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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 18 SETTEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Scotland Yard seguiva da tempo i terroristi che avevano progettato un’azione clamorosa contro il Papa

L’accordo delle due chiese

Ma è allarme attentato a Londra: arrestati cinque islamici «Il nostro fine ultimo è l’unità nella fede»: con questa dichiarazione concordata, Benedetto XVI e l’Arcivescovo di Canterbury hanno siglato una giornata storica dopo cinque secoli di ostilità DIALOGO E CONVERSIONE

di V. Faccioli Pintozzi

La grande sfida del Pontefice ecumenico

«Non concentriamoci sui problemi, che conosciamo tutti. Puntiamo invece sui grandi progressi compiuti dal nostro rapporto». È un ramoscello d’ulivo verbale quello che, ieri, Benedetto XVI ha porto all’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, massima espressione della comunione anglicana. Ma il Papa ha lanciato nuovamente la propria proposta anche ai rappresentanti delle altre religioni, incontrati ieri a Londra: «Libertà di culto e rispetto reciproco: ecco la strada per la pace». a pagina 2

di Rocco Buttiglione a visita di Benedetto XVI a Londra è una visita ecumenica. Lo dicono tutti, quindi deve essere vero. Questo è chiaro. Meno chiaro è cosa sia l’ecumenismo. Per molti l’ecumenismo è un codice di comportamento e di buone maniere. Si cerca di parlare solo di ciò su cui siamo d’accordo e se ci troviamo spesso a parlare del nulla poco male. L’essenziale è non litigare. Tanto al fondo ci importa veramente poco gli uni degli altri e, tutti insieme, siamo convinti che per la salvezza dell’anima e del corpo basti tenersi a qualche principio umanitario di quelli che un po’ tutti i politici sono soliti predicare. L’essenziale è essere a favore del bene e contro il male, per il sole e contro la pioggia, per la salute e contro la malattia e via discorrendo. segue a pagina 5

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I retroscena di un risiko tra economia e politica

Il documento firmato da 74 parlamentari

Romanzo finanziario. Ecco come nasce la banca del Sud

La «carta» di Veltroni impone a Bersani di scegliere

Massimo Sarmi guiderà l’Istituto d’affari voluto da Tremonti

Alleanze e legge elettorale: ecco i due temi che spaccano il Pd

di Giancarlo Galli

di Enrico Cisnetto on entro nel merito della discussione, a dir poco violenta, circa l’opportunità o meno della decisione di Veltroni di annunciare, con un documento di secca critica a Bersani, la nascita di una sua corrente – che lui preferisce chiamare “movimento”– all’interno del Pd. Fatti interni ai Democratici. Anche se non si può fare a meno di vedere in questa vicenda l’ennesima conferma di come si stiano sbriciolando i due partiti maggiori e con essi il sistema bipolare con (ormai perdute) aspirazioni bipartitiche. E più in particolare la conferma che si tratta di un sistema perfettamente speculare. a pagina 10

Domani la beatificazione del Cardinale

Newman, il santo inglese che scelse la Chiesa di Roma Molti leggono la storia dell’uomo che ruppe con gli anglicani come quella di un «mediatore» Marco Respinti • pagina 4

Alessandro Romani, la vittima, stava inseguendo due terroristi

ino all’ultimo momento si era pensato che potesse sopravvivere. Invece il tenente Alessandro Romani, del Nono Reggimento “Col Moschin”non ce l’ha fatta. Ieri, durante uno scontro a fuoco, due uomini sono stati feriti. Uno di loro è deceduto dopo poche ore. La vicenda è accaduta a sud di Herat.

Kabul è tappezzata di manifesti, come nemmeno durante le elezioni tinte dai brogli che riconfermarono Karzai nel 2009 si era mai visto. Oggi l’Afghanistan vota per eleggere la Camera bassa.

fficiale e confermato: le Poste Italiane e l’Iccrea (l’Istituto cui fanno capo le Banche di Credito Cooperativo) sono in avanzata trattativa per acquistare da Unicredit una controllata dal nome altisonante: il Mediocredito Centrale. Il tutto nel quadro della manovra che ha quale principale sponsor il ministro del Tesoro, Giulio Tremonti, per creare la Banca del Mezzogiorno concepita (fin qui sulla carta) per sostenere lo sviluppo imprenditoriale del Sud. Al primo (superficiale) colpo d’occhio, viene voglia di applaudire, anche perché l’operazione pare destinata a sicuro e rapido successo.

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Ancora sangue italiano a Herat U Morto un soldato colpito durante una sparatoria di Antonio Picasso

Oggi l’Afghanistan vota per la Camera

L’agguato peserà anche nelle urne

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seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

di Luisa Arezzo

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

182 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la polemica

prima pagina

Il Papa, il Risorgimento e Roma capitale

pagina 2 • 18 settembre 2010

Dopo Londra, rientrerà da Porta Pia di Riccardo Paradisi oma e l’identità nazionale è il titolo del convegno che si terrà oggi alla Sala della Protomoteca del Campidoglio con Ernesto Galli della Loggia, Sergio Romano e Vittorio Messori. Un’iniziativa che sarà presenziata dal sindaco di Roma Gianni Alemanno e che già nei nomi dei relatori – un liberale conservatore, un cattolico liberale e un cattolico conservatore – rivela la volontà d’un confronto delle posizioni e del superamento di reciproche delegittimazioni che a centoquarant’anni dalla fine del potere temporale della Chiesa, riesce ancora a dividere gli italiani.

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E del resto che la necessità di ricucire l’identità nazionale sia avvertita nei più alti luoghi istituzionali, siano essi repubblicani o vaticani, lo dimostrano le azioni messe in campo dal presidente Napolitano e dal Pontefice Ratzinger. Sembra infatti che il Colle sia intervenuto direttamente per indirizzare in un certo senso le iniziative organizzate dal Campidoglio per il compleanno di Roma capitale, suggerendo di arrivare a una commemorazione “condivisa” con la Santa Sede per non lasciare la festa del 140esimo anniversario della Breccia di Porta Pia alle adunate annuali che i radicali di Marco Pannella vi indicono ogni 20 settembre dando a quell’iniziativa una coloritura polemica nei confronti della presunta teocrazia che pregiudicherebbe la laicità repubblicana del nostro Paese. Oltretevere il Papa percorre la stessa strada della riconciliazione con segni talmente evidenti da essere messaggi espliciti. Riceve i bersaglieri in Vaticano, lasciandosi addirittura immortalare con il cappello piumato e invia il segretario di Stato Tarcisio Bertone ai festeggiamenti delle breccia di Porta Pia il 20 settembre. Risposte di alto profilo istituzionale ai segnali sempre più acuti e preoccupanti di divisione del Paese. Risposte che incrociano due precise strategie. Quella per la ricomposizione della memoria civile italiana portata avanti da Napolitano sulla scorta della presidenza Ciampi e quella dell’ecumenismo, nella fedeltà ai principi, di papa Ratzinger. Strategia di cui fa parte anche la visita in Gran Bretagna di questi giorni. Si tratta evidentemente di un passo in avanti decisivo rispetto agli sguardi unilaterali delle fazioni, agli integralismi anacronistici e sterili che hanno sempre segnato questa data cardinale della storia italiana. Quelli d’un laicismo anticlericale che a Porta Pia rivendica il proprio radicalismo e lamenta una rivoluzione protestante incompiuta e quella del reazionarismo di marca addirittura teocratica, che rimpiange il Papa re e magari il boia Mastro Titta. Qualcosa di non troppo marginale se nel 2008 il vicesindaco di Alemanno, Mauro Cutrufo, durante la cerimonia di commemorazione della presa di Roma, lesse a voce alta i nomi dei 19 caduti papalini nello scontro di Porta Pia, mentre non spese neanche una parola per i 49 soldati italiani che, tra bersaglieri e fanti, persero la vita nel combattimento. Revisionismi di cattolici più cattolici del papa e del cardinal Dell’Acqua che, delegato da Paolo VI in occasione del centenario della Breccia, definì la caduta del potere temporale «un segno benevolo della Divina Provvidenza». Un evento che sancì finalmente e cristianamente la separazione tra potere spirituale e potere temporale («Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio») auspicata dai cattolici liberali del Risorgimento. Non basta questo a ricomporre divisioni profonde e secolari ma d’ora in poi Alessandro Manzoni,Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini potranno sperare, un giorno, di riposare finalmente in pace.

il fatto Agli esponenti delle altre religioni: «Libertà e reciprocità per crescere insieme»

Una giornata particolare

Benedetto XVI e l’arcivescovo di Canterbury dicono: «Non parliamo di problemi, perché quelli li conosciamo tutti. Pensiamo invece ai progressi compiuti» di Vincenzo Faccioli Pintozzi l cammino ecumenico tra cattolici e anglicani è cresciuto, con gli anni «in maniera impressionante», pur nelle difficoltà, mentre il dialogo tra religioni - che mira alla conoscenza reciproca «per la pace e la mutua comprensione, offrendo perciò una testimonianza convincente» davanti al mondo sempre più lontano dalle fedi - «implica reciprocità da parte di tutte, la libertà di praticare la propria religione e di compiere atti di culto pubblico, come pure la libertà di seguire la propria coscienza senza soffrire ostracismo o persecuzione, anche dopo la conversione da una religione ad un’altra». Nella sua visita a una Gran Bretagna sempre più multietnica e multiculturale, Benedetto XVI ha dedicato la maggior parte della sua prima giornata londinese a una serie di incontri di carattere religioso. Esponenti delle altre fedi alla fine di una mattinata cominciata con docenti e alunni delle scuole cattoliche e l’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, nel pomeriggio. Ambiti ben diversi accomunati, nelle parole del Papa, dalla necessità che gli uomini di fede, e i cristiani in particolare, proclamino al mondo la preseza di Dio. «Da una parte – ha osservato nell’incontro con i vescovi anglicani, a Lambeth Palace - la cultura che ci circonda si sviluppa in modo sempre più distante dalle sue radici cristiane, nonostante una profonda e diffusa fame di nutrimento spirituale. Dall’altra, la crescente dimensione multiculturale della società, particolarmente accentuata in questo Paese, reca con sé l’opportunità di incontrare altre religioni. Per noi cristiani ciò apre la possibilità di esplorare, assieme ai membri di altre tradizioni religiose, delle vie per rendere testimonianza della dimensione trascendente della persona umana e della

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chiamata universale alla santità, conducendoci a praticare la virtù nella nostra vita personale e sociale. La collaborazione ecumenica in tale ambito rimane essenziale, e porterà sicuramente frutti nel promuovere la pace e l’armonia in un mondo che così spesso sembra a rischio di frammentazione. Allo stesso tempo, noi cristiani non dobbiamo mai esitare di proclamare la nostra fede nell’unicità della salvezza guadagnataci da Cristo, e di esplorare insieme una più profonda comprensione dei mezzi che Egli ha posto a nostra disposizione per giungere alla salvezza». Incontro cordiale, quello tra Benedetto XVI e il primate anglicano, con diversi precedenti, che ha fatto dire al Papa di non aver «intenzione parlare oggi delle difficoltà che il cammino ecumenico ha incontrato e continua ad incontrare. Tali difficoltà sono ben note a ciascuno qui presente».

Vorrei piuttosto, ha ripreso, «unirmi a Lei nel rendere grazie per la profonda amicizia che è cresciuta fra noi e per il ragguardevole progresso fatto in moltissime aree del dialogo in questi quarant’anni che sono trascorsi da quando la Commissione Internazionale Anglo-Cattolica ha cominciato i propri lavori. Affidiamo i frutti di quelle fatiche al Signore della messe, fiduciosi che egli benedirà la nostra amicizia mediante un’ulteriore significativa crescita». Clima sereno anche nell’incontro di fine mattinata con gli esponenti delle altre religioni religioni maggiormente presenti nel Regno Unito - ebrei, musulmani, hindu, sikh – non turbato neppure dalla notizia che la polizia londinese ha annunciato l’arresto di cinque persone, sospettando che stessero preparando un


l’intervista

«Il nemico comune è l’indifferenza» Parla Sandro Magister: «Le due confessioni cercano una strategia per difendere la fede» ROMA. Lo strano caso dei rapporti fra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Anglicana, così vicine e così lontane. Ma con eccellenti prospettive di collaborazione, che la visita del Papa in Gran Bretagna sancisce. Ci spiega l’intricata questione Sandro Magister, tra i più noti vaticanisti italiani, firma dell’Espresso e autore del blog “Settimo Cielo”e del sito www.chiesa.espressoonline.it. Qual è il significato dell’incontro di Papa Benedetto XVI con la Regina Elisabetta II? L’incontro tra queste due personalità è un caso abbastanza particolare, per il ruolo non solo politico istituzionale ma anche religioso di entrambi, e specie della Regina, che oltre ad essere Capo di Stato è anche capo amministrativo (certamente non dogmatico) della Comunione anglicana. Questo la distingue dagli altri Capi di Stato e dagli altri monarchi che il Papa incontra abitualmente. Per questo sullo sfondo prorompono allo stesso modo due grandi questioni, il confronto tra la Chiesa e la società britannica che è una delle più laiche del mondo, e allo stesso tempo il rapporto tra Chiesa cattolica e Comunione anglicana. E quali sono questi rapporti tra cattolici e anglicani? Tra Roma e Canterbury sono avvenuti grandi cambiamenti, specie con Benedetto XVI. Negli anni 60-70 era molto avanzato il dialogo ecumenico classico, e sembrava di essere a un passo dall’unificazione. Oggi questo dialogo ecumenico classico continua, ma è più difficile. Sotto questo profilo c’è stata l’accelerazione improvvisa dell’ala episcopale liberal che ha aperto ad esempio a sacerdozio

di Osvaldo Baldacci femminile e ordinazione e nozze di omosessuali, temi su cui non c’è possibilità di dialogo perché estranei alla tradizione cristiana fin dalle origini, come dicono anche gli ortodossi. Per capire il senso del viaggio del Papa e i rapporti tra le due confessioni si può forse tornare a un’altra visita ecumenica che pochi giorni fa ha fatto a Londra il numero due della Chiesa ortodossa russa, Ilarion. Dopo aver incontrato il primate anglicano Williams, in una conferenza Ilarion ha spiegato

La Chiesa cattolica non si è messa a caccia di conversioni, ma si è disposta ad accogliere chi la sta cercando

che i problemi attuali nei rapporti tra cristiani non passano tanto attraverso le divisioni fra le diverse confessioni, quanto piuttosto all’interno di ogni Chiesa – compresa quella ortodossa – tra l’ala liberal e quella legata alla tradizione, divisione presente in modo marcato all’interno della Chiesa anglicana. Infatti le scelte moderniste soprattutto in Nord America e Gran Bretagna hanno spaccato la Comunione Anglicana... Sì, c’è una contrapposizione netta tra le derive moderniste e altri gruppi molto tradizionalisti. Il dialogo tra le due linee si è quasi interrotto, e folti gruppi di fedeli, di sacerdoti, e intere diocesi bussano al-

attentato in contemporanea alla visita in Gran Bretagna del Papa, anche se non si è voluto confermare che l’obiettivo fosse proprio Benedetto XVI. «La presenza di credenti impegnati in vari campi della vita sociale ed economica – ha detto il Papa ai rappresentanti delle comunità religiose - parla eloquentemente del fatto che la dimensione spirituale della nostra vita è fondamentale alla nostra identità di esseri umani, in altre parole, che l’uomo non vive di solo pane. Quali seguaci di tradizioni religiose diverse, che lavorano insieme per il bene della comunità in senso ampio, noi diamo grande importanza a questa dimensione ”fianco a fianco”della nostra collaborazione, che completa l’aspetto ”faccia a faccia”del nostro costante dialogo». «Sin dal Concilio Vaticano II - ha proseguito la Chiesa cattolica ha posto speciale enfasi sull’importanza del dialogo e della collaborazione con i seguaci di altre religioni. E perché sia fruttuoso, occorre reciprocità da parte di tutte le componenti in dialogo e da parte dei seguaci delle altre religioni».

la porta per entrare nella Chiesa cattolica, vista come àncora sicura della tradizione di fede. Pochi mesi fa con un motu proprio Benedetto XVI ha aperto le porte a questi anglicani di ritorno fissando una sorta di percorso su cui molti si sono incamminati. Ecco, il punto è proprio questo doppio binario della Chiesa cattolica verso gli anglicani: da un lato si dialoga con la Chiesa istituzionale, da un lato c’è una sorta di ampio proselitismo. Non è una doppia linea che crea problemi? No, perché è un proselitismo involontario, la Chiesa cattolica non si è messa in caccia di conversioni, ma si è disposta ad accogliere chi la stava cercando, Infatti, sorprendentemente, l’annuncio di quel documento papale è stato dato insieme da Roma e da Canterbury. Questo tipo di novità non è visto da parte degli anglicani come qualcosa che crea paura, ostilità. Il primate Williams, se posso interpretare il suo pensiero, ha forse ritenuto inevitabile liberarsi di un’ala più tradizionalista per lui ormai ingovernabile, per dedicarsi al resto della Comunione, dove non restano solo i liberal, ma anche ampie fasce tradizionaliste che negano le derive moderniste ma ritengono di restare nella Comunione anglicana. Qual è la situazione di anglicani e cattolici in Gran Bretagna? La Gran Bretagna si sta caratterizzando per dati statistici singolari. Gli anglicani sono formalmente i più numerosi, seguiti dai presbiteriani scozzesi, e terzi i cattolici. Poi vengono altre confessioni come i metodisti cui apparteneva ad esem-

do efficace per la pace e la mutua comprensione, offrendo perciò una testimonianza convincente davanti al mondo». Questo genere di dialogo – ha sottolineato il vescovo di Roma - «deve porsi su diversi livelli e non dovrebbe essere limitato a discussioni formali. Il dialogo della vita implica semplicemente vivere fianco a fianco ed imparare l’uno dall’altro in maniera da crescere nella reciproca comprensione e nel reciproco rispetto. Il dialogo dell’azione ci fa ravvicinare in forme concrete di

pio Margareth Thatcher. Però il numero dei cristiani praticanti domenicali ormai tra cattolici e anglicani si equivale, con un piccolo sorpasso sancito dal 2006: i partecipanti regolari alla Messa cattolica sono 852mila, quelli anglicani 10mila di meno. E poi in percentuale i praticanti tra i cattolici sono il 15%, tra gli anglicani molti meno, forse il 5%, in una società che come è noto è molto secolarizzata. Questo mostra che la Chiesa anglicana è in difficoltà, direi quasi in via di evaporazione, mentre quella cattolica è più piccola ma più robusta, più intensa. Questo anche grazie a tre fenomeni, di cui due storici e uno nuovo. Già nell’800 e 900 si è realizzato il fenomeno di molte importanti conversioni al cattolicesimo nella classe alta degli inglesi, tra intellettuali, politici e anche religiosi, dal cardinal Newman a Graham Green a Tony Blair. Poi c’è stata l’immigrazione irlandese che ha incrementato la Chiesa cattolica. Ora questo passaggio di intere comunità anglicane al cattolicesimo, per il riconoscimento del primato di Roma nella custodia della tradizione di fede. Ma senza che per questo venga interrotta la collaborazione tra Roma e Canterbury, specie nella comune lotta contro l’indifferenza della società secolarizzata.

4mila studenti delle istituzioni cattoliche del Regno. E in contemporanea tutte le scuole cattoliche dell’Inghilterra, del Galles e della Scozia si sono collegate via internet per seguire in diretta l’evento. Un sorridente Benedetto XVI ha commentato che «non capita spesso ad un Papa — in verità nemmeno a qualsiasi altra persona — l’opportunità di parlare contemporaneamente agli studenti di tutte le scuole cattoliche dell’Inghilterra, del Galles e della Scozia». Incontro festoso, con canti, musica e testimonianze, diviso in due parti: la prima, nella cappella del college con circa 300 religiosi e religiose attivi nel campo dell’educazione, presente anche il ministro dell’istruzione Nick Gibb, la seconda al campo sportivo con gli studenti. In entrambi gli incontri, Benedetto XVI dedica il suo saluto al tema, a lui caro, della formazione integrale della persona. «Come sapete – dice ai religiosi - il compito dell’insegnante non è solo quello di impartire informazioni o di provvedere ad una preparazione tecnica per portare benefici economici alla società; l’educazione non è e non deve essere mai considerata come puramente utilitaristica. Riguarda piuttosto formare la persona umana, preparare lui o lei a vivere la vita in pienezza – in poche parole riguarda educare alla saggezza. E la vera saggezza è inseparabile dalla conoscenza del Creatore perché ‘nelle sue mani siamo noi e le nostre parole, ogni sorta di conoscenza e ogni capacità operativa’ (Sap 7,16)». Confermando che, prima ancora dell’ecumenismo, è la formazione dell’uomo a stare a cuore al pontefice della Chiesa universale.

La collaborazione e il dialogo fra religioni, sottolinea il pontefice, «richiede rispetto reciproco, libertà di praticare la propria religione e di compiere atti di culto pubblico»

Penso in particolare, ha proseguito, «a situazioni in alcune parti del mondo, in cui la collaborazione e il dialogo fra religioni richiede il rispetto reciproco, la libertà di praticare la propria religione e di compiere atti di culto pubblico, come pure la libertà di seguire la propria coscienza senza soffrire ostracismo o persecuzione, anche dopo la conversione da una religione ad un’altra. Una volta che tale rispetto e attitudine aperta sono stabiliti, persone di tutte le religioni lavoreranno insieme in mo-

collaborazione, mentre applichiamo le nostre intuizioni religiose al compito di promuovere lo sviluppo umano integrale, lavorando per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato. Questo tipo di dialogo può includere l’esplorare assieme come difendere la vita umana ad ogni stadio e come assicurare la non esclusione della dimensione religiosa di individui e comunità dalla vita della società. Poi, a livello delle conversazioni formali, non vi è solo la necessità dello scambio teologico, ma anche il porre alla reciproca considerazione le proprie ricchezze spirituali, il parlare della propria esperienza di preghiera e di contemplazione, l’esprimere a vicenda la gioia del nostro incontro con l’amore divino». Nella mattina di ieri, invece, il pontefice ha incontrato nel St Mary’s University College di Twickenham circa


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l’approfondimento

Aleggia l’idea che sia buono per inciuci e pateracchi: nulla di più distante dalla realtà per l’uomo che ruppe con gli anglicani

A proposito di John Henry

Domani a Birmingham il pontefice beatifica Newman, il cardinale che ruppe con la Chiesa d’Inghilterra. Ora molti lo vorrebbero arruolare come «mediatore», mentre il suo ultimo (e unico) credo era la conversione totale di Marco Respinti grazie a Newman che sono diventata cattolica. Né i martiri decapitati della cristianità, né le suore mistiche ed estatiche della tradizione europea, né le cinque prove dell’esistenza di Dio dell’Aquinate, né gli opuscoli dei miei conoscenti cattolici sono stati in grado di fornirmi risposte paragonabili a quelle che ho trovato in Newman». Annota così la scrittrice scozzese Muriel Spark (1918-2006), di padre ebreo e madre protestante, che nel 1954 entrò nella Chiesa romana universale, nella bellissima prefazione alla raccolta di scritti del beato John Henry Newman (1801-1890) che ora esce in italiano, a cura di Vincent Ferrer Blehl s.j. (19212001), il postulatore della causa di beatificazione dell’alto prelato inglese, con il titolo Aprire il cuore alla verità.

«È

Tredici sermoni scelti da lui stesso (Lindau,Torino), originariamente pubblicato in Gran Bretagna nel 1964. E così la mente e il cuore non possono

non tornare a Domenico Bàrberi della Madre di Dio (17921849), pure lui beato, nato a Viterbo e morto a Reading, colui che condusse per mano il beato Newman dentro la Chiesa Cattolica nel 1845, padre passionista che a lungo svolse il proprio ministero in quel convento posto nell’incantevole sommità del Monte Argentario, lui che imparò il latino sulle Scritture e poi l’inglese per missione, e alla fine votò tutto se stesso e la propria esistenza alla predicazione al popolo inglese e al ritorno a casa degli anglicani, un grande di cui il mondo non ha più memoria.

Perché fu la piena e totale ragionevolezza della fede cattolica ciò che convinse il beato Newman della vuotezza dell’anglicanesimo, lui che si era votato alla battaglia conservatrice dentro la Chiesa d’Inghilterra onde preservare la Comunione Anglicana da qualsiasi nefasto influsso eretico esterno. Il beato padre Domenico fu infatti assolutamente essenziale nel far percepire al beato

Newman l’impossibilità d’interpretare i Trentanove Articoli della professione di fede anglicana come una “inculturazione” storica e locale del cattolicesimo inglese, giacché invece proprio quello era lo sforzo supremo che cercava di compiere il Newman anglicano e con lui il comunque benemerito Movimento di Oxford e poi ancora oggi l’anglo-cattolicesimo. Ebbene, quella ragionevolezza, giocata appieno dentro le derive della Modernità e del suo pensiero deludente, e già totalmente immersa nel confronto

L’editoria italiana continua a privarsi degli essenziali lavori di Stanley L. Jaki

diretto con l’afasia debolistica del filosofare contemporaneo, è il dono di luce più grande che la teologia newmaniana consegna ai nostri tempi confusi, il valore aggiunto che il beato oratoriano di Birmingham offre al mondo di oggi, l’attualità più cogente che Papa Benedetto XVI riconosce all’enorme ragionar mistico del santo inglese sin da che ne venne plasmato e formato decenni fa. Altrimenti davvero non si gusterebbe sino in fondo la nobile testimonianza scritta lasciataci in eredità dalla Spark.

Ebbene, dei molti (troppi?) libri che ora (tardi?) si pubblicano su Newman, qualcuno bene sottolinea la dimensione fondamentale (letteralmente: fondamento imprescindibile di ogni e qualsiasi altra valutazione) di quel matrimonio fides et ratio. La ragionevolezza della fede di Lina Callegari con prefazione del padre comboniano Fidel González Fernández, consultore nel processo per la beatificazione del presule (Ares, Milano) – libro da studiare anche mediante il reagente di contrasto fornito da un altro buon testo di taglio storico edito ora dalla milanese Ares, Elisabetta «la Sanguinaria». La creazione di un mito. La persecuzione di un popolo di Elisabetta Sala – e lo specialistico (ma da quando è diventata una obiezione?) Cultura, educazione e politica nel pensiero di John Henry Newman (Vita e Pensiero, Milano 2008) del giovane bensì preciso ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Giuseppe Bonvegna. Eppure l’editoria italiana continua a vietarsi alcuni contributi


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Parla ai londinesi dall’interno della loro storia e della loro coscienza

La missione possibile del Papa ecumenico Con questo viaggio, Benedetto XVI dimostra che l’amore per il prossimo rende lecito il desiderio di convertirlo di Rocco Buttiglione segue dalla prima Per molti fare dell’ecumenismo è un po’ relativizzare la propria fede, che è una fra le tante, né meglio né peggio delle altre. E soprattutto: che nessuno pensi che io voglio convertire qualcuno alla mia fede; lungi da me l’aborrita parola missione. Qualche collega professore di Papa Ratzinger ha trasformato questo stato d’animo in una teologia (o in una filosofia della religione). Penso (è ovvio) ad Hans Kung.

L’ecumenismo di Ratzinger è diverso, proprio perché non mette fra parentesi la parola missione e la parola conversione. L’ecumenismo di Ratzinger sta dentro la missione della Chiesa. Se amo veramente qualcuno ed ho vinto la lotteria sarebbe davvero strano che non desiderassi di condividerla con la persona amata. Se non sento l’impulso di condividere la mia fede con quelli che amo allora vuol dire che per me la fede vale meno di un biglietto vincente della lotteria. A me sembra anche che chi si adonta del tentativo di un altro di convertirlo alla sua fede sia un po’ intollerante ed anche stupido. Ho un vecchio amico convinto che il marxismo sia la salvezza del mondo. Non mi adonto dei suoi tentativi di convincermi. Se non lo facesse lo sentirei meno amico. Certo, e qui comincia lo spazio dell’ecumenismo, il tentativo di convertire non è offensivo ed è credibile solo se io amo la persona alla quale mi rivolgo. Se comincio con il disprezzare lui e la sua cultura e con lo spiegargli che è un figlio del demonio condannato alla dannazione eterna è comprensibile se l’altro mi manda a quel paese. Se parlo dal piedistallo di una cultura superiore (la mia) per spiegargli che lui è un selvaggio comincio certamente con il piede sbagliato.

ghilterra ma la perfezione (dolorosa) della sua appartenenza a quella Chiesa. Pensate che, a un certo punto, già convinto della verità della fede cattolica, Newman si domanda se abbia il diritto di tornare alla fede cattolica da solo. Egli ama tanto quella sua Chiesa d’Inghilterra che forse preferirebbe restare con essa per favorirne la maturazione verso l’unione con Roma piuttosto che convertirsi da solo. Alla fine si decide perché si rende conto di non avere il diritto di non convertirsi e pensa che questa testimonianza servirà più di qualunque altra cosa al cammino della riunificazione. Andare in Inghilterra per canonizzare Newman significa per Benedetto XVI parlare agli inglesi dall’interno e non dall’esterno della loro storia e della loro coscienza. Non è facile. Non è facile oggi e certo era meno facile ancora al tempo di Newman. La coscienza nazionale inglese si è formata, in buona misura, contro il cattolicesimo come rivendicazione orgogliosa non solo di indipendenza ma anche di diversità culturale contro Roma (e contro il continente europeo). Molti miti nazionali sono anticattolici, dalla vittoria contro la Grande Armada degli spagnoli alla congiura delle polveri di Guy Fawkes... e ancora oggi contro il Papa il secolarismo cerca di mobilitare proprio queste memorie. Nel momento tuttavia in cui essa è sfidata da una globalizzazione che ne minaccia i valori fondamentali e la induce a rimettersi in questione il cattolicesimo appare a molti come l’argine necessario contro la perdita di identità e contro l’imbarbarimento, contro la dissoluzione dell’insieme di valori che costituiscono questa identità. Molti pensano che separata da Roma la Chiesa d’Inghilterra non abbia più la forza di svolgere il suo servizio alla nazione. Proprio questa spiega la ondata massiccia di conversioni al cattolicesimo di questi ultimi anni che coinvolge vescovi, pastori e laici. Ascolteremo cosa il Papa dirà nella sua omelia per la canonizzazione di Newman. In questo momento di crisi (cioè di scelta) la figura di Newman è essa stessa un messaggio: il più inglese degli inglesi ed il più cattolico dei cattolici del tempo suo.

Credere completa ma non rinnega le attese e le speranze fondamentali di ogni cultura

Amare l’altro significa amare la sua cultura che è un elemento costitutivo della sua umanità e conoscerla dall’interno. Per diventare cattolico non è necessario smettere di essere inglese o russo per diventare italiano o spagnolo. La fede completa ma non rinnega le attese e le speranze fondamentali di ogni cultura. Joseph Ratzinger va in Inghilterra per beatificare un santo inglese, ma così inglese che più inglese non si può. John Henry Newman riunisce in sé in un modo che una volta si sarebbe pensato impossibile due caratteristiche a lungo pensate come incompatibili: è un gentiluomo britannico ed è un prete cattolico. Per di più è un grande teologo anglicano prima di essere (anche e come diretta conseguenza) un grande teologo cattolico. Il punto di partenza del suo cammino è la ricerca della purezza della fede anglicana. La sua conversione non è un ripudio della Chiesa d’In-

essenziali a questo tema imprescindibile dell’ora presente. Per esempio quelli firmati da Stanley L. Jaki (1924-2009), ungherese naturalizzato statunitense, monaco benedettino, sacerdote, teologo, filosofo e storico della scienza fra i più indispensabili, alla bisogna pure vivace polemista, autore prolificissimo eppure mai banale, newmaniano doc, il quale al beato di Birmingham ha dedicato in tutto una buona decina di opere alte così, tutte nella sostanza perfettamente ignote alle nostre latitudini, un uomo che tutti coloro che hanno avuto la grazia di conoscere ne son rimasti toccati. Basterebbe del resto “poco” per colmare la lacuna, anche solo un “assaggio” quali sono i suoi Aplogetics as Meant by Newman e soprattutto The Church of England as Viewed by Newman (entrambi editi da Real View Books, nel Michigan, il primo a Port Huron e il secondo a Pinckney, rispettivamente nel 2005 e nel 2004). Perché un brutto spettro si aggira oggi dalle nostre parti, ed è quello spirito malizioso abituato a disseminare fumi e zolfo in nome di un divide et impera perniciosissimo, oggi riformulato nella versione “Newman, campione dell’ecumenismo”.

Aleggia, cioè, l’idea che il convertito Newman sia buono per inciuci e pateracchi, serva a stare in mezzo al fosso, fornisca l’alibi del mezzo inteso solo come fine e non più come strumento. Ma nulla potrebbe essere più distante dalla realtà e contrario alla verità di questo, come appunto gli studi puntuali di dom Jaki dimostrano. Newman lasciò la Chiesa anglicana dopo essersi in tutti i modi sforzato per salvarla, anche in extremis, pure tentando di acciuffarla per i capelli, e quando se ne andò lo fece sbattendo la porta. Il suo approfondimento, durato una vita intera, giunse cioè alla conclusione che nell’anglicanesimo non vi è nulla da salvare, nulla da proporre ai cattolici. Il beato Newman uscì dall’anglicanesimo mutando vita, orientamento, direzione. Certamente lo aveva condotto lì il suo nobile e disinteressato sforzo di ricuperare la Chiesa d’Inghilterra da quella che egli stesso giudicherà vera e propria perdizione, ovvero il suo darsi gratuitamente e gene-

rosamente alla fede che in quel momento lo definiva, ma non per questo l’esito del suo pellegrinaggio fu meno dirompente. Newman era “già santo” quando era anglicano proprio per quel suo tentativo (che profondeva con slancio senza pari) di servire Dio al meglio dentro la Chiesa d’Inghilterra, un tentativo che però lo portò puntualmente a capire che il vero servizio a Dio non abitava lì, nell’anglicanesimo, ma tutto solo nel cattolicesimo, e quindi il suo amore fu premiato dall’Alto con il dono della santità autentica, cattolica.

Documentazione ve n’è a iosa per esempio eminente in quella preziosa raccolta di scritti newmaniani pubblicata con il titolo Anglican Difficulties (Real View Books, Port Huron 1994), sempre a cura del prode Jaki, che non lascia certo adito a dubbi, spazi a ripensamenti, angoli per sotterfugi. Ecco, pensare oggi di arruolare il beato Newman soprassedendo ai lati più scomodi del suo “divin carattere”, ignorando i suoi saggi, i suoi sermoni e quelle letture che inviò a destra a manca senza rispetto umano né peli sulla lingua onde convincere anglicani di ogni rango e risma a lasciare Caterbury per Roma o bypassando le sue continue polemiche con la Chiesa d’Inghilterra che considerava nemmeno più un errore ma persino una contro-Chiesa votata alla diffusione cosciente all’errore al fine d’immaginare fantasiosamente di proporlo come l’emblema, e per di più canonizzato, del compromesso storico e culturale rasenterebbe il risibile se non fosse cosa tragica. Per Newman è chiarissimo che l’unico ecumenismo sostenibile è la conversione totale, brucia ciò che sin qui hai adorato, adora ciò che sin qui hai bruciato. Cinque secoli prima del beato Newman, san Tommaso Moro (1478-1535) salì sul patibolo dello sciagurato Enrico VIII (1491-1547) perché non fu disposto a impersonare il ruolo dell’“uomo per tutte le stagioni”. Quando si convinse che quell’antico defensor fidei antiluterano che prima di apostatizzare era stato il sovrano Tudor non poteva essere difeso al prezzo della coscienza e della verità, ma soprattutto del Dio candido e innocente, e quindi si arruolò volontario nell’esercito zuavo di saint Thomas More, il beato Newman gridò al mondo che nemmeno lui era disposto alla menzogna. Alla sua memoria mica allora vorremo far torto noi oggi, vestiti i panni di un redivivo Enrico VIII ideologico, decapitandolo in nome di un inutile irenismo che per principio e sistema sacrifica la verità a un non meglio precisato “dialogo”, come sin troppo spesso accade, purtroppo, proprio dentro il mondo cattolico? www.marcorespinti.org


diario

pagina 6 • 18 settembre 2010

Federalismo. Calderoli accelera sugli altri passaggi. «Questo lo abbiamo votato perché Alemanno è venuto a piangere»

A Roma il contentino di Bossi Sì al decreto sulla capitale. «Ora ce ne vuole una al Nord», avverte il Senatùr di Errico Novi

ROMA. Giusto in tempo per il week end di celebrazioni. Gianni Alemanno lascia un Consiglio dei ministri a cui gli permettono di affacciarsi dopo la fine dei lavori e ha l’aria di un sindaco sollevato. Certo, il decreto attuativo su Roma capitale varato dal governo è solo una vaga cornice. Non attribuisce poteri, anzi riduce sia il numero dei consiglieri che quello dei “municipi”. Ma il decreto c’è, appena in tempo, appunto. Alla commemorazione dei 140 anni da Porta Pia – che culminerà lunedì con la presenza di Giorgio Napolitano e, per il Vaticano, di Tarcisio Bertone – a quella festa solenne, il sindaco Alemanno potrà presentarsi con il provvedimento su Roma capitale in tasca. Potrà sventolarlo metaforicamente, esporre soprattutto le firme di due ministri della Lega, Umberto Bossi e Roberto Calderoli, dopo anni di insulti alla città eterna. Basta a bilanciare le offese della Lega e, soprattutto, il fedai deralismo voluto lumbàrd? Evidentemente no. Tanto più che il via libera di ieri è solo un’anteprima rispetto a un secondo decreto, che dovrebbe definire davvero le prerogative di Roma. Dovrebbe arrivare entro novembre, assicura sempre Alemanno. Adesso c’ «un barattolo vuoto», come lo qualifica il componente Udc della bicameralina per il federalismo Gian Luca Galletti, il quale chiarisce di essersi astenuto giovedì scorso sul parere al testo solo «in ossequio al titolo che almeno sulla carta ribadisce il ruolo centrale di Roma per la nostra nazione». Ma allora il senso dov’è? Si trova forse in un tentativo di composizione in corso da tempo tra due componenti della destra di governo, quella populista-territoriale di Bossi, appunto, e quella popolarestatalista degli ex An rimasti fedeli a Berlusconi. Un percorso fatto di compromessi, passato per accordi anche più significativi rispetto alla firma di ieri, a cominciare dalla concessione dei fondi a Roma capitale, prevista dalla Finanziaria dell’anno scorso grazie

Dopo il primo testo su Roma capitale approvato ieri, Renata Polverini e Gianni Alemanno (sopra) dovranno trovare l’intesa sui contenuti del secondo decreto attuativo, in arrivo a novembre. In basso Umberto Bossi alle trattative tra Calderoli, Tremonti ed ex An come Augello e Baldassarri. Il decreto appena varato, che oggi sarà pubblicato in Gazzetta ufficiale, è solo una ciliegina, una concessione simbolica «di facciata», come dice Galletti.

Tanto è vero che Bossi ci ride su, anzi ne approfitta per dedicare lazzi ad Alemanno: «Roma capitale? Ora ci vuole quella del Nord», dice il Senatùr subito dopo la riunione

Carroccio appongono la loro firma. deve sorbirsi sfottò persino dal compassato Gianni Letta: «È andata, ma i ministri della Lega hanno votato contro», dice infatti il sottosegretario al sindaco. Scherzo un po’ sadico, che si risolve in un liabberatorio braccio tra Alemanno e Calderoli. Certo, le battute di

Ridotto il numeri dei consiglieri comunali e dei municipi. Ma il provvedimento è un sigillo sull’intesa tra la destra lumbàrd e quella degli ex An, con Berlusconi ai margini di Palazzo Chigi. Affermazione poco sensata, forse al pari del decreto. «E poi l’abbiamo votato solo perché il sindaco di Roma è venuto piangendo», è la chiosa da bar. È vero, appunto, che il primo cittadino della Capitale si intrufola nella sala del Consiglio dei ministri al termine della discussione, proprio mentre i rappresentanti del

Bossi non mancano di suscitare disappunto tra i finiani: Granata per esempio ricorda che «così come la Padania non esiste, Roma è l’unica capitale d’Italia: quella di Bossi è geografia creativa». Ma sono polemiche senza sale, in attesa dei passaggi più consistenti della riforma federalista: quello sui costi standard per comuni e province, innan-

zitutto, sul quale la commissione bicamerale comincerà a discutere già dalla settimana prossima; quindi il decreto sull’autonomia impositiva delle Regioni, sottoposto due giorni fa in versione abbozzata da Tremonti e Calderoli ai governatori.

Proprio Calderoli ha inserito negli ultimi giorni una marcia più alta, sul percorso della riforma, anche per prevenire una sempre possibile interruzione della legislatura. Alemanno lo ha asse-

condato per due motivi: per avere un decreto, anche svuotato di contenuti come questo,

da portare alle celebrazioni di Porta Pia e per preparare la strada al secondo decreto, quello più corposo sui poteri della capitale per il quale servirà l’accordo con Regione e Provincia. In nome dei tempi stretti il sindaco si accontenta di rinviare alle postille del Codice per le autonomie una correzione sul numero dei consiglieri, dai 48 previsti con il testo approvato ieri ai 60 che Alemanno fino all’ultimo ha inutilmente preteso da Calderoli. Ottiene la ridenominazione del Consiglio comunale in Assemblea capitolina, poteri straordinari per il Parlamentino della città su alcune materie e il diritto a presenziare al Consiglio dei ministri quando si discutono demi riguardanti Roma. In questo primo decreto in pratica non c’è altro. Ciononostante i dirigenti del Pdl, da Cicchitto a Gasparri, da La Russa alla Meloni, lo festeggiano come una grande prova dell’unità della coalizione e «dell’esistenza del governo». Francesco Giro si spinge fino a sostenere che si è aperta «una seconda breccia». Ma il senso, come detto, è altrove: mentre Berlusconi rassicura il Consiglio che «nessuna compravendita di deputati è in atto» e che «i nuovi voti di fiducia in arrivo per il governo provengono da parlamentari quasi tutti già eletti con la maggioranza», si perfeziona all’ombra del Colosseo il nuovo patto tra la destra leghista e quella post-aennina. Una lenta progressiva spartizione del consenso improvvisamente liberato proprio dal declino della leadership berlusconiana.


diario

18 settembre 2010 • pagina 7

Le esasperazioni della lotta politica e l’uso spregiudicato dell’informazione rischiano di infiammare la società

Prove di nuovo terrorismo Le contestazioni a Schifani, Bonanni e Ichino sono i segni di un pericolo in agguato di Giuliano Cazzola siste davvero, come ha sostenuto alcuni giorni or sono il ministro Roberto Maroni, il pericolo di un ritorno del terrorismo. La nostra non è una domanda ma una considerazione meditata. Per il tono delle sue considerazioni e per la concomitanza della ricorrenza tragica dell’11 settembre, il titolare del Viminale pensava a possibili attentati rievocativi. Ma è evidente che le preoccupazioni riguardano anche le vicende di casa nostra.Tralasciamo pure la violenza del confronto politico. Ormai una certa parte dell’establishment è arrivato a giustificare il tirannicidio compiuto con ogni mezzo, ipotizzando persino una sorta di arco costituzionale di nuovo tipo in grado di raccogliere, alla stregua di un moderno Cln, tutte le forze politiche in qualche modo ostili a Berlusconi.

E

della contestazione. Bonanni ha rischiato di farsi male, Ichino ha subito alcune provocazioni a parole e gesti, nulla di più. Ma la sua scorta è dovuta intervenire. Nei due casi, tuttavia, il segnale di fondo è della medesima sostanza che, negli anni scorsi, ha armato la mano degli assassini di Massino D’Antona e di Marco Biagi. E prima ancora di Ezio Tarantelli e di Roberto Ruffilli. Il processo logico è di una estrema semplicità: se le cose vanno male le

spiegazioni non vanno cercate nelle trasformazioni economiche, demografiche ed occupazionali ma nel comportamento delle persone. Cosi ad Ezio Tarantelli venne imputato il progetto di revisione della scala mobile, un istituto retributivo che consolidava l’inflazione e contribuiva a distruggere il poter di acquisto dei lavoratori e a devastare l’economia del paese, ma che, a sinistra, era ritenuta una fondamentale conquista sindacale, tanto che ci vollero più di dieci anni per venirne a capo. A Marco Biagi venne attribuita addirittura la responsabilità del cosiddetto precariato, come se uno studioso potesse orientare rapporti sociali operanti in tutta Europa. La conclusione è sempre la stessa: tutta colpa dei traditori della classe lavoratrice.

È emblematica le speculazione che si sta facendo sul precariato scolastico, prodotto dalla sinistra

A questa subcultura si riferisce sicuramente la provocazione di Torino nei confronti del presidente del Senato Renato Schifani. Non a caso i contestatori di Schifani avevano un preciso profilo politico, nel senso che erano militanti di un partito forcaiolo che sta facendo concorrenza persino a Di Pietro e alla Idv. Gli aspetti inquietanti riguardano le contestazioni a Raffaele Bonanni (sempre alla Festa Pd di Torino) e a Pietro Ichino a Milano, in analoghe circostanze. Tra i due episodi vi sono delle differenze con riguardo all’intensità

Se tutti i sindacalisti fossero come Maurizio Landini, non vi sarebbero mai state rinunce dei fondamentali diritti dei lavoratori e la classe lavoratrice avrebbe continuato a lottare e a vincere. I sindacalisti come Bonanni, invece, sono sempre disposti a fare ciò che pretende la Fiat (ovviamente ai danni delle classi lavoratrici). Anche Ichino è sospettato di tradimento per il semplice fatto che le sue proposte si muovono su di un terreno sicuramente innovativo e mettono in discussione i sancta sancto-

rum di un vecchio andazzo delle relazioni industriali travolto dalla storia e prima ancora dall’economia. In questo modo si costruiscono dei simboli, in un contesto socioeconomico molto delicato e complesso. Da sempre il terrorismo rosso va alla caccia dei simboli, perché ritiene che questo sia il modo per entrare in sintonia con le masse. Poi rimane anch’esso prigioniero di una visione soggettivistica dei processi secondo la logica del «colpirne uno per educarne cento». Il rischio che stiamo correndo a fronte di una conflittualità sociale sicuramente grave, ma che viene «sbattuta in prima pagina» senza nessuna analisi critica. Lo scempio irresponsabile che si sta facendo del problema dei precari della scuola è scandalosamente indicativo. I media si ostinano a mandare in onda persone che pongono legittime istanze di carattere personale (chi non desidera un posto sicuro dietro una cattedra?). Nessuno però si prende la briga di andare alla radice delle situazioni perché è difficile spiegare che nella scuola non c’è più posto in considerazione del fatto che il rapporto tra docenti e studenti da noi è tra i più bassi del mondo. È questo il brodo di coltura del terrorismo. Se non si vedono ancora i morti per le strade dipende dal fatto che le nuove Br non sono ancora in grado, sul piano operativo, di passare alla lotta armata. Ma forse è solo questione di tempo.

Crack. Chiesti cinque anni e mezzo di carcere per Massimo Faenza, ex ad dell’Istituto

Italease, quando la banca diventa un virus di Alessandro D’Amato

ROMA. Cinque anni e mezzo sato solo di appropriazione no «procurato danni ingentisdi carcere. Questa è la condanna chiesta a Milano per l’ex ad di Banca Italease, Massimo Faenza, dal pm Roberto Pellicano al termine della requisitoria del processo per la vicenda dei derivati, in cui gli imputati sono accusati di associazione per delinquere finalizzata all’appropriazione indebita. Il pm Roberto Pellicano ha chiesto ai giudici del tribunale di condannare anche l’ex responsabile delle relazioni esterne della banca, Pino Arbia, e i mediatori Leonardo Gresele e Luca De Filippo a 4 anni e mezzo di carcere, l’allora direttore finanziario della Danieli Mauro Mian (accu-

indebita) a tre anni di carcere, e altri due mediatori, Gianluca Montanari e Claudio Calza, rispettivamente a un anno e mezzo e un anno e quattro mesi. Per questi due la pena chiesta è uguale a quella che tempo fa avevano cercato di patteggiare. Le ri-

simi, perché hanno danneggiato un’istituzione con ricadute sulla collettività. Alla fine - ha proseguito - c’è stato un meccanismo che attraverso la quotazione in borsa e quindi il ricorso al capitale di rischio per cui hanno perso gli azionisti».

Il Tribunale di Milano dibatte le operazioni «allegre» sui derivati che hanno causato una perdita totale di un miliardo di euro chieste di condanna sono arrivate dopo un paio d’ore di requisitoria nella quale il pm nella sua ricostruzione ha concluso che i fatti contestati sono molto gravi perché han-

Non solo. Pellicano ha anche detto che «poiché una banca è più difficile che venga percepita come fonte di allarme sociale questa associazione può essere più dannosa, se si prescinde dagli aspetti dell’incolumità della persona, di un’associazione che fa cento rapine». Il pm ha parlato di «fatti commessi dagli imputati con una struttura associativa

molto sofisticata» che come «un virus che sfrutta l’organismo altrui» si è inserita nella banca. E dell’esistenza di «un gruppo coeso» che ha prati-

cato un’attività che è stata quella «di impoverire costantemente la banca» attraverso le operazioni effettuate con i derivati «quelli esotici che non avevano alcuna finalità commerciale ed economica». L’appropriazione indebita contestata è di circa 23 milioni di euro. L’avvocato di parte civile Giovanni Arcinni ha chiesto il risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali da liquidarsi in separata sede e una provvisionale immediatamente esecutiva che corrisponda almeno alle somme dell’appropriazione indebita e cioè di quasi 30 milioni. Faenza è stato arrestato nel gennaio del 2008. Le operazioni ‘allegre’ sui derivati hanno causato alla banca una perdita di un miliardo di euro.


economia

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Puzzle. Prende forma un colossale affaire finanziario-politico che coinvolge Alessandro Profumo, Fini e il Carroccio veneto

A Sud di Tremonti Poste e Iccrea «comprano» Mediocredito e così (con il sì di Bossi) nasce la Banca del Mezzogiorno di Giancarlo Galli fficiale e confermato: le Poste Italiane e l’Iccrea (l’Istituto cui fanno capo le Banche di Credito Cooperativo) sono in avanzata trattativa per acquistare da Unicredit una controllata dal nome altisonante: il Mediocredito Centrale. Il tutto nel quadro della manovra che ha quale principale sponsor il ministro del Tesoro, Giulio Tremonti, per creare la Banca del Mezzogiorno concepita (fin qui sulla carta ) per sostenere lo sviluppo imprenditoriale del Sud.

U

Al primo (superficiale) colpo d’occhio, viene voglia di applaudire sino a spellarsi le mani, anche perché l’operazione pare destinata a sicuro e rapido successo. I potenziali acquirenti avendo infatti conferito mandato a due prestigiose società di consulenza internazionale (Kpmg e Price Waterhouse) di condurre la due diligence. In pratica, compiere una verifica delle strutture operative e fissarne il valore. Quindi i milioni da pagare a Unicredit, che di quattrini ha un gran bisogno. E per questo va pianificando (oltre a un drastico ridimensionamento degli organici, col taglio di oltre 4mila posti di lavoro) una globale riorganizzazione strategica onde sfrondare rami secchi e ridare respiro ai bilanci divenuti avari. Come testimonia la caduta degli utili (da 6448 milioni di euro nel 2006 ai 1702 del 2009); nonché il crollo verticale del titolo in Borsa. Nel triennio da 6,5 a 0,6 euro, per faticosamente risalire verso gli attuali 2 euro. Che l’amministratore delegato di Unicredit Alessandro Profumo abbia interesse a vendere il Mediocredito Centrale, è dunque fin troppo ovvio. Quell’Istituto statutariamente preposto a distribuire credito alle aziende, specie dal Tevere in giù, è stato oltretutto un figlio minore della grande banca. Comprensibile: il Mediocredito Centrale, sede a Roma, ha costituito per decenni un’appendice della finanza clientelare e statizzata,

sino all’arrivo al vertice di Gianfranco Imperatori, politicamente vicino al Psi craxiano. Nonché legato al più intraprendente banchiere romano, Cesare Geronzi. Sarà proprio Imperatori, gagliardamente sopravvissuto agli tsunami politici della Prima Repubblica, a manovrare (prima della sua morte, nel 2009), portando il Mediocredito Centrale in Ca-

Tutto nasce dalla necessità di Unicredit di tagliare i «rami secchi» e fare cassa dopo un anno difficilissimo pitalia. Da qui, col successivo rimescolamento di carte, in Unicredit. Come nella pessima tradizione italica, matrimoni e divorzi finanziari si celebrano sempre nell’ombra. Pertanto, l’interrogativo: perché Profumo, che negli anni magici della carriera puntava all’estero, la Germania in particolare, con l’acquisto della bavarese Hvb, s’accolla Mediocredito Centrale e Banco di Sicilia? Fu il Governatore Antonio Fazio allora in tandem con Cesare Geronzi ad impedirglielo?

Comunque, che Unicredit si alleggerisca è comprensibile. Da spiegare invece (nei limiti del possibile, ovvio) i motivi di attenzione di Poste Italiane e dell’Iccrea. E qui la vicenda si fa complessa, intrigante. Lo snodo può apparire un dettaglio, una questione di lana ca-

prina: nonostante la migrazione da un padrone all’altro, il Mediocredito Centrale dispone di una “licenza bancaria”. Mai utilizzata, ma utilizzabile in ogni momento che le consentirebbero di aprire filiali e sportelli: boccone interessante e ghiotto, non può però interessare Unicredit. La Casa Madre (e un po’ matrigna, nella fattispecie), dispone infatti di strutture e organigrammi già sovrabbondanti. Specie nel Mezzogiorno, avendo inglobato pure il Banco di Sicilia.

Flash-back. Nell’Era Geronzi, in Capitalia, ha preso forma una galassia che pare volere prendere il posto della già onnipotente Mediobanca, orfana del suo mitico dominus, Enrico Cuccia. Senonché Geronzi (molto vicino a Silvio Berlusconi sin dai tempi in cui appoggiò la quotazione in Borsa di Mediaset), con una serie di mosse da eccelso scacchista, dapprima si sgancia dal governatore Antonio Fazio caduto in disgrazia e obbligato a dimettersi dalla Banca d’Italia, poi si fa eleggere alla presidenza della stessa Mediobanca. Breve permanenza e nuovo salto in alto: presidenza delle Assicurazioni Generali di Trieste, il “salotto buono” dei poteri forti italiani. Schema-

tizzando a beneficio della comprensione: al momento esistono tre potentati bancario-finanziari, incarnati da Cesare Geronzi, Giovanni Bazoli (Gruppo Intesa-San Paolo) e Alessandro Profumo (Unicredit). Politicamente Geronzi è filogovernativo; Bazoli e Profumo, ex prodiani e comunque simpatizzanti per il Partito democratico, anche per

via della “crisi bancaria” si trovano in posizione delicata. Con una differenza però di personalità e carisma: mentre Bazoli dispone di un’immagine e di una stima super-partes (sino a venire considerato nell’establishment l’erede di Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia, per la capacità di sottrarsi alle influenze dei potenti politici di turno), Profumo deve ancora battersi per conquistare piena legittimazione nel Gotha. Quindi appare il più vulnerabile.

È in questo scenario che si sta muovendo, con invidiabili capacità tecniche e diplomatiche, il ministro del Tesoro, Giulio Tremonti, universalmente riconosciuto vicino


economia

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I PROTAGONISTI Giulio, il regista Giulio Tremonti è il resista dell’operazione. Da un lato, mette a tacere le smanie del Pdl del Sud al quale, da tempo, ha promesso una nuova «Cassa del Mezzogiorno». Dall’altro, aiuta la Lega a contare di più in Unicredit: la vendida di Mediocredito centrale, infatti, porta nelle casse del colosso di Piazza Cordusio denaro fresco per «radicarsi» al Nord. Proprio come chiedono Zaia e Tosi.

Profumo, il venditore Le banche occidentali hanno rischiato di uscire con le ossa rotte dalla crisi del 2009. Per Unicredit, si trattato di qualcosa di più che un rischio: i conti dell’anno passato sono stati negativi. Ecco da dove nasce l’esigenza di Alessandro Profumo di vendere e fare cassa. Quale miglior occasione, per Profumo, al tempo stesso di guadagnare e fare un favore a Tremonti e a Bossi?

Zaia, l’astro nascente

Qui sopra, Massimo Sarmi, ad di Poste Italiane: è lui l’uomo scelto da Giulio Tremonti (con il via libera di Umberto Bossi) per gestire la Banca del Mezzogiorno

alla Lega di Umberto Bossi, che infatti lo porta in palmo di mano e, per dirla in linguaggio padano, non muove foglia bancaria che Giulio non voglia. A questo punto, veniamo al

Sullo sfondo, poi, c’è l’iperattivismo di Luca Zaia e Flavio Tosi per dare alla Lega il giusto peso nel risiko bancario (non solo del Nord) nocciolo. Dopo le ultime elezioni regionali, il Carroccio bossiano ha conquistato due regioni-chiave del Nord: Piemonte e Veneto. Coi governatori Roberto Cota e Luca Zaia, quest’ultimo appoggiato dal potentissimo sindaco di Verona, Flavio Tosi, leghista. Da subito impegnati a farsi sentire nelle banche, attraverso le fondazioni bancarie, dove gli eletti sono espressione delle comunità locali. Se in SanPaolo-Intesa la situazione è relativamente tranquilla,

non altrettanto si può dire per Unicredit. Qui, il maggior azionista sino all’altro ieri (cioè prima della scalata dei libici, condotta con modalità tutte da decifrare), era l’enigmatico industriale veronese Paolo Biasi, presidente della Fondazione Cariverona, da tempo in rotta di collisione con Alessandro Profumo. Biasi, stella di prima grandezza nel firmamento del big-business veneto, nonostante l’esplosione di alcuni problemi giudiziari, ha ottenuto una riconferma piena, grazie all’incondizionato sostegno leghista. Perché? A differenza di Profumo, vorrebbe Unicredit molto più impegnata sul territorio. Traduzione: tagliare i rami non essenziali, specie se collegati al Sud.

Fra le boiseries dell’Alta Finanza, si sostiene che il tandem Carroccio-Biasi abbia avuto la benedizione del ministro Tremonti. Ecco allora (sempre accreditando le “voci”, peraltro vieppiù insistenti), riprendere quota il progetto di una Banca del Mezzogiorno. Peraltro già presente nell’agenda di Tremonti, ma finita in disparte. Accelerazione o riesumazione resa urgente

Vogliamo tutto: non ditelo a quelli della Lega che questo era lo slogan del Sessantotto! Il piccolo Zaia, governatore veneto, vuole tutto, anche le banche. C’è chi dice che lo fa per conto di Bossi e chi per conto suo. Morale: per pretendere poltrone vuole che Unicredit investa in Veneto. E tramite l’operazione Banca del Mezzogiorno, Unicredit avrà soldi da spendere. Anche in Veneto.

Geronzi, il garante Berlusconiano di ferro (ma di fatto filogovernativo sempre e comunque, come dev’essere un banchiere che si rispetti), Cesare Geronzi ha dato il suo via libera all’operazione: fu lui, messe le mani su Banca di Roma, a ipotizzare uno sviluppo sudista per Mediocredito. Ora gli riesce: l’amico Berlusconi ha bisogno di dar qualcosa in pasto ai meridionali che stanno accorrendo a frotte verso di lui...

Sarmi l’emergente Massimo Sarmi è l’ultimo grande boiardo di Stato. In senso buono: poiché le mail hanno sostituito le cartoline d’auguri, da anni sta cercando di trasformare Poste Italiana in una banca di Stato. Pretendere di farlo per l’intero terirotrio del Paese, è un po’troppo: potrà accontentarsi di governare gli affari pubblici al Meridione. A questo, infatti, servirà nei fatti la Banca del Mezzogiorno.

(altra supposizione “logica”, di logica politica) dalla frattura fra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Poiché un simulacro di riappacificazione c’è stato, gli osservatori più smaliziati, fanno questo ragionamento. Poiché il Potere con la maiuscola ha nelle banche un pilastro, Berlusconi via Tremonti può avere offerto al rivale il ramoscello di pace rappresentato appunto dalla Banca del Mezzogiorno. Infatti, il futuro Istituto meridionale avrà per principale socio le Poste Italiane. E il padrone (leggi: amministratore delegato) è Massimo Sarmi, messo su quella poltrona “in quota” ad Alleanza nazionale e ritenuto molto vicino al leader Gianfranco Fini.

Chi è Sarmi? Nato a Malcesine sul Garda nel 1948, è ricco di controverse esperienze manageriali. In Telecom e in Siemens Italia. Incomprensioni con Roberto Colaninno e Marco Tronchetti Provera, fino alla chiamata alle Poste. Di sicuro, un filo-diretto con Fini. Nessuno stupore, allora, usando la celeberrima battuta di Giulio Andreotti che «a pensar male, qualche volta la si azzecca», che nel confuso clima italico, il Sarmi sia arrivato sul tavolo delle trattative di simil pace, dietro le quinte. Traduzione: Tremonti si fa garante della Lega, delle asme finanziarie bossiane, rassicurando i veneti di Biasi e Zaia; poi, da eccelso alchimista, allunga il biscotto a Fini: ti passiamo il Mediocredito Centrale, e avrai la Banca del Sud… Contenti tutti, insomma. Fuori dai denti. Non sarà che per togliere i sassi dalle scarpe di qualcuno (ProfumoUnicredit), e favorire qualcun altro, si stia dando vita ad un ennesimo carrozzone destinato a rinverdire le poco gloriose gesta di una politica economica meridionalistica lottizzata? Con le astuzie delle grandi banche nordiste che, travestite da benefattori solidali, trasferiscono al Sud la “fuffa”. Lasciando incancrenire i veri problemi. Chissà per quali motivi, nessuna interrogazione, nessun dibattito in Parlamento. Sembra prevalere una gran voglia di non disturbare i manovratori. Dovremmo allora stupirci, stracciandoci farisaicamente le vesti, se una Fiat prende il largo, ridimensionando e chiudendo, uno dopo l’altro, i centri produttivi nazionali, se le banche mollano il Sud per appaltare il credito (funzione essenziale in ogni moderna economia) alle Poste che, con tutto il rispetto, faticano a recapitare la corrispondenza? Misteri d’Italia, di un Paese che, nonostante le enormi potenzialità, va perdendo, stagione dopo stagione, quota nelle classifiche mondiali.


politica

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on entro nel merito della discussione, a dir poco violenta, circa l’opportunità o meno della decisione diVeltroni di annunciare, con un documento di secca critica a Bersani, la nascita di una sua corrente – che lui preferisce chiamare“movimento”– all’interno del Pd. Fatti interni ai Democratici. Anche se non si può fare a meno di vedere in questa vicenda l’ennesima conferma di come si stiano sbriciolando i due partiti maggiori e con essi il sistema bipolare con (ormai perdute) aspirazioni bipartitiche. E più in particolare la conferma che si tratta di un sistema perfettamente speculare, per cui al crollo del centro-sinistra (suicidio del governo Prodi, uscita di Rutelli dal Pd, riduzione al 25%, o anche meno, dei consensi) è succeduta puntuale come un orologio svizzero la crisi del centro-destra e l’implosione del Pdl, cui ora succede ancora la spaccatura ulteriore nel Pd, che probabilmente creerà le condizioni, in una spirale inesorabile, di ulteriori problemi nel partito e nella coalizione di maggioranza. È matematico.

N

Ma ciò che più vale la pena di cogliere nell’iniziativa di Veltroni è quel riferimento contenuto nel documento sottoscritto da Fioroni e molti altri ex Ppi, alla “vocazione maggioritaria” del Pd. Cosa che non stupisce quando la declina l’ex Sindaco di Roma – che la teorizzò con Berlusconi nella presunzione di poter far diventare “maturo” un sistema maggioritario che è nato populista e tale morirà. Ma che invece stupisce quando a riconoscersi in questa formula sono dei cattolici che finora non hanno mostrato una particolare devozione al maggioritario.Tuttavia, quello che più importa è che l’iniziativa di Veltroni apre la strada a Bersani per finalmente definire il profilo strategico del Pd. La vera distinzione tra il segretario e Veltroni, come

Movimenti. La spaccatura dei democratici e la crisi del bipartitismo

E ora Bersani ci dica da che parte sta La mossa di Veltroni costringe il Pd a ridiscutere alleanze e legge elettorale di Enrico Cisnetto

Qui sopra, Bersani e Veltroni, divisi sulla strategia del Pd. Sotto, Beppe Fioroni cassimo del fatto che non ha mancato di indicare i difetti di quel bipolarismo all’italiana. Ma sappiamo anche che ha preteso di superarli, una volta fatto il Pd, cercando con Berlusconi un accordo che portasse al bipartitismo, nella presunzione che il miglior rendimento del sistema politico dipendesse

Se vuole mantenere il bipolarismo, questo centro-sinistra deve fare spazio anche a chi rappresenta la parte giustizialista del Paese tra D’Alema e il suo nemico storico, non possono essere le questioni interne, la bassa cucina. Al contrario, sul terreno della “concezione maggioritaria” o meno del sistema politico, e quindi della vocazione del loro partito, allora sì che vale la pena di distinguersi e, se necessario, di dividersi. Cosa abbia in testa Veltroni lo sappiamo: la sua linea affonda le radici nel referendum Segni e nel bipolarismo che è stato il tratto distintivo della Seconda Repubblica.

Naturalmente,

faremmo

torto a Veltroni se ci dimenti-

dal massimo di semplificazione che ad esso si potesse dare. E sappiamo pure che sono stati un fallimento sia l’accordo – che è naufragato subito, come era facilmente prevedibile – sia la solidità dei due partiti egemoni, l’uno fondato con un diktat consumato sul predellino di un’auto e l’altro nato dopo la scelta del segretario.Tant’è che nel primo il cofondatore lo dichiara “finito” e nel secondo l’uscita di Rutelli

Le adesioni al documento dell’ex segretario

Sono 74 i «veltroniani» ROMA. Che sia un documento di rottura o no, il testo che segna il rientro in campo a piedi uniti di Walter Veltroni nel Pd ha suscitato molto clamore. E ancora più rumore ha fatto il numero dei parlamentari che lo hanno sottoscritto: sono settantaquattro. Fra loro, tutti veltroniani doc ma anche qualche ex rutelliano (Gentiloni e Realacci) e due ex dalemiani di ferro (Marco Minniti e Nicola Rossi). Senza contare l’adesione (già annunciata) di Beppe Fioroni. Eccom, comunque, la lista completa: Marilena Adamo, Benedetto Adragna, Mauro Agostini, Emanuela Baio, Gianluca Benamati, Maria Grazia Biondelli, Giampiero Bocci, Costantino Boffa, Daniele Bosone, Daniela Cardinale, Renzo Carella, Marco Causi, Stefano Ceccanti, Mauro Ceruti, Carlo Chiurazzi, Pasquale Ciriello, Maria Coscia, Olga D’Antona, Luigi De Sena, Roberto Della Seta, Vitto-

ria D’Incecco, Alessio D’Ubaldo, Enrico Farinone, Francesco Ferrante, Donatella Ferranti, Anna Rita Fioroni, Giuseppe Fioroni, Giampaolo Fogliardi, Mariapia Garavaglia, Enrico Gasbarra, Francantonio Genovese, Paolo Gentiloni, Roberto Giachetti, Paolo Giaretta, Tommaso Ginoble, Gero Grassi, Pietro Ichino, Maria Leddi, Luigi Lusi, Alessandro Maran, Andrea Marcucci, Andrea Martella, Donella Mattesini, Giovanna Melandri, Maria Paola Merloni, Marco Minniti, Claudio Molinari, Enrico Morando, Roberto Morassut, Magda Negri Luigi Nicolais, Antonino Papania, Achille Passoni, Luciana Pedoto, Vinicio Pedoto, Mario Pepe, Flavio Pertoldi, Caterina Pes, Raffaele Ranucci, Ermete Realacci, Nicola Rossi, Simonetta Rubinato, Antonio Rusconi, Giovanni Sanga, Andrea Sarubbi, Achille Serra, Giuseppina Servodio, Giorgio Tonini, Jean Leonard Touadi, Salvatore Vassalo, Walter Veltroni, Walter Verini, Giuliano Rodolfo Viola, Walter Vitali.

prelude a una riseparazione dei due partiti che si erano fusi, o qualcosa di simile.

Tuttavia, Veltroni insiste. E dice: il Pd va pensato e gestito per essere primo. Il che comporta alcune precise conseguenze. Primo: non ci può essere nessuno alla sua sinistra. Quanto danno abbia procurato alla vita politica e civile il fatto che la sinistra-sinistra non abbia più rappresentanza parlamentare lo abbiamo già visto, e temo che lo vedremo ancora di più prossimamente. Secondo: i giustizialisti sono imprescindibili. Se si vuole mantenere il bipolarismo, è chiaro che nel cosiddetto centro-sinistra non può non essere fatto partecipare, e pure con tutti gli onori, chi rappresenta il ventre molle del paese forcaiolo e manettaro, sia esso Di Pietro, Grillo o Travaglio. De gustibus… Terzo: la legge elettorale non solo non può che essere di stampo maggioritario (cosa legittima se coerente con le esperienze europee fin qui maturate, a cominciare da quella francese), ma più logicamente quella attualmente in vigore, che rende più facile la via al bipartitismo. Sono tutte prospettive che vanno bene a Bersani, D’Alema, Marini e a quant’altri non si riconoscono nel documento e nella mossa di Veltroni? Se sì, allora sarà bene rubricare le loro reazioni stizzite nei confronti del precedente segretario del Pd come beghe da cortile. Ma se invece fosse no, essi sono contrari a quell’impostazione politica, allora sarà il caso che ci facciano sapere qual è la loro proposta. Sono per una legge elettorale di tipo tedesco, come ha detto ultimamente D’Alema? Bene, si esprimano, ed eventualmente costringano il Pd a dividersi ed eventualmente spaccarsi su questa nobile questione politica. Sono per una prospettiva di Grande Coalizione sulla base delle (giuste) preoccupazioni per la tenuta della nostra economia che abbiamo sentito Bersani esprimere da Vespa? Lo dicano a voce alta, lo mettano nero su bianco, ne facciano il motivo caratterizzante della loro linea politica. Sono per un cambiamento della Costituzione che apra in modo corretto (cioè opposto a quello del 1994) la strada alla Terza Repubblica? Si facciano promotori di una stagione costituente. Sono per fare una riforma organica della giustizia che prescinda sì dai problemi personali di Berlusconi, ma sia anche in grado di rimettere la magistratura al posto che le compete (che non è di antagonismo alla politica)? Ottimo, preparino una proposta e chiamino forze politiche e società civile a condividerla. Aspettiamo. Ma senza alcuna convinzione, purtroppo. (www.enricocisnetto.it)


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

AFRICA VERITÀ Il continente nero svelato da V.S. Naipaul

di Gabriella Mecucci Africa è coperta da una maschera fatta di buoni sentiPer tinente, nel tentativo di comprenderne, di catturarne l’anima sepolta sotto menti, di cuore buttato oltre l’ostacolo, di politically correct. Ma troppe ipocrisie. questo Lo scrittore scomodo che raccontò quasi quindici anni fa i Fedeli a così non si capisce il caos di un continente: i perché della oltranza, quel groviglio rovente di pulsioni ideologiche che anviolenza, della miseria, delle difficoltà estreme che vilibro, un fantastico cora non si chiamava fondamentalismo islamico, cerca ogve.V.S. Naipaul, Nobel per la letteratura, grandissimo scritresoconto delle sue gi di fare un’analoga «operazione verità» con l’Africa. tore, ha dato più volte prova di rifuggire i luoghi coperegrinazioni nell’arco di trent’anni, È un itinerario lungo, difficile, tortuoso quello che muni, per tenere gli occhi ben aperti sulla realtà porta Naipaul dall’Uganda, alla Nigeria, al e raccontarla così come gli si mostra. Del relo scrittore Premio Nobel è stato accusato Ghana, alla Costa d’Avorio, al Gabon, al Sudasto, nato a Trinidad, comprese ben presto che di razzismo. Forse perché non arretra frica. Chilometro dopo chilometro, giorno dopo quel mondo gli andava stretto e che aveva bisogno davanti alle contraddizioni che ci giorno lo scrittore vede staccarsi la maschera e apparidi viaggiare per vederne molto altro. E proprio questo fa re il volto di un continente. Lo dichiara senza mezzi termini: nel suo ultimo libro: un resoconto avvincente delle sue pererestituisce come gesto «Ero convinto che nell’immensa vastità dell’Africa le pratiche magrinazioni nel continente nero nell’arco trent’anni. Ne scaturisce d’amore giche non fossero diffuse in maniera uniforme. Ho dovuto ricredermi. un racconto dal titolo La maschera dell’Africa (Adelphi, 289 pagine, 22,00 euro) che Naipaul, pagina dopo pagina, strappa dal volto vero del con-

L’

Parola chiave Autodeterminazione di Sergio Belardinelli Tredici canzoni per Andy Warhol di Stefano Bianchi

NELLA PAGINA DI POESIA

Trilussa e il Novecento in romanesco di Francesco Napoli

Salvador Dalì senza pregiudizi di Marco Vallora New Orleans in bianco e nero di Adriano Mazzoletti

Così rinasce Palazzo Barberini di Claudia Conforti


africa

pagina 12 • 18 settembre 2010

«Ovunque ho incontrato indovini che gettavano le osse per leggere il futuro, e ovunque ho trovato la stessa idea di un’energia da imbrigliare attraverso il sacrificio rituale». Insomma Naipaul scopre un mondo imbrigliato dai suoi vecchi idoli. Ma le grandi religioni che sono sbarcate in Africa spesso si sovrappongono e cancellano l’humus locale, osserva Naipaul parlando dell’Uganda. «L’aderire a quelle religioni (cristianesimo, islam) - scrive - significava entrare a far parte di una grande fede mondiale, riconosciuta e organizzata, con una grande letteratura ed edifici solidi e famosi; la tentazione di trascurare l’architettura della propria gente, tanto più piccola e fatta di paglia, era forte».

Ecco uno dei nuclei centrali del libro che spiega in profondità il dramma dell’Africa: da una parte una cultura tradizionale oscura, magica, arretratissima; dall’altra grandi fedi che si trapiantano, la modernità che mette qua e là radici, ma che non si integra con ciò che c’era prima, non ne diventa fattore di promozione e al tempo stesso di cambiamento. Non nasce così una nuova anima e rischia di imbastardirsi la vecchia. È questa la critica che muove Naipaul che non trascura di riconoscere gli enormi guasti della decolonizzazione. È un ragionamento complesso il suo, ma straordinario e leggibilissimo è il racconto. Abbandoniamoci a esso.

Volete sapere le ragioni di uno sciopero delle scuole in Uganda? Seguite Naipaul: «La stregoneria per questa gente non è uno scherzo. Come possono ridere di ciò che temono? Una mattina gli studenti di una scuola superiore, un convitto in una città importante, vedono nel cortile della scuola la testa mozzata di fresco di una capra e un’intera pelle caprina, e rimangono fortemente turbati. Li considerano feticci magici... In più una mattina trovano alcune finestre con i vetri in frantumi e tutta la scuola a soqquadro. Un chiaro segno di sortilegio in atto. Gli studenti si sentono oggetto di minacce diaboliche e (usando un codice linguistico che immaginano comprensibile a tutti) dicono che dietro ci devono essere personaggi potenti. Attraversano la città in corteo, ragazzoni grandi e grossi con la divisa della scuola, calzoni scuri, camicia bianca e indicono uno sciopero». Strano e inquietante: la stregoneria mescolata con una conquista del movimento operaio occidentale. E poi c’è la Nigeria dove il ricorso all’indovino, il costosissimo babalawo, ogni volta che occorre fare una scelta importante, convive con il mini boom economico e di Borsa. Dove la poligamia africana è scomparsa, ma è viva e vegeta quella islamica. E anche qui lo spiritismo la fa da padrone. Il Ghana è profondamente intriso di religiosità misterica. La religione degli ashanti non è troppo intrusiva, ma quella dei Ga è onnipresente, così piena di segni e di portenti che il vero credente è continuaanno III - numero 33 - pagina II

mente ossessionato da messaggi divini. Si basa sull’adorazione dei defunti, ma è profondamente integrata nel mondo dei vivi. Racconta Naipaul: «Se camminando per strada inciampiamo in una pietra, questo fatto ha un significato premonitore. Anche starnutire ha un significato: farlo verso destra porta bene, verso sinistra

Riti e oggetti d’Africa, la copertina del libro di V. S. Naipaul (nella foto in basso) e il ritratto di Winnie Mandela. In copertina un’immagine di Leni Riefenstahl

porta male». E che dire del fatto che gran parte delle terre non vengono coltivate, mentre i ghanesi si nutrono degli animali sia selvatici che domestici? Affumicano alcuni grossi ratti di cui vanno ghiotti e cucinano in modo succulento sia i gatti che i cani che chiamano «capre rosse». Al Sud preferiscono i felini ma «il vero guaio - così racconta Naipaul - è ammazzarli». Si uccidono a bastonate, annegati, strozzati. Questi agghiaccianti particolari, insieme ad altri che riferiremo di seguito, hanno fatto scoppiare la polemica: il Nobel della letteratura è stato accusato da una parte della stampa inglese di razzismo. Raccontiamo un altro episodio che ha fatto infuriare: la storia dell’uomo più potente della Costa d’Avorio, Paese confinante del Ghana. Naipaul riporta quanto gli ha detto l’ivoriano Richmond: «Mia nonna narrò a mia madre che il presidente e re della Costa d’Avorio, Houphouet-Boigny, chiese al gran sacerdote di dargli il potere eterno. Devi sapere che secondo gli ivoriani i capi vanno soggetti a crisi psichiche, tanto è vero che devono essere costantemente purificati e rafforzati spiritualmente. Dunque la richiesta di Houphouet non risultò strana. Il gran sacerdote impartì le sue istruzioni. Houphouet fu tagliato a pezzi e messo a cuocere in una pentola con erbe e pozioni. La condizione era che sua sorella vegliasse sulla pentola, finché i pezzi del suo corpo non si fossero trasformati in un serpente. La sorella di Houphouet fece come gli era stato ordinato e rimase accanto al fuoco finché dalla pentola non emerse un grosso serpente. Lo afferrò con

verità

entrambe le mani e i due, la donna e il serpente, ingaggiarono una lotta furibonda finché caddero entrambi a terra; allora Houphouet si trasformò nuovamente in uomo. Sembra strano ma la cosa funzionò... Era padrone dell’intero Paese». La storia dei gatti più questa, con tanto di pentolone, hanno fatto indignare la stampa anglosassone.

Ma Naipaul non è arretrato, è rimasto anzi ben saldo sulle sue posizioni: ha semplicemente risposto che si è limitato a narrare ciò che ha visto e che gli è stato detto. In realtà sebbene certi episodi siano illeggibili per la loro truculenza, l’anima del libro non appare affatto discriminatoria verso gli africani. È invece un tentativo di rappresentare la loro condizione drammatica stretta come è fra due presenti o fra un passato recente e un presente che convivono, un mettere allo scoperto le contraddizioni che stanno alla base delle tante difficoltà dell’Africa. In questo non viene risparmiato nessuno: né gli occidentali, né le loro religioni, né la decolonizzazione, né gli islamici. Il luogo dove più stridente è il conflitto fra vecchio e nuovo è il Sudafrica. E non a caso il capitolo più affascinante di questa lunga cavalcata attraverso un continente è proprio quello che lo riguarda. Il racconto si apre con un’immagine di degrado: «Due giorni dopo, nel centro di Johannesburg, vidi quello che era accaduto a una parte della città post-apartheid. I bianchi preoccupati dei possibili esiti della fine dell’apartheid, se ne erano andati, piantando tutto, sostituiti da africani, non la gente del posto, ma migranti di altri Paesi, il Mozambico, la Somalia, il Congo e lo Zimbawe. Il governo del Sudafrica libero, in uno slancio di africanità, aveva spalancato le frontiere a tutte quelle persone che ora vivono con le loro usanze… riducendo grandi edifici e grandi viali a uno slum degradato». Un fallimento totale. E poi c’è la storia delle teste di cavallo e di gazzella esposte in un banchetto e che possono essere acquistate per riti magici. Sono in vendita anche le cavie che si uccidono con un colpo secco di coltello e di cui si beve il sangue, come consiglia lo stregone. Ma Johannesburg è anche una città moderna, piena di palazzi e di viali alberati: in alcuni punti è bellissima. Non sono solo la struttura urbanistica, la magia e le contraddizioni plateali a colpire Naipaul. Straordinario il suo incontro con Winnie Mandela, la moglie separata dell’eroe anti-apartheid. Una lunga conversazione in cui lei divide la vita dell’ex marito in due parti fra loro in netto contrasto: la prima, quella del rivoluzionario che ama e apprezza, la seconda, quella del predicatore di compromessi che disapprova. Anche qui, un passato e un presente che si scontrano, che Winnie vive come una contraddizione per lei lacerante. «Quella della Commissione per la verità e riconciliazione - confessa - non è stata un’idea realistica. Ha riaperto ferite non rimarginabili. Venivi a sapere di tutte le atrocità, dei metodi e degli strumenti della morte dei tuoi cari. Come si possono dimenticare, perdonare certe cose». Insomma, non c’è pacificazione possibile: la frattura fra i due mondi resterà aperta molto a lungo. Ecco l’Africa altamente drammatica di Naipaul. Che contiene troppa tradizione e poca identità. Che pratica la stregoneria, ma che dimentica i canti funebri tradizionali, che beve il sangue delle cavie, ma conosce alla perfezioni le leggende europee dimenticando le proprie. Il racconto di Naipaul non è razzista, è un disperato gesto d’amore alla ricerca dell’anima di un continente.


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18 settembre 2010 • pagina 13

AUTODETERMINAZIONE l centro di molti dibattiti odierni su temi bioetici, specialmente sull’eutanasia, sta il concetto di autodeterminazione. È sufficiente evocarlo per essere quasi sicuri di una reazione emotiva favorevole. Eppure si tratta di un concetto dai contorni tutt’altro che scontati, se è vero che per Nietzsche rappresentava addirittura «la maggiore autocontraddizione che sia stata concepita fino a oggi, una specie di stupro e d’innaturalità logica». Solitamente l’autodeterminazione viene fatta coincidere con la libertà. Un individuo determina le proprie azioni, e quindi determina se stesso, nel senso che guida il proprio corso di vita essendone responsabile. Egli è causa sui; le sue azioni cominciano da lui, non sono causate o determinate da qualcosa che non è nei suoi poteri: cause esterne, l’educazione che ha ricevuto, i suoi stati cerebrali ecc. La libertà, diceva Kant, è la facoltà di cominciare qualcosa da sé. Eppure proprio Kant nutriva seri dubbi in ordine al fatto che l’autodeterminazione potesse spingersi, poniamo, fino alla disponibilità della vita; considerava anzi il suicidio come una sorta di violazione della formula dell’imperativo categorico, secondo la quale occorre considerare l’umanità di sé e degli altri sempre come fine e mai come mezzo. Nel ragionamento kantiano, il suicida usa la propria persona come un mezzo per sfuggire all’infelicità, pertanto il suo gesto non è un gesto di vera libertà morale. Gli stessi dubbi, anche se diversamente motivati, li ritroviamo in altri autori «classici» della tradizione occidentale, come, ad esempio, Locke o Hegel. Ma tant’è. Con buona pace di Locke, Kant, Hegel, Nietzsche e molti altri, l’autodeterminazione sembra essere diventata ormai un diritto inalienabile dell’individuo e, in quanto tale, va garantita giuridicamente. Ne va niente meno che della nostra libertà e dignità. Ma siamo proprio sicuri che la libertà sia riducibile a semplice autodeterminazione?

A

Il problema è ovviamente immenso, eppure Nietzsche doveva avere qualche ragione quando ironizzava sulla causa sui, sull’idea che il nostro volere sia il vero fondamento dei fini che diamo alle nostre azioni. Immaginiamo, ad esempio, che qualcuno ci proponga di scegliere se mangiare una mela o una pera. In questo caso si danno in genere due alternative: o non ho preferenze e prendo a caso la mela o la pera, ma allora non scelgo; oppure prendo la mela perché mi piace più della pera, ma nemmeno in questo caso scelgo, visto che la prendo semplicemente perché il mio gusto mi induce a farlo. Ciò che Nietzsche molto probabilmente intendeva dire è che le nostre scelte avvengono in base a intenzioni basilari che propriamente non scegliamo, ma ci troviamo ad avere per inclinazione naturale, educazione, contesto sociale in cui viviamo ecc. Altro che autodeterminazione, dunque. Posto che l’autoderminazio-

Il nostro volere viene sempre più spesso scambiato come il fondamento che giustifica le nostre azioni. Al punto che si chiedono, per affermarlo, garanzie giuridiche. Ma la libertà non è riducibile a questo...

Quel diritto che non c’è di Sergio Belardinelli

La dimensione «relazionale» del nostro essere uomini non viene presa nella giusta considerazione da coloro che fanno dell’autodeterminazione il valore fondamentale. Ma è invece decisiva quando si tratta di dirimere, come dobbiamo fare oggi, vere e proprie questioni di vita e di morte ne ci sia, essa non dice nulla su ciò che si deve o non si deve fare, sul valore del comando a cui si obbedisce. È perché un certo ideale di vita ha per me valore che l’autodeterminazione assume valore morale. Gran parte degli odierni paladini dell’autoderminazione non sembrano consapevoli di questa situazione; non si avvedono che il problema non è tanto l’autoderminazione, quanto la legge e l’ideale di vita che assumiamo come suo criterio. È questo che ci consente di distinguere tra una scelta cattiva e una scelta buona, tra un dovere che, per quanto autenticamente «voluto», è cattivo (tutti gli infedeli debbono essere uccisi) e un dovere, altrettanto autenticamente «voluto», che invece è buono (occorre aiutare chi ha bisogno d’aiuto). Un tossicomane e un santo vogliono entrambi veramente

qualcosa. Solo che, e Platone lo aveva pienamente compreso, il primo vuole qualcosa di «improprio», qualcosa che scaturisce da una perversione; il secondo vuole invece qualcosa che realizza un ideale buono di umanità. Altro elemento importante che vorrei sottolineare è che, proprio con la scelta della legge o dell’ideale che assumiamo come nostri, noi decidiamo anche qualcos’altro: precisamente chi siamo, che cosa vogliamo che gli altri pensino di noi. Ci accorgiamo così di essere ciò che la natura ci ha dato e che non dipende da noi; l’educazione, gli usi e i costumi che abbiamo acquisito dall’ambiente nel quale siamo nati e vissuti e che nemmeno dipende da noi; ma anche il modello, il ruolo, la legge che a un certo punto abbiamo deciso di fare nostri. La nostra personalità, il nostro carattere sono in

fondo questa sintesi. E qui ovviamente rientra l’autoderminazione. Ma non nel senso, diciamo così, individualistico, in cui oggi prevalentemente se ne parla. Al contrario. Si tratta in ultimo di comprendere che possiamo realizzarci come persone solo insieme agli altri, riconoscendo gli altri e grazie al riconoscimento da parte degli altri. In questo senso, la «libertà da noi stessi» è forse il compito più difficile, ma anche il compito principale, che abbiamo in quanto uomini. Questa dimensione «comunitaria», «relazionale», «solidale» del nostro essere uomini in genere non viene presa nella giusta considerazione da coloro che fanno dell’autodeterminazione il valore fondamentale. Ma è proprio questa dimensione che, a mio avviso, è decisiva allorché si tratta di dirimere, come dobbiamo fare oggi, vere e proprie questioni di vita e di morte. Non soltanto, infatti, l’autodeterminazione, per sé, non dice nulla circa la bontà delle nostre azioni, ma spesso, come nel caso dell’eutanasia, il principio viene invocato a sproposito.

Se la libertà è sempre un «esser liberi da», un «liberarsi da» e quindi un potersi determinare per, allora il «liberarsi dalla propria vita», prescindendo dalla tragicità che evoca, è sempre un gesto «irrazionale», un «essere per la morte» del tutto inautentico, direbbe Heidegger. Di passaggio faccio notare che è proprio per questa sua essenziale, assoluta «irrazionalità» e imperscrutabilità che il suicidio, visto che di questo si tratta, esige sempre l’umana pietà. Sia che ci si uccida, come facevano gli antichi, «per eroismo, per illusioni, per passioni violente», sia che lo si faccia «stanchi e disperati di questa esistenza», come fanno i moderni, il suicidio appare anche a Giacomo Leopardi (le parole sono sue) come «la cosa più mostruosa in natura», appunto la più incomprensibile. Ma allora che cosa significa parlare di un diritto a morire come e quando ci pare, in nome della cosiddetto principio di autodeterminazione? A mio modo di vedere, quando parliamo in questo modo, cerchiamo in realtà di nascondere quello che effettivamente chiediamo: non il diritto di ucciderci (del resto, che senso ha rivendicare come diritto ciò che chiunque può fare in ogni momento?), bensì il diritto che altri ci uccidano. Ma ha senso rivendicare un tale diritto? Anche in questo caso, sia chiaro, non dobbiamo mai dimenticare la pietà che ognuno deve al proprio simile. È certo però che l’eutanasia come «diritto» aggiunge alla tragicità e all’irrazionalità del suicidio un ulteriore elemento di pesantezza: la disumanità della società che la rende possibile. Un po’ come se la pena, spesso insopportabile, che una persona prova nel momento in cui si accorge di essere diventata un peso per sé e per gli altri ci faccia dimenticare il suo umanissimo desiderio e il nostro dovere di amarla e custodirla fino alla fine.


pagina 14 • 18 settembre 2010

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Cd

musica

Piange il telefono... Un fiasco IL CONCERTO PER IPHONE di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi uti. Quasi immobili. Inquadrati in primo piano da una cinepresa Bolex. Gente della Factory di NewYork, a getto continuo: musicisti, pittori, poeti, fotomodelle, ballerini, tossici, straccioni. Lou Reed, occhi nascosti dagli occhiali da sole, beve una Coca Cola. La bionda Nico, arruolata nei Velvet Underground come Lou, si mette in posa, indolente, alzando lo sguardo al cielo.Ann Buchanan, amica Beat di Neal Cassady e Allen Ginsberg, lascia che una lacrima di malinconia le solchi la guancia. Freddy Herko, danzatore anfetaminico, guarda dritto nell’obbiettivo e poi accende una sigaretta. Jane Holzer, attraente come una diva hollywoodiana, si lava peccaminosamente i denti. Edie Sedgwick, invece, socchiude gli occhi senza scomporsi. Dietro la Bolex c’è Andy Warhol. Dal 1964 al ’66 riprende cinquecento uomini e donne, noti e ignoti, per tre minuti, al rallentatore. Li osserva come un voyeur. Li psicanalizza. Fa cinema, vampirizzando le sue prede. Da ognuna, ricava un micro-film in bianco e nero che poi cataloga. E ogni tanto le raccoglie in gruppo: 13 Most Beautiful Girls e 13 Most Beautiful Boys. Tredici: come gli Screen Tests che adesso hanno un suono. A sceglierli su commissione dell’Andy Warhol Museum di Pittsburgh, dopo averne visionati centocinquanta - ci ha pensato il chitarrista e cantante Dean Wareham. Il quale, da sempre, ama la musica dei Velvet Underground al punto da averla «clonata» in modo etereo nei Galaxie 500 e poi nei Luna, dal ’92 fino al 2005, per sette dischi. Nei Luna, dieci anni fa, Wareham ha fatto entrare Britta Phillips, bassista e vocalist, che in seguito è diventata sua moglie. Insieme, come Dean & Britta, hanno inciso L’Avventura (2003) e Back Numbers

i sa che il tema tecnologico è quello preferito dagli incartatorroni. Pervertiti da Mc Luhan vediamo messaggi nel mezzo ovunque, e questo porta a titoli atroci su giornali tipo «La vendemmia adesso è online» visto sul Corriere in minigonna, o a cose tipo «Annuncia il delitto su facebook», e che dire della corsa alla pagina facebook del qualsivoglia morto in cronaca? Insomma, incattiviti da tanto incartatorronismo, da tanto pettinamento di bambole, accogliamo con gioia la notizia che al festival MiTo il concerto per iPhone sia stato un fiasco. Pubblico deluso. La meccanica dell’evento. Attraverso Twitter si potevano inviare messaggi che un programma tramutava in suoni di altezze diverse: la quantità di tag selezionati e di tweet inviati generava il pezzo di musica anche in forma grafica, con tanti punti interconnessi quanti erano i tweet, anche responsabili, nel loro succedersi, della maggiore o minore vivacità ritmica. Una specie di giochino, che non ha impedito agli organizzatori della performance di intitolarla Play your phone. Suona il tuo telefono, il che fa venire in mente la battuta non troppo nuova: suoni? Sì il citofono. E dietro a tutto quanto c’è un fatto serio. Il delizioso fiasco dell’iPhone ci dimostra che se non c’è la vecchia buona pratica artigianale la musica non viene fuori. Ci dimostra che il mezzo non fa il messaggio, quindi. Che internet non fa l’informazione, che il quarto d’ora - passato - vince sulla celebrità, se di mezzo non ci sta una creazione, un lavoro, una poiesis. E tra le varie meraviglie dell’iPhone, che a prenotarlo nel negozio sotto casa c’è una lista d’attesa di un mese, c’è da ora anche questa. È un fantastico aggeggio antimoderno a guardarlo bene. Non serve a fare musica, serve a telefonare.

S

M

Classica

zapping

Tredici canzoni per Andy Warhol (2007): album fascinosi, all’insegna del rock in chiaroscuro, ma nulla in confronto a 13 Most Beautiful… Songs For Andy Warhol’s Screen Tests. Canzoni e pezzi strumentali che dopo essersi guadagnati spazio in un dvd (stesso titolo: potete trovarlo d’importazione su etichetta Plexifilm) e un giro di concerti che ha visto la coppia sonorizzare in diretta ogni singolo filmato, vengono finalmente proposti in questo doppio cd. In ordine d’apparizione, ecco il Silver Factory Theme ricamato da soffici, ripetitivi fraseggi di chitarra che «commentano» lo screen test devoto a Billy Name, stretto collaboratore di Warhol; la cover di I’ll Keep It With Mine di Bob Dylan: folk urbano/cameristico al servizio di Nico; Not A Young Man Anymore, brano semisconosciuto dei Velvet Underground che s’incolla al ritratto di Lou Reed con rimbombi dark e fiammate

rock; I Found It Not So, ombrosa ballata che accarezza il primo piano di un’altra icona della Factory, Mary Woronov; If Don’t Rain In Beverly Hills, technopop e inflessioni chitarristiche in onore di Edie Sedgwick; Incandescent Innocent, riverberi «à la» Heroin per Freddy Herko; International Velvet Theme, che «zooma» su Susan Bottomly con una delicatezza che viene rotta all’improvviso da una chitarra in distorsione; elettrica Teenage Lightning: elettronica di ghiaccio, stile Suicide, per l’attore «underground» Paul America; Herringbone Tweed: passo blues e retrogusto di Sweet Jane per Dennis Hopper; Richard Rheem Theme: audace puzzle elettronico, alla Kraftwerk; Knives From Bavaria (Jane Holzer): altalenante, persuasiva ballad; Eyes In My Smoke, sanguigno rockabilly per Ingrid Superstar; Ann Buchanan Theme: struggenti sonorità per quella furtiva lacrima. Andy Warhol, da lassù, ringrazia. Dean & Britta, 13 Most Beautiful… Songs For Andy Warhol’s Screen Tests, Double Feature Records, 21,50 euro

Quando Brahms suonava l’Ungarische Tanz

scoltare brani interpretati al pianoforte da grandi musicisti del passato morti da circa un secolo è un’esperienza davvero scioccante. Soprattutto quando si tratta di compositori del calibro di Grieg, Debussy, Scrjabin, Saint-Saëns, De Falla, Ravel... e altre quaranta gemme fino a Brahms! Incredibile meraviglia, stupore. Tutto è cominciato tra gli anni 1870 e ‘80. Da Charles Cros che ha scritto sul suo metodo di registrare i suoni, alla prima realizzazione del Phonograph a cilindri di Thomas Edison, all’inventore del disco e grammofono Emil Berliner che «incideva» il suo tracciato su un vetro annerito col fumo. I dischi di Berliner furono gli antenati dei dischi in vinile a 78 e a 33 giri. Nel 1890 meglio dei cilindri di Edison e dei dischi di Berliner, fu il sistema a rulli perforati per il pianoforte della Ditta Welte. Il risultato rendeva però l’interpretazione inespressiva. Una svolta in questo senso si concretizzò

A

dotto è «opera d’arte», rinel 1901, quando con altri di Pietro Gallina cordando Walter Benjamembri della famiglia min, tale riproducibiWelte collaborò Hugo lità comporterà consePopper. Essi furono gli guenze rivoluzionarie artefici dell’invenzione immense per il mondo che rivoluzionò la musimoderno, ma anche la ca meccanica: il Reproducing Piano. A diffecontemporanea e prorenza del comune piano gressiva perdità di aumeccanico, con cilindro tenticità. chiodato o con carta Attraverso sofisticate e perforata, il Reproduavanzate tecnologie dicing Piano permetteva gitali si è potuto ottenedi riprodurre quella che re l’incisione di restauè la caratteristica più rate registrazioni da rulspiccata del pianoforte, li, dischi e cilindri che la cioè l’espressività, inteMusic Alliance Memsa come possibilità di bran GmbH di Amburgraduare l’intensità sonora delle note pro- go ha stampato in un cofanetto preziosissidotte. Da un’eternità di silenzio e autenti- mo contenente 10 cd, rendendo un servizio cità del suono, si è passati - da poco più di alla storia della musica e alla conoscenza, un secolo soltanto - alla riproducibilità tec- oltre che al piacere di scoprire tanti tesori nica dello stesso. Poi quando il suono ripro- tutti insieme. Ed ecco che ascoltiamo, appe-

na percettibile, Brahms che suona nel 1889 la sua Ungarische Tanz! Un suono esile, da brividi, che par provenire dall’oltretomba. Invece chiaro e forte si ascolta un Mahler nervosissimo che esegue al limite del tempo la sua Trauermarch dalla Quinta Sinfonia, da strappar lacrime anche a una pietra: registrazione del 1905! Uno Strauss segue... poi un Albeniz che è un delirio, un sospiro imbarazzante, come un fantasma che parla. Meglio Scrjabin. Invece spunta un Busoni del 1914. Si ascolta: straripa di generosità sonora nella Ciaccona di Bach da egli stesso riscritta in versione pianistica. Strepitosa esecuzione! Ma il brano che coglie al centro, quasi un orgasmo sonoro, limpido come la luce di Spagna è la Goyesca n. 4 Quejas o la Maya y el Ruiseñor di Granados e il modo di interpretarla. E vien fuori quella straziante emozione che si riassume in un’espressione di Robert Walser: «Quando ascolto la musica, sento mancarmi sempre qualcosa».


arti Restauri

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on è del tutto chiara la genesi di palazzo Barberini, ideato nel 1624 da Carlo Maderno a partire da un casino cinquecentesco degli Sforza di Santa Fiora. Nel 1629, dopo la morte di Maderno, i committenti affidano i lavori, iniziati nel 1625, a Giovan Lorenzo Bernini, che li completò entro il 1633. A Bernini si affianca Francesco Borromini, primo assistente di Maderno, a cui risalgono molti disegni di progetto. Ai due antagonisti dell’architettura romana del Seicento si aggiunge anche Pietro Berrettini da Cortona, che affresca la volta del salone centrale con il Trionfo della Divina Provvidenza. Uno sbalorditivo illusionismo pittorico, dove gigantesche api d’oro, emblema dei Barberini, volteggiano tra potenti figure allegoriche che, delineate da colori intensi e da movenze perentorie, celebrano lo stato sociale, il potere politico e la funzione etica dei Barberini, assurti al vertice della Curia e della società romana. Se il copioso apparato documentario indirizza la responsabilità del cantiere a Bernini, la logica progressione dei fatti e la stupefacente qualità dei disegni di progetto, di autografia borrominiana, suggeriscono un concerto progettuale, al quale concorse, presumibilmente, lo stesso da Cortona, almeno per quanto attiene alla configurazione della gigantesca volta che avrebbe decorato. Il palazzo si distingue dai coevi esempi romani per il suo inusuale assetto planimetrico e distributivo. Eretto su un terreno scosceso, alle falde del Quirinale, esso sostituisce il consueto impianto rettangolare a corte centrale con un singolare assetto ad H. Le lunghe ali laterali, che allogano due scale e appartamenti distinti per il ramo secolare e quello ecclesiastico della famiglia, si ricongiungono nel corpo centrale. Questo, traforato da un portico che sfocia, tramite una rampa carrozzabile, direttamente in giardino, è arretrato e assesta l’ariosa facciata su via

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Moda

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Così rinasce

Palazzo Barberini di Claudia Conforti delle Quattro Fontane, che si aggiunge a quella, più schermata e convenzionale, rivolta a piazza Barberini. Abitato dai Barberini fino al XX secolo, il palazzo ospita dal secondo dopoguerra la Galleria Nazionale di Arte Antica, depositaria di capolavori pittorici, tra i

quali la celebre Fornarina di Raffaello. Oggetto di un meditato restauro, diretto con sottile sapienza dell’architetto Laura Cherubini, il palazzo, inaugurato dal ministro Bondi, da giovedì scorso offre al pubblico la ritrovata magnificenza delle sale del primo piano nobile, recu-

perate alla Galleria, dopo lunga e indecorosa occupazione. I restauri hanno richiesto anni di studi e uno straordinario impegno operativo, che ha visto la convergenza delle competenze specifiche della direzione della Galleria e delle Soprintendenze locali e regionale. Tutte le superficie murarie sono state minuziosamente esplorate e ripulite manualmente con bisturi, seguendo una prassi riservata alle superfici pittoriche, così da riscoprire gli intonaci originari, simulanti pregiati rivestimenti lapidei. Nella sezione terminale dell’ala su piazza Barberini è tornata alla luce una sorprendente sala colonnata, impreziosita da una fontana e da un trompe l’oeil che finge un’enfilade di volte. Il grande scalone quadrangolare, illuminato da un aereo pozzo centrale, è stato liberato dell’ingombrante ascensore e dalla copertura vetrata, che ne compromettevano la scenografica eloquenza. Le sale di nuovo acquisite erano in origine tappezzate da sete damaschine, i cui colori esaltavano i toni cromatici dominanti negli affreschi che decorano le volte di copertura, ornate da elegantissimi stucchi bianchi, con tocchi d’oro. Nell’impossibilità di reintegrare gli antichi tessuti, di cui si conosce l’esistenza, ma non la figurazione tessile né le tinte, i restauratori hanno coinvolto Emilio Farina, un artista veneto romano, conosciuto per le sue installazioni capaci di confrontarsi con edifici monumentali, come la Tomba di Cecilia Metella, la villa dei Quintili entrambe a Roma o il recente allestimento del cantiere antistante la berniniana cappella del Voto nel duomo di Siena. Per ciascuna sala Farina ha messo a punto intonaci contraddistinti da specifiche filigrane cromatiche che suggeriscono serici e sfumati spessori materici, mentre esaltano i colori degli affreschi secenteschi dei soffitti. L’armoniosa coniugazione del restauro con l’azione artistica crea ambienti carichi di suggestione, sfidando con felice audacia l’asettica soluzione del candore parietale, da troppi decenni d’obbligo nei musei, dove evoca ormai sempre di più un bianco sudario dell’arte e della sua bellezza.

Piccole veline crescono... Al cuore dello styling infantile ambini infilati dentro mini Hogan. Bambini vestiti Armani junior con tanto di cravattina azzurra e giacchetta blu profilata di bianco, molto più seri dei loro padri. Bimbette in tutine firmate D&G e parka Fay, giacchino Burberry, molto più serie delle loro madri, e vezzose creature che vanno sì e no in quinta elementare con gonne a pieghe e cappottini coordinati a quadri blu e azzurri, già donnine in carriera. Il business della moda bimbo è interessante, intanto perché è uno dei pochi a fare buoni numeri e poi perché replica, in piccolo, ovvio, stili e stereotipi sociali. La piccola Cavalli avrà cuori maculati sotto l’imbottito rosa, e si distinguerà per gli stivaletti effetto leopardo, mentre miss Grant confeziona le bimbe in mood Chanel: giacchino corto, catene con perle alla cintura, scarpine maculate e fiocco. La preadolescente di Ermanno Scervino porterà leg-

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di Roselina Salemi gins infilati dentro gli stivali, maglia e giacchetta con le spalle imbottite anni Quaranta, oggi in grande trend. Merito di un sistema che estende inesorabilmente la dipendenza fashionista, anche low cost, la moda junior può essere (come sostiene lo scrittore Antonio Scurati), una prova dell’inessenzialità del bambino, ridotto a puro accessorio come ciò che indossa, ma può essere anche un altro modo per deviare il senso di colpa legato allo shopping. Oggi gli adulti spendono meno per se stessi, e qualsiasi cifra per i bambini, proiettando su di loro l’immagine che vorrebbero avere e l’idea di appartenenza sociale che li caratterizza. In questo fanno scuola i figli delle celebs, dai tacchetti di Suri Cruise (papà Tom la vizia) agli abitini a nido d’ape di Honor Warren, deliziosa prole di Jessica Alba (eletta baby più elegante dell’estate), dai capelli ossigenati di Kingston, che copia la mamma Gwen Stefani, alla tribù strafirmata di Brangelina per arrivare a Willow Smith. Ha 9 anni, è

figlia di Will e ha un infinito guardaroba. Completi tartan, stampe animalier, giacche militari, orecchini a spilla da balia e acconciature studiate per lei dagli stylist Haen e Bob Zangardi, oltre che dalla madre Jada. Mentre prima c’erano al massimo i concorsi Bimbi Belli, adesso lo spazio dell’infanzia pura si riduce sempre di più: i kid teen sono consumatori e sono, a loro volta spendibili e consumabili. In quinta elementare, e anche prima, hanno già gusti precisi. Alcuni cantano e recitano in televisione, mimando gli adulti, e li vedi già avidamente predisposti a sfruttare l’occasione. La moda non crea il fenomeno, lo esprime e lo esalta. Finito il tempo dell’abbigliamento funzionale, legato alla crescita rapida e alla necessità, è cominciato quello dello styling infantile. Studiando le foto delle campagne pubblicitarie, ti rendi conto che agghindare una bimba con abitini di velluto viola, collant intonati a righe orizzontali, camicia a piccoli fiori viola, bianchi e rossi, giacchina beige con decoro viola e rosa, in tinta con gli stivali, è una gran fatica. Ne vale la pena solo se immagini per lei un futuro da velina. Magari poi ti delude e si scrive in fisica nucleare, non si sa mai.


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il paginone

Inutile mostrarsi intolleranti appellandosi a categorie che poi non si applicano ad altri: kitsch, bulimico, esagerato, tutto curve e deforme com’è, Salvador Dalì ha fecondato, allattato, nutrito, generazioni e generazioni di epigoni. Ma nessuno, mai, alla sua altezza. Vedere per credere la mostra che apre a giorni a Milano di Marco Vallora errore è di pensarlo solo come un pittore mostruosamente virtuoso e terribilmente kitsch, cioè di tener ancora valida, negli occhi, la categoria del buon gusto: lui l’ha scavalcata, tra i primi, pioniere anche in questo. E ad Alain Bosquet, lucidissimo, ha confessato: «La pittura non è che una parte infinitesimale di questo mio genio e credo che nel dominio della pittura resteranno pochissime tracce di quel genio». Poteva rimanere a vita un epigono cubista (c’è anche questo capitolo, curiosamente, nella sua esistenza di anti-moderno) ma s’è stufato subito. Quello che però non si capisce, davvero, è come mai si è (leggi: certa critica miope) così accondiscendenti con le sciocchezze kitschissime e mediocri di un Koons o di un Hirst, di Paul McCarthy o di Cattelan, che fanno però tanto fino-intellettuale, e invece si è così (sono) inflessibili, nel non tollerare questi giochi camp, sofisticati e caustici, che Dalì sa giocare così bene e forse troppo pionieristicamente. Lui: il dandy paranoico, che si lasciò consumare come una larva, che in finis terrae strisciava sul pavimento vermiforme, e prese fuoco, come un cerino, ben più geniale e mentale di tanti suoi epigoni, celebri ma asfittici.

L’

Certo, se uno pensa ai molti depositi di patacche-Dalì, che non sono nemmeno «di» Dalì, ma quante ce ne sono, a Londra, a Parigi, a Madrid (e De Chirico, allora, che però resta sempre un intoccabile? Mai viste le sculture di De Chirico?!), serbatoi di sconcezze mercantili, sculture, gioielli, illustrazioni a gogò, tipo Art’è, pecore-dolly di cui lui è solo in parte responsabile (a prescindere dal suo menefreghismo gagà, che tutto si divertiva a tollerare e a pre-firmare, come assegni post-datati, disinteressandosi dei risultati nobili: «avida dollars», come l’aveva anagrammato il puritano Breton) è ovvio che qualsiasi persona di gusto di fronte a quegli affronti fugge via e non si volta nemmeno a perder tempo. Ma è un errore capitale, perché davvero Dalì, al di là di quelle zavorre imperdonabili, è un genio, comunque, delle avanguardie, e tutto concettuale, lieve e pneumatico: precursore millenario di miriadi di rivoli di post-plagi e sperimentalismi tentativi, che da lui si sarebbero dipartianno III - numero 33 - pagina VIII

ti, inavvertiti e subdoli (tant’era la fecondità pirotecnica della sua vertiginosa fantasia, oggi te la sogni!) e avrebbero nutrito, allattato, fecondato generazioni e generazioni d’anemici epigoni, pateticamente ignoranti o ipocritamente ingrati, salvo l’omaggio recente di Vezzoli, Dalì Featuring, a Stoccolma. Impostori, che appunto si farebbero fucilare, pur di non dover citare il suo nome, «corrotto» e mercantile, quasi loro fossero degli angeli candidi gonfiati d’etere, che mai hanno odorato pecunio. Mentre continua a esser molto stimato e amato da Picasso, che forse qualcosa di più capisce dei soliti cretinetti della critica odierna. Sono entrambi spagnoli, com’è noto, ma non è per questo che si amano. Per esempio Dalì, che detestava le acrobazie dei «cornuti dell’arte moderna» (ci ha pure scritto un divertente pamphlet sopra, SE edizioni) non aveva la medesima stima per Mirò o per Picabia, anzi, li ironizzava, con non poca ferocia. Ma con Picasso si soppesa come l’unico altro grande maestro cosmopolita e Picasso lascia fare, affettuoso. Infatti, sono entrambi due vecchi hidalghi ispanici, che si scambiano, lungo tutta la loro longeva esistenza, perbenistiche e spiritose cartoline, da pensionati della vita (edite da Archinto) dialogando ormai nella lingua franca della Pittura, che è il francese, scalciando la madre-lingua-patria. Significativo. Spagnolissimo, Dalì, come del resto Picasso: eppure assolutamente cosmopolita. Che l’arte moderna, questa sì, la detesta e deride, perché si sente superiore a certe meschinerie programmatiche, asfittiche, di pura conventicola. E passi Picasso, ma merde, per esempio, il cubismo di maniera di Gris o Madame-Picasso-Braque: quel geometrismo rigido di forme, che pure lui ha praticato, brevissima malattia d’adolescenza. Non parliamo poi di futurismo, astrattismo o suprematismo, anche se la vera bestia-nera è il più rigoroso e apparentemente algido papà del neo-plasticismo, il dileggiato «Piet Piet, Pietà Pietà, Pio Pio, Peto Mondrian». Dalì, infatti, al cospetto di queste rigide ascisse, si smidolla, tutto-cur-

L’avanguardi

ve, sforme deformi, caverne cromatiche, buchi anatomici, atomi ronzanti, anamorfosi sghembe, sfondamenti poli-prospettici, inganni ottici: un trionfo del fitoforme, anzi, del lamellibranco. La curva, il deforme, il veder-doppio della paranoia critica: contro-freudiana. Ma non possiamo dimenticare, che fu lui a far digerire e capire, al grande Le Corbusier, la novità indiscutibile e pregna di futuro, dell’allora snobbato Gaudì. E non trascurare che un film-chiave delle avanguardie, come il Chien Andalou, non è tutta crusca del diavolo di Buñuel (con cui ha avuto un’inconfessabile tresca, nella Casa dello Studente di Madrid - testimone geloso Garcia

Lorca. Adolescente, lo scapigliato Salvador de Cadaqués era di demonica, inquietante bellezza) ma deve molto anche al suo di genio visionario. Come la celebre sequenza di sogno, che prensile Hitchcock gli richiede, per la psico-scena di Io confesso. Ma poi lo cercano pure Disney e i Fratelli Marx, che non è trascurabile orgoglio. Eppure Freud proprio non gli piace, perché gli pare un mandriano soffocante, che vuole riportare all’ovile surrealista la smarrite pecore oniriche dell’inconscio (lo sostiene anche con il dottor Breton e sono guai), ma pure Freud, così spesso sordo alle istanze delle avanguardie, non è che lo tratti molto meglio: «Un fanatico e basta». Senza nemmeno stenderlo sul lettino dell’analisi. Cui Dalì del resto non si sarebbe mai sottoposto, geloso dei suoi incubi (anche storici.

Lo vogliono reazionario e compromesso con il Caudillo, ed è vero che non lascia mai sostanzialmente la Spagna e non è certo accanto a Picasso, a a Mirò, al poeta surrealista Eluard o all’architetto Sert, per il Padiglione Spagnolo del ‘37 a Parigi, ove si espone per la prima volta il ribelle Guernica. Un quadro che certo non lo esalta). Ma già negli anni Trenta ha avuto delle in-

quietanti premonizioni, poco collaborazioniste, nei riguardi di Hitler, che annega, in fotografia, in un piatto di fagioli, accanto all’ombrello trasparente di Lautréamont. A Eluard, invece, vecchio amico, si è limitato a rubargli la moglie-gendarme, Gala, la quale a sua volta aveva già imposto al morbido compagno-poeta, un torbido ménage à trois con Max Ernst (stile Nietzsche-Lou Salomé-Gast) . Scendono a Cadaqués con la coppia Magritte, ma da subito Gala si tramuta, per l’ossequiante Dalì, in una musa irresistibile: «Senza di lei io non esisterei», dice, strisciandole subito alle calcagna come un bruco, pronto a trasfigurarla in icona amata-persecutoria, che funziona comunque da stampella occhiuta, al suo iomolle, di camembert. Gala, Galuschka, Gradiva, Galarina: una russa di bassa estrazione, che forse il padre brutale ha violentato, e adesso, fuggendo, lei si finge di nobili, inesistenti lombi baltici. Dalì, che è appena uscito dalla contorta storia d’amore con Garcia Lorca, ed è squassato da sinistre risate isteriche, alle soglie della follia, sta leggendo la Gradiva di Jansen, forse anche il saggio di Freud, che predica il risveglio dell’inconscio. «Quest’estate conoscerò l’amore», si auto-profetizza - fanciullo terrorizzato dal sesso, e dal contatto umano. «Sarà la mia Gradiva. Ma prima deve guarirmi».


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Il sogno si avvicina opo cinquant’anni ritorna. E così Il sogno si avvicina. È con questo titolo che dopo mezzo secolo Milano riapre le porte a Salvador Dalì, protagonista della mostra che si inagurerà mercoledì prossimo, 22 settembre (fino al 30 gennaio del 2011), a Palazzo Reale. A essere indagato, questa volta, è il rapporto del grande artista con il paesaggio, il sogno e il desiderio. Come dire, tutto Dalì. Fondamentali, per la realizzazione dell’evento, la collaborazione con la Fondazione Gala-Salvador Dalí di Figueras e i prestiti dal Reina Sofia di Madrid e altre istituzioni museali. Oltre alle 50 e più opere che si potranno ammirare (con sguardo scevro da pregiudizi, come raccomanda su queste pagine Marco Vallora), la mostra riserva due sorprese: la visione del cortometraggio Destino di Salvador Dalì e Walt Disney, mai proiettato prima in Italia (Dalí lavorò al fianco di Disney tra il 1945 e il 1946 ma il film fu completato solo nel 2003; esposti anche alcuni dei disegni originali creati per il corto), e la realizzazione, all’interno del percorso, della sala di Mae West così come fu ideata dallo stesso Dalí per il museo di Figueras. Cosa resa possibile dal curatore dell’allestimento, l’architetto Oscar Tusquets Blanca, amico e collaboratore di Salvador Dalí, artefice della sala Mae West nel museo dedicato al pittore spagnolo e del famoso sofà Dalilips, realizzato su disegno di Dalì.

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pennellata è composto comunque dai vorticosi piccoli pois, molecolari della cosiddetta realtà. Anche Gala (che lui offre pure a Papa Pio XII, in veste di Madonnina: Vergine di Port Llgat, il titolo sfrontato) incomincia a rotare, a galleggiare, senza gravità, a sfaldarsi, in molte sosia-Gala, viste allo specchio, in Gala atomica, in Galatea con sfere molecolari. La bella Galarina: una sorta di Fornarina gitana, che offre al mondo il suo sodo seno nudo, a forma di nutritiva pagnotta, e trasforma il suo Dalì in Post-Raffaello. In un pittore-collage, che diceva: «Io propongo una fotografia fatta a mano», rovesciamento mica male, un’«anti-arte» vera. Che non vuol essere solo dadaisticamente sarcastica, ma pure davvero popolare. Come la sua semplice pagnotta realista, che pare uno Zurbaran a portata di bocca. Maritando però lo Sposalizio della Vergine di Raffaello con la Coca Cola. Eh già, perché se credete ancora che i primi a mettere una Coca Cola nella pittura siano stati i pop-artisti Warhol o Jim Dine, vi sbagliate di grosso. Guardatevi Poesia d’America, 1943: c’era ancora la guerra, altro che Pollock & Dripping, al massimo lo Stuard Davis di Odol, ma lui aveva intuito quanto l’arte moderna dovesse affrontare il problema della cultura di massa, lo ha

ia? C’est moi Col suo genio premonitore aveva intuito che l’arte moderna doveva affrontare il problema della cultura di massa. Fu lui e non Andy Warhol il primo a mettere la Coca Cola in un quadro. Era il 1943 Gala dal volto duro di diaspro, che Dalì dissemina come una spezia nella sua pittura, facendola complice dei suoi giochi imprenditoriali, e anche se lei non ha mai preso in mano un pennello, anticipa la moda, assai attuale, delle mogli-muse (vedi Oldenburg o Christo) che finiscono per co-firmare le opere, onnipresenti. Gala sovrintende però soprattutto alle finanze e alla «moralità» del suo attardato valletto: stufa del bailamme, anche grafico, della rutilante casa-museo di Figueroa, ove la pagnotte-mammelle in facciata simulano un bugnato rinascimentale, le Cadillac scese dal cielo, in salotto, fingono d’esser vasche termali romane, e specchi, tranelli, labbra femminili pantografate e ramarri sospetti, guatano da ogni angolo, Gala, con i suoi forti appetiti sessuali, anche campestri (che certo il linfatico Dalì lunare non riesce a soddisfare) pretende di ottenere un castello tutto per sé, quello elegantissimo e finalmente sobrio di Pubòl, ove Dalì non ha permesso di entrare, salvo su capriccioso invito della Castellana,

istoriato, stampato e recato, per chilometri di colline, da un fidato lacchè. E, per colmo di sadismo, la grafica del faire-part sarà curata dallo stesso, umiliato Consorte. La maggior «colpa» che gli si attribuisce è dovuta forse al fatto che lui si ostina a dipingere ancora, e peggio, all’antica, nonostante poi abbia sempre bisogno di evadere dai suoi pigmenti, dalle sue tele: magari arrivando di spronbattuto in Cadillac, nel centro della Plaza de Toros, con una baguette per sombrero, così, per gettar scompiglio, mentre c’è corrida, e sognando di farsi sollevare da un elicottero con il toro defunto, appeso al suo celebre baffo elettrico. Perché, come ha mostrato Halsan, nelle sue celebri fotografie - che stampano i salti dei suoi personaggi predestinati, non tutti son degni - Dalì scatta vertiginosamente leggero nell’aria, trascinandosi dietro, come un demonio, pennelli, barattoli e pagnotte danzanti alla Charlot, spaventando un gatto, lui più gatto d’un gatto. E ha sempre scelto la parte del vuoto, comeYves Klein (di modelle colorate ne aveva

già strapazzate e strisciate anche lui, molto prima, ovviamente): ma non smette di studiare la fisica quantistica, di approfondire la Teoria delle Catastrofi di Thom (che visualizza come delle «esse» di violino purista, genere Morandi metafisico), né di pensare il mondo come un frullo perenne d’atomi impazziti, o di co-vedere tanto il vuoto quanto il pieno, strabicamente.

Come in una sorta di perenne esperimento di Gestalpsycologie: se non sei preavvertito, tu non vedi che una sola sagoma, non certo il suo negativo. Questa, lui la chiama: «paranoia critica»: vedere doppio. Se uno si incaponisce nel primo livello di sguardo, può anche non avvertire altro che un levitare vorticoso di papille cromatiche, quello che lui chiama - ironizzando le pretese scientifiche del divisionismo: «i coriandoli cromosomatici di Seurat, che sono l’atto notarile della discontinuità della materia». Sfere rotanti apparentemente immobili: ma ha intuito, secoli prima di Lichtenstein, che il retino simulato della

mostrato una bellissima mostra, dedicatagli qualche anno fa a Barcellona. Far dialogare la pittura alta con gli oggetti vili del consumo popolare (e dunque per nulla vili) e dell’junghiano inconscio collettivo (molto meglio di Freud). Così precocemente, che non a caso - circolo vizioso di eterno ritorno - la mostra si chiudeva su un incontro fotografico inevitabile: quello di Dalì con Andy Warhol, all’hotel St. Regis di New York, 1964. Warhol, che, trovandosi di fronte un «doppio» tanto perturbante, un maestro-mostro come quello, non sa come reagire, altro che far come sempre lo spiritoso. Si trova così spiazzato, che lo fotografa e basta, però poi lo rovescia a testa in giù. Non tanto come un Baselitz vivente, ma come l’altra metà d’un sé-tarocco, un doppio rivoltato del suo narcisismo. Dalì è troppo maestro per colpirlo con le freccette dell’ironia. Bisogna neutralizzarlo, disarcionandolo: del resto chi altri mai lo ha prece-

duto da decenni, con una sua factory variopinta, intessuta di travestiti, capitani e funamboli, e dominato da una donna-vampiro, come Gala, ben più temibile di Ultraviolet? Chi è diventato così un uomoimmagine da imbandire le sue performance auto-pubblicitarie, rispondendo alle domande con le domande, disegnando spavaldamente prodotti commerciali e scarpe-cappello e bocche da profumoMae West, per la complice Elsa Schiapparelli? Chi ha fondato prima di lui (nel 1945!) una sorta di Interview catalana, che si chiama ancor più narcissicamente Dalì News, invece che Daily News, e che non fa altro che autointervistarsi, invischiando anche i morti come Wagner e Meissonnier, inventando réclame di medicine immaginarie, tipo Dalinal, rimedio contro la «tristezza intellettuale e la imbecillità gelatinosa». Magari delle pillole pittoriche di Damien Hirst? Come Warhol, forse, anche lui vede le idee reificarsi subito, e stupidizzarsi, quali decotti ready made.

Accanto a Duchamp appende bidet al soffito, come lampadari e schiaccia, nella sua giovanile pittura pre-Arman, tubetti di colore, quasi fossero mosche moleste, che fuoriescono dalla tomba profanata di San Narciso, un santo tutto suo. Infine sceglie l’Angelus di Millet, prototipo del poncif artistico, come elettivo collante kitsch. I due contadini ispirati diventano calamai, cappelli per le sue Venere di Milo tagliate a cassetti, porta-ceneri e spauracchi: molto prima di diventar copertina per il saggio di Gillo Dorfles. E poi le tv usate come tele, impilate a totem e lasciandoci fluire dentro le nubi, in anatomie traforate, alla Magritte, ben prima di Nam June Paik, altro che Plessi! Ed ecco l’invenzione della eat art, prima di Spoerri, mangiando ostriche su modelle nude e trasformando un’aragosta in cornetta del telefono. Un Ovidio della metamorfosi moderna, che vede stroboscopicamente: «Tanto più diventa classica la resa dei miei soggetti pittorici, quasi fotografica, tanto più loro diventano inafferrabili e inesplicabili». Uova fritte al piatto senza piatto: sottraendo sempre più la «tavola» del suo dipingere. Sinché il suono dell’Arpa diventi invisibile. Ecco lo choc della Stazione di Perpignan. In un tripudio vaticano e iperborrominiano di prospettive vorticose, Dalì intuisce quanto la materia einsteniana sia discontinua. E dunque è ridicolo dipingerla: meglio magnetizzarla in sogno, sotto lo sguardo «dell’arcangelo anti-protonico». Come un guaritore filippino, «tuffando le mani di pittore» dentro la carne putrescente del mondo. E illudendosi che l’immagine si materializzi, come nell’inganno d’un solenne ologramma virtuale. Quello della sua inimitabile vita imitatissima.


Narrativa

MobyDICK

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libri Isabella Bossi Fedrigotti SE LA CASA È VUOTA Longanesi, 137 pagine, 15,00 euro

ietro i personaggi bambini dei sette racconti della raccolta Se la casa è vuota, di Isabella Bossi Fedrigotti, vivono e s’agitano le anime inquiete dei genitori. Al punto da farsi un vero e proprio groviglio familiare che è, forse, una delle chiavi di lettura di queste brevi narrazioni. Con quest’ultimo libro la Bossi Fedrigotti ritorna alla casa editrice Longanesi, che aveva accompagnato il successo letterario del romanzo Di buona famiglia, dopo la lunga parentesi di libri editi con Rizzoli. Non lontano dai temi conosciuti della scrittrice e giornalista, torna in questi racconti l’esercizio d’osservare l’infanzia che sboccia in adolescenze difficili. Le narrazioni si svolgono in contesti all’apparenza normali, dove le vite familiari vengono scandite dalle necessità del cibo, del sonno e dello studio, e dove emergono i conflitti registrati quasi come provocazioni. La tesi della scrittrice, quanto mai dichiarata in post fazione, il luogo depositario anche della ragione della nascita dei racconti, nasce quindi dall’osservazione non in vitro ma dal reale delle tante e disparate famiglie italiane coeve, collocate per lo più in una fascia sociale di buona borghesia, che permette l’osservazione più dei malesseri interiori che di quelli esteriori, avendoli quelli contenuti e superati bellamente da situazioni di agio economico. La famiglia, dunque, è il palcoscenico di questi sette personaggi colti per lo più bambini e seguiti dall’adolescenza alla maturità, con rapidi tratti e vigorose sintesi. Ogni famiglia custodisce le storie, che sono prevalentemente fatte di solitudine e di incapacità di capirsi e di comunicarsi il disagio di vivere. E non sono sempre storie esemplari o forti o truculente, spesso la loro ordinarietà è la cifra della loro forza. I bambini, che saranno ragazzi e ragazze e infine adulti, combattono una sorta di guerra dolorosa all’interno di contesti mobili e franosi, di spazi dove i perimetri si muovono con improvvisi guizzi: la mobilità dei genitori, l’alchimia strampalata delle coppie e dei matrimoni, finisce per formare e deformare un’infanzia sempre affamata d’amore e di attenzione.

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Genitori

e figli:

istruzioni per l’uso Sette storie di solitudine e incomunicabilità, seguite dall’adolescenza alla maturità nel palcoscenico della famiglia

Autostorie

di Maria Pia Ammirati

Proprio la sottrazione di attenzione, la mancanza di cura, l’avarizia di tempo da dedicare, fanno scattare meccanismi impercettibili che modificano lentamente e per sempre il carattere e la solidità di un bambino. Lorenzo, Annalisa, Paolino, Francesco, Pietro, ognuno di loro, ogni singolo personaggio, scopre e subisce il cambiamento di sé e della famiglia quasi con rassegnazione, pur cercando disperatamente di comunicare con i genitori. Eppure anche i genitori sono vittime, vittime della stanchezza, del nervosismo, dell’errore. Non c’è infatti giudizio negativo o moralismo facile in questi racconti, ma solo l’acuta visione di un male incurabile, l’impossibilità a comunicare, come avviene, per esempio, nel secondo racconto dedicato a Lorenzo. Nessuno ha colpa, in questa famiglia agiata e giovane, solo le circostanze decretano però dei fallimenti: la mamma di Lorenzo è stanca e nervosa perché in pochi anni passa da giovinetta spensierata a madre di tre figli: «la sua mamma era giovane, nervosa e comprensibilmente stressata», Lorenzo sfortunatamente nasce come secondo, come cuscinetto troppo vicino al primo figlio, tranquillo e silenzioso. Madre e figlio non riusciranno a entrare in affettuosa armonia, e il carattere vispo e il grande bisogno di amore di Lorenzo verranno scambiati per una forma di «disturbo» della personalità. L’allontanamento del bambino dalla famiglia corrisponderà alla perdita del Lorenzo originario, intelligente e vivace. Lorenzo diverrà un abulico obeso. Un uomo infelice perché un bambino troppo affamato d’amore non corrisposto.

Dalla prima Ferrari al debutto di Bugatti pilota a ricchezza culturale di un’Italia dai mille borghi facilmente emerge, anche per l’editoria sull’auto, con piacevoli scoperte. Come nel caso di un’azienda reggiana operante da oltre mezzo secolo quale tipolitografia, che da vent’anni ha affiancato alle tradizionali attività una serie di proprie pubblicazioni. Correlate, in genere, a fatti locali ma con solido aggancio ad argomenti di più vasta portata. Che, per quanto concerne l’auto, sono esemplarmente sviluppati in un raffinato volume (Barighin e la 815 - La prima auto costruita da Enzo Ferrari, edizioni Tecnograf, 148 pagine di grande formato, 45,00 euro), numerato in mille copie e dedicato alla curiosa vicenda di un personaggio della provincia reggiana. Nato nel 1917 e morto nel 1975, ha vissuto nel borgo di San Martino in Rio dove era familiare come Barighin - invece di Emilio Storchi Fermi - e «il paese pensava che nella vita sarebbe stato un umile operaio o un manovale, o bracciante agricolo; anzi che non avrebbe combinato nulla di buono». Capace, invece, da giovane di guadagnare giocando a calcio con successo nella vici-

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di Paolo Malagodi na Carpi, arrivava spesso a San Martino «con auto vecchiotte ma belle». Una passione per i motori che lo porterà, ancora a metà degli anni Cinquanta, a gestire per un ricco collezionista bolognese, l’acquisto di vetture rare e così «in pochi anni scopre e acquista pezzi di valore assoluto». Sino a mettere le mani sul primo modello costruito da Enzo Ferrari: la 815, con motore a 8 cilindri e da 1,5 litri di cilindrata. Marcata però «Auto Avio Costruzioni», per la clausola che durante quattro anni, dopo aver interrotto nel 1938 i rapporti con Alfa Romeo, impediva a Ferrari di realizzare auto da corsa con il suo nome. Divieto aggirato nel 1939 con la realizzazione di due esemplari, carrozzati dalla Touring, dei quali uno destinato al pilota Alberto Ascari per la Mille Miglia del 1940. Ed è questa, con l’altra 815 andata distrutta, che Barighin rintraccerà dopo aver scoperto «alla fine dell’estate del 1958, che un’auto in alluminio è in vendita da un demolitore e dalla descrizione sembra la 815. Quasi alla fine del-

Come “Barighin” scovò la 815 e come il celebre costruttore gareggiò su un triciclo nel 1899

l’anno scova l’auto e figurarsi l’emozione per Barighin, che tuttavia non rivela che è la prima Ferrari, intavolando una trattativa che si conclude in pochi minuti».Trasferita a San Martino in Rio e accuratamente restaurata, tanto era il vanto di Barighin per quella vettura che soleva dire: «Se un giorno verranno a girare un film sulla vita di Enzo Ferrari dovranno partire dalla 815 e da chi l’ha salvata». Un’intrigante vicenda, narrata con passione e corredata di ricca documentazione fotografica da Bruno Nicolini e Paolo Maggi. Autori anche del volume 3° Ettore Bugatti (edizioni Tecnograf, 144 pagine, 20,00 euro), di più normale formato ma non meno ricco di immagini e riproduzioni di documenti del tempo. Con avvio della storia dalla notizia, ripresa dalla Gazzetta di Reggio, di una gara automobilistica svolta a inizio maggio del 1899, sugli ottantacinque chilometri del percorso Reggio-Guastalla-Parma-Reggio e con terzo classificato Ettore Bugatti, su un triciclo della milanese Prinetti-Stucchi. Dando così certezza che, proprio in terra reggiana, il giovane Bugatti (18811947) debuttò come pilota da corsa prima di divenire, anni dopo in Francia, costruttore delle leggendarie vetture marcate con il suo nome.


Memorie

MobyDICK

un libro questo di Leone Piccioni che deve entrare di diritto fra le opere più importanti e significative dedicate al jazz scritte da un autore italiano. Anzi direi la più rilevante, perché in Ritratto in bianco e nero Piccioni affronta i suoi rapporti personali con la musica afro-americana (jazz e musica brasiliana) con lo spirito di un intellettuale che la conosce, l’apprezza, la capisce e l’ama profondamente.Viene pubblicato a cura di Santino G. Bonsera nella collana dei Quaderni del Circolo Culturale Silvio Spaventa Filippi (info@premioletterariobasilicata.it), nel cui catalogo troviamo altri scritti di Piccioni: Le antinomie di Leonardo Sinisgalli (1998), Memoria e fedeltà (2007) e Lavagna bianca (2008).

È

Mentre nei primi vengono raccolti profili di poeti e scrittori che Piccioni ha descritto nel corso della sua vita di studioso, questo, appena pubblicato, è dedicato invece alle musiche che ama, di cui è stato grande divulgatore, prima attraverso la radio poi la televisione e inizialmente anche con scritti critici sulla stampa quotidiana. Non saranno mai sufficientementelodate le trasmissioni che, con suo fratello Piero, aveva realizzato fra il 10 novembre 1949 e il 1 ottobre 1953. Rassegna del jazz, fu una trasmissione di straordinario valore. È stata la più esauriente, chiara, sintetica trasmissione sul jazz messa in onda dalla radio italiana, di grande utilità per la formazione di un nuovo vasto pubblico

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New Orleans

in bianco e nero di Adriano Mazzoletti grandi musicisti americani - Duke Ellington, Louis Armstrong, Count Basie, Bud Powell, Dizzy Gillespie, Sonny Rollins, Modern Jazz Quartet, Miles Davis, John Coltrane - che non fosse ripreso e mandato in onda dalla nostra televisione. Ogni programma era preceduto da informazioni dettagliate sui musicisti, sul loro stile, sul significato della loro musica e della loro importanza nell’ambito del jazz. Dove spettacolo e cultura erano un connubio inscindibile. E la medesima attenzione Leone Piccioni la dedicò alla musica brasiliana e a coloro che più apprezzava e amava: Vinicius de Moraes, Toquino, Jorge Ben, João Gilberto. Fu lui a farli conoscere al pubblico italiano, facendoli apparire anche in importanti programmi di varietà o dedicando loro ampi spazi nella programmazione televisiva. Nel 1965 divenuto direttore dei programmi Radio, modificò l’intero palinsesto e la «radio di Piccioni» fu il momento più alto nella storia di questo mezzo. Oltre alle trasmissioni di intrattenimento (Gran varietà, Per voi giovani, Disck Jockey, Pomeriggio con Mina, La Corrida, Hit Parade, Chiamate Roma 3131) volle dare al jazz la stessa dignità che aveva la musica accademica con una apposita stagione di concerti messi in onda in diretta alla presenza del pubblico. A quelle stagioni parteciparono molti grandi solisti e alcuni fra i migliori musicisti italiani. Tutto ciò però

di appassionati. Anche quando, lasciata la Radio, passò alla direzione del telegiornale, fu sempre attentissimo a ciò che succedeva nel mondo del jazz. Ricordo, pur non conoscendolo anDal jazz al samba, Harlem e Yusef cora personalmente ma saLateef, Vinicius de Moraes e la bossa pendo del suo amore per il nova… La musica afro-americana jazz (da ragazzo ero un attento ascoltatore delle sue raccontata con passione e con trasmissioni da cui appresi sensibilità pionieristica da Leone moltissimo) e la sua grande Piccioni. In un libro che raccoglie disponibilità, gli telefonai per informarlo che quella i diari di viaggi compiuti tra gli anni sera, 5 novembre 1959, al 60 e 70. E un saggio su Malcom X… Teatro dei Satiri di Roma, Chet Baker avrebbe ricevuto il premio che la rivista americana Play- Piccioni non lo racconta nel suo volume boy gli aveva conferito quale miglior musi- dedicato in massima parte alla musica. Socista dell’anno. Piccioni inviò immediata- lo nei capitoli relativi ai viaggi negli Stati mente una troupe del telegiornale. Nel Uniti, il primo del 1962 il secondo di cinque 1989 quella sequenza venne recuperata anni dopo e in quelli su Vinicius de Moreas dal regista Bruce Weber che la inserì nel e gli altri brasiliani, affiorano ricordi del film Let’s Get Lost. Quando, lasciato il te- passato radiotelevisivo, ai tanti amici e allegiornale, passò alla direzione Program- la poesia afro-americana di cui Leone è mi Tv, non ci fu tournée o concerto con i stato in Italia un precursore traducendo te-

sti di blues e liriche di grandi poeti come Paul Lawrence Dunbar, James Weldon Johnson, Leroy Jones. Il primo dei due viaggi negli Usa lo effettuò a New Orleans. Era il 1962, nessun appassionato italiano aveva avuto la possibilità, fino allora, di visitare la città natale del jazz. Piccioni ne traccia un ritratto straordinario. Ne comprende immediatamente lo spirito lontano da ogni retorica. Descrive la musica che ascolta nei locali di Bourbon Street - «non era emozionante, come qualche turista europeo voleva far credere assumendo atteggiamenti rapiti» - mentre condotto da un amico alla Preservation Hall apprezza la «sicura tradizione musicale. Dove bianchi e negri ascoltano insieme».Visitando il Museo del Jazz fece notare che nel grande albero genealogico, che occupava una intera parete, mancava Sidney Bechet. Il direttore del Museo sorpreso della competenza di quel visitatore giunto dall’Italia, ringraziò Piccioni e il nome del grande musicista di New Orleans venne inserito immediatamente.

Il diario del secondo viaggio è ben noto agli appassionati e agli studiosi. Di grande interesse perché Piccioni tratta un profilo esaustivo e preciso del jazz del periodo. Ha occasione di ascoltare Yusef Lateef e non nasconde il suo entusiasmo. Ma denuncia anche la profonda crisi che il jazz sta attraversando. Parlando con competenza di Brubeck, che in quel periodo aveva sciolto il suo celebre quartetto, non perde occasione di elogiare Paul Desmond «che se lo mangia - per dirla con Arbasino - come la balena Pinocchio». Tutte e venti le pagine di questo Diario si leggono di un fiato e meravigliano sempre per le descrizioni di Harlem, dell’Apollo e dei locali del Village. Con Vinicius de Moraes, poeta del samba, «poeta vero, poeta di tutti i samba più belli», Piccioni ha mantenuto una amicizia durata per molti anni. Un’amicizia vera, come quelle che Leone sa dare. Le pagine scritte sui viaggi a Rio, oppure quelle dove racconta i momenti romani dei grandi musicisti brasiliani come il concerto al Sistina di Baden Powell, le serate con João Gilberto, l’amicizia con Jorge Ben, sono un affresco della musica brasiliana. Il libro è ricco di altri capitoli: oltre a un sorprendente saggio su Malcom X, scritto da Piccioni nel 1968, troviamo pagine recenti dove l’autore ritorna alla sua vena letteraria con più decisione: nei brani del Lunario, dove si ritrovano Leopardi, Manzoni, Ungaretti, Emilio Cecchi legati a memorie e sensazioni personali; nella Pavana, dedicata a Santa Teresa D’Avila e alla figura del padre Attilio, già evocato in Dna, in apertura di libro. Ma sono le pagine sulla musica che rendono il volume prezioso per gli appassionati. Il jazz italiano e non solo - deve molto a Leone Piccioni.

ALTRE LETTURE

CONSIDERAZIONI SULLA PATERNITÀ di Riccardo Paradisi

rchiviata definitivamente nell’armadio della storia la severa figura del pater familias - autoritaria, rigida e distante -, il ruolo paterno oggi vive una crisi di definizione. Secondo Simone Korff-Sausse, psicanalista e autore di In difesa dei padri (Castelvecchi, 99 pagine, 12,00 euro) quello della paternità è un nodo irrisolto che grava sulla possibilità di uno sviluppo familiare armonioso. Spezzando una lancia in difesa dei padri, Simone Korff-Sausse indaga nei meandri dell’odierna rimozione del maschile dando nuova linfa a una missione che in nessun caso dovrebbe essere trascurata. Perchè è sulla paternità che si fonda la trasmissioen biologica ed emotiva del maschile e perché se un bambino nasce da una donna, un uomo nasce da un uomo.

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L’ALIENAZIONE SECONDO MARX *****

orse l’avevamo archiviato troppo presto il vecchio Karl Marx. Certo, per costruire nuove società il Capitale non serve più, ed è sufficiente quello che s’è sperimentato nelle disgraziate parti di mondo che hanno visto l’applicazione del cosiddetto socialismo scientifico e delle sue dittature proletarie. Che hanno lasciato panorami di orrore e di macerie, di squallore estetico e morale, di atroci persecuzioni e di infamie senza fine. Però l’analisi di Marx è ancora attuale nel mondo del lavoro a cottimo e interinale, del precariato come condizione di vita, del turbo capitalismo globale che atomizza sempre di più uomini e comunità, disgrega nazioni e rende la solidarietà variabile dipendente. Sicché sono ancora utili le pagine marxiane sull’Alienazione pubblicate da Donzelli (125 pagine, 7,00 euro).

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UN APPUNTAMENTO CON LA VERITÀ *****

Autobiografia del grande, immenso Chesterton, uscita postuma nel 1926 e ora ripubblicata dalla meritoria Lindau di Torino (412 pagine, 27,00 euro) è soprattutto la storia del farsi di un’intelligenza e di un’anima che s’apre alla fede sullo sfondo storico del crollo degli imperi coloniali e del dramma della prima guerra mondiale. La ricerca di Chesterton approda come è noto alla Chiesa cattolica, lì dove, dice lo scrittore inglese, «tutte le verità si danno appuntamento». E questo approdo, ne è la nota segreta, la meta della ricerca di una verità più grande di quella proposta dalle filosofie e dalle dottrine del mondo. Di Chesterton Lindau ha appena mandato in libreria anche Il Napoleone di Notting Hill (232 pagine, 17 euro), e La Chiesa cattolica (128 pagine, 13 euro).

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di Enrica Rosso Orchestra del Teatro San Carlo di Napoli schierata in bella vista - e non nel golfo mistico - padrona assoluta dello spazio scenico, un direttore d’orchestra, quello vero, occultato dietro a un podio rialzato, e un attore-direttore, Toni Servillo, in preda a un olocausto emotivo. Quanto basta per dare luogo a Sconcerto, teatro di musica, come è stato battezzato dai suoi tre padrini: il compositore Giorgio Battistelli, l’autore del testo Franco Marcoaldi e il già citato Toni Servillo che se ne assume la regia e l’interpretazione. Parte da lontano questa produzione di Teatri Uniti, Fondazione Teatro di San Carlo, Fondazione Ravello e Fondazione Musica per Roma in collaborazione con Piccolo Teatro di Milano e MiTO Settembre Musica. Parte da un comune desiderio di dar luogo a un creare libero per connettere gli impalpabili mondi del sentire poetico a quello musicale in un fluire ondivago che si disgiunge dalla forma del melologo classico, per approdare a una forma più sofisticata e fascinosa. Comincia così il grande gioco del teatro di musica. I professori d’orchestra con nonchalance si installano in scena, mentre il pubblico a luci accese, si affretta a raggiungere la propria poltrona. A seguire il direttore-attore, accompagnato dall’applauso di rito - che già non sappiamo se scaturisca a salutare la direzione o per affetto verso l’interprete - guadagna la sua postazione che non abbandonerà più. Da qui in poi un profluvio di parole e suoni a colmare lo spazio e il tempo, un’orgia di pensieri e musica che a volte si fa fatica a districare per quanto entrambi siano pregnanti. Il personaggio del direttore deve dar conto agli orchestrali e dirigerli, ma il suo essere interiormente colmo trasforma il pulpito in precipizio e lo sbilancia conseguentemente verso la platea che si fa specchio del suo turbamento. La composizione musicale di Giorgio Battistelli vive di vita propria: ha carattere e coscienza di ciò che accade in scena. Libera i suoni e li traduce a seconda dei momenti in strappi sciolti, ronzii che presu-

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Televisione

Teatro

MobyDICK

spettacoli DVD

Sconcerto

per voce e note

MONACO 1972 PANICO ALLE OLIMPIADI Nel 1972 il festoso clima delle Olimpiadi di Monaco viene spezzato da un atto terroristico che lascia il mondo con un groppo in gola. Dei terroristi palestinesi hanno preso in ostaggio gli atleti israeliani ma la polizia riesce a mandare all’aria l’operazione. Questa in sintesi, la puntuale cronaca di una vicenda tristemente nota, che Kevin Macdonald ricostruisce con crudo rigore nel suo One day in september.. Filmati d’epoca, documentazioni della polizia e la testimonianza di Jamal Al Gashey, uno degli attentatori del tempo, scandiscono la brutta pagina di un eterno conflitto, ancora oggi irrisolto.

CONCERTI

I MARLENE KUNTZ RICOMINCIANO DA TRE mono tempeste, sibili feroci che sottendono ansia o onde che assolvono e leniscono il mal de vivre in un’espressione complessa e sintatticamente affrancata da schemi. Il testo poetico firmato da Franco Marcoaldi veleggia impavido, a tratti livido, imbrigliando il magma del subconscio, cercando di dissezionare la carcassa dell’inquietudine e tracimare l’ansia. Procede per frammenti lapidari di caustica lucidità: «L’intensità non è sorella del volume,/ l’anima si sposa all’esattezza,/ il cuore batte nel cervello». Servillo è composto, austero, democratico seppure in balia. Sempre carismatico nella semplicità e purezza dell’azione, quasi ermetico ma al tempo stesso cristallino e vibrante del suo intimo sconcerto, impone il ritmo e lo cavalca con grande eleganza

e stile. I professori dell’orchestra, ineccepibili, danno prova di magnifica complicità e sotto la sapiente direzione di Marco Lena, si sfrenano nel produrre musica con forte personalità, in cui si incastona il cammeo di Beppe Servillo. Pasquale Mari ci regala un’illuminazione intensa che gioca con gli ottoni e le casse armoniche percorrendo tutte le gamme del chiaro scuro e offrendo profondità estreme al testo. Dopo il debutto in Costiera Amalfitana e la prova, salutata da molti calorosi applausi, all’Auditorium di Roma, domani serata unica a Milano. Dal 2 al 20 febbraio un’ultima possibilità al Teatro Mercadante di Napoli.

Sconcerto - teatro di musica, Piccolo Teatro Strehler di Milano, 19 settembre

Disco, documentario e tour. Ricominciano da tre, i Marlene Kuntz di Cristiano Godano, che con Beautiful, nei negozi da martedì scorso, tentano la scalata al pubblico internazionale. Complici le collaborazioni di Gianni Maroccolo e Howie B, il combo torinese abbandona il prezioso songwriting in lingua italiana, puntando a liriche scritte e interpretate in lingua inglese. Risultati apprezzabili a stretto giro di posta, in coincidenza con l’inizio della tournée. Si comincia il 15 ottobre a Legnano, e poi Perugia (30 ottobre), Roma (5 novembre all’Alpheus), Torino (26 novembre), Firenze (27 dello stesso mese) e Milano (il 17 dicembre al Leoncavallo). di Francesco Lo Dico

Aperture sul mondo da Miss Italia alle furbate leghiste aragoniamo la televisione a un grandissimo edificio con centinaia di finestre (ormai i canali si contano a decine). Per tutta l’estate questo palazzo è rimasto al buio: le finestre si aprivano solo sul cortile, sul quale si esibivano i fantasmi del passato, sempre i soliti. Ora che non fa più così caldo, le persiane che danno sulle strade e sulle piazze si stanno aprendo, una dopo l’altra. In effetti la televisione deve essere considerata come un insieme di aperture sul mondo, con visuali tutte diverse. Da una di queste finestre abbiamo visto ciò che con una gaffe un dirigente Rai ha chiamato «la grande sfilata di carne», ossia Miss Italia

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di Pier Mario Fasanotti 2010 (Rai 1 in prima serata). A fare da valletto a Milly Carlucci l’educatissimo Emanuele Filiberto. Il quale, con il giocattolo televisivo, pare stia recuperando un’adolescenza che la pesantezza e l’opacità di casa Savoia gli hanno negato. Si diverte, ed è palese a tutti. Lo mandano a intervistare Sharon Stone e lui gongola. Poi con garbo lievemente malizioso si lamenta del fatto che la sensualissima attrice portava i pantaloni e non una gonna tipo Basic Instinct. Altra intervista: con l’«amico» Lapo Elkann. E le ragazze in bikini bianco a strabuzzare gli occhi dinanzi a due

potenti con passaporto mondano. A parlare di che cosa? Di quelle cose che tempo fa si diceva fossero «da donne». Meglio la canotta o meglio senza? I calzini: unanimemente lunghi, diamine. Hanno raffrontato le rispettive scarpe: classiche del Savoia, quasi babbucce (ma l’ha detto in francese, perbacco!) il biondino che ha a che vedere con la Fiat. Emanuele ha infine rivolto una domanda che era una sciabolata, in stile Marzullo però: «Chi è Lapo Elkann?». Tra un saltello e una presentazione, l’Emanuele senza Pupo se l’è presa per due volte con i suoi «parenti»: presumo che siano quelli del ramo Aosta. Altra finestra televisiva: il canale Current di Sky ripropone il discorso di Berlusconi ai giovani del suo partito, compresa la barzelletta orribile su Hitler che torna in vita perché chiamato a salvare le molli democrazie e dice «stavolta saremo cattivi». Anche questo è frammento di un teatro pubblico

che lascia sempre sedie vuote per chi vuole imparare il cattivo gusto. Infine la prima finestra «politica», quella dell’Infedele di Gad Lerner (La 7). Il giornalista-conduttore è in ottima forma. Sobrio e severo. Sobrio quando ha dato spazio, e a volte ragione, al super-leghista Borghezio. Severo quando ha intervistato e rimbrottato il sindaco di Adro, paese del Bresciano ove è sorta una scuola intitolata a Gianfranco Miglio (padre ideologico del federalismo). Scuola che ha adottato come simbolo l’immagine del sole sulle alpi, rigorosamente verde. Lerner ha obiettato che quel simbolo è certo quello di una comunità, ma è anche palesemente quello di un partito politico. Il discorso non fa una grinza: anche i fasci littori erano simboli antichi, ma sono stati tolti dai nostri edifici perché se ne appropriarono i fascisti. Stesso discorso con la svastica, di origine indo-europea. Ma il sindaco si è appellato alla «volontà del popolo». Replica di uno studioso: una pericolosissima furbata.


MobyDICK

poesia

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Il Novecento in romanesco

ER MINISTRO NOVO Guardelo quant’è bello! Dar saluto pare che sia una vittima e che dica: - Io veramente nun ciambivo mica; è stato proprio el Re che l’ha voluto! -

di Francesco Napoli a praticato nella sua vita la sottile arte della dissimulazione lasciando che intorno alla sua figura nascessero miti e leggende: Carlo Alberto Salustri (Roma, 1871-1950), a tutti noto come Trilussa, ha infatti una ricca costellazione di aneddoti che lui stesso ha alimentato o lasciato che venissero raccontati, anche in versioni contraddittorie. Se lo faceva un po’ era per il suo naturale istinto alla burla e allo scherzo, e un po’ anche per proteggere la sua vita privata, sfera della quale era molto geloso. E oggi che non sono disponibili le carte del Fondo Trilussa ancora «riservate» nell’Istituto nazionale di studi romani, ai suoi biografi risulta non facile rileggere la sua animata esistenza.

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L’unità d’Italia era appena stata portata a termine con la Breccia di Porta Pia e Roma capitale quando al secondogenito di Carlotta Poldi e di Vincenzo Salustri viene dato il nome di Carlo Alberto, probabilmente proprio in onore di casa Savoia. Ma la famiglia, di umili condizioni, è funestata da eventi luttuosi: nel 1872 la morte della sorellina maggiore Elisabetta - un suo vestitino sarà conservato dal poeta nel suo studio come ricordo - e due anni dopo quella del padre. La madre si sacrifica in un’intensa attività di sartina, giungendo a creare un piccolo atelier molto ben frequentato dall’alta borghesia romana anche grazie alla protezione della nobile casata romana dei Del Cinque presso i quali lavorava il defunto marito. Carlo Alberto cresce con poca voglia di studiare. La madre insiste e lo iscrive alle superiori ma Carlo Alberto non ne vuole proprio sapere e nel 1886 smette definitivamente, nonostante le autorevoli pressioni di uno zio canonico e del professor Chiappini, discreto seguace della poesia romanesca di Pascarella. A sedici anni entra nell’agone della pubblicistica e con un sonetto in dialetto di stampo belliano il 30 ottobre 1887 fa il suo esordio sull’allora molto seguito Rugantino di Giggi Zanazzo, lo stesso foglio dove qualche anno dopo, sempre in romanesco, farà la sua apparizione anche Sergio Corazzini. Firma in calce alla poesia,Trilussa. L’origine di questo pseudonimo sarà raccontata nei modi più svariati ma tra tutti il più brillante è quello che vede Carlo Alberto almanaccare su come coprire la propria identità in vista di un incontro con una giovane lavorante della madre. Non volendo farsi riconoscere, in

il club di calliope

Che faccia tosta, Dio lo benedica!

attesa del sospirato convegno d’amoMó dà la corpa ar Re, ma s’è saputo re cercava come coprire l’ingombrante, nell’occasione, identità. Più probaquanto ha intrigato, quanto ha combattuto… bilmente, però, la scelta è indotta dalJe n’è costata poca de fatica! la moda dell’epoca che vede tutti quanti firmare articoli e composizioni sui fogli e sulle effemeridi con uno pseudonimo. Sul Rugantino dunque Mó va gonfio, impettito, a panza avanti: ha inizio la sua ricca produzione di nun pare più, dar modo che cammina, versi e di prose in romanesco e nel 1889, con Le stelle de Roma, madrigach’ha dovuto inchinasse a tanti e tanti… li dedicati alle più belle fanciulle romane, aristocratiche e borghesi, Trilussa fa il suo esordio in volume. SoInchini e inchini: ha fatto sempre un’arte! stenendosi sui sempre incerti introiti Che novità sarà pe’ quela schina del giornalismo, Trilussa scrive un po’ dovunque e cerca nell’editoria libraria de sentisse piegà dall’antra parte! un più solido punto di riferimento economico. Nel 1903 si lega a Treves per una pubblicazione che non farà mai, Trilussa subendo gli ironici strali dell’editore da Ommini e bestie che rinfaccia all’autore i suoi numerosi «tradimenti», e nel 1920 stipula il primo accordo con Arnoldo Mondadori, origine di un lungo sodalizio con la casa editrice milanese che lo so- spunto per la sua satira dalla vita parlamentare e gosterrà ben oltre i meri doveri contrattuali. vernativa. Come nel sonetto qui riprodotto dove oggetto della satira è il servilismo dei politici che, una volta A Roma la poesia in dialetto ha avu- arrivati al potere, si trasforma in atteggiamenti tronfi. to senza dubbio, un po’ come a Napoli In particolare si deve osservare la chiusa affidata dal e a Milano, momenti di grande segui- poeta, con tratto da raffinato disegnatore, al movimento. Nella Capitale, sulla scia della le- to di una linea: la curva della schiena che si trasforma zione di Gioacchino Belli, si sviluppa in quella della pancia, quasi fosse più una caricatura fuuna fiorente tradizione poetica, con- mettistica che poesia. La trovata di focalizzare l’argosolidata da Cesare Pascarella che ave- mentazione su una parte del corpo, dandole vita autova affidato la propria fama a una gran noma - come in un altro sonetto fa con la dentiera di quantità di sonetti che danno voce al una duchessa - è cifra tipica di Trilussa, una sorta di sipopolo nel raccontare anche pezzi im- neddoche narrativa dove la parte rappresenta parodiportanti di storia, in cui però l’espressio- camente il tutto. La sua poesia interpreta una filosofia ne dialettale è ricondotta a una sorta di della vita sempolicistica, sempre divertita e divertente: norma italianizzante di ascendenza sicura- amore un po’ nostalgico dell’onestà, rifiuto della demamente ottocentesca. Ed è la nota crepuscolare di gogia e delle «esaggerazioni» di qualsivoglia sorta, inTrilussa a dar voce e avvio al Novecento in romane- dulgenza verso forme moderate di cinismo, ricerca di sco. Questi è stato a un tempo chansonnier e poeta fa- valori ridotti a misura borghese, buon senso comune e volista, e preferì il dialetto della piccola borghesia ro- utilitaristico. mana a quello trasteverino della tradizione belliana. Dopo una vita di stenti orgogliosamente mascherati, Trilussa si dedicò con grande passione al giornalismo, sotto pressione dell’élite culturale del tempo venne noscrisse sul Rugantino, come visto, ma poi sui più let- minato l’1 dicembre 1950 senatore a vita da Luigi Eiterari Capitan Fracassa e Don Chisciotte. Come poe- naudi. «Semo ricchi», pare abbia esclamato alla fedele ta diede il meglio di sé in età giolittiana, prendendo Rosa, governante di una vita, ma durò solo venti giorni.

DOVE SGRONDA L’AURORA E ALTRE FIGURE in libreria

Cammino lungo la strada che ha il colore di un dente scheggiato costeggiando lo scheletro di una chiesa che, inaccessibile, esibisce l’erba del mezzogiorno che scende a precipizio contro la luce in delirio. Linea di sangue impiegatizio nel cielo di settembre passi come nuvola tra le rose scarlatte degli anfratti. Pasquale Di Palmo (da Marine e altri sortilegi, Il Ponte del Sale)

di Loretto Rafanelli

nnAlfabeti di Anna Buoninsegni (unaluna editore), è un libro dove non solo la poesia fa la sua eccellente figura, ma pure la incantevole veste grafica, data la rara, raffinata, artigianale lavorazione eseguita con passione e amore da Alessandro Sartori, che l’ha impresso al torchio pianocilindrico su carta della Cartiera Miliani di Fabriano. Il volume ha pure un’acquaforte di Walter Valentini e delle illustrazioni iconografiche antiche. Immagini che accompagnano e compenetrano le poesie della Buoninsegni e che evidenziano (come dice Maria Luisa Spaziani in una acuta nota introduttiva), nella rivisitazione di dette raffigurazioni, la sua «sensibilità storica, filologica e magica». Le poesie della poetessa umbra hanno un tono lirico alto e dicono di una meraviglia del mondo e della parola che l’accompagna, e di cui ne è fedele interprete. Sono versi sapienzali, ma intrisi di sorpresa e di segreti sguardi, è il fiato della poesia che si situa «dove sgronda l’aurora/ e il verde veloce/ dell’olmo spogliato dal vento» e che rimanda a un catalogo di «figure» straordinarie.

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I misteri dell’universo

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MobyDICK

ai confini della realtà

e Alpi sono un luogo dove la presenza umana, non solo a livello di cacciatori, pastori e agricoltori, è documentata già migliaia di anni avanti Cristo. Nella parte italiana notiamo alcune lunghe e importanti valli. La Val d’Aosta, i cui abitanti si opposero a lungo al dominio dei Romani e ne furono in pratica sterminati, la Valtellina che nel Medioevo era forse la parte più ricca della Lombardia, la Val d’Adige con le due importanti diramazioni della Val Pusteria e della Val Venosta, luogo probabile da cui proveniva Oetzi, il cui corpo mummificato fu trovato sotto il ghiaccio qualche anno fa e forse databile al tempo del diluvio di Noè; e infine la Val Camonica, divisa fra bergamasca e bresciano. Questa valle parte a sud dalle sponde del lago d’Iseo, noto per avere in Montisola la più grande isola dei laghi alpini, circa due km quadri e alta 400 metri sul livello del lago. Si prolunga a nord per una ottantina di km, bagnata dal fiume Oglio, e a Edolo si divide in una breve valle che per il passo dell’Aprica raggiunge laValtellina, mentre a est per il Tonale si congiunge allaVal di Sole e poi alla Val d’Adige.

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La Val Camonica è, fra quelle citate, la più importante dal punto di vista storico e archeologico per la presenza di una quantità immensa di iscrizioni su pietra. Ne esistono anche nelle altre valli ma in numero assai inferiore, a meno che siano scoperte da future ricerche, finora concentrate sulla Val Camonica. La conoscenza delle iscrizioni su pietra della Val Camonica è di antica data, ma la loro ricerca intensiva è frutto dell’impegno di uno dei più grandi archeologi del secolo passato, tuttora attivo anche se ha passato l’età della pensione, il professore Emanuele Anati. Anati, che ha svolto la sua attività in tutto il mondo, in particolare in Africa e nel Sinai, ha fondato decenni fa un centro studi, dotato di un’importante biblioteca. Il centro ha promosso campagne di ricerca dei petroglifi, che ha coinvolto nei decenni centinaia di giovani volontari. Il numero di pietre incise sinora trovato supera abbondantemente le centomila.

Bedolina-China Express di Emilio Spedicato come mi disse Giovanni Pettinato; e solo una piccola parte dei tell della Mesopotamia - i cumuli prodotti dal decadere di una città antica - è stata esaminata. E virtualmente nessuno di quelli dell’Asir, la montuosa regione nel sud-ovest dell’Arabia, ricchissima di popolazioni con modi di vita e lingue assai vari, e che secondo il maggior storico del mondo arabo, Kamal Salibi, cristiano e professore all’American University di Beirut, sarebbe il vero luogo che la Bibbia chiama Canaan. Per non dire poi della decine di resti di città immense ora individuati nel Bam

successivo articolo. L’altro è lo straordinario documento in pietra di varie decine di metri quadri di superficie detto la mappa di Bedolina. Bedolina è una piccola località verso il centro della valle, sul lato ovest, nel comune di Pescarzo. Qui si trova una vasta pietra liscia su cui è stata incisa la mappa della parte della Val Camonica attorno a Pescarzo. Sono incise con grande precisione strade, sentieri, muretti e soprattutto villaggi, con l’indicazione delle varie case. L’incisione ha anche un aspetto tridimensionale, in quanto si sono sfruttati rilievi naturali sulla pietra.

nomiche a lei associate. Sebbene i documenti su pietra durino per millenni quasi intatti, non siamo in grado di determinare molti aspetti della vita dei camuni, compresa quella religiosa. Il nome del luogo della mappa Pescarzo è stato usualmente interpretato come posto di un laghetto con pochi pesci... ma il toponimo pesc si ritrova in varie parti d’Italia (Pescocostanzo...) con il significato di «grande masso», e con considerazioni etimologiche Pescarzo potrebbe allora interpretarsi come «il grande masso dal colore dorato».

Esistono impressionanti somiglianze tra la mappa in pietra della Val Camonica, dall’origine antichissima e incerta, e le mappe cinesi incise su pietra, dal secondo millennio a.C. in poi. Similitudini stilistiche che fanno pensare all’esistenza di specialisti che giravano il mondo…

Accanto alla catalogazione di questi ritrovamenti, opportunamente fotografati, si pone il colossale problema del loro studio, che richiederà disponibilità di uomini specializzati e di tempo per lunghi anni a venire. L’archeologia a volte fa scoperte così importanti che il loro studio trascende le possibilità di oggi, dove fra l’altro, e specialmente in Italia, esiste una diminuzione dei finanziamenti. Qui ricordiamo, uscendo dall’Italia, che dei milioni di tavolette e loro frammenti in accadico e sumero del Medio Oriente, meno dell’uno per cento è stato studiato,

(Bactriana-Margiana, terra a nord dell’Iran e comprendente parte dell’Afghanistan), una delle quali, del terzo millennio a.C., era di estensione non inferiore alla Roma imperiale. LaVal Camonica presenta due elementi di specialissimo interesse. Uno è il lago d’Iseo con Montisola al suo sud, finora trascurato dalla ricerche di Anati. Il lago si chiamava in tempi romani Sebino o Siviano, Montisola era Isola di Siviano e su di essa si trova tuttora il porticciolo di Siviano, e il fiume Oglio si chiamava Siviano. Tutti nomi in cui è possibile individuare la radice Siva, Shiva, della divinità principe dell’India, segno di possibili contatti con l’India lontana, sui quali torneremo in un

La mappa è stata studiata da vari anni da archeoastronomi guidati da Giuseppe Brunod, ai quali fra l’altro va attribuita anche la clamorosa scoperta, confermata in altri luoghi archeologici, che nel quarto millennio a.C. l’anno aveva non 12 ma 13 mesi. Mesi che appaiono indicati con particolari pugnali che distinguono quelli invernali da quelli utili per le coltivazioni. Sulla mappa di Bedolina, Brunod ha prodotto un libro, la cui esistenza era nota al professore ordinario di geografia dell’Università di Bergamo, Emanuela Casti, che tuttavia non aveva potuto consultarlo. Stabilito un contatto fra i due, si sta avviando un progetto per lo studio ulteriore di questa mappa e la determinazione delle conoscenze astro-

E il vicino paese di Cemmo potrebbe con simili considerazioni vedersi come «il posto di quelli del cielo», con riferimento a osservazioni astronomiche o a un gruppo sacerdotale. E Camuno significherebbe popolo di Manu, Manu uno dei sopravvissuti al diluvio, probabilmente il Mannu che Tacito pone all’origine dei Germani... Chi scrive è in possesso, forse unica persona in Italia, delle foto delle mappe su pietra della Cina, dal secondo millennio a.C. in poi... Sono evidenti delle somiglianze stilistiche fra la mappa di Bedolina e quelle cinesi. E allora inevitabile la domanda: esistevano specialisti anche in mappe che giravano per il mondo? Chi erano? Su questo torneremo.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

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Fino al 19 settembre basta un sms al 45503 per salvare un piccolo cuore Basterà solo un messaggio per aiutare l’Associazione Bambini Cardiopatici nel Mondo a finanziare una missione operatoria durante la quale si realizzeranno 20 operazioni salva-vita presso il primo e unico “Cardiac Center”del Camerun. Nel mondo ci sono più di 5 milioni di bambini malati di cuore. Ogni anno ne nascono un milione, di cui 800mila non hanno speranza di vita perché nati in Paesi poveri, privi di medici e di strutture ospedaliere adeguate. L’Aici Onlus è attiva nei Paesi in via di sviluppo con l’obiettivo di portare speranza di vita ai bambini affetti da cardiopatie congenite. L’associazione ha inaugurato il “Cardiac Center”, primo e unico centro cardiochirurgico dell’Africa centro-occidentale, costruito in Camerun presso il St. Elizabeth Catholic General Hospital di Shisong. Per garantirne il proseguimento delle attività e incrementare il numero di operazioni al cuore dei suoi piccoli pazienti, basta donare 2 euro inviando un sms al numero 45503 da tutti i cellulari personali Tim, Vodafone, Wind e 3 oppure chiamando lo stesso numero da rete fissa Telecom Italia.

info@bambinicardiopatici.it

UN EMIGRANTE ORGOGLIOSO Vorrei ricordarvi che Rai Italia è lo sportello degli italiani nel mondo, ma purtroppo la vedono anche tanti non italiani e, visto che il programma è ogni giorno più stucchevole, visto il loro impegno nel denigrare la nostra patria, il vostro impegno nel rinvangare un periodo nero della nostra storia: il fascismo. Certamente il fascismo è stata una pagina nera della storia, ma se si vuole continuare a denigrare e gettare nel fango la nostra patria, vorrei suggerire di parlare anche della laguna rossa, quella piena zeppa di sangue, vorrei ricordare le atrocità del comunismo, del sangue versato dai partigiani come il nostro ex presidente Pertini, uomo dal passato puro e cristallino: chiedete a lui quanti italiani innocenti ha fatto fucilare quando era “giudice popolare”. Io sono un emigrante, orgoglioso di questo aggettivo, appartengo a quella folta e immensa schiera che con la tristemente famosa valigia di cartone ha dovuto lasciare la propria Patria e, guarda caso, l’ho dovuto fare per due volte , perché sono nato in Eritrea, in una meravigliosa città: Asmara, costruita dagli italiani, non dai comunisti e tanto meno partigiani. Forse voi non lo sapete, ma gli italiani hanno lasciato il segno tangibile della loro operosità in tutto il mondo, e continuano a farlo oltre a difendere, se è

necessario, con la vita la dignità della propria patria. Quando avevo dieci anni, la mia famiglia è stata obbligata a fuggire dal’Eritrea: gli inglesi, invidiosi di quanto gli italiani avevano fatto per quel paese, hanno cominciato a rastrellare tutti i civili, che venivano inviati ai campi di concentramento del sud Africa. Molti, tantissimi, non sono mai arrivati. Mio padre non aveva mai imbracciato un fucile, era andato in Africa con il genio civile, quindi, dopo mesi di angustia, nascosti grazie all’aiuto di fedeli eritrei, i miei genitori, mia sorella minore e io, siamo riusciti a imbarcarci in un cargo che ci ha portato in Italia dopo settimane di navigazione.

Giuseppe Morgana

In corso di pesanti interventi del governo francese che “espelle” dal suo territorio cittadini comunitari che non sono in regola con le norme nazionali sull’immigrazione, il nostro ministro dell’Interno, Roberto Maroni, in un’intervista a un quotidiano ha detto che da noi si farà altrettanto, visto che che i suoi colleghi d’Oltralpe stanno solo “copiando dall’Italia”. Se si tratta di applicare la legge, ben venga un governante che dichiara di volerlo fare... sarebbe anomalo il contra-

L’IMMAGINE

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30

Attenzione a baciarsi sull’aereo LOS ANGELES. Troppi baci in aereo e per una coppia di quarantenni c’è il rischio carcere. Questo per via del “Patriot Act”, la legge antiterrorismo varata negli Usa dopo l’11 settembre. Per i due, denunciati, l’accusa è di «attività sessuale eccessiva» su un volo Southwest tra Los Angeles e Raleigh. Entrambi si sarebbero scambiati una serie di baci appassionati e l’uomo avrebbe messo il viso sul basso ventre della compagna. Richiamato all’ordine dal personale di bordo, l’uomo avrebbe ricominciato poco dopo, imbarazzando gli altri passeggeri e attirandosi le ire di uno steward. Quindi si è innervosito e ha minacciato di denunciare l’assistente di volo, che ha poi informato l’Fbi, e la coppia è stata arrestata una volta arrivata all’aeroporto di Raleigh. Secondo il suo legale, l’uomo non si era sentito bene a bordo ed è per quelle ragioni che si era coricato sulle ginocchia della sua compagna. La coppia dovrà presentarsi in tribunale all’inizio dell’anno prossimo e teoricamente rischia fino a 20 anni di carcere. L’accusa è di ostruzione a un membro di un equipaggio in volo e di associazione a delinquere.

IMMIGRAZIONE E ROM. IL GENOCIDIO CULTURALE DEL MINISTRO MARONI?

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e di cronach

LE VERITÀ NASCOSTE

Premio alla pazienza Quanto sapreste aspettare, prima di cogliere lo scatto perfetto? Il telescopio spaziale Hubble ha iniziato a fotografare Saturno 20 anni fa. Ma solo all’inizio del 2009 è riuscito a catturare l’atteso istante: il pianeta con gli anelli paralleli all’equatore, entrambi i poli visibili e incoronati da spettacolari aurore

rio, ma tant’è. Uno degli sport di chi governa, soprattutto nel periodo estivo, è voler apparire più realista del re, cioè, nel nostro caso, voler far paura perché si pretende e si dice di voler applicare la legge. Quindi il ministro Maroni ammette che c’è e c’è stato lassismo, irregolarità, incapacità, mancanza di strumenti... perché questo non ce lo precisa? Perché bisogna aspettare l’eco di favore e di indignazione per ciò che è successo in Francia, per evidenziare che anche in Italia si farà altrettanto e non solo, cioè dire che al più presto in sede Ue verrà riproposta l’abolizione del divieto di espulsione per un cittadino comunitario. Qualcuno, come il musicista e professore universitario Alexian Santino Spinelli, ha parlato di genocidio culturale e non mi sento di dargli torto. Perché è quello che è in atto contro i popoli rom, sulla cui accettazione poco si fa mentre si alimenta la loro assimilazione a vagabondaggio e piccola delinquenza: fenomeni che certamente esistono ma essenzialmente come reazione alla mancanza di politiche di ospitalità e convivenza. È in questo senso l’annuncio di Maroni di proporre la modifica delle norme europee sulla libera circolazione dei cittadini Ue, volendo creare cittadini comunitari di serie B che - ma guarda un po’ - sono proprio quelli che hanno le stimmate di “zingari”. È in questo senso anche la spettacolarità con cui si inventano i “rimpatri volontari” a suon di euro, da parte di chi dovrebbe solo fare il proprio dovere applicando la legge. Se questo non è genocidio culturale, non saprei come altro chiamarlo. I cittadini comunitari non possono essere espulsi, ma solo invitati ad andarsene, per cui, costretto di fatto dalle autorità, ogni adulto che ha accettato il “rimpatrio volontario” parte con 300 euro in tasca e ogni minorenne con 100.

Donatella Poretti


il caso

pagina 24 • 18 settembre 2010

Ciò che ha motivato l’Eliseo non è stato il pregiudizio, ma la necessità di individuare e respingere quei nomadi che delinquono

L’Eurosarkozysmo

Il provvedimento sui rom adottato dal presidente francese e le conseguenti critiche piovute dall’Unione ci mettono di fronte due idee di Europa solo all’apparenza inconciliabili: quella dell’integrazione e quella dell’identità e della sicurezza di Gennaro Malgieri a questione è tutt’altro che semplice. E ritorna, com’era inevitabile, nel momento in cui un provvedimento politico-amministrativo, di forte impatto sociale, come quello adottato da Nicolas Sarkozy, mette di fronte due idee dell’Europa all’apparenza inconciliabili. La sostanza della decisione del presidente francese si riassume nel garantire quanto più possibile la sicurezza in un sistema di diritti e doveri fondato sulla salvaguardia dell’identità nazionale. Non c’è una riga nella disposizione del ministro dell’Interno ai prefetti che autorizzi l’espulsione indiscriminata dei rom. Se avesse previsto il loro allontanamento soltanto perché nomadi, ci sarebbe da scandalizzarsi ed insorgere di conseguenza in nome della violazione dei diritti umani. Ma siccome la normativa che ha fatto strappare le vesti a più d’uno in Europa riguarda soltanto coloro che delinquono, che rifiutano di integrarsi, che non riescono a stabile un rapporto civile

L

con il resto della popolazione, non si capisce il motivo di un accanimento senza precedenti nei confronti di Sarkozy e di altri leader europei che condividono lo spirito e la lettera delle misure assunte dal governo di Parigi ed accettate con sollievo dalla stragrande maggioranza dei cittadini.

Mi rendo conto, come è stato ampiamente documentato da liberal (giornale talmente libero da darmi la possibilità di esporre il mio pensiero in controtendenza: non è merce comune di questi tempi), che le reazioni sono soprattutto emotive perché riconducibili proprio a quella “religione” dei diritti dell’uomo che non andrebbe mai messa in discussione. Sarebbe però il caso di interpretarla correttamente e non soltanto in riferimento a minoranze che possono talvolta risultare discriminate, ma che invece provocano disordini tali da innescare crisi di legalità difficilmente contenibili. In altri termini, ciò che ha motivato

Sarkozy - e prima di lui (si parva licet) il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, quando ha ordinato lo sgombero del più grande campo nomadi d’Europa, il Casilino 900, per motivi di igiene e di ordine pubblico non è stato il pregiudizio nei confronti dei quattrocentomila rom accertati che vivono e si muovono in Francia, ma la necessità di individuare e respingere coloro che tra di essi commettono crimini di fronte ai quali la popolazione manifesta un crescente disagio.

Occorre favorire l’aggregazione, ma è bene farlo conservando la propria cultura

A questo discusso provvedimento che ha attirato gli strali della commissaria alla Giustizia dell’Unione europea Vivian Reding e del presidente Manuel Barroso, ha fatto seguito un altro: il divieto alle donne di indossare il velo integrale in modo da renderle riconoscibili. La tutela della dignità femminile è stata esaltata un po’ da tutti; ma non tutti hanno riconosciuto il buon diritto di uno Stato a far valere le proprie leggi e l’identità culturale alle quali esse si ispirano. E, su questi due ultimi punti è venuta fuori un’altra querelle che sorprendentemente non ha tenuto conto del non trascurabile fatto che la Francia è il Paese più multiculturale, multirazziale e multietnico d’Europa. Ma anche quello che ha costruito un sistema di garanzie sociali tale da favorire non l’assimilazione (retaggio razzista), ma l’integrazione. Sicché la questione del velo per molti ha assunto, demagogicamente, i caratteri dell’islamofobia, mentre è semplicemente una questione che

attiene al rispetto delle leggi e della più generale considerazione della donna in una nazione che ha cercato di risolvere il suo rapporto con il colonialismo senza respingere nessuno, al punto che perfino gli algerini di Francia possono rivendicare una doppia identità.

Tanto di fronte ai Rom - stabilito correttamente come stanno le cose - che davanti al divieto del velo, si possono esercitare, con toni degni della condanna degli sterminatori di professione del Novecento, agitatori che verosimilmente hanno un’altra concezione dell’Europa? Il dubbio, francamente, mi perseguita. Non è che gli “europeisti”che calcano la scena dell’Unione continentale, oppressi da una visione tecnocratica, economicistica, finanziaria della politica, tendono a ridurre i rapporti che si stabiliscono nelle società e nelle nazioni europee alla banalizzazione dell’indifferentismo culturale per cui tutto ciò che risponde ad una visione che, per comodità, chia-


18 settembre 2010 • pagina 25

La geopolitica del Vecchio Continente secondo Carlo Jean

«I guai di Nicolas? Tutta colpa del Muro»

«Ormai è la Germania la potenza centrale in Europa. La Francia alza la voce, ma l’Eliseo è in crisi» di Pierre Chiartano

ROMA. Volano ancora gli eurostracci tra Parigi e Bruxelles. Il presidente francese Nicolas Sarkozy, in forte calo di consensi interni, con la gente in pazza a protestare per la riforma delle pensioni, ha giocato la carta rom. Un tentativo, forse, per riguadagnare qualche punto di consenso, mai così basso per l’Eliseo. Ma qualcosa deve essergli sfuggita di mano, se sono dovuti andare a spulciare tra le circolari dirette alle prefetture per prenderlo in castagna. Sarkò era entrato in Europa come un piccolo Napoleone, per guidarla - aiutato da una buona dose di presunzione - ma non ha tenuto conto che con la caduta del muro è venuta meno anche la necessità di una tutela europea alla Germania, come ha spiegato a liberal il generale Carlo Jean, esperto di geopolitica e già consigliere militare della presidenza della Repubblica. «I problemi della Francia sono iniziati con il crollo del muro e con l’unificazione tedesca. Praticamente la Germania occidentale serviva da linea Maginot con cui riparare la Francia a oriente. Attualmente la Germania è diventata la potenza centrale in Europa, anche grazie agli accordi sindacali che ne hanno aumentato notevolmente la produttività». La Francia alza la voce e tiene la scena, ma i fatti, la sostanza, il salvagente per tenere a galla un’Europa stremata dalla crisi economica è Berlino a fornirli. «La competitività internazionale è aumentata, ma anche le esportazioni tedesche. Il Prodotto interno lordo tedesco, nel primo semestre di quest’anno, è salito al 3-4 per cento. Circa tre volte quello della media europea, Francia compresa», spiega Jean sottolineando numeri stratosferici rispetto agli anemici segnali che mandano le altre economie europee. «Di conseguenza Sarkozy vive una situazione diversa. Durante la guerra fredda Parigi utilizzava la Germania per avere una proiezione internazionale, dopo Parigi ha dovuto fronteggiare un Paese unito, più forte e che sta conducendo una politica diversa da quella d’interesse europeo per una maggiore coesione. Quindi anziché europeizzare la Germania, Berlino sta germanizzando l’Europa». Una tendenza che è emersa anche nella gestione della recente crisi greca, dove era il «nein» tedesco a dettar legge sulle scelte di Eurotower e dei Paesi membri.

la linea politica attuale. Poi la faccenda dei rom è una questione, tutto sommato, abbastanza marginale e corrisponde al sentimento medio del cittadino francese». Insomma, la carta rom non sarebbe solo un espediente per risalire la classifica del gradimento e con dei byproudct, direbbero gli esperti, non troppo graditi.

«La politica degli sgomberi ha fatto guadagnare a Sarkozy principalmente del consenso a destra». Avrà gradito Jeanmarie Le Pen, un po’ meno quella Francia che partecipa ogni anno alla grande festa degli zingari nella Camargue. E anche sulle ambizioni mediterranee Sarkò è stato stoppato da Berlino. «Con l’Union pour le Méditerranée, progetto francese per candidarsi a guidare quell’area, Sarkozy aveva fatto il passo più lungo della gamba. Sperando che i tedeschi gli avrebbero fornito i soldi per la gloria della Francia. Berlino ha risposto placcando l’iniziativa». E la grande presunzione, merce di facile reperimento Oltralpe, ha fatto il resto. «La Francia è l’unica nazione che condivide i due volti dell’Europa. Quello della grande pianura che dalle steppe russe arriva quasi fino a Bordeaux. E nel contempo partecipa anche allo scenario Mediterraneo, cosa che non avviene per gli altri Paesi nordici». E ora le velleità francesi di guidare l’unificazione delle sponde mediterranee potrebbero venir deluse dal ruolo che la Turchia sta svolgendo. «È la Turchia che realizzerà l’unione mediterranea. Sta aumentando notevolmente i propri investimenti nella regione». Quindi Sarkozy eredita una situazione nazionale non facile e non commisurata alle ambizioni che aveva sempre espresso. Il consiglio del generale al presidente - francese questa volta - è di «non prendere alcuna iniziativa e aspettare. Allineare la sua politica con quella tedesca, sperando che Berlino non gliela faccia pagare troppo cara. Sarkozy si era giustamente avvicinato agli Stati Uniti, ma il problema fondamentale che si gioca in Europa è il rapporto con la Germania. E Berlino guarda ad Est, più che a Ovest e a Sud».

La “carta rom” ha fatto guadagnare al presidente dei consensi principalmente a destra

Naturalmente l’ego francese in generale, e quello di Sarkozy in particolare, «ne soffre enormemente». «Le difficoltà che vive la Francia, non tanto il suo presidente, sono quelle che determinano il calo di popolarità della classe dirigente transalpina e che guida

miamo “progressista” della vita e della storia appartiene al male e tutto ciò che la contraddice, in nome del realismo che dovrebbe essere la sola guida (oltre quella etica, naturalmente) della politica stessa, va condannato a priori senza minimamente confrontarsi con realtà che sono francamente dissimili anche in un contesto continentale sul quale insistono numerose differenze? C’è un pregiudizio illuministico nel rifiuto aprioristico dell’affermazione delle identità che non tiene conto del fatto che l’omologazione culturale improntata al consumismo più radicale, al determinismo più spinto, al relativismo come nuovo dogma al quale aderire stanno uccidendo l’Europa. Se la sicurezza è il presupposto per garantire lo sviluppo identitario dei popoli, non vuol dire che in suo nome si debbano respingere culture e civiltà altre. Al contrario, mi sembra che i momenti più felici della storia umana (ed europea in particolare) siano stati determinati da quelle aggregazioni che si sono formate aprendosi al diverso, ma conservando nello stesso tempo una specifica struttura civile e culturale attraverso la quale hanno istituito fecondi rapporti con gli altri da essi. Accettazione, dialogo, confronto non sono sinonimi di abdicazione della propria storia, mentalità, religione la quale, giusto l’insegnamento di Benedetto XVI, non può essere espulsa dalla vita pubblica e, dunque, considerarla un mero “affare privato”. Non è stato questo il percorso che ha portato alla costruzione dell’Europa dalla quale si sono formate le nazioni e poi hanno preso corpo gli Stati.

L’integrazione tra il cristianesimo, la romanità, l’ellenismo e in un secondo momento tutto questo con il mondo germanico e slavo ha dato vita alla più straordinaria esperienza umana e culturale in ragione della quale possiamo dirci europei. Se poi, come è accaduto, da europei - e dunque prodotti di tutti gli elementi richiamati - abbiamo potuto stabilire fecondi rapporti, soprattutto grazie ad un grande ed inimitabile sovrano quale è stato Federico II di Svevia, con il mondo islamico ed integrarlo quando è stato possibile e combatterlo quando si è reso necessario lo scontro, è un dato incontrovertibile che dovrebbe farci essere orgogliosi della nostra appartenenza e capaci proprio perché storicamente aperti e tolleranti di istituire scambi intensi con civiltà che per quanto lontane sono sempre più vicine, i cui segni riscontriamo ormai fin dentro le nostre abitazioni, nel privato che è sempre meno tale, ma non al punto di liberarci di esso per costruire una utopistica società aperta nella quale si sa come entrarci, ma non come

uscirvi. Certo, non vi è chi non veda come dalle dispute politiche il discorso inevitabilmente si allarghi a quelle identitarie e culturali. L’Europa moderna, uscita dalla Seconda guerra mondiale, è nata male per non aver voluto dare retta ad un grande statista come Robert Schumann, il quale sosteneva che prima bisognava costruire le fondamenta culturali della comunità continentale e poi quelle politiche ed economiche. È stato fatto tutto il contrario per cui oggi scontiamo resistenze culturali che diventano politiche, ma che non devono minare il sistema economico che, per quanto traballante, è il solo rimasto all’Europa dopo gli sconquassi di Maastricht e della moneta unica.

Il tempo delle cattedrali piene di luce che ha guidato i popoli europei sui cammini della fede forse resiste come una suggestione spirituale in minoranze numericamente trascurabili. I cultori dell’Europa nazione si sono pure assottigliati. Quanti sostengono un ritorno al passato vengono considerati con compassione. L’Europa delle moltitudini schiamazzanti è diventata permeabile ad altre culture e soprattutto alla più oscena delle religioni laiche che sia apparsa nella storia: il nichilismo. È di fronte a questo orizzonte che si deve porre ed esaminare, quanto meno, se ciò che può essere salvato dalla dissoluzione lo merita davvero. Le leggi le fanno gli uomini e da esse non possono essere espunte la dignità, l’onore, il rispetto.Voi vedete, nei molti crocevia d’Europa dove si assiepano i maestri del pensiero sollecitanti il dispiegamento delle libertà fino all’apologia concreta e praticata del libertinaggio morale e culturale, assedi a tutto ciò che mina le fondamenta della Vecchia Europa? E allora, prendiamo come segni di resipiscenza (per quanto problematici ed insufficienti), quelli che ci vengono offerti da governanti peraltro non sempre all’altezza, e giudichiamoli dai risultati che produrranno, se ne produrranno. La tolleranza, vecchio cardine della vita europea al suo apogeo, valga per tutti: maggioranze e minoranze. Affinché tutti liberamente, nei limiti del possibile, dispieghino la propria umanità senza rinunciare, per costrizione esplicita o surrettizia induzione, ad essere ciò che sono. In Europa, voglio sperare, questo auspicio può ancora avere esiti tali da fornire speranze alle generazioni che verranno le quali potranno ancora restare ammirati davanti alla cattedrale di Strasburgo, inseguire pensieri semplicemente “divini”sul cammino di Santiago di Compostela e ritrovare Roma come crogiuolo di civiltà che hanno concorso ad edificare una sola, grande, irripetibile forma dello spirito: l’identità dell’Europa.


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Diplomazia. Il governo di Komorowski nicchia e aspetta un parere legale khmed Zakayev, ex ministro del governo ceceno in esilio, è stato arrestato in Polonia, dove era atteso per un convegno organizzato dalla resistenza che rivendica l’indipendenza da Mosca dell’ex-repubblica sovietica. Zakayev, in esilio a Londra dal 2003 (e la Gran Bretagna rifiuta categoricamente di estradarlo), era atteso a Pultusk, cittadina a 60 chilometri da Varsavia, per il Congresso mondiale degli indipendentisti ceceni. Le autorità polacche avevano avvisato Zakayev che il suo eventuale arrivo a Varsavia le avrebbe costrette ad agire, non avendo «altra scelta», in virtù del mandato internazionale di arresto dell’Interpol. Prima di partire alla volta di Varsavia, Zakayev aveva annunciato di aver ricevuto il visto da parte delle autorità polacche e di averlo interpretato come un “via libera”alla sua partecipazione al convegno degli indipendentisti. Secondo Adam Borowski, che si presenta come «console onorario della Repubblica di Ichkeria» (la Cecenia indipendentista) la procura aveva concordato con l’avvocato di Zakayev un incontro «spontaneo» in commissariato. Da giorni, in vista dell’evento, la Russia aveva allertato il governo di Varsavia, auspicando l’arresto del rappresentante ceceno. La notizia del fermo di Zakayev è stato accolto con soddisfazione da parte del Cremlino. Il capo degli affari internazionali della Duma (la Camera bassa del Parlamento russo), Konstantin Kosachev, ha detto che l’arresto del leader ceceno dimostra che la Polonia si comporta in modo serio rispetto agli obblighi internazionali. «Sono certo che, una volta estradato in Russia, subirà un’inchiesta imparziale

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Arrestato in Polonia Zakayev “il ceceno” Mosca esulta per l’operazione e chiede a Varsavia di consegnare il prigioniero di Massimo Ciullo

ne. Uno sviluppo che le autorità moscovite leggono come la conferma del costante miglioramento delle relazioni con la Polonia, ma che potrebbe trasformarsi in dossier alquanto scomodo, in grado di annullare mesi e mesi di disgelo russo-polacco. Il Cremlino ha fatto subito sapere che Zakayev è «un terrorista internazionale» e

Problemi in vista anche per l’Unione europea: un uomo non può essere un esule in un Paese membro e un pericoloso terrorista in un altro ed obiettiva», ha detto Kosachev. Mosca temeva che la polizia polacca non avrebbe eseguito il mandato spiccato dall’Interpol su richiesta russa, tanto da scomodare esperti per ipotizzare una violazione dei trattati internazionali da parte di Varsavia in caso di inadempimento. Altri analisti invece, erano stati interpellati per spiegare quanto le manette ai polsi di Zakayev avrebbero contribuito ai rapporti bilaterali. E ieri mattina la polizia polacca è entrata in azio-

come tale «deve essere processato in Russia». Un rifiuto polacco - a cui ha alluso già il premier Donald Tusk farebbe tornare il gelo sulle relazioni bilaterali. «La procedura di estradizione non equivale all’estradizione vera e propria», ha detto giovedì il premier Tusk, lasciando intendere che difficilmente si procederà alla consegna dell’emissario ceceno. La portavoce della Procura generale di Varsavia, Monika Lewandowska, ha detto ieri che i magistrati polacchi so-

Rasmussen: «Un tetto anti-missile per tutti»

La Nato “apre” alla Russia Un tetto di difesa missilistica che coinvolga tutti i Paesi europei alleati della Nato e che non escluda la Russia. Questa è una delle priorità dell’Alleanza atlantica illustrata ieri a Roma dal segretario generale Anders Fogh Rasmussen. Rasmussen, nel corso di un incontro organizzato a Palazzo de Carolis da Aspen Istitute Italia e dall’Istituto Affari Internazionali, ha messo in luce le sfide poste da un contesto internazionale in rapida trasformazione alla vigilia del nuovo “concetto strategico” della Nato che sarà ufficializzato al summit di Lisbona a novembre.«Se riusciremo a creare un sistema di difesa missilistica unico si potrà rafforzare un circolo virtuoso», ha detto Rasmussen sottolineando l’importanza di

far sentire Mosca, così come altri Paesi, «all’interno di questo tetto con tutti noi. Se la Russia si sentirà all’interno di questo tetto con noi, piuttosto che restare a guardare da fuori, riusciremo a costruire la fiducia. E la fiducia porta fiducia», ha assicurato il segretario generale. I progetti dello scudo missilistico della precedente amministrazione Usa prevedeva delle installazioni anche nell’Europa dell’est, come Polonia e Repubblica ceca. Questi progetti suscitarono grandi preoccupazioni a Mosca che temeva si potesse compromettere il tradizionale equilibrio a suo discapito. Lo scorso anno, però, il presidente Barack Obama ha abbandonato il vecchio progetto a favore di un approccio «più graduale».

no al lavoro per esaminare il mandato di arresto e altra documentazione di provenienza russa, prima di decidere se rilasciare l’esponente ceceno o proseguire con la procedura d’estradizione. Il ministro delle Finanze polacco, Jan Rostowski, ha dichiarato che qualora i magistrati decidessero per l’estradizione, il governo potrebbe sempre intervenire: «Non posso pensare che Zakayev verrà consegnato alla Russia. Anche se una corte polacca decidesse di estradarlo, è sempre necessario un pronunciamento da parte del ministro della Giustizia». Zakayev è ricercato dai russi per «omicidio, rapimenti, organizzazione e partecipazione alla ribellione armata», ha ribadito ieri la Procura generale di Mosca. Accuse sempre respinte da Zakayev, conosciuto in Occidente per essere uno degli ultimi esponenti dell’ala moderata del separatismo ceceno.

Zakayev è stato ministro degli Esteri ceceno e poi portavoce del presidente ceceno Aslan Mashkadov (eliminato dai russi nel 2005) in esilio dopo l’intervento militare russo che ha portato allo spodestamento del governo indipendentista. La leadership di Zakayev all’interno del movimento ceceno è contestata da altri capi della resistenza, proprio per le sue posizioni moderate, che lo hanno portato ad auspicare nuovi negoziati con la Russia, lasciando da parte anche la richiesta di indipendenza immediata. Le aperture di Zakayev sono finite nel mirino di una corte islamica cecena formata da alcuni signori della guerra locali e dell’auto-proclamato emiro del “Emirato del Caucaso”, Doku Umarov, che lo hanno condannato a morte per apostasia. L’estradizione di Zakayev in Russia potrebbe creare tensioni anche all’interno dell’Unione europea. Non è possibile ipotizzare che in Europa, per la stessa persona e per le stesse imputazioni siano adottati parametri di giudizio differenti: Zakayev non può essere considerato un “esule perseguitato” a Londra e un “pericoloso terrorista” a Varsavia. Insomma, un vero grattacapo per il Paese con il peggior curriculum di relazioni con la Russia in tutta la Ue. La Polonia è sempre stata in prima fila nel criticare la politica di Mosca in Cecenia, ma dopo la morte del presidente Lech Kaczynski, perito tragicamente in un incidente aereo, le relazioni tra i due Paesi sono notevolmente migliorate.


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18 settembre 2010 • pagina 27

La denuncia in un rapporto che sarà presentato all’Onu

Il politico pakistano (in esilio in Gb) aveva fondato l’Mqm

Cina, la tortura «ancora in uso nelle galere del Paese»

Londra, ucciso Imran Farooq: si opponeva ai talebani

PECHINO. La Cina «continua ad esprimere posizioni favorevoli ai diritti umani nell’ambito delle Nazioni Unite, ma queste sono solo di facciata. Infatti, continua a ignorare ogni consiglio che le viene espresso e le raccomandazioni dei vari organismi internazionali sui vari argomenti. Come quello della tortura, che nel Paese rimane un problema serissimo». È quanto scrive Renee Xia, direttore internazionale del Chinese Human Rights Defender (Chrd), in occasione della presentazione del quinto rapporto periodico alla Cina da parte della Commissione internazionale contro la tortura. Lo scorso 8 settembre, il Chrd ha presentato alla Commissione una lista di casi e situazioni da includere nella lista da girare al governo cinese. In pratica, si tratta di una sorta di rapporto in cui la Commissione chiede conto agli Stati di casi specifici e legislazioni sospette; Pechino deve ancora rispondere alle domande poste nella lista presentata nel 2008.

LONDRA. Un esponente politico pakistano in esilio è stato ucciso ieri pomeriggio a coltellate davanti alla sua abitazione di Londra. Originario di Karachi (provincia di Sindh) Imran Farooq, 50 anni, era uno dei fondatori del Muttahida Qaumi Movement party (Mqm). Il suo corpo è stato trovato ieri dalla polizia intorno alle 18,30 (ora locale). A causa delle ferite gli agenti non sono riusciti ad identificare subito l’uomo, la cui identità è stata scoperta nella notte. Al momento nessuno è stato arrestato e si indaga sul movente dell’omicidio. Originario di Karachi, Farooq viveva a Londra dal 1992. In Pakistan era ricercato per l’attività violenta dell’Mqm e aveva ottenu-

Come spiega proprio la Xia, «in quella lista chiedemmo conto di morti innaturali avvenute in prigione e della violenza contro gli attivisti per i diritti umani che vengono arrestati. Ma questi problemi sono persino peggiorati».Sulla carta, il go-

La ricetta di Barak per le colonie d’Israele Il ministro negli Usa con una soluzione al problema di Etienne Pramotton

GERUSALEMME. Ehud è venuto in soccorso di Hillary nel difficile processo di pace in Palestina. L’arte della diplomazia è sottile e spesso richiede artifici per conquistare obiettivi altrimenti irraggiungibili. Qualcuno affermava che fosse la via più lunga che congiunge due punti, altri come Honorè De Balzac erano meno teneri. Comunque, per salvare più prosaicamente ”capra e cavoli”, al tavolo dei negoziati tra Gerusalemme e l’Anp, ci ha pensato Ehud Barak, ministro della Difesa israeliano. Il 26 settembre dovrebbe scadere la moratoria sulle nuove costruzioni nelle colonie del West bank. Netanyahu ha già affermato che non ha alcuna intenzione di rinnovarla, perché dovrebbe passare l’approvazione dei due rami del parlamento, dopo una discussione in seno a un consiglio ristretto di sette ministri del governo. Un iter che costerebbe troppo politicamente al premier. Dalla sponda opposta, il capo della diplomazia americana, Hillary Clinton insiste su quanto sia importante dare un segnale positivo ad Abu Mazen e ai palestinesi per ottenere dei risultati al tavolo delle trattative appena riaperto. «Extremely useful» aveva affermato il segretario di Stato Usa, durante un’intervista a un canale tv israeliano, facendo riferimento all’estensione della moratoria sul blocco a nuove costruzioni nei Territori. Poi sono arrivati i primi segnali dal ministero della Difesa di Gerusalemme, come ha illustrato Hareetz in un articolo a firma Barak Ravid e Natasha Mozgovaya di ieri. La ripresa di nuove costruzioni nel West Bank potrebbe essere ritardata attraverso l’utilizzo di strumenti legali. Essendo il ministero condotto da Barak responsabile per la gestione delle colonie, ci potrebbe essere una scappatoia legale per posporre di altri mesi la ripresa dei cantieri. Giusto il tempo perché il negoziato vada a termine e il governo di Gerusalemme abbia qualcosa in mano per poter intervenire in maniera definitiva sulla vicenda dei nuovi insediamenti. Ricordiamo che una parte della base elettorale del Likud, il partito

del premier, è costituita da coloni. Il governo israeliano è consapevole di quanto la trattativa possa condurre solo a risultati parziali. Hamas governa Gaza e da tempo sta tentando di minare la credibilità dell’Anp, anche in Cisgiordania. Gerusalemme non può dunque permettersi uno scivolone dando credito politico a un interlocutore debolissimo. Come ha fatto per lungo tempo in passato. Ma non può neanche affondare in partenza dei negoziati voluti in maniera così determinata dalla Casa Bianca, con cui ha un gran bisogno ricucire rapporti sereni. In questa maniera la diplomazia Usa potrebbe convincere i palestinesi di Fatah a non abbandonare i colloqui.

Oggi, Barak partirà alla volta di Washington, dove in agenda sono previsti degli incontri con il suo omologo, Robert Gates e il consigliere per la sicurezza nazionale, James Jones. Ma ci sarà anche un vertice con la Clinton, che, ieri, era in Giordania per cercare puntelli all’accordo. E soprattutto per promuovere la bontà del piano di pace stilato nel summit dei Paesi arabi a Beirut nel 2002. Si è detta convinta che molti palestinesi e israeliani non l’abbiano letto. Insomma, una road map già ci sarebbe, manca solo la consapevolezza delle parti. In breve, il piano prevederebbe il riconoscimento dello Stato ebraico da parte di tutti Paesi arabi, se Israele accettasse di ritirarsi da tutti i territori conquistati dopo il 1967, compresa la parte est di Gerusalemme. Sempre la Clinton che ha incontrato i vertici dell’Anp a Ramallah, giovedì, continua a ripetere quanto sia importante una proroga, anche se limitata nel tempo, della moratoria sugli insediamenti. Un appello più volte ripetuto non poteva non ottenere risposta. Quindi la decisione del ministero della Difesa, che di fatto ha l’autorità sulla Cisgiordania, di esaminare i passi da compiere per ritardare la costruzione di 2mila case, autorizzate prima che il congelamento entrasse in vigore alla fine del 2009.

Per il titolare della Difesa si potrebbe ritardare la costruzione di 2mila case, autorizzate prima della moratoria

verno cinese proibisce l’uso della tortura. La Costituzione e diversi articoli del codice penale si esprimono contro la violenza ai danni dei carcerati, e in segno di buona volontà Pechino ha permesso al Commissario speciale Onu contro la tortura, nel 2007, di visitare le carceri del Paese. Tuttavia, sono numerosissimi i casi di atrocità commesse in galera; come cortina di fumo, il governo centrale sta per promulgare una nuova legge che impedisce l’uso in tribunale di prove ottenute con la tortura. Ma, come sottolinea il Chrd, il testo è pieno di espressioni vaghe e linguaggi problematici, facilmente aggirabili sia in carcere che in tribunale.

to asilo in Inghilterra nel 1999. l’Mqm ha proclamato dieci giorni di lutto. Oggi Yusuf Raza Gilani, primo ministro pakistano ha condannato l’assassinio di Faqrooq, assicurando preghiere per la famiglia e sottolineando che l’Mqm ha perso un grande leader. Intanto c’è alta tensione a Karachi, dove centiniaia di manifestanti si sono radunati in queste ore davanti alla casa di famiglia del leader ucciso, dove vivono ancora i suoi genitori e altri parenti.,

Tra i maggiori partiti del Paese, l’Mqm è caratterizzato da una forte posizione anti-talebana. Il partito rappresenta soprattutto i discendenti dei migranti di lingua urdu che dall’India si erano stabiliti in Pakistan dopo la partizione del 1947. Negli anni i partiti di opposizione hanno accusato più volte Farooq e altri esponenti dell’Mqm di omicidi etnici ai danni dell’etnia pashtun e, dopo l’11 settembre, di aver enfatizzato la minaccia talebana in Pakistan. Il mese scorso a Karachi, l’assassinio di un altro politico dell’Mqm, Haider Raza, ha scatenato un’ondata di omicidi a sfondo etnico nella città, con un bilancio di 85 morti. Il dubbio è che siano vittime di una faida a distanza.


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Afghanistan. Rinviate per l’altissimo rischio di attentati, le urne si confermano pericolosissime. E a morire sono molto spesso i soldati della coalizione

Martire della democrazia Durante un’operazione anti-terrorismo muore il tenente Alessandro Romani, del 9° Reggimento “Col Moschin” di Antonio Picasso ino all’ultimo momento si era pensato che potesse sopravvivere. Invece il tenente Alessandro Romani, del Nono Reggimento “Col Moschin”non ce l’ha fatta. Ieri, a dodici mesi esatti dall’attacco in cui caddero 6 soldati italiani, una nostra pattuglia è stata coinvolta nuovamente in uno scontro a fuoco. Durante questo, due uomini sono stati feriti. Uno di loro è deceduto dopo poche ore. La vicenda è accaduta nel distretto di Bakwa (provincia di Farah, a sud di Herat). I due incursori erano impegnati in un’operazione di bonifica e cattura di quattro mujaheddin che, avvistati da un velivolo senza pilota, stavano posizionando un ordigno lungo la strada che collega Farah a Delaram. La notizia è arrivata in Italia nel tardo pomeriggio, quando si pensava che il peggio per i due militari fosse passato. La morte del tenente Romani ci ricorda che nemmeno l’Italia è immune dalla lotta talebana. Sebbene il suo impegno nella ricostruzione sia riconosciuto da tutti, soprattutto dalle tribù locali. I mujaheddin tendono a non fare distinzione e generalizzano nel nemico tutti coloro che impediscono la restaurazione del loro regime fondamentalista. L’episodio ha scatenato la solita catena di po-

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lemiche in seno al mondo politico nazionale. Le critiche al nostro impegno nell’“Af-Pak war” e in altre operazioni pace emerge improvviso a seguito della perdita di un nostro militare. È necessario questo per ricordarci gli sforzi che le Forze Armate stanno compiendo all’estero? La politica estera e di sicurezza nazionale – o peggio la scomparsa di un nostro soldato – diventano l’oggetto di strumentalizzazioni deprimenti da parte di chi riduce questi settori della vita pubblica del Paese a mere argomentazioni di politica domestica. I contingenti italiani sono presenti in Afghanistan, nei Balcani, in Libano e – in misura ridotta – in altri teatri di operazione. L’e-

L’attacco è avvenuto a dodici mesi esatti dall’attentato in cui persero la vita altri sei italiani. Il nostro Paese continua a essere colpito nonostante l’impegno a favore della ricostruzione venga riconosciuto da tutti

stablishment nazionale si dimentica di tutto questo. Triste è pensare che sia “necessario” un caduto per assegnare la doverosa attenzione a queste realtà.

Nel frattempo l’Afghanistan torna al voto e, come per le presidenziali dello scorso anno, in uno scenario di guerra e alta tensione. Oggi i seggi elettorali vengono aperti per la seconda volta in un anno. In questo caso il Paese dovrà rinnovare la camera alta del Parlamento nazionale (wolesi jirga): 2.500 candidati si contendono 249 seggi. Andando contro le speranze riposte dal governo di Kabul, ma confermando le previsioni degli osservatori occidentali, l’Afghanistan resta un Paese in guerra. Il presidente non ha ancora saputo instaurare quel dialogo con le rappresentanze talebane più moderate, le quali – a suo dire – sarebbero disponibili ai negoziati. L’iniziativa è stata vista sempre con scetticismo dagli alleati Nato.Tuttavia, si è cercato di riconoscere una relativa autonomia politica a Karzai in questo processo. I risultati non si sono comunque realizzati. Al contrario, i nuovi tentativi di boicottaggio delle urne, da parte dei mujaheddin, si stanno ripetendo con puntualità. Candidati rapiti, intimidazioni ai cittadini

Un soldato italiano pianta il tricolore nella provincia di Herat, in Afghanistan. Il nostro contingente sta pagando un altissimo prezzo di sangue per la propria presenza nel Paese asiatico, dove insieme agli eserciti degli altri Paesi membri fa parte della coalizione internazionale che ha affiancato quella americana nella lotta al terrorismo. In basso, un’operazione di controllo e check-point. Ieri, i due soldati italiani sono stati attaccati mentre fermavano un terrorista impegnato a piazzare un ordigno esplosivo

che si vogliono arrischiare a presentarsi alle urne e seggi presi di mira come potenziali attentati. A questo si aggiungono gli ostacoli frapposti ad alcune minoranze da parte delle istituzioni centrali. È sempre di ieri l’accusa del leader hazara, Haji Mohammad Mohaqiq, nei confronti di Karzai, di voler ostacolare il voto della minoranza sciita che egli rappresenta. Durante la campagna elettorale, la comunità ha organizzato una lista di 30 candidati, tutti iscritti al partito Hezb-i-Wahdat. La costituzione riconosce agli hazara una rappresentanza di 3 seggi alla Jirga.Tuttavia le forze di sicurezza hanno decretato l’inagibilità dei seggi dell’Hazarastan, nella parte centrale del Paese, perché target quasi certi dei talebani. «Credo che le elezioni siano già state orchestrate per facilitare la vittoria di coloro che appoggeranno Karzai in parlamento», ha detto Mohaqiq. Il rischio attentati, quindi, si è trasformato in un’arma politica a doppio taglio. Da una parte i mujaheddin sono seria-

mente intenzionati a colpire gli elettori. Dall’altra, con la giustificazione di voler preservare la sicurezza della popolazione, il governo approfitta per controllare ed eventualmente contenere i voti che sarebbero destinati alle forze di opposizione. Il caso degli hazara ne è un esempio. Secondo le stime più recenti, essi rappresentano il 9% della popolazione totale (28 milioni) e sono prevalentemente di confessione sciita.

In un Paese in cui la sunna ha sempre dettato legge, sia in termini giuridici sia in ambito religioso, e dove i Pashtun pretendono di dominare etnicamente le altre entità, la forza hazara costituisce una minaccia al potere personale e clanico del presidente. Ricordando un aneddoto grottesco, all’epoca del regime talebano, gli hazara furono i più perseguitati fra le minoranze del Paese. La sharia prevedeva che gli uomini si facessero crescere la barba. Tuttavia questa minoranza, di origine mongola, era impedita da un ostacolo genetico a rispetta-


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Il 15 per cento dei seggi non aprirà: troppo alto il rischio di attentati

Urne, brogli e violenze di un Paese diviso

La comunità internazionale soddisfatta per il voto fa evacuare i propri osservatori dal campo elettorale di Luisa Arezzo abul è tappezzata di manifesti, come nemmeno durante le elezioni tinte dai brogli che riconfermarono Karzai nel 2009 si era mai visto. Previste per il 22 maggio e poi rinviate sia per il rischio altissimo di attentati, sia per quello che allora sembrava l’imminente attacco a Kandhar, feudo del fratello di Karzai, sia su pressione della comunità internazionale per l’inadeguatezza del sistema (che intanto non è cambiato) ecco che il giorno delle elezioni è arrivato. Oggi il Paese andrà al voto in 6.835 seggi (almeno il 13% dei quali - cifra ufficiale, quindi è da aumentare - non aprirà per motivi di sicurezza: sarebbero indifendibili) per eleggere 249 membri della Wolesi Jirga, la Camera bassa del parlamento afghano (quella “alta” non è elettiva). I candidati in corsa sono 2447 per 249 seggi, tra loro ci sono 406 donne a cui vanno un minimo 64 seggi secondo un meccanismo tipo quota rosa del 25%. La maggior parte dei candidati (664) sono concentrati nella capitale, dove si assegnano 33 seggi (9 per la quota rosa). Per quanto si voti per una sorta di ente fantoccio - la Camera bassa approva e rigetta le leggi, ma di fatto conta poco perchè il sistema disegnato dagli americani nel dopo 2001 ruota intorno alla figura del presidente e non tiene conto delle complessità etnico-regionali del Paese, che sono quelle che contano -il voto di oggi è cruciale per diversi motivi. In primis, le forze di sicurezza afghane dovranno dimostrare di saper garantire la sicurezza di un voto sul quale grava la pesante ed esplicita minaccia talebana (solo nelle ultime ore i militanti islamici hanno rapito due candidati e altre 18 persone). Ma se non dovessero riuscirci, si confermerebbe quel che già tutti sostengono più o meno apertamente: che l’impegno del 2014 (tutto il paese sotto controllo dell’Ana, l’esercito afghano) è fatto di pure chiacchiere. L’altro motivo chiave è dimostrare che dopo le frodi delle presidenziali del 2009, il governo ha la forza e lo spessore per garantire elezioni pulite. Per portarsi avanti col lavoro, Karzai mesi fa ha indebolito la Ecc (la commissione garante del processo elettorale) portando a 2 su 5 i membri internazionali così da poterne controllare la maggioranza. Ma anche qui i dubbi sono più che leciti: pochi giorni fa l’autorità statunitense Special inspector general for Afghanistan reconstruction ha diffuso un rapporto nel quale afferma che per ripulire il sistema elettorale afghano ci vorranno anni. L’unica voce ottimista che sembra levarsi a favore di queste elezioni sembra essere quella del capo della missione Onu nel Paese, Staffan De Mistura, secondo cui i talebani stanno andando“bullets for ballots”ovvero sarebbero interessati a farsi eleggere per acquisire posizioni chiave al momento delle trattative di pace. Un modo tutto sommato elegante per dire che non potrà esserci soluzione per l’Afghanistan senza arrivare a un diretto con-

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re le “norme estetiche” dei talebani. Le genti, arrivate in Asia centrale al seguito di Gengis Khan, sono notoriamente glabre. La contravvenzione costò cara a molti uomini hazara. Oggi all’Hezb-i-Wahdat viene riconosciuto il contributo di sangue versato in questi oltre 30 anni di guerra. Il suo leader fondatore, Abdul Ali Mazari, è stato ucciso nel 1996 e da allora è venerato come un martire della resistenza afgana contro il fondamentalismo dei mujaheddin. Così come avviene per Ahmad Shas Mahsud, il mitico Leone del Panshir. Sul presidente Karzai gravano le ombre di eroi passati, dotati di straordinarie qualità come comandanti militari e come political animal. Karzai non è nulla di tutto questo. Mohaqiq, a sua volta, ha saputo costruire un’opposizione influente in seno alle istituzioni. Tuttavia, sempre nel rispetto di quest’ultime. Un atteggiamento simile si riscontra in Abdullah Abdullah, altro fiero oppositore di Karzai, che, lo scorso anno, perse la poltrona presidenziale

per poche preferenze. Il presidente afgano pare non voler accettare né l’introduzione di una primordiale forma di pluralismo, né l’eventualità che un partito possa mettere in discussione il suo potere.

Di conseguenza reprime sul nascere ogni minima espressione di democrazia. Sfrutta la causa talebana per emarginare quegli avversari che, al contrario dei mujaheddin, hanno scelto l’agone politico istituzionale come terreno di competizione politica. Nelle scorse settimane, l’Afghan Election Commission aveva reso noto che il 15% dei seggi elettorali stabiliti non sarebbero stati aperti per ragioni di sicurezza. È logico pensare che, in questo modo, le autorità di Kabul possano strumentalizzare a proprio vantaggio l’elettorato e le sue scelte. L’Afghanistan tuttavia vuole votare. Dai risultati che emergeranno, sia per affluenza sia per le preferenze, si potrà filtrare anche quanto consenso disponga ancora Karzai.

fronto con le forze talebane. Cosa che non solo il presidente Karzai dice da tempo, ma che anche le forze Usa nel Paese stanno valutando (sarebbe meglio scrivere “fattivamente indagando” a leggere tutti i rapporti Usa usciti negli ultimi sei mesi) con maggiore veemenza. Evidentemente non sufficiente se si considerano i continui appelli talebani al boicottaggio di queste elezioni, la decapitazione di Sayed Hamid Noori, vice direttore dell’Associazione nazionale dei giornalisti dell’Afghanistan e l’omicidio del governatore del distretto di Nahrin, nella provincia settentrionale di Baghlan.

Ahmad Seroor, vittima di un’imboscata dei militanti islamici mentre era in viaggio in automobile nel distretto di Baghlan-e-Markazi. Il tutto in meno di due settimane. Un’escalation a cui si deve aggiungere il sequestro - nelle ultime 48 ore - del candidato Safiullah Mujaddidi nella provincia di Herat; di Maulvi Hayatullah Furqani nel distretto di Shamshakhel (provincia orientale di Laghman) e di 8 dipendenti della Commissione elettorale indipendente (Iec) nel distretto nord occidentale di Bala Murghab (dove il nostro contingente ha una Fob, una base operativa avanzata). Certo è che i timori sono forti e che l’Onu non ci ha fatto una gran figura nel dire, sempre per bocca del rappresentante speciale delle Nazioni Unite De Mistura, da un lato che «le elezioni legislative mostreranno alla popolazione che la democrazia avanza» e che rappresentano (viste le condizioni in cui hanno luogo, ndr.) «un miracolo» e dall’altro aver talmente tanta paura di diventare un obiettivo sensibile da aver guidato un esodo di almeno 300 persone dello staff internazionale (come denunciato dal Guardian), che rientreranno nel Paese solo a fine mese. Non solo: quelli che rimarranno per controllare l’esito del voto saranno soggetti a restrizioni durissime e per garantirne la sicurezza sarà loro vietato di andare in giro per Kabul. L’Onu, a onor del vero, non è stato l’unico a decidere di ridurre la sua presenza.Tutti i maggiori gruppi internazionali coinvolti nel controllo della regolarità del voto hanno drasticamente tagliato il proprio personale. L’Unione europea, presente lo scorso anno con 120 osservatori, quest’anno ne ha soltanto sette. Così, gran parte delle responsabilità e dei rischi sarà a carico del Fefa (Free and fair election foundation), che metterà in campo circa 7mila volontari afgani. Una decisione comprensibile che va evidentemente in direzione contraria a quella indicata dal generale David Petraeus, da un paio di mesi alla testa delle forze alleate in Afghanistan, che non perde occasione per ricordare quanto in questa occasione sia «decisivo il terreno umano», tanto da incoraggiare i suoi militari «a vivere fra la gente» con un comportamento da «buon ospite, rispettoso della cultura locale e in grado di conquistare la fiducia della popolazione».

I candidati in corsa sono 2447 per 249 seggi: tra loro ci sono 406 donne, a cui vanno un minimo di 64 seggi secondo un meccanismo tipo quota rosa del 25%. La maggior parte (664) si sfida per la capitale


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il personaggio della settimana Erede della tradizione mazziniana, il segretario del Pri ha rotto con La Malfa

Il repubblicano del Re Ha cominciato con Spadolini e adesso tratta Berlusconi come un monarca tanto che ha legato il suo nome alla lista voluta dal premier per blindare la maggioranza: ecco chi è Francesco Nucara di Marco Palombi

hi l’avrebbe detto che sarei diventato famoso a 70 anni suonati? C’è anche chi mi riconosce per strada. Una sensazione nuova. Non sono abituato. Ma sono contento perché magari, grazie a me, qualche ragazzo di vent’anni scoprirà l’esistenza del Partito Repubblicano». È il programma minimo di Francesco Nucara, detto Ciccio, segretario di quel che resta dell’Edera, avvinto al suo movimento, e ora al governo Berlusconi, come del resto è naturale attendersi visto il simbolo sotto al quale ha passato tutta la vita adulta. Che sia diventata famoso è forse un’esagerazione, ma di sicuro prima era sconosciuto: cercato in Parlamento solo dai cronisti più scrupolosi e appassionati alle vicende del centrodestra – attirati dal miraggio della rara trouvaille berlusconiana sempre possibile stante la congiunzione, lasca ma esistente, tra il nostro e il Cavaliere - per tutti gli altri frequentatori del Transatlantico era più o meno il signore per cui lavora Chiara Capotondi, sorella dell’attrice Cristiana e addetta stampa, appunto, del personaggio che ha animato l’ultima settimana politica.

«C

Nucara è uno di quei deputati di cui non si sa mai dire la collocazione con precisione perché navigano nel procelloso mare della rappresentanza senza rappresentare alcunché: il Pri infatti è il più antico partito esi-

stente, datando il suo primo congresso nientemeno che al 1895, ma è pure inesistente visto che gli eletti scarseggiano a livello locale persino nelle storiche roccaforti medio-italiche. Anche adesso l’erede della gloriosa tradizione mazziniana non si sa bene dove vada a parare: ora tenta di costruire scialuppe di salvataggio per il premier col fantomatico gruppo di “responsabilità nazionale” ma “responsabilità repubblicana”gli suona meglio - ora (ed è cosa di ieri) rilascia interviste al Secolo d’Italia per dire che «sono alleato di Berlusconi, ma non sto nel suo partito: lui è un imprenditore, ha un’altra mentalità. Dal punto di vista metodologico, di come si fa politica, sono molto più in sintonia con Fini». Di più, sostiene anche la stessa cosa che al presidente della Camera è costata l’accusa di alto tradimento: «Serve una nuova legge elettorale. È diventato un Parlamento di nominati, dobbiamo fare qualcosa». Classe 1940, sposato e padre di due figli, laureato in statistica e in architettura, per un po’ funzionario dell’innominabile Cassa del Mezzogiorno, Nucara ha cominciato il suo viaggio nel mondo in quel di Reggio Calabria, città con cui mantiene saldissimi i legami politici e sentimentali, ma è a Roma che s’è affacciato alla vita adulta: vi giunse a ventidue anni e pochi mesi più tardi s’iscrisse al Partito repubblicano di Oronzo Reale, Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini, di cui fu anche consigliere economico ai tempi di palazzo Chigi.

Sono gli anni, dall’83 al ’94 per la precisione, in cui il nostro sbarca anche a Montecitorio come deputato e diventa per qualche tempo sottosegretario ai Lavori pubblici. Quando poi, nel settembre 1987, il figlio d’arte Giorgio La Malfa sostituì l’ex direttore del Corsera, eletto presidente del Senato, alla guida del Pri, Nucara ne divenne il braccio destro e tale è rimasto fino a tempi abbastanza recenti. I due procedono abbracciati nell’ultima fase della Prima Repubblica e s’avventurano pericolosamente nella Seconda. Da allora i repubblicani esistono – forti di una delle tradizioni culturali più rilevanti, per quanto minoritarie, della storia nazionale – e non esistono: è dal 1992, per dire, che non hanno la soddi-

sfazione di vedere il loro simbolo su una scheda per le elezioni politiche. Nel 1994 La Malfa e Nucara tentano l’abboccamento con la goiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, ma l’accordo salta – dicono i maligni – per il rifiuto del segretario del Pds di offrire un seggio proprio al suo omologo repubblicano: il Pri strinse allora alleanza col movimento di Mario Segni (tra i candidati c’era pure Denis Verdini) continuando però, in quella travagliata legislatura, a guardare a sinistra. Sono gli anni in cui il partito subisce una vera e propria diaspora: molti importanti repubblicani s’accasano nei partiti del dopo-Tangentopoli (Massidda, Casero, Gawronski, Pescante e altri scelgono Forza Italia; Bogi, Manzella, De Carolis, Gualtieri, Passigli, Maccanico e Bianco finiranno nel centrosinistra) con l’immancabile contorno di battaglie legali per l’uso del


18 settembre 2010 • pagina 31

simbolo dell’edera. Come che sia, nel 1996 il partito mazziniano s’accasa con l’Ulivo (nella lista “Popolari per Prodi”) e contribuisce a portare il professore bolognese a palazzo Chigi: lo spazio riservato ai repubblicani in quella legislatura non fu però adeguato alle aspettative, almeno a quelle di La Malfa, e dal 2000 iniziò dunque la marcia di avvicinamento a Silvio Berlusconi, linea che trova proprio in Ciccio Nucara il suo interprete più conseguente. La svolta avviene al congresso di Bari del gennaio 2001, il XLII della serie, nel quale viene sancita l’entrata nella coalizione di centrodestra: Luciana Sbarbati, in polemica con la scelta berlusconiana, se ne va portando-

Classe 1940, sposato e padre di due figli, ha cominciato la sua avventura a Reggio Calabria, dove mantiene saldissimi legami si dietro circa il 5 per cento dei voti congressuali per fondare il Movimento repubblicani europei, schierato a sinistra. Giorni memorabili per il nostro: l’assemblea in Puglia lo elegge segretario del Pri, mentre La Malfa dopo 14 anni diventa presidente del partito, e dopo le elezioni che riportano Silvio Berlusconi a palazzo Chigi, arriva pure la nomina a sottosegretario all’Ambiente. Inizia dunque sotto il segno del Cavaliere il decennio di Nucara alla guida del più antico partito italiano in attività e sotto quel segno prosegue. Da segnalare almeno – a parte l’inconsistenza elettorale del parti-

to – la ripresa nel 2003 delle pubblicazioni dello storico quotidiano La Voce Repubblicana, proprio sotto la direzione del nostro, la vittoria nei Tribunali per l’uso esclusivo del simbolo e il recentissimo riavvicinamento con l’Mre della Sbarbati (che ad aprile è uscita dal gruppo del Pd in Senato). Nel 2005 infine – dopo il disastro delle regionali e la conseguente messa sotto tutela di Silvio Berlusconi da parte degli alleati – La Malfa diventa addirittura ministro delle Politiche comunitarie e Nucara ascende al ruolo di viceministro all’Ambiente. Poi, nonostante l’opposizione ad alcuni aspetti del porcellum che ha parecchio raffreddato i rapporti con gli alleati, i repubblicani confermano l’alleanza col centrodestra e nel 2006 portano in Parlamento tre eletti “ospiti” nelle liste di Forza Italia: Nucara e La Malfa alla Camera, Del Pennino al Senato. I problemi tra segretario e presidente di quel che resta del Pri cominciano proprio qui: Nucara schiera il partito sul sì al referendum confermativo sulla devolution, La Malfa si batte per il no e lascia la presidenza del partito. L’anno e mezzo del Prodi seconda versione comunque passa e i due sono di nuovo in lista col Cavaliere, stavolta nel PdL. A Montecitorio, però, si divideranno subito: paradossalmente Nucara si iscriverà al gruppo misto e La Malfa al PdL per poter entrare nella rappresentanza Nato. Il figlio del grande Ugo, malignano in Transatlantico, in quel periodo si aspetta un ministero che non arriva e dunque, dopo un anno e qualcosa di mugugni, rompe a mezzo stampa con Berlusconi: «Questo governo mi ha deluso», scrive in una lettera al Corriere quasi un anno fa. Nel frattempo Nucara – che resta fedele all’esecutivo («sono calabrese, ho una parola sola») – si regala però un atto di pubblica ribellione all’uomo delle tv. Siamo al congresso fondativo del PdL, marzo 2009, e il premier dal palco chiama a sé «i responsabili e i leader dei partiti e dei movimenti che oggi consegnano a noi le loro bandiere e i loro simboli affinché si fondano in quello del Popolo della Libertà». Arrivano tutti, ma Nucara se ne resta seduto, unico, nonostante gli inviti del Cavaliere: il Pri non chiude baracca. Poi arriva la crisi tra Berlusconi e Fini, la cac-

ciata del presidente della Camera dal partito e la «pazza estate» (copyright dello stesso Berlusconi) che s’avvia alla conclusione. Il Cavaliere non vuole dipendere dai voti dei “traditori” finiani e comincia a darsi da fare per cercare nuovi consensi in Parlamento, magari fondando pure un nuovo gruppo parlamentare di maggioranza a Montecitorio in vista del suo discorso programmatico previsto per il 28 settembre: le trattative le portano avanti il premier e alcuni pezzi grossi del PdL, poi ecco che arriva il quarto d’ora di celebrità di Francesco Nucara. Secondo i rumors dovrebbe essere lui il collettore del nuovo rassemblement, i “responsabili” nella vulgata giornalistica. Luciana Sbarbati, in un’intervista, ne fa un ritratto diciamo in chiaroscuro: «Fa politica da una vita, è oggettivamente bravo. Uomo prudente, scaltro, capace di tessere rapporti e di afferrare al volo le doppiezze della politica. Insomma, se c’è uno in grado di compiere il miracolo di tenere in vita il governo Berlusconi, beh, quello è lui». Se qualcuno non avesse capito, l’ex pasionaria prodiana spiega: «Se il suo compito è quello di mettere assieme uomini diversi, ad aiutarlo saranno certo il fatto d’essere massone e calabrese, perché essere massone significa anche avere rapporti con molti e quella calabrese, com’è noto, è una delle lobby meglio funzionanti del Paese».

È lunedì scorso il giorno in cui Nucara scala la classifica delle prime pagine come ad un repubblicano non accadeva da decenni: si presenta a palazzo Grazioli coi suoi tre vicesegretari (Luca Ferrini, Corrado Saponaro e Gianfranco Polillo) e, all’uscita, spara la bomba. «Posso tranquillamente affermare che il nuovo gruppo ci sarà. Arriviamo a 20 senza iniezioni del Pdl. I nomi non li so e se li sapessi non li direi ai giornalisti, ma è tutta gente che finora non ha votato la fiducia a Berlusconi, eccezion fatta per noi repubblicani», mette a verbale sulle agenzie. Cosa le hanno promesso? Chiede qualcuno. «Niente – ribatte piccato – io credo, da buon calabrese, che la gratitudine sia un valore: se non fosse stato per Berlusconi nel 2001, oggi non sarei segretario del Pri. Non mi deve promet-

I diversi Fini di Francesco Nato a Reggio Calabria il 3 aprile del 1940, Francesco Nucara è segretario del Partito Repubblicano Italiano dal 2001, ricoprendo il ruolo di vice ministro dell’Ambiente nel Governo Berlusconi III. Approdato nella Capitale nel 1962, si è laureato in Scienze statistiche ed attuariali e in Architettura, ed è giornalista iscritto all’albo dei pubblicisti del Lazio. Già funzionario della Cassa per il Mezzogiorno, il deputato calabrese è sposato e ha due figli. Eletto alla Camera dei deputati nella lista del Partito Repubblicano Italiano per tre legislature, dal luglio 1983 all’aprile 1994, nel 2006 è stato rieletto nelle liste di Forza Italia come esponente del Pri, e poi riconfermato nel 2008 per la lista calabrese del Popolo della libertà. Sottosegretario di Stato ai Lavori Pubblici nel 1989, ha seguito per conto del Governo la legge 183 del 1989 sulla difesa del suolo e la legge 36 del 1994 sul ciclo integrato delle acque. È stato relatore del disegno di legge sulle società di ingegneria e sulla riconversione delle fabbriche di armi, rimanendo in carica fino all’aprile del 1991. A seguito dello strappo tra il presidente del Consiglio, e il presidente della Camera, Gianfranco Fini, Nucara ha annunciato la costituzione di un Gruppo dei responsabili pronto a garantire al governo una maggioranza indipendente dal voto dei finiani confluiti in Futuro e libertà.

tere niente, perché gli devo già tutto». Il primo a incazzarsi è proprio La Malfa: «Io non faccio l’ascaro di Berlusconi». Nucara gli risponde su La Voce Repubblicana dandogli di «pseudo-autorevole esponente del partito», «monello» e «vanaglorioso».

La battaglia finale tra i due è in programma per dicembre, al prossimo congresso (il numero XLVI) del Pri, quello che dovrebbe sancire anche il ritorno nel partito dei repubblicani europei della Sbarbati. Il nostro, però, s’è visto rispondere a brutto muso pure dagli altri nomi finiti sui giornali come prossimi al cambio di campo: i siciliani dell’Udc, Razzi e Scilipoti di Italia dei Valori e persino da quelli di Noi Sud, gli scissionisti dell’Mpa di Lombardo, che pure votano con costanza la fiducia al governo. «Nucara nuoce al centrodestra», hanno scritto in un comunicato. S’è fatta girare le scatole anche la Lega perché questi 20 “responsabili”, in realtà, non sarebbero altro che un gruppo di venti terroni anti-federalisti. Allora il povero segretario repubblicano ha fatto marcia indietro: «Sono pessimista, le firme non arrivano, ma i contatti li tiene Berlusconi». In Transatlantico girano battute pesanti: «Mannino e Romano nel gruppo di Nucara? Sarebbe la prima volta che il tonno comanda agli squali». Lui non se la prende, tira dritto e si dedica a qualche dichiarazione blandamente fuori linea: sui Rom non voterei la fiducia al governo, sono più in sintonia con Fini. Eppure Nucara resta un simbolo di questo eterno tramonto del berlusconismo, fin nell’indirizzo di casa: il nostro abita infatti in via del Fagutale 2, cioè nello stesso palazzo vista Colosseo in cui qualche anonimo buontempone pensò di comprare casa a Claudio Scajola senza che l’ex ministro lo sapesse.


ULTIMAPAGINA Tecnologia. Intel conferma: aggirata la protezione Hdcp che impediva la copia dei film in alta definizione

Continua l’incubo hacker per di Andrea Mancia n principio tutto si era limitato a qualche mormorio sommesso su Twitter e su qualche forum underground. Poi la notizia si è diffusa alla velocità della luce nel cyberspazio, ripresa anche dagli organi di informazione mainstream. Ieri, infine, è arrivata la conferma da parte di Intel. Secondo il portavoce del maggiore produttore mondiale di microchip,Tom Waldrop, il codice che gestisce l’Hdcp (high-bandwidht digital content protection), in pratica il software che impedisce la copia dei film in alta definizione, è stato “aperto”da qualche hacker sconosciuto e messo a disposizione di tutti su Internet. Si tratta delle 376 linee di codice esadecimale che compongono la chiave di cifratura principale del sistema di protezione.

I

L’Hdcp è stato fortemente voluto dalle major hollywoodiane per tentare di frenare la crescente pirateria di film (e serie televisive). Il sistema funziona implementando un chip protetto sui cavi digitali (come Hdmi, high digital multimedia interface e Dvi, digital visual interface) che vengono utilizzati per trasportare contenuti multimediali. In estrema sintesi, il sistema codifica i flussi audio e video che passano da un dispositivo di riproduzione (come i lettori blu-ray o quelli, ormai defunti, hd-dvd) a un televisore in alta definizione, impedendo che - durante il tragitto possano essere copiati senza il permesso del detentore del copyright. Il “crack” della protezione Hdcp, insomma, rischia di rappresentare un colpo durissimo per le major perché consente ai“pirati”, almeno in linea teorica, di effettuare copie di film in blu-ray identici all’originale. Una volta compromesso il software, diventa possibile costruire chip che, montati su televisori hd, decoder, lettori blu-ray o console per videogiochi (la Sony Playstation3, per esempio, utilizza proprio un lettore blu-ray), permettano di utilizzare dischi copiati e non originali. Si tratta, al momento, di una possibilità che la stessa Intel ritiene «remota», soprattutto per gli altissimi costi industriali che bisognerebbe intraprendere per dare il via ad una operazione del genere. Ma per farsi un’idea del danno potenziale basta pensare ai broadcaster (come Sky in Italia) che hanno investito in decoder proprietari che permettono la visione - e magari

la registrazione - ma non la duplicazione di contenuti in alta definizione. Ma come si è arrivati alla “scoperta” della chiave di cifratura? Secondo il portavoce di In-

HOLLYWOOD hacker e non sul big business». Almeno a parole, però, Intel - che nelle ultime ore è stata tempestata di domande da parte delle centinaia di aziende che hanno acquistato la licenza del prodotto afferma di continuare a credere nella tecnologia Hdcp. Anche se la debolezza di questo protocollo è nota da quasi dieci anni, da quando cioè (nel 2001) Scott Crosby, un ricercatore della Carnegie Mellon University, aveva pubblicato un saggio in cui si sottolineavano i difetti strutturali della versione 1.0 dell’Hdcp (la versione attuale è la 1.3).

Una volta compromesso il software di cifratura, diventa possibile costruire chip che permettano di utilizzare dischi copiati e non originali. La battaglia contro la pirateria delle major sembra sempre più difficile tel, già da qualche tempo al colosso di Santa Clara erano arrivate voci sulla possibilità che il codice circolante in rete fosse effettivamente reale. «Dopo due giorni di indagini - dice Waldrop - ci siamo resi conto che la chiave, online da martedì scorso, era quella giusta. Ma non abbiamo idea di come siano riusciti a trovarla». E ora? «È difficile predire con esattezza gli scenari futuri. In pratica, è possibile che un hacker possa produrre un chip con la master key incorporata. Mentre mi sentirei di escludere, almeno per ora, la possibilità di sviluppare un decoder software. Mai dire mai, però».

Neppure Adrian Kingsley-Hughes, editorialista del sito di informazione tecnologica ZdNet, si sente di escludere del tutto questa possibilità: «Ancora una volta, tutta l’euforia che circondava i sistemi di criptatura e i meccanismi Drm (Digital rights management, ndr) è stata spazzata via da un gruppo agguerrito di hacker che ha trovato un metodo efficace per aggirare le protezioni. Se fossi costretto a scommettere, punterei i miei soldi sugli

Contattato dai media nelle ultime ore, Crosby si è detto «non stupito» dall’exploit degli hacker: «Non sono stato l’unico ad ipotizzare questa eventualità. È praticamente impossibile “nascondere”per troppo tempo una chiave di cifratura presente su televisioni, monitor, schede video, lettori blu-ray e decoder che ormai si trovano nelle case dei cittadini di tutto il pianeta». Se a questo si aggiunge il fatto che ormai da qualche anno le versioni “pirata” dei film in alta definizione sono già disponibili per il download gratuito su centinaia di siti internet dedicati al file-sharing, si arriva facilmente alla conclusione che quella delle major sia una causa persa in partenza. Le grandi società di produzione hollywoodiane farebbero bene ad abbracciare in fretta la rivoluzione digitale - come ha fatto, con colpevole ritardo l’industria discografica - invece che continuare a tentare di svuotare l’oceano con un cucchiaino da the.


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