in crisi. Il presidente siriano, Bashar el-Assad, poi, è rientrato solo da due anni nell’agone della diplomazia internazionale. Un successo ancora precario per il quale - così com’è Hariri - Assad non può permettersi fiammate di violenza, intifada, o addirittura conflitti aperti. Infine abbiamo la Giordania. Dopo tanti anni di sforzi, mediazioni, sorrisi e strette di mani, re Abdallah II vuole il suo tornaconto. Amman ha riconosciuto Israele e ha consolidato i buoni rapporti con i palestinesi. Ora chiede che questi due la ripaghino per l’impegno dimostrato.


quadrante

17 settembre 2010 • pagina 17

Domani seggi aperti per votare l’Assemblea nazionale

Il “partito dei lavoratori” rompe la tregua unilaterale

L’Afghanistan torna alle urne temendo brogli eattacchi talebani

Turchia, il Pkk ritorna attivo: attentato al bus e 12 morti

KABUL. Domani gli afgani si recheranno alle urne per rinnovare l’Assemblea nazionale, un anno dopo le elezioni presidenziali, falsate da brogli massicci, che hanno sancito la conferma del presidente Hamid Karzai. Le operazioni di voto si svolgeranno proprio mentre l’insurrezione islamica continua a intensificare i suoi sforzi per costringere le forze internazioanli a lasciare il paese. In ogni caso, la futura composizione dell’Assemblea non cambierà molto la fisionomia di un paese in cui il presidente concentra nelle sue mani tutto il potere e non è in grado, al momento, di restare saldo al suo posto senza la presenza dei circa 150mila soldati delle forze internazionali. Più di 2.500 candidati sono in corsa per i 249 seggi della Wolesi Jirga, la Camera bassa del parlamento. In totale saranno 68 gli scranni riservati alle donne. Sarà il secondo scrutinio legislativo a suffragio universale dalla caduta dei talebani a fine 2001.

ANKARA. L’approvazione della nuova Costituzione turca non ha fermato la scia di sangue che attraversa da un decennio il Paese. Ieri mattina, infatti, si è verificato un attentato sulla strada tra i villaggi di Durankaya e Gecitli nella provincia di Hakkari, nel sud-est della Turchia nella zona popolata dai curdi non lontana dal confine con l’Iraq. Un’esplosione ha investito un pulmino carico di persone. Secondo le ricostruzioni dell’avvenuto, poi mandate in onda dalla Cnn turca, le vittime sono state almeno dodici. Il dubbio è però d’obbligo, dato che probabilmente alcuni dei passeggeri erano proprio curdi e, quindi, non sono stati identificati subito dalle autorità

Più di 10,5 milioni elettori sono chiamati alle urne, ma il 15% degli uffici di voto dovrebbe rimanere chiuso perché collocati in aree con condizioni di sicurezza insufficienti. I risultati preliminari sono attesi per il 22 settembre, quelli definitivi

Un colossale affare per Barack Obama L’enorme commessa d’armi aspetta l’ok dal Congresso di Pierre Chiartano

WASHINGTON. Sembra che possa diventare l’affare del secolo. Una vendita d’armi mai conclusa in precedenza e per una cifra stratosferica: 60 miliardi di dollari. È quello che si accinge a fare l’amministrazione Obama sul mercato saudita. Una colossale fornitura di armamenti alla famiglia dei Saud, messa in crisi dal ritiro americano delle truppe combattenti dall’Iraq. Lunedì, se ne era occupato il Wall Street Journal, con una anticipazione sui tipi di equipaggiamento oggetto della vendita. Oltre a questo affare sarebbero aperte ulteriori trattative per la vendita di sistemi difensivi navali e antimissilistici. Chiaramente la Casa Bianca ha sottolineato subito le ricadute occupazionali di questa mega transazione. Sarebbero circa 75mila i posti di lavoro creati dalla commessa diretta nella Penisola arabica. Il grosso della fornitura riguarderebbe dei modernissimi velivoli da caccia ed elicotteri da combattimento. Naturalmente un affare del genere richiede l’autorizzazione del Congresso che dovrebbe essere presentata questa settimana o la prossima. La trattativa tra Riad e Washington era nota da tempo, ma non erano conosciuti i dettagli e soprattutto l’ammontare della commessa. Nell’autorizzazione richiesta dalla Casa Bianca ci sono 84 nuovi caccia F-15 e un aggiornamento per altri 70 velivoli, già in possesso dell’aeronautica saudita. Inoltre saranno venduti tre tipi di elicotteri: 70 Apache da combattimento, vere e proprie cannoniere volanti; 72 Black Hawks, mezzi da trasporto truppe e multi-ruolo; e 38 MD MH-6 Little Birds, una versione da attacco aggiornata degli Hughes 500 (ora McDonnell Douglas), in Italia costruiti anni fa dalla Breda-Nardi (e ancora in dotazione alla Guardia di finanza). In linea teorica non dovrebbero esserci problemi nell’iter parlamentare, ma non è escluso che qualcuno possa sollevare dei problemi su di una così ingente vendita di armamenti per il Medioriente. Soprattutto se dovesse tornare in mentea qaulcuno che 15 dei 19 attentatori dell’11 settembre avevano in

tasca un passaporto saudita. Indiscrezioni danno per ancora aperte le trattative tra i due Paesi e il contratto potrebbe essere rimpinguato anche con unità navali di superficie per il controllo costiero. Gli Usa inoltre vorrebbero che i sauditi acquistassero nuovi sistemi di difesa missilistica per ridurre la minaccia iraniana. Il sistema Thaad e un aggiornamento dei Patriot, potrebbero essere presi in considerazione dal Paese arabo.

Il Thaad, che significa Terminal high altitude defense, è un sistema che crea una barriera contro vettori a corto e medio raggio, proveniente da dentro e fuori l’atmosfera. Si basa su vettori senza testata esplosiva, che funzionano solo con la forza cinetica da impatto, nella fase terminale della rotta d’avvicinamento al bersaglio. È nato come difesa contro missili della generazione degli Scud, ma può anche essere utilizzato contro middili intermedi. Utilizzano radar a banda X di ultima generazione. La fornitura, se si dovesse svolgere in questi termini, sarebbe comunque una grossa boccata d’ossigeno per l’industria americana della difesa, visto anche che, dal 2007, Riad aveva cominciato a guardare anche al mercato europeo e russo degli armamenti per rifornire i propri arsenali. Un ritorno all’ovile che non può che gratificare l’amministrazione Obama. E non sarebbero in pochi a stappare lo champagne a Washington. Rafforzare l’areonautica saudita è nell’interese americano, per meglio contrastare la forza area iraniana, che oggi ha in linea un numero maggiore di velivoli, ma decisamente meno moderni ed efficenti. Sono 300 gli apparecchi di fabbricazione russa dei mullah, cui si aggiungono qualche decina di vecchi F-14 comprati dallo Scià. Con la fonitura anche di alcuni Typhoon inglesi, i sauditi potrebbero contare su un’arma area di straordinarie capacità. Anche se, occorre dirlo, i piloti sauditi, non sono conosciuti per essere particolarmente addestrati.

Sarebbero circa 75mila i posti di lavoro creati negli Usa, dalla fornitura di materiale militare all’Arabia Saudita

entro il 31 ottobre. Ma a 24 ore dallo scrutinio, oltre 3mila schede elettorali false, stampate in Pakistan, sono già state sequestrate nella provincia di Ghazni, nel centro del paese. La campagna elettorale, iniziata il 23 giugno, si è trasformata spesso in una campagna di intimidazione da parte dei talebani, che hanno ripetutamente invitato gli afgani a boicottare il voto con ogni mezzo. Almeno tre candidati sono stati assassinati e decine di attacchi sono stati compiuti contro cittadini impegnati nella promozione del voto, senza contare le violenze quotidiane che non hanno cessato di moltiplicarsi negli ultimi tre anni.

turche. Secondo il governatore di Hakkari, Muammer Guler, i morti sono infatti otto con tre feriti gravi, tra cui un bambino. Ancora costrastanti le modalità dell’attentato: secondo alcune fonti il veicoli è saltato su una mina, secondo altre l’esplosione si è verificata a bordo del mezzo che viaggiava.

L’attentato giunge a pochi giorni dal sì al referendum costituzionale che rafforza i poteri del governo, in questo caso il partito islamico del premier Erdogan, nei confronti della magistrature e dei militari. I guerriglieri curdi del Pkk - il Partito dei lavoratori del Kurdistan, guidati per anni dalla “tigre” Ocalan - lo scorso mese avevano dichiarato una tregua unilaterale sino al 20 settembre. Il problema è che le autorità turche, fortemente militarizzate soprattutto in questa parte del Paese, non vogliono sentire parlare nè di tregua nè di cessate il fuoco. Impaurite dall’eventualità di un ingresso dal Kurdistan iracheno - che briga per l’indipendenza da Baghdad approfittando della guerra in corso - le autorità di Ankara puntano a usare il pugno duro contro ogni recrudescenza indipendentista nell’area. Attesa per un pronunciamento del governo.


il caso

pagina 18 • 17 settembre 2010

Sulle tracce di Wojtyla supererà ogni “fosco presagio”

L’arma della sincerità sedurrà gli inglesi di Luigi Accattoli ontro i rumori della vigilia prevedo che tutto andrà bene con la visita di Papa Benedetto in Gran Bretagna: la sua parola diretta, il suo procedere schietto, l’incontro con le vittime degli abusi, il grande gesto della beatificazione del cardinale Newman, la sua predicazione del Dio di Gesù Cristo in una delle capitali della secolarizzazione occidentale avranno uditori e risulteranno efficaci. Le contestazioni, che facilmente occupano la ribalta in attesa dell’ospite, resteranno un fenomeno marginale.

C

Quattro sono le ragioni di una previsione positiva che immagino di poter elencare in quest’ordine di influenza, dalla più vicina alla più lontana nel tempo: la personalità mite e ferma dell’ospite che farà breccia anche nei critici, il precedente beneaugurante di Papa Wojtyla che passò in Gran Bretagna sei giorni felici tra il maggio e il giugno del 1982, la grande attesa dei cattolici inglesi che sono pochi ma hanno un grande spirito di Chiesa, la loro secolare e persecutoria lontananza – e quasi forzata astinenza – dai Papi e dal Papato che deve ancora essere soddisfatta. Per prima metto l’indole dell’ospite. Egli procede disarmato e non tace i problemi. Ha detto ieri in aereo che questo è un tempo in cui gli uomini di Chiesa devono essere umili, fare penitenza e «reimparare

l’assoluta sinSe cerità». uno un poco conosce lo spirito britannico, già coglie che questa attitudine la avrà

meglio su molte prevenzioni. Il Papa incontrerà un gruppo di vittime degli abusi sessuali del clero: e in quell’atto risulterà tangibile quell’attitudine di umiltà detta ieri in parole, la volontà di penitenza e quella disposizione “assoluta” alla sincerità che è forse – fino a oggi – il dono grande di questo Papa già dal lato dell’uomo prima ancora che da quello del cri-

In Gran Bretagna il sentimento cattolico di appartenenza ecclesiale è più forte di un pregiudizio che ha portato a quattro secoli di ostracismo stiano. Quanto a Papa Wojtyla, anche allora la vigilia fu funestata da foschi presagi, assai più neri degli attuali essendo allora la Gran Bretagna nel pieno della guerra all’Argentina per le isole Falkland-Malvinas. Si temeva – anche negli ambienti politici – un atteggiamento “invadente” del Papa con la sua predicazione di pace. Che infatti ci fu: tutti i sei giorni ripropose questo tema.

Nello storico discorso di Coventry, la città martire della seconda guerra mondiale, qualificò come «totalmente inaccettabile» ogni tipo di guerra in un tempo di spaventosa tecnologia distruttiva come il nostro. E fu una frase forte, pronunciata in un Paese che riteneva di combattere una guerra giusta «in difesa della libertà e della legge». Il suo appello fu ascoltato e rispettato. E io scommetto che con altrettanta lealtà e schiettezza saranno dette in questi quattro giorni benedettiani le ragioni del cristiano che si fa portatore di una fede piena, che chiede cittadinanza nel mondo – e scommetto che quelle ragioni saranno intese dai britannici di buona volontà come allora lo furono le wojtyliane intenzioni di pace. Come terza ragione di ottimismo quanto alle prospettive della vi-

sita, segnalavo la compattezza del cattolicesimo britannico. Per un italiano è arduo intendere questo fatto: cattolici tutti – almeno in quanto battezzati, almeno fino a ieri – e cattolici da sempre noi non conosciamo quel patriottismo di Chiesa che caratterizza il cattolico dell’Inghilterra e della Scozia e del Galles, da sempre discriminato, minoritario, sospettato. Chi ha ricevuto a Roma ospiti britannici, ha sperimentato la loro emozione quando capita di accompagnarli a piazza San Pietro. Emozione che è identica per il cattolico comune pienamente fedele al Papa e per l’intellettuale liberal e critico. Ne abbiamo avuto una vivace riprova proprio ieri da un’editorialista cattolica del Guardian, Judith Woods, che scriveva di non avere «alcun problema ad ammettere che il cattolicesimo non è stato mai fuori moda come adesso» in Gran Bretagna, ma che lei era comunque «molto felice all’idea di vedere il Papa da vicino» e di potersi «alzare in piedi a testa alta e celebrare la mia fede». Ecco io penso che così sentiranno e agiranno in questi quattro giorni tutti i cattolici britannici.

In Gran Bretagna ci sono forti pregiudizi “antipapisti”, come ben sappiamo dalla storia e dalla letteratura. Alla vigilia della visita di Giovanni Paolo II quei pregiudizi si erano espressi con molta maggiore forza rispetto ai giorni scorsi: segno che avere avuto il Papa in casa già una volta a qualcosa è servito. Ebbene il sentimento cattolico di appartenenza ecclesiale è più forte di quel pregiudizio, è sopravvissuto ad almeno quattro secoli di quasi ostracismo sulla scena pubblica ed è caldo nell’intimo di ogni appartenente a una qualsiasi parrocchia “cattolico romana”, come si dice lassù. C’è una fame di Papa nel cattolico britannico che la libertà e parità conseguita lungo l’ultimo secolo e la stessa trionfale visita compiuta 38 anni addietro da Giovanni Paolo II non hanno pienamente soddisfatto. Sarà quella fame a muovere i cuori e le mani in un applauso continuato che di nuovo meraviglierà il mondo. www.luigiaccattoli.it

L’incontro del pontefice con la regina a Edimburgo

«Opponetevi al laicismo come avete fatto con il nazismo» ROMA. A dare plasticamente l’immagine del successo di Papa Ratzinger in questa prima giornata in Gran Bretagna è la imponente “Methodist Central Hall” di Londra, cinta da numerosi drappi bianco gialli in onore del capo della Chiesa Cattolica. Il calore con il quale il Pontefice è stato accolto e il garbo con il quale egli si è presentato all’opinione pubblica britannica hanno del tutto

oscurato le proteste di frange minoritarie.

Il bagno di folla che lo ha applaudito per strada a Edimburgo, dove il Papa è giunto ieri mattina, la grande folla che lo ha atteso per ore a Glasgow, le scale salite di buon passo accanto a Elisabetta II nel Palazzo reale, con il principe Filippo che li seguiva a qualche metro di distanza, e le lacrime che gli sono affiorate agli occhi men-


il caso

17 settembre 2010 • pagina 19

La geopolitica spirituale di Ratzinger arriva al momento giusto

Riuscirà Benedetto XVI ad avvicinare le due Chiese?

God Save the Pope

tre sull’aereo parlava dello scandalo degli abusi sessuali sono infatti le immagini che le emittenti tv inglesi, Bbc in testa, hanno riproposto insistentemente nei loro notiziari. «L’autorità della Chiesa - ha detto Ratzinger - non è stata sufficientemente vigilante, né sufficientemente veloce e decisa nel prendere le misure necessarie». Poco invece lo spazio dedicato alle proteste.

A Edimburgo i manifestanti erano meno di un centinaio, mentre i fedeli accorsi a salutare il Pontefice lungo le strade molte decine di migliaia. «La Gran Bretagna e i suoi capi - ha riconosciuto il Papa

tedesco - si opposero a una tirannia nazista che aveva in animo di sradicare Dio dalla società e negava a molti la nostra comune umanità, specialmente gli ebrei, che venivano considerati non degni di vivere». Lo stesso atteggiamento il regime hitleriano lo assunse, ha ricordato Ratzinger, «verso pastori cristiani e verso religiosi che proclamarono la verità nell’amore; si opposero ai nazisti e pagarono con la propria vita la loro opposizione».

Sì, ora può sanare cinque secoli di odio di Marco Respinti o partecipato a Messe celebrate dallo scienziato benedettino, newmaniano e “antianglicano” Stanley L. Jaki (1924-2009) in cui degli studenti anglicani partecipavano a tutto ma proprio a tutto, persino alla Comunione, mettendosi devotamente in riga ma saltando l’assunzione dell’ostia consacrata giacché non battezzati nella Chiesa di Roma eppure tributando a essa un plastico inchino prima di risedersi nei banchi, e ho visto giovani sempre anglicani partecipare a liturgie iperprogressiste facendo lo stesso senza celare il proprio disappunto per certi “aggiornamenti”.

H

Ho preso parte a funzioni anglicane solenni e sontuose,“più cattoliche” di certe cattoliche salvo il “dettaglio” della transustanziazione che, rito a parte, non ha paura mai nemmeno del prete cattolico più sgangherato, malmesso e fantasioso che ci sia. Ho conosciuto presuli anglicani di gran fama (e per nulla ignoti all’allora cardinal Joseph Ratzinger) avvezzi a difendere l’uso del latino e quindi a usare di persona il messale detto “di San Pio V” e il suo latino nelle funzioni anglicane, magnificare il Medioevo e insegnare la Divina commedia come pochi. Ho sentito straordinari filosofi inglesi anglicani domandarsi che senso abbia oggi la Chiesa anglicana, ho assistito come tutti al disfacimento di detta Chiesa anglicana seguito dalla fuga verso Roma di molto suo personale atterrito dal lassismo teologico, dall’ordinazione delle donne e dalla spensierata transigenza morale che in essa vigono. Il viaggio di Papa Benedetto XVI nel Regno Unito, il pellegrinaggio di un pontefice cattolico romano in Gran Bretagna, che avviene in deroga a una regola da egli stesso stabilita, è un segno autentico dei tempi. Papa Ratzinger ha nel cuore e nella mente la “questione anglicana” da sempre, da che era vescovo, cardinale, oggi pontefice. Conosce più che bene il vulnus lacerante iniziato cinque secoli fa da uno scisma che si è mutato presto in eresia tanto quanto sa

benissimo che, in teoria, se lo facessero davvero, tutti gli anglicani pregherebbero ogni dì dal Book of Common Prayer (dove tra vocaboli inglesi oldfashioned scritti con il “ck” spuntano belle locuzioni latine) dicendo tra l’altro a Dio: «Whosoever will be saved: before all things it is necessary that he hold the Catholick Faith». L’anglicanesimo è un “terzo genere” fra protestantesimo e cattolicesimo, ma appunto assomiglia sempre più a un “terzo sesso”, per certo non degli angeli. Si dice che in Albione odino i cattolici. Certo non li han mai trattati né li trattano bene, manca

Ci sono presuli avvezzi a difendere l’uso del latino nelle funzioni, magnificare il Medioevo e insegnare la Divina commedia come pochi poco che uno che si converte lì assomigli a uno che si converte nel mondo arabo, epperò i convertiti ci sono, aumentano.

Indubitabilmente ora l’ethos di quel popolo-Chiesa è, almeno in Occidente, fra i più distanti da quello cattolico, eppure se uno smettesse di leggere i giornali e di guardare le tivù, che oggi sono il Gatto e la Volpe delle distrazioni di tutti noi Pinocchi (spesso ingenui, non bugiardi), verrebbe a sapere che nelle strade inglesi il Papa di Roma è atteso dalla gente con timore e tremore. Curioso, strano, un segno dei tempi, di quelli veri, ché quei segni non sono mai quel che scegliamo noi, ma accadono, miracolosamente, in totale indipendenza dai nostri “secondo me”. Il momento è storico, al di là delle ovvie differenze paragonabile all’ingresso del Successore di Pietro in sinagoga. Lasciamo perdere le parole passepartout tipo “ecumenismo”. Qui si tratta del sublime rispetto che l’autorevolezza impone. In inglese lo si direbbe awesome. Anche i lontani, persino gli avversari s’inchinano a una forza che non è di questo mondo. Un mistero, ineffabile e grandioso. Il viaggio del ponte-

fice a quelle latitudini ha infatti due ospiti: la Chiesa Cattolica che è nel Regno Unito e la Chiesa “cattolica” (così molti vorrebbero, alcuni in modo puro altri con malizia terribile) che è il Regno Unito, cioè la Comunione Anglicana, con il suo capo monarchico, il suo “papa”, il suo credo sempre più disatteso persino dal suo stesso clero e dai suoi stessi fedeli.

Papa Benedetto XVI conosce bene i grattacapi che gli procura la visita in Gran Bretagna. La morale, in specie sessuale, finita alle ortiche, i pretidonne e quella strana bestia che è una Chiesa di Stato non cattolica saldata su una delle ultime monarchie del nostro angolo di mondo (portatrice assieme di tradizione e di sfascio), un peculiare cuius regio eius religio non-cattolico alla faccia del fatto che di ciò è sempre stato accusato il cattolicesimo. Il pontefice sa che uno dei problemi nodali di quel mondo è certamente questo. L’essere la fede religiosa il passaporto di cittadinanza di uno Stato autocefalo e autarchico che configura una conventio ad excludendum dei “diversi” degna di una satrapia orientale la quale ha fatto sì (nei secoli ma comunque piuttosto in fretta) che tra l’essere inglese e l’essere anglicano corresse quella poca differenza che ha ucciso il secondo e inibito il primo. Il Papa sa bene che l’anglicanesimo è vuoto dall’interno epperò sa meglio che ancora (r)esistono credenti sinceri che non lo sanno. A causa di tutto ciò il suo cuore di padre della Cristianità sanguina, e lo fa da tempo. Per questo Pietro ha deciso, in via del tutto eccezionale, di portare fisicamente lì quella verità piena, rotonda e splendente di cui egli non è il padrone ma lo strumento miracoloso affinché, oltre le parole e le teorie, essa agisca provvidenzialmente ex opere operato. Segni eccezionali dei tempi, appunto. Forse che sia finalmente giunta l’ora della Chiesa anglicana in risposta al salmista che da secoli chiede «Sino a quando, Signore?». Ci sono in gioco le anime di migliaia di fedeli, la geopolitica spirituale di Benedetto XVI lo ha chiarissimo. www.marcorespinti.org


cultura

pagina 20 • 17 settembre 2010

omincia di venerdì 17. Che sia un gesto scaramantico? Di certo ha un che di ironico e paradossale che il FestivalFilosofia, quest’anno giunto al decennale, cominci in tale data.Tema di questa edizione è infatti proprio la fortuna, sviscerata alla maniera di Cicerone e Spinoza, in tutte le sue declinazioni.Tante, a quanto pare, visionando il fitto calendario degli eventi (www.festivalfilosofia.it) che investirà le città di Modena, Carpi e Sassuolo dal 17 al 19 settembre. 200 appuntamenti fra lezioni magistrali, mostre, concerti, film, giochi e cene filosofiche per scavare nel tempo e nel significato di questo termine bifronte.

C

D’altronde si sa, secondo l’accezione latina, la fortuna può essere buona e cattiva, è termine neutro, è fato e sorte. Così, tra gli incontri, è presente anche una sezione riservata alla malasorte – curiosamente sempre più ispiratrice di storie, film e romanzi di quanto non lo sia quella buona – dove troviamo una rassegna cinematografica dedicata al ragioniere più sfortunato della storia, Ugo Fantozzi. Sarà Paolo Villaggio stesso, nella giornata del 19 a Carpi, a raccontare vita e sorte del suo metafisico personaggio. Sul fato nefasto anche la rassegna Melò. Il dramma della sorte che affronta, attraverso celebri arie operistiche, un viaggio nella storia del melodramma a partire da Mozart per arrivare all’800 italiano raccontando personaggi in balia di un fato senza speranza. Con un tema così trasversale, capace di attirare chiunque – siamo tutti un po’

Festival. A Modena la tradizionale kermesse dedicata quest’anno al tema della fortuna

Come prendere il destino con filosofia di Livia Belardelli Nella sezione dedicata alla contingenza si parlerà di chance con Jean-Luc Nancy, Peter Sloterdijk affronterà il tema dell’occasione e di come, nella società moderna fiaccata dalla crisi, questa abbia subito un ripiegamento nel segno dell’assicurazione e della rassicurazione. Ancora si indagherà il significato di “lotteria del capitalismo”con Massimo Pivetti, docente alla Sapienza di Roma, e la valenza economica della for-

speranzosi di essere toccati, per piccole o grandi opportunità, dalla Dea bendata – il ventaglio di proposte nelle tre giornate è molto articolato. Tante le cosiddette lezioni magistrali che porteranno nelle piazze e nei giardini delle tre città filosofi e scrittori, per dialogare con il pubblico sul tema della fortuna indagandone le diverse sfaccettature, dal rapporto tra eccezione e ordine nella sfera politica, al carattere creativo dell’imprevisto fino al rischio e alla sua calcolabilità, l’azzardo e la scommessa.

gici o utopici legati alla fortuna (Modena, venerdì 17, ore 18).

A Remo Bodei, presidente del Comitato scientifico del Consorzio per il Festivalfilosofia, toccherà il compito di delineare lo statuto filosofico della previsione, sviscerando il rapporto tra libertà e necessità da un lato e tra percezione individuale e generale dall’altro (Modena, venerdì 17, ore 16:30). Spostando il campo dall’ambi-

Nella foto grande, e in basso, alcuni scorci del “FestivalFilosofia”. che ospita tra gli altri i filosofi Giovanni Reale (qui sopra, a sinistra) e Massimo Cacciari, (a destra)

Per chi non volesse dedicare troppo tempo ai piaceri della tavola ecco anche la “razionsufficiente”, veloce cestino da viaggio da mangiare tra una lezione e l’altra. Infine anche

to prettamente filosofico, sono stati organizzati diversi incontri dal sapore meno didattico e più ludico che investigano il tema della manifestazione. Nella sezione su azzardo e gioco si farà la radiografia del giocatore, di colui che, al tavolo verde o in una sala scommesse, sfida impavido la sorte, ritrovandosi a volte, preso dalla vertigine dell’azzardo, a rischiare di perdere ogni cosa. A celebrare la figura del giocato-

Le “Lezioni dei classici“ saranno l’occasione per ripercorrere le opere che hanno segnato la riflessione sulla sorte. Si comincia con il “De Fato” di Cicerone, preziosa meditazione che contesta il determinismo stoico tuna in un dibattito condotto da Maria Concetta Mattei del Tg2. Angelo Panebianco esaminerà il rapporto causa-effetto in relazione alla spiegazione e alla previsione dei fenomeni, mentre l’antropologo Marc Augé esporrà il modello dell’analisi scientifica e la possibilità di utilizzarlo anche nelle pratiche sociali, superando i miti nostal-

Le “Lezioni dei classici“ saranno l’occasione per ripercorrere le opere che più hanno segnato la riflessione sul tema della fortuna. Si comincia con il De Fato di Cicerone, meditazione sugli effetti della sorte e contestazione del determinismo stoico – generatore di pessimismo e passività in alcuni ambiti della società del tempo – con l’obiettivo di restituire l’indipendenza rubata dal fato e dimostrare l’inconsistenza di superstizioni e dogmatismi. Il viaggio nei classici continua con Il Principe di Machiavelli dove si dialoga di virtù e fortuna per arrivare a Montaigne, Heidegger e concludere con i ragionamenti sul principio di responsabilità di Jonas. Tra gli spettacoli, Paolo Rossi mette in scena Eccezione come regola (Modena, sabato 18, ore 21) e si propone di raccontare, tra monologhi comici e surreali, l’assurdità della sorte e la sua infondatezza. A Stefano Benni invece è lasciato il compito di introdurci nel suo racconto Il Destino sull’isola di San Lorenzo, da Il bar sotto il mare, dove un impertinente Dio degli amori non corrisposti si diverte «a combinare in infiniti incontri sbagliati tutte le possibili infelicità e le possibili disperazioni» (Carpi, sabato 18, ore 21). Oltre al “cibo dell’anima” saranno 10 i ben più terreni menù filosofici ideati dal pensatore e gourmet Tullio Gregory da gustare nei ristoranti delle tre città.

re non poteva mancare quello di Dostoevskij, a cui presterà la voce per l’occasione (Modena, venerdì 17, ore 21:30) l’attore Alessandro Haber. Sul vizio del gioco anche la lettura della serata di sabato (Modena ore 21), La donna di picche di Aleksandr Puskin interpretata dallo scrittore Paolo Nori di cui è la traduzione italiana.

concerti e mostre fotografiche, il tutto, come spiega Remo Bodei, per provare a rispondere all’aumentato interesse del pubblico verso la filosofia. «È un antidoto contro il fast food dei mass media ed è in grado di proporre argomenti e interrogativi e forse anche qualche risposta intorno al destino di ciascuno di noi, che si tratteggia alquanto incerto». Tanto più quando ci si mette il fato col suo zampino anche se, poi, come già nell’antichità sosteneva Sallustio, «Ciascuno è artefice della propria sorte».


spettacoli

17 settembre 2010 • pagina 21

Black carpet. Roberts e Bardem sono i grandi ospiti del Festival cinematografico di San Sebastian in corso fino al 25 settembre nella città basca

Julia e Javier, due divi nell’arena di Andrea D’Addio nizia oggi, e andrà avanti fino al 25 settembre, il Festival Internacional de Cine de Donostia, più comunemente chiamato Festival di San Sebàstian. Diciotto pellicole in anteprima europea, più un’altra trentina tra eventi speciali e nuovi talenti. Tanti titoli per una manifestazione che ogni anno vede una partecipazione del pubblico locale quasi sconosciuta agli altri festival europei.

I

Presidente di Giuria quest’anno sarà il cineasta serbo Goran Paskaljevic, già premiato a Berlino per La Polveriera. I nomi più attesi sono quelli di Julia Roberts (a cui verrà consegnato il premio alla carriera), il presto papà Javier Bardem (è di questi giorni la notizia della gravidanza di Penelope Cruz), Diego Luna, Ryan Reynolds, Paul Giamatti (che presenterà qui, fuori concorso, La versione di Barney già passata a Venezia), John Sayles e Raùl Ruiz. Si avrà anche il ritorno dietro la macchina da presa di Peter Mullan a distanza di otto anni da quel Magdalene che gli valse il Leone d’oro veneziano. L’ex attore feticcio di Ken Loach sarà i nei Paesi baschi con Neds, storia ambientata tra le gang della Glasgow del 1973. Di grande interesse sarà poi la retrospettiva dedicata a Don Siegel, a detta dello stesso Clint Eastwood, con cui lavorò in ben cinque occasioni, «colui che per primo mi incoraggiò a prendere la macchina da presa e provare con la regia. Mi insegnò a capire cosa cercare in un’inquadratura, a sapere cosa volere girare e in che modo: non lo avevo mai imparato con nessun altro». Del regista che rivoluzionò il cinema di fantascienza degli anni ’50 con L’invasione degli ultracorpi (con la metafora della minaccia comunista: i cattivi sono in mezzo a noi), e che poi firmò tanti, originali, thriller e polizieschi negli anni a venire, saranno mostrati una decina di film più o meno dimenticati. Una bella occasione per riscoprire un autore che non ha mai annoiato il pubblico e mai lo farà, al di là degli anni e del bianco e nero. Per chi fino a qualche ora prima sarà in spiaggia cercando gli ultimi scampoli d’estate, non ci potrebbe essere migliore modo per chiudere una giornata di puro divertimento. Dopo Cannes, Venezia, Berlino e Locarno, San Sebàstian si gioca le successive posizioni di vertice con Roma e Londra. Dalla sua ha la storia di una manifestazione radicata tanto nella cultura popolare iberica, quanto in quella cinematografica internazionale. Nel ’54 il primo abbozzo di competizione fu vinto dall’italiano Giuseppe de Santis con Due giorni d’amore, ma fu solo tre anni dopo, dopo il riconoscimento internazionale della manifestazione (grazie anche alle pressioni sulla FIAPF da parte di una dittatura che voleva sfruttare l’evento per apparire ideologicamente aperta agli occhi dei giornalisti e turisti stranieri) che fu assegnata la prima

Conchiglia d’oro, il premio per il migliore film in concorso. Ancora una volta si trattò di un italiano, Dino Risi e la sua Nonna Sabella, la commedia magnificamente interpretata da Tina Pica su una sceneggiatura di Pasquale Festa Campanile. L’anno dopo Hitchcock porto qui Vertigo e, sulla scia della bella esperienza, nel ’59 fu la volta di Intrigo Internazionale. Negli anni a seguire fu poi la volta di Elia Kazan e del semibiografico Il ribelle dell’Ana-

fama di scopritore di talenti. Furono ospitati i primi lavori dei vari Michalkov, Polanski e Almodovar, e la fama della manifestazione crebbe abbastanza da minare la leadership artistica di Venezia e Cannes. La svolta, in negativo, si ebbe nel 2001. Il via fu dato pochi giorni dopo i tragici at-

Curiosità per “Neds”, il ritorno dietro la macchina da presa di Peter Mullan, a distanza di otto anni da quel “Magdalene” che gli valse il Leone d’oro a Venezia tolia, di Francis Ford Coppola con Non torno a casa stasera e di Éric Rohmer con Il ginocchio di Claire. Nel 1973 Terence Malick ci presentò il suo primo film, il cupo La rabbia giovane, cominciando da qui quella sua scalata verso la notorietà che tuttora lo rende sempre uno dei registi più attesi e apprezzati in circolazione.

Lanciando sempre un occhio lungo sulla migliore produzione autoriale europea statunitense, e rimanendo, al contempo, legato più che mai al proprio territorio, il Festival si costruì la

tentati, ma le tante star attese, così come la voglia di svago, non poterono essere presenti. Due anni dopo uno sciopero bloccò l’organizzazione, e si visse un periodo di riassestamento finito più o meno nel 2007, quando fu riaperto lo storico Teatro Victoria Eugenia e si tentò una nuova strategia che potesse rilanciare la centralità dell’evento. Si decise di dare maggiore

attenzione ai film in lingua spagnola, sia iberici che sudamericani (c’è almeno un titolo per ogni nazione), diventando di fatto il primo luogo di ritrovo per uno dei mercati mondiali potenzialmente più vasti (tra Spagna, Argentina, Cile e Messico si superano i cento milioni di pubblico). Allo stesso tempo, non si perse di vista quel pizzico di glamour che rende sempre felici sponsor e pubblico locale. Woody Allen preferì questa sede a Venezia sia per Melinda e Melinda che per Vicky Christina Barcellona, e a Meryl Streep fu consegnato un prestigioso premio alla carriera con annessa retrospettiva. Altro punto di riferimento del rilanciato festival è diventato il cinema mediterraneo, con tanto di una sezione, la Cinema in Motion, dedicata a una manciata di titoli provenienti dal Maghreb, dall’Africa centrale e dalle ex colonie portoghesi, bisognosi di un’opportunità di visibilità internazionale che altri canali e situazioni non offrono. C’è molta attesa, in questo senso, per A Jamaa (La Mosquée) del regista marocchino Daoud Aoulad Syad. Il film, prodotto da un regista del calibro di Abderrahmane Sissako, è una sorta di sequel di En attendant Pasolini, l’opera precedente di Daoud Aoulad Syad. Sul set di quel film era stata costruita una moschea, che però poi è stata utilizzata dagli abitanti del luogo come una vera moschea, tra equivoci e rivendicazioni. Altra interessante iniziativa è poi Cinema in Motion, l’atelier di film arabi in post-produzione, che arriva al Festival di San Sebastian per il sesto anno consecutivo. Nell’atelier vengono selezionati quattro tra i migliori film arabi (lungometraggi di fiction e documentari) ancora in post-produzione che concorrono all’assegnazione di fondi per essere ultimati. Tra i quattro lavori selezionati, da segnalare Sur la planche (Marocco-Francia) della regista marocchina Leila Kirani: vita e i sogni di due giovanissime operaie di Tangeri che lavorano in una fabbrica di inscatolamento di gamberetti.

Nella foto grande, la locandina del festival basco. Qui sopra, dall’alto, Goran Paskaljievic, la Roberts e Bardem

Ad aprire il festival, Chicogrande di Felipe Cazals, e ancora Yun Junghee a presentare Poetry. Diego Luna e John Malkovich sono apparsi sul black carpet (quest’anno lungo duecento metri) a presentare Abel, film d’apertura della sezione Horizontes Latinos. Ma nel corso del festival spagnolo, sarà inoltre assegnato a Olivia Williams, protagonista di The Ghost Writer di Roman Polanski, il premio Fipresci Grand Prix.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Occorre un nuovo umanesimo, fondato sul dialogo Nell’utopia, l’essere umano vuol fare l’angelo e si trasforma in bestia. La concretizzazione dell’astrazione comunista – favorita più dall’anima vuota che dallo stomaco vuoto – ha creato carestia, miseria, dittatura, gulag e morte. Il desiderio d’affermazione e il perseguimento dell’interesse personale sono connaturali all’essere umano. Ripudiare l’interesse personale significa distruggere la civiltà e schiavizzare i cittadini. L’individuo che avanza volitivamente con le sole sue capacità è una forza propulsiva, vivificatrice e animatrice di cultura, progresso e benessere. L’onesto lavoratore che provvede a sé e alla propria famiglia, senza questuare, merita più rispetto di chi predica e pretende l’assistenzialismo. La persona è stimolata non solo dal guadagno e dal potere, ma anche da: piacere della professionalità, gioia di creare, soddisfazione per l’opera compiuta, senso del dovere e coscienza d’essere utile all’umanità. Anche il prosaico mondo del commercio include elementi morali. Occorre un nuovo umanesimo, fondato sul dialogo e sulla conciliazione fra mercato e cultura, fra uomini d’affari e intellettuali (teste d’uovo). L’assunzione del rischio ha una funzione educatrice.“Navigare è necessario, mentre non lo è vivere”(Plutarco, Vite parallele).

Gianfranco Nìbale

PERCHÉ LEGGO “LIBERAL” In edicola non credo ci sia, attualmente, un quotidiano che mi piace come il vostro. Il motivo è questo: mettete Destra e Sinistra sullo stesso piano e le condannate entrambe. Siete, inoltre, cattolici e per nulla estremisti. Per queste semplici ragioni sono un vostro lettore.

Riccardo Del Sole

IL LIBERO SCAMBIO SUPERA LA POLITICIZZAZIONE COMUNISTA La filosofia “liberale” – basata sulla divisione del lavoro e sul mercato concorrenziale – armonizza l’interesse del singolo con quello della comunità, meglio d’ogni altro sistema. La realizzazione delle “comuni”si palesa normalmente contraria alla natura umana. Dalla compravendita traggono vantaggio entrambi i contraenti, che apprezzano le cose ricevute più di quelle date. L’economia

di mercato è un sistema di profitti e perdite. L’operatore che serve bene il mercato consegue un guadagno. Il venditore che non ubbidisce alla sovranità dei consumatori è “punito”con una perdita, nonché il fallimento. L’economia di mercato esige fondamenti etici e, particolarmente, lealtà, moderazione e rispetto degli impegni assunti. L’onestà è la migliore politica e alimenta la fiducia. L’economia, l’arte, la scienza, l’istruzione e la cultura sono valori autonomi dalla politica, nelle società pluraliste. Al contrario, il collettivismo (comunismo) concepisce tutto in chiave politica e politicizza anche i settori che dovrebbero esserne naturalmente estranei. Con spietata sentenza, Lenin dileggia la supposta cupidigia di mercanti: «Quando verrà il momento d’impiccare i capitalisti, questi si pesteranno i piedi fra loro, per vendere ai comunisti la corda necessaria». Invece l’operatore commerciale è lo-

Rosso rubino Niente male, per essere i piedi di una bambina! Quelle che vedete infatti, sono le “estremità” di Dorothy, protagonista del film Il mago di Oz, esposte all’ingresso del museo delle cere newyorkese Madame Tussauds in occasione del lancio di una sezione dedicata a questa fiaba

dato, specie in questi memorabili versi: «Quando non troverai più fedeltà e rettitudine in alcun posto/ le troverai ancora nel nobile cuore del mercante/ che costruisce tutta la sua fortuna e felicità sulla fiducia altrui». Tale poesia è del professore di Strasburgo Johann Jakob Witter .

Franco Padova

LA REGOLARIZZAZIONE DEGLI STRANIERI Si è sottilmente riaperta la questione degli extracomunitari, che come ogni anno

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

accade, d’estate riporta alla luce la sua indiscussa relatività decisionale. Regolarizzare uno straniero significa che egli si è reso degno di essere un lavoratore italiano con tutti i diritti presenti e futuri che ne conseguiranno, ma nel contempo occorre ribadire che qualsiasi provvedimento teso ad allontanare coloro che non hanno una condotta o fedina pulita, va proprio nel senso di migliorare la condizione sociale d’accettazione degli altri stranieri.

Bruna Rosso

da ”Der Spiegel online” del 16/09/10

ElBaradei mette in crisi il Faraone er anni il vecchio Faraone d’Egitto, al secolo il presidente Hosni Mubarak, ha manipolato le elezioni, per rimanere in sella ad un Paese tutt’altro che facile da governare. Stava preparando anche la successione del figlio, visto anche i primi segnali di una salute che pur non limitandolo nell’azione politica – è stato attivissimo nel far ripartire il tavolo negoziale tra Israele e Anp – l’ha fatto riflettere sul tempo che potrebbe rimanergli per controllare una transizione che anche in Egitto sembra ormai inevitabile.

manda certo a dire e sembra proprio che abbia raggiunto il punto di non ritorno per uno scontro frontale col vecchio ufficiale dell’esercito. La disaffezione verso i meccanismi democratici è così alta che solo il 25 per cento degli aventi diritto ha votato nelle ultime elezioni politiche.

P

Il Paese è lacerato e diviso tra una forte presenza dell’islam radicale – è la base della Fratellanza musulmana e anche Hezbollah ha voluto aprire un ufficio al Cairo – e una popolazione che chiede da tempo riforme modernizzatici e un po’ più di respiro, se non proprio di democrazia. L’acceleratore delle dinamiche interne è stata la scelta dell’ex direttore dell’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Mohammad Elbaradei di scendere in campo e contendere al Farone e al suo delfino, Gamal il diritto di successione alla guida del Paese. L’appello di ElBardei per boicottare le elezioni parlamentari di novembre – i partiti indipendenti sarebbe esclusi dalla tornata elettorale – sembra «togliere legittimità a Mubarak», come si legge nell’articolo dello Spiegel in lingua inglese. Una limitazione, quella di rendere più difficile la nascita di nuove formazioni politiche, che permetterebbe ai 29 anni

di regno di Mubarak di continuare e al suo Partito democratico nazionale di reggere saldamente le redini egiziane. Entro 18 mesi, ci saranno poi le presidenziali, vero obiettivo del contendere.

Tanto che la scelta dell’ex diplomatico di scendere in campo è stata giudicata da molti osservatori assai coraggiosa e irta di pericoli, anche per la stessa vita del nuovo candidato. Avversario politico che, nelle ultime settimane, ha alzato notevolmente i toni delle critiche al vecchio generale. Le ultime tre decadi di governo sono state caratterizzate «da un decadenza che ha quasi fatto crollare il tempio». Un potere costruito sulla «povertà, l’analfabetismo e la limitazione dei diritti umani». ElBaradei non le

Un egiziano su quattro vive al di sotto della soglia di povertà. L’ex direttore dell’Aiea ha introdotto un linguaggio nuovo nella politica e nel sistema un po’ feudale che caratterizza il Paese arabo. messaggi nuovi e strumenti tecnologici al di fuori dei canali che il potere può controllare. Infatti il 10 per cento degli utilizzatori di Facebook è formato da supporter di ElBraradei. E molti sono convinti che possa essere l’unico candidato credibile per far emergere il Paese dallo stato di prostrazione in cui vive. Non solo, ma numerosi raduni pubblici sono stati organizzati utilizzando il web. Non sono però mancati gli attacchi da parte del radicalismo islamico, che ha sottolineato lo stile di vita occidentale della famiglia dell’ex diplomatico. Con tanto di foto in bikini della figlia, fatte circolare su numerosi siti web dei mullah egiziani. Mubarak non ha ancora sciolto l’incognita sulla propria candidatura alle presidenziali: lui vorrebbe puntare su figlio. Ma anche all’interno del suo partito non sono in pochi a non ritenere Gamal pronto a quell’incarico. E sembra che il navigato capo dell’intelligence del Cairo, Omar Suleiman, stia scaldando i motori.


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LE VERITÀ NASCOSTE

di Vincenzo Bacarani

Rivolta in carcere sedata a pizze HOBART. Dopo due giorni, un gruppo di carcerati ha deciso di interrompere la rivolta dopo che la polizia ha consegnato loro 15 pizze. I rivoltosi, che protestavano contro le condizioni di detenzione, avevano preso in ostaggio un agente e altri otto carcerati. La polizia è penetrata nel carcere Risdon, situato nella capitale dello Stato, Hobart, dopo che l’ultimo detenuto ha lasciato la reception del carcere che gli undici detenuti occupavano da due giorni per protesta. Solo poche ore prima era stato liberato in secondino tenuto in ostaggio. «Abbiamo negoziato la liberazione del membro del nostro personale in cambio della consegna di quindici pizze», ha dichiarato il direttore del

carcere, Graeme Barber. I rivoltosi avevano preso in ostaggio nove persone, un agente di custodia e otto altri detenuti. Nessuno è rimasto ferito, si sono avuti soltanto danneggiamenti materiali, vetri rotti e mobili fracassati, ha detto Barber. Le rivendicazioni dei rivoltosi puntavano a ottenere tre pasti caldi al giorno, merci disponibili allo spaccio interno e lavoro remunerato per i detenuti. Graeme Barber ha ammesso che il carcere non risponde alle norme di sicurezza più elevate. Le autorità hanno an-

ACCADDE OGGI

NESSUN RIMBORSO AI TIFOSI VIOLA INGANNATI Parole al vento quelle che la tv a pagamento Dahlia ha fatto ai tifosi della Fiorentina calcio. Nessun rimborso per chi si era abbonato per vedere le partite della squadra viola. I fatti. Nello scorso campionato di calcio le partite della Fiorentina venivano trasmesse su digitale terrestre dalla tv a pagamento Dahlia. Per il campionato che sta per iniziare i diritti a trasmettere la squadra viola li ha Mediaset Premium. Poco prima dell’ufficializzazione della notizia, Dahlia conduce una campagna vendite presso i tifosi, impostata sulla rassicurazione che tra le squadre di Dahlia ci sarà pure la Fiorentina. La “balla”viene scoperchiata dalle indiscrezioni: «Dahlia non avrà i diritti sulla Fiorentina», così un responsabile della pay tv assicura (nel luglio scorso): rimborseremo chi ha accettato il contratto proprio per la presenza della Fiorentina nel pacchetto Dahlia. Ma la promessa non viene mantenuta. Chi si trova in questa situazione, segnali il tutto all’Antitrust. Chi avesse proceduto all’acquisto del pacchetto richieda il rimborso a Dahlia e, se non ottenesse riscontri bonariamente, intimi il rimborso tramite raccomandata ar di messa in mora.

Lettera firmata

UOMINI MOLLI? SOLO UNA COSA TEMPORANEA Mi capita spesso di sentire in giro lamentele sugli uomini“troppo molli”rispetto a donne più determinate nella società. È vero, nell’Occidente di oggi l’uomo appare fragile e la donna cinica; ma dopo tutto quello che ha passato (trenta milioni di soldati morti

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

17 settembre 1974 Ingresso all’Onu del Bangladesh

1978 Accordi di pace di Camp David tra Israele ed Egitto 1983 Vanessa Williams diventa la prima Miss America afro-americana 1984 Brian Mulroney presta giuramento come primo ministro del Canada 1988 Cerimonia di apertura dei Giochi della XXIV Olimpiade a Seul, Corea del Sud 1991 Linus Torvalds pubblica la prima versione del kernel Linux 2001 Il Dow Jones Industrial Average riapre per la prima volta dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 2004 Dopoguerra iracheno: il presidente George W. Bush annuncia che Saddam aveva la volontà, ma non la possibilità, di costruire armi di distruzione di massa 2009 A Kabul un attentato suicida talebano fa esplodere un convoglio italiano, muiono 6 paracadutisti della Folgore e 4 in gravi condizioni

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

nunciato che un nuovo edificio carcerario sarà costruito. Il carcere di Risdon ospita il più pericoloso criminale australiano, Martin Bryant, che ha ucciso 35 persone in una sparatoria nel 1996 nel piccolo villaggio tasmaniano di Port Arthur.

nelle due guerre mondiali) e fatto (le Costituzioni democratiche moderne) forse, parlando in termini storici ed evolutivi, aveva un gran bisogno di fermarsi e curarsi le ferite. Un riposo lungo ancor più per l’assenza del padre (non solo morto in guerra, ma anche disperso o tornato menomato nel corpo e nella mente, i feriti furono il triplo dei morti), un padre e una direzione da ritrovare. Per questo sono fiducioso che pian piano l’uomo si rialzerà e tornerà forte, e forse più saggio, a direzionare il mondo verso le cose buone e giuste. La donna in questa pausa sta conoscendo il fuori, le fatiche e i pericoli della vita pubblica, di frontiera, e, come l’uomo fece prima di lei, sta sbagliando molto: ira, superbia, ma anche depressione e solitudine, e alla fine sarà ben lieta di passare la mano quando l’uomo si rimetterà in cammino.

Costantino

ABBATTERE TOR BELLA MONACA? SIAMO D’ACCORDO CON ALEMANNO Siamo d’accordo con il sindaco di Roma: abbattere Tor Bella Monaca e, aggiungiamo, anche Corviale, proposta dall’assessore regionale Teodoro Buontempo. Questi due quartieri sono dei veri e propri ecomostri, invivibili ed esteticamente orripilanti, frutto di una cattiva architettura. Riferirsi al passato, cioè copiare, non era e non èdifficile, invece si è voluto realizzare qualcosa di “nuovo”: brutto e non funzionale. Numerosi quartieri della Capitale andrebbero ristrutturati e riqualificati. Oltre il centro storico, la citta è diventata un gigantesco - brutto e non funzionale quartiere dormitorio. Occorre intervenire.

Giulia, Tania e Carla

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

GRANDE BANCA, GRANDI ESUBERI Piccole schiarite nella difficile vertenza che vede coinvolti i lavoratori dell’Unicredit. Il colosso bancario ha annunciato qualche mese fa ben 4.100 esuberi di personale, che si vanno ad aggiungere ai 600 già programmati e in imminente uscita. Una questione da risolvere - secondo i vertici dell’istituto di credito - entro fine ottobre affinché possa essere varato il progetto di Banca Unica. Martedì scorso c’è stato un importante incontro tra i dirigenti della banca e i rappresentanti sindacali. Il piano originale è stato, nel corso di questo incontro, leggermente modificato o, meglio, addolcito. In che modo? Anziché programmare l’uscita dal mondo del lavoro delle 4100 persone in tre anni, i dirigenti dell’istituto di credito si sono detti disponibili a programmarla in cinque anni e in più hanno accettato la proposta dei sindacati di ricorrere alla formula dell’esodo incentivato. Due piccole aperture che non spostano di una virgola il nodo fondamentale: la quantità delle persone che resteranno senza lavoro. Cautissima soddisfazione da parte dei sindacati che reincontreranno i vertici dell’azienda il 22 settembre. La via è stretta e sembra che non siano per niente previste ulteriori deviazioni da quella tracciata: 4.100 posti di lavoro in meno, oltre ai 600 già contabilizzati. A tutto questo si aggiunge - come ha sottolineato giorni fa in una nota il segretario generale della Falcri-Confsal, Aleardo Pelacchi l’abbandono, nella politica di Unicredit, delle ex-casse di risparmio che hanno sempre avuto un rapporto tradizionale, stretto e di fiducia con il territorio. Del resto la strategia da “risiko” dei colossi bancari nazionali (e internazionali) lascerà sempre meno spazio al piccolo vecchio sportello sotto casa o nella piazza del paese: Intesa-San Paolo, Unicredit, Ubi e altri istituti di credito stanno occupando tutto il territorio nazionale e a ogni matrimonio “forzato” ci sono sempre esuberi a centinaia o a migliaia. I sindacati, con tutta la buona volontà, non riescono a rallentare la marcia di questi eserciti e sono destinati a uscire dal confronto con una sconfitta onorevole. Due organizzazioni sindacali come la Fabi e la Falcri-Confsal hanno anche sottolineato che l’esodo non dovrebbe riguardare solo gli impiegati, ma anche qualche top manager. Difficile spuntare un risultato soddisfacente su quest’ultimo fronte: in genere quando i top manager - di qualunque grande azienda, non esclusivammente delle banche - sbagliano vengono trasferiti ad altri uffici e le spese di una politica industriale o economica sbagliata o sprovveduta le pagano i sottoposti. I sindacati oltre che sulla quantità degli esuberi dovrebbero confrontarsi con la controparte anche sulla qualità di questi esuberi, ma finora poche organizzazioni lo hanno fatto. bacarani@gmail.com

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ULTIMAPAGINA Tra gli scaffali. Pubblicati i primi due volumi dei complessivi ventinove del “Libro d’oro della nobiltà italiana”

Alla ricerca dell’identità di Aldo G. Ricci on è un caso che i Greci, maestri insuperati nella costruzione delle fondamenta della civiltà occidentale, di cui noi siamo eredi, abbiano affidato proprio alla Memoria (Mnemosine) il ruolo di madre delle nove Muse, le sorelle alle quali il mito attribuisce il ruolo di protettrici delle Arti. Nella civiltà premoderna la memoria storica era privilegio delle classi più elevate, integrata a volte da quella dell’epica popolare o dalle sue varianti. Successivamente, nella civiltà di massa, questa consapevolezza si è estesa, perdendo inevitabilmente e progressivamente di profondità. Nella società postmoderna, il processo muta ulteriormente di direzione: il qui e ora prevale su ogni altro aspetto.Tutto cambia a velocità prima inimmaginabile, compresa la documentazione tradizionale, alla quale l’uomo ha per secoli affidato la propria memoria.

N

I supporti moderni ci circondano e ci sommergono, ma ci inquietano anche con l’indeterminata precarietà circa la loro durata. Inoltre, l’accesso, immediato e universale, all’informazione di qualsiasi tipo, conferisce un senso di onnipotenza potenzialmente ingannevole, per cui il mondo virtuale e mediatico sostituisce o esaurisce il mondo reale. Ma la memoria, individuale e storica, ha caratteri diversi da quelli di una immensa banca di informazioni potenzialmente omnicomprensiva, in cui l’elemento quantitativo inevitabilmente prevale su quello qualitativo e selettivo. L’uomo postmoderno, immerso in un presente fluido, sembra, apparentemente, aver perso qualsiasi interesse per le proprie radici profonde, lontane e prossime, ma, a un’indagine più attenta, questa affermazione si rivela largamente inesatta. Negli anni d’archivio, ho potuto verificare quante ricerche ruotano intorno a quell’area che può essere definita come “ricerca genealogica”. Ricerche mosse dal bisogno di ritrovare le proprie radici, di connettere la propria individualità in un percorso fatto di genitori, progenitori, avi. La questione dell’identità non è solo individuale. In tutti i Paesi europei si è assistito, in questi ultimi anni, in misura diversa, a un indebolimento delle identità nazionali, spesso a favore di quelle locali. In Italia il problema ha assunto dimensioni tutte particolari, determinate in larga misura dalle modalità che hanno caratterizzato le guerre perdute e le ideologie forti dei partiti cha hanno dominato gli anni successivi alla guerra. Si tratta di una questione su cui la storiografia ha lungamente lavorato negli ultimi anni, contribuendo all’avvio di un percorso di presa di coscienza collettiva, che si è tradotto, almeno in parte, in comportamenti e iniziative volti al recupero di un’identità nazionale: un’azione di recupero rispetto alla quale, occorre dirlo, la grande assente è stata, finora, la politica, ancora alla ricerca di una credibilità perduta. In questo processo, l’Archivio Centrale dello Stato, che conserva i documenti di interesse storico dall’Unità a oggi, ha svolto un ruolo non secondario, con un lungo elenco di realizzazioni che vanno dalle edizioni di fonti alle mostre documentarie. In questo quadro s’inserisce l’edizione anastatica del Libro d’oro della nobiltà italiana, di cui sono stati ora pubblicati i primi due volumi dei complessivi ventinove. Diversi saggi esaminano la storia della Consulta Aral-

PERDUTA I nomi che ricorrono nelle migliaia di pagine del volume, i relativi predicati, i luoghi d’origine, gli stemmi sono in vario modo tutti tasselli, maggiori o minori, della storia della nostra Nazione dica, istituita nel 1869 e riformata nel 1896, e del relativo Regolamento, dello stesso anno, che disciplinava l’istituzione del Libro d’oro, nel quale dovevano essere iscritte le famiglie italiane che avevano ottenuto la concessione o il riconoscimento di titoli nobiliari. Altrettanto dicasi per la storia del fondo archivistico della Consulta, conservato presso l’ACS insieme agli imponenti volumi del Libro d’oro. Quello che preme qui sottolineare è il significato storico di lunga durata del processo avviato dalla Corona con l’istituzione della Consulta e di quanto ne è seguito. Si tratta di uno dei capitoli del complesso processo di unificazione nazionale avviato dal nuovo Stato all’indomani dell’Unità. Non erano soltanto la legislazione, l’amministrazione, gli apparati militari che dovevano essere unificati, ma anche le discendenze nobiliari che avevano segnato la storia della Nazione. Se le antiche dinastie avevano dovuto necessariamente lasciare il passo all’unica che aveva scelto, sia pure dopo molte esitazioni, la strada dell’Unità,

lo stesso discorso non poteva valere per le famiglie nobili, i cui titoli il nuovo Stato aveva tutto l’interesse di recepire attraverso un meccanismo di legittimazione che diventava anche, di fatto, un atto di accettazione, da parte delle stesse famiglie, della mutata situazione istituzionale e dinastica.

Le diverse tradizioni, i diversi statuti confluirono così in un rinnovato diritto nobiliare che si accompagnava a un nuovo strumento, il Libro d’oro appunto, che veniva a costituire una sorta di fotografia della galassia nobiliare all’indomani dell’Unità. I nomi che ricorrono nelle migliaia di pagine del Libro, i relativi predicati, i luoghi d’origine, gli stemmi sono in vario modo tutti tasselli, maggiori o minori, della storia della nostra Nazione. Riproporli in una edizione anastatica non è stato un tardivo e anacronistico omaggio a fantasmi del passato, ma semplicemente la messa a disposizione di un pubblico più vasto di un monumentale corpus documentario che costituisce un elemento non secondario dell’identità nazionale. E questa impresa, di notevole impegno e di lunga durata, ha preso l’avvio, non a caso, alla vigilia del 2011, 150° dell’Unità, evento cruciale nella Storia della Nazione, di cui il Libro d’oro costituisce uno dei primi frutti. Tratto dalla presentazione di Aldo G. Ricci alla ristampa anastatica del “Libro d’oro”


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