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Le sciocche e laide abitudini sono la corruzione della nostra vita
di e h c a n cro
Ugo Foscolo
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 24 SETTEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il presidente Usa dice: «Spero in un nuovo Stato entro un anno». È giallo sull’assenza dei delegati di Netanyahu
«2011: la Palestina all’Onu» Obama al Palazzo di Vetro veste i panni del grande mediatore: tende la mano a Teheran ma difende Israele da Ahmadinejad. E lancia il suo grande progetto per il prossimo anno LO SCRITTORE ISRAELIANO
di Antonio Picasso utto era pronto per un intervento deciso, ma comunque equilibrato. Le previsione sono state compromesse da un discorso che molti giudicheranno, altri criticheranno perché autolesionista. Quel che avrebbero detto Obama e Ahmadinejad era stato anticipato già nella mattinata di ieri. Gli interventi all’Onu, dei due presidenti, quello statunitense e quello iraniano, ma soprattutto quello del primo passeranno alla storia come due momenti di alta tensione al Palazzo di vetro. I seggio della delegazione israeliana è rimasto vuoto perché è Sukot, la festa delle capanne, uno dei momenti di maggior riflessione per la religione ebraica.
Yeoshua: «Sarà solo un’utopia se non risolve gli insediamenti»
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di Luisa Arezzo
Storia delle frizioni tra Usa e Gerusalemme
Il ferro e la ruggine Roosevelt e Bush, Truman e Kissinger: quando scricchiola l’alleanza inossidabile
a pagina 10
di Maurizio Stefanini • pagina 12
l vero problema è quello degli insediamenti nel West Bank e a Gerusalemme Est. A tutti gli effetti, non c’è nient’altro che faccia da ostacolo al processo di pace: lo scrittore Abraham Yehoshua, una delle penne più celebri del mondo, è categorico nel sintetizzare un problema che va avanti da oltre sessant’anni.
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a pagina 11
Alla Direzione, Bersani fa il mediatore: «Sì ai disagi, no ai documenti»
Pace nel Pd. Ma senza bussola Consigli d’autore a un partito in perenne crisi d’identità SAVINO PEZZOTTA
Ex popolari ed ex Pci, basta con le politichette Così come il Centro, anche il Pd non può più vivere di tattiche: deve elaborare un disegno strategico e una nuova narrazione politica. a pagina 3
Separatevi, è meglio: prenderete più voti «Bisogna essere laici e pragmatici, è inutile cercare compromessi, arrivati a questo punto, è meglio la separazione consensuale a pagina 4
UMBERTO RANIERI
L’unica strada vincente è allearsi con Casini «Dobbiamo cercare convergenze con i settori democratici e liberali del centro politico. Non solo con chi sta all’opposizione, ma anche con chi sta nella maggioranza» a pagina 5
EURO 1,00 (10,00
di Antonio Funiciello
MASSIMO CACCIARI
PAOLA BINETTI
È ora di riconoscerlo: la fusione era sbagliata Più che un vero divorzio si potrebbe immaginare una sorta di annullamento del contratto, perché sono venute meno le condizioni valoriali essenziali per considerarlo valido a pagina 4
CON I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
186 •
ROMA. La bussola c’è. L’avviso ai naviganti l’ha dato il comandante di brigata Bersani, durante l’attesa riunione della Direzione nazionale del Pd andata in scena ieri. La bussola c’è ed è quella del nuovo Ulivo e della grande alleanza per salvare la Repubblica italiana: «I nostri elettori ci vogliono combattivi - ha detto Bersani - e ci chiedono di lavorare per evidenziare la crisi del berlusconismo: non possiamo fare il gioco dell’oca e ricominciare sempre da capo». Una mezza apertura ai veltroniani: abbastanza per permettere alla nuova minoranza di non rompere. Insomma, è finita con una pace armata: il problema è capire quanto durerà. a pagina 2 WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Montecarlo e dossieraggio
È guerra istituzionale sui servizi Berlusconi attacca: «Irresponsabile coinvolgerli». Fini risponde: «Guardi a Palazzo Chigi» di Riccardo Paradisi
ROMA. In quale formazione e con quali intenzioni il premier Berlusconi si presenterà alla Camera il prossimo 29 settembre, è ancora un’incognita. Una linea definita del resto ancora non c’è, le idee non sono chiare a Palazzo Grazioli. Si oscilla tra l’ipotesi di una mozione del presidente del Consiglio che chiederà consenso al parlamento sui cinque punti del programma e un voto di fiducia in piena regola che però appare sempre più improbabile visto il livello che ha raggiunto lo scontro tra Berlusconi e il presidente della Camera. L’incertezza è frutto della «ricaduta» nei rapporti tra Fini e Berlusconi. Dopo l’accusa di «soddieraggio» fatta dai finiani, ierinil premier ha replicato che dire certe cose «è da irresponsabili». E a stretto giro di dichiarazione è arrivata la risposta di Fini: «Si guardi dalle parti di Palazzo Chigi...». a pagina 8
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 24 settembre 2010
il fatto Riunione fiume per affrontare i «malesseri» interni al Pd, ma alla fine la minoranza decide di non rompere con il segretario
La bussola? Domani...
«Discutiamo insieme del disagio, ma senza documenti»: Bersani tende mezza mano a Veltroni. E la direzione sigla una tregua di Antonio Funiciello
ROMA. La bussola c’è. L’avviso ai naviganti l’ha dato il comandante di brigata Bersani, durante l’attesa riunione della Direzione nazionale del Pd andata in scena ieri. La bussola c’è ed è quella del nuovo Ulivo e della grande alleanza per salvare la Repubblica italiana: «I nostri elettori ci vogliono combattivi - ha detto Bersani - e ci chiedono di lavorare per evidenziare la crisi del berlusconismo: non possiamo fare il gioco dell’oca e ricominciare sempre da capo». In verità, nel gioco dell’oca si ricomincia da capo solo se si è così sfortunati da finire sulla casella che ti costringe a ritornare all’inizio. Se riesci a tenerti lontano da questa penalità, quello dell’oca è un gioco che procede da una prima ad un’ultima casella: chi arriva primo, vince. È un gioco semplice, un gioco per bambini. Il no al gioco dell’oca, con cui Bersani ha aperto la riunione della Direzione del partito, è stato però condiviso dagli estensori del documento dei 75 che, entrati bellicosi al Nazareno, si sono poi lasciati convincere dalla ardita metafora di Bersani. Il quale ha, comunque, detto che il loro documento è stato un errore e «ha avuto l’effetto oggettivo di creare sgomento e sbandamento nel partito». Per il resto il segretario s’è tenuto sul vago, riconoscendo che i democratici faticano «a trasmettere un’idea di rinnovamento». Un riconoscimento delle difficoltà che è bastato ai 75, nel frattempo aumentati, per non fargli la guerra in direzione. Chi si accontenta, dopotutto, gode.
Il dibattito di ieri è servito, se non altro, a certificare i rapporti interni al partito. Con grande dispiacere per Letta e Bindi, che vedono erodere il loro ruolo interno di bersaniani moderati, da ieri Franceschini e Marini fanno parte della maggio-
ranza che appoggia il segretario. Fassino ne faceva parte già da qualche mese. La minoranza è oggi più piccola e Bersani, stando ai numeri, più forte. Il consenso che oggi ha nel partito somiglia molto, per quantità e qualità, a quello che Veltroni aveva nel 2007, appena eletto segretario nazionale. Numericamente, si può oggi tranquillamente sostenere che due democratici su tre stanno con l’ex ministro: un notevole progresso rispetto a
quella maggioranza del 50% più uno superarata di poco alle primarie dello scorso ottobre. Non è ancora il 75% di cui godeva Veltroni, ma gli si avvicina parecchio.
In più, la maggioranza bersaniana è anche qualitativa-
Qui sopra, Beppe Fioroni e Piero Fassino. Qui a destra, Veltroni e, a sinistra, Bersani. Nella pagina a fianco, la sede dei democratici e Savino Pezzotta mente simile a quella veltroniana del 2007. È composita e si forma più per giustapposizione di posizioni e orientamenti differenti che per la condivisone di una linea politica di sintesi. È politicamente, dunque, molto fragile, animata dalla esigenza di correnti e micro-correnti di conservare il più alto numero di scranni parlamentari in caso di elezioni anticipate, che al Nazareno danno ormai per certe. Bersani ha ieri molto insistito sul calibrare tattiche e strategie in un contesto politico che precipita verso elezioni in primavera. Se le Politiche arriveranno prima del previsto (magari in concomitanza con le prossime amministrative) il Pd conoscerà una forte contrazione dei suoi seggi in Parlamento: sia perché è destinato a prendere molti meno voti, sia perché dividerà i voti spettanti alla sua coalizione con molti più alleati che nel 2008. Le inquietudini dei parlamentari che temono di non essere confermati contano e stanno contando anche nella discussione che il Pd sta conducendo.
Ma Bersani è più forte o più debole dopo la direzione di ieri? La risposta è problematica. Da un lato, di certo Bersani può vantare un rafforzamento della sua leadership, rispetto alle accuse dei giorni scorsi che concentravano i loro strali proprio sulla presunta inadeguatezza del carisma del segretario. Chiamato a un confronto nell’unico vero organismo dirigente del partito, Berasni ieri ne è uscito vivo, col suo stile compassato e una
certa tenacia emiliana di cui aveva già dato sfoggio in passato, all’epoca degli incarichi ministeriali. D’altro canto, però, il segretario non può non ricavare anche un’impressione spiacevole dal sostegno che ha visto accrescersi dopo il dibattito in direzione. Stringersi intono a lui e spingerlo alla candidatura a premiership, in un momento in cui l’ipotesi alleanza con l’Udc è più lontana e il raggio delle alleanze del Partito democratico si estende solo alla sua sinistra, potrebbe anche essere un modo per liberarsi di lui in tempi stretti. Se tra pochi mesi si andasse a votare e Bersani dovesse capeggiare un’alleanza di forze di sinistra votata alla sconfitta, la sua testa sarebbe richiesta in tempi brevissimi. Chi oggi non entra nella sua maggioranza, può credere di essere più titolato a progettare il futuro del Pd dopo l’ennesima sconfitta. Tuttavia, a ben vedere, anche molti di quelli che spingono Bersani e oggi lo sostengono, pensano di poter essere loro i protagonisti della stagione che verrà. Franceschini non nasconde le sue ambizioni, così come il vice segretario Letta.
Giorgio Tonini, tra i 75 firmatari del documento oggetto della riunione di ieri, ha avvisato tutti che «un esito unanimistico della discussione in Direzione non sarebbe stato comprensibile». Compito non facile, visto l’epilogo. È certo che i 75 cercheranno di presentare alla prossima assemblea nazionale del Partito democratico, l’8 e il 9 ottobre a Varese, documenti di merito da mettere in votazione allo scopo di allargare l’offerta politica del partito. Si vedrà se i documenti saranno presentati in contrapposizione con quelli della maggioranza o se, invece, si chiederà che la maggioranza del partito li faccia propri. Anche se, dopo la discussione di ieri, è più complicato immaginare che il confronto si sposti sui temi, sui quali il Pd resta al suo interno ancora diviso in maniera rilevante.
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24 settembre 2010 • pagina 3
Quattro consigli d’autore a un partito in perenne crisi d’identità
il consiglio/1
Ma adesso basta con le «politichette» Ex popolari ed ex Pci devono capire che la crisi e il relativismo chiedono strategie nuove di Savino Pezzotta o sempre seguito con molta attenzione l’esperienza del Partito democratico, anche se fin dall’inizio ero convinto che la teoria fusionista - elaborata e proposta da Veltroni - che prevedeva il superamento delle culture politiche, non avrebbe retto. Le culture politiche o sono determinate da uno stato nascente, oppure possono solo evolvere dentro la visione del mondo che le ha generate. Sicuramente non possono fondersi quelle che, nel corso della storia, sono state alternative. L’errore compiuto dalla componente ex comunista è stato di pensare che si potesse evitare il passaggio socialdemocratico; questo ha reso possibile una ”liberazione” di militanza, di impegno e di elettori che, non trovando più un riferimento che proponesse loro una ”vision” complessiva, si sono collocati nell’alveo della protesta e del populismo. Del resto nel partito comunista si era alimentata in modo organico e strutturale una cultura di governo e una di lotta. In assenza di un processo evolutivo con la volontà di operare una cesura con la storia, ha di fatto reso de-
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bole l’impianto sui cui si voleva costruire il Pd.
Per quanto riguarda gli ex popolari, invece si è coltivata la logica rodaniana dell’inveramento della cultura del cattolicesimo democratico nel nuovo Partito e pertanto l’illusione di esercitare un ruolo, se non egemone, fortemente orientativo. Avrebbero potuto farlo se non si fossero fusi in un unico partito. Il risultato è che l’unico collante è divenuto la memoria di quello che erano. Mi stupisce che Marini si lamenti di Bonanni, ma anche questo è parte della logica che sinteticamente ho cercato di spiegare. Il sistema bipolare a trazione bipartitica, come insegna Sacconi, mette in crisi il concetto di autonomia del sindacato e dei corpi intermedi e li chiama a schierarsi con e dentro i partiti.Tutto questo ha finito per mettere in tensione l’unità sindacale e ha indebolito la forza propositiva del sindacalismo italiano di fronte ai processi di cambiamento messi in movimento dalla crisi economica.
Le «persone semplici» hanno bisogno che si offra loro un progetto, una narrazione morale
Quanto sta succedendo in queste ore in Italia e in Europa pone gravi in-
terrogativi alla politica. Il Papa nel suo viaggio in Inghilterra ha posto un tema, quello del relativismo, che è centrale, come ha ben capito David Cameron, anche per la politica. In assenza di una «narrazione» ideale e forte che cerca la dimensione del vero, si affermano i «piccoli racconti» che aprono la strada all’identità chiusa, che porta alla discriminazione, alla xenofobia e che, a sua volta, finisce per sfociare nel razzismo. Non dimentichiamo che anche il nazismo aveva esaltato il riferimento alla “heimat”, alla casa e al territorio. La crisi della politica che attraversa l’Italia e l’Europa non è congiunturale, ma strutturale e rischia di travolgere tutti i progetti che nascono dalla pura congiuntura, dai sondaggi e dalla immagine sostenuta e diffusa dai media. Si potrebbe parafrasare il titolo di un film: «Sotto il vestito niente». La crisi della politica è un fatto che attraversa tutte le democrazie dell’Occidente e richiede, oltre che un ripensamento, una nuova e diversa declinazione dei concetti politici che ci hanno accompagnato; chiedono altresì che non siano get-
tati al macero anche che i tratti di un pensare politicamente che, pur nelle sue diversità, ha fatto crescere la dimensione democratica attraverso il coinvolgendo di masse e culture popolari.
Il Pd, ma credo anche l’area di centro cui aderisco, oggi non possono più vivere di tattiche, ma hanno bisogno di elaborare un disegno strategico e una nuova ”narrazione”. Devono avere la convinzione che solo così possono generare e iniziare a delineare i tratti di un bipolarismo mite, in cui possono vivere i poli dell’alternanza. Il Pd è oggi chiamato a scelte importanti per il futuro democratico del Paese. Non ci si può più perdere nella logica del discorso politicante. Lo stesso suggerimento vale anche per i centristi che devono riposizionare la loro strategia e non inseguire coloro che, oltre il “maldipancia” e i “desiderata”, non offrono alcuna prospettiva. Il Paese, le persone semplici, i giovani, le donne, i nuovi cittadini hanno bisogno che si offra loro un progetto, un narrazione ideale e morale. Attendo da Bersani parole chiare anche se diverse dalle mie.
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il consiglio/2 Bersani non deve seguire l’esempio del partito del predellino
È arrivata l’ora di riconoscere che la fusione era sbagliata di Paola Binetti
lla direzione del Pd, tutti gli occhi erano puntati su Pierluigi Bersani con un’attenzione non inferiore a quella con cui il Parlamento ascolterà Berlusconi mercoledì prossimo. Il parallelo non sembri eccessivo e credo che il premier leggerà e rifletterà con grande attenzione su ciò che ha detto il leader dell’opposizione e su come gestirà questa complessa situazione che si è creata all’interno del Pd. C’è sempre da imparare: dalle capacità degli altri e dai loro eventuali errori. Berlusconi non lo ha fatto quando ha lanciato il partito della libertà, stando in piedi sul predellino di una macchina in corsa. Già allora erano vistosamente presenti tutti i segni del disagio del Pd e qualcosa avrebbero potuto insegnargli, almeno in termini di rispetto delle reciproche identità e di rischi concreti per la sua leadership. Ma se Berlusconi non ha imparato molto dalla crisi del Pd, ci piacerebbe che Bersani imparasse qualcosa di più dalla altrettanto dubbia capacità di gestione mostrata dal capo del governo in occasione della crisi del suo partito.
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I due matrimoni non andavano fatti, il bipartitismo auspicato da alcuni è fortunatamente fallito senza alcuna possibilità di recupero, ma ha mostrato anche tutta l’insufficienza di un sistema bipolare che obbliga ad accordi di pura convenienza, in cui gli interessi reciproci entrano facilmente in flagrante conflitto. Area Ds e area popolare sono tanto distanti tra di lo-
ro quanto Forza Italia e Alleanza nazionale. La distanza è prima di tutto di natura culturale: sono diverse le storie, le tradizioni e i modelli di leadership; è diversa la presenza e l’incidenza sui territori. La scissione è un fatto naturale, verrebbe da dire fisiologico! È la parte sana dei due schieramenti che percepisce le contraddizioni interne e implora un po’ più di coerenza, per ritrovare un’identità smarrita, prima che risulti compromessa per sempre. Una separazione consensuale può mostrare nei fatti che ci sono ancora spazi per parlarsi, per trovare punti di contatto e per disegnare una nuova strategia politica, che abbia come obiettivo il bene del Paese, a destra e a sinistra, ognuno nel proprio contesto e nel dialogo con i propri elettori di riferimento. L’astensionismo dilagante è il segno vistoso dello smarrimento con cui gli italiani non si riconoscono più in nessuna delle proposte politiche attuali: troppo confuse e pasticciate per comprendere esattamente chi siamo e dove stiamo andando. Per raggiungere determinati obiettivi, anche di grande valore, ci si può alleare con chi si stima e sulla cui lealtà si può fare conto, ma non gli si può consegnare la propria identità per scioglierla in una poltiglia brutta da vedere e certamente immangiabile. Occorre recuperare coraggiosamente le proprie identità storiche, culturali e valoriali per individuare nuove modalità di collaborazione anche sul fronte politico. Più che di divorzio si potrebbe immaginare una sorta di annullamen-
il consiglio/3 Massimo Cacciari. «Bisogna essere laici e pragmatici: ormai è inutile cercare compromessi»
«C’è solo una soluzione: dividersi» di Errico Novi
ROMA. È metà pomeriggio. Massimo Cacciari chiede di essere aggiornato sulla direzione del Nazareno. Non ci vuole molto: i veltroniani si dicono soddisfatti del discorso di Bersani, che ammette l’esistenza del «disagio interno» e chiede di tornare a lavorare insieme sul «progetto per il Paese, la nostra unica stella polare». Il filosofo ribatte con una domanda, raggelante: «Quale progetto?». E ha detto tutto. Perché Cacciari, uno dei padri del Partito democratico, uno di quelli che tre anni fa contribuì a scrivere la carta dei valori per il nuovo partito, oggi non vede che una via d’uscita: «Separarsi, di comune accordo. Così si può restare amici. E magari arrivare a raccogliere consensi che, sommati tra loro in una coalizione, supererebbero quelli attuali. Altrimenti, se ci si limita a rammendare gli strappi, non si risolve nulla. Se si resta coatti nella stessa abitazione si finisce a coltellate». Detto da uno che ha scritto i prolegomeni del matrimonio, vuol dire molto. «Vedete, non si tratta di politicismi: nel Pd, ma allo stesso modo nel Pdl, ci sono contrasti seri, che lacerano la politica italiana e vanno considerati in tutta la loro drammaticità. Non sono questioni risolvibili con gli slogan alla Di Pietro, o alla Bossi. Sono in crisi i due punti di riferimento del sistema, è in crisi il disegno bipolare. E le ragioni sono politiche, culturali, di prospettiva».
Nel Pd, dice Cacciari, ci sono «almeno due» prospettive diverse: «C’è un’opposizione che non intende più inseguire un compromesso, anche a mio avviso deleterio, con le forze della sinistra-sinistra. È
un’opposizione interna che sul piano dei contenuti ha una connotazione liberaldemocratica e riformatrice e che difficilmente si ricollega al gruppo dirigente di matrice comunista ed ex comunista. Sono contrasti profondi, simmetrici rispetto a quelli del centrodestra, dove emerge una destra europea antropologicamente incompatibile con il legame organico tra Pdl e Lega». E allora? Tutto da buttare il lavoro compiuto per far nascere il Pd? «Bisogna essere laici e pragmatici, è inutile cercare compromessi, meglio la separazione consensuale. Così, ripeto, si può restare amici, e allearsi dopo. Bersani rappresenta anche fisicamente una storia ben precisa. Fioroni, Letta, Veltroni ne sono lontani. E la leadership è importante, nè si può pensare di cambiarla continuamente». Cacciari vede d’altronde una realtà che supera nettamente i buoni propositi: «Il Pd si sta consolidando come una forza socialdemocratica, con un leader che rappresenta perfettamente questa storia e che peraltro è una persona onestissima. Io stesso ho sperato che Veltroni potesse realizzare una sintesi, ma non ce l’ha fatta».
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raldemocratica con i rappresentanti più giovani della tradizione cattolico popolare». Prenderebbero più voti. «Non c’è il minimo dubbio. Così come non ci sono dubbi sull’esito che deriverebbe dal persistere nella condizione attuale: alle prossime elezioni si arriva a prendere il 25 per cento, magari non vince Berlusconi, a quel punto a Bersani e D’Alema non resta che andare da Casini a offrire la presidenza del Consiglio. Ma vuol dire alienare la propria ragione politica. Invece un partito soicialdemocratico potrebbe recuperare moltissimo a sinistra. Mentre l’area ex popolare e veltroniana non solo può ritrovare quell’elettorato inventato nel 2008 da Veltroni, ma può fare anche da ponte verso il centro di Casini e Fini». Certo, ammette Cacciari, «io avevo creduto nel Pd e ho fallito, forse la mia era la tipica convinzione dell’intellettuale illuminista per cui le cose belle debbono realizzarsi». Ma mentre negli anni scorsi Cacciari elaborava i contenuti del futuro Pd, altri dicevano di volerlo costruire senza crederci: «È vero, almeno per la metà dei dirigenti è stato così, e la loro profezia si sta autoavverando. Chi ci credeva davvero, come Rutelii e Fassino, se n’è dovuto andare o è finito ai margini. D’Alema no, non era la sua “cosa 4”o “cosa 5”. Adesso però entreremo in campagna elettorale, il luogo meno adatto a fare chiarezza, e resterà tutto com’è. Solo dopo, forse, si potrà ragionare davvero alla necessaria separazione consensuale».
L’opposizione interna liberaldemocratica non è compatibile con questa leadership socialdemocratica: ma se si separano e poi si coalizzano possono prendere più voti
Adesso però «ci sono le risorse per costruire una forza socialdemocratica ma anche quelle per dar vita a un’altra storia, libe-
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prima pagina to del vincolo contratto, perché mancavano le condizioni essenziali per considerarlo valido. Se il Pd avrà il coraggio di fare un’analisi serena di quanto è accaduto in questi mesi, per prendere atto di un disagio che finora si è consumato da un lato in un lento stillicidio di persone che se ne sono andate in punta di piedi, e dall’altro in una più vistosa lotta per un cambiamento della leadership, forse capirà che separarsi non è un dramma e può diventare una opportunità.
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blemi. Bersani dovrebbe avere il coraggio di prendere atto che i 75 dissidenti sono in gran parte quel che resta di una Margherita ancora in cerca di identità, niente affatto ostile ai ds, ma senza voglia di fondersi con loro perché questo significa solo confondersi e confondere tanta gente che invece si attende dalla politica messaggi chiari e forti, impegni precisi e coraggiosi. Separarsi per allearsi in modo diverso, per prendere atto che ci sono molte ed ampie condizioni per collaborare, ma che questo non significa legittimare l’eutanasia di un partito, né l’egemonia di una cultura in cui non si riesce a trovare le proprie radici. La exMargherita nella sua fusione con i Ds sembra che abbia pagato il prezzo più alto, ha già perso qualche petalo e spera di poter ritrovare il piacere di fare politica senza dover sacrificare ancora una volta i propri alfabeti e il proprio linguaggio. La ex-Margherita guarda naturalmente al Centro, mentre nessuno può stupirsi se i Ds guardano più volentieri alla loro sinistra: l’alleanza tra di loro ha creato dei problemi impedendo a ciascuno di parlare onestamente con i propri elettori. Perché potevano intendersi ma non falsificare la propria carta di identità.
La ex-Margherita guarda al centro, mentre nessuno può stupirsi se i Ds guardano più volentieri alla loro sinistra: solo così possono dialogare con i loro elettori
I nomi che in questi giorni sono rimbalzati sulle testate di tutti i giornali tendono ad attribuire tutte le responsabilità ad una lotta tra la attuale classe dirigente fatta da Bersani, la Bindi, Letta e Franceschini, con i precedenti ex leader: da Veltroni a D’Alema, senza dimenticare Marini e Castagnetti, e gli aspiranti neoleader, come Fioroni, Matteo Renzi e forse anche lo stesso Ignazio Marino. Sembra una guerra per la leadership: ma non è così! Per cui se ci si attestasse solo in una nuova distribuzione di ruoli e competenze in vista di un improbabile prossimo congresso, non si risolverebbe affatto il disagio del partito democratico, perché si ignorerebbero le tensioni che vengono dalla base, da gente semplice che vuole potersi identificare con un progetto e con un programma e che esige di veder riconosciuti i propri valori per poter sperare in una soluzuone dei propri pro-
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Bersani può insegnare a Berlusconi ad accettare una separazione costruttiva e democratica da Fini, senza che questo debba rappresentare una guerra
fratricida, violenta e a tratti perfino volgare. Può insegnare che la conta non è garanzia di qualità, né di stabilità, è un puro esercizio muscolare. Per piacere, a destra e a sinistra, non processate la libertà di opinione, il coraggio delle posizioni, e la critica costruttiva. Proponete invece nuovi modelli e rilanciate una nuova fase di questa legislatura, in un clima diverso, in cui personalmente mi auguro che al centro, a destra e a sinistra pensiero e cultura politica che si riconoscono nella dottrina sociale della chiesa trovino maggiori spazi di espressione e di rappresentazione. I cattolici possono giocare un nuovo ruolo più coraggioso, se sapranno recuperare il senso di responsabilità e contribuire a imprimere a questo paese una svolta decisa verso valori più alti anche sul piano della solidarietà e della lealtà politica. La crisi della nostra politica è anche crisi di democrazia. E oggi urge tornare alle categorie della democraticità riconoscendo gli errori fatti in tutti i partiti, proponendo soluzioni non adeguatamente radicate nella storia e nella tradizione, e per questo stesso incapaci di prospettare un futuro stabile e sereno. Forse proprio le tante minoranze di cattolici presenti nei diversi partiti possono tornare a far sentire la loro voce, recuperando le condizioni di un dialogo creativo, che sappia individuare soluzioni dove altri vedono ostacoli, e sappiano essere sempre disposti a collaborare in tutti gli schieramenti, senza dissolversi in un clima di conflittualità permannete, come l’attuale, da qualunque parte lo si guardi. A Bersani la prima mossa… e Berlusconi ne terrà certamente conto, quando tra pochissimi giorni toccherà a lui.
il consiglio/4 Umberto Ranieri. «La crisi del centrodestra è gravissima: non bastano le magie di Berlusconi»
«Alleanza con Casini. Per vincere» di Gabriella Mecucci
ROMA. Il Pd ha passato nei giorni scorsi dei brutti momenti: la tensione è arrivata alle stelle dopo la raccolta delle firme fatta da Walter Veltroni. Ieri la situazione, dopo la relazione di Bersani, è sembrata stemperarsi, anche se la malattia resta preoccupante. Umberto Ranieri, come sta il malato Pd? Dobbiamo rilanciare lo sforzo per arrivare alla costruzione di un’alternativa a Berlusconi e al suo governo. Stiamo vivendo una situazione in cui la crisi del centrodestra, che pure è profonda, non determina uno spostamento degli elettori a nostro vantaggio. Non fa sì che gli scontenti e i delusi si rivolgano al Pd. È indispensabile per noi fare una riflessione attenta e individuarne le ragioni. Il dibattito nel partito è quindi giusto e auspicabile. Ed è possibile condurlo in modo non traumatico sino a giungere ad un approdo unitario. Quali sono i punti su cui il Pd deve discutere? Innanzitutto ci sono le grandi questioni che riguardano il paese. Dobbiamo avanzare proposte che riaprano il dialogo con i cittadini e facciano avvertire loro che è in campo un’alternativa seria a Berlusconi. I temi centrali sono: sicurezza, fisco, scuola, giustizia, Mezzogiorno. La seconda questione su cui riflettere sono le alleanze. Credo che dobbiamo guardare alle forze collocate al centro dello schieramento politico per intessere una proficua collaborazione e importanti convergenze.
Chi sarà il leader di questo eventuale schieramento? Ci vorrà un Papa straniero? Prima di tutto occorre parlare di programmi, poi troveremo una personalità – ce ne sono diverse – in grado di favorire la più ampia convergenza sul suo nome e di garantire agli italiani un’efficacia del governo nel realizzare i programmi. Questa è una cosa che esamineremo più avanti. A tempo e luogo. Mi lasci però dire che la crisi del berlusconismo è profondissima e il suo fulcro sta nel fatto che Berlusconi non è grado di guidare la modernizzazione del paese. Il Pd si sofferma sulla crisi di Berlusconi, ma in realtà il premier ha più volte dimostrato di sapersi riprendere e ci ha abituati a spettacolari ripartenze. La crisi attuale è diversa da quelle precedenti. È vero che Berlusconi in passato si è dimostrato capace di rapidi recuperi. Ma oggi la situazione in cui versa il centrodestra non è risolvibile con un guizzo, con una trovata. Ma il Pd che cosa fa per presentarsi come fattore di cambiamento del paese? È il momento di presentare proposte e di mostrasi come un soggetto capace di riflettere e di restare unito. Ed è
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di grande rilevanza costruire una forte alleanza riformatrice che si candidi a governare l’Italia. Parla come se le elezioni fossero vicine... La crisi del Pdl, del berlusconismo e le difficoltà del governo sono fortissime. Il fatto che il premier stia facendo la questua dei voti per tenere in piedi il proprio esecutivo ne è una prova inoppugnabile. Se tutto ciò è vero, non si può escludere che si arrivi allo scioglimento delle Camere. Ritengo, come altri, che sarebbe opportuno arrivare ad un esecutivo di responsabilità che cambi la legge elettorale. Ma, pur considerandolo auspicabile, questo è un approdo molto difficile. Sono scettico. A maggior ragione è urgente la questione delle alleanze. Prima di tutto bisogna riprendere il dialogo con il Paese, ma certo è urgente anche la questione alleanze se si vuol costruire un’alternativa credibile. Mi vuol dire esplicitamente in che direzione deve guardare il Pd? Ripeto: dobbiamo cercare convergenze con i settori democratici e liberali del centro politico. Innanzitutto dobbiamo tessere alleanze con le forze che come noi stanno all’opposizione: in primis quindi con l’Udc di Casini. Ma credo che dovremmo guardare con interesse anche a quelle forze che, pur essendo di centrodestra, si sono collocate esplicitamente in posizione critica verso Berlusconi e verso il suo governo.
Dobbiamo cercare convergenze con i settori democratici e liberali del Centro politico. Non solo con chi sta all’opposizione, ma con chi da dentro contesta il premier
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diario
pagina 6 • 24 settembre 2010
Spaccature. Patto tra i governatori del Mezzogiorno per riscrivere la delega sui costi standard. Rinviato il decreto
Federalismo: il Sud sfida il Nord
Caldoro: «Nessun passo indietro». La Polverini: «Ci sono divergenze» ROMA. Il partito dei gover-
di Francesco Pacifico
natori del Sud è stato formalizzato mercoledì sera a Roma, in un ristorante nei pressi di piazza Fiume. Ma il primo obiettivo Renata Polverini (Lazio), Stefano Caldoro (Campania), Michele Iorio (Molise) e Giuseppe Scopelliti (Calabria) (anche a nome degli assenti Raffaele Lombardo, Nichi Vendola, Vito De Filippo e Ugo Cappellacci) l’hanno già ottenuto ieri, imponendo al governo di congelare il decreto attuativo sull’autonomia fiscale delle Regioni.
Ufficialmente la richiesta di maggiore approfondimento si lega al termine per gli enti sotto commissariamento sanitario, che entro la prossima settimana devono presentare i piani di rientro. Di conseguenza non c’è tempo per discutere sulle quota di Irpef, Irap, Iva o del bollo auto da devolvere agli enti locali. E tanto basta per far slittare un pezzo di federalismo fiscale che Umberto Bossi e Giulio Tremonti avevano concordato di portare in Consiglio dei ministri il prossimo primo ottobre. Con la resa dei conti con i finiani sempre più prossima, il ministro per la Semplificazione, Roberto Calderoli, vorrebbe rispettare la tabella di marcia concordata in seno alla maggioranza.Tanto da sbottare, dopo una seduta della Conferenza Stato Regioni andata a vuoto anche per la decisione dei Comuni di rimandare il via libera alla nuova tassa unica municipale, «che di riunioni per i chiarimenti qui ne facciamo una ogni settimana». Toccherà come al solito al ministero degli Affari regionali, Raffaele Fitto, trovare una mediazione. Anche perché la partita va ben oltre il decreto attuativo sulla futura fiscalità regionale. In questo vaso di Pandora ci sono i costi standard per il pagamento delle prestazioni da scrivere sulle best practies delle tre Regioni più virtuose (Marche, Umbria e Lombardia, le principali candidate) fino allo sblocco dei Fas per i Por 2007-2013 e il Piano Sud, la perequazione nella sanità e quel miliardo per lenire i tagli della manovra che Bossi ha promesso agli enti che rispettano il patto di stabilità. Il concetto è stato chiarito ai suoi colleghi dal campano
Stefano Caldoro durante la Conferenza delle Regioni di ieri, che per primo ha parlato della necessità di fare delle simulazioni per comprendere l’impatto dato dall’introduzione dei costi standard e dalla rimodulazione del gettito di Irpef, Irap e Iva. Valutazioni, per la cronaca, difficili da fare visto che mancano cifre nei decreti finora presentati. Secondo il governatore, «nessuno mette in discussione il federalismo fiscale. Ma c’è chi tra di noi vuole accelerare la sperimentazione e così facen-
«di capire tempi e modalità del percorso legislativo perché tutti devono essere coinvolti, anche il Parlamento». Ancora più prosaico il governatore della Calabria, Giuseppe Scoppeliti: «Stiamo parlando di temi che avranno effetti tra non meno di venti, se non cinquant’anni. Ma prima di parlare dei decreti attuativi è necessario e vincolante parlare del piano per il rilancio del Sud. Perché c’è una situazione di grande difficoltà in alcuni territori, soprattutto in quelle Regioni che stanno attuando i
Lo scontro è sulla definizione delle spese medie e risente dei commissariamenti per la sanità. Nel mirino la Lega, che prova invece a accelerare do si rischia di portare avanti un modello poco innovativo, tratteggiato sull’esistente, che non supera ma acuisce le disparità tra Nord e Sud». Sulla stessa riga la presidente del Lazio, Renata Polverini: «È chiaro che ci sono divergenze tra le Regioni del Sud e quelle del Nord, che la posizione di partenza è diversa: non lo dico io, ma i dati. In questo momento però bisogna fare in modo che si arrivi a un progetto che porti ad un impianto legislativo che eviti strappi». Da qui la richiesta
piani di rientro della sanità e i tagli alla scuola hanno creato dei fermenti». Chiamati in causa, i governatori leghisti hanno risposto a tono. Il veneto Luca Zaia prima ha ironizzato che il nuovo asse del Sud «è quello che contiene tutto il deficit sanitario del Paese». Quindi ha ricordato che «i treni in corsa non si fermano. Quando si parla di federalismo e della sua attuazione. L’obiettivo, dice, è quello di andare avanti a 100 all’ora». Stesso approccio diplomatico
anche dal piemontese Roberto Cota: «La fiscalità regionale è fondamentale ed è epocale. Io aspetto di tagliare l’Irap per concludere la seconda parte del mio piano sul lavoro». Perché l’attuale schema potrebbe rallentare lo sviluppo del Mezzogiorno lo spiega Raffaele Calabrò, senatore del Pdl e consulente di Caldoro sulla partita della sanità: «Noi crediamo al federalismo come arma per riequilibrare la spesa, ma questo processo finisce per
non superare una ripartizione sul fondo sanitario che non soltanto è delineato sull’Italia dell’anno 2002, ma considera soltanto l’età della popolazione e non le condizioni socioeconomiche delle Regioni. E questo penalizza molto una realtà giovane come la Campania, facendole registrare una perdita di fondi pari a 400 milioni». Allo stesso modo non si interviene sulla legge per gli investimenti sulle strutture sanitarie e sul personale, che di fatto condanna il Sud al blocco del turn over. Eppoi c’è la questione del Patto di stabilità interno, anch’esso basato su benchmark del 2005 e che finisce per permettere alle Regioni di quest’area di poter impegnare soltanto il 75 per cento delle spesa di competenza, costringendo i governatori a indebitarsi, se vogliono garantire i servizi essenziali. In quest’ottica vanno lette le trattative sulla definizione dei costi standard. Intanto, perché come ricorda Calabrò, il Sud rischia di non potere dire la sua visto che «l’ultima versione del decreto dice che i benchmark saranno scelti tra le tre Regioni che in una griglia di cinque hanno mantenuto i conti in ordine e garantito la migliore qualità dei servizi. Se non ci sono tre enti con queste caratteristiche, si passa a quelli con migliore prestazione economica».
Se da un lato il governo promette che i costi futuri della sanità o del trasporto pubblico non si delineranno su isole felici come le Marche, l’Umbria o la Lombardia, dall’altro l’ultima versione del decreto finisce per imporre standard così elevati che potrebbe portare in default metà del Paese. La partita si sbloccherà soltanto il 13 ottobre prossimo, quando al tavolo di monitoraggio sulla spesa sanitaria, il governo darà il suo giudizio sui piani di rientro di Campania, Lazio, Calabria e Molise. Se, come è probabile, si va verso una promozione per Palazzo Santa Lucia, rischiano di ulteriori correzioni la Polverini, Scopelliti e Iorio. Non meno decisivo anche il pressing che il ministro Fitto sta facendo per portare a breve in Consiglio dei ministri il piano Sud, propedeutico per sbloccare quasi 25 miliardi in fondi Fas, che il governo intende riprogrammare.
diario
24 settembre 2010 • pagina 7
L’organizzazione comprava le vincite a prezzi maggiorati
Assenti dalla riunione tutti i consiglieri del centrodestra
’Ndrangheta, riciclaggio anche con l’enalotto
Salta il cda Rai, la Dandini resta ancora senza contratto
REGGIO CALABRIA. Nuovo
ROMA. Fumata grigia per Serena Dandini, che a meno di una settimana dalla messa in onda di Parla con me non ha ancora un contratto. Assenti dal consiglio di amministrazione della Rai i delegati della maggioranza Verro, Rositani, Gorla, Petroni e Bianchi Clerici, non è stato raggiunto il numero legale. Dura la presa di posizione della redazione del talk-show di Rai3: «Senza contratto non possiamo andare in onda – fanno sapere – adesso si pronuncino in modo da capire se vogliono o meno il programma».
colpo al clan dei Lucà, in Calabria. Sequestrati beni per un valore di oltre 5 milioni di euro e confiscati due immobili a Marina di Gioiosa Jonica. Ma la vera particolarità che emerge dalle indagini dei carabinieri del Ros, una conferma di sospetti che da tempo si addensavano sul mondo dei giochi e delle lotterie, è che per riciclare i proventi del traffico internazionale di droga la ’ndrangheta faceva anche ricorso al sistema delle vincite. In sostanza l’organizzazione criminale riciclava «somme ingentissime» acquistando dal reale vincitore del Superenalotto le schedine vincenti e facendosi poi accreditare le vincite dalla Sisal di Milano su conti correnti accesi appositamente, sottraendosi così al rischio di segnalazioni per operazioni sospette. La tecnica sarebbe stata adottata in particolare per una super-vincita realizza a Locri, nella ricevitoria del suocero di Nicola Lucà già condannato a 14 anni di reclusione per associazione finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti
Nei confronti dei membri della cosca una indagine internazionale aveva portato all’arresto di 154 persone e al sequestro di oltre 5.000 chili di cocaina (altri 7.800, è stato accertato, erano già stati importati). Ed era già stata eseguita una confisca di beni mobili e immobili, costituiti da esercizi commerciali, abitazioni, terreni, veicoli, per un valore di circa 20 milioni di euro, mentre una somma di 5,6 milioni di euro, parte in contanti e parte in polizze vita, era stata individuata su conti correnti e di deposito della Unicredit Banca di Milano e Soverato (Catanzaro), riconducibili appunto a Nicola Lucà.
Ancora un record per la disoccupazione Sale all’8,5%: i senza lavoro ora sono 2,136 milioni
Un rinvio che ha scatenato le proteste di Giorgio Van Straten: «Se anche venisse dato il
di Gualtiero Lami
ROMA. Lo hanno e detto e ripetuto tutti in tutte le lingue e ogni indicatore economico lo conferma, ma poi quando escono i dati sulla disoccupazione si finge rammarico e stupore. Perché se i conti economici relativi all’industria paiono in risalita dopo la crisi del 2009, quelli relativi al lavoro ci dicono che il peggio deve ancora venire.
Anzi: la ripresa industriale in qualche modo è direttamente proporzionale all’aumento della disoccupazione. Ed è proprio per questo che la disoccupazione ha raggiunto livelli record anche nel secondo trimestre dell’anno, nonostante la ripresa dell’economia produttiva. Ma, quel che è peggio, si tratta di un record su un altro record: visto che anche il trimestre precedente aveva fatto segnare dati preoccupanti e superiore ai periodi anteriori. Insomma, nel trimestre aprile-giugno - comunica l’Istat - il tasso di disoccupazione è salito all’8,5%, con un aumento di 0,1 decimi di punto rispetto al primo trimestre e di 1 punto nel confronto con il secondo trimestre dell’anno scorso. L’8,5% è il dato più elevato dal terzo trimestre del 2003. L’incremento tendenziale della disoccupazione si concentra nel Nord tra gli ex-occupati; nel Centro e nel Mezzogiorno tra gli altri gruppi dei disoccupati. Alla crescita della disoccupazione si accompagna un moderato aumento degli inattivi rispetto al secondo trimestre 2009 (+92.000 mila unità), sintesi di una lieve riduzione delle non forze di lavoro italiane e di un ulteriore incremento di quelle straniere. La caduta tendenziale dell’occupazione riflette il sensibile calo della componente maschile (1,2%, pari a -172.000 unità) e la contenuta flessione di quella femminile (-0,2%, pari a 23.000 unità).
dieci anni. Ad aprile-giugno – sempre secondo l’Istat - il numero delle persone in cerca di lavoro ha raggiunto quota 2,136 milioni, con un aumento dell’1,1% rispetto al primo trimestre (+24mila persone) e del 13,8% su base annua. Era dal secondo trimestre del 2001 che non si raggiungeva un livello così alto di disoccupati. Prosegue la forte riduzione degli occupati italiani (-257.000 uomini, pari al -2%; -108.000 donne, pari al -1,3%) a fronte di un nuovo significativo incremento degli stranieri (+85.000 uomini e +86.000 donne). A livello territoriale, alla riduzione del Nord (-0,9%, pari a -114.000 unità) e del Mezzogiorno (-1,4%, pari a 88.000) si accompagna la sostanziale stabilità del Centro. Con riferimento alla crescita tendenziale dell’occupazione in Valle D’Aosta, nella provincia autonoma di Bolzano, in Friuli V. Giulia, nelle Marche e nel Lazio, si segnala che gli intervalli di confidenza, al 95% di probabilità, si sovrappongono dando luogo a variazioni statisticamente non significative. Il tasso di occupazione degli uomini tra i 15 e i 64 anni scende, nel secondo trimestre 2010, al 68% (-1,1 punti percentuali su base annua), quello delle donne al 46,5 per cento (-0,3 punti percentuali). Dal primo trimestre del 2009, e nonostante la crescita del numero di occupati, il tasso di occupazione degli stranieri continua a ridursi, posizionandosi al 63,6% (65,2% nel secondo trimestre 2009). Per gli stranieri, l’indicatore si attesta al 76,1% tra gli uomini (78,4% nel secondo trimestre 2009) e al 52,1% tra le donne (52,7% nel secondo trimestre 2009).
La situazione diventa drammatica per i giovani: nella fascia tra 15 e 24 anni, uno su quattro è senza prospettive
Il numero reale degli italiani senza lavoro, comunque, è quello che colpisce di più, perché non solo i disoccupati sono in forte aumento ma raggiungono il livello massimo da quasi
Naturalmente, questa situazione da grave diventa drammatica per i giovani che sono i più colpiti dagli effetti della crisi del 2009: oltre un giovane su quattro in Italia è disoccupato. Il tasso di disoccupazione dei giovani di 1524 anni, segnala l’Istat, nel secondo trimestre del 2010 raggiunge il 27,9%. Anche in questo caso si tratta di un record: è il dato più alto dal secondo trimestre del 1999.
via libera martedì in mattinata, un programma non si può fare in mezza giornata. Trovo che si sia creata una situazione imbarazzante e piuttosto grave. Sarebbe il caso di fare chiarezza: dicano se il programma deve andare in onda o no». Ma Antonio Verro, consigliere della maggioranza in quota Pdl, sparge acqua sul fuoco: «Nessuna interpretazione da retroscena politico. Non c’è dietrologia da fare. Il Cda è saltato perché convocato quando alcuni di noi avevano preso già altri impegni». Dove per alcuni, sta per tutti i consiglieri dell’esecutivo. Ne sarebbe bastato uno per non invalidare la riunione. Ma Verro rassicura: «Per me la Dandini può andare in onda, il suo contratto è a posto». La prossima riunione del Cda Rai è fissata per martedì 28 settembre, giorno della messa in onda del programma, ma il consigliere del Pdl non pare crucciato dalla strana tempistica riservata alla Dandini: «Nel caso lei decidesse di non far partire il programma martedì 28, vorrà dire che potrà slittare anche di una settimana. Credo che gli italiani possano sopravvivere sette giorni in più senza di lei...». Le conversazioni in quel di Trani, non lasciavano presagire tempi così celeri.
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politica
29 settembre. La casa di Montecarlo allontana ancora di più i co-fondatori, tanto che il premier non sa che tipo di votazione chiedere al Parlamento
È guerra sui servizi Fini e Berlusconi continuano a litigare. Ma scoppia il giallo del voto in Aula: ci sarà o no la fiducia? di Riccardo Paradisi n quale formazione e con quali intenzioni il premier Berlusconi si presenterà alla Camera il prossimo 29 settembre è ancora un’incognita. Una linea definita del resto ancora non c’è, le idee non sono chiare a Palazzo Grazioli. Si oscilla tra l’ipotesi di una mozione del presidente del Consiglio che chiederà consenso al parlamento sui cinque punti del programma e un voto di fiducia in piena regola che però appare sempre più improbabile visto il livello che ha rag-
I
C’è chi rilancia la via diplomatica e parla di abbassare i toni ma Bocchino (Fli) rilancia la tesi del complotto contro il presidente della Camera e chiude i negoziati sul processo breve mentre il Pdl chiede le dimissioni di Fini
Catone va con i finiani; Souad Sbai torna con i berlusconiani
Ora tra i due gruppi è sfida anche per contendersi i parlamentari di Marco Palombi
ROMA. «Ma le avete messe le porte gi- re il numero 35: Souad Sbai infatti, revoli al palazzo dei gruppi?». Scherza così una cronista con un funzionario della Camera nel giorno della girandola dei passaggi di campo. La schedina, in attesa dei prossimi turni, recita: Pdl uno a due, Fli uno a uno e Udc uno a zero. La compravendita di voti o il ritorno a casa, che poi corrisponde al al parlamentarismo dei tempi andati, inaugurato da Silvio Berlusconi per sostituire i finiani ha ormai spalancato il vento del riposizionamento: tra gente che passa e gente che passerà ormai a Montecitorio si vive col pallottoliere in mano. Sussurri e grida su deputati pronti a cambiare partito, schieramento, idee, numero di conto in banca. Ieri l’accelerazione è stata brusca: Italo Bocchino aveva annunciato un paio di settimane fa l’arrivo del 36esimo onorevole finiano e ora è arrivato.
Si tratta di Giampiero Catone, già
giunto lo scontro tra Berlusconi e il presidente della Camera. Nella riunione dei senatori Pdl di ieri per preparare la giornata del 30 – quando Berlusconi dopo aver parlato alla Camera, si presenterà al Senato per chiedere il voto sui punti programmatici – si è solo stabilito di impegnare i membri del gruppo a restare per il voto. Ma «che cosa si voti, una fiducia o
assistente di Rocco Buttiglione nel Ccd, poi passato alla Dc di Rotondi e di qui nel Pdl col suo Movimento politico «La Discussione» (600 circoli, oltre 300 amministratori locali e un quotidiano, quello omonimo fondato nientemeno che da Alcide De Gasperi). «Il Pdl – ha spiegato ieri in conferenza stampa accanto a Italo Bocchino e Silvano Moffa - è lontano dai territori» e nelle mani di «personaggi attenti ai giochi di palazzo e lontani dai problemi della gente». Il Cavaliere avrebbe provato a trattenerlo fino alla fine: «Ho avuto mercoledì un lungo colloquio telefonico col premier e l’ho visto stamattina (ieri, ndr) alle 9.30. Gli ho detto che i suoi “inviati” non sono certo alla sua altezza e lui alla fine non ha potuto far altro che prenderne atto». Il capogruppo finiano era soddisfatto: «Non si tratta di calciomercato. Abbiamo una serie di contatti con parlamentari del Pdl che pensano, come Catone, che il partito non ha più nulla a che vedere col progetto originario di Berlusconi». Insomma, gongola Bocchino, «altri colleghi hanno avviato il percorso: il dato è che siamo destinati a crescere».
Neanche il tempo di dirlo che il trentaseiesimo deputato torna a esse-
dopo un tormento durato due mesi, ha annunciato ieri di aver deciso di tornare alla casa del padre, anzi no dello zio Berlusconi, visto che il suo padre politico è Gianfranco Fini. L’onorevole di origini marocchine è andata dal presidente della Camera e gli ha spiegato la sua scelta: «Io sono libera. Non voglio farmi schiacciare prima dai “falconi” e ora dai “falchetti”, non ne posso più di sentire ogni giorno un’intervista di Bocchino e Granata che dicono cose non concordate col gruppo e che io non condivido», ha scandito dopo un’ora di colloquio con Fini e prima di presentarsi in conferenza stampa con Cicchitto e Bondi. Il finiano Fabio Granata non se ne dispiace più di tanto: «Catone è sicuramente meglio di Sbai». Lei non ha battuto ciglio: «C’è malessere dentro Fli, altri mi seguiranno». Per il Pdl, comunque, la giornata non s’è chiusa con un pareggio: il partito del predellino ha perso anche il piemontese Deodato Scanderebech, eletto nelle liste dell’Udc, arrivato da poche settimane alla Camera in sostituzione di Michele Vietti e inizialmente sedutosi tra i berlusconiani. «È una questione di coerenza e rispetto della volontà popolare – ha spiegato ieri - Sono stato eletto con l’Udc, avevo lasciato il partito per problemi legati al territorio che ora sono risolti. Ho cercato una mediazione e un raccordo per un riavvicinamento fra Casini e Berlusconi, ma il clima ora non lo permette». Non solo lealtà politica, però, anche un inatteso risvolto umano: «Diciamo che ho avuto problemi ambientali e umani: il Pdl è un partito in cui non cè molta dialettica politica, è un partito grande, molto diverso dall’Udc. Il segretario centrista Cesa ne ha lodato “la correttezza”e gli ha dato il benvenuto, non prima di aver messo una pezza alla grana di giornata: ha dato solidarietà a mezzo stampa al deputato foggiano Angelo Cera, «oggetto di numerosi attacchi su organi di stampa locale», che aveva dichiarato di non sentirsi tutelato dai vertici dell’Udc, che lo stavano spingendo «fuori dal partito».
una mozione, non è dato sapere» come diceva perplesso un senatore del Pdl. Lo stesso capogruppo Maurizio Gasparri è ipotetico su questo punto: «Non credo che si voterà la fiducia sulle dichiarazioni del premier. Probabilmente ci sarà una votazione su un ordine del giorno». Gasparri si è comunque mostrato sereno sull’andamento del dibattito e sul successivo voto del 30 settembre: «Noi siamo sicuri delle nostre ragioni, la maggioranza c’è e penso che ci sia la possibilità di allargarla».
Il riferimento non è solo agli oriundi della ”responsabilità nazionale”ma anche alla possibilità di mantenere aperta la collaborazione con i finiani di Futuro e libertà. In effetti nel gruppo al Senato la situazione è più distesa rispetto alla Camera e lo dimostra il fatto che negli interventi che si sono susseguiti, non si sono sentiti attacchi nei confronti di Gianfranco Fini. Questo in Senato, perché alla Camera continuano a volare accuse e colpi bassi«Berlusconi scelga se trattare con Fli per la riforma della giustizia o se continuare ad avallare la linea editoriale del Giornale su Fini e la casa di Montecarlo è l’ultimatum del capogruppo a Montecitorio di Futuro e libertà Italo Bocchino». Sulla riforma della giustizia Bocchino, ha poi chiarito che Fli era d’accordo al 95% «perché non condividevamo il processo breve così come era stato scritto.Tolto il processo breve di mezzo, siamo d’accordo al 100%. Ma non è questo: Berlusconi deve capire che non può mandare Alfano e Ghedini a trattare con me e Giulia Bongiorno e poi ricevere Feltri e Sallusti per propalare delle patacche contro il presidente della Camera». Già perché sul tavolo resta come una palla incandescente l’affaire monegasco e le accuse dei finiani ai servizi segreti deviati che avrebbero confezionato la trappola dei finti documenti per
politica fanno parte dell’agenda di governo e la disponibilità a discutere della costituzionalizzazione del lodo Alfano. Ma di fronte a quella che secondo i futuristi è un’opera di dossieraggio non ci sono più ragioni di usare le vie brevi di un accordo preventivo. Si seguano quindi le vie regolamentari – dicono adesso gli uomini di Fini – Alfano venga in parlamento con un testo e loro lo discuteranno con i tempi e con i modi previsti dai regolamenti parlamentari.
«Una volta evocati dossieraggi e servizi segreti – dice il segretario Udc Cesa – non possono rimanere dubbi su questi argomenti: se fosse vera anche solo una parte, sarebbe un elemento di preoccupazione per la nostra democrazia»
incastrare il presidente della Camera. «Accuse da irresponsabili» le ha definite Berlusconi che tendono a minare la credibilità delle istituzioni. I finiani replicano spiegando di aver puntato il dito non contro l’intelligence istituzionale ma la fondata possibilità, ”come accaduto in passato”, che siano in azione frange di ”servizi deviati”impegnate in ”azioni torbide”. Insomma questo è il clima, tanto venefico da sconsigliare, per ora a Berlusconi di rischiare di porre la fiducia e rischiare la rappresaglia finiana. Anche se i finiani continuano a distin-
Nella pagina accanto Italo Bocchino Sopra il presidente del Consiglio Sotto ancora il premier Berlusconi e il presidente della Camera Gianfranco Fini
guere i piani a garantire che non c’è nessun problema di tenuta della maggioranza, a ribadire la loro appartenenza al centro destra, il voto di fiducia per tutta la legislatura sui temi che
La strategia è sempre la solita: addossare la responsabilità dell’eventuale rottura definitiva all’avversario interno, lasciare a lui l’onere della mossa. Intanto i finiani continuano a mandare avvertimenti, a praticare una guerriglia scientifica di cui fa parte naturalmente il congelamento delle trattative sulla giustizia cosa che ad Alfano e Berlusconi crea un problema serio, perché ritarda un iter che il Cavaliere pensava potesse essere sufficientemente breve da evitargli le tagliole giudiziarie. Su questo impasse non si ferma la guerra di posizione tra Pdl e Futuro e libertà. E così anche il moderato Pasquale Viespoli dice che sconcerta ”il clima torbido” dei servizi giornalistici sulla casa di Montecarlo. «È come se qualcuno avesse un interesse ad interrompere il filo del dialogo all’interno della maggioranza proprio quando questo filo si era riannodato». Per Viespoli «bisogna rispettare il patto con gli elettori perché la stabilità è un valore. Il Governo ha il dovere di governare, ma è indispensabile che torni la politica e venga recuperato il confronto. Per questo, però, deve cessare un degrado che delegittima la politica, le istituzioni e la stessa informazione». Tradotto: margini di trattativa ci sono ancora ma deve finire il bombardamento sul quartier generale finiano. Ma altro che abbassare i toni: da un lato infatti il portavoce del Pdl Capezzone chiede le dimissioni di Fini da presidente della Camera dall’altro il coordinatore del partito Ignazio la Russa in merito alla casa di Montecarlo lancia la sfida ai finiani: «Se qualcuno pensa all’esistenza di un dossieraggio, con l’ausilio per giunta dei servizi segreti, lo vada a denunciare alla magistratura. Sarebbe un reato. Quando si è parlato per mesi delle presunte donnine di Berlusconi nessuno si e’sognato di mettere in mezzo i servizi». Venne messa di mezzo la mafia, infatti, da parte del leader della Lega Bossi. Comunque questa vicenda dei veri o falsi dossier è un macigno che rischia di produrre una valanga istituzionale. Per questo il segretario dell’Udc Cesa chiede che Il Copasir faccia luce sulle accuse di ”dossieraggi” contro il presidente della Camera per la vicenda della casa di Montecarlo. A sollecitare l’intervento del Comitato parlamentare sui Servizi è il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa. «Mentre il Paese scivola sempre più verso il baratro, la maggioranza è impegnata quotidianamente nelle polemiche interne e a scambiarsi accuse di dossieraggio. Tuttavia, una volta evocati, non possono rimanere dubbi su questi argomenti: se fosse vera anche solo in parte, rappresenterebbe un elemento di grande preoccupazione per la nostra sicurezza e la nostra democrazia». Un clima che viene alimentato con rivelazioni dosate, usate come stillicidio
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polemico: «Il dossier è stato prodotto ad arte da un persona molto vicina a Berlusconi che ha girato per il Sudamerica di cui al momento opportuno saprete il nome», rivela ancora Italo Bocchino nel corso della conferenza stampa di presentazione dell’adesione di Giampiero Catone al gruppo dei finiani. Che si tratti di un’operazione di dossieraggio, per Bocchino è poi dimostrato dal fatto che Il Giornale «ha lasciato un impronta digitale perché ha scritto sette giorni prima che accadesse, che degli 007 sarebbero andati ai Caraibi per prendere dei documenti». Su questa linea insite anche il finiano Carmelo Briguglio, membro del Copasir, che invita Palazzo Chigi «a guardare al giornale della famiglia Berlusconi, che il 17 settembre, con un articolo di Stefano Zurlo scrisse ”i servizi segreti seguono la pista che porta ai Caraibi”. È seguita una smentita dei servizi a cui credo, ma penso che questa vicenda debba essere approfondita nella sede del Copasir. E infatti ne farò formale richiesta nella prossima riunione del Comitato». Da questi indizi Briguglio deduce che «c’è un’azione irresponsabile di dossieraggio contro il Presidente della Camera che dura da molto tempo e coincide, questo è inquietante, con i tempi della crisi politica tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Camera. Questa è la chiave di tutto. Non sarebbe la prima volta che funzionari pubblici lavorano dietro richieste personali, ecco perché il Copasir deve svolgere il massimo controllo».
Ora la valutazione da fare è questa: basta la manciata di giorni che ci divide dal 29 settembre per far abbassare il termometro politico all’interno della maggioranza? Forse si. Del resto a questo punto tutto è possibile e si è presa l’abitudine a questi continui up and down della maggioranza, a queste accelerazioni polemiche cui segue l’inevitabile tregua preludio a nuovi scontro al calor bianco. Del resto ognuno dei finiani che sono al governo intendono restarci e nessuno, tranne forse la Lega, nella maggioranza e fuori, vuole andare alle elezioni subito. Sicchè il prossimo 29 settembre ci sarà un voto e sarà un voto di approvazione dell’intervento del presidente Berlusconi, sulle prospettive di governo. Un intervento che si terrà sulle generali e sul progetto e che eviterà polemiche. Nel Pdl sono anche sicuri che il consenso sarà molto ampio e andrà a raccogliere tutti quelli che sono stati eletti con la maggioranza, compresi quelli si erano dispersi. «Credo che avremo un consenso che sarà alla Camera di oltre 340 voti – dice addirittura Gasparri – ed anche al Senato sarà più ampio che in passato». Tutto è possibile. È quindi possibile anche che la situazione da qui al 29 non svelenisca e anzi possa acuirsi fino al climax della crisi politica e istituzionale e che Berlusconi sull’onda della precipitazione possa presentarsi alla Camera giocandosi tutto, attaccando i finiani e chiedendo il consenso sulla sua persona e il suo progetto. A frenare questo scenario estremo è la paura che tutti hanno del voto. Che forse non sarà a dicembre «ma a marzo andiamo a votare – come diceva ieri un senatore del Pdl – e forse è una soluzione. Qui ormai navighiamo a bussola impazzita».
l’editoriale
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Israele-Usa
Ban Ki-moon ignora i progetti di cambiamento
La riforma impossibile del Palazzo di Luisa Arezzo essuno ha prestato troppa attenzione, ieri, al discorso pronunciato in apertura dell’Assemblea Generale dell’Onu dal suo segretario generale, Ban Ki-moon. Come era naturale l’intervento di Barack Obama ha monopolizzato tutti i media. Ma quello del Segretario era sottile e, soprattutto, apriva la sua personale campagna elettorale per un secondo mandato, visto che il primo è prossimo a scadere nel 2011. Come spesso accade, più che concentrarci su ciò che ha detto (grande impegno sul clima, rispolverando la sfida già lanciata al summit di Copenaghen dei tre cinquanta), è più importante soffermarsi su ciò di cui non ha parlato: la riforma dell’Onu. Che fino a ieri doveva essere uno dei grandi temi in agenda, ma che Ban Ki-moon, per l’appunto, ha preferito toccare solo “di striscio”. Facendo intendere che al momento lui non si impegnerà in questa direzione. Eppure da almeno dieci anni si è più o meno tutti concordi su un punto: il multilateralismo conosciuto nella seconda metà del Novecento e figlio della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, dopo il crollo del muro di Berlino, dopo l’11 settembre, dopo l’attacco preventivo all’Iraq (e la guerra in Afghanistan), è arrivato al suo canto del cigno. E oggi si pone il problema di come rifondare le regole del gioco di un sistema di governance che si vorrebbe basato sul consenso e sulla legittimità e non sui rapporti di forza. Le soluzioni principali in discussione sul tavolo sono due: riscrivere la Carta dell’Onu alla luce delle nuove minacce e della necessità di prevenire la cosiddetta “ingerenza umanitaria”, che può evolvere in “guerra preventiva” vera e propria; oppure applicare fino in fondo la Carta così com’è, visto che per molti, il difetto, è stato proprio quello di non averlo fatto, aprendo la strada alle interpretazioni più diverse.
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Con la doppia spada di Damocle paventata dai Paesi arabi, che vedono gravare sul Sud del mondo sia la minaccia del terrorismo che quella di un Occidente pronto a “sparare nel mucchio” del mondo arabo. La verità, però, è che i revisionisti sono sostanzialmente gli esclusi dal vertice dell’Onu, considerato questo il club dei Cinque che hanno il diritto di veto: Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito. In prima linea, tra i revisionisti, Germania e Giappone, ma anche India, Nigeria, Brasile: insomma tutti coloro che, alla fine, si accontenterebbero di una“revisione”che li promuovesse a membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Queste divisioni fanno il gioco di chi non vorrebbe modificare lo status quo, temendo che ogni cambiamento si risolverebbe a suo danno. In questo campo c’è l’Italia, ma insieme a medie potenze che si riterrebbero declassate sul piano internazionale se i loro contigui venissero promossi: tipo Argentina, Messico, Canada, Egitto, Indonesia, Australia, Sudafrica, Turchia, Spagna, Pakistan e altri. La questione è particolarmente acuta per il mondo arabo, che con un miliardo di musulmani non è rappresentato nel Consiglio e “accusa”i ”cristiani”di avere quattro seggi (il quinto è cinese). L’Arabia Saudita avrebbe il prestigio, ma l’Egitto non è da meno, e poi ci sarebbe l’Iran, che non è arabo, ma è musulmano. Senza contare che è sciita e la maggioranza sunnita non gradirebbe una tale scelta. Una cosa è comunque certa: i progetti di riforma presentati nel 1995, in occasione del 50esimo anniversario, sono stati ignorati. I cambiamenti attesi per il nuovo millennio, si sono dissolti nel nulla. I piani presentati nel 2005 (60esimo anniversario) si sono risolti in “molto clamore per nulla”e infine dimenticati. E dalle poche parole spese da Ban Ki-moon anche questo 2010 sembra volgere al peggio.
il fatto Onu. Il presidente Usa tende la mano a Teheran ma difende Israele da Ahmadinejad
La sedia promessa
Obama: «La mia speranza è che il prossimo anno anche un diplomatico dello Stato palestinese possa assistere all’apertura dell’Assemblea Generale» di Antonio Picasso utto era pronto per un intervento deciso, ma comunque equilibrato. Le previsione sono state compromesse da un discorso che molti giudicheranno, altri criticheranno perché autolesionista. Quel che avrebbero detto Obama e Ahmadinejad era stato anticipato già nella mattinata di ieri, almeno in parte. Gli interventi all’Assemblea Generale dell’Onu, dei due presidenti, quello statunitense e quello iraniano, ma soprattutto quello del primo passeranno alla storia come due momenti di alta tensione al Palazzo di vetro. I seggio della delegazione israeliana è rimasto vuoto perché è Sukot, la festa delle capanne, uno dei momenti di maggior riflessione per la religione ebraica. Nonostante questo, i giudizi dei media non hanno dato peso alla giustificazione addotta dai diplomatici israeliani. Il loro è apparso infatti come un palese boicottaggio al presidente degli Stati Uniti.
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Il presidente Usa si è presentato armato di quelle buone intenzioni che hanno ispirato fin dall’inizio la sua Amministrazione. Ma, va detto, che proprio queste sono state la causa dei suoi maggiori problemi in politica estera per gli Stati Uniti. Ieri questo canovaccio si è ripetuto. L’inquilino della Casa Bianca è tornato a parlare del processo di pace israelo-palestinese, sottolineandone la priorità non solo per gli Usa, ma per l’intera comunità internazionale. Non a caso, Obama ha volto lo sguardo ai seggi occupati dalle nazioni arabe, che da sempre appoggiano la causa palestinese. «Mostrate a Ramallah in maniera concreta la vostra amicizia», ha detto. Un invito che sottintende come la pen-
sino a Washington e cioè che quella della Lega araba sia sempre stata una linea di condotta unicamente formale e non un impegno concreto. A proposito di Ramallah, Obama ha riposto la sua totale fiducia nelle mani del presidente dell’Autorità palestinese, Abu Mazen. Quest’ultimo è, a suo giudizio, il solo uomo che potrà condurre il popolo palestinese al riconoscimento del loro Stato. Il presidente ha indicato l’erede di Arafat come un «eroe che, a differenza di coloro che vogliono distruggere Israele con i razzi e con i missili, potrà ottenere i veri risultati per vie diplomatiche». Fin qui il discorso non ha fatto una piega. Poi il disastro. «La mia speranza è che il prossimo anno anche un diplomatico dello Stato palestinese possa assistere all’apertura dell’Assemblea Generale». Abu Mazen non poteva sperare di meglio, vista la sua situazione di profonda debolezza presso il suo popolo. Obama, facendosi ancora una volta carico di un impegno temporale di breve scadenza, gli ha offerto un assist prezioso. Il problema è emerso dalla parte israeliana. La loro assenza era apparsa già all’inizio come un segnale di provocazione. Poi queste parole hanno condizionato sensibilmente l’Assemblea Generale in favore dei palestinesi e di un Obama che, forse, non pensava di essere strumentalizzato in modo così evidente.
D’altra parte, per compensare questa linea espressamente filo-palestinese, ha ricordato che i colloqui di pace partono da un presupposto che nessuno potrà mettere in discussione. «No Israel, no Palestine!» ha dichiarato. Ma questo non ha valore. Ciò che conta è che Washington, per la prima volta in sessant’anni di
l’intervista
«La pace? Il nodo sono gli insediamenti» Yeoshua: Vi spiego perché il presidente americano non può prendere posizioni chiare braham Yehoshua ne è convinto: i banchi vuoi israeliani ieri all’Onu durante il discorso del presidente Obama non erano una provocazione. Ma solo l’osservanza di una festa ebraica, il Sukkot, detta anche festa delle Capanne o festa dei Tabernacoli. È le terza festa ebraica del mese di Tishrei ed una delle più importanti ricorrenze dell’ebraismo. È anche una delle tre festività legate ad un pellegrinaggio quando, nei tempi antichi, il popolo si recava al Tempio di Gerusalemme per offrire doni sacrificali. «Sukkot - continua lo scrittore - è una giornata particolarmente gioiosa, che riunisce il tema religioso con gli elementi dell’agricoltura, ha origine nella Torah e ricorda le capanne dove il popolo d’Israele viveva durante l’esodo nel deserto, dopo la fuga dall’Egitto». Punto. Fine della questione che ha agitato, per qualche ora, i media di mezzo mondo. Ma la sua calma e il suo aplomb si perdono quando si comincia a parlare del processo di pace. «L’unico vero problema è quello degli insediamenti nel West Bank e a Gerusalemme Est. A tutti gli effetti, non c’è nient’altro che faccia da ostacolo al processo di pace». Abraham Yehoshua è categorico nel sintetizzare un problema che va avanti da oltre sessant’anni e nel riportarlo a un’unica soluzione. Il narratore e drammaturgo israeliano è famoso in tutto il mondo per le sue opere che trasmettono un messaggio di tolleranza interreligiosa. Ma ha una domanda da porre ad Obama: «Presidente, che cosa fattivamente ha intenzione di fare su questo punto?». Professor Yeoshua, sta dicendo che il presidente Obama
A
non si sta impegnando abbastanza in questo processo di pace? Assolutamente no. Barack Obama è un uomo molto serio e personalmente ho grande fiducia in lui e nella sua azione. Ritengo che stia cercando di fare del suo meglio e sia intenzionato ad arrivare a un risultato. Sì, però le sue parole lasciano intendere anche un’insoddisfazione... È vero. Io vorrei capire qual è la posizione del Presidente sugli insediamenti. Ma Obama è stato molto chiaro nel chiedere a Israele un’estensione della moratoria al riguardo...
“
Se un solo diplomatico israeliano si fosse presentato all’Assemblea, nel nostro Paese ci sarebbe stata una sommossa
”
Sì, ma queste parole le abbiamo sentite migliaia di volte. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Io invece sono quarant’anni che chiedo all’America - e lo faccio di nuovo, girando la questione a questa Amministrazione - «Che cosa proponete di fare, fattivamente, al riguardo?». Sta dicendo che come nel classico scaricabarile lasciano la questione degli insedimaneti interamente a carico di Israele? Assolutamente sì. Non c’è una proposta da parte loro. Eppure dovrebbero farsene carico anche lo-
ro. La maggioranza degli israeliani stanno aspettando questo. E in che modo il Presidente dovrebbe intervenire? Ma ha moltissime vie per farlo: palesi e sotterranee. Non gli mancano certo i mezzi. Ripeto, sono quarant’anni che lo chiedo all’America: «Come pensate si possa risolvere il problema degli insediamenti?». La questione è tutta qui, lo sa perfettamente anche Netanyahu, che vuole arrivare alla pace. Il presidente, in compenso, ieri ha detto che spera, il prossimo anno, di vedere fra i membri dell’Onu anche il rappresentante dello Stato palestinese. Non pensa che abbia guardato un po’ tropo avanti? Non crede che fosse prematuro fare un’affermazione di questo tenore? No. Obama lo ha detto chiaramente che spera di concludere il processo di pace nell’arco dell’anno. Tempi condivisi anche dal premier Benjamin Netanyahu. Non credo ci fosse volontà alcuna di forzare la mano. Piuttosto la sua era la riaffermazione di un processo di marcia che ormai è stato intrapreso e che anche Israele spera possa vedere una conclusione positiva. Dunque lei non crede affatto che i banchi vuoti della delegazione israeliana durante il discorso del presidente fossero una provocazione concordata contro tali dichiarazioni? Come sa. sono in tanti ad aver letto quegli scranni muti come una nuova tensione fra l’Amministrazione e Israele... Ma come si può pensare, proprio in questo preciso momento storico, che Natanyahu voglia entrare in diretta collisione con la presidenza
aperto conflitto israelo-palestinese, si è lasciato trasportare dal pathos del momento. Obama si è dimostrato incapace di destreggiarsi fra le manipolazioni della diplomazia Onu. Il suo iniziale atteggiamento cerchiobottista è stato annientato dal fragore degli applausi della Assemblea. Certo, ha incensato di ammirazione Abu Mazen, pur vincolandolo a una condizione che finora nessun leader palestinese - nemmeno Arafat - è riuscito a far accettare in modo schietto e sincero da tutto il suo popolo. Ha respinto inoltre ogni provocazione iraniana. Anche in questo caso, però, Obama si lasciato sfuggire un «porta sempre aperta alla diplomazia con Teheran», come lui stesso ha dichiarato.
scarso successo, stanno facendo l’impossibile per riscattare la loro immagine presso le Nazioni Unite. «Non esiste diritto più fondamentale che la possibilità di scegliere i propri leader. Ma non ci devono essere equivoci: il successo della democrazia non può essere imposto dagli Stati Uniti». Ha detto il presidente, ribadendo la sua linea di multilateralismo. Ma tutto questo ha poco peso rispetto alla nuova crisi che potrebbe innescarsi con Israele. Il presidente iraniano, dal canto suo, è apparso di fronte a un mondo che ormai è assuefatto della aggressività contro Israele e delle garanzie unicamente verbali che il programma nucleare del suo governo non prevedrebbe nessuna corsa agli armamenti. «La bomba
Quel sogno di vedere la Palestina, entro un anno, all’Onu ha fatto crollare ogni ambizione per gli Usa di continuare la mediazione nel processo di pace. È assai prevedibile che le frizioni con Israele, chiuse con pazienza in queste ultime settimane, torneranno a bruciare. Infine bisogna capire come voterà la comunità ebraica a novembre. Sulla stessa linea la parte riguardante i cosiddetti massimi sistemi: economia internazionale, lotta alla corruzione e democracy building. Il leader Usa ha ribadito le difficoltà in cui versa attualmente il mercato globale. Si è poi concentrato sulla necessità di cacciare quegli uomini di potere che non sono in grado di assicurare trasparenza nella loro gestione della cosa pubblica. C’è da chiedersi come abbiano reagito i presidenti di Afghanistan e Pakistan. Gli Usa di Obama, con evidente
atomica non ci interessa», ha cercato di chiosare Ahmadinejad. Il presidente iraniano è al potere da cinque anni. Durante questo lustro, è intervenuto all’Assemblea Generale sempre con nuove minacce. Questa volta però il leader laico del regime degli Ayatollah si era mostrato sibillino nelle sue dichiarazioni. Per quanto riguarda la questione nucleare, ha cercato di rigirare le responsabilità alla comunità internazionale. Si è rivolto infatti al Gruppo dei 5+1 (i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, insieme alla Germania)
degli Stati Uniti? Escludo assolutamente che Israele abbia pensato di dare un segnale negativo all’Assemblea generale. La verità è invece semplicissma. Oggi (ieri per chi legge, ndr.) in Israele si festeggia il Sukkot, una delle più importanti ricorrenze dell’ebraismo. Se un solo membro della delegazione israeliana fosse entrato al Palazzo di vetro qui nel Paese ci sarebbe stata una sommossa. (l.a.)
“concedendo”loro uno spazio di apertura per i prossimi negoziati, a condizione però che questi “assumano una posizione più chiara in merito all’arsenale atomico di Israele”. L’Iran vorrebbe prendere il controllo di un processo in cui è imputato. La manovra potrebbe riuscire se solo Ahmadinejad dimostrasse una minore propensione all’aggressività. Anche ieri infatti non si è risparmiato nell’offendere Israele e gli Stati Uniti.
A suo giudizio il primo ministro Benjamin Netanyahu altro non sarebbe che «un abile killer» del popolo palestinese, «delle sue donne e dei suoi bambini». Washington invece è stata indicata come il mandante dell’attentato che ha colpito la città di Mahabad, nel nord ovest del Paese. Mercoledì, durante una parata militare, un’esplosione ha provocato 12 morti e qualche decina di feriti. «Questo crimine selvaggio, commesso da mercenari della potenza arrogante contro civili innocenti, ha rivelato ancora una volta la vera natura dei cosiddetti difensori dei diritti umani e aggiunto un nuovo episodio alle atrocità del sistema corrotto e oppressore che domina il mondo», aveva detto il Presidente all’agenzia iraniana Irna prima ancora di intervenire all’Onu. Tenuto conto che Mahabad si trova al confine con l’Iraq, si può ipotizzare che gli esecutori dell’attacco venissero dal Kurdistan, oppure fossero arabi. Questo però non significa che la responsabilità possa essere attribuita agli Usa. Tutto ciò fa del presidente iraniano un negoziatore inaffidabile, i cui tentativi di moderazione si rivelano irrilevanti.
Barack ribadisce la sua volontà di tornare al multilateralismo: «Non ci devono essere equivoci: il successo della democrazia non può essere imposto dall’America»
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a delegazione israeliana che all’Onu ha deciso di non presenziare al discorso di Obama. Una rottura inaudita di un menage da sempre indistruttibile o il rispetto della festa sacra del Sukkot? In realtà il legame tra gli Stati Uniti e lo Stato ebraico è forte: ma non è mai stato inossidabile. «Penso proprio che Israele non sarebbe mai potuto nascere, se Roosevelt fosse stato in vita». La testimonianza è di David Niles: assistente del presidente americano morto il 12 aprile 1945, e che invece era un convinto filo-sionista. In effetti, sembra che la svolta fosse stata tardiva: successiva alla Conferenza di Yalta, e dovuta principalmente a un incontro con il re-fondatore dell’Arabia Saudita, Ibn Saud. La cui alleanza petrolifera con gli Stati Uniti gli aveva appunto permesso di costruirsi il suo regno, cacciando dall’Hegiaz quell’importante pedina filo-britannica che era stata invece la dinastia hascemita. Il decesso di Roosevelt, che pure la propaganda dell’Asse aveva accusato infondatamente di origine ebraiche, lasciò invece il campo a Harry Truman, che da una parte come molti americani era emotivamente coinvolto nel dramma dei profughi ebrei, dopo la scoperta della Shoà. Dall’altra, essendo politicamente più debole di Roosevelt aveva più bisogno di lui del voto ebraico in alcuni Stati chiave alle elezioni del 1948: in particolare New York, Pennsylvania e Illinois. E su questa linea lo orientava in particolare il suo consigliere Clark Clifford.
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Anche dopo questa svolta, però, gran parte dell’establishment politico e economico continuava in realtà a essere scettico, se non addirittura ostile. «A nessun gruppo, in questo Paese, dovrebbe essere permesso di influenzare la nostra linea politica fino al punto da mettere in pericolo la sicurezza nazionale», disse delle lobby ebraiche il ministro della Difesa James Forrestal. «Truman ha spento il prestigio morale dell’America e distrutto la fede degli arabi nei suoi ideali», rincarò Max Thornburg, della Cal-Tex, a nome di tutta la lobby petrolifera. Ostilissimo era anche il Segretario di Stato George Marshall, e il 12 maggio del 1948 un vertice all’Ufficio Ovale per discutere sul riconoscimento del nuovo Stato che gli ebrei si apprestavano a dichiarare si trasformò in uno scontro tra lui e Clifford, che insiteva sull’utilità elettorale di una tale mossa. «Se Truman seguirà il consiglio di Clifford e riconoscerà lo Stato ebraico, io voterò contro di lui», minacciò Marshall. Truman non prese posizione, ma quando due giorni dopo lo Stato d’Israele fu proclamato, gli Stati Uniti divennero il primo Paese a riconoscere l’indipendenza di Israele de facto: undici minuti dopo la dichiarazione di indipendenza. Va detto che effettivamente dopo la rielezione di Truman il generale famoso per il suo Piano di ricostruzione dell’Europa si dimise da Segretario di Stato, ufficialmente per ragioni di salute. Ma dopo lo scoppio della Guerra di Corea Truman lo ripescò come Segretario alla Difesa, e lui accettò l’incarico. Questa contrapposizione tra voto ebraico pro-Israele versus interessi economici e strategici filo-arabi ricorda in effetti molto e anticipa anche l’altra storica contrapposizione tra voto cubano pro-embargo al regime castrista versus interessi economici e strategici anti-embargo, ma non va intesa in senso troppo meccanico. Da una parte, infatti, tra gli stessi ebrei statunitensi non mancavano gli scettici verso
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Nel 1948 gran parte dell’establishment politico e economico statu
Il ferro
Da Roosevelt a Bush, passando per Truman e Kissinger, la Guerra del Kippur e “Piombo Fuso”: la storia di tutte le frizioni che hanno rischiato di mettere in pericolo l’alleanza (inossidabile?) tra Washington e Gerusalemme di Maurizio Stefanini
Negli anni cruciali dell’indipendenza la Potenza più decisa in senso pro-sionista era sicuramente l’Unione Sovietica di Stalin il progetto sionista. Dall’altra parte, i filmati sui lager avevano smosso in senso pro-sionista anche ampi settori di opinione pubblica non ebraica, ed è significativo notare come tra i congressisti più attivi in senso pro-Israele ve ne fossero parecchi provenienti da collegi elettorali a popolazione ebraica minima. Gli Stati Uniti, comunque, non hanno affatto rappresentato quel grande mallevadore del progetto sionista che una certa propaganda favoleggia. In effetti, era stato il Regno Unito durante la Prima Guerra Mondiale a offrire per la prima volta al movimento sionista la prospettiva di costituire un “focolare ebraico” internazionalmente riconosciuto, attraverso la Dichiarazione Balfour. Ed era stato sempre il Regno Unito durante la Seconda Guer-
ra Mondiale a organizzare e inquadrare quella Brigata Ebraica che sarebbe poi diventata il primo nucleo del futuro esercito israeliano. Ma nel frattempo il governo di Londra come Potenza Mandataria della Palestina aveva già iniziato a limitare l’emigrazione ebraica, provocando i primi episodi di guerriglia contro di esso da parte di movimenti estremisti come il Gruppo Stern: una guerriglia che tra 1945 e 1948 si sarebbe poi generalizzata in rivolta di tutta la popolazione ebraica in Palestina, coinvolta in una guerra su due fronti contro inglesi e arabi allo stesso tempo. E l’appoggio inglese agli arabi fu forte anche dopo lo scoppio dfella Prima Guerra Arabo-Israeliana, in cui l’unico esercito arabo a ottenere successi fu la giordana Legione Araba comandata dall’inglese John Glubb, alias Glubb Pascià.
Negli anni cruciali dell’indipendenza israeliana la Potenza più decisa in senso pro-sionista era invece l’Unione Sovietica di Stalin, che da una parte valutava le idee di sinistra di gran parte dell’ebraismo mondiale; dall’altra considerava i Paesi arabi in blocco come infeudati all’Occidente. Nel 1944 era stato dunque costituito a Mosca un Comitato Ebraico Antifascista di orientamento nettamente pro-sionista. Nel maggio del 1947 quando per la prima volta il caso Palestina fu portato davanti alle Nazioni Unite l’allora vice-ministro sovietico Andrei Gromyko sorprese tutti con l’annunciare che il suo governo era a favore della creazione del-
lo Stato ebraico. Il 13 ottobre Semyon Tsarapkin, capo della delegazione sovietica alle Nazioni Unite, dedicò ai membri dell’Agenzia Ebraica un brindisi “al futuro Stato ebraico”, prima di votare per il progetto di spartizione.
Alla votazione decisiva dell’Assemblea generale del 29 novembre, il blocco sovietico votò in blocco per Israele, e da allora le delegazioni sovietica e americana lavorarono in stretta collaborazione per discutere i tempi del ritiro britannico. Il 17 maggio 1948, per compensare la rapidità del riconoscimento Usa a Israele de facto, Stalin concesse il riconoscimento de jure. E fu il governo cecoslovacco su istruzione ancora di Stalin a fornire al nuovo Stato le armi che permisero di respingere l’offensiva araba. Incrinato con l’inizio delle persecuzioni antisemite negli ultimi anni di Stalin, l’asse sovieticoisraeliano cadde del tutto quando proprio in conseguenza della disfatta contro Israele la monarchia egiziana e poi anche quella irachena e la democrazia siriana cadevano, per essere sostituiti dai nuovi regimi nazionalisti nasseriano e baatihisti: non comunisti, spesso anzi persecutori di comunisti in casa loro; ma disposti più ad allearsi con l’Unione Sovietica che con l’Occidente. D’altro canto, tra fine anni ’40, anni ’50 e inizio anni ’60 si accedeva in tutto il mondo islamico un’agitazione anti-occidentale che prendeva di petto le ultime colonie britanniche e francesi, e risospingeva Londra al fianco di Israele,
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unitense era scettico, quando non addirittura ostile, sulla creazione dello Stato ebraico
e la ruggine
Nella foto grande, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt. A sinistra: il leader israeliano Moshe Dayan. A destra: il presidente americano Harry Truman
e con Parigi. Quel triangolo che scese in campo nel 1956 contro la decisione di Nasser di nazionalizzare Suez, e che trovò gli Stati Uniti schierati contro l’intervento anglo-franco-israeliano in Sinai, e in intesa con l’Unione Sovietica.
In quell’epoca era la Francia la principale fornitrice di materiale bellico a Israele, come ci ricorda l’epopea dei caccia Mirage. Un gran flusso di liquidi venne invece dai risarcimenti tedeschi per l’Olocausto, e l’aiuto Usa fu abbastanza limitato. Solo all’inizio degli anni ’60 Washington iniziò a fornire a Israele armi: ma solo di tipo difensivo, come i missili anti-aerei Hawk; e comunque in contemporanea a Egitto e Giordania. Sostanzialmente, è con la Presidenza Johnson che gli Stati Uniti, impegnati per conto proprio in Vietnam, sterzano in senso decisamente filo-israeliano: in concomitanza con la svolta della Francia di De Gaulle, che al contrario dopo essersi disimpegnato dall’Algeria sterza in senso filo-arabo. D’altra parte, all’epoca della Guerra dei Sei Giorni è effettivo il timore di una gran parte dell’opinione pubblica occidentale, che una vittoria araba possa precipitare un nuovo Olocausto. E l’orientamento sempre più filo-israeliano del Congresso non è turbato da un episodio come quello della Liberty: una nave dell’intelligence Usa che forze israeliane scambiano per egiziana e attaccano, provocando 34 morti e 173 feriti. Nel 1968 vengono così forniti a Israele i caccia Phantom. Poiché però gli Stati Uniti continuano a considerarsi stretti alleati di Paesi che con Israele si considerano in guerra, come Arabia Saudita o Giordania, inizia a determinarsi quel dilemma da allora non si è più sanato. In parte, Washington ha cercato di far quadrare il cerchio fornendo anche a quei Paesi armi e aiuti. In parte, dal Piano Rogers del 1970 in poi si è fatta parte attiva per mediare tra avversari apparentemente inconciliabili. Ma è significativo
che il Piano Rogers è sì accettato dall’Egitto: dove Nasser intanto è morto, e dove la svolta filo-Usa del nuovo presidente Sadat si manifesta già nel 1972 con l’espulsione dei consiglieri sovietici. Ma è Israele a rifiutarlo. Conseguenza dello stallo, la nuova Guerra del Kippur, cui segue quel boicottaggio petrolifero arabo che riporta l’attenzione degli ambienti d’affari occidentali sulla scomodità della posizione filo-israeliana. La Guerra del Kippur vede però anche la premier israeliana Golda Meir rinunciare su pressione Usa a un attacco preventivo in stile 1967, in cambio di un flusso di armi sicuro per parare comunque la minaccia. Il rapporto israelo-americano si arricchisce dunque di una nuova sfumatura di straordinaria ambiguità. «Se Israele attacca per primo non riceverà neanche un chiodo», ha minacciato il Segretario di Stato, l’ebreo Henry Kissinger.
Quando però poi saranno stati gli arabi a attaccare per primi riforniti da un ponte aereo sovietico dovranno essere gli americani a stabilire a loro volta un ponte aereo di rifornimenti che secondo alcuni storici “salvò Israele”. E il Pentagono sarà addirittura costretto a minacciare la guerra nucleare con l’incremento della Defense Condition da quattro a tre, in ri-
«Penso proprio che Israele non sarebbe mai potuto nascere, se Roosevelt fosse stato in vita», dichiarò il suo assistente Niles
sposta alla minaccia sovietica di intervenire al fianco dell’Egitto. Fu comunque abilità di Kissinger utilizzare a quel punto il suo ruolo per impedire all’esercito israeliano di distruggere quello egiziano, guadagnandosi la gratitudine anche del Cairo. E sono lì i semi della mediazione che permetterà a Carter di mediare tra Egitto e Israele la Pace di Camp David, anche se con lui sorgono nuovi motivi di tensione israelo-americani, per la sua richiesta di dare anche ai palestinesi una patria. Con Reagan invece i rapporti si fanno più stretti: l’ideologia occidentalista del Presidente si rivela più importante dei trascorsi pro-arabi nell’industria petrolifera dei segretari Caspar Weinberger e George P. Schultz, dei dissapori in occasione della guerra in Libano del 1982 e di un caso di spionaggio israeliano negli Usa scoperto nel 1985, e anche del disappunto israeliano per l’inizio del dialogo Usa-Olp nel 1988. Nel 1981 è firmato un Accordo di Cooperazione Strategica, nel 1983 nasce un Gruppo Militare Politico Congiunto, che si riunisce due volte all’anno, dal 1984 iniziano manovre militari congiunte, nel 1985 è firmato un Accordo di Libero Scambio, nel 1989 Israele raggiunge lo status di “importante alleato non Nato”, e in questo periodo è stabilito un flusso di aiuti per 2 miliardi di dollari all’anno.
Con George W. Bush, petroliere texano in una fase in cui la minaccia sovietica sta venendo meno, segna una nuova fase, in cui il 2 maggio 1989 è chiesto formalmente a Israele dal Segretario di Stato James Baker di «abbandonare le politiche espansioniste», e il 3 maggio 1990 lo stesso Presidente definisce Gerusalemme Est «territorio occupato». La Guerra del Kuwait porta però a un generale rimescolamento: come nel 1973 gli israeliani sono convinti a non reagire di fronte ai missili di Saddam, e in cambio ottengono i Patriot per intercettarli. In seguito, la debolezza dell’Olp per aver appoggiato il rais iracheno costringe Arafat a rico-
noscere Israele in un processo di pace in cui gli Stati Uniti ambiscono presentarsi come “catalizzatori” del dialogo. Con la Pace di Oslo del 1993 il problema sembra infine risolto. Ma lo riaprono gli attentati terroristi con cui Hamas e Jihad Islami fanno deragliare il processo, mentre d’altra parte anche Rabin è ucciso da un estremista israeliano.
Con Clinton, sempre più il ruolo degli Stati Uniti è quello di riempire le due controparti di dollari, per convincerle a continuare un dialogo sempre più problematico. George W. Bush è accusato da Sharon di parzialità filo-palestinese in nome della guerra al terrorismo, anche se poi il premier israeliano spiegherà di non essere stato capito bene. Gli Stati Uniti prendono a loro volta le distanze dalla politica israeliana delle “uccisioni mirate”, come pure da quella degli insediamenti. Ma d’altra parte all’Onu Stati Uniti e Israele si ritrovano sempre più spesso a votare contro risoluzioni anti-Usa o anti-israeliane da soli, o assieme ai due staterelli filo-Usa del Pacifico, Marshall e Stati Federati di Micronesia. Nel 2003 gli americani forniscono ancora a Israele aiuti per 9 miliardi. Nel 2004 Israele è il secondo destinatario di aiuti Usa, e il primo pro-capite. E nel 2005 lo sgombero di Gaza segue esattamente i consigli americani: con conseguenze che però si riveleranno un boomerang, per il modo in cui il territorio si trasformerà nella roccaforte di Hamas. Dopo la guerra in Libano del 2006, nel 2007 l’aiuto militare Usa a Israele aumenta del 25%: malgrado i sospetti che Israele possa aver rivenduto materiale militare alla Cina. Con Obama viene lo scontro Usa-Israele sulla costruzione degli alloggi a Gerusalemme Est, e poi gli ulteriori dissapori culminati con questo sgarbo. Che non rappresentano in realtà nulla di completamente nuovo. Ma confermano tutte le tradizionali ruggini che turbano un’alleanza sì di ferro; ma non del tutto inossidabile.
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Scioperi. In Francia, Grecia, Spagna, Romania salgono le tensioni n Francia sono di nuovo fermi i trasporti e chiuse le scuole. In Grecia continua l’assedio dei camionisti attorno ad Atene e Salonicco che sta svuotando i negozi e i distributori di carburanti. In Spagna uno sciopero generale è convocato per mercoledì prossimo, 29 settembre: lo stesso giorno in cui delegazioni sindacali di tutti i Paesi della Ue manifesteranno a Bruxelles contro i tagli allo Stato sociale decisi dai diversi governi per rimettere in sesto i conti pubblici aggrediti dalla crisi. E se in Italia a scioperare sono i lavoratori dei settori più minacciati - come i cantieri navali - anche nella più solida Germania ci sono tensioni con i metalmeccanici della Ruhr che hanno proclamato una serie di scioperi per ottenere un aumento del 6 per cento dei salari rivendicando il diritto di spartirsi almeno una fetta della ripresa economica tedesca. È, in sintesi, il panorama di un’Europa bloccata che si ritrova apparentemente unita nella protesta, ma che rivela ancora una volta, in realtà, le sue tante facce. Che, in questo caso, sono gli squilibri tra economie più o meno forti e tra sistemi di welfare altrettanto non omogenei.
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L’unico comune denominatore è la crisi. Ma in ogni Paese gli scioperi hanno motivazioni diverse e difendono, o rivendicano, obiettivi anche loro diversi. In Francia, dove ieri sera alle 19 è cominciato il secondo sciopero generale in tre settimane, la protesta è contro la riforma delle pensioni presentata dal governo del presidente Nicolas Sarkozy, e appena approvata dall’Assemblea Nazionale, che innalza di due anni - da 60 a 62 - l’età minima del pensionamento e, soprattutto, prevede un prolungamento - per gradi fino al 2018 del periodo lavorativo a 40 anni per ottenere il massimo del-
L’Europa bloccata, ma soprattutto divisa Le proteste contro le misure anti-crisi rivelano il flop delle politiche di coesione di Enrico Singer
pendenti pubblici del settore dei trasporti e della scuola. Di tutt’altro segno è la protesta dei camionisti in Grecia che si oppongono alla liberalizzazione delle licenze che è una delle tante misure varate dal governo di Atene per rispettare gli impegni presi con la Ue e il Fondo monetario internazionale che hanno concesso il maxi-prestito di 110 miliardi di
I ferrovieri francesi che bloccano il metrò e i treni e i camionisti che assediano Atene difendono modelli di sviluppo contrastanti la pensione. Nella prima giornata di sciopero generale, il 7 settembre, i sindacati erano riusciti a portare in piazza due milioni di persone. Ma i margini di trattativa con l’esecutivo sono molto stretti: l’attuale sistema pensionistico - oggi l’età reale dell’uscita dal lavoro è a 58 anni, record in Europa - è indifendibile e la battaglia si sta concentrando sulle eccezioni che potranno essere concesse per i cosiddetti “lavori usuranti” - categoria piuttosto vaga e tutta da definire - che sta a cuore in particolare ai di-
euro al governo greco per evitare la bancarotta.
Quello dei camionisti, insomma, è un classico sciopero corporativo che cerca di impedire qualcosa che la Grecia, come Paese membro dell’Unione europea dal 1981, avrebbe già dovuto fare da tempo: aprire il mercato del trasporto alla libera concorrenza. Secondo il governo del socialista Georghios Papandreu, tra l’altro, l’attuale monopolio di tremila padroncini sul trasferimento delle merci
su gomma contribuisce all’aumento dei prezzi al dettaglio di molti prodotti moltiplicando le difficoltà dei greci alle prese con gli effetti del blocco degli stipendi e delle pensioni che sono le altre misurechiave del piano di austerità e che hanno già provocato altre proteste e altri scioperi. La Grecia è il Paese che più è stato colpito dalla crisi economica generale e non può essere, certo, paragonato alla Francia. Atene è costretta a recuperare il tempo perduto. Parigi sta pensando al futuro. E già il confronto tra questi due Paesi dimostra come il grande mercato unico europeo, con le stesse regole e un livello di sviluppo almeno simile, sia ancora un mito. Nonostante i miliardi spesi dalla Ue nei fondi strutturali e nei fondi di coesione che avrebbero dovuto armonizzare l’economia di un’Unione che è arrivata a dotarsi di una moneta comune,
ma che non è riuscita a darsi un vero governo comune del suo sistema economico.
Le proteste in Spagna sono la controprova di questa realtà a pelle di leopardo. Anche qui c’è un governo socialista - guidato da Luis Zapatero - che ha deciso una riforma del mercato del lavoro che punta a renderlo meno rigido nel tentativo di contrastare una disoccupazione record più del 20 per cento della forza lavoro - riducendo le indennità di licenziamento e i sussidi di disoccupazione. L’obiettivo è ridurre lo scarto fra i la-
voratori stabili, relativamente protetti, e quelli precari, sempre più numerosi e meno garantiti. Tuttavia anche qui i principali sindacati - la Ugt e le Comisiones Obreras - non sono d’accordo e hanno indetto lo sciopero generale per il 29 settembre marcando la prima, profonda, spaccatura tra il sindacalismo di sinistra e il governo Zapatero. Nella galleria delle tensioni che attraversano l’Europa dei Ventisette, un posto a parte spetta alla Romania dove il partito socialdemocratico (all’opposizione) è pronto a far partire la procedura di impeachment contro il presidente Traian Basescu se promulgherà la riforma delle pensioni approvata dal Parlamento, secondo il Psd, con un voto irregolare. La scorsa settimana la Camera aveva approvato la legge che aumenta l’età pensionabile da 63 a 65 anni entro il 2015 con 170 voti a favore, due contrari e tre astenuti, ma con tutti i parlamentari dell’oppopsizione socialdemocratica e liberale che non avevano partecipato alla votazione per protesta. Il caso, adesso, finirtà davanti alla Corte costituzionale mentre, per le strade di Bucarest, ormai da due giorni si ripetono manifestazioni.
Un quadro allarmante che ripropone l’interrogativo di fondo sullo stato dell’Unione europea di oggi. Che la Ue abbia abbandonato l’ambizione di diventare la terza - o forse la seconda - potenza mondiale rafforzando il suo centro politico, dotandosi di una Costituzione unica, e, magari, anche di un esercito comune, è un dato ormai accertato. È rimasta - e non è poco - la determinazione di costruire, sulle fondamenta dell’euro, una realtà economica sempre più strutturata. Ma le differenze messe a nudo dalla crisi rivelano che la strada è ancora lunga e in salita. Anche perché se la Ue si deve ridurre a una specie di forum per conciliare gli interessi di Paesi diversi, c’è già l’Onu. E, attenzione, non è un caso che Sarkozy abbia lanciato da New York e non da Bruxelles la sua proposta per combattere la fame nel mondo. A proposito: ma qual è il vero Sarkozy? Quello “cattivo” che vuole deportare i rom, o quello “buono” che vuole salvare i deboli? A conferma che, a volte, l’errore sta nel voler giudicare in base a categorie assolute in cui la realtà va stretta.
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Petraeus: «Non mi mettete fretta per il ritiro dall’Afghanistan»
Il clamoroso errore dei corpi speciali trae in inganno il Tpi
I repubblicani presentano il “Pledge to America”
La polizia belga arresta Ratko Mladic. Ma era un pittore
WASHINGTON. Nel 1994 è stato
BELGRADO. «Ratko Mladic è
il Contract of America a permettere la riscossa repubblicana dopo la vittoria di Bill Clinton, e la conquista del controllo del Congresso dopo 40 anni di dominio democratico. Ora, in vista delle elezioni di novembre, il Grand Old Party lancia il suo Pledge to America: la solenne promessa di limitare e congelare le spese federali, ridurre il deficit, e quindi anche le tasse, una volta vinta la maggioranza al Congresso alle elezioni del due novembre.
stato arrestato». La notizia è arrivata martedì sera al Tribunale Penale Internazionale come una bomba e da lì è rimbalzata sui media del Belgio. Ma si trattava solo di un paradossale scambio di persona. Apparsa, ieri mattina, sui media on line del Belgio, è subito rimbalzata su quelli balcanici. E certamente sarebbe stato lo scoop dell’anno se non fosse per il clamoroso errore investigativo che l’ha generata e che adesso ha gettato i corpi speciali della polizia belga nel ridicolo sui siti di tutto il mondo. Un loro commando ha infatti arrestato un uomo, sospettato di essere nientemeno che l’ex generale serbo - bosniaco Ratko Mladic, il criminale di guerra più
«La necessità di un’azione urgente per sanare la nostra economia e ridare al popolo non può essere considerata un’esagerazione» si legge in una bozza del documento presentato ieri mattina dai leader del partito, proprio durante l’intervento di Barack Obama al Palazzo di Vetro per il discorso inaugurale della sessione dell’Assemblea Generale Onu. Nel documento di 21 pagine - in cui viene citato Ronald Reagan, ma anche John Kennedy - si articola il programma elettorale in cinque punti: la spesa, il lavoro, le riforme, la sicurezza nazionale e la sanità. Assorbendo alcune istanze del movimento dei Tea Party, nel piano viene presentata l’iniziativa “You cut”, attraverso la quale i cittadini potranno indicare online al Congresso quali sono i pro-
Blitz in Colombia ucciso il capo delle Farc “Mono Jojoy” era la guida militare dei guerriglieri di Pierre Chiartano
BOGOTÀ. C’è una moria, ultimamente, di leader delle Farc con pistola e mitra in mano, nelle foreste colombiane. La «lotta senza quartiere» promessa dal nuovo presidente colombiano Juan Manuel Santos sembra non avere sosta. Il capo militare delle Farc (le Forze armate rivoluzionarie della Colombia), Jorge Briceno, meglio conosciuto come Mono Jojoy, è stato infatti ucciso in una operazione militare nella regione centrale del Paese. Lo hanno riferito ieri i media colombiani, citando fonti militari. Quasi contemporaneamente la Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia si erano dette pronte ad avviare un negoziato con il governo di Bogotà. Le premesse erano quelle che le forze governative non ponessero alcuna condizione alle trattative. La guerriglia comunista clandestina è nata nel lontano 1964, durante una massiccia operazione militare per reprimere alcuni movimenti di protesta agraria nelle regioni di Toima e Hulia. Da quel primo periodo, a forte connotazione politica, le Farc, ispirate al movimento marxista, negli anni sono diventate delle unità paramilitari che collaborano con i narcos o trafficano in proprio, per finanziare le attività terroristiche. Il comandante Mono Jojoy sarebbe stato ucciso durante combattimento ed è un colpo molto duro per l’organizzazione paramilitare, visto che altri due membri dello stato maggiore erano morti nel 2008. E soltanto pochi giorni fa era stato il turno di Sexto Cabana, detto Domingo Biojo, altro lider guerrigliero, ucciso assieme ad altri 27 miliziani vicino al confine con l’Ecuador, nella regione di Putumayo presso la città di San Miguel. Il signor Cabana era ricercato negli Usa per traffico di cocaina ed era membro dello stato maggiore della guerriglia clandestina. Con i suoi uomini controllava la produzione di droga per centinaia di tonnellate all’anno. Nel suo curriculum c’era un negoziato fallito col governo una decina d’anni fa. A dimostrazione che la predisposizione alla contrattazione fa parte della normale politica di un gruppo armato, cui servono ciclicamente periodi di
tranquillità, rispetto alla pressione militare delle forze governative. Mono era il responsabile delle operazioni sul campo. Il governo degli Stati Uniti aveva messo sulla sua testa una taglia di oltre 5 milioni di dollari, per informazioni che avessero portato al suo arresto e a una condanna. Molti osservatori sono convinti che la morte del membro delle Farc sia un successo che avrà un buon ritorno politico per il presidente Juan Manuel Santos. Dopo l’insediamento del nuovo presidente, il 7 agosto scorso, la guerriglia armata aveva dato un caldo benvenuto a Santos.
Le azioni e gli attacchi si erano intensificati e nel solo mese di settembre i morti tra le forze governative sono stati una quarantina. Per molti analisti era una maniera per forzare la mano al presidente e costringerlo al tavolo negoziale. Ma Santos era stato chiaro dall’inizio: niente trattative, prima che tutti gli ostaggi in mano alle Farc non fossero stati liberati. Un atteggiamento di fermezza in perfetta continuità con la politica del suo predecessore Alvaro Uribe che aveva fatto guadagnare un forte consenso popolare all’allora presidente. Ricordiamo poi che le Farc sono state al centro per anni di un contenzioso con il governo venezuelano di Hugo Chavez, accusato di aiutare con armi e basi sicure sul proprio territorio le formazioni armate comuniste. Appena dopo la presa di potere Chavez aveva subito smantellato la Cochabamba unit, una formazione d’elite dell’esercito venezuelano, addestrata dai consiglieri del Pentagono per la lotta alla guerriglia. Anche le relazioni col governo di Quito avevano subito un deterioramento da quando, nel 2008 un altro capo militare della formazione, Raul Reyes, era stato ucciso all’interno di un accampamento in pieno territorio ecuadoregno. Il problema dei ribelli-trafficanti è dunque per Bogotà un argomento di primaria importanza non solo per la sicurezza interna ma anche per gli equilibri internazionali della regione.
Dopo l’uccisione di Cabana, Reyes e altri capi del terrorismo colombiano è stata la volta del comandante Jorge Briceno
grammi e le spese da tagliare. Mentre per quanto riguarda il lavoro, il Gop ribadisce che si opporrà ad ogni aumento fiscale per il 2011 difendendo i tagli varati dall’amministrazione Bush. Oltre al rischio di perdere il Congresso a novembre (almeno la sconfitta alla Camera, secondo gli analisti, è probabile), altri guai per Obama sembrano arrivare dalla sempre maggiore insofferenza con cui il generale Petraeus risponde alle sollecitazioni per mettere la parola fine alla guerra in Afghanistan. «Non mi mettete fretta», ha dichiarato ieri al quotidiano britannico Times. E molti hanno letto nelle sue parole un monito all’amministrazione democratica.
ricercato del pianeta, latitante da oltre 15 anni. Ma Freddy De Greef, l’uomo arrestato erroneamente martedì a Sint Truiden, cittadina della provincia belga di Limburg, di mestiere non fa il genocida, ma semplicemente il pittore. L’operazione di polizia, secondo quel che riportano le cronache, è scattata a seguito di una serie di segnalazioni anonime alle forze dell’ordine in base a cui «Mladic è stato visto viaggiare a bordo di una macchina con targa tedesca».
«Mi hanno seguito per strada tutto il tempo, fermato e chiesto la carta d’identità prima di lasciarmi andare, per essere poi fermato ancora nella strada successiva», ha raccontato il sessantasettenne che oltre alla stessa età ed a una somiglianza con Mladic, di serbo ha solo la sua compagna. «Gli agenti si sono accorti che non ero Mladic appena hanno sentito il mio forte accento tedesco», ha proseguito De Greef, rilasciato con tante scuse, non prima di una approfondita perquisizione nella sua camera di albergo alla ricerca di riscontri probatori della vera identità dell’uomo. A quel punto alla polizia belga non è rimasto che comunicare il “falso allarme” al Tribunale penale internazionale dell’Aia (Tpi).
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Mostre. A Palazzo Strozzi, da oggi, esposti 56 dipinti, la serie dei ritratti degli Uffizi, molti capolavori provenienti da prestigiose istituzioni straniere e opere inedite
Tutti alla corte dei Medici Gli splendori dell’arte manieristica cinquecentesca: Firenze celebra il «Bronzino poeta e pittore» di Rita Pacifici l 29 giugno del 1539 giunge a Firenze Eleonora di Toledo, figlia del viceré di Napoli promessa sposa di Cosimo I de’ Medici. Ha diciassette anni, è bellissima e porta in dote al fortunato discendente del condottiero Giovanni dalle Bande Nere, nobiltà e ricchezze inaudite. Le nozze saranno celebrate con festeggiamenti, come ricordano le cronache, lunghi e sfarzosi. A Palazzo Vecchio, sede e simbolo dell’antica libertà repubblicana, si avviano complessi lavori per riadattare la reggia alle nuove esigenze politiche e private. Per onorare la cattolicissima Eleonora, Cosimo fa progettare all’interno dei suoi appartamenti una piccola cappella ed incarica per la realizzazione degli affreschi Angelo di Cosimo di Mariano, chiamato il Bronzino forse per il colore dei suoi capelli, artista già affermato a quei tempi ed impegnato nella decorazione delle ville medicee fuori Firenze. La scelta si rivelerà giusta, il risultato sorprendente: un gioiello di particolare leggerezza e forza espressiva, un vortice di figure sapientemente disegnate che affiorano in superficie con colori smaglianti: il blu oltremare impastato con i lapislazzuli, il rosso, il verde. La brillantezza e la freddezza delle pietre preziose che riportano le storie di Mosè ad una dimensione del tutto nuova, vera eppure irreale, quasi metafisica, e di un fascino, come e` stato detto “ipnotico’.
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Più idea che natura, più riflesso che realtà, più favola che storia. Quando poi, nel 1545, fu collocata sull’altare la pala con la Deposizione, Nicolas Perrenot de Granvelle, segretario particolare di Carlo V in visita alla corte in quei giorni, ne fu talmente invaghito da ottenerla in dono da Cosimo, il quale dovette commissionare una replica in sostituzione di quella che prese la via della Francia. Per il Bronzino, alle soglie dei quarant’anni, è un autentico trionfo, la consacrazione del ruolo di pittore eletto della dinastia medicea, consegnata alla storia in innumerevoli e cele-
bri dipinti, figure cristallizzate nello splendore del proprio potere che costituiscono un vertice assoluto della ritrattistica europea. Mai dimenticato eppure come offuscato, stretto come è tra l’ultimo dei geni rinascimentali, Michelangelo, e il primo degli anticlassici, il Pontormo, quest’anno il Bronzino è stato ricordato con una serie di eventi, prima al Metropolitan Museum of Art di New York, con una ricca esposizione di disegni, poi a Roma al Palazzo del Quirinale dove è stato pos-
gure evanescenti e fantasmatiche, spazi indistinti e luci irreali. Sarà ancora con lui fino al 1528, nella cappella Capponi della chiesa di Santa Felicita. Facile intuire il profondo legame tra il maestro e l’allievo, il quale sarà ritratto in un affettuoso omaggio d’autore, difficile distinguere in questi inizi la mano del giovane Bronzino, così simile a quella del Pontormo, a quello stile allungato, sinuoso, che non obbedisce ai canoni delle proporzioni e che il Vasari prontamente stroncava come bizzarro e stravagante. Questa
to il suo stupore per gli altissimi meriti, in un confronto con il genio fiorentino imprescindibile per tutti i manieristi.
È a partire dai ritratti della metà degli anni Trenta, dopo le prove sia pure affascinanti realizzate alla corte dei Della Rovere, come la Dama in rosso col cagnolino e il ritratto di Guidobaldo in armi, che si intuisce la distanza dall’uno e dall’altro, che Bronzino trova la sua calibrata dimensione, quel caratteristico equilibrio tra astrazione e concretezza, tra dato ideale e dato naturale, radicato nella tradizione del Rinascimento ma totalmente inscritto nella sensibilità manierista per eleganza, raffinatezza, preziosità dello stile. Ha inizio una sorprendente galleria di personaggi, indimenticabili dipinti di uomini e donne dell’aristocrazia fiorentina, come quello dell’umanista Ugolino Martelli, in emblematica veste nera, o della poetessa Laura Battiferri, dall’inconfondibile profilo aquilino, o quelli dei coniugi Panciatichi, l’austero Bartolomeo e la superba Lucrezia, maestosa signora in abito rosso, vibrante e lontana, tra i capolavori assoluti del Bronzino. Tutti esibiscono i simboli di una distinzione intellettuale che il pittore in quanto
È la prima monografica al mondo dedicata al grande artista, frutto di una preparazione e di un accuratissimo studio durato ben quattro anni
sibile ammirare i capolavori dell’arazzeria medicea con le Storie di Giuseppe, e ancora nella sua città d’origine con i restauri di alcune importanti opere, tra le quali la Pietà, che ritorna solo ora alla luce sottratta ai disastri provocati dall’alluvione del ‘66. Eventi che culminano nella mostra fiorentina di palazzo Strozzi, che si apre oggi, prima attesissima monografica dedicata a questo pittore tra i più grandi del Cinquecento, che riunirà 56 dipinti dell’artista, la straordinaria serie dei ritratti degli Uffizi, molti capolavori provenienti da prestigiose istituzioni straniere ed opere inedite e che racconterà anche l’uomo di lettere perché Bronzino fu poeta, autore di sonetti e canzoni. Nato nel 1503, un anno prima che lo splendido corpo del David fosse collocato davanti Palazzo Vecchio facendo innamorare di sé generazioni di artisti, il giovane Agnolo inizia il suo apprendistato artistico presso il Pontormo. Tra il 1523 ed il 1525 affianca il maestro nella decorazione della Certosa di Galluzzo. Fuori infuria la peste e nel lungo ritiro Agnolo apprende quella maniera così innovativa di creare fi-
fuga dalla mimesi e dal naturalismo, queste composizioni visionarie e fantasiose, saranno però meditate dall’allievo in modo personale, normalizzando gli eccessi dell’invenzione pontormesca. In verità, un altro riferimento fondamentale per la sua formazione Bronzino lo trova nell’arte fedele alla realtà fenomenica, nelle anatomie potenti di Michelangelo, maestro supremo al quale dedica rime e scrive lettere d’ammirazione, dichiarando tut-
letterato condivise, con i propri libri aperti, lo sguardo fermo e deciso, la posa imperturbabile, tutti, come Vasari ricordava, «paiono vivi veramente e che non manchi loro se non lo spirito». È un’arte di una bellezza algida, di consistenza scultorea, stilizzata anche se fedele alla dimensione morale e psicologica dei soggetti, che si distinse per l’accuratezza del disegno e quel colore steso in modo nitido e compatto, quasi smaltato attraverso cui il pittore sembra restituire in presa diretta i riti di una signoria nel momento del massimo fulgore. Le sete, i broccati, i gioielli, le pettinature elaborate impreziosite dalle pietre, la gestualità trattenuta in una signorile compostezza sono un documento vivo che consente un’immersione nei costumi e nei canoni estetici del cinquecento. C’è in rassegna un’intera epoca con il suo sfarzo ostentato ma c’è soprattutto la visualizzazione, l’esibizione di un ruolo sociale e l’idea di un’umanità superiore sottratta all’ambiguità, al dinamismo della vita reale. Uno accanto all’altro
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ge da eccessi narrativi, da significati troppo espliciti. Altre importanti novità giungono dal restauro del crocifisso Panciatichi che ha evidenziato un disegno preparatorio molto variato in corso d’opera. La scelta finale di un Cristo meno pateticamente abbandonato denuncia la ricerca di una composizione lontana da effetti drammatici, in linea con la sensibilità dei committenti processati nel 1551 per eresia luterana. Il piccolo straordinario dipinto descritto da Vasari «in tutte le sue parti di somma perfezione e bontà» creduto perduto ed invece conservato in un museo di Nizza come opera anonima, solo recentemente identificato e restituito al Bronzino, è un’opera chiave per capire la religiosità riformata nella Firenze di quegli anni.
In queste pagine, diverse immagini di alcune delle opere del Bronzino attualmente esposte, a partire da oggi e fino al 23 gennaio prossimo, a Palazzo Strozzi di Firenze nell’ambito della prima mostra monografica mondiale “Bronzino poeta e pittore”
i ritratti della famiglia Medici, del granduca Cosimo con l’armatura scintillante, della moglie Eleonora e dei numerosi figli, Maria, Giovanni, Francesco, la piccola Bea, restituiscono una corte che si celebra in un olimpo aristocratico e senza tempo. Una pittura che ricompone in un superiore equilibrio echi diversi, compresi quelli nordici con quell’attenzione ai dettagli propria della pittura fiamminga, e restituisce immagini statuarie avvolte da incredibili spazi blu, lucenti, eterne.
Un mondo elaboratissimo, senza sfondi che imbrigliano ed ancorano il corpo al giusto ordine nello spazio, senza opacità e atmosfere da attraversare perché l’uomo non è più natura ma è forma, ruolo ed il mondo con le sue regole e` chiaro, distinto. L’incantevole ritratto di Eleonora con il figlio Giovanni realizzato nel 1545, con i capelli raccolti e l’abito nero ed oro, lo stesso come è stato recentemente accertato con cui venne
sepolta, è in questo senso l’esempio più alto di questo stile cerebrale dove, dirà Giulio Carlo Argan, è evidente «la ricerca di una forma regolare, quasi geometrica, a cui s’accompagna un colore limpido e freddo che giunge a note alte e timbrate». Sono volti che costituiran-
me, al tempo di restaurazione politica culminato nella costituzione del Granducato, a tempi che impongono anche per l’arte, non la libera ricerca, la sperimentazione, ma la ferrea disciplina della norma e del canone. Proprio nel 1563 nasce l’Accademia delle arti e del disegno, con la finalità di tutela e
smo dall’iniziale ribellione agli schemi della pittura quattrocentesca fino alle estreme conseguenze del formalismo astratto. Anche quando affronta temi di carattere mitologico, Bronzino rivela una notevole abilità nel padroneggiare narrazioni complesse, semplificate attraverso quel disegno perfetto, pulito e come inciso, tipicamente fiorentino. Uno degli apici raggiunti dal pittore in questa direzione è l’allegoria con Venere, Amore e Gelosia di cui eseguì tre diverse versioni. Il restauro appena compiuto dall’Opificio delle Pietre Dure sull’opera dipinta nel 1550, conservata a Budapest, ha rivelato ripensamenti significativi nella sofisticata costruzione dove è emerso il volto di un satiro con espressione ammiccante sulla schiena di un bambino, poi cancellato. A confermare probabilmente la scelta dell’artista per un racconto equilibrato, che rifug-
Si tratta anche di una esposzione assolutamente completa poiché raccoglie la quasi totalità delle opere finora pervenuteci del maestro toscano
no un punto di riferimento nella sviluppo del genere in Europa. In questi ritratti, noterà Bernard Berenson, «si scorgono i prototipi delle regine, dei principi e delle principesse del Velazquez». È certo una pittura perfettamente allineata al regi-
supervisione dell’intera produzione artistica, istituzione nella quale Bronzino avrà un incarico rilevante. Tra corte ed accademia si inserisce dunque il percorso di questo acuto interprete che non ebbe la personalità sregolata del contemporaneo Cellini, ma fu perfettamente integrato nella società del tempo e attraversò il manieri-
Bronzino fu ovviamente impegnato, soprattutto a partire dalla metà degli anni Cinquanta, anche nelle più importanti chiese di Firenze con notevoli imprese decorative, tra le quali la grande tavola con la Resurrezione alla Santissima Annunziata, il Noli me tangere per Santo Spirito, la pala d’altare con la Resurrezione della figlia di Giaro a Santa Maria Novella, la Pietà per Santa Croce, eseguita negli ultimi anni di attività. La sua mano inoltre si intreccerà ancora a quella dell’“eretico”Pontormo: dopo la sua scomparsa fu chiamato a completare gli affreschi lasciati incompiuti nel tempio dei Medici, a San Lorenzo, poi cancellati nel corso del Settecento, dove nel 1569 verrà inaugurato il grandioso Martirio, estrema opera di questa artista che morirà nel 1572. È una produzione, questa di carattere sacro, per la maggior parte inscritta nel doppio segno di Michelangelo e della controriforma e realizzata in un clima ben diverso dagli esordi, che coincide con il progressivo allontanamento dalla corte a vantaggio di Giorgio Vasari il quale nel 1564 otterrà il salario di pittore ufficiale prima riservato al Bronzino. A lui Cosimo assegnò il compito di rinnovare le magnificenze di una corte che si stava avvicinando al tramonto, per la tragica morte di quasi tutti i numerosi figli del duca, per il declino inesorabile a cui si avviavano i principati italiani. Rimangono come emblema dell’età aurea di questa dinastia i ritratti sfolgoranti del manierista Bronzino, il quale compose la sua poesia per immagini con brani di esistenza vera che non possono non colpire l’immaginario e sedurre a distanza di secoli. Anche lo scrittore americano Henry James ne fu affascinato, percepì quel che c’era di “meraviglioso” e “misterioso” in essi e ne trasse ispirazione per uno dei suoi romanzi, trasferendo l’incanto di queste creature nel territorio della letteratura, oltre i confini della pittura e del tempo.
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a paura: ecco un protagonista delle nostre cronache, ma anche dei nostri momenti segreti. «Credevamo che nella modernità saremmo riusciti a lasciarci alle spalle le paure che avevano pervaso la vita in passato; credevamo che saremmo stati in grado di prendere il controllo della nostra esistenza… (Eppure) noi, che siamo oggettivamente le persone più al sicuro nella storia dell’umanità… viviamo in uno stato di costante allarme». Queste parole di Zigmunt Bauman, tratte dal saggio Paura liquida, sono il preludio alle riflessioni più aggiornate e profonde su questo stato d’animo – individuale e collettivo – oggetto di studi ricorrenti nella storia del pensiero non solo occidentale.Tanto per limitarci ad alcuni autori cruciali, sulla paura hanno scritto Montaigne e Krishnamurti, Delumeau e appunto Bauman, accomunati dal tentativo di individuarne le radici e di proporre metodi e discipline atti a liberarcene.
L
Roberto Escobar si è già occupato del tema qualche anno fa, con un saggio – Metamorfosi della paura, pubblicato dal Mulino – in cui puntava la sua attenzione sull’Europa, vista come fortezza assediata da nuovi barbari, e sui problemi connessi con le migrazioni. Oggi torna in argomento con un volumetto smilzo e denso, La paura del laico (Il Mulino, pag. 114, ¤10,00), dove fa il punto della situazione di tutta una civiltà, concentrando i suoi riflettori sul caso italiano. Escobar cumula le competenze del raffinato critico cinematografico con quelle del filosofo della politica, attività che svolge rispettivamente sulle pagine culturali del Sole 24 Ore e all’Università di Milano: in questa doppia veste, si pone come osservatore privilegiato e dichiaratamente di parte dei nostri costumi. Cosa è dunque la paura, in particolare per chi, come l’autore, professa e propugna una libertà interiore che mal sopporta qualsivoglia condizionamento da parte di chiese, religiose o profane che siano? Ebbene, la paura è “una mancanza dolorosa”, lo sgomento che scaturisce dalla “percezione dell’insorgenza del caos”. Fin da questa prima definizione, appare chiaro che Escobar condivide solo in parte l’opinione di François Mauriac, per il quale «la paura è il principio della saggezza». Eppure, come il dolore fisico, la paura dovrebbe essere considerata come una reazione – e una funzione – salutare del nostro io, un meccanismo di allerta innedall’iscato stinto di conservazione dei
In libreria. Esce “La paura del laico”, nuovo saggio del giornalista del “Sole24ore”
All’armi son leghisti, ecco l’Italia di Escobar di Giuseppe Del Ninno singoli e dei gruppi. A dire il vero, Escobar non ignora un simile meccanismo, e ne dà prova quando evoca, deprecandolo, il caso del capro espiatorio, autentico rituale di eliminazione dell’Altro, perturbatore dell’ordine di una data comunità,
che in tal modo ribadisce e consolida la propria identità. Ma proprio contro la nozione di identità collettiva Escobar punta i suoi strali, nel capitolo dedicato a “la politica dell’armento”, dove l’autore coglie ed espone non secondarie analo-
nità e società. Eppure, non sfugge all’autore il rischio che corre il singolo, una volta sradicato dalla sua comunità e abbandonato alle pressioni della politica e della tecnica: ne fornisce una lucida disamina, quando descrive la condizione
Nella visione del mondo peculiare del partito di Bossi, si verifica secondo l’autore, una singolare coincidenza di fini tra il laicismo occidentale e il fondamentalismo islamico, entrambi volti a minare il credo cattolico Nella foto grande, “L’incubo” di Johann Heinrich Füssli, olio su tela del 1781. Accanto la copertina di “La paura del laico” di Escobar (nella foto)
gie fra il pensiero leghista e quello hitleriano. Nella visione del mondo peculiare della Lega, secondo Escobar, si verifica una singolare coincidenza di fini tra il laicismo occidentale e il fondamentalismo islamico, entrambi volti a minare le residue basi comunitarie e lo specifico credo cattolico. Si percepiscono, in queste pagine, echi in negativo del celebre saggio di Ferdinand Tönnies, Comu-
di “presente e solo” del cittadino-spettatore davanti alla tv, che, a suo dire, ha un ruolo preponderante nel “racconto pubblico della paura”.
Del resto, a far paura al laico Escobar sembra essere soprattutto la “visione olistica della vita”, quella rappresentata, ad esempio, dall’ossimoro “pubblico dei cittadini”, contrapposto a quello,“individuali-
stico e moderno”, di “pubblico televisivo dei singoli”. Il fatto è che volando alto Escobar, nei cieli dell’imperativo categorico di kantiana memoria – ma anche in quelli sovraumanistici nietzschiani, di cui pure è stato un apprezzato esegeta – cade nella contraddizione di proporre un ideale aristocratico in chiave metapolitica e, dunque, potenzialmente di massa: nessuna scappatoia consolatoria, verso improbabili paradisi per tutti, bensì il rigore di un codice morale asciutto e razionale. Su questa linea, appare quindi incoerente il suo timore per quella “indifferenza di massa”, che tiene lontani i più “da ogni organizzazione basata sulla comunanza di interessi…(da) ogni partito politico”, fa ogni associazione professionale, da ogni sindacato. Il ragionamento di Escobar porta poi a saldare due istanze – la paura e l’odio – peraltro facili da tenere insieme, come sentimenti in reciproco rapporto di causa-effetto. Così, scendendo di livello, l’autore prosegue, attribuendoli rispettivamente ai due pretesi nemici della laicità: la Lega e il Partito del Re Mediatico Berlusconi. Tuttavia, questo ragionamento sembra arenarsi sulle secche di una nuova aporia: laicità illuminista e Islam come visione sacrale – e olistica – sono entrambi nemici della Lega, alla quale viene poi riferita una generica religiosità arcaizzante, su base etnica. L’aporia diventa lampante quando si pensa ai blocchi sociali su cui si fonda quel consenso elettorale, da tutti definiti significativamente come “popolo delle partite Iva”. Quanto all’odio, che sarebbe prerogativa del mai nominato “centro-destra”, basterebbe ripensare alla storia recente – non solo delle Br vecchie e nuove – e alle campagne mediatiche e di piazza, contro il Re e il suo Corpo…
È poi tutto da dimostrare che, in un’epoca di universale secolarizzazione, il racconto pubblico prevalente, anzi, il “pensiero unico”, sia di taglio spiritualistico, organicistico e, dunque, anti-laico. È vero invece che sopravvive una “cultura cattolica” che prescinde dalla fede – corretto appare in proposito il riferimento all’opera di Marcello Pera – e che si contrappone a una cultura laica. Lo “spazio vuoto di valori che ne escludono altri”(e che, come pure riconosce Escobar, esclude la speranza) finisce col privare di senso la vita stessa, per farne una vicenda esposta ai capricci contrastanti dell’arbitrio e del caso.
spettacoli
24 settembre 2010 • pagina 19
Cinema. Nelle sale il documentario dedicato da Franco Maresco al grande clarinettista di origini italiane Tony Scott
L’ultimo vagabondo del jazz
di Adriano Mazzoletti l 10 agosto è stato presentato al Festival del Cinema di Locarno un documentario realizzato da Franco Maresco dedicato al grande clarinettista d’origine italiana Tony Scott, scomparso a Roma nel 2007 a ottantasei anni.
I
Scott, il cui vero nome Sciacca, indica le origini siciliane, ha vissuto la sua intera vita fra America, Asia, Africa e Europa. Le ragioni di questo continuo peregrinare le ha raccontate lui stesso in un libro di memorie, ancora inedito, che è stato anche in parte utilizzato da Maresco per il suo film. Il libro, ma anche il documentario – che uscirà nelle sale cinematografiche alla ripresa autunnale – sono ricchissimi di episodi sulla vita di questo straordinario e per certi versi unico musicista, che per oltre dieci anni è stato al vertice, come clarinettista, delle classifiche americane, ma che nel momento di maggior successo preferì lasciare gli Stati Uniti. Era il 1957, due anni dopo la scomparsa di Charlie Parker. «Senza Bird», racconta, «non c’era più nessuna ragione per vivere in America». «Un giorno, era il 1953», racconta Tony, «suonavo con Bill Triglia al piano, Carson Smith al basso e Neal non-so-che-cosa alla batteria. Non erano proprio il massimo come jazzisti. Carson e Neal erano allora con Chet Baker e suonavano nel tipico stile piatto della West Coast. Eravamo in un posto che dividevamo con altre quattro persone. Quel posto era al terzo piano al 1650 di Broadway e dava sulla Cinquantesima nel tratto fra la Settima Avenue e Broadway proprio di fronte al Basin Street Club. Mi affacciai alla finestra e vidi Parker che passava con il suo sassofono. Aveva indosso la sua giacca a vento con i bottoni in legno. Lo chiamai e scesi giù per invitarlo a suonare un po’ con noi. Suonammo per circa un’ora. Bird era fantastico. Io invece non riuscivo a spiccare il volo, visto che gli altri non avevano certo molto swing. Chiesi a Bird come diavolo facesse a suonare così bene con dei musicisti che possedevano così poco swing. Mi rispose: ‘Tony io faccio finta di possedere una radio. La accendo e presto orecchio alla sezione ritmica che voglio ascoltare´. Nei miei viaggi attorno al mondo, a suonare con sezioni ritmiche di basso livello, ho imparato a fare lo stesso. Grazie Bird!». Un altro grande personalità del jazz che Tony amava ed apprez-
Per oltre dieci anni era stato al vertice delle classifiche americane, ma nel momento di maggior successo, nel 1957, venne in Italia zava era il sassofonista Lester Young. «Lester per me significa jazz», racconta ancora Tony Scott. «Quando lo ascolto alla radio, rido e a volte piango, perché è tutto così bello. Young rappresenta l’essenza e tutta la profondità del jazz. Quella parola “jazz” così difficile da concretizzare quando improvvisi con uno strumento fra le mani. Young riusciva a fare allo stesso tempo tutte quelle cose che hanno rappresentato l’apporto dei neri al jazz. Parlava, sussurrava, urlava, protestava, era gentile, sardonico e sempre al comando delle situazioni. Un giorno lo vidi da Sam Goody, il famoso
negozio, mentre armeggiava fra i dischi ed ascoltava una incisione di Frank Sinatra. Mi vide, ma fece finta di niente. Mi accorsi che stava canticchiando tra sé e sé, poi chiese a Jerry, che lavorava nel negozio, quanto costava quel disco e quando Jerry glielo disse, Young rispose: ´Non ho i soldi con me. Mettimelo da parte fino a domani`. Poi uscì e si mise a parlare con alcuni suoi amici. Io chiesi a Jerry di darmi il disco che pagai. Uscii fuori e lo porsi a Lester. Lui mi guardò e mi fece con aria trionfante: ´Lo sapevo che ti avrei fregato`!».
Gli ultimi trent’anni della sua vita, Tony li ha trascorsi in Italia, a Roma soprattutto. Abitava in un appartamento a Via Nepi nel quartiere di Ponte
In queste pagine, alcune immagini del grande clarinettista di origini italiane, Tony Scott. Franco Maresco gli ha dedicato un film presentato a Locarno
Milvio. Quando però si divise dalla moglie, una ragazza di Hong Kong dalla quale aveva avuto due figlie,Tony tornò ad essere lo zingaro che era diventato dopo aver abbandonato New York. Viveva dove capitava e le valige spostate da una cantina all’altra. Una volta, un feroce diluvio estivo allagò il garage e le cantine dove tra le altre vecchie cose erano depositate le sue valigie con attaccato ai manici le etichette con su scritto “valige di Tony Scott”. Quelle valigie dall’aria malandata avevano fatto molti viaggi e cambiato molti posti. Vi restavano finché qualcuno chiedeva di portarle via. Con tutta quell’acqua ormai quelle valigie non servivano più a nulla. Avvertito, Tony disse di gettarle nella spazzatura. Ma per quella mania di non buttar via niente e per una certa venerazione verso Tony, tanto valeva aprirle e salvare il salvabile. Ne escono le cose più disparate: vecchi bocchini di clarinetto, una Bibbia in inglese, antiche fatture e bollette mai pagate, una lampada liberty, pacchi di recensioni, libri, cartoline, boccettine. Tutto bagnato fradicio. Erano l’ultimo legame che Tony aveva con la vita regolare, la casa, le cose. Un po’alla volta si lasciava tutto alle spalle senza
problemi. In ogni posto dove passava lasciava sempre qualcosa, persa, dimenticata o regalata. Una borsa, un disco, una cassetta, la fotocopia di una fotografia con Parker e Billie Holiday o un esemplare di quel suo strano abbigliamento, una tuta nera, il più facile da portare, il più difficile da sporcare.
La storia dell’ultimo vagabondo del jazz, vagabondo di genio, è narrata nel documentario di Franco Maresco che si avvale anche delle testimonianze e dei ricordi delle molte persone che lo hanno conosciuto, frequentato ed amato anche se a volte molti fuggivano per non essere travolti da quel fiume ininterrotto di parole che lui spiegava molto brevemente: «Io ho delle cose da raccontare…Io ero presente…Ho vissuto e ho partecipato alla storia del jazz… Ho conosciuto tutti…». E noi, i pochi rimasti, incantati ad ascoltarlo.
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miti
Un nuovo capitolo di una serie sui grandi nomi dell’immaginario nazionale, dopo Pavarotti, Fellini, Loren, Sordi e la Fallaci a storia la raccontò Gino Palumbo, sulla Gazzetta dello Sport. «Fuori c’è un soldato: vorrebbe parlare con un redattore dello sport. Non ho capito bene come si chiama: Coppo, Coppi, Coppola... Eravamo alla fine del ’44, [Coppi] apparve sotto la porta con il suo volto affilato, lo sguardo timido, un po’ triste. [...] “Vorrei riprendere ad allenarmi, mi disse, ma al campo ci sono solo biciclette militari, quelle con le gomme piene: faccio chilometri e chilometri ogni giorno, ma è una faticaccia ed i muscoli non si sciolgono. Lei non potrebbe procurarmi una bicicletta da corsa?”Allora scrissi un pezzo sul giornale: “Chi vuole regalare una bicicletta a Fausto Coppi?”, fu questo il titolo. E l’indomani arrivarono tre o quattro telefonate, non di più. Non erano solo i giornali a non avere soldi a quell’epoca. Misi in contatto Fausto con i lettori che avevano telefonato e lui scelse la bicicletta che gli era stata offerta da un falegname di Somma Vesuviana, si chiamava D’Avino. Era tifoso di ciclismo. Coppi non dimenticò mai quel gesto... Fu sempre tra i primi ad accettare l’invito al Giro di Campania».
L
Anche le biciclette che usò sono esposte nella mostra“Fausto Coppi Il Campionissimo”. Al Vittoriano dal 23 settembre al 31 ottobre, nel mezzo secolo dalla sua morte appena quarantenne, e come ulteriore capitolo di una serie sui grandi nomi dell’immaginario nazionale che dopo il canto di Pavarotti, il cinema di Federico Fellini, Sophia Loren e Alberto Sordi e la letteratura di Oriana Fallaci vede ora protagonista il più grande dei nostri ciclisti. In un’epoca in cui il ciclismo era forse ancora più popolare del calcio. Forse come residuo legame e ideale ponte dell’era industriale, di cui pur la bicicletta è un frutto, con un’epoca antica, dove l’uomo viveva ancora di fatica e con la fatica. D’altronde, la sua stessa breve e intensa vicenda fu un ideale ponte cronologico tra l’Italia di ieri e quella di oggi. Nato il 15
L’airone che baciava le vette d’Europa di Maurizio Stefanini
settembre del 1919: l’anno del Trattato di Versailles e dell’appello di Don Sturzo ai “liberi e forti”forgiati dalla Grande Guerra. Morto il 2 gennaio del 1960: nell’anno del boom, delle Olimpiadi di Roma e di quell’ondata di indipendenze africane che rivoluzionario un dato geopolitico ormai plurisecolari. Attenzione: la menzione alla decolonizzazione non è una mera coincidenza storica. Viene ripetuto abitualmente che Coppi fu vittima di una diagnosi sbagliata per una malaria che si era preso andando a una battuta di caccia in Africa. In effetti, foto e oggetti di un angolo della mostra ci restiuiscono appunto questa sua passione. Ma lui nel Continente Nero ci era andato per lavoro: il progetto della “San Pellegrino”, di cui Gino Bartali avrebbe dovuto essere il direttore e lui il capitano, a ricostruire la coppia di vent’anni prima, poi separata da una rivalità leggendaria. Nel dicembre, subito dopo essere stato ingaggiato dalla squadra appena costituita, Coppi aveva appunto partecipato con alcuni amici ciclisti francesi come Raphaël Géminiani e Jacques Anquetil a una corsa nell’Alto Volta, attuale Burkina Faso, proprio in occasione dei festeggiamenti per l’indipendenza del Paese. Ma non aveva resistito alla tentazione di coltivare il suo hobby nella boscaglia attorno a Ouagadougou, e lì si era ammalato. Una morte nel fiore degli anni, come eroi antichi alla Achille o Alessandro Magno. D’altra parte anche l’amatissimo fratello Serse, anche lui ciclista, era morto appena 28enne nel 1951, per i postumi di una brutta caduta.
A epoche ataviche e misteriosi tradizioni sciamaniche sembra pure quasi rimandarci la figura iniziatica di Biagio Cavanna. Il massaggiatore cieco, vero “santone del ciclismo”, che riconosceva i campioni dai fianchi, per poi studiarne il collo e il torace e infine ascoltarne il cuore con mani che vedevano come gli occhi
«Era un’anima eterna lo descrisse Bruno Roghi E non si capiva bene se nell’aprire il compasso delle gambe fosse aiutato dalla lunghezza scattante dei muscoli o dalle orecchie a vela, issate ai lati di una piccola testa, falciata da un naso tagliente e ravvivata da due occhi prominenti, lustri e un po’ spiritati» degli uomini, e in più prevedevano come quelli dei profeti.“Il mago di Novi”,“l’orbo veggente”, “l’omon di Novi”, erano i suoi soprannomi. Era stato lui nel 1937 a scoprire quel garzone salumiere che ogni giorno macinava sui pedali chilometri di andata e ritorno tra la cascina dei genitori e la bottega: intuendone le potenzialità, e ammettendolo nel suo collegio-scuola per ciclisti a Pozzolo Formigaro. Era stato ancora lui che nel 1942 lo aveva convinto a prepararsi sulle strade di casa, soprattutto sul triangolo piatto Novi-Tortona-Serravalle, per conquistare il record dell’ora. «Basta fare dieci metri più di quel francese, e sei a posto», gli tappava la bocca a ogni tentativo di obiezione. A chi ha presente le condizioni semi-robotiche in cui i ciclisti di oggi affrontano quel tipo di cimento, sembrerà incredibile soprattutto l’apprendere che Coppi quel record lo conquistò al Vigorelli il 7 novembre del 1942, tra un allarme aereo e l’altro. «Non ci proverò mai più», disse il campione non appena sceso dalla bicicletta. Il record non gli impedì comunque
di essere arruolato come fante della Divisione Ravenna. E neanche di finire prigioniero in Africa, da dove dopo l’armistizio riuscì comunque a tornare come attendente di un ufficiale inglese.
Egualmente antico, da epoca ante-benessere gastronomico di massa e antediete scientificamente bilanciate e calcolate, era anche il suo profilo affilato, che i presenti all’inaugurazione hanno riscoperto con emozione nei tratti del figlio Faustino e del pronipote. Quasi un ideale vascello umano delle strade, con quel naso a polena e quelle orecchie a vela. «Bello non si poteva dire, quel Fausto», lo descrisse Bruno Roghi. «Era un’anima eterna, e non si capiva bene se nell’aprire il compasso delle gambe fosse aiutato dalla lunghezza scattante dei muscoli o dalle orecchie a vela, issate ai lati di una piccola testa, falciata da un naso tagliente e ravvivata da due occhi prominenti, lustri e un po’ spiritati». «Le gambe sottili, lunghe a dismisura, il busto corto, la testa infossata nelle spalle», è invece il ritratto che ne fece Pierre Chany. «In un insieme paradossalmente armonioso, questo airone ornato dei colori italiani, posato alto su una sella invisibile che ha seminato la corsa, è Coppi». Figlio di contadini piemontesi dell’alessandrino, Orio Vergani nel 1940 lo raccontava come «un ragazzo segaligno, magro come un osso di prosciutto di montagna», che aveva «vinto la Firenze-Modena attraversando l’Appen-
miti “Fausto Coppi il Campionissimo”: fino al 31 ottobre al Vittoriano, una mostra dedicata all’immortale icona del ciclismo e dello sport italiani, a cinquant’anni dalla sua scomparsa
nino sotto la pioggia diluviale arrivando al traguardo con quasi quattro minuti di vantaggio. Arruolato nella squadra di Bartali col ruolo di modesto aiutante, la recluta Fausto Coppi ha conquistato la maglia rosa e nel giro di tredici giorni da cappella che era , è arrivato al grado di comandante della colorata pattuglia del Giro». E anche la complementarità con l’amico-rivale Bartali, appunto, avrebbe fatto versare fiumi d’inchiostro.
Anche Bartali, come lui, aveva avuto il dolore di Giulio; un fratello minore ciclista morto in un incidente di gara nel 1936, ad appena vent’anni. E anche lui aveva un profilo che, sia pure più duro, sembrava fatto apposta per fendere l’aria durante la corsa. «Quel naso triste come una salita/ quegli occhi allegri da italiano in gita”, lo ha celebrato Paolo Conte nella
sua famosa canzone. «Non dimenticherò mai quel giorno di sole sul Pordoi», scrisse nel 1947 Nantas Salvalaggio. «Ero con Montanelli, dall’alto del monte vedevamo salire i due mostri del pedale. Fausto e Gino, appaiati come se andassero in tandem. Ma ad una curva, con uno strappo improvviso, Coppi abbandonò il nemico, lo seminò vergognosamente come si dice in gergo da suiveur. Allora Bartali smoccolò: tirò proprio giù un santo toscano, ma con tale veemenza che le rocce dolomitiche tremarono e diventarono un po’ più rosse del solito».
Del 1949 sono invece queste righe di Curzio Malaparte. «Gino è figlio della fede. Fausto è figlio del libero pensiero. Bartali crede nell’aldilà, Coppi è un razionalista, un cartesiano. Gino è un ispirato, Fausto uno scettico. Bartali è un asceta, un mistico, prega pedalando, Coppi, invece, è un meccanico. Crede solo al motore. C’è sangue nelle vene di Gino mentre in quelle di Fausto c’è benzina. Se Bartali emana calore umano, Coppi emana un sentimento di profonda solitudine. Non bisogna lasciarsi tradire dal suo sorriso, dai suoi occhi luminosi e vivi, dalle sue parole cristalline e soavi. Coppi è un uomo solo, un uomo triste». Per la verità, va detto che non andrebbe sopravvalutata questa ideale contrapposizione così tipica degli anni di Don Camillo e Peppone, tra il cattolico Bartali e un Coppi in fama di “rosso”, ma che pro-
babilmente non andava oltre il saragattismo. D’altra parte, come ci testimoniava Salvalaggio, il devoto Bartali era capace pure ogni tanto di tirare qualche moccolotto, come d’altronde solo i devoti toscani sanno fare. Mentre la freddezza di Coppi saltò tutta nella vicenda della Dama Bianca. La relazione adulterina, lui e lei sposati, con Giulia Occhini conosciuta proprio in quel 1953 dell’accoppiata Campionato del Mondo-Giro d’Italia. Una vicenda boccaccesca, se non fosse scivolata nel patetico per tutto il seguito della denuncia per un reato di adulterio che la Corte Costituzionale non aveva ancora dichiarato incostituzionale. L’arresto di lei, il ritiro del passaporto a lui, il processo, la condanna, la deplorazione di Pio XII, il matrimonio in Messico, la nascita di Faustino a Buenos Aires. Però è vero che il cattolico Bartali, che comun-
«Gino è figlio della fede - scrisse Curzio Malaparte Fausto è figlio del libero pensiero. Gino crede nell’aldilà, Fausto è un razionalista. Gino è un ispirato, Fausto uno scettico. Gino è un asceta, un mistico, prega pedalando, Coppi, invece, è un meccanico. Crede solo al motore. C’è sangue nelle vene di Gino, benzina in quelle di Fausto»
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que foto e filmati ci mostrano a giocare con Faustino senza il minimo moralismo, restò alla storia come quello che con la sua vittoria al Tour permise a De Gasperi e a Scelba di sventare la minaccia di insurrezione seguita all’attentato a Togliatti. «E i francesi ci rispettano/ che le balle ancora gli girano», ricorda sempre Paolo Conte. E poi, arrivò al 2000 come un rimprovero vivente di un’Italia che non c’era più, ma non si stancava di ammonire su quello che era venuto dopo: «Tutto sbagliato, tutto da rifare». Il timido e triste Coppi, invece, anticipò in qualche modo la rivoluzione del costume degli anni ’60 e ’70. Anche se non arriverà mai a vederla. “Gli Esordi”, “Le prime vittorie”, “All’indomani della Guerra”, “Coppi il campionissimo”, “1956-60”, sono i nomi delle sezioni della mostra. «Ha pagato la celebrità con
fatica, tormento e dolore», spiega il titolo della Stampa, sul ritaglio che chiude l’esposizione. «Faustino, chi penserà a te?». «Giulia Occhini invoca nel delirio il nome del figlio suo e di Coppi. La sorte del bimbo è un complesso caso giuridico, un patetico e delicato fatto umano». Ormai nonno, Faustino ha firmato a sua volta una delle prefazioni al catalogo. «Nell’anno in cui si commemora il 50° anniversario della scomparsa di mio padre, sto ricevendo moltissimi attestati del grande affetto che gli sportivi di tutto il mondo ancora nutrono nei confronti di colui che chiamano Campionissimo o, più affettuosamente, Fausto. Per me era semplicemente il babbo, un papà affettuoso che ho potuto godermi solo per cinque anni, ma ho capito quant’era grande, rispettato ed amato dalle attestazioni ricevute negli ultimi cinquant’anni dai colleghi ciclisti, dai gregari e dalle migliaia di sportivi». «Capitemi, viene onorato mio padre all’altare della Patria, con una mostra che, per quanto ho potuto appurare nella fase di preparazione, si prefigura come la più grande mai allestita».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Treni e furti. Come farsi rimborsare. Vale solo per gli Es e gli Ic Il numero dei viaggiatori in treno è in aumento e l’occasione è ghiotta per i ladri, che vedono aumentare le possibilità di mettere a segno qualche colpo in più. Che fare in caso di furti? L’informazione non è molto diffusa ma è possibile farsi risarcire il danno. Non per tutti i treni ma per gli Eurostar, gli Intercity (gran comfort), i vagoni letto e le cuccette. Nel prezzo del biglietto è infatti compresa una quota assicurativa che consente di chiedere un rimborso per il furto. Vediamo in particolare. Eurostar e Intercity: sono indennizzati i furti solo per le valigie sistemate nell’apposito vano portabagagli, all’estremità delle carrozze. Il rimborso è di 260 euro per valigia per un massimo di due valigie. Vagoni letto e cuccette: oltre alle valigie sono previsti risarcimenti per il furto di portafogli, macchine fotografiche, computer, a condizione che le porte siano state chiuse. Il massimale è di 520 euro. Il passeggero dovrà segnalare il furto al personale del treno, fare la denuncia alle forze di polizia o all’autorità giudiziaria entro 3 giorni e inviare la richiesta entro 15 giorni a: Trenitalia - Assistenza passeggeri Piazza della Croce Rossa 1 - 00161 Roma; o presso gli uffici passeggeri della stazione di arrivo. Occorre naturalmente allegare alla richiesta copia della denuncia e il biglietto.
P.M.
UNA SPERANZA CONDIVISA Condivido pienamente il senso del richiamo del patriarca Angelo Scola sulle responsabilità di una classe dirigente che c’è. Mi sembra importante che una delle figure preminenti della società italiana esca finalmente dal circuito di pessimismo culturale che la sta permeando. L’Italia è una delle nazioni più importanti al mondo e ha punte di efficienza elevatissime. Sono d’accordo con il cardinale Scola. La società civile esiste, eccome! E ne verifico la lucida concretezza incontrando ogni giorno imprenditori, docenti universitari, ricercatori, artigiani, sindacalisti e anche uomini politici delle più svariate posizioni politiche che fanno con onestà e competenza il proprio mestiere. Finalmente una voce fuori dal coro. Dobbiamo essere grati al Patriarca che prende di petto un tic sempre più elitario e
solipsistico, alimentato con cinica spregiudicatezza da certa cultura, da certa politica, da certo pubblicismo. Ogni giorno in questo Paese si costruiscono case, si entra in fabbrica, si hanno idee.Viviamo cioè in una comunità che costruisce, che inventa, che opera con onestà. Non si è mai visto un pessimista fare fortuna: ma è il pessimismo artefatto quello che maggiormente dà fastidio. Infatti, non ci possiamo nascondere le difficoltà di una congiuntura globale che pure ha toccato milioni e milioni di italiani.
Lettera firmata
IL POPOLO DI FACEBOOK DONI IL PROPRIO STATUS A DI LANDRO La bomba sotto casa del procuratore generale di Reggio Calabria Salvatore Di Landro è un attacco a tutti gli italiani. Di fronte a un uomo coraggioso che sfida la ’ndran-
Ali uncinate I ganci di un quaderno ad anelli? Sbagliato! Quelli che vedete sono uncini, sì, ma visti al microscopio. Gli hamuli, così si chiamano in termini scientifici questi apparati, servono alle api per agganciare le ali posteriori a quelle anteriori, in modo che in fase di volo, le due coppie di ali formino un’unica superficie
gheta in nome e per conto del popolo italiano non possiamo fare altro che essere tutti solidali a Salvatore Di Landro e ai suoi collaboratori. Per questo motivo chiediamo a tutti gli utenti di facebook di donare il proprio status a Salvatore Di Landro vittima di un’intollerabile intimidazione. La maggioranza di governo che si sta distinguendo per la lotta alla criminalità organizzata ha il dovere di esprimere con fermezza la più netta condanna. È importante che i reggini sappiano con cristallina chiarezza che tut-
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano
ta la nazione si sta battendo insieme a loro contro la ’ndrangheta.
Vito Kahlun
POVERTÀ ALL’ORIZZONTE La situazione economica della gente è allo stremo delle forze di contenimento. È vero che ci sono nuove ricchezze, ma queste sono riconducibili a molte evasioni fiscali e facili entrate che derivono dal commercio dubbio o da altre situazioni. I
Br
da ”Spiegel Online” del 23/09/10
Medvedev contro l’autocrate di Mosca ià ai tempi di Eltsin a Mosca era in atto una strana guerra. Un conflitto che si combatteva a colpi di accuse, scandali e «ammazzatine» come direbbe il commissario Montalbano. Da una parte c’era il Cremlino, col potere sull’ex impero dei soviet, che cercava di ricostruire un immagine all’estero, e un senso di nazione all’interno. Un tentativo di non disintegrare la grande madre Russia. Dall’altro il sindaco di Mosca, ex apparatchik d’alto bordo che sapeva di contare molto e che in un certo periodo era stato visto come il possibile successore di Eltsin. Una guerra senza escluzione di colpi che usava le istituzioni dello Stato come fossero delle bande. Il servizio segreto dell’Fsb era col Cremlino, la polizia col sindaco. E dalle memeorie del povero Sascia Litvinenko, morto avvelenato dal Polonio a Londra, emergono bene i contorni di questa guerra tra cosche di potere. E il termine associativo calza bene, visto che il sindaco Luzhkov è stato più volte descritto come «mafioso». Bene, sono passati molti anni, Yuri Luzhkov è ancora sulla poltrona di sindaco della capitale, ma i guai provocati dal suo eccessivo protagonismo non accennano a finire. Lo Spiegel online ne da conto a firma dei due corrispondenti da Mosca, Benjamin Bidder e Matthias Schepp. L’attivismo della vecchia volpe della politica moscovita è arrivato fino al punto di creare una spaccatura nel partito del presidente e soprattutto di Putin, Russia Unita. Mostrando una sicurezza fuori dal
dato, fino al 2011. Aveva imparato da Putin in questo caso. Ma ora il Cremlino ha dato fuoco alle polveri. Sotto i riflettori è finita la moglie di Luzhkov, Yelena Baturina. Per capirci, è la donna più ricca di Russia, con un patrimonio personale stimato intorno ai 2 miliardi di euro. Una vera zarina. che però è incappata nelle maglie della giustizia, in un caso di corruzione. I detrattori del nemico di Medvedev hanno consigliato di «fare come gli ufficiali di un tempo». Prendere una pistola e spararsi un colpo in testa.
G
comune, ha sfidato Dimtry Medvedev forte dei propri 18 di regno sulla capitale. Ma il giovane presidente sta pensando di spedire lo scomodo personaggio in qualche regione sperduta da amministrare.Medvedev ha la facoltà di nominare direttamente i governatori delle sue province. Qualche giorno fa la componente moscovita di Russia Unita aveva espresso l’appoggio a Luzhkov su di una vicenda che, nelle ultime settimane, ha tenuto banco su tutti i media russi. Si tratta della costruzione dell’autostrada attraverso la foresta di Khimki. Medvedev aveva chiesto di fermare la costruzione del tracciato, accogliendo le richieste degli ambientalisti. Luzhkov voleva che le ruspe continuassero a operare. L’onnipotente sindaco aveva preparato anche un prolungamento del proprio man-
Ma non sembra che Luzhkov voglia uscire di scena in questo modo. Comunque devono essere saltati i nervi anche al giovane presidente, se come riferiscono i giornalisti tedeschi, in un recente incontro con rappresentanti della stampa in San Pietroburgo, Medvedev avrebbe testualmente affermato che il sindaco sarebbe «un uomo che fa rumore con i propri testicoli». E altre amenità del genere. La Ntv, un canale della capitale, ha intanto sfornato un documentario che ha messo in piazza gli scheletri di sindaco e premiér dame. «I miei nemici siedono al Cremlino» la risposta di Luzhkov allo Spiegel. Putin invece non amava attaccarlo direttamente, preferiva umiliarlo giocando sul fronte psicologico. Una volta l’aveva spedito in Venezuela per occuparsi di un fantomatico progetto urbanistico. Adesso invece, con la prospettiva di una scisma di Russia Unita sembra essere arrivato il momento delle maniere forti.
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LE VERITÀ NASCOSTE
di Vincenzo Bacarani
Rapinatore si giustifica: «Sono stato convinto dai tg» FLOYD COUNTY . John Stephens si è dichiarato subito colpevole della rapina a mano armata alla banca “Your Commnity” a Floyd County, nell’Indiana, durante la quale aveva tenuto in ostaggio i presenti, ed era riuscito a sfuggire ad una enorme caccia all’uomo. Stephens ha però spiegato al giudice che non è stata del tutto colpa sua ma che è stato ampliamente illuminato dai giornalisti televisivi. L’uomo ha spiegato ai poliziotti che aveva un lavoro regolare, ma poi ha iniziato a sentire i telegiornali che raccontavano continuamente le gesta di alcuni “rapinatori seriali”, e si è convinto che doveva provare anche lui, in modo da poter
diventare ricco e famoso. Ma la notizia “appetitosa” è che proprio i servizi dei giornalisti gli avrebbero insegnato la tecnica per rapinare le banche e farla franca, e in particolare si sarebbe “ispirato” ai dettagliati racconti delle rapine della televisione locale Wlky compiute da un certo Paul Allen. Il giudice però non ha accolto questa giustificazione, e ovviamente non ha fatto sconti a Stephens, condannandolo a un totale di quasi venti anni di reclusione. Anche perché John Stephens in realtà non è quello che si può definire esattamente uno stinco di santo: si trovava infatti in libertà vigilata da due anni, e adesso che con la
ACCADDE OGGI
IL “PARADISO CAPITALISTA” MODERNO MADE IN FALCE E MARTELLO I media hanno annunciato l’imminente sorpasso della Cina nei confronti del Giappone. Gli economisti e i politici hanno attribuito la strepitosa crescita del Pil cinese a due cifre, alla “conversione”della classe dirigente comunista al capitalismo. Menzogna colossale: l’establishment cinese, nonostante il boom economico, è rimasto profondamente marxista leninista. Dai tempi della rivoluzione non è cambiato nulla. Nella nazione più popolata del pianeta, oltre al fatto che la pena di morte ha superato in numero di esecuzioni tutte le nazioni del mondo messe assieme, non si può esercitare alcuna libertà di pensiero, economica, individuale e religiosa. Quali sono dunque le ragioni dell’exploit economico finanziario? Semplice: l’applicazione sistematica del vero comunismo nei confronti della povera gente. Come da buona tradizione marxista, le manovalanze cinesi vengono spremute e sfruttate fino alla morte per arricchire una minoranza di reggenti marxisti con la “testa” a sinistra, ma con i portafogli a destra. Eppure, un’ingenua opinione pubblica per spiegarsi i bassi prezzi del made in China, si è accontentata dei blandi chiarimenti dati dagli organi di informazione: assenza di sindacati, sfruttamento minorile e salari minimi. Purtroppo non è tutto qui. Dietro i costi abbattuti dei prodotti cinesi, ci sono storie di torture, omicidi, espianti e traffici d’organi illegali e abusi che riguardano milioni di persone. Questa realtà poco conosciuta ha un nome: Laogai, che in cinese significa “riforma, rieducazione attraverso il la-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
24 settembre 1912 Enciclica XVI Singulari Quadam di papa Pio X 1948 Viene fondata la Honda motor company 1957 Eisenhower invia la Guardia nazionale a Little Rock per far applicare la desegregazione 1958 In una sala da ballo di Cremona, Otto e Sandon’s scoprono una cantante diciottenne, che diventerà famosa: Mina 1961 Viene organizzata la prima marcia Perugia-Assisi 1973 La Guinea-Bissau dichiara l’indipendenza dal Portogallo 1991 Viene pubblicato l’album dei Nirvana Nevermind e Blood Sugar Sex Magik dei Red Hot Chili Peppers 1993 La Broderbund pubblica il videogame Myst 1994 Viene fondata la Cathay Pacific 2002 Spagna: ultimo attentato mortale addebitato all’Eta 2006 Paolo Bettini vince il mondiale di ciclismo 2008 Taro Aso è il primo cristiano eletto come primo ministro in Giappone
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
rapina ha perso tutte le attenuanti di buona condotta, è probabile che finito di scontare i venti anni per la rapina, ne dovrà scontare altri diciassette per un precedente tentato omicidio.
voro”. I Laogai sono dei veri e propri campi di concentramento su cui si basa il sistema carcerario cinese. In Cina infatti, per reati “minori” si può essere rinchiusi per tre anni senza nessun tipo di processo. “Violazioni” come parlare di democrazia, mostrare idee politiche in conflitto con il regime o semplicemente appartenere a una minoranza etnica o religiosa vengono severamente punite. Una volta rinchiusi, i dissidenti devono confessare le proprie colpe e giurare fedeltà al governo. Le confessioni vengono quasi sempre estorte con metodi disumani come l’uso del bastone a scossa elettrica, frusta o manganello. Una volta “confessato”il proprio crimine, il detenuto ”operaio”, comincia la vera e propria “riabilitazione” attraverso il lavoro, che consiste in una quantità di oggetti da produrre in una giornata lavorativa di 18 ore. Se il detenuto non riesce a svolgere per tempo la sua “quota”, produttiva giornaliera, la razione di cibo diminuisce senza possibilità di appello. Ma tutto questo non basta, le atrocità più cruente vengono commesse contro i condannati a morte. In Cina ci sono sessanta reati per cui si può essere giustiziati. Una volta soppressi, si procede all’espianto degli organi: reni, cornee, cuore, prendono prontamente la via dei mercati internazionali. Se queste sono le ragioni del successo made in China, non sarebbe meglio che i governi mondiali invece di porgere supinamente mani e tappeti, intervenissero fattivamente per sopprimere (anche con la forza se necessario) l’ultimo “paradiso capitalista” moderno marchiato made in Falce e Martello?
Gianni Toffali - Verona
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Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
CISL, 60 ANNI E LI DIMOSTRA Pochi giorni fa la Cisl ha festeggiato il sessantesimo anniversario. Sessant’anni non sono pochi, ma nemmeno molti. È un sindacato vecchio? No, piuttosto è un sindacato che sta modificando la sua immagine giorno dopo giorno e mese dopo mese cercando di cogliere i mutamenti che si stanno verificando nel mondo del lavoro. Ma questo suo sforzo di adeguarsi al passo con i tempi è uno sforzo che comporta rallentamenti nel processo di cambiamento. I rallentamenti sono dovuti - se così si può dire - a una sorta di senso di colpa nei confronti della tanto proclamata (e mai avvenuta) unità sindacale, soprattutto con la Cgil. Il segretario generale Bonanni, proprio in occasione delle celebrazioni dell’anniversario ha voluto ricordare che il «conflitto serve, ma non può essere preventivo». Che vuol dire: quando c’è da fare sciopero per un fatto concreto va bene, quando invece viene proclamato lo sciopero per evitare che una data situazione si verifichi non va bene. E poi ha riparlato per l’ennesima volta di unità sindacale che si può fare dove si può fare. E cioè, viste le recenti e profonde spaccature e divisioni con la Cgil, praticamente quasi da nessuna parte. Quindi l’unità sindacale di cui si parla da quando sono nati i sindacati confederali è molto lontana. L’esperienza negativa degli anni Settanta di una federazione metalmeccanici uniti (la Flm) evidentemente brucia ancora e rischia di essere una esperienza negativa tombale per quanto riguarda il progetto unitario. Ecco perché la Cisl, ma anche Uil e Cgil, dovrebbero accelerare questo processo di cambiamento e adeguarsi a un mondo del lavoro profondamente cambiato rispetto a 60 anni fa, ma anche rispetto a 10 anni fa. Le tre confederazioni se ne accorgono, ma hanno paura di muovere i passi in quella direzione. E che le tre confederazioni siano lente nel procedere - in alcuni casi ferme - verso il cambiamento lo dimostrano i dati sugli iscritti del 2009: ormai il 48-50% dei tesserati appartiene alla categoria dei pensionati. La Cisl su quattro milioni e mezzo di iscritti ha 2 milioni e 276mila pensionati; la Uil su 1 milione e 300mila ne ha 574 mila mentre la Cgil conta quasi 3 milioni di pensionati su 5 milioni e 700mila iscritti. E questo perché? Perché le nuove categorie professionali, i giovani costretti ad accettare lavori temporanei di vario genere, in certi casi non catalogabili secondo i vecchi schemi, i liberi professionisti (che non sono più i soliti medici, notai, avvocati) non vedono la necessità di iscriversi a un sindacato che in molti casi non li prevede come soggetti attivi. Certo, il processo di cambiamento per organizzazioni con una lunga storia alle spalle è necessariamente lungo, ma deve procedere giorno dopo giorno. bacarani@gmail.com
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ULTIMAPAGINA Messico. Lettera aperta del direttore del “Diario de Juarez” ai cartelli della droga per arginare la morte dei suoi reporter di Osvaldo Baldacci osa può fare un padre per proteggere la sopravvivenza dei propri figli minacciati? Fino a dove si può spingere per proteggere la loro vita? Chi magari ha la stoffa dell’eroe ed è pronto a dare la propria vita per non cedere all’ingiustizia, come si comporterebbe quando in pericolo è la vita dei suoi cari? Non è facile rispondere a queste domande, anche se certo l’empatia verso quel padre non può non scattare in modo tanto naturale quanto forte. Ma poi i dubbi restano. Forse non è proprio un padre, ma certo la metafora può aiutare a entrare nella difficile realtà che si è rivelata in questi giorni a Ciudad Juarez, in Messico. Dove un direttore di giornale si è mostrato rassegnatamente e disperatamente disponibile a piegarsi ai diktat dei narcotrafficanti per salvare la vita dei suoi giornalisti. Ciudad Juarez è una città al confine con la California. Se tutto il Messico è squassato dalla violenza dei narcotrafficanti e i morti negli ultimi anni si contano a migliaia, Ciudad Juarez è uno degli epicentri di questa tragedia cui aggiunge altri lutti suoi propri: la città è infatti famosa anche per la strage di donne, almeno 5mila assassinii in meno di 20 anni, come raccontato anche dal celebre film con Jennifer Lopez e Antonio Banderas intitolato Bordertown (2007). Juarez è considerata la città più pericolosa del mondo. Nel solo 2009 ci sono stati oltre 2500 omicidi. La violenza dunque è di casa in questa terra della disperazione e senza legge. E spesso nel mirino ci sono i giornalisti. La Commissione nazionale dei Diritti umani (Cndh) ha registrato che dal 2000 sono 65 i giornalisti e fotoreporter uccisi nel corso dell’esplosione della guerra legata al narcotraffico (11 quest’anno), e altri 11 risultano dispersi, mentre ci sono stati 16 attentati contro le sedi di media. Il Messico è considerato uno dei Paesi più pericolosi per la stampa.
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In questo clima quotidiano, il 17 settembre il fotografo di 21 anni del periodico El Diario de Juarez, Luis Santiago Orozco, è stato ucciso, e un altro, Carlos Sanchez, è rimasto ferito in un attacco di sicari nel parcheggio del Centro Comercial Juarense. Pochi minuti prima era sceso dal veicolo un altro ragazzo che si trovava con loro, figlio di un noto militante per i diritti umani della città, fatto per il quale gli investigatori ritengono che si sia trattato di un attentato politico. Esasperati dall’ennesimo omicidio mirato, Domenica il Diario de Juarez ha aperto la prima pagina con un titolo cubitale: «Cosa volete da noi?». La domanda, tragica, era rivolta ai capi della criminalità organizzata. «In questa città voi rappresentate, di fatto, l’autorità ... Allora diteci cosa vi aspettate da noi in quanto giornale», si legge nella lettera aperta ai boss dei cartelli della droga, pubblicata dopo i funerali del giornalista. Un altro giornalista del Diario, Armando Rodriguez, venne ucciso nel 2008 mentre accompagnava le figlie a scuola. I giornalisti accusano le autorità messicane di inazione se non di connivenza e attribuiscono loro le stesse responsabilità dei cartelli per le intimidazioni cui fanno fronte. Per questo El Diario ha deciso di chiedere cosa i narcos vogliono sia pubblicato e cosa invece deve essere tenuto nascosto per evitare l’uccisione dei propri giornalisti. «Non vogliamo altri morti. Non vogliamo altri feriti né intimidazioni - si legge nell’editoriale - Non possiamo esercitare la nostra professione in queste condizioni. Spiegateci dunque cosa vi
Cari narcos,
VI SCRIVO… Dal 2000 sono 65 i giornalisti e fotoreporter uccisi nel corso dell’esplosione della guerra legata al narcotraffico (11 solo quest’anno), e altri 11 risultano dispersi, mentre ci sono stati 16 attentati contro le sedi dei media e delle stazioni tv
aspettate da noi come mezzo di comunicazione, così sapremo come comportarci». Il pezzo sottolineva che il giornale non intende smettere di informare su quanto avviene in città, ma solo avere una sorta di «tregua con chi ha imposto con la forza la propria legge». L’editoriale ha provocato uno choc. Il governo messicano ha escluso che possa esserci una tregua nella lotta intrapresa contro i cartelli della droga. Il portavoce del presidente messicano Felipe Calderon per le questioni di sicurezza, Alejandro Poire, ha affermato che non possono esserci negoziati con i criminali. «È semplicemente non appropriato promuovere in qualsiasi forma o da qualsiasi
parte una tregua o un qualche tipo di accordo con dei criminali», ha detto Poire.
Immediata la replica del direttore del Diario, Pedro Torres, che parla dell’intenzione di provocare: «Abbiamo voluto provocare una reazione, suscitare attenzione in tutto il Paese per quello che sta accadendo a Juarez». Torres ha assicurato che il quotidiano messicano non ha alcuna intenzione di cedere di fronte al crimine organizzato. Certo i dubbi restano, e anche il dilemma etico. Già da diversi anni le organizzazioni della stampa hanno avvertito del rischio di autocensura dei media messicani. Quale era davvero l’intenzione del giornale che ha scritto un editoriale così dettagliato? Quali saranno ora gli effetti di questa pietra ormai scagliata? Dove è lecito arrivare per salvaguardare la sopravvivenza dei giornalisti? E se non si ha la vocazione al martirio, non è forse meglio smettere di fare questo lavoro piuttosto che farlo piegandosi ai ricatti dei criminali? Ma allo stesso tempo come ci si difende quando si ha l’impressione che le autorità siano assenti, la giustizia impossibile, le forze politiche e quelle di sicurezza ampiamente colluse? Tutte domande che è importante farsi, ma che certo è più facile farsi da qui, lontano da Ciudad Juarez.