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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 25 SETTEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Bossi: «Su Gianfranco ormai non si può più contare». Casini: «Il premier non raggiungerà quota 316 senza i finiani»
Fango, bugie e videotape In scena l’asse Berlusconi-Di Pietro: anche l’ex pm cavalca le dimissioni di Fini.Il ministro di Santa Lucia: «La lettera è autentica».Ma il presidente della Camera: «Basta,oggi un filmato con la mia verità» IRRESPONSABILITÀ AL POTERE
MONTECARLO, RIFIUTI, IOR
Ora stanno distruggendo lo Stato
Che bello, ritorna la teoria del complotto!
di Enrico Cisnetto
di Enzo Carra
elle stesse ore in cui si è consumato il “caso Profumo”, la vicenda che contrappone il presidente del Consiglio Berlusconi al presidente della Camera Fini ha toccato vette di inaudita indecenza, trascinando il sistema politico e istituzionale in una crisi che nemmeno ai tempi di Tangentopoli aveva raggiunto livelli così drammatici. Si dirà: che c’entra il dimissionamento dell’amministratore delegato di Unicredit con il caos politico che blocca il Paese ormai da mesi? Formalmente niente, ma in realtà si tratta di vicende dello stesso segno. È chiaro anche ai bambini, infatti, che quella sorta di impeachment di Profumo che ha poi portato alla sua defenestrazione è partito da esponenti di primo piano della Lega.
oi che non c’eravamo fermati alle apparenze dichiariamo adesso la nostra grande soddisfazione per il riapparire della vecchia, cara teoria del cui prodest. Il «complottismo». Era ora! Finalmente riassaporiamo quel gusto perverso dell’arabesco: se c’è un delitto, chi l’ha compiuto non l’ha fatto certo per uccidere, chissà «cosa c’è sotto». Il delitto può essere stato commissionato dalla stessa vittima. Poi ci sono i Rossi che “oggettivamente”fanno il gioco dei Neri. I Neri che ammazzano i Rossi per incastrare altri Neri e così via. Certo, i tempi non sono più quelli del secondo Novecento. Per esempio: non c’è il generale Maletti, ma un certo Pio Pompa. Comunque, sempre meglio di niente.
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Il grido d’allarme del finiano Moffa
«Serve subito una tregua. Altrimenti sarà la fine» Riccardo Paradisi • pagina 3
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I rapporti tra intelligence e Palazzo
È solo una creanzella Così si chiamano, in gergo, i favori ai politici del sottobosco dei servizi
segue a pagina 2
su Mobydick
Pierre Chiartano • pagina 4
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Pietro Citati racconta il suo nuovo lavoro sul Poeta
Italia, non sai chi è Leopardi «Neanche noi conosciamo ancora la sua grandezza»
La debolezza del “fattore locale”
Unicredit e Fiat: vittime del virus globale Francesco D’Onofrio • pagina 29
In città torna l’immondizia
Ma a Napoli l’emergenza rifiuti non è mai finita Alessandro D’Amato • pagina 7
«L’Europa cresce, noi no»
di Gloria Piccioni na vera e propria impresa che è suoi devastanti effetti e la depressione costata sei anni di «studi matti e psicotica) e dell’opera. Senza tuttavia disperatissimi». Il risultato non riuscire a superare la sensazione di porta però i segni della fatica perché spavento che l’impresa comporta. questo Leopardi di Pietro «Leopardi mi ha fatto e Citati (appena pubblica- Un testo scorrevole continua a farmi spavento da Mondadori, 22,00 e denso, che non risente to» spiega Citati. «Se rieuro) oltre a essere un li- della fatica dell’impresa: penso a questi anni di bro scorrevolissimo nellettura e di rilettura, il sei anni di «studi matti senso la sua densità, ha l’impadominante è di reggiabile pregio di con- e disperatissimi» spavento e insieme di tagiare il lettore. Un’imsterminata grandezza. mensità quella di Leopardi che Citati Forse dico una cosa banale, ma noi anesplora senza arretramenti, in tutti gli cora non ci rendiamo ancora conto delaspetti della vita (anche quello della la grandezza di Leopardi». malattia - la tubercolosi ossea con i a pagina 16
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EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
187 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Emma contro Silvio «Il nostro Paese sta peggio degli altri» Francesco Lo Dico • pagina 6
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
la polemica
prima pagina
L’irresponsabilità come metodo di potere
pagina 2 • 25 settembre 2010
Ora stanno distruggendo lo Stato di Enrico Cisnetto segue dalla prima Quei leghisti che nei mesi scorsi (subito dopo le Regionali) hanno prima preso di mira le scelte gestionali del management di Unicredit, considerate troppo internazionali e poco attente al territorio, e poi hanno lanciato violenti attacchi, del tutto strumentali, all’ingresso del capitale di Unicredit di finanziarie della Libia, che hanno accumulato una quota del 7,6% e sono state accusate di ordire una scalata ostile. Ed è grazie a questa manovra impropria che Profumo è stato costretto alle dimissioni, quando c’erano altri motivi e altre circostanze che avrebbero anche giustificato una tale scelta da parte degli azionisti, ma sicuramente non in questo modo truculento e con questo background di motivazioni alle spalle. Inoltre la manovra, al di là di far fuori Profumo, aveva ben altro scopo: impossessarsi del controllo, diretto o indiretto (a volte basta far capire chi comanda), delle fondazioni bancarie. Nello specifico, quelle socie di Unicredit (Verona e Treviso, per poi passare a Torino), ma per emulazione tutte le altre. D’altra parte, quando il 29 agosto Zaia a“Cortina InConTra”dichiara circa i posti nei board delle fondazioni bancarie “meglio i mie amici che gli amici degli altri”, quale altra lettura si deve dare della vicenda che si è consumata nei giorni scorsi?
Ma la cosa ancora più grave e clamorosa è che per far questo si è scelto il “caso Libia”, creando la seguente paradossale situazione: il Governo accoglie in pompa fin troppo magna il colonnello Gheddafi, come nessuno in Occidente fa, e qualche giorno dopo il partito, la Lega, che dello stesso esecutivo detiene la golden share, accusa i fondi sovrani libici di ingerenza per aver fatto un’operazione di mercato. Non ci vuole molto per capire quale figura barbina abbiamo fatto sulla scena internazionale, e come di conseguenza sia precipitata la già declinante credibilità del Paese nel suo insieme. Per questo considero il caso Unicredit l’epifenomeno di qualcosa di più complesso e preoccupante di quanto già non sia l’ennesimo tentativo dei partiti di comandare nelle banche: sto parlando della rovinosa caduta delle impalcature portanti del “potere”in Italia, inteso come sistema che incrocia e interconnette politica, istituzioni, economia, finanza, informazione, rappresentanze sociali. E questo non solo perché, piacesse o meno, Profumo era uno dei tre banchieri più potenti del paese e Unicredit la banca più forte e quinta in Europa, ma perché nelle modalità della sua estromissione ci sono tutti i sintomi della spaventosa crisi strutturale del sistema-Italia, del declino che rischia di farsi irreversibile. Cioè quel “tutti contro tutti”che è diventata la cifra della vita politica, e in particolare dei rapporti dentro il governo e la maggioranza. Mica solo il duello Cavaliere-Fini, peraltro. Come lo volete chiamare lo scambio di gentilezze tra alleati colleghi di governo come quello tra Miccichè e La Russa, la compravendita dei parlamentari e dei loro seggi futuri, le accuse reciproche di dossieraggio e di uso dei servizi, il giro spaventoso di foto private e intime, lo sputtanamento in merito alle abitudini sessuali degli avversari (pardon, nemici)? Confronto politico un po’ sopra le righe? O non piuttosto sistematico smantellamento delle travi portanti del sistema politico-istituzionale? E se si combatte una guerra simile, volete che a qualcuno possa venire lo scrupolo di mettere in gioco la più grande banca del paese e magari di rischiare di destabilizzare l’intero sistema creditizio? No di certo. Ecco perché non siamo di fronte solo a uno “spettacolo desolante”, come l’ha chiamato Ostellino sul Corriere della Sera, bensì a qualcosa di ben più grave e pericoloso. Fermatevi, intima Stefano Folli, saggiamente. Ma temo che non sarà ascoltato. (www.enricocisnetto.it)
il fatto Bossi: «Gianfranco è inaffidabile». Casini: «Senza di lui, il governo non ha i voti»
Torna l’asse Berlusconi-Di Pietro Sospesi tra Montecarlo e Santa Lucia: anche l’ex-magistrato chiede le dimissioni di Fini che annuncia: «Oggi la mia verità» E dai Caraibi dicono: «Quella lettera è vera» di Errico Novi
ROMA. Pare quasi che commetta sacrilegio, Fini, nel momento in cui torna sulla scena e parla di politica. Non di patacche, paradisi fiscali, case trasfigurate in peccato originale. Ma di politica, di legge elettorale, di Europa da difendere e ridotte padane da evitare. Sarà un caso, ma proprio di fronte a una simile svolta strategica, sul presidente della Camera si abbatte un anatema uguale e contrario a quello del Cavaliere: lo pronuncia Antonio Di Pietro, secondo il quale «devono andarsene a casa tutti e due, il ricattatore, cioè Berlusconi, e il ricattato, Fini». L’ex pm si iscrive nella schiera di quelli che vedono la Terza carica dello Stato con le mani sporche di marmellata e per questo destinato all’impotenza contro il premier. Perciò, almeno in apparenza, lo attacca «facendo un favore proprio a Berlusconi», come nota subito Fabio Granata. In realtà Di Pietro coglie forse la stessa novità intravista dall’ex leader di An: l’evidente affanno di Berlusconi nel suo tentativo di sbarazzarsi del rivale, e il rischio per il presidente del Consiglio di diventare figura marginale nel vero conflitto della maggioranza, quello tra Lega e finiani. Inquietato dall’idea di perdere, con Berlusconi, la sua stessa ragione sociale, Di Pietro tenta di rimettere in vita la strategia del Cavaliere con l’entrata a gamba tesa su Fini. Al quale peraltro non sugge la necessità di scrollarsi di dosso la fuliggine del caso immobiliare. Cosicché a metà giornata dal suo ufficio stampa si rende noto che oggi il numero uno di Montecitorio registrerà un vi-
deomessaggio, per chiarire «la sua verità su Montecarlo». Lo trasmetteranno i siti del Secolo d’Italia, di Generazione Italia e di Libertiamo, il think tank di Benedetto Della Vedova. Sarà la risposta alla «campagna di controinformazione» sulla vicenda agitata da mesi sulla stampa vicina al premier, a cui si aggiunge la dichiarazione del ministro di Santa Lucia secondo cui l’abitazione monegasca è, come già detto nella lettera di due giorni fa, di Giancarlo Tulliani. Ma nel suo discorso Fini toccherà anche gli altri temi dell’attività politica. Comunque si tratta di un modo per non restare appesantito dalle voci e dagli scandali costruiti negli ultimi giorni. Mettere un punto sulla vicenda, questa è l’intenzione del presidente della Camera, quindi dedicarsi esclusivamente alla politica. Innanzitutto nella veste istituzionale, riprendendo però anche i temi caldi del dibattito. Cosa che in parte la Terza carica dello Stato già fa in una giornata come quella di ieri, vissuta tra le scorie delle polemiche sui servizi deviati e l’attesa per la conferenza stampa del governo caraibico. Tocca vari temi in due diversi interventi, Fini, in mattinata al Festival del diritto di Piacenza e nel pomeriggio a una presentazione del suo libro a Salsomaggiore. Prima si sofferma sulla «maledizioni della politica italiana» che trasforma «ogni giorno in un Dday», e rende impegnativo il confronto sui temi veri. Ricorda al suo uditorio ma anche a Berlusconi che «le riforme non sono annunci, non si fanno dalla sera alla mattina», e che dunque il tempo perso dietro i gos-
l’intervista
«Fermiamoci, siamo sull’orlo del baratro» Parla Silvano Moffa (Fli): «Abbiamo proposto un patto, ci hanno risposto con il killeraggio» Riccardo Paradisi dura la vita dei moderati quando la politica si fa con le mazzate, le accuse di dossieraggi, le campagne di delegittimazione e insomma i colpi proibiti che sono sugo e struttura del dibattito italiano. Eppure c’è ancora qualcuno che paziente cerca di non smarrire nella maggioranza il filo del dialogo, «per senso di responsabilità verso il Paese» dice Salvatore Moffa, esponente di Futuro e libertà e presidente della commissione Lavoro. Presidente Moffa, non deve essere facile il lavoro del pontiere mentre cadono le bombe Non lo è infatti Ma è almeno un lavoro possibile? Insomma ci sono le condizioni per tenere aperta ancora la porta a un dialogo seppure minimo? Più di quello che si potrebbe immaginare. In realtà malgrado l’assordante rumore che viene dalle curve il filo del dialogo non s’è mai spezzato. Certo il clima di questi giorni e di queste ore sicuramente non aiuta, ma l’auspicio è che alla fine vinca il senso di responsabilità nei confronti del Paese. Voi cosa vi aspettate dal discorso di Berlusconi alla Camera il prossimo 29 settembre? Che abbia anzi tutto il tono giusto, che sia un discorso non polemico, che faccia proprie le ragioni e le proposte di tutta la maggioranza. Insomma che sia un discorso concretamente rivolto ai problemi del Paese per un rilancio programmatico del governo, che soprattutto contenga elementi per passare da una fase di contenimento a una di ripresa e Dalla dottrina Tremonti alla dottrina Baldassarri insomma. Non è questione di dottrine, piuttosto di cambio di passo: se si vogliono davvero fare le riforme bisogna cominciare. E sarebbe anche il modo per uscire da questa palude di polemiche sterili e suicide per la maggioranza ma quello che più è grave per il Paese. Lei parla di dialogo ma ieri il capogruppo alla Camera di Fli ha congelato le trattative sulla giustizia. Guardi sul tema della giustizia io mi auguro che si trovi il modo di superare questa non più sopportabile conflittualità tra poteri dello Stato, che si avvii una riforma della giustizia che contenga anche uno scudo per le alte cariche dello Stato e nella quale
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non sia sacrificato nulla alla certezza del diritto. Questo è l’obiettivo.Tenendolo fisso, perseguendolo, episodi come quello che lei ha citato possono restare nella dimensione del corpo a corpo politico quotidiano. Episodi superabili quindi. Comprese le reciproche accuse di dossieraggio e di irresponsabilità che volano in queste ore? Ci vuole uno sforzo naturalmente e una disponibilità. A partire da Berlusconi. A partire dall’accettazione di una nuova realtà che si è ormai determinata e cioè la formazione di un nuovo e autonomo gruppo parlamentare. Accettazione da cui discende il pieno riconoscimento di una nuova articolazione del centrodestra. Perché con la costituzione del gruppo di Fli la maggioranza resta tale ma disegna in forma nuova la sua geografia e la sua geometria. Eludere un confronto aperto con la caccia al 316 è inutile oltre che infruttuoso. Su questa strada non si va da nessuna parte. Insomma Berlusconi deve riconoscere che al centrodestra è spuntata un’altra gamba. Più che riconoscerlo deve prenderne atto, da qui possono nascere tutte le condizioni per un confronto serio attraverso le riunioni programmate dei gruppi. Del resto trovo davvero irrazionale il fatto che Berlusconi non comprenda come la nascita del gruppo di Futuro e libertà costituisca un bilanciamento complessivo all’interno della maggioranza, virtuoso e utile anche per lui. Un bilanciamento rispetto all’asse del nord Bossi-Tremonti intende dire. Certo. Del resto questa era l’offerta che lo stesso Fini aveva inserito nell’atto di fondazione del Pdl: un partito non schiacciato sulle posizioni leghiste. Non è andata proprio così, s’è anzi verificato un trascinamento che condiziona il governo e anche Berlusconi. E che – sembra un paradosso – condiziona negativamente la stessa Lega. Si spieghi meglio. Intendo dire che la Lega non può seriamente pensare di costruire un federalismo contro il sud. Insomma oggi che siamo agli albori di un federalismo solidale è interesse della Lega – la cui ragione sociale è il federalismo – trovare le condizioni per realizzarlo. E questo è il momento perché sarà molto diffici-
Come fa Berlusconi a non capire che Futuro e libertà costituisce un bilanciamento all’interno della maggioranza?
sip è anche troppo, se davvero il Cavaliere vuole chiudere in bellezza la legislatura: Non trascura un passaggio sulla scuola, in linea con i recenti moniti di Napolitano: «L’unico settore in cui oggi bisogna inevitabilmente investire è quello dell’educazione, non capirlo significa avere una visione di corto respiro».
Insomma torna il Fini di prima dell’estate, quello che parla da uomo delle istituzioni non senza illustrare in modo pacato visioni tuipiche del leader politico. E la seconda sfumatura emnerge più chiaramente quando nel suo discorso sulla giustizia affronta la questione dello scudo gioudiziario per il premier: «Il presidente del Consiglio ha il diritto e il dovere di governare, quello che non può essere fatto è che per qualcuno si facciano interventi che penalizzino altri.Tutelare la funzione del presidente del Consiglio non è negativo». C’è dunque persino la disponibilità dell’ex leader di An a ragionare sullo scudo per il Cavaliere. Ma a una posizione costruttiva e libera dai veleni quotidiani, corrisponde appunto la sollecita rappresaglia dipietrista. «Vada a casa anche lui», è il segnale dell’ex pm. Rilanciato dal suo responsabile giustizia Luigi De Magistris: «Il presidente della Camera deve fugare ogni ombra sulla casa di Montecarlo». Cambio di strategia, quella dell’Idv, che si riflette anche nella posizione non benevola assunta nei confronti di Fini dal Fatto di Antonio Padellaro. È il quotidiano dell’opposizione giusti-
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le pensare che domani si ripresenteranno circostanze politiche così favorevoli. Fa un certo effetto sentire ragionare in questi giorni. Lei ammetterà che anche dentro Futuro e libertà i toni non sono proprio sereni. Dentro i gruppi politici esistono sempre sensibilità diverse ma tenendo fermo che gi animi dovrebbero distendersi non manca a nessuna persona ragionevole la consapevolezza che la via d’uscita sia un patto di legislatura. È il messaggio politico di Mirabello dove Fini ha offerto a Berlusconi anche la disponibilità a uno scudo giudiziario. A queste proposte s’è risposto con un’intensificazione del killeraggio. La replica che si sente all’interno del Pdl è che anche Fini ha fatto la sua parte: lo smarcamento sistematico, il fuorionda di Pescara con il magistrato Trifuoggi su Spatuzza… In un’intervista prima dell’espulsione Fini aveva ammesso: «Tutti abbiamo sbagliato, inseguendo i falchi che ci sono nei due schieramenti». Un segnale di distensione a cui si è risposto con l’espulsione. E ora che cosa accadrà Moffa? Mi auguro che la ragionevolezza prevalga perché questo duello a colpi di clava si disputa sull’orlo d’un baratro. Penso alla disoccupazione giovanile che impenna, ai 170 tavoli aperti al ministero del Lavoro, agli ammortizzatori sociali che ancora non facciamo, alla scadenza dei titolo pubblici e agli 83 miliardi da immettere nell’eurozona. Insomma non possiamo permetterci di mandare all’aria un governo ma Berlusconi deve capire che ci sono condizioni nuove.
zialista a riportare in prima pagina le dichiarazioni del “guardasigilli”di Santa Lucia, Rudolph Francis, e ad annunciare la conferenza stampa del governo caraibico. Di Pietro sente il fiato sul collo del ritorno di Beppe Grillo, ospitato nella prima puntata di Annozero. Ma avverte anche gli scricchiolii provenienti da Palazzo Grazioli. Berlusconi pare in difficoltà, sulla prova dei
registra, nel suo intervento al “Camp”di Paestum organizzato da Enrico Letta, l’assonanza con il vicesegretario democratico su una «opposizione responsabile», Berlusconi è alle prese invece proprio con le cattive notizie provenienti dalla Sicilia: in un’intervista al Mattino Raffaele Lombardo ribadisce che il voto al governo dei suoi parlamentari non è scontato e che il percorso comune in vista è quello con «Udc, Api e Fli». E non sono i soli problemi, per il Cavaliere. Il quale è apparso «stanco e sfiduciato» ai deputati toscani del Pdl in rotta con Verdini che gli hanno fatto visita giovedì scorso. Tanto da aver già ripiegato su una semplice risoluzione senza voto di fiducia, in vista del 29 settembre. In più, il premier pare sempre meno convinto dell’efficacia del“metodo Boffo”applicato a Fini. Già due giorni fa, subito dopo la pubblicazione della lettera di Santa Lucia, si era preoccupato di ricordare la sua inclinazione al garantismo «che vale anche per Fini». Fino alla curiosa coincidenza di ieri: proprio alla vigilia di un nuovo probabile affondo contro il presidente della Camera, Vittorio Feltri lascia la carica di direttore responsabile del Giornale al fido vice Alessandro Sallusti, ritornando a fare il direttore editoriale, com’era già avvenuto a Libero. Circostanza insignificante, secondo i due giornalisti. Ma forse non è del tutto casuale il suo verificarsi improvviso, proprio nel momento in cui la tempesta di fango non sembra in grado di seppellire l’ex leader di An.
Il leader dell’Italia dei valori attacca Montecitorio proprio nel momento di maggiore affanno del Cavaliere. Che registra anche l’addio di Feltri alla direzione del “Giornale” numeri fissata per il 29 e sul tentativo di scardinare Futuro e libertà. Lo nota persino Umberto Bossi, che ai cronisti in Transatlantico svela tutte le sue perplessità: «Berlusconi e Fini ormai non si prendono più. Sui voti di Fini non ci si può contare, ma Berlusconi dice di avere i numeri...». Chiosa ironica che si traduce nella fredda osservazione di Pier Ferdinando Casini: «Il governo non raggiungerà la maggioranza di 316 deputati senza l’apporto dei finiani e dell’Mpa. E se pure vi riuscisse non servirà a nulla», soprattutto se «non chiederà più il voto di fiducia».
Se il leader dell’Udc spiega, a proposito delle posizioni di alcuni suoi parlamentari siciliani, che «se andranno via in due o tre sarà già tanto», e nello stesso tempo
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l’approfondimento
Se fossero verificate le accuse contro Valter Lavitola sarebbe solo l’ultimo, in ordine di tempo, di un malcostume tutto italiano
La creanzella
È il nome con cui, in gergo, vengono indicati i “favori“ (dai contorni illegali) con i quali personaggi minori, legati al sottobosco dei servizi, cercano di accreditarsi presso i politici. Ricordate Pio Pompa, la zarina del Sisde, il caso Mitrokhin? di Pierre Chiartano i risiamo, la politica nostrana quando non sa come fare, quando deve uscire da un angolo in cui il teatrino quotidiano delle dichiarazioni l’ha infilata, ha un metodo sicuro per driblare e rilanciare l’azione: mettere in mezzo i Servizi. «Deviati, collusi o infedeli» non importa, tanto viviamo in un Paese dove, per decenni, di politica estera e di sicurezza non se ne interessava nessuno. È pur vero che qualche volta le “barbe finte” non hanno disdegnato le cosiddette “creanzelle” ai politici. Una maniera per far carriera più in fretta. Ma parliamo spesso del sottobosco dell’intelligence nostrana, più legata la passato che al presente. Ed è questo il caso di cui parliamo? Certo non aiuta anche un’informazione spesso digiuna sul tema. Occuparsi di certi argomenti, durante la Prima Repubblica, era una sorta di guardia al bidone, con una classe dirigente molto presa dalla gestione e dalla spoliazioni delle risorse del Paese, diventava una perdita di tempo occuparsi di
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questioni che non producevano nulla di “concreto”. Qui è nata l’ignoranza su di un mondo, quello della difesa della sicurezza democratica dello Stato, che ha prodotto e ancora produce – purtroppo – un florilegio di inesattezze che a volte diventano bufale. Se a questo aggiungi la naturale propensione alla millanteria di certi italiani, la ricetta è pronta. E perché poi, politica e stampa non dovrebbero usarla? Ma cominciamo per gradi, dall’ultima vicenda.
Nella trasmissione di Michele Santoro di giovedì è emersa una querelle vecchia – la casa di Montercalo venduta da Alleanza nazionale – con un nuovo condimento: i nostri servizi. Una vicenda che poco avrebbero a che fare con la difesa e la sicurezza dello Stato. Da che mondo e mondo i funzionari pubblici fanno a gara per rendersi utili al potente di turno, perché mai l’ambiente dell’intelligence dovrebbe essere immune da questa tendenza? Ricordiamo vicende vecchie e
nuove: dalla zarina del Sisde a Pio Pompa, dai fondi riservati utilizzati per sistemare le case dei politici, agli agenti che accompagnavano a fare shopping certe première dame. Oppure l’affaire Mitrokhin, con intrecci complessi che la stampa nostrana aveva succintamente ridotto al termine di «sbianchettamento». Ma questo è il passato; oggi, tra mille riforme dichiarate e in parte attuate, si dovrebbero risolvere i nuovi problemi dell’intelligence, come quella del passaggio verso
L’attività di intelligence è cambiata completamente dopo il 2001
compiti di law enforcement per un miglior contrasto al terrorismo. Ma a nessuno importa delle cose serie: ciò che conta e poter mettere sul banco un mondo che, per ufficio, non può difendersi.
Obbedire tacendo, per aspera ad veritatem, scientia rerum reipubblicae salus sono tanti i riferimenti a una condotta, uno stile di lavoro e di vita che possono facilmente mostrare il fianco a speculazioni. «Sono del Sisde». «È questo che mi
brucia di più. Io credevo che questo fottuto mestiere potesse essere utile. Come utile – certo – può essere un posto dove la legge non è la legge, ma la legge è il potere. Ora posso soltanto vergognarmi. (...) Ebbene, io sono una spia finita. E come me, tutti. Finiti. Noi abbiamo la nostra personale responsabilità, ma le colpe più gravi sono in alto».Vi ricordate questi passaggi di un famoso articolo con la confessione di una spia? Eravamo nel 1993 e questo era ciò che era diventato il servizio interno – altra storia per quello militare. Sono passate ere geologiche da quegli anni, i servizi di oggi sono imparagonabili con quella situazione. L’11 settembre e le nostre missioni all’estero hanno trasformato non solo le forze armate, ma anche l’intelligence, sia civile sia con le stellette. Ma sembra che la percezione generale su quel mondo sia rimasta la stessa. Ciò non toglie che nel sottobosco di funzionari insoddisfatti, frustati per una carriera mai decollata, ci siano elementi che
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Il cortocircuito tra «dietrologia» e problemi reali produce un effetto farsesco
Rifiuti, Ior, Santa Lucia: evviva, ritorna la teoria del complotto Siamo il Paese in cui nessuno si prende la responsabilità degli errori e a una domanda si risponde con un’altra domanda: «Cui prodest?» di Enzo Carra oi che non c’eravamo fermati alle apparenze dichiariamo adesso la nostra grande soddisfazione per il riapparire della vecchia, cara teoria del cui prodest. Era ora! Finalmente riassaporiamo quel gusto perverso dell’arabesco: se c’è un delitto, chi l’ha compiuto non l’ha fatto certo per uccidere, chissà «cosa c’è sotto». Il delitto può essere stato commissionato dalla stessa vittima. Poi ci sono i Rossi che “oggettivamente” fanno il gioco dei Neri. I Neri che ammazzano i Rossi per incastrare altri Neri e così via. Certo, i tempi non sono più quelli del secondo Novecento. Per esempio: non c’è il generale Maletti, ma un certo Pompa. Comunque, sempre meglio di niente.
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Prendiamo tre questioni all’ordine del giorno: la risorgente monnezza a Napoli, la nuova inchiesta sull’Istituto per le opere di religione, la prima dopo Marcinkus, la coventrizzazione di Fini ordinata da Berlusconi. In ciascuna di queste operazioni soltanto i sempliciotti di provincia si bevono le notizie dei giornali. Il pubblico più avvertito, invece, ha già fatto l’abbonamento praemium per i retroscena e con le verità nascoste. Lo spettacolo è fortissimo. Eccoci a Napoli. Prima dell’intervento di Berlusconi la spazzatura arrivava ai primi piani. Poi d’incanto era sprofondata in un indefinito buco nero. In questi giorni è riapparsa trionfante, disgustosa, maleolente. L’osservatore distratto e il napoletano preso alla gola da tanto luridume pensano subito che la causa della nuova invasione stercoracea sia unicamente l’assenza di una effettiva politica antirifiuti del governo. Non è così, ovviamente. Lo ha detto con precisione asburgica il capo della Protezione Civile. Bertolaso, dribblando i miasmi è passato direttamente ai sospetti: «Qualcosa non mi torna», ha dichiarato, scavando una voragine di dubbi. Il sottosegretario ha puntato il dito sui «tentativi di smarcarsi, di passare il cerino a qualcun altro o di dire che qualcosa non è stata fatta bene perché ce ne siamo occupati noi». Ci siamo, dunque, il cui prodest è stato trovato. La monnezza torna a schiaffeggiare e far svenire per la puzza i napoletani, ma il vero scopo è un altro: accusare il governo. Dàgli all’untore. Speriamo che Bertolaso faccia presto i nomi di quei suoi fottutissimi avversari che pur di fargli fare brutta figura trascinano nuovamente i rifiuti per i vicoli e le periferie di
una città che non è più bagnata dal mare ma dalle ecoballe.
Nelle stesse ore il Torrione di Niccolò V, sede dello Ior, è scosso da una inchiesta della Banca d’Italia. Dopo Angelo Caloia, che si era già lasciato dietro, cancellandole, le memorie di Sindona e della maxitangente Enimont, da
Si torna a una vecchia legge: ogni «delitto» può essere stato commissionato dalla stessa vittima appena un anno la banca è guidata da Ettore Gotti Tedeschi, banchiere di fama, amico di Tremonti. I tempi bui dello Ior sembrano quindi ancor più lontani. E, zac!, che ti fa Bankitalia? Blocca
due operazioni in odore di riciclaggio. Anche in questo caso non si guarda alla linea retta che unisce i due punti, l’istituto e gli organismi di controllo. Si passa immediatamente alle subordinate. «L’ipotesi è quella di un gioco di ostruzione interno, dell’esistenza insomma di una sorta di resistenza al cambiamento». La tesi illustrata da Il Foglio avrà certamente molti sostenitori e gran successo. A chi giova infatti gettare un po’ di fango sull’istituto Vaticano, come se questo non ne avesse raccolto già abbastanza? Certo: giova a qualche monsignore scaltro e impunito e ai suoi amici della vecchia guardia per colpire la nuova gestione il cui prodest è così assicurato.
Nello straordinario remake di Brancaleone alle crociate che è la guerra tra Berlusconi e Fini - nel quale la sola assenza che notiamo è quella di Monicelli, Age e Scarpelli perché i lati drammaticamente comici ci sono tutti - succede anche questo. Il documento del governo di Santa Lucia che incastrerebbe Fini è definito una “patacca” dei servizi segreti dagli amici del presidente della Camera. Poi questi precisano: non dei servizi si tratta ma di amichetti del premier. Il quale se la “patacca” dovesse rivelarsi vera avrebbe comunque segnato un rigore, con probabile espulsione del rivale. Ma no che non è così, semplicemente. Lo scrive a chiare lettere Marco Galluzzo sul Corriere della Sera: «Il premier è e resta garantista, non crede al documento che proviene dai Caraibi e che appare accusare il cognato di Fini perché al momento non c’è alcuna conferma ufficiale della sua veridicità. Insomma, in due parole: persino il Cavaliere ritiene possibile che sia una patacca». Con un tocco di classe, Berlusconi negando l’apparenza nega nello stesso tempo un proprio coinvolgimento in questa manovra. Siamo al cui prodest anche stavolta. Se, infatti, Fini se la cavasse, dimostrando che la “patacca” è tale, allora sarebbe certamente più difficile per i suoi amici votare ancora la fiducia ad un governo che copre i pataccari. Fa bene il presidente del Consiglio a prendersela con le apparenze, non si sa mai. Ne l f r a t t e m po , m e nt r e l’“achigiova?” è tornato in scena, se mai ne fosse disceso, un’altra novità s’affaccia nel panorama italiano. Nel Paese dove le dimissioni si minacciano e non si danno, è ora il gran momento delle querele che si valutano, senza però darle. Ne parleremo.
si prestino a “creanzelle”, favori, marchette a volte richieste a volte, addirittura, proposte. Chi ha responsabilità in questo ambiente si tiene debitamente alla larga da certe pratiche. E anche nel mondo dell’informazione c’è una specie di cortocircuito. Negli Usa è proibito all’intelligence di reclutare giornalisti: se vuoi rovinare la reputazione a un reporter – fargli rischiare la vita se lavora all’estero – devi solo dire che è «vicino ai servizi». In Italia è un titolo di merito, una competenza da sfoggiare, un fatto da bisbigliare con una certa sicumera. Tutte indicazioni su quanto poco si sia informati sui meccanismi che regolano questo mondo. In Italia somiglia tutto a un bel gioco di società. E la politica non è da meno.
Ci sono poi settori, come l’Osint, l’analisi delle fonti aperte, che è un pozzo senza fondo per dietrologie di ogni specie. Perché è un punto di contatto fra intelligence e l’informazione dei media. Pensate solo al caso della «fonte Betulla» che coinvolse il funzionario Pio Pompa. Ma c’è un precedente storico con J. Edgar Hoover, per quasi mezzo secolo, direttore dell’Fbi, che utilizzava l’amico magnate ed editore, Howard Hughes, per finanziare riviste scandalistiche con cui veicolare notizie pilotate. Ma è solo un esempio. In Italia i nomi sono Nigergate, Telecom, Abu Omar, tanto per fare qualche esempio. Tutte vicende passate nel tritacarne di una lettura tricolore della trama e che invece andrebbero inquadrate su di uno sfondo diverso. Il ridimensionamento dell’intelligence tradizionale, uscita dalla guerra fredda incapace di troppi cambiamenti. Un tentativo di Washington di favorire chi, invece, è abituato a fare law enforcement e deve solo imparare a farlo all’estero e con metodi un po’ differenti. Anche in Italia ci sono stati personaggi famosi, caduti in questa lotta giocata lontano da Roma. Niente a che vedere con un lavoro investigativo, come scoprire la proprietà di un bene immobile, in grado da essere svolto semplicemente da qualche scaltro investigatore privato o da un giornalista con buone entrature. E poi c’era il “colore” puro in cui, noi italiani, siamo maestri: il caso lady golpe. Costruito ad arte, da una parte della politica nazionale, diventata ansiosa dopo la caduta del muro. Era il periodo in cui Eltsin cannoneggiava la Duma moscovita per cacciare gli ultimi comunisti dalle strutture politiche russe. Così era nata una riedizione di un musical che era andato veramente forte nei decenni precedenti: il tintinnar di sciabole. Risultato: le carriere di qualche ufficiale stroncate, soliti mal di pancia nei palazzi romani, copertine patinate e uno spogliarello in tv, per la signorina coinvolta.
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Crisi. Attacco della presidente di Confindustria: «Mentre l’Europa ricomincia a crescere, noi siamo ancora fermi»
Emma smentisce Silvio
Marcegaglia: «Non è vero che l’Italia sta meglio degli altri Paesi» VIAREGGIO. «C’è stata la paura. E non è detto che sia già arrivato il momento della speranza», aveva concionato Tremonti dalla tribuna di Oggi. Mai aforisma fu più veridico. Che non sia momento di speranze non è semplicemente detto. È proprio scritto, a disposizione delle competenze matematiche di tutti, nei numeri dell’Istat. Non pervenuti a diversi esponenti del governo – o recepiti al massimo come vile dossieraggio di credibilità caraibica– non devono essere sfuggiti a Emma Marcegaglia. Dallo scranno dei tg nazionali,Tremonti ha assicurato fino a due giorni fa che «l’Italia non è in crisi». Ma la leader di Confindustria dev’essere poco avvezza ad andare a letto placidamente dopo il carosello minzoliniano. Perché dall’assise degli industriali toscani riunita a Viareggio, il presidente di viale dell’Astronomia ha dato l’ennesima scossa a un esecutivo sempre più imbarazzante: «Vogliamo che politica si concentri su crescita e occupazione», mette a registro Marcegaglia, che invita la classe dirigente, sempre più rotolante nel fango dei tristi tropici, ad accantonare la ridicola gazzarra sulle barbe finte «che leggiamo in questi giorni sui giornali».
Il ministro dell’Economia, con raro gusto per la litote, battezza questa Penisola bagnata dalla catastrofe come «terra incognita». Ma ai cittadini italiani pare ogni giorno di più di conoscerla a menadito. Balzo della disoccupazione
ste serie e immediate», altrimenti non «riusciremo a riassorbire la disoccupazione, a tenere in piedi il tessuto produttivo, ad aumentare il benessere di tutti». Serve un due per cento di crescita l’anno, spiega la presidente di Confindustria, che rampogna la maggioranza trionfante, colta a dipingere l’Italia come leader nell’export di virtù finanziaria. «Quando si dice che siamo andati meglio di altri Paesi non è vero», attacca Marcegaglia, «c’è la sensazione che stiamo uscendo dalla
Brunetta nega i numeri e contrattacca: «Ce la siamo cavata meglio di tutti». Ma il Pil arretra ed è l’ultimo dell’area Euro all’8,5 per cento, due milioni abbondanti di italiani senza lavoro, trenta per cento di giovani (al Sud il quaranta) senza occupazione. E soprattutto, a valle e a monte di tutte le impietose statistiche, una cifra sesquipedale che corrisponde a zero. Uno zero assoluto alla voce ammortizzatori sociali e provvedimenti anticrisi nel rendiconto di questo governo. «I problemi dell’occupazione non attendono i passaggi di parlamentari da una parte all’altra», incalza Emma Marcegaglia, ma richiedono «rispo-
to differenziazioni sulle diverse capacità di crescita nelle diverse aree, e appunto dati contrastanti. Il tema dell’incertezza rimarrà una costante con la quale avremo a che fare». E consapevole della differenza tra favola e analisi, Marcegaglia non ha dimenticato di suffragare il tutto con i più recenti dati sul Pil: «Le nostre previsioni parlano di una crescita dell’1,2% nel 2010 – ha spiegato – e dell’1,3 nel 2011 dopo aver perso tra il 2008 e il 2009 il 6». «Il dato che ci preoccupa – annota Marcegaglia – è che siamo entrati nella crisi quando eravamo già in crisi. La percezione che oggi abbiamo di uscire dalla crisi è inferiore alla media di crescita europea. Il mondo sta ricominciando a correre mentre l’Italia cresce troppo poco». Non solo, dunque non siamo usciti dalla crisi. Ma quando ci siamo entrati ufficialmente, a onta dello spietato negazionismo del premier, ci eravamo già dentro mani e piedi. Per conto nostro.
di Francesco Lo Dico
crisi con una capacità di crescita inferiore alla media europea». Né è meno fosca la proiezione nell’immediato futuro: «Probabilmente non rientreremo a livello nazionale ma anche internazionale in una seconda recessione», chiosa la leader degli industriali, «ma questa rimarrà una cifra chiara e lo sarà, dal nostro punto di vista, anche per i prossimi anni; siamo comunque in un quadro di incertezza. La visibilità che abbiamo davanti è limitata, e siamo in una fase in cui ci sono mol-
Nel 2010 cresceranno solo dello 0,3%
Consumi ancora deboli ROMA. «La crescita delle vendite al dettaglio di luglio rispetto allo stesso mese del 2009 non deve illudere più di tanto: nei primi sette mesi dell’anno la variazione resta nulla ed i consumi non decollano. Solo spiragli, dunque, ma la strada è lunga e conferma le previsioni Confesercenti-Ref secondo le quali i consumi delle famiglie si attesteranno nel 2010 ad un +0,3%. Ma soprattutto non bisogna sotle tovalutare grandi difficoltà delle Pmi». È il commento della Confesercenti ai dati Istat sulle vendite al dettaglio di luglio. «Va infatti anche considerato che nei primi sei mesi di quest’anno si è registrato un saldo negativo pari a 7.600 imprese in meno nel commercio al dettaglio. L’aumento delle vendite dello 0,6% di luglio per i piccoli negozi - prosegue Confesercenti - vuol dire che questi imprenditori non hanno recuperato neppure
l’inflazione. È senza dubbio una dimostrazione di responsabilità, ma le Istituzioni centrali e locali non debbono restare a guardare. Occorrono interventi rapidi e decisi non solo per dare sostegno alle Pmi che garantiscono la vivibilità nei centri urbani, ma anche per ridare ossigeno ai consumi e occupazione». Secondo Confesercenti «bisogna ripartire dal fisco: in attesa della grande riforma si faccia un primo passo alleggerendo il più possibile la pressione fiscale». Diverso, invece, la situazione del settore alimentari che «dopo quindici mesi inverte la tendenza nelle vendite e per la prima volta dall’aprile 2009 torna a far registrare valori positivi sia sul piano congiunturale (+0,4 per cento) che su quello tendenziale (+2,4 per cento)», come dice una analisi della Coldiretti sulla base dei dati Istat.
Il primo passo per affrontare i propri problemi – che in questo caso sono quelli di 60 milioni di italiani – è quasi sempre ammetterli, consiglia di solito Riza psicosomatica. E difatti, poco tempo dopo l’intervento della Marcegaglia a Viareggio, è toccato a un contrito Brunetta immolarsi nei dolorosi meandri psicoanalitici dell’assunzione di responsabilità: «Premesso che non ho sentito il discorso del presidente di Confindustria, posso ribadire i dati ufficiali e strutturali che sottolineano come l’Italia abbia attraversato la crisi meglio degli altri Paesi». Peccato che il ministro della Funzione pubblica abbia considerato superflua l’analisi di viale dell’Astronomia. Avrebbe scoperto utili spunti al suo incarico: per esempio che il Pil italiano è il peggiore d’Europa, inferiore anche a quello della Spagna. Brunetta spiega che chiedere all’Italia di crescere come la Germania è troppo, e ha ragione. Agli italiani basterebbe crescere quel tanto che basta per pensare di mettere al mondo dei figli, di mantenerli, e di mantenere anche se possibile – nell’eventualità di averlo mai trovato – il posto di lavoro. Ma tra la crisi e le soluzioni, insomma, c’è di mezzo il Pil. Quello delle Panzane In Libertà.
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L’Ugl: «È urgente un tavolo sulla cantieristica a Palazzo Chigi»
Il Pdl: «La trasmissione di giovedì è stata un processo»
Fincantieri, nuovo sciopero di otto ore
Rai, il caso “Annozero” in Cda mercoledì
NAPOLI. Prosegue lo sciopero a oltranza dei lavoratori dello stabilimento Fincantieri di Castellammare, che anche ieri hanno incrociato le braccia per altre 8 ore. Una mobilitazione che va avanti da sette giorni e che ieri ha dato vita a una nuova manifestazione pacifica attraverso la cittadina campana. «Ribadiamo l’urgenza della convocazione di un tavolo sulla cantieristica a Palazzo Chigi, a cui siedano tutte le parti interessate, per risolvere una situazione ormai insostenibile », ha dichiarato il vice segretario nazionale dell’Ugl Metalmeccanici con delega alla cantieristica, Laura De Rosa.
ROMA. Ancora polemiche sul “caso Annozero”. Sia la Fiat, infatti, L’agenzia di stampa AdnKronos ieri ha fatto sapere che la direzione generale della Rai porterà il caso alla valutazione del Cda nella riunione prevista per mercoledì 29 settembre. Nel mirino, il «vaffa» di Michele Santoro, in diretta, a Mauro Masi. Durante la conferenza stampa di presentazione del programma, il conduttore era stato chiaro: «Reagirò ai bavagli, non ho paura». Concetto che ha ribadito giovedì sera, in occasione della puntata di esordio della nuova edizione di Annozero, per poi arrivare al tanto chiacchierato «vaffa». Immediata era stata la replica del direttore generale di viale
«Tutti i cittadini di Castellammare di Stabia, lavoratori, studenti e pensionati, sono scesi in piazza per esprimere la propria solidarietà agli operai dei cantieri navali stabiesi, che da giugno 2009 devono mantenere la propria famiglia con la cassa integrazione». Per lunedì è atteso l’incontro tra Fim, Fiom, Uilm e azienda sulle prospettive della società. No a tagli d’organico e al ridimensionamento e alla chiusura dei siti di Fincantieri. Questa la «linea assolutamente ferma e dura» con la quale i sindacati all’incontro convocato a Roma dall’amministratore delegato del gruppo navalmeccanico, Giuseppe Bo-
Napoli brucia ancora Tornano i rifiuti Ricomincia l’emergenza: scontri con la polizia di Alessandro D’Amato
NAPOLI. «Non si capisce per quale ragione oggi ci sia a Napoli la spazzatura nelle strade, c’è qualcosa che non mi torna». Anche se è dell’altro ieri, la dichiarazione di Bertolaso va citata. Dalla visita di Berlusconi sembra essere passato un secolo. E un secolo, non un anno, sembra anche passato da quella conferenza stampa in cui Bertolaso e il premier annunciarono che l’emergenza rifiuti era finita. Nel frattempo tante cose sono accadute. È stato varato un apposito decreto legge in cui si sanciva che la gestione ordinaria sarebbe cominciata il primo gennaio 2010, ma per un anno il supporto agli enti locali sarebbe stato garantito da «un’unità stralcio e un’unità operativa». Tra i compiti più importanti l’accertamento dei debiti e dei crediti derivanti dalla gestione dell’emergenza rifiuti in Campania. Nello stesso decreto, inoltre, si sanciva che la proprietà dell’inceneritore di Acerra - valutato ben 370 milioni - sarebbe passata alla regione Campania o «ad altro ente pubblico anche non territoriale, ovvero alla Presidenza del Consiglio-Dipartimento della Protezione civile o a soggetto privato entro il 31 dicembre 2011». Nel frattempo, la gestione dell’impianto è già passata nelle mani della società lombarda A2A.
far funzionare l’impianto, diventano circa 98 MW netti da cedere al mercato. Il rendimento sfiorerebbe quindi quasi il 30%.
L’inceneritore di Acerra non ha mai funzionato a pieno regime. In questi giorni, nell’impianto che avrebbe dovuto risolvere, in gran parte, il problema dello smaltimento, dopo che in un anno e mezzo si sono susseguiti blocchi delle varie linee, prima per motivi di start up, poi per ragioni di manutenzione, sono ferme la seconda e la terza linea dell’impianto. Per la terza, in particolare, non ci sono ancora ipotesi sulle tempistiche di ripristino. Una cosa inaccettabile per un impianto che fu dato in gestione alla società leader nel campo della termodistruzione, la A2A di Brescia, e che dovrebbe incenerire 1000 tonnellate di rifiuti al giorno. Circa i motivi che hanno condotto alla semi paralisi dell’impianto, le spiegazioni divergono radicalmente. «Manutenzione programmata», ripete la struttura del sottosegretario Bertolaso, negando che ci siano problemi di sorta. Intanto tutta l’immondizia prodotta in un giorno a Napoli, 1.300 tonnellate, è stata raccolta la scorsa notte, oltre ad altre 100 tonnellate giacenti. Ne restano da prelevare altre 700. Dice l’assessore all’Igiene Urbana del Comune Giacomelli: «Dopo il raid teppistico, durante il quale sono stati vandalizzati 20 automezzi di piccola portata e 10 autocompattatori, il personale tutto di Enerambiente ha garantito il regolare svolgimento del servizio». Nel frattempo il governo dice che i roghi di questi giorni sono colpa della camorra e degli anarco-insurrezionalisti. E Bertolaso parla di situazioni sospette nate per destabilizzare: «La verità è che la spazzatura non viene portata via, è un problema di competenza delle realtà municipali, perché le aziende municipalizzate non raccolgono e portano la spazzatura alle discariche. Abbiamo sempre detto che per migliorare questa situazione bisogna aprire altre discariche». Insomma, è colpa degli altri. Non dell’inceneritore di Acerra, che brucia un quarto di quel che dovrebbe.
Bertolaso: «La verità è che la spazzatura non viene portata via, è un problema di competenza delle realtà municipali»
no. A metterlo in chiaro, il segretario generale della Uilm Rocco Palombella che, oltre a escludere qualsiasi margine di trattativa sui contenuti del piano anticipato che parlano di 2.500 esuberi e chiusura di due stabilimenti, stigmatizza anche il modo in cui queste notizie sono uscite. «Esprimeremo - anticipa Palombella - tutta la nostra indignazione per quanto è avvenuto e per come si è sviluppata questa vicenda, che ha scatenato il panico tra i lavoratori del gruppo». Sulle questioni di merito, Palombella è categorico. «Non c’è spazio alcuno per poter fare una discussione su ridimensionamento degli organici e riduzione di siti».
Lo scorso gennaio è stato inoltre stipulato un contratto d’affitto dell’impianto - ben 2,5 milioni di euro mensili - che assegna alla Protezione civile il pieno godimento dell’impianto compresi i ricavi derivanti dalla vendita di energia elettrica prodotta. Sta di fatto che, ad oggi, delle tre linee predisposte ne hanno funzionato al massimo due e il rendimento in termini di MW prodotti, così come presentato dai tecnici dell’impianto, appare molto fantasioso. Secondo i tecnici, l’alimentazione dell’impianto a regime dovrebbe essere di circa 2000 ton/g di rifiuti che fornirebbero (il condizionale è d’obbligo) ai forni circa 340MW termici, che produrrebbero 380 tonnellate/ora di vapore, le quali sarebbero poi inviate alle turbine per la produrre circa 107 MW di potenza elettrica lorda, che depurata di quanto serve per
Mazzini: «È molto grave che Santoro nella sua spasmodica e anche un po’ ridicola ricerca della provocazione fine a se stessa rivolga al capo azienda frasi inaccettabili, bugiarde e mistificanti». «Al di là dei personalismi, comunque, il tema con Santoro è da più di 20 anni pateticamente sempre lo stesso - ha proseguito il dg - lui si ritiene più uguale degli altri e svincolato dalle leggi anche quando ne chiede continue deroghe e quando chiede contratti ad personam. È evidente che la questione dovrà essere affrontata in tutta la sua gravità in Consiglio di Amministrazione della Rai al più presto», aveva concluso Masi.
«La trasmissione di ieri sera (giovedì, ndr) di Annozero è stato un vero e proprio processo - con sentenza precostituita già scritta e senza possibilità alcuna di contraddittorio - celebrato in assenza di esponenti del Popolo della libertà e con l’esponente leghista in studio continuamente interrotto per impedirgli di confutare tesi irreali, fantasiose e anche autentiche calunnie». Questa la denuncia, ieri, arrivata dai capigruppo del Pdl di Senato e Camera, Maurizio Gasparri e Fabrizio Cicchitto.
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Scenari. La politica della mano tesa del presidente ha soltanto rafforzato a Khartoum l’impressione della debolezza dell’amministrazione Usa
Sudan, bomba innescata Nel gennaio 2011 il referendum per l’indipendenza del Sud Ma il regime di al Bashir non vuole mollare i pozzi di petrolio di John R. Bolton
NEW YORK. «Il ticchettio di una bomba ad orologeria». È questa l’espressione con cui, con tempistica precisione, il Segretario di Stato Hillary Clinton ha recentemente descritto il Sudan. Tutto sta a indicare che il paese sia sull’orlo del collasso, quasi certamente nelle sue zone settentrionali e meridionali e forse anche in altre aree. La questione centrale non è se la dissoluzione avrà o meno luogo, ma se essa verrà posta in essere con metodi relativamente pacifici o se un rinnovato conflitto militare all’interno del Sudan inevitabilmente si palesi e generi potenziali ripercussioni anche nei paesi confinanti.
Sfortunatamente, il presidente Obama aumenta il rischio che tale bomba ad orologeria esploda. I suoi sforzi per placare il governo del presidente Omar Hassan al-Bashir a Khartoum hanno accresciuto la percezione di Bashir della de-
bolezza statunitense, e hanno rafforzato la sua inclinazione e determinazione ad impiegare la forza militare per sopprimere l’opposizione sudanese nel Sud, in Darfur e nel resto del paese. Sebbene negli ultimi anni il conflitto tra Khartoum e Darfur abbia dominato i telegiornali, ora la motivazione approssimativa per dissolvere il paese è rappresentata dal con-
Agreement (Cpa). Quantunque il Cpa mise freno al genocidio in atto contro il Sud, esso fu solo una tregua, non una pace durevole. Fondamentale per guadagnare l’accordo del Sud fu l’impegno a tenere un referendum nel gennaio 2011, in cui il Sud potrebbe scegliere se rimanere parte del Sudan o diventare indipendente.
Nel 2005 Bush riuscì ad arginare il genocidio in Darfour con una tregua e un accordo che prevede la consultazione sull’assetto futuro della regione flitto procrastinato, ma ancora latente, tra il governo centrale islamista di Bashir ed il Sud cristiano ed animista. Per decenni, il Sud ha resistito agli sforzi di Khartoum di imporre i propri dettami religiosi sull’intero paese. Quindi, nel 2005, l’amministrazione Bush riuscì ad arginare il conflitto mediante il Comprehensive Peace
Il 30 settembre incontro con l’Anp
Da Israele un sì a Obama La moratoria sugli insediamenti andrà avanti di Enrico Singer
Il referendum rappresenta ora l’elemento di maggiore attenzione. Gli osservatori neutrali ritengono quasi unanimemente che un libero ed imparziale referendum potrebbe produrre un voto schiacciante pro-indipendenza. Quegli stessi osservato-
ri sostengono che il governo di Bashir farà di tutto, incluso ricorrere alla forza militare, per evitare di perdere il Sudan e le sue ingenti risorse naturali e petrolifere. (Il Nord dispone di petrolio, ma molti ritengono che il Sud rappresenti l’80% delle riserve complessive del Sudan, le quali verrebbero perse nell’eventualità dell’indipendenza). Le riserve petrolifere spiegano perché il Nord stia ostacolando uno dei principali punti del Cpa del 2005, la definizione di una linea di confine tra le due regioni nel territorio di Abeyi, ricco di petrolio. Mentre il confine stesso è stato deciso, il Nord ostacola la demarcazione fisica, evitando così che il Sud tragga beneficio dalle operazioni di estrazione e produzione del petrolio. Il regime di Bashir non ha subito sanzioni per aver ostacolato il processo di demarcazione, nemmeno una maggiore pressione da parte degli Stati Uniti, la qual cosa pone in evidenza co-
me Obama non prenda seriamente in considerazione le violazioni del Cpa da parte di Khartoum.
Gli strazianti dissapori all’interno dell’amministrazione Obama avvalorano l’impressione che il Presidente Usa non sia disposto a confrontarsi con il governo di Khartoum. La politica della “mano tesa” di Oba-
l negoziato tra Israele e palestinesi andrà avanti. Il governo di Gerusalemme ha fatto sapere di essere disposto a prorogare la moratoria sugli insedimenti in Cisgiordania che dovrebbe scadere domani. Con buona pace di chi aveva interpretato come uno strappo l’assenza della delegazione israeliana dai banchi dell’Onu mentre Barack Obama pronunciava il suo discorso e si augurava di vedere, l’anno prossimo, la Palestina tra gli Stati rappresentati alle Nazioni Unite, il primo gesto concreto di apertura è arrivato proprio da Benjamin Netanyahu. Anche se un accordo sulla proroga non è stato ancora completamente definito. «Abbiamo 48 ore di tempo e stiamo lavorando», ha detto Avi Pazner, portavoce dell’esecutivo israeliano. Così, dopo avere rispettato la festa di Sukkot, il lavoro della diplomazia si è rimesso in moto a pieno ritmo.
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Netanyahu ha avuto contatti con Hillary Clinton, con Angela Merkel, con il presidente egiziano, Hosni Mubarak. Una telefonata l’ha anche ricevuta da Silvio Berlusconi. Ma, soprattutto, si sono incontrati in gran segreto a Nablus emissari dell’Anp e dell’esecutivo israeliano per studiare come dare un seguito alla moratoria della costruzione di nuovi insediamenti nei territori contesi che Gerusalemme aveva unilateralmente lanciato dieci mesi fa proprio per favorire la ripresa dei negoziati diretti. È stato raggiunto, per ora, quello che le parti hanno definito «un compromesso concordato» sull’estensione della moratoria i cui dettagli non
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toum con “carote” e “bastoni”, promettendo come carote aiuti e legittimazione se Khartoum consentirà un libero ed imparziale referendum e ne rispetterà il risultato.
La lista delle carote è lunga e generosa, ma la lista dei bastoni è difficile da sostenere. Incredibilmente, Gration ha rivelato la propria idea di “bastoni” quando ha recentemente affermato: “Abbiamo una politica che affida al Nord un percorso per sviluppare migliori relazioni bilaterali (con Washington). Se non dovessero accettarla, quello sarebbe già un basto-
presero che tentare di razionalizzarli avrebbe generato un caos di proporzioni continentali. Ironicamente, vi sono stati pochi conflitti confinari in Africa dall’epoca dell’indipendenza, ma il numero di conflitti interni è stato alto. Nelle vicinanze del Sudan, l’Eritrea dichiarò l’indipendenza dall’Etiopia, ed il loro conflitto non ha ancora raggiunto una composizione. Il governo della Somalia è crollato ed il paese si è frammentato; gli islamisti radicali possono ora operare liberamente, ed i pirati attaccano le navi in mare aperto. Il Ciad deve affrontare sostanziali ostilità su base etnica,
Più si avvicina il voto, più aumentano i rischi di una ripresa del conflitto. Già si accende lo scontro per il controllo della ricca zona petrolifera di Abeyi
Profughi del Darfour protestano in un campo nel Sud del Paese. A destra, il capo del regime sudanese, Omar Hassan al-Bashir. In basso a sinistra, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ma verso gli stati canaglia, strategia che ha visibilmente fallito con l’Iran e la Corea del Nord, sta similmente fallendo in Sudan. L’inviato speciale di Obama in Sudan, il generale dell’aviazione in congedo Scott Gration, ha sostanzialmente
coccolato Bashir, nella speranza che egli potesse successivamente persuadere Khartoum a non impiegare la forza militare. Gli incontri di Obama con i leader del Sudan meridionale all’apertura dell’Assemblea Generale Onu, non sembrano
sono ancora del tutto noti e - in parte - sono ancora da definire, ma che rappresenta già un risultato molto importante. Il presidente palestinese, Abu Mazen, aveva apertamente detto che la trattativa riannodata il 2 settembre a Washington sarebbe stata interrotta nel caso fosse ripresa la costruzione degli insediamenti di coloni israeliani nei territori di quello che dovrà diventare lo Stato palestinese.
La situazione era arrivata a un tale punto di tensione che il re Abdullah di Giordania, ieri mattina, in un’intervista a una tv americana, aveva lanciato un avvertimento molto allarmato: «Se fallisce il negoziato di pace in Medioriente, aspettatevi una nuova guerra entro la fine dell’anno e altri conflitti in tutta la regione negli anni
però poter produrre significativi progressi. Al contrario, Khartoum interpreta la debolezza dell’amministrazione Obama come una licenza per mantenere la parte meridionale del Sudan sotto il proprio controllo, o controllando il referendum, in stile Chicago, o ricorrendo alla forza militare. In teoria, l’amministrazione Obama deve misurarsi con Khar-
tugliava la zona. Sempre ieri - non si sa se per reazione all’uccisione di Mohammad Bakar - dal Nord della striscia di Gaza miliziani di Hamas hanno lanciato un razzo contro la vicina città israeliana di Ashqelon senza provocare, per fotruna, né vittime, né danni rilevanti. Anche a Gerusalemme ci sono stati segnali di pericolo di nuovi disordini, dopo quelli esplosi all’inizio della settimana, e la polizia ha vietato l’accesso alla Spianata delle Moschee nella CittàVecchia ai palestinesi maschi di meno di 50 anni. Episodi che confermano quanto sia fragile e sottile ancora il tessuto della pace. Anche il preannunciato compromesso sulla moratoria degli insediamenti non assicura, da solo, il successo della trattativa che dovrà superare molti nodi, a partire dallo status di Gerusalemme e del ritorno dei profughi palestinesi. L’inviato speciale americano George Mitchell sembra il più ottimista. Ha detto che i negoziati tra palestinesi e israeliani «stanno procedendo più speditamente e più seriamente che in passato». E ha anche dichiarato che «il processo di pace, per ora, sta andando meglio di quello per l’Irlanda del Nord» che fu il suo primo, grande impegno come mediatore internazionale e che si concluse positivamente. Ma l’ottimismo di Mitchell non è condiviso da tutti. Se i portavoce governativi israeliani hanno definito «equilibrato» il discorso di Obama all’Onu, altre fonti vicine a Netanyahu hanno precisato, a proposito dell’estensione della moratoria, che «Israele è pronta ad arrivare ad un compromesso sul
Si lavora a un compromesso e il portavoce del governo, Avi Pazner, annuncia: «Abbiamo ancora 48 ore di tempo e sono ottimista». I coloni attaccano Obama: «Si è piegato alle minacce dei palestinesi» a venire». La notizia sul compromesso che dovrebbe prorogare la moratoria ha allentato la tensione anche se quella di ieri è stata una giornata segnata da un nuovo scontro a fuoco nel quale è stato ucciso un giovane pescatore palestinese di Gaza. Mohammad Bakar, 20 anni, è stato colpito a morte a bordo di un’imbarcazione che, secondo il portavoce della Marina militare israeliana, aveva superato il limite di tre miglia dalla costa consentito per la pesca e non si era fermata nemmeno dopo i colpi di avvertimento sparati della motovedetta che pat-
ne». In altre parole, se Khartoum non fa ciò che Washington vuole, non otterrà ciò senza cui ha felicemente vissuto per decenni. Non stupisce il fatto che Khartoum faccia orecchie da mercante. L’Africa ha a lungo interpretato come un tabù la modifica dei confini nazionali dati i paesi di recente indipendenza nel corso del processo di decolonizzazione. Siano o meno i confini ottimali, i leader africani com-
alimentate dalle interferenze della Libia. Il conflitto etnico nella regione africana dei Grandi Laghi è ben noto, e continua. Il dibattito sul futuro del Sudan potrebbe pertanto ripercuotersi chiaramente su tutta l’Africa. La politica di Obama finalizzata a calmare Khartoum non fa altro che la innescare bomba ad orologeria tanto temuta dal segretario Clinton. Rimangono solo pochi mesi al previsto referendum, ed i rischi di un ritorno al genocidio in Sudan aumentano quotidianamente.
congelamento degli insediamenti che, però, non potrà essere totale». E il Consiglio dei coloni - lo Yesha - ha criticato apertamente Obama accusandolo «di essersi piegato alle minacce dei palestinesi». Il presidente di Yesha, Daniel Dayan, ha anche minacciato Netanyahu: «Se dovesse prorogare la moratoria, il suo esecutivo non durerà molto perché all’interno della coalizione di governo, la maggioranza ci appoggia».
Tra falchi e colombe il giudizio più equilibrato è quello che è arrivato ieri dal portavoce del governo israeliano, ed ex ambasciatore a Roma, Avi Pazner. «Le trattative sono in corso e sicuramente entro domani arriveremo a una soluzione che, per il momento, al momento non c’è ancora in tutti i suoi aspetti. La questione degli insediamenti è molto delicata e difficile. Ma stiamo lavorando e sono ottimista, anche perché nessuno credeva che questo governo potesse rilanciare il piano di pace con i palestinesi e invece lo ha fatto e lo sta ancora facendo». Un segnale distensivo è arrivato anche da Vienna, sede della Conferenza generale dell’Aiea, l’agenzia internazionale per l’agenzia atomica. I Paesi arabi non sono riusciti a radunare il consenso necessario a far approvare una risoluzione contro il programma nucleare israeliano. Il testo è stato votato da 46 Paesi, ma altri 51, compresi Cina e Russia, hanno votato contro. La presentazione della risoluzione aveva creato tensione: Israele e gli Usa avevano sostenuto che avrebbe potuto ostacolare le trattive di pace dirette. L’anno scorso una risoluzione quasi identica era passata con un ristretto margine di voti, ma diversi Paesi in via di sviluppo che l’avevano appoggiata hanno deciso quest’anno di astenersi.
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Conti. Slitta il nuovo decreto: si va verso un percorso a ostacoli hi pensava ad un federalismo senza spine, deve cominciare a ricredersi. Il percorso sarà più lungo e accidentato di quanto a prima vista possa sembrare. Né aiuta un quadro politico sospeso su una crisi dalle incerte prospettive. L’inevitabile discussione sul primo atto importante del Governo – il decreto legislativo in materia di autonomia di entrate di enti territoriali – sarà nuovo sale sulle ferite aperte nel contenzioso in atto. Tanto più che l’euforia sullo spezzatino demaniale è durata lo spazio di un mattino. Non era un caval donato, al quale non si guarda in bocca. Quel cadeau comporta costi di manutenzione spesso superiori al valore dell’asset.
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Il nuovo sistema – tante norme, ma nessun numero per dimostrarne la sostenibilità economica e finanziaria – si basa sul alcuni principi modellati su un Paese ideale. Ma nel “legno storto” dell’economia italiana – tanto per riprendere la citazione kantiana di Giulio Tremonti – le cose sono diverse. Al centro di tutto è la produzione di ricchezza. Sarà questo il motore che determinerà le risorse che le singole Regioni potranno gestire. Poi una serie di Fondi perequativi per compensare una diversa capacità fiscale, che è diretta conseguenza delle fratture economiche e sociali che dividono il Bel Paese. Una proposta apparentemente ragionevole, che nasconde, tuttavia, un’insidia. Un conto è, infatti, l’automatismo legislativo un altro il meccanismo compassionevole dell’aiuto ai più bisognosi. Ripartire quel fondo non sarà un impresa facile. Dipenderà da variabili oggettive e valutazioni a spanna, dove la politica entrerà nuovamente con prepotenza. Il gioco sarà a somma positiva solo se
Il federalismo del Paese ideale È impossibile fissare «costi standard» senza prevedere investimenti al Sud di Gianfranco Polillo
Calderoli, Tremonti e, sotto, Raffaele Fitto: i tre ministri hanno ricevuto, sia pure in modi diversi, il «no» delle Regioni sul federalismo no equivalente a quello del centro-nord. Le distanze non sono diminuite, ma nemmeno aumentate. Un effetto secondario, tutt’altro che negativo, è stato quello di accrescere il ritmo di crescita dell’Italia nel suo complesso. Ritmo sempre più contenuto rispetto alla
La frattura fra le economie del Nord e del Mezzogiorno va colmata prima di definire i valori di riferimento della «grande riforma» quell’intervento sarà marginale. Senonché questa seconda ipotesi cozza con gli andamenti dell’economia reale e con un fossato – quello tra il centro – nord ed il Mezzogiorno – che in questi ultimi anni si è enormemente dilatato.
Bisogna partire da qui per capire i rischi dell’operazione. Tra il 1996 ed il 2002, lo sviluppo economico italiano, al di là delle diverse basi di partenza, è stato relativamente uniforme. Il Mezzogiorno è cresciuto a un tasso più o me-
media dei paesi dell’euro, ma con una distanza, per lo meno accettabile. Dal 2003, fino ai nostri giorni, la musica è cambiata. Il centro-nord ha più o meno mantenuto gli standard europei; il Mezzogiorno è regredito. Conseguenza? Un aumento delle distanze relative tanto sul piano interno, quanto su quello internazionale. Valga per tutto quanto è avvenuto nel secondo trimestre dell’anno in corso. Il centronord è cresciuto dello 0,8 per cento, per il traino delle esportazioni che vi hanno
contribuito in modo determinante, il Mezzogiorno è sceso dello 0,3 per cento. La famosa media di Trilussa ci dice che il PIL italiano è cresciuto dello 0,5 per cento. Quella dei paesi dell’euro è stata invece – dati Eurostat – dell’1 per cento.
Proiettiamo queste cifre sul terreno della finanza pubblica. Le entrate delle regioni del centro-nord aumentano, quelle del Mezzogiorno diminuiscono. Il fondo perequativo accresce il suo ruolo di ammortizzatore sociale. Risultato? Un paese ancora più lungo: per citare l’ultimo libro di Giorgio Ruffolo. Come se ne esce? In teoria la risposta è semplice. Il federalismo è possibile solo se si accompagna ad una politica a favore del Mezzogiorno. È il famoso “Piano del sud”, più volte annunciato, ma da mesi
bloccato in qualche tipografia dello Stato. Ritardi, forse, non casuali. Umberto Bossi, cui va riconosciuta la franchezza, non ha fatto mai mistero del suo scetticismo. Ma quale intervento straordinario – ha più volte ripetuto – basta il federalismo. Il che sarebbe giusto se parlassimo del migliore dei mondi possibili. Merce rara, non solo in Italia. Non dimentichiamo che per integrare i lander dell’Est, la Germania ha speso qualcosa come
1.500 miliardi di euro: una valore pari all’intero Pil italiano.
Ma ci sono i “costi standard”: si è soliti ripetere. Una siringa a Reggio Calabria non può costare 10 volte tanto, quanto costa a Milano. L’osservazione è più che pertinente. Risponde ad una logica piana. Ma quei costi – nella loro determinazione – non esistono in natura. Riflettono, invece, le grandi variabili della diversità. Se i guarda alla contabilità industriale dei grandi gruppi – quelli che i costi standard li utilizzano ogni giorno – si può notare come essi difficilmente tendono a coincidere. Al contrario, variano nel tempo e nello spazio. Risentono cioè delle particolari condizioni del processo produttivo, dei livelli di efficienza interni ed esterni alla realtà aziendale, delle variazioni meteorologiche della congiuntura. Prendiamo la sanità. Parlare di quella del Mezzogiorno, specie dopo i fatti recenti di malasanità, è come bestemmiare in chiesa. Ma quali ne sono le cause più profonde? In un recente studio della Banca d’Italia («Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia») si è cercato di andare più a fondo. Nel 2007 la spesa sanitaria pro-capite nel mezzogiorno è stata pari al 96 per cento della media nazionale. La più alta percentuale (105,6) la ritroviamo nell’Italia centrale. Questi dati non tengono conto dei “viaggi della speranza”: di quella migrazione cioè che, dal Mezzogiorno, per le patologie più gravi è costretta ad approdare verso un Nord più efficiente ed evoluto. Se si tiene conto di questo aspetto lo scarto si riduce dal 4 all’1,3 per cento. Che conclusioni trarre? Ci vorrebbe anche per la sanità un Piano per il Sud. Vale a dire un intervento non solo di razionalizzazione ma di investimenti, per ridurre alla radice le cause della transumanza. Queste diversità trovano diritto di cittadinanza nei “costi standard”? Ne dubitiamo. E allora? Continuiamo pure a discutere di federalismo e quant’altro. Ma non dimentichiamo che in un campo così complesso non conta tanto l’eleganza di norme giuridiche scritte a buio, quanto la dura realtà dei numeri ed il sotteso ragionamento economico.
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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
QUEL CHE RESTA DI MORAVIA A vent’anni anni dalla morte
di Pier Mario Fasanotti
dalla sua morte (26 settembre 1990) si tende a evitare il tono inneggiante privilegiandiscorsi che si fanno attorno ad Alberto Moravia cominciano a essere diversi. Nel senso che da più parti - angolazioni autorevoli e non Superata do l’analisi critica, finalmente più variegata e più pacata. La Bompiani, sua storica casa editrice, ha organizzato (nella Sala Buzzati di Milano) nei giorni ideologicamente biliose - si comincia a ragionare sul valore della sua la beatificazione scorsi una serie di incontri e discussioni sull’autore che pare sia unaopera, su quanto «rimane» di lui, attraverso un’operazione critipolitico-letteraria praticata nimemente considerato grande per Gli indifferenti (1929) ma un ca che definirei «laica», ossia il più possibile lontana dalla beatificazione politico-letteraria di uno scrittore che ci ha forpo’ meno per le opere che seguirono a quel romanzo che da una critica “tifosa”, oggi è nito una trentina di opere e un’immagine di sé che Umberto Eco ha chiamato «un evento sconcertante», possibile dare un giudizio più meditato sulla un punto ottimale di rottura e quindi di innovalo si deve pur dire una buona volta - non è accatzione nella nostra storia letteraria del Novecento. tivante, non simpatica e, se si bada alle sue dichiasua opera. Che merita un posto privilegiato L’editore ha presentato Vita di Moravia di René de Cecrazioni, né provocatoria né per certi versi profonda. L’onello scaffale, anche se appare leografia moraviana ha cominciato a mostrare qualche crecatty, Moravia e i fratelli Rosselli con le lettere che lo scrittocircondata da una certa pa nel 1997 in occasione del centenario della nascita, e anche alre della Noia inviò (1915-’51) ad Amelia Rosselli, e ha organizzalora si mosse, con fare un po’isterico, il cosiddetto «clan Moravia» (coto un simposio sull’importanza del narratore romano (nato Pincherle) indifferenza rifeo su sempre Enzo Siciliano): guai a non omaggiarlo, guai a non considenel cinema: si pensi solo ad alcuni titoli come La romana, La ciociara e il belrarlo il classico moderno per eccellenza. Oggi che si commemorano i vent’anni lissimo Il conformista (1970) di Bertolucci.
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Parola chiave Scuola di Gennaro Malgieri Con Cyndi Lauper il blues è femmina di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
I ruggiti di Foscolo, poeta civile di Filippo La Porta
Citati racconta il suo Leopardi di Gloria Piccioni Due fratelli capolavoro di Anselma Dell’Olio
Anticomania con sfarzo di Marco Vallora
quel che resta di
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Moravia
Questioni di stile
vent’anni dalla sua morte ripensiamo po, De Marsanich, che certo si dimostrò sencon attenzione e grande rispetto ad Alsibile alle positive novità. berto Moravia. Pittura, narrativa. Diverso il caso dell’andaVorrei partire da una considerazione mento novecentesco della poesia: da Ungaretgenerale che riguarda la pittura e la narrativa ti, Montale, Campana, Saba a Caproni e Luzi del Novecento. Alla fine della guerra si intensio Sereni si individuavano nette discendenze ficarono molto le tendenze, le ricerche e quindi di stile, di stati d’animo, di esplorazioni sentii giudizi sulla letteratura e sull’arte nel nostro mentali. Solo molto più tardi doveva nascere Paese. Per la pittura, ad esempio, ci fu da una una sorta di muro realista, discorsivo, dichiadi Leone Piccioni parte la riaffermazione dei valori raggiunti nerativo: Sanguinetti, ad esempio, Fortini e non gli anni precedenti come avveniva pensando in tutte le sue prove ma in alcuni tentativi proall’arte somma di Morandi (e con lui ai grandi pittori che discendevano dalle grammatici, Pasolini. E questo muro non dava alternative. Quello che riscontravaprove iniziali della pittura metafisica); dall’altra parte, invece, una folta e nuova mo in Gadda, Landolfi e altri era, appunto, una approfondita ricerca di stile con tocschiera alimentata anche da atteggiamenti politici per una affermazione piena canti ispirazioni liriche, che nascevano ogni tanto come fiori improvvisi. In Moradi realismo e del realismo socialista. Giustamente il portabandiera di questa via queste caratteristiche non riuscivamo a ritrovare. presenza nel Paese fu Renato Guttuso. Noi dunque preferiamo Morandi a GutAlle spalle di Moravia c’erano, certo, formidabili riferimenti alla grande letteratura tuso: quando dico «noi», dico di quel gruppo di studiosi e di giovani impegnati russa e al romanzo francese dell’Ottocento. Nella sua narrativa appariva una cupa in quella che si poteva chiamare «critica stilistica». Eccoci dunque alla letteravisione del mondo alla ricerca di una giustizia sociale, con riferimento particolare tura: Gadda, Landolfi, Bilenchi (e altri) da una parte, Moravia, soprattutto, e alalla borghesia contemporanea. E bisogna pensare anche al clima della dittatura del tri (si pensi ad esempio alla «conversione» di Pasolini dalla iniziale prosa d’artempo, specialmente quando scoppiarono le leggi razziali che costrinsero anche te a quella che poi fu definita «letteratura nazional popolare»). Così, quando in Moravia a nascondersi per evitare il campo di concentramento. un breve libro di miei saggi dovetti scegliere la copertina chiesi e ottenni che fosMoravia fu costretto a scrivere con una firma diversa i suoi articoli ma nel frattemse riprodotto un quadro di Morandi. Naturalmente avevamo letto con grande ripo, fra il ’37 e il ’41, uscirono altri libri che dovettero fare i conti con la censura. Del spetto e apprezzato la narrativa di Moravia, e le nostre preferenze andavano da’45 è il suo primo pamphlet intitolato La speranza ossia Cristanesimo e comunismo gli Indifferenti del ’29 a racconti bellissimi coche svelava la sua adesione al marxismo. me Agostino e Inverno di malato, fino alla Ma nel ’58, quando tra i libri di viaggio si potè leggere Un mese in Urss , si sentiva che drammaticità di un romanzo come Il disprezzo. Si aggiunga la nostra ammirazione per tante delusioni affioravano nella mente di Moravia. Ai libri di viaggio abbiamo accenquasi tutti i suoi libri di viaggio. nato: si ricordino quelli dal Sahara, dall’InNel pieno del fascismo dell’anteguerra era midia, dalla Cina. I libri invece che abbiamo racolosamente sfuggito alla censura un libro giudicato più negativamente sono La noia e capofila come, appunto, Gli indifferenti, incenIo e lui. Rientriamo dunque nella mia catrato sul clima opaco e terribilmente borghesa nella quale possono stare vicini Mose di quegli anni dissoluti. Il romanzo passò randi alle pareti e negli scaffali l’opera si dice - grazie alla protezione di un parente di di Alberto Moravia. Moravia vicino a un gerarca fascista del tem-
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Circa le sue poesie è meglio tacere: non aveva la stoffa, era privo di intimi umori, non era nelle sue corde alcunché che si distanziasse dall’ingegneria lessicale. Lo stesso discorso vale anche per il suo rapporto con l’infinito e in genere la religione: per sua stessa ammissione, non riusciva a intuire il nucleo, anche simbolico, dell’Apocalisse. Tanto è vero che ammise che gli riusciva più facile, in tema di catastrofi ultime, analizzare il dramma dell’umanità parlando dei nazisti. Non credeva in Dio, ma nemmeno aveva i tormenti del non credente o del non praticante (come Pasolini, per esempio). In occasione di un viaggio a Gerusalemme, riferì di un brivido di emozione, di un frisson passeggero, salvo poi spiegare (e voler spiegare sempre era la sua vocazione) d’essere interessato, semmai, alla figura di Gesù. Appunto perché uomo, personaggio della storia. Ciò che è dietro, o meglio sopra, i Vangeli non l’afferrava. O non lo interessava, più semplicemente. Indaffarato a vivisezionare i vizi e le storture della borghesia novecentesca, le sue facce farisaiche (ma non fu certo così innovativo: si pensi alla produzione francese che va da Balzac a Simenon), Moravia doveva però vedersela col tema dell’indifferenza. Si legge nella Romana: «La storia dell’umanità non è che un lungo sbadiglio di noia».Viene in mente quel bel libro (Mondadori) di Renzo Paris, intitolato Moravia, una vita controvoglia. Aveva voglia di capire tutto, ma con strumenti mutuati dalla psicoanalisi e dalla sociologia, ponendo in second’ordine il pathos, la confusione degli affetti, l’anelito dell’uomo che ha desiderio di urlare. Moravia nei suoi scritti non ha mai urlato. Oggi si ha la sensazione che Moravia sia certamente da collocare in un privilegiato scaffale, ma non in quella biblioteca intima dove campeggiano autori più profondi e tormentati. Converrebbe riflettere su ciò che scrisse Karl Kraus: «L’arte è ciò che diventa mondo, non ciò che è mondo». Le conseguenze potrebbero rivelarsi dissacranti. Oggi si legge ancora Moravia? Le vendite delle sue opere hanno un andamento lento e mediocremente costante. Mai un’impennata. La scuola italiana, salvo eccezioni, arriva a ignorarlo, preferendo Italo Calvino, Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini. Autori, questi due, che hanno lasciato impareggiabili lezioni civili, intuizioni geniali, rabbia e profondità. Ovvio che quella nebulosa che si chiama pubblico giovanile sia un poco, o del tutto, indifferente al geoanno III - numero 34 - pagina II
Alla fine degli anni Sessanta ritornai in Italia e poco dopo ebbi la fortuna di incontrare e conoscere Alberto Moravia. Iniziò subito una bella amicizia: fu certamente il comune amore per l’Africa che ci legò. Decidemmo, verso la fine degli anni Settanta, di andare assieme in Africa: Moravia voleva vedere i luoghi dove avevo passato tanti anni felici, voleva vedere l’Africa Nera con i suoi grandi animali. Furono viaggi bellissimi, un compagno di viaggio, Moravia, straordinario, instancabile e con una curiosità infinita. È con grande emozione, oggi, a vent’anni dalla sua morte, che ricordo quel tempo, quell’amicizia, quell’intelligenza folgorante. Senza Moravia la mia vita è diversa. Lorenzo Capellini (Le foto pubblicate in queste pagine sono di Lorenzo Capellini)
metrico Moravia. Geometrico ma pure così spigoloso nei contatti con il pubblico e gli ossequianti suoi intervistatori. La critica più illuminata, e meno «tifosa» per ragioni di consorteria, è unanime nel dichiarare che il diapason artistico Moravia lo raggiunse con Gli indifferenti, che è da definire una grottesca tragedia all’interno dell’ipocrisia borghese-fascista.Angelo Guglielmi, tra i più importanti e ascoltati critici letterari, scrive nel suo Il romanzo e la realtà (Bompiani): «Indubbiamente Moravia è il nostro scrittore più dotato. Ma il suo limite non è proprio nel fatto che egli si accosta alla realtà armato di pregiudizi ideologici?». E ancora: «Conseguenza della mediazione ideologica cui sottopone i suoi personaggi è che essi risultano stereotipati e convenzionali e quand’anche veri di una verità cronachistica non significante. Si pensi invece con la stessa materia che cosa riesce a fare Céline!». Guglielmi non a caso si sofferma sul valore innovativo di Carlo Emilio Gadda. Ma la staffilata vera è la seguente: «Moravia scrisse come un antico… è acquattato dietro ogni parola… la sua narrativa rischia sempre risultati di un semplicismo disarmante». È da ascoltare un altro valente critico, Giulio Ferroni, contro il quale anni fa si scagliò Enzo Siciliano, vestale dell’eredità moraviana, refrattario a qualsiasi «parola contro» e timoroso dinanzi a qualsiasi cosa che potesse somigliare a una liquidazione letteraria del suo idolatrato maestro. Ferroni fa alcune precisazioni: «Moravia è uno scrittore che conta molto in questo secolo e, con il passare del tempo, con una sua progressiva inattualità, credo che diventerà anche più grande. Ha senz’altro costituito un mito culturale e lui stesso ha avuto una grande curiosità per i giovani autori, ma - per i suoi modi di scrittura e per il suo rapporto tra narrativa e mondo non mi pare possibile che l’opera moraviana possa essere un punto di riferimento.Voglio dire che, per accostarsi davvero al suo mondo, occorre uno scrittore di razza capace di penetrare in strutture letterarie molto complesse». Ferroni sostiene poi un elemento fondamentale, anche se imbarazzante per molti, ossia che Moravia giganteggia anche, o soprattutto, per la presenza di tanti «scrittori-bonsai» di oggi. Insomma, si può anche essere indifferenti (scusate il gioco di parole) a Moravia, ma la produzione letteraria dell’Italia odierna spinge a leggere o a rileggere gli scritti di quel tale giovanissimo e malaticcio Pincherle che fece un gran botto con Gli indifferenti, anche se poi con tante altre pagine non riuscì a essere all’altezza di se stesso.
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SCUOLA autunno s’annuncia, da tempo immemorabile ormai, con le consuete polemiche sulla scuola, le sue disfunzioni, le sue incongruenze, l’insoddisfazione che segna l’ingresso degli studenti nelle aule, le preoccupazioni dei genitori e quelle dei docenti. Strutture perlopiù fatiscenti accolgono ogni anno ragazzi e ragazze di tutte le età che non hanno nessuna voglia di prepararsi al futuro ben sapendo che difficilmente ne avranno uno uscendo da un sistema formativo che a tutto provvede tranne che a fornire indirizzi adeguati per scelte che possano risultare produttive. Così la scuola, lungi dall’innestare nelle giovani coscienze, quegli elementi necessari alla costruzione di uno spirito critico, risulta essere un luogo nel quale trascorrere inutilmente il tempo per i discenti e un gravoso onere, peraltro malpagato, per gli insegnanti che la frequentano tra indicibili incertezze, insoddisfazioni, incomprensioni. Diciamocelo senza inutili e ipocriti giri di parole: la scuola italiana non piace a nessuno purtroppo, neppure a quelle turbe di burocrati ministeriali che nel corso di quattro decenni hanno messo una cura maniacale nello smantellarla a colpi di riforme demagogiche delle quali si sono assunte le paternità i vari ministri che si sono succeduti sulla poltrona più alta del palazzone di viale Trastevere. In questo lungo dopoguerra, la scuola è stato un laboratorio di inquietudini. Pochi studenti l’hanno affrontata con lo spirito giusto e ne hanno guadagnato in termini culturali e civili; altrettanto pochi professori si sono immedesimati nel loro ruolo e hanno cercato di dare il meglio, fedeli a precetti morali e pedagogici diventati sempre più merce rara con il passare del tempo. Dai cosiddetti «decreti delegati» che alla fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta incendiarono letteralmente il sistema scolastico, alle ultime riforme (non c’è stato ministro che non si sia cimentato nel tentativo di cambiare in tutto o in parte la scuola) incomprensibili e contraddittorie, per non dire degli scarsi investimenti che nella formazione sono stati fatti da tutti i governi, è stata una sequela di occasioni mancate che hanno contribuito alla radicalizzazione della sfiducia e del disincanto. La scuola non è morta, ma vive in uno stato di perenne agonia dal quale è difficile, a meno di un miracolo, immaginare che possa uscire in tempi ragionevolmente brevi.
L’
Inutile ricordarle, perché tutti le conoscono avendo vissuto sulla loro pelle il disastro scolastico, le tappe della dissoluzione di una delle istituzioni civili e culturali più prestigiose della storia unitaria italiana. Ci limitiamo a sottolineare come oggi raccogliamo i frutti avvelenati dell’ideologizzazione scolastica che ha fatto da apripista all’egualitarismo più sconsiderato, mentre tutti invocano un ritorno alla meritocrazia. È questa un’esigenza reale, non vi è dubbio, ma i meccanismi attivati non consentono di raggiungere lo scopo. Uno dopo l’altro sono state distrutte, sotto i colpi di mannaia di pedagoghi ignoranti o,
È il cuore delle comunità che intendono crescere e svilupparsi. Ma da noi è ormai considerata solo un’appendice della politica. Così i progressi dell’ignoranza anticipano l’anarchismo sociale...
L’occasione mancata di Gennaro Malgieri
Fino a quando è rimasto in piedi, sia pure con le opportune modifiche, l’impianto gentiliano, la scuola italiana ha funzionato. Buttandolo a mare senza trovarne uno adeguato che lo sostituisse, senza mettere insieme nuove idee per una rinascita, è stata firmata una condanna: alla decadenza nella migliore delle ipotesi, funzionali a disegni politici tendenti all’omologazione delle giovani generazioni, quelle strutture formative che erano il vanto della scuola italiana. Ha cercato di resistere come ha potuto, grazie soprattutto a professori consci della loro «missione», il liceo classico, ma poi ha dovuto cedere davanti al fuoco di sbarramento «innovativo» di riformisti d’accatto; le elementari, vanto del nostro Paese al punto di essere copiate da altre nazioni, hanno dovuto subire l’affronto che altri riformatori rivoluzionari hanno arrecato al primo luogo dove i bambini, uscendo dal guscio familiare, trovavano la proiezione dell’autorità genitoriale e si identificavano in essa: non era abbastanza per chi li voleva immediatamente alla prova di fronte alla durezza della vita e gli ha fatto trovare non un maestro «onnisciente», ma tre, quattro, cinque docenti, con nessuna preparazione specifica, di fronte ai quali i piccoli alunni, sconcertati e disorientati, hanno preferito dedicarsi ai Puffi e a Tom e Gerry piuttosto che allo studio delle discipline tradizionali, troppo fuorvianti per le loro immature menti si è detto.
Diciamocelo, siamo franchi: fino a quando è rimasto in piedi, sia pure con le doverose e opportune modifiche, l’impianto gentiliano,la scuola italiana ha funzionato.Buttandolo a mare senza trovarne uno adeguato che lo sostituisse - fondato su una complessiva filosofia della scuola - ci siamo ritrovati nelle deprecabili condizioni che lamentiamo e ogni anno, con l’addio delle rondini diciamo addio, varcando la soglia dei «plessi» (si chiamano così ora) scolastici, anche alle speranze di avere un giorno, grazie all’insegnamento ricevuto, giovani in grado di affrontare la vita e prepararsi magari all’ingresso nell’Università. Già, l’Università. Noi sappiamo quali menti obnubilate dalla demagogia prepararono il piatto avvelenato della riforma elevando banali insegnamenti (perfino complementari) a corsi di laurea, per poi aggiungere che queste potevano essere brevi o lunghe, a seconda di quello che si voleva fare in seguito. Ne è seguito un marasma dal quale nessuno è in grado di uscire. Come nella scuola, sono scontenti, delusi, arrabbiati, i professori e gli studenti. Per non dire dei laureati dei quali solo uno su cento trova la strada di una profes-
sione coerente con il titolo conseguito. Chi poi, appassionandosi agli studi, volesse imboccare la via della ricerca, non ha che da fare le valigie e guadagnare l’uscita dai confini poiché non ci metterà molto a concludere che in Italia è impossibile applicarsi a una tale nobile attività dal momento che manca tutto, a cominciare dalle strutture adeguate e dai mezzi finanziari che lo Stato nega ai ricercatori senza neppure far finta di nasconderlo. Un paese che non produce ricerca, che chiude gli istituti di cultura, che non forma i giovani è un Paese destinato alla decadenza.
Il burocratismo, sovrappostosi alle degenerazioni ideologiche, ha completato l’opera. Non troverete in nessuna legge una logica che travalichi il ragionieristico computo della spesa e della resa.Vi imbatterete in conti indecifrabili, ma non in un’idea di formazione che, per quanto criticabile, possa rappresentare un orientamento nell’insegnare tanto nella scuola che nell’università. Eppure, per quanti problemi abbiamo, se non si mette mano, con serietà, a una riforma globale di tutto il comporto formativo, dalle materne alla ricerca scientifica e umanistica, risulterà vano ogni tentativo di dare un minimo di ordine alla nostra società. La scuola non è un’appendice della politica, come pure è stata considerata. Essa è verosimilmente il cuore delle comunità che intendono crescere e svilupparsi. Ci importa poco delle motivazioni che ogni ministro adduce a giustificazione dei suoi risibili interventi che si sovrappongono a quelli precedenti; e ancora di meno c’interessano le cifre che i ministri dell’Economia sciorinano per farci comprendere come alla scuola non si possono destinare che briciole. Resta il fatto che i progressi dell’ignoranza anticipano l’anarchismo sociale e non credo che sia questo l’esito a cui aspiri qualsiasi governo. Al punto in cui sono le cose è difficile dire cosa fare. Un consiglio piccolo piccolo ce lo avremmo, ma certamente non sarà tenuto in nessuna considerazione. In breve: si torni al passato, si recuperi il senso profondo della formazione dei ragazzi, ci si doti di strutture efficienti e di metodi di valutazione comprensibili (avete letto qualche pagella di recente? Ci vuole un decrittatore ministeriale.), si punti sulla qualità dell’insegnamento e si lascino perdere i fuochi fatui del pedagogismo progressista fondato su una visione egualitaria. Da queste cose, che non costano niente, si potrebbe partire, unitamente al ristabilimento dell’autorità dei docenti, un tempo figure-cardine del sistema sociale, oggi degradati, nell’immaginario della gente, a impiegati di serie C. Lo confesso, ho nostalgia della buona scuola del mio tempo. Non era quella delle tre I, come ci è stato detto che deve essere la scuola moderna, ma aveva tante altre qualità che comprendevano tutto l’alfabeto morale e spirituale di una persona e di una società. Dubito che ci sia in giro qualcuno, nell’ambito della pubblica istruzione, capace di mettere insieme idee per una rinascita. Ma vale la pena cercarlo.
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MobyDICK
Cd
musica
MARIO BIONDI? GRANDE Nonostante Barry White di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi ndici album all’attivo, più di quaranta singoli, trenta milioni di dischi venduti. Numeroni. Eppure, Cyndi Lauper continua a fare la figura della sorella racchia di Madonna e a rimanere appiccicata al cliché della ragazza tarantolata di Girls Just Want To Have Fun. Etichette dure a morire: come per quegli attori che debuttano nel ruolo di serial killer e tali rimangono per tutta la carriera, anche se si prendono la briga di recitare Shakespeare con fior d’intonazione «gassmaniana». Ma Cyndi, perbacco, meriterebbe almeno d’esser giudicata per quello che è: un’artista che dal botto del 1983 (e da quell’incredibile melodia intitolata Time After Time, furbescamente ripresa in chiave jazz da Miles Davis) s’è impegnata di buzzo buono a scrollarsi di dosso quell’insopportabile aria da Gelsomina di Fellini. Eccola, dunque, dopo il danzereccio e poco riuscito BringYa To The Brink del 2008, riprovarci con più gusto e convinzione dandosi anima e corpo nientemeno che al blues. «Questo è il disco che sognavo da anni e finalmente sono riuscita a realizzare», dice entusiasta. «I pezzi in scaletta e i grandi musicisti che vi partecipano, li ho scelti personalmente dopo averli venerati per tutta la vita. E che stessimo creando qualcosa di speciale, l’ho intuito nell’istante in cui Allen Toussaint ha accarezzato col suo pianoforte le note di Shattered Dreams». Brano sublime, d’enfasi cheek to cheek, infilato fra i dodici di Memphis Blues, registrato all’Electraphonic Recording Studio della capitale del Tennessee. Cyndi Lauper sings the Blues. Alla grande. Senza timore reverenziale. La newyorkese che a dodici anni cominciò a suonare la chitarra e a buttar giù le prime
il nostro Stevie Wonder, è il nostro soulman, è il nostro blue brother, e in più è di Catania, la terra che dai cantastorie a Carmen Consoli la sa lunga in fatto di show. E lo show, il ritmo antidepressivo, allegro, anticrisi è la misura giusta di quest’omaccio con il barbone e il vocione. Mario Biondi, alias Mario Ranno, è adatto ai tempi tristi tempi perché fa allegria e contrasto, perché è un bell’oggetto pop, un siciliano che canta in inglese stretto, perché al mondo esistono anche l’estate, i completi di lino elegantemente spiegazzati, il relax con in mano un Negroni «sbagliato». E leggiamo sul Corriere che gli Incognito, la band che ha inventato l’acid jazz, celebrano il nostro Mario ospite del loro ultimo disco Transatlantic R.P.M. «Mario? È sicuramente tra i grandissimi. Se solo lo conoscessero in America impazzirebbero per lui», dice Jean-Paul «Bluey» Maunick della band inglese. La cosa ci fa vieppiù piacere, come quando sentiamo Francesco Cafiso, il ragazzino prodigio del sax che suona proprio come un jazzista vero, come quando sentiamo che Paolo Fresu ed Enrico Rava non hanno niente da invidiare ai più grandi maestri americani, come quando si dice che questa o quella musica italiana «è cresciuta» e viene «riconsciuta a livello internazionale». Anche se c’è sempre il dubbio che dietro a questi discorsi giri l’ombra inquieta del provincialismo insoddisfatto. I maligni, infatti sostengono che tra un disco d Fresu e uno di Miles, sia da preferire Miles; e che tra quelli di Rava e quelli di Chet Baker sia meglio Baker. La cosa che fa arrabbiare di più Biondi è che lo si paragoni a Barry White, ma rimediare sarebbe semplicissimo, basterebbe che smettesse di comporre, suonare, cantare come Barry White. I maligni tacerebbero, e forse correrebbero a comprare una giacca di lino come la sua.
È
U
Jazz
zapping
Cyndi Lauper
il blues è femmina canzoni, affronta pezzi da novanta che farebbero tremare i polsi a chiunque altra: da Rollin’And Tumblin’ di Muddy Waters a Mother Earth di Memphis Slim, transitando per Crossroads (Robert Johnson), Early In The Mornin’ (Louis Jordan) e Just Your Fool (Little Walter Jacobs). Non è la prima volta che si dà alle rivisitazioni: la ricordiamo, era la metà degli anni Settanta, in alcune cover band a intonare canzoni di Jefferson Airplane, Led Zeppelin, Bad Company; ed è di sette anni fa At Last, disco pieno di gemme vintage: da Walk On By di Burt Bacharach, a If You Go Away (Ne Me Quitte Pas) di Jacques Brel. Stavolta, accompagnata da illustri sessionmen della Stax Records quali Lester Snell (tastiere) e Charles «Skip» Pitts (chitarra), nonché dal trombettista Marc Franklin e dai sassofonisti Kirk Smother
e Derrick Williams, con voce granulosa si mette a «bluesare» spalleggiata da ospiti di gran lusso. Dopo la rilassatezza di Shattered Dreams, Allen Toussaint si rifà vivo nel sound avviluppante di Mother Earth per poi condividere le pennellate calypso di Early In The Mornin’ con l’ottantacinquenne chitarrista B.B. King. L’armonicista Charlie Musselwhite, cavalca il ritmo sanguigno di Just Your Fool e l’energia contagiosa di Down Don’t Bother Me. Il trentenne Jonny Lang, chitarrista blues & rock, mette il suo strafottente virtuosismo al servizio di How Blue Can You Get? e (anche come vocalist) di Crossroads. Conclude, l’indomita Cyndi, con la debordante energia di Rollin’And Tumblin’. Accanto a lei c’è Ann Peebles, mattatrice del Memphis Soul anni Settanta e indimenticabile interprete di I Can’t Stand The Rain. Insieme, sono la prova lampante che quando il blues è femmina… è tutta un’altra cosa. Cyndi Lauper, Memphis Blues, Naïve/Mercer Street Records, 20,00 euro
Tom Harrell, il trombettista che si fa nota
ei mesi appena trascorsi sono stati organizzati centinaia di festival e più di mille concerti, mentre un numero imponente di musicisti ha percorso la penisola. La grande kermesse è ormai terminata e fra un paio di mesi inizierà quella invernale. Ovviamente non è stato possibile seguire tutto e ascoltare tutto.Vorrei solo soffermarmi sui concerti che un musicista americano ha tenuto in diverse località italiane ottenendo sempre grande successo. Questo solista è Tom Harrell. Lo conosco da molti anni e so cosa significa ascoltarlo dal vivo. La prima volta che lo incontrai fu nei primi anni Ottanta quando giunse con il complesso di Phil Woods per partecipare al Festival del Jazz di Pompei. Di quella serata non esiste alcuna registrazione perché Phil pretese di suonare senza microfoni. La perfetta acustica del Teatro Grande degli scavi lo permetteva e Phil
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di Adriano Mazzoletti Woods lo aveva immediatamente capito. Rimane indelebile però il ricordo di un giovane trombettista che si muoveva esitante, a piccoli passi, con lo sguardo perso nel vuoto. In seguito Phil Woods spiegò che Tom Harrell era da tempo sottoposto a un trattamento farmacologico costante a causa di una depressione che lo aveva colpito all’età di vent’anni. Quando non suonava attendeva in piedi, impacciato, raccolto su se stesso, come assente; quando arrivava il momento di iniziare un assolo, sembrava attraversato da una scarica elettrica. Ma era il suo modo di scegliere meticolosa-
mente le note con una sorte di riserbo e di controllo permanente, a sorprendere. Dopo quel concerto, Tom Harrell è tornato molte altre volte, con Phil Woods, ma anche con diversi gruppi. Questa estate dopo aver suonato a Umbria Jazz in duo con il pianista Dado Moroni, si è esibito in altre località. Il fascino, per nulla spettacolare e la sonorità più tenera che fragile, erano sempre in evidenza nel dialogo con Dado Moroni, musicista di grande esperienza e sensibilità, come ho avuto occasione di scrivere altre volte su queste pagine. Chi non avuto la possibilità di seguire i concerti può ascoltare il
disco che Tom e Dado hanno inciso: Humanity, un’opera da cui traspare un lirismo e una energia creativa che ha fatto dichiarare a Enrico Pieranunzi: «Un’intesa silenziosa e commossa; ...emozioni che arrivano e che svelano una toccante possibilità di bellezza». Di recente Tom Harrell ha inciso un altro disco, di grande bellezza, con quattro musicisti tutti di notevoli capacità, ma ancor poco conosciuti, il sassofonista Wayne Escoffery, il pianista Danny Grissett, il contrabbassista Ugonna Okegwo e il batterista Johnathan Blake. Dei nove brani i più riusciti sono Agua, Obsession e soprattutto Roman Night che dà il titolo alla raccolta. Il sassofonista Joe Lovano ha detto di lui: «Tom non suona solo le note giuste - lui diventa ogni nota che suona». Tom Harrell, Roman Nights, High Note, distr. Ird
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arti Mostre
a prima parola che viene in bocca, in bocca della memoria, quasi automaticamente, pensando alla Biennale dell’Antiquariato, che è ancora in corso a Parigi, è immediatamente e sconcertatamente: «sfarzo». Sì, e non lo si dice per demagogia scandalizzata, vista la miseria progressiva che attanaglia anche questo sfarzoso, già in sé, enorme spazio imperiale del Grand Palais, in un momento così difficile per l’economia e le arti, castigate in Francia, certo non come da noi, anche se la recessione pare annunciarsi pure in quelle contrade altisonanti. L’antiquariato, no, è come un mondo a sé, che non conosce crisi o pudori, una bolla a parte, ancora innaffiata da fiumi di champagne gratuito al vernissage, con odore di Première dame in giro, e strascichi di Sarkozy, Chirac e Cichic, e microtartine nouvelle cuisine a profusione, che il pubblico impunito trapianta impenitentemente tra incunaboli, mobili Piffetti e verginone cicladiche, col sederone poco più enfio di queste damazze liftate e rifatte. Che curiosamente cercano nel mobile laccato o nella ceramica filata quella prestigiosa ruga polverosa del tempo, che poi aborrono e cacciano dalle proprie labbrone gonfiate. Sì, perché, in questa ricchissima kermesse, che è una sorta di concentrazione ragionevole e umana della sterminata fiera di Maastrich (anche se i francesi stentano ad accettarlo), è facilissimo imbattersi in alcune prodigiose statuette di arte cicladica, oppure di principesse di Bactrian, in steatite e calcite, terzo millenio avanti Cristo, con una
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Architettura
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Anticomania con sfarzo di Marco Vallora
montagna di finto pelo animale addosso, ma poi anche elegantissimi dromedari di civiltà cinese, e ceramiche iraniane, e portentosi mosaici di vedute marine in stile pompeiano (ma è possibile esportare simili capolavori? Sì, evidentemente sì) e poi imponenti maschere-incensieri in terracotta, di gusto Maya-chipas. Ovviamente privilegiando queste arti cosiddette primitive, e tutt’altro che primitive nella perfezione dello stile, tanto che un gallerista sofisticato come il fiammingo Vervoordt (quello delle mostre veneziane come Infinitum), riesce a farle dialogare regalmente insieme a Fontana e Pierre Soulages, uno dei maestri francesi che ha la meglio in questa Biennale (ma non è una novità). Come Dubuffet, del resto, che è presente con alcune opere molto rilevanti, compresa una beffarda e infantile Gioconda e molti «ritratti» di stratificazioni geologiche. Ma soprattutto i grandi francesi sono ben omaggiati, da Vuillard a Bonnard (magnifica una donna arrovesciata con i suoi capelli davanti a noi, in un’acrobazia cromaticamente geniale), da Delaunay a Derain, da Marquet a Rouault. Ma non si dimentichino nemmeno, e copiosi, i Grosz, gli Schiele, i De Stael, e, per quanto riguarda l’Italia, anche se certe sortite di De Chirico rimangono sempre un po’ misteriose, addirittura una Grand Tour nel senso
proprio di Torre (da dove viene fuori?) del 1915, molto simile a quella che è stata la copertina Einaudi d’un volume di Vittorini, e poi via con Severini, Balla, Marino Marini, ecc. Ma anche con gli antichi c’è poco da scherzare, se dobbiam credere a certe attribuzioni un po’ generose, di Brueghel e Cranach, vecchi e giovani. E poi fondi oro di alto livello (soprattutto degli italiani Moretti e Sarti, da anni di stanza a Parigi) come Canesso, che tra alcune tele nobilissime, mostra anche un curioso e tutt’altro che umile ciuchino, firmato da un artista come Cerquozzi, detto anche Michelangelo delle Battaglie o delle Bambocciate, dunque non particolarmente ferrato nei ritratti, ma soprattutto nelle vedute di genere, alla fiamminga o alla caravaggesca, secondo la lezione di Van Laer, il maestro dei Bamboccianti. Oltre alla Raccolta delle lumache e alla Rivolta di Masaniello, già noto per una patetica Morte del somaro. Per non parlare poi di Kugel, che in fatto di sfarzo, è imbattibile e quasi esagerato. Nella sua palazzina di tre piani, sul Quai Anatole France, non lontano dall’Orsay, grazie alla «messa in scena» di Pierluigi Pizzi, ha addirittura ricostruito una Tribuna quale quella degli Uffizi, per posizionare opere davvero uniche: da repliche romane di Ercoli Barberini a bronzi del Primaticcio, da riproduzioni rinascimentali del Laocoonte a Gladiatori Borghese. Senza contare i Thomire, le pietre dure dall’Hermitage, i Batoni, i Pannini, e il resto delle meraviglie rococò e impero, che si inseguono su per i tre piani della palazzina, all’insegna dell’Anticomania. Mania che reincontri passeggiando tra gli stands, tra bozze corrette da Balzac e paperolles di Proust, teste monumentali di Vajrapani, clavicembali con bronzi e inserti a olio firmati, sculture animalier di Rembrandt Bugatti, e selezionatisimi pezzi di design Novecento, di Hoffmann, Prouvé, Le Corbusier. Accanto a un rarissimo scheletro di uccello estinto della Nuova Zelanda.
Olbrich: quando l’arte alberga nel dettaglio
na bella e documentatissima mostra sull’architetto Joseph Maria Olbrich (1867-1908) è in corso al Leopold Museum di Vienna, un nuovo spazio museale nato nel 2001 dalla donazione della collezione privata di Rudolf e Elisabeth Leopold, che vanta la maggior collezione al mondo di opere di Egon Schiele, l’eccentrico maestro dell’erotismo espressionista. La mostra è completata dalla collezione permanente di opere e quadri Jugendstil, da Klimt e Kolo Moser. L’eleganza dell’architettura di Vienna tra Otto e Novecento è mitica: ancora oggi la città è celebrata per la signorilità dell’edilizia residenziale e per la modernità dell’impianto urbano. Molti architetti contribuirono alla progettazione della nuova Vienna, la capitale che, con Parigi, ha anticipato i moderni assetti urbanistici, demolendo la cinta difensiva per far posto al Ring: il circolo viario metropolitano sotterraneo e di superficie che costituirà modello urbanistico. Tra gli architetti che contrassegnarono la nuova immagine di Vienna, Olbrich svolge un ruolo da protagonista. Originario di Troppau (oggi Repubblica Ceca),
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di Marzia Marandola studia dapprima alla scuola industriale di Vienna, sotto la guida di Camillo Sitte, l’urbanista che rivoluzionò l’assetto della capitale austriaca, per proseguire all’Accademia di Arti Figurative e nel 1894 inizia la collaborazione con Otto Wagner, il più importante architetto viennese, con cui progetta, tra l’altro, le numerose stazioni della nuova metropolitana, capolavori indiscussi di tecnica e architettura. Contemporaneamente alla collaborazione con Wagner, Olbrich lavora a propri progetti, e avvia intensi scambi culturali e professionali con architetti, pittori e intellettuali, quali Josef Hoffmann, Koloman Moser, Gustav Klimt. Con questo gruppo di sodali fonda l’Associazione degli Artisti della Secessione Viennese, un gruppo che si oppone alla stanca tradizione biedermeier imperante a Vienna: Olbrich realizzerà tra il 1897 e il 1898, il palazzo della Secessione, un edificio simbolo, destinato a mostre ed eventi connessi alla Secessione. Il padiglione espositivo
scandalizzò per i volumi spogli: blocchi parallelepipedi, coronati da una straordinaria sfera, traforata da un intrigo di fronde di rame dorato. All’esterno incrostazioni floreali in oro evocano stilizzati ordini architettonici su un candido intonaco, mentre all’interno campeggiano sofisticati e raffinati mosaici con fondi oro, firmati da Gustav Klimt. Promuovere l’arte, necessaria in ogni momento della vita, indispensabile per disegnare ogni oggetto, dal più semplice e quotidiano al più raffinato gioiello di oreficeria, è il credo degli artisti secessionisti. Promotori di una cultura artistica diffusa che coinvolge pittura, musica e letteratura e che rigenera ogni uomo moderno con vigorosa linfa vitale. La mostra illustra la poliedrica produzione di Olbrich e dei suoi sodali, attraverso una massa straordinaria di disegni, modelli di architetture originali o ricostruzioni, arredi delle eleganti residenze borghesi per le quali Olbrich disegna ogni dettaglio: dalla cassetta per la posta, al corrimano, oltre ovviamente a sedie, tavoli e lampade, spesso personalizzate per ogni committente. La mostra non indaga esclusivamente le opere di Olbrich, ma introduce piacevolmente il visitatore nell’intenso, crepuscolare colore artistico e culturale della Vienna di Freud e di Musil.
Joseph Maria Olbrich, Leopold Museum,Vienna, fino al 27 settembre
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na vera e propria impresa che è costata sei anni di «studi matti e disperatissimi». Il risultato non porta però i segni della fatica perché questo Leopardi di Pietro Citati (appena pubblicato da Mondadori, 22,00 euro) oltre a essere un libro scorrevolissimo nella sua densità, ha l’impareggiabile pregio di contagiare il lettore. Nessuno come Citati sa travolgere con l’amore per il soggetto prescelto. Una sensazione già provata nelle sue molte, precedenti immersioni nelle profondità di Goethe o Tolstoj, Kafka, Proust o Ulisse, o in qualunque altro fondale si sia immerso. Ma commuove, alla fine di queste quattrocento e più pagine, distaccarsi da quella figuretta deforme che con le sue gambe robuste si aggirava «avvolto nel suo vecchio soprabito verde col bavero alto, che lo accompagnò nella tomba» per le vie di Napoli. E quando assistiamo alla morte di Leopardi avvenuta con «moltissima grazia», «in tono minore, come in tono minore aveva vissuto», si vorrebbe che quel respiro non si spengesse.Tutta l’immensità che ci ha lasciato riprende così vita, e tornare a frequentarla, magari con piccole, quotidiane letture che assumono quasi i tratti della preghiera, diventa una necessità. Un’immensità quella di Leopardi che Citati esplora senza arretramenti, in tutti gli aspetti della vita (anche quello della ma-
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pito anche il XX secolo. Quanto alla letteratura è inutile dire… Ma la cosa più spaventosa di Leopardi è l’ubiquità. Leopardi racconta sempre, contemporaneamente, negli stessi giorni; ha concezioni del mondo completamente diverse tra loro; è quattro, cinque, sei persone nello stesso momento, a distanza di tre, quattro giorni. Silvia è il contrario del Risorgimento, che è stato scritto pochi giorni prima; il Tasso è il contrario del Dialogo della Natura e di un Islandese, anche questo scritto pochi giorni prima, e così via. Leopardi è dappertutto. E poi, come lui stesso dice scrivendo a un giovane francese, la sua opera non è finita: «Io non ho mai scritto delle opere, ho scritto degli essais». Che poi non è vero, bastano, a smentirlo, Le Operette morali e i Canti. Ma c’è sempre nello sfondo questa immensa ipotesi: questo andare sempre al di là e oltre. Per questo fa spavento. Compatezza, forma, sistema sono le «qualità sovrane» di Leopardi. Che posto occupano le passioni in questo procedere? Occupano un grande posto perché le passioni diventano compattezza, forma e sistema. Ma al tempo stesso le passioni distruggono la compattezza, la forma, il sistema. Ecco perché Leopardi va sempre preso anche dall’altra parte. Leopardi avanza
Sei anni di “studi matti e disperatissimi”. L’esito è un testo scorrevole quanto denso, che non risente della fatica dell’impresa. Che l’autore definisce spaventosa... lattia - la tubercolosi ossea con i suoi devastanti effetti e la depressione psicotica) e dell’opera. Senza tuttavia riuscire a superare la sensazione di spavento che l’impresa comporta. «Leopardi mi ha fatto e continua a farmi spavento» spiega Citati. «Se ripenso a questi anni di lettura e di rilettura, il senso dominante è di spavento e insieme di sterminata grandezza. Forse dico una cosa banale, ma noi ancora non ci rendiamo ancora conto della grandezza di Leopardi. Malgrado un secolo di critica e di letture, la grandezza di Leopardi è ancora qualcosa al di sopra di noi. E non parliamo degli stranieri, che soltanto adesso cominciano a leggerlo - i francesi soprattutto che hanno tradotto lo Zibaldone -, ma nel mondo anglosassone è un perfetto sconosciuto. Per Nietzsche i grandi lirici della storia dell’umanità erano tre: Pindaro, Hölderlin e Leopardi; e non è poco, venendo da una persona come lui, che oltretutto conosceva l’italiano. Io credo che nei prossimi trent’anni assisteremo alla riscoperta di Leopardi in tutto il mondo, e finalmente potremo metterlo al suo posto che è infinito». Ma perché spaventa? Innanzitutto per la sommità spaventosa dell’intelligenza. Leopardi è un uomo che capisce tutto e anche tutto quello che succederà; non esce mai dall’Italia, conosce poche città, ma in realtà ha caanno III - numero 34 - pagina VIII
per continui capovolgimenti, antinomie, contraddizioni, duplicità, sdoppiamenti: se la felicità è il fine dell’esistenza, lui collabora alla disperazione; vive nel centro e lontano dal centro; è tragico e comico; trova energia nella debolezza; elogia il piccolo ma ambisce alla grandezza; ama il silenzio ma anche la conversazione; abita l’infinito come i moderni ma come gli antichi coltiva il senso del limite; è minutamente, ferocemente analitico ma possiede sguardo sistematico, occhi microscopici e visione totale. Distrugge il principio di non contraddizione. È questa la strada maestra che conduce alla verità? Sì, credo proprio di sì. Alla verità non si arriva mai attraverso una linea unica, una linea stretta; bisogna inseguire infinite linee. Tutte quelle che lei ha citato nella domanda, ma anche un’altra che vorrei sottolineare: il coraggio, l’inflessibilità. Noi sappiamo che Leopardi non aveva un soldo, era in miseria, viveva ora con i soldi che gli davano gli amici fiorentini, ora con quelli di un editore ma erano pochi - o, più tardi, con quei pochissimi che gli passò il padre. Viesseux, che lo apprezzava infinitamente, anche se non lo capiva, lo invita a scrivere per L’Antologia, e gli propone di pagarlo più di tutti gli altri collaboratori.
il paginone
Malgrado un secolo di critica e di letture, la sua grandezza sterminata ancora ci sovrasta. Basti pensare che nel mondo anglosassone è ancora un perfetto sconosciuto e che in Francia cominciano appena a leggerlo. Ma Pietro Citati è sicuro che nello spazio di trent’anni occuperà, finalmente, il posto che gli spetta. E intanto ci immerge, nel suo libro appena uscito dedicato al poeta di Recanati, nelle sue profondità
L’infinito
di Gloria
Per lui sarebbero stati soldi benvenuti, ma sebbene amasse molto Viesseux, Leopardi capisce che L’Antologia era tutto il contrario di lui, era il progresso, era la fede nell’utilità, e lui queste cose le detesta. Esecra l’utilità, ama soltanto la letteratura e sebbene abbia bisogno di soldi, rifiuta. Non scriverà mai sull’Antologia - l’unica cosa pubblicata erano degli estratti delle Operette morali - perché sapeva che quello non era il suo mondo. Una purezza, un coraggio simile in una persona malatissima e senza un denaro, sono una cosa rara. Ci sono pochissimi esempi in tutto l’Ottocento, forse soltanto Nietzsche. Natura benigna e matrigna. Come si può sintetizzare il sistema-natura di Leopardi? In Leopardi ci sono molte nature: c’è, nei primi anni, la natura divina; poi c’è la natura sistematica; poi c’è la natura casuale; poi c’è la natura come regno della possibilità; poi c’è - ed è la più tremenda - la natura come circuito di produzione e distruzione, che vuol dire circuito di dissoluzione. I critici di solito pensano che la natura di Leopardi sia tutta lì: parte dalla natura divina e arriva alla natura matrigna, ma è una lettura molto sommaria perché le oscillazioni sono continue in lui. Al tempo del Dialogo di Ploti-
no e di Porfirio, torna a ricordare la benignità della natura, come la natura ci aiuti nascondendoci le cose e come ci protegga. Anche La ginestra è stata completamente fraintesa. Nella Ginestra ci sono due nature: non soltanto quella terribile del Vesuvio che distrugge Pompei, c’è anche quella della ginestra, la mite che china il capo, che non si difende, che si lascia distruggere, ma che al tempo stesso invia il suo profumo verso il cielo. Invia il suo profumo, potremmo dire, a consolare gli dei che hanno bisogno della nostra consolazione. Quando terminò lo Zibaldone Leopardi pensava «che la sua poesia dovesse cancellare dietro di sé qualsiasi preparazione o sfondo o panorama riflessivo». Come si compenetrano in Leopardi - che a volte preferiva il nome di filosofo a quello di poeta - pensiero e poesia? Sono la stessa cosa. Lo ha detto molto bene Antonio Prete: il filosofo e il poeta in Leopardi coincidono. È un grandissimo filosofo in quanto è un grandissimo poeta; è un grandissimo poeta in quanto è un grandissimo filosofo. Questa coincidenza del filosofo con il poeta comincia già nelle Canzoni, non con le primissime, ma con Bruto minore, l’Inno ai Patriarchi, Alla Primavera, dove lo scatena-
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Leopardi
a Piccioni
mento del pensiero filosofico implica lo scatenamento del pensiero poetico. È un caso unico nella poesia moderna, c’è soltanto Hölderlin che gli sta accanto in questa coincidenza di pensiero e di poesia e nel fatto che il pensiero, invece di sabotare o diminuire la poesia, la rafforza mentre la poesia rende più acuto il pensiero. C’è un momento molto bello in cui Leopardi, che detestava la filosofia moderna, invece la rivaluta perché pensa che se la filosofia antica costruiva dei sistemi, la filosofia moderna distrugge quei sistemi, ne fa tabula rasa. Quindi, coltivare la filosofia moderna permette alla mente di ritrovare l’innocenza infantile. Leopardi non arriva all’innocenza infantile direttamente, ma attraverso la coltivazione della più analitica delle filosofie. Questo è uno dei balzi più grandiosi della mente di Leopardi. Tre sono le cose certe per Leopardi: «la potenza infinita della natura, i suoi effetti vari e molteplici, l’idea che le cose del mondo ignoto siano “maravigliose e strane a rispetto nostro”». Che posto occupa Dio in tutto questo? Questa è una domanda alla quale è molto difficile rispondere. Di solito si dice che Dio non occupa nessun posto in Leopardi, e certo ci sono dei punti in cui
il disastro dell’uomo deriva da una specie di complotto tra ragione e religione. Dio è veramente il nemico, ma in questo non c’è tutto Leopardi. Dio, intanto, è il Signore del possibile, e Leopardi amava tantissimo il possibile. E poi c’è un piccolo episodio: quando Leopardi pubblicò i Canti a Firenze, nel ’31, scrisse a Paolina, la sorella, di mandargli una stampa che teneva conservata in un cassetto, dove c’era l’occhio di Dio che guardava dall’alto un lago. Era la possibilità che esistesse un Dio contemplante sopra tutte le cose. Io credo che questa possibilità di un Dio contemplante, che guarda il regno delle acque e soprattutto il regno della luna, non sia mai stata lontana dalla mente di Leopardi, anche se non lo ha espresso, anche se poi questa miniatura con l’occhio di Dio sul lago lui non l’ha più usata per la copertina dei Canti, forse perché sarebbe stata una dichiarazione troppo esplicita. Lo si avverte anche nell’Elogio degli uccelli, dove Leopardi suppone un mondo - il mondo degli uccelli, che sono in parte gli uomini - di letizia, di velocità, di volo, di slancio che non è possibile nel mondo della natura inteso come eterno circuito di produzione e distruzione. È una specie di eccezione. Eccezione di felicità, che per lui esisteva. E a questo mondo di fe-
licità e di volo poteva sovrintendere, io credo, soltanto Dio. Leopardi, lei nota, ha fatto nascere sotto i nostri cuori qualcosa che non conoscevamo: la luce della luna... Nel libro dedico molte pagine alla luna, alla ricostruzione dell’idea lunare nel mondo classico. Leopardi rifiuta il mondo lunare classico, legato alle acque, alla fecondità e all’abbraccio molto caloroso tra sole e luna. In lui la luna non è feconda: la luna è sterile, è casta, è bianca, è verginale. La sua luna è il contrario della luna fecondatrice del mondo classico. Ma quello che ha inventato Leopardi è la qualità della luce lunare. In alcune delle sue poesie arriva, attraverso successive, meticolosissime, lentissime correzioni, che occupano quindici anni della sua vita, a dare questa impalpabilità, questa liquidità, questa chiarezza suprema della luce lunare. In questo, l’unico vero modello di Leopardi, il modello di tutta la sua vita, era stato la fine dell’ottavo libro dell’Iliade, dove il pastore contemplava il cielo chiaro, occupato dalla luna, e le stelle. Ma in Leopardi le stelle non ci sono, c’è soltanto la luna, e la qualità della luce lunare non ha paragoni in nessun poeta del mondo. Le Operette morali sono un libro terribile perché, lei dice, «il sovrano sguardo dall’alto è il più pauroso che l’uomo possegga». È questo sguardo che rende Leopardi così prossimo a noi, così straordinariamente moderno, tanto da richiamarci alla memoria Nietzsche e Adorno, e la condizione di nichilismo che avvolge la modernità? Leopardi possiede lo sguardo dall’alto che riduce le cose a nulla, che le parodizza, uno sguardo che dà a tutto un’ampiezza sterminata. Ma non è affatto nichilista perché in quella vastità di sguardo c’è anche una possibilità di speranza che non è del nichilismo. Lei tende un filo che accompagna tutta la tessitura di questo suo Leopardi, che lo riconduce a Rousseau, sia nei tratti caratteriali sia nel pensiero. Che cosa lo determina? Intanto c’è un piccolo fatto autobiografico. A casa Leopardi esisteva un’antologia di Rousseau in due volumetti, si chiamava La pensée di Rousseau. Era un livre de chevet sia suo che del fratello Carlo. Quando Leopardi è a Roma, Carlo gli parla del «paese delle chimere». «L’unica cosa bella - diceva Rousseau - sono le cose che non sono»: è una frase che ritorna in uno dei passi più importanti di Leopardi, dove dice appunto che le uniche cose belle sono le cose che non sono, tutto ciò che è chimerico, illusorio, fantastico, possibile. Leopardi lascia a Recanati questi due volumetti antologici, però ne ha bisogno e li ricompra non so dove, forse a Bologna, forse a Pisa, tanto
che nell’ultima parte dello Zibaldone ci sono molte citazioni di Rousseau, specialmente quelle sul «paese delle chimere», ma prese da un’edizione diversa da quella citata dal fratello. Evidentemente Leopardi lo aveva ricomprato e lo teneva con sé come un gioiello. Ci sono molte influenze di Rousseau in Leopardi, l’idea del riso per esempio e l’idea del pianto… Ma ci sono anche delle grandi differenze. L’infinito leopardiano è l’opposto dell’infinito di Rousseau. Quello di Rousseau era un’infinita dilatazione, un’espansione, un andare sempre più lontano, un non avere limiti, mentre nell’Infinito Leopardi fa l’opposto: per contemplare l’infinito, si chiude, perché quella siepe è una chiusura, come fosse un muro; quindi ha bisogno di essere chiuso, non espanso, non illimitato. E poi mentre l’infinito di Rousseau era l’infinito dell’universo quello di Leopardi era un infinito creato esclusivamente dalla mente, un infinito assolutamente mentale. Qui il contrasto con Rousseau è grandissimo. A proposito dell’Infinito, come interpreta «mi fingo»? Con «creo». Ogni creazione è anche una finzione, ma «mi fingo» ha un valore creativo. La creazione mentale dell’infinito dura pochissimo perché subito dopo arriva il rumore, lo stormio delle foglie e degli arbusti che cancella il puro infinito mentale. Ma quando Leopardi dice «mi fingo», parla con assoluta consapevolezza e vuol dire «io creo nella mente». Leopardi scelse il destino del Passero solitario, eppure nel suo cuore che tante volte era morto e risorto, non rinuncia mai alla natura umanizzata, alla ricerca della felicità, spesso perseguita con la forza dell’illusione. Nella Ginestra si affida alle molli foreste, alla mitezza, alla tranquillità, alla dolcezza. Nel Tramonto della luna, la sua ultima poesia, lascia spazio al sole, uno spazio che prima non aveva mai immaginato. C’è dunque da credere che alla fine sia riuscito a dare una forma alla felicità, alla speranza? Non so se ha dato una forma alla speranza e alla felicità. Certo, alla fine, succede qualcosa. Per Leopardi l’illusione era fondamentale: se amava la luna era appunto perché era il simbolo sovrano dell’illusione, del riflesso. Nel Tramonto della luna succede da un lato una cosa terribile: il mondo dell’illusione, del riflesso, che era per lui l’unica verità esistente, finisce, scompare: non ci sono più illusioni, non ci sono più riflessi. Ma, poche righe prima della fine, c’è qualcosa che lui non aveva mai rappresentato, cioè l’esplosione, la folgorazione, l’inondazione del sole. Per lui il sole era stato, fino a quel momento, piuttosto una qualità tenebrosa. Era il demone meridiano, come nella Vita solitaria, dove è una specie di vita-morte. Negli ultimi mesi della vita Leopardi riscopre il sole. Questo non vuol dire che creda nella felicità e nella speranza, ma certo con il sole scopre un altro orizzonte. È solo questo che posso dire.
Narrativa
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libri Victor Lodato MATHILDA Bompiani, 288 pagine, 17,50 euro
he irritazione per noi adulti, e magari genitori con figli, sentire certe frasi di una ragazzina che si affaccia al mondo con una caterva di problemi addosso. Ma questo fastidio indica anche che le parole e i comportamenti della quasi donna sono veri, verissimi, e veritieramente riportati su carta. Bisogna essere bravi scrittori, in specie se uomini, come Victor Lodato, per entrare nel cervello e nell’anima di un’adolescente. È chiaro che all’irritazione ci abituiamo, noi che cerchiamo di mantenere un certo ordine nel nostro mondo, o perché al mondo siamo così abituati o perché siamo rassegnati a tal punto da accantonare certe sconvolgenti domande, in apparenza idiote in realtà profonde ed essenziali. E così facciamo conoscenza di Mathilda. La quale ha tutte le ragioni per essere inquieta e confusa. Da poco sua sorella maggiore Helene è morta perché qualcuno l’ha spinta sotto un treno. Chi? Nessuno lo sa. L’ha fatto ed è fuggito. Mathilda si trova a essere figlia unica di genitori che non hanno per niente assorbito il lutto (ma si può assorbire?), che paiono fantasmi egoisti e distratti. La madre fuma in continuazione, poi smette, poi riprende a consumare sigarette in aggiunta all’alcol. Il padre continua ad avere il terrore di non essere un papà buono, malgrado la figlia sia convinta che «nessun suo ossicino sia cattivo». Helene è comunque un’ossessione per Mathilda, che vuole ma non può indossare i vestiti della sorella, che custodisce i nastri con impressa la sua voce, che indaga nelle sue mail e usa il suo nome mandando messaggi a ragazzi con i quali forse la vittima di un pazzo è stata in stretto contatto sentimentale, e forse anche fisico. In questo paesaggio americano che pare viva in un universo ovattato, il mondo entra attraverso la televisione e in maniera brutale. Mathilda scopre i genitori sul divano a guardare ininterrottamente lo schermo. Hanno gli occhi arrossati, allargati dallo stupore e dal terrore: è il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. Mathilda all’inizio pensa che loro seguano uno stupido film. E così, dopo aver capito, nel mondo di Mathilda entra il babau con le vesti dei terroristi. Non è la sola a pensare che gli americani si debbano preparare al peggio, a rafforzare i rifugi-cantine, a immaginare un futuro in modo del tutto diverso rispetto a prima.
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Riletture
Con Victor Lodato nella testa di Mathilda Una sorella morta, l’assenza dei genitori, l’attentato alle Torri Gemelle. Lo scrittore racconta le inquietudini di un’adolescente di Pier Mario Fasanotti
«Non so esattamente quello che voglio»: la frase di Mathilda è la frase di qualsiasi adolescente che confonde i lampioni con le stelle, l’amore con l’aggressione, il rispetto con l’invadenza. Che rivendica il diritto di accusare il prossimo di voler entrare nella sua testa, con un gesto simile allo stupro, e leggere o interpretare i suoi pensieri. La madre si allontana per un poco e scatta l’allarme, il cane di casa ha disturbi gastrici e ci si immagina immediatamente la sua fine, il Diario di Anna Frank diventa, con il suo carico di morte imminente, la sintesi angosciosa tra lutto personale e lutto di una nazione. Mathilda, con la goffaggine e le contraddizioni tipiche della sua età, si stacca dagli ormeggi rassicuranti dell’infanzia e indaga. Non solo vuole sapere come è esattamente morta la sorella, ma anche penetrare in quel groviglio tremendo che è la sua identità di persona in veloce evoluzione. I genitori, con la distanza emotiva tra di loro e con il macigno delle rispettive frustrazioni sulle spalle, non sono in grado di aiutarla. Anche perché hanno smesso di essere coppia che educa, che accompagna per mano la figlia. Il papà, pensa Mathilda, è diventato mamma di Helene, e la madre si è trasformata in padre della superstite. Confusione di ruoli all’ombra del lutto. Dice a se stessa la ragazzina: «La verità è che io non voglio fare la fine di mamma e papà. In una casa piena di libri e polvere e con tutto l’amore scappato via… io voglio un’altra cosa, ma le parole per dirla non le hanno ancora inventate». La madre, nel suo apatico isolamento, non l’aiuta di certo. È proprio degli adolescenti pensare una cosa e il contrario della stessa. Riferendosi alla mamma, Mathilda dice: «Il fatto è che vorrei che se ne andasse, ma poi non voglio più. Sono di nuovo i doppi pensieri, che stanno diventando un problema serio. Come funziona questa storia delle cose e dei loro contrari? Amore e odio, per esempio. Certe volte si intrecciano l’uno con l’altro come se in pratica stessero facendo sesso. È disgustoso». Ma il rifugio vero, dopo un disordinato ondeggiare nel mondo, si rivela per Mathilda il grembo della madre. La rassicurazione che porta all’età adulta è il poterla chiamare finalmente mamma.
Zarathustra e la buona novella di Nietzsche
ossio Giametta conosce Friedrich Nietzsche più di quanto l’autore di Così parlò Zarathustra conoscesse se stesso. È un’esagerazione? Non credo. Le cose che il collaboratore di Giorgio Colli e Mazzino Montinari ha scritto e detto su Nietzsche hanno tutte il segno della chiarezza. Sossio Giametta persegue un fine che credo abbia raggiunto: raccogliere il pensiero di Nietzsche, che sembra disperso nella sua opera edita e inedita, nei libri, negli aforismi e nelle cose postume che sembrano contraddittorie, in un’unità. È un grande sforzo che merita attenzione e apprezzamento perché il risultato positivo è stato ampiamente raggiunto dal filosofo e filologo di Frattamaggiore. Si potrebbe dire a mo’ di battuta: così parlò Sossio Giametta. L’opera più significativa di Nietzsche è il poema filosofico Così parlò Zarathustra. Almeno così comunemente si dice, anche se forse il senso ultimo dell’opera di Nietzsche potrebbe essere ricavato e pienamente inteso anche in assenza dello Zarathustra. Ci sono interpreti di Nietzsche che non amano il Così parlò Zarathustra: «un libro per tutti e per nessuno». Evidentemente, credono che sia
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di Giancristiano Desiderio un libro per nessuno. La pensava così, ad esempio, proprio Montinari e anche Gianni Vattimo, interprete importante di Nietzsche, non ha in gran simpatia lo Zarathustra. Invece, Sossio Giametta ha in gran considerazione il poema filosofico di Nietzsche e, al contrario della vulgata, ritiene che sia un libro chiaro e laico, anziché oscuro e misticheggiante. Il commento che ha scritto per questa nuova edizione della Bompiani è tutto proteso verso questo scopo: la laicità e l’unità di fondo dell’opera di Nietzsche. Non siamo lontani dalla verità se diciamo che il senso del pensiero di Nietzsche è il coraggio: il suo maestro -Schopenhauer - si oppose all’idealismo e ad Hegel e fece riemergere il gran caos tragico della physis, ma poi davanti allo spettacolo meraviglioso e tremendo dell’eterno ritorno ebbe paura e si ritrasse dicendo «no alla vita». Il cuore del pensiero di Nietzsche è proprio la diversa risposta che darà alla vita, prima che alla filosofia, perché al cospetto del dolore privo di senso, cioè non redento né da un Dio né da una filosofia o da una conoscen-
La nuova edizione del discusso poema filosofico con il commento di Sossio Giametta
za salvifica, egli, Nietzsche-Zarathustra dirà «sì alla vita», sì alla sua tragicità che nessuna metafisica riuscirà mai a imbrigliare in un senso risolutivo. Il centro del pensiero antimetafisico di Nietzsche è qui: in questo coraggio che guarda in faccia le cose senza illusioni e senza tentennamenti. Capito questo, il resto viene da sé. E per il resto s’intende anche le due idee più celebri di Nietzsche: il superuomo e l’eterno ritorno (ma delle due quella più importante, anche se non va sopravvalutata, è la prima). Per quanto possa apparire paradossale, il superuomo ha in sé una dimensione cristiana: possibile che il filosofo che ha scritto l’Anticristo abbia in sé qualcosa di cristiano? Non solo è possibile, ma addirittura necessario. Dire sì alla vita, non rifiutarla ma accettarla anche nel suo dolore, è senz’altro cristianesimo. Lo stesso Nietzsche concepì il Così parlò Zarathustra come il quinto Vangelo e per certi versi questo poema filosofico o filosofia poetata è un completamento, come dice Giametta, della «buona novella». Il cristianesimo ha in sé questa valorizzazione della vita umana e Nietzsche è come se avesse preso in parola la Parola del cristianesimo ancorandola il più possibile ai valori terreni senza la fuga nell’al di là.
MobyDICK
poesia
25 settembre 2010 • pagina 19
I ruggiti di Foscolo, poeta civile di Filippo La Porta
Sepolcri, poemetto filosofico-civile scritto in forma di lettera a Ippolito Pindemonte nel 1803, è l’opera più perfetta di Foscolo. Perché? Perché il letterato Foscolo è anzitutto un uomo pubblico, educatore e patriota, esule ed eroe, preoccupato dell’ethos collettivo, in ansia per le sorti del suo Paese, e poi impegnato a costruire un’etica laica (materialistica, settecentesca) che si confronti però con temi squisitamente religiosi. Temperamento irruento-passionale e amore per la tradizione. Biografia romantica e cultura classicistica. E se nei Sonetti anticipa qui e là suggestioni leopardiane e raggiunge momenti liricamente alti, direi che non è davvero un poeta lirico, elegiaco o intimistico, come qualche volta ama presentarsi. Si rivolge invece al suo pubblico per dargli un’immagine di sé esemplare, nobile o tormentata, vibrante o infelice, comunque di alto valore civile (il suo impegno politico comincia a 14 anni, quando nel 1792 a Venezia entra in contatto con gli ambienti liberali e repubblicani). In un certo senso si mette sempre in posa, come nel celebre autoritratto del sonetto 7: «Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,/ crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,/ labbro tumido acceso e tersi denti,/ capo chino, bel collo, e largo petto».
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Di fronte alle «infinite/ ossa che in terra e in mar semina morte» - immagine drammatica, sconsolata può evocare una continuità degli umani affidata al culto delle reliquie, alle tombe e soprattutto alla poesia stessa, istituzioni capaci di custodire, in modi diversi, la memoria delle persone (l’occasione fu data dall’editto napoleonico di Saint-Cloud che imponeva la sepoltura fuori degli abitati). Personalmente ho sempre anteposto i Sepolcri alle due Odi galanti (All’amica risanata e A Luigia Pallavicini caduta da cavallo), sintatticamente elaboratissime e dunque innovative ma troppo scolastiche, quasi soffocate dall’eccesso di mitologia, e a quelle Grazie della maturità, sulle quali tendo a condividere la diffidenza di De Sanctis. La raccolta dei Sonetti, appassionati e declamatori, e dispensatrice di alcuni sintagmi poetici fissati per sempre nel nostro immaginario («fatal quiete», «illacrimata sepoltura», «reo tempo»…), mi appare discontinua. E forse l’aspetto formalmente più interessante è l’incrinatura della melodia «classica» a opera di enjambement e artifici retorici. Il sonetto che mi ha sempre colpito non è tanto il primo, Alla luna (che a un liceale smanioso di punteggi e classifiche non sembrava poter reggere il confronto
il club di calliope
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con Leopardi), quanto il successivo, impoSEPOLCRI stato su un autoritratto virile, ma di accoraAll’ombra de’ cipressi e dentro l’urne ta sincerità e tono epigrammatico: «Non son chi fui;/ perì di me gran parte»; e che confortate di pianto è forse il sonno contiene il verso quasi passato in proverbio della morte men duro? Ove piú il Sole «conosco il meglio ed al peggior mi appiglio», quasi fedele traduzione da Ovidio, e per me alla terra non fecondi questa poi largamente presente in tanta letteratubella d’erbe famiglia e d’animali, ra patristica (da san Paolo a sant’Agostino, contro il cosiddetto intellettualismo socrae quando vaghe di lusinghe innanzi tico che identifica tout court male e ignoranza ed esclude che se si conosce il meglio a me non danzeran l’ore future, si fa il peggio). In realtà tutto in Foscolo è né da te, dolce amico, udrò piú il verso calco, parafrasi e citazione di qualcos’altro. Quasi nulla vi è di originale e genuino. I e la mesta armonia che lo governa, modelli sono Omero, Orazio, Lucrezio, Proné piú nel cor mi parlerà lo spirto perzio, Ovidio,Virgilio, e ancora Petrarca, e infine Parini (le odi) e Alfieri (le tragedie). delle vergini Muse e dell’amore, Ricordo anche come Foscolo è stato un inunico spirto a mia vita raminga, stancabile e spesso straordinario traduttore: dall’Iliade a Lucrezio, da Catullo al Viagqual fia ristoro a’ dí perduti un sasso gio sentimentale di Sterne. Eppure che distingua le mie dalle infinite in lui, al contrario che nell’amico Vincenzo Monti, il calco ossa che in terra e in mar semina morte? non è solo algida, elegante Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, imitazione ma strumento di espressione di umori, ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve sentimenti, emozioni ribollenti. La fittissitutte cose l’obblío nella sua notte; ma, erudita intertee una forza operosa le affatica stualità della sua opera è debitrice nei di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe confronti dei classie l’estreme sembianze e le reliquie ci, dei quali però riesce a riattivare tutta della terra e del ciel traveste il tempo l’energia. E poi: l’im(…) magine pubblica plasma anche l’interiorità: a forza di voler apUgo Foscolo parire a tutti i costi «pronto, iracondo, inquieto, tenace» (vedi il Sonetto 7: stesso climax e stessi aggettivi per Achille nell’Ars poetica di Orazio), che si potesse vedere, un vero orsacchiotto repubblialla fine un po’ inquieto e iracondo lo è sul serio. cano ringhioso e intrattabile, un modello di virtù ciÈ vero che negli ultimi anni ai tormenti e all’enfasi di vica che volentieri si sarebbe esposto all’ammirazioOrtis succede il distacco ironico di Didimo, agli entu- ne universale». siasmi del patriota seguirà la disillusione dell’esule a Torniamo ai Sepolcri. Alla fine l’oblio «involve», trasciLondra, ma per capire appieno la figura di Foscolo na nella sua notte buia tutte le cose e le creature, però occorre riandare a quelle pagine delle Confessioni di la forza retorica (in un’accezione positiva) e la perfeun italiano di Nievo in cui entra in scena il poeta. Co- zione formale dei versi foscoliani oppone al disfacisì si presenta al protagonista «quel giovinetto ruggi- mento, al tempo che «traveste» ogni reliquia, una resitore e stravolto» durante una seduta del Maggior stenza preziosa, nella quale anche il lettore di oggi poConsiglio veneziano: «Allora meglio che un letterato trà riconoscersi; e allude a una «eternità» a cui, almeegli era il più strano e comico esemplare di cittadino no per un momento, viene voglia di credere.
IL MEA CULPA DI GÜNTER GRASS in libreria
Tu mi capisci è un gergo involontario quello che uso è un modo di dire, sfuggire al tragico riflesso delle ombre. Sottile, sono sottile come una piuma o peggio come tutto ciò che ci rapisce. È attimo, dimora provvisoria, pianto. Claudio Recalcati
di Loretto Rafanelli
ardi, dicono, troppo tardi./ In ritardo di decenni./ Annuisco: sì, ce n’è voluto/ prima che trovassi parole/ per l’usurata parola vergogna». Così Günter Grass, in Dummer August (Raffaelli Editore, 100 pagine,12,00 euro), si esprime per dire della sua infame colpa, una colpa terribile, anzi doppiamente terribile: essere stato nelle file naziste (e avere anche indicato al regime alcuni oppositori), quindi essersi eretto a emblema di purezza, a coscienza di un popolo, ad alta voce critica impegnata a condannare i tanti che si erano compromessi con la dittatura hitleriana, tutto ciò per mezzo secolo. Dummer August, significa letteralmente pazzo agosto, ma anche pazzo pagliaccio, perché l’autore si riconosce come uomo piccolo, indegno. È quella di Grass una poesia amara, sicuramente carica di dolore, per quanto usi l’arma dell’ironia. Ci dice della sua difficoltà ad «affrontare la ressa dei giorni a venire», si richiama all’esigenza di una vita semplice, di una dovuta attenzione alla natura. Chiede, lui icona nazionale e premio Nobel, un misero perdono. Mendica, «perduto in un tempo che non vuole chiudersi», una soluzione per quella «macchia che vincola». E pur sapendo che la gente, «rane gracidanti», «indica con dito senza macchia», come dire che tutti hanno qualche colpa, non sappiamo se ciò sia sufficiente a salvarsi, rimane «la pagina… mia gioia dell’intera vita».
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di Jacopo Pellegrini om’è difficile scrivere una recensione la mattina d’una domenica calda e assolata, mentre la brezza marina promette di lontano lusinghe irresistibili. In che modo sono finito in questa trappola? Occorre un pezzo, richiestomi con ferma gentilezza per la pagina degli Spettacoli di Mobydick. Il problema adesso è di cosa scrivere? Per fortuna ricevo una telefonata della diletta amica Floriana Tessitore: al Teatro Massimo di Palermo, presso il quale ella svolge le funzioni di capo ufficio stampa, va in scena un nuovo allestimento del rossiniano Barbiere di Siviglia: al podio, l’astro montante della direzione operistica, Michele Mariotti; alla regia, Francesco Micheli, altro rampantino, discretamente noto per i suoi spettacoli didattico-divulgativi misti di prosa e musica; giovane anche la compagnia di canto, eccezion fatta per il veterano Simone Alaimo, palermitano purosangue, nei panni di Don Basilio. Un Barbiere moins que quarante ans e con ambizioni non routinières: ce n’è abbastanza per affrontare un viaggio, tra andata e ritorno, di 2800 chilometri, come a dire quasi un tredicesimo del giro del mondo. E invece, a giochi fatti, qual delusione! Un Barbiere dove per un atto intero nessuno ride o quasi, come lo giudichereste se non un fallimento? Direttore e regista si accaniscono sui particolari e fatalmente perdono di vista l’insieme, il meccanismo drammaturgico s’inceppa di continuo, la tensione (esiste forse musica più vitale, elettrica di quella di Rossini?) cala fino a 0. Mariotti ha talento e tecnica, va per il sottile (gli effetti d’arco al ponticello nella «Calunnia», certe improvvise screziature dinamiche forte/piano), ma non bada al suono dell’orchestra (un mezzo sfacelo nell’ouverture); e poi, il continuo oscillare dei tempi tra un numero e l’altro o tra una sezione e l’altra di uno stesso numero, e dell’agogica all’interno delle singole
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Televisione
Opera Che delusione il Barbiere senza risate MobyDICK
spettacoli DVD
DA SANSONE ALLA STRISCIA DI GAZA uoia Sansone e tutti i filistei. A partire dalla tragica parabola dell’antico giudice biblico, l’israeliano Avi Mograbi descrive la crisi tra Israele e Palestina nell’intenso Per uno solo dei miei due occhi. Film intelligente, perché racconta il conflitto attraverso gli occhi dei rivali palestinesi, costretti a subire ogni giorno controlli e ispezioni da parte dell’esercito israeliano. Ben lungi dai pasdaran negazionisti, Mograbi incrocia testimonianze raccolte da entrambe le barricate, e mostra in presa diretta un conflitto assai più complesso di quanto lo abbiano mai rappresentato i media.
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PERSONAGGI
MADONNA, LA MASSAIA CHE (NON) T’ASPETTI sezioni, infrange il ritmo narrativo senza esilarare l’uditorio. Micheli invade la scena di mimi - venti, - ma, a parte quando fungono da servi di scena per spostare le torri e i carri disegnati da Angelo Canu (i costumi invece sono di Marja Hoffmann), non è chiaro quale vantaggio tragga lo spettacolo dalla loro presenza. Indeciso tra astrazione (i riferimenti capziosi a Mirò) e incursioni nel camp, Micheli si dimentica oltretutto di lavorare sui cantanti. I quali o sono fuori parte (che c’entra Nicola Alaimo, bella voce di baritono lirico bisognosa di cure tecniche, colla tessitura da basso buffo di Bartolo? Il bravo Capitanucci semplicemente non è Figaro attento agli acuti!) o sono irrime-
diabilmente modesti (il tenore Korchak, di cui - chissà perché - si dice un gran bene; la Kemoklidze, Rosina). Peggiore di tutti la Berta di Giovanna Donadini. Bene Orecchia e Barbagallo, ma è tanto se da soli cantano due minuti di musica (su due ore e mezza). Insomma, una noia tale che invece di tagliarla col coltello, l’ho affogata rifugiandomi al bar per buona parte dell’Atto II. Ho fatto ammenda il giorno seguente, cioè oggi (la bella domenica di sole), assistendo alla recita del secondo cast, nel quale spiccavano un Bartolo di lungo corso, l’eccellente Carlo Lepore, e un basso promettentissimo (studi e si applichi, per carità) Roberto Tagliavini, quale Basilio.
ltre l’esile linea della provocazione, si spalanca talvolta il crepaccio del ridicolo. Un’evenienza, alla quale non si sottrae neppure la stilosa icona di Madonna. Luogo del delitto la Sicilia, dove l’ex material girl si esibisce per Dolce & Gabbana nel ruolo di una procace massaia isolana intenta a inzaccherare il pavimento con il suo strofinaccio. Lo spot, siglato da Steven Klein, immortala la signora Ciccone a spasso per bancarelle con una gallina, un gatto e una coppola in testa. Poi ci si lamenta che l’unica Italia nota all’estero è quella di lupare, mandolini e donne schiave.
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di Francesco Lo Dico
Veronica-Eva, una ladra per amica
errebbe voglia di vivere e lavorare lì, proprio lì, in quella splendida porzione di centro storico che sta attorno a via dei Coronari, a Roma. E magari con un’amica come Eva, alias Veronica Pivetti che quando sorride o s’affanna o si stupisce non perde mai il lampo dell’intelligenza. Sono iniezioni di serotonina quelle offerte in prima serata da Rai 1 con la serie La ladra. Una cosa carina, rassicurante, ingenua. Sul solco della commedia all’italiana in versione televisiva. Un piccolo mondo dove ognuno sta rigorosamente nei suoi panni. Lei,Veronica-Eva, è proprietaria di un ristorante, ha un lontano passato di ladra assieme al padre di Lorenzo, il figlio sedicenne. Sempre di buon umore, generosa, svelta di mente. Poi c’è lo chef appena assunto in prova, il solito bellone giramondo che non si preoccupa mai di niente, sicuro che il mondo sia pronto a stare ai
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suoi piedi. C’è la cameriera amica, priva di sex appeal, sognatrice senza tormenti; c’è la farmacista, c’è la parrucchiera che è vestita da parrucchiera. Nel primo episodio entra in scena il cinico e cattivo faccendiere, vanitoso sciupafemmine che vende prodotti finanziari tirando a fregare il prossimo. Questi allontana bruscamente Valeria, la donna che tre anni prima ha messo incinta e ora si trova in difficoltà eco-
nomiche. Lui cerca di investire il proprio futuro nel matrimonio con una bella erede. Eva-Veronica e le amiche organizzano il furto dell’anello del fidanzamento dopo aver bloccato Valeria che sul tetto ha pensieri suicidi. Una vendetta, e tutti sono d’accordo nel considerare il furto come un’opera pia, un risarcimento a Valeria. Eva-Veronica rispolvera la destrezza ladresca senza rivelare nulla degli anni in cui «faceva colpi» al ritmo delle comiche o dei film muti. Trama avventurosa e buonista dove tutti si trasformano in cartoni animati. Se c’è Topolino c’è anche Gambadilegno, se c’è Paperino c’è anche Gastone. Tutto finisce bene prima ancora di cominciare dato che la tensione è davvero minima, ed è sufficiente vedere per qualche attimo una faccia per sapere che quella o va all’inferno o va in paradiso. Contorni netti e il telespettatore si sente appagato perché gli è facile dire «ah, io lo sapevo». La la-
dra potrebbe essere accostato a quelle serie americane per adolescenti tipo Zac e Cody al Grand Hotel: smorfie, movimento alla Ridolini, battute a raffica (in questo gli americani sono molto più bravi di noi) in un piccolo mondo moderno dove tutto si rimette a posto dopo un caricaturale disordine iniziale. La ladra, dodici prodotti di Endemol per Rai Fiction (regia di Francesco Vicario), ruota attorno al ristorante Il frutto proibito, che s’affaccia su piazza Quadrata. Domina la leggerezza, ma condita dagli stereotipi.Tutti o quasi sono tolleranti e solidali, una specie di famiglia che s’allarga nel quartiere, una bontà avvolgente, a volte stucchevole. Se le avventure di Eva-Veronica si devono gustare come se fossero delle comiche sentimentali - e altro non è consigliabile suggerire - allora tutto va preso con le pinzette dell’umorismo, anche se a volte assai modesto. Ma quanto ci piace Veronica: è l’amica che sogniamo di avere. (p.m.f.)
Cinema
MobyDICK
a passione di Carlo Mazzacurati era il secondo film italiano dei quattro nel concorso principale alla Mostra di Venezia. Le commedie sono una merce rara nei festival, ma quest’anno ce n’erano tre solo in «Venezia 67»: Potiche di François Ozon, uno spasso, e Balada triste de trombetta di Alex de la Iglesia, che ha vinto il Leone d’argento per la regia e l’Osella per la sceneggiatura. La passione racconta la crisi esistenziale e d’ispirazione del regista Gianni Dubois (Silvio Orlando), ex giovane promessa, ora cinquantenne, che non fa un film da cinque anni. Il suo produttore inizia a spazientirsi, minacciando di sospendere l’assegno mensile che gli passa a vuoto da un lustro, se non si sbriga a scrivere un copione. Il regista farfuglia che ha un’idea pronta, e prende appuntamento per raccontargliela, quando arriva una telefonata dal paesino della Maremma dove ha una casa antica che affitta agli stranieri. Un’infiltrazione d’acqua nel muro condiviso con la chiesa del paese richiede un intervento d’urgenza. Durante i lavori si scopre un affresco prezioso del quattrocento. Dubois, in preda al panico, corre sul posto dopo aver annullato (non senza sollievo) la riunione con il produttore. È convocato dal sindaco in tailleur e fresca di parrucchiere (Stefania Sandrelli) e dall’assessore Del Ghianda (Marco Messeri) che gli parlano dell’urgenza di rilanciare il turismo. Chiedono a lui, artista e cittadino di prestigio, di resuscitare la rappresentazione della Passione di Cristo il Venerdì Santo; farà il casting tra la gente del luogo. Dubois, ansioso di mettersi a scrivere il maledetto copione, non ha il minimo interesse - né religioso né tanto meno professionale - a occuparsi di una ruspante messa in scena delle Stazioni della Croce con un immenso numero di villici da selezionare, prove caotiche da fare lungo tutto il percorso, assistenti e costumi da trovare, materiale scenico da costruire, e tutto in meno di una settimana. Dice di no ma la sindachessa gli sventola in faccia la denuncia del reperto artistico scoperto, pronta per le Belle Arti, con inevitabile confisca della casa a tempo indeterminato.
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Nel mezzo del casino arriva Flaminia Sbarbato (Cristiana Capotondi), la graziosa attricetta famosa per melense e popolari fiction tv; è ansiosa di passare al grande schermo proprio con la sceneggiatura promessa da Dubois. Non solo arriva, ma pretende che il regista le racconti, durante la cenetta a lume di candela, la fantomatica trama e il ruolo che la promuoveranno Attrice Seria. La strizzata d’occhio è che la Capotondi è lei stessa una starlette lanciata da film commerciali come Vacanze di Natale e le fiction Orgoglio e Sissi, che ha fatto il balzo ai piani alti del cinema (Notte prima degli esami, I viceré): un typecasting perfetto. Gli incidenti di percorso di Dubois sono un’antologia di sketch già visti, come i cellulari che non prendono che in un unico, scomodo punto: sopra una scala esterna che finisce sul pianerottolo di una casa privata - naturalmente di una vecchietta scocciata, e con la fila di extracomunitari che si forma per
Due fratelli capolavoro telefonare - o la scena slapstick con un letto ribaltabile che non si apre. Il film, però, è molto curato e al Lido la gente in sala ha riso fino a circa tre quarti del film, con applausi a scena aperta. Molto apprezzabili gli attori di contorno come Giuseppe Battiston (Davide di Donatello per Pane e tulipani e Non pensarci, due bei film italiani contemporanei) che interpreta un ex-detenuto riformato («Ho rubato, e molto») che si è dedicato al teatro amatoriale dopo aver partecipato a un seminario di recitazione tenuto da Dubois nel suo carcere. Conosce tutti i Vangeli a memoria: nella lunga permanenza in cella d’isolamento, la Bibbia era l’unico libro permesso. Ama lo spettacolo e Dio perché sono le ciambelle di salvataggio che lo hanno allontanato dal crimine. Si offre subito di fare il galoppino di Dubois, di occuparsi di ogni grana e dettaglio, ma è solo una pausa nella catena di guai. Corrado Guzzanti è molto godibile come metereologo tv gigione, scelto per la parte di Gesù; ci si chiede perché non lavori più spesso nel cinema. Non gliene vorranno mica per il flop ipocomico di Fascisti su Marte? È uno spreco assurdo non utilizzarlo di più; è unico, non assomiglia a nessun altro attore italiano. Il film si sfarina poi nel finale, ma non è questa la riserva principale, e nemmeno la soporifera lettura del film come «metafora dell’Italia degradata d’oggi» che affligge gli autori di quasi tutti i film italiani, elaborazione del lutto di una sinistra sinistrata e in cerca di colpevoli. Silvio Orlando (Coppa Volpi per Il papà di Giovanna) è ritenuto da molti un grande attore. Noi preferiamo la definizione che Federico Fellini dava di interpreti come Giulietta Masina, Monica Vitti e Totò: sono maschere, diceva, come nella commedia dell’arte: in qualunque ruolo sono sempre se stessi, mentre l’attore cambia (Francesca Inaudi, Michele Placido). Non è per forza un insulto ma una precisazione tecnica. Orlando ha la stessa faccia afflitta sia nelle commedie sia nei drammi. Funziona al meglio solo nei film di Nanni Moretti. Forse perché sono film migliori?
di Anselma Dell’Olio
Morti ammazzati, Platone e Socrate, l’esistenza di Dio e Walt Whitman, Tulsa e la sua comunità ebraica. È un piccolo film geniale con un grande cast (Edward Norton in testa) “Leaves of Grass” di Tim Blake Nelson. Impareggiabile anche la prova di Corrado Guzzanti nella “Passione” di Carlo Mazzacurati
Consigliamo viv amente Fratelli d’erba, uscito la settimana scorsa, perché è un piccolo film geniale, spassoso, originale, scritto benissimo e con un cast eccellente, e a rischio di passare inosservato. È la storia di fratelli gemelli identici, Brady e Bill Kincaid (il notevole Edward Norton nelle due parti) dell’Oklahoma, figli di due dropout. Il padre è morto in guerra («troppo “fatto” per rendersi conto del pericolo») e la madre (Susan Sarandon) è una hippy ancora giovanile, che sceglie di vivere in una casa di riposo. Bill è fuggito al nord e non torna a casa da dodici anni. Si è costruito una bellissima carriera accademica, è adorato dagli studenti, le ragazze lo concupiscono e Harvard gli offre una cattedra di filosofia. Attirato a Tulsa dalla notizia dell’assassinio di Brady, s’infuria quando scopre che il fratello - che lui disprezza per la vita disordinata e alternativa - ha finto la sua morte per indurlo a tornare a casa. Bill, preciso e integrato, è il contrario del gemello, che spaccia e coltiva con metodi tecnologici avanzati di sua invenzione, una marijuana gourmet-dinamite. È sotto ricatto dal boss locale, l’ebreo filo sionista Pug Rothbaum (Richard Dreyfuss), con cui ha un grosso debito, che lo vuole nel business delle droghe chimiche (metamfetamine, Pcp, ecstasy) che lui, ecobuongustaio, disdegna. Questa la premessa, ma Tim Blake Nelson, autore, regista e attore (era in Fratello dove sei? dei Coen, qui è il miglior amico di Brady) tesse una tela in cui ci sono (e non in maniera superficiale) morti ammazzati, Platone, Socrate, una raffinata teoria sull’esistenza di Dio e Walt Whitman (in originale il film si chiama Leaves of Grass). C’è pure la comunità ebraica di Tulsa («eccentrica, improbabile, esotica» dice Nelson, un indigeno). L’adorabile Keri Russell (indimenticabile in Waitress - ricette d’amore) è Janet, la maestra colta che fa la pesca del pesce gatto a mani nude. Il critico Roger Ebert definisce il film «una sorta di amabile, bizzarro capolavoro». Da vedere subito.
Avventura
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MobyDICK
ai confini della realtà
I Longobardi non mentono mai di Gianfranco de Turris
a «svolta» per la narrativa dell’Immaginario italiana si ebbe nell’anno orwelliano 1984 e proseguì per un bel pezzo. Per motivi che non si riuscirà mai a sceverare - coincidenze fortuite, fato editoriale, illuminazione dei curatori di collana, improvviso e concomitante interesse di autori noti ed esordienti grandi case editrici iniziarono a pubblicare nelle collane generaliste e senza alcuna etichetta romanzi che spaziavano nel variegato ambito dell’Immaginario. Fantascienza, fantastico, fantastoria, orrore, mito, magia, occulto e avventura non-mimetica entravano a far parte del cosiddetto mainstream e cominciarono a essere accettati da critici e pubblico (anzi: prima da questo che da quelli) per le intrinseche qualità letterarie dell’opera: il «genere», dunque, iniziava a non fare più «la differenza» in negativo. Nell’arco di venticinque anni, anche se fra alti e bassi, la situazione si è consolidata proprio in un momento di crisi della narrativa «specializzata», non solo in Italia ma in tutto il mondo. Quindi, che Valerio Massimo Manfredi con il suo volume di racconti Archanes (Mondadori) abbia vinto lo scorso 11 settembre il Premio Scanno, giunto alla sua 38ma edizione, ha un suo significato, al di là del riconoscimento a un nome che riassume in sé parecchie caratteristiche: narratore e saggista, sceneggiatore e conduttore televisivo, ma soprattutto archeologo (non teorico, ma con ricerche su campi impervi) e docente universitario. Un antichista, insomma, che non solo conosce e ama la classicità greco-romana, ma soprattutto riesce a calarsi nella mentalità, nel modo di pensare e agire di quei nostri lontani progenitori, là dove sono le nostre radici culturali, cosa che Manfredi sa molto bene, e lo fa capire.
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I suoi romanzi, a partire da Palladion che, insieme agli altri romanzi citati in precedenza, diede il via alla accettazione presso l’editoria generalista dei temi «fantastici», sono un sapiente dosaggio di conoscenza approfondita e partecipe di quelle vicende e di quei miti, lontani eppur così vicini, di uno stile piacevole e veloce, con trame complesse in cui spesso si affaccia l’elemento non-mimentico e qualche volte addirittura fantascientifico, e una struttura a intrigo che ricorda il giallo, lo spionaggio e l’avventura. Insomma, Valerio Massimo Manfredi scrive romanzi e racconti «che si fanno legge-
re», ma che al contempo non sono superficiali, non sono anacronistici come quelli che spesso ci propinano gli americani, con modi di dire e di fare attribuiti agli antichi che si rifanno a modi di dire e di fare moderni e con-
temporanei: il che raggiunge vertici insuperabili di ridicolo. Ecco perché è significativa la vincita di un libro di avventura al Premio Scanno, un premio fondato nel 1972 da Riccardo Tanturri e che dal 1975 ha iniziato a segnalare letteratura e narrativa, creando poi sezioni per il diritto, l’economia, la sociologia, la medici-
ci entrare in un mondo diverso dalla realtà quotidiana, ci fa immedesimare nel protagonista e ci fa vivere storie appassionanti che simbolicamente trasmettono insegnamenti. Cosa che piace anche agli adulti. Valerio Massimo Manfredi è stato uno di primi autori italiani, se non il
primo, a dare nella seconda metà del Novecento una dimensione «moderna» al romanzo di avventura, mescolandolo, come si è accennato, ad altri «generi» attuali: il thriller, la spy story, l’intrigo internazionale, la fantapolitica. Archanes, nelle cinque lunghe storie che lo compongono,
Con “Archanes”, Valerio Massimo Manfredi, l’autore che ha dato in Italia una dimensione moderna al romanzo d’avventura, ha vinto il Premio Scanno. Un libro che è la summa delle sue tematiche preferite. Tra passato, presente e futuro na e le tradizioni popolari. Ah, ma allora si tratta di un libro per ragazzi, dirà qualcuno meravigliandosi di tanta audacia. Non è così. A parte che a questa «categoria» vengono ascritti noti capolavori di Stevenson e Conrad, e che le stesse opere del nostro maggior scrittore del genere, Emilio Salgari, sono da molti anni rivalutate e pubblicate in edizioni filologiche, le sue origini sono nobili e per nulla infantili. L’avature era quella cui andavano incontro i cavalieri medievali, un fatto non voluto, non cercato, un evento che accadeva, di fronte al quale ci si trovava davanti, e che si doveva affrontare, indipendentemente dal risultato. Insomma, una vera e propria «prova» come si legge in tanti romanzi cavallereschi, sia della «materia di Bretagna» che di altre. Non quindi storie superficiali per affascinare i bambini, se questo per alcuni può essere considerata una diminutio. La storia d’avventura ha il potere di far-
si può considerare una piccola summa delle tematiche preferite da Manfredi spaziando fra passato, presente e futuro prossimissimo. Intanto c’è Limes, forse la migliore: ambientata nel VII secolo d.C. descrive l’incontro/scontro fra i romani e i barbari, in questo caso i Longobardi. Manfredi riesce a calarsi nella mentalità degli ultimi rappresentati di una romanità già parecchio cristianizzata, e quindi profondamente modificati in certi valori, e quella dei nuovi arrivati che portano - così si capisce - una nuova linfa vitale a forze ormai esangui. In fondo il paterfamilias Eutichio Crescenzio Severo è già diviso tra Simmaco e S. Ambrogio, Rutilio Namaziano e S. Agostino, e deve scendere a compromessi come gli consigliano i suoi generi, uomini di lettere e non di armi. Di fronte ha dei barbari che però già si stanno romanizzando, quasi
senza saperlo. Il risultato sarà inevitabile, come si può capire da quel che sarà il seguito dell’incontro, sul confine, il limes (reale e simbolico) delle due proprietà terriere, fra Serena e Cuniperto. Egli, ormai un «sopravvissuto», potrà essere sicuro del futuro di sua figlia dato che, come vien detto, «i barbari non mentono, solo le persone civilizzate lo fanno»…
In Archanes e Gli dei dell’Impero siamo invece ai nostri giorni con due racconti che corrono entrambi sul filo del giallo archeologico, specialità dell’autore: da un lato sono spariti pezzi pregiati del museo di Bagdad, dall’altro dei tombaroli scoprono vicino Roma nientemeno che un gruppo statuario della Triade capitolina, Giove, Giunone e Minerva, gli dèi protettori dell’Impero romano, «il simbolo del più grande potere mai esistito al mondo». Chi lo ha comprato di frodo? C’è «gente che farebbe carte false per possedere un simbolo di quella forza», fa dire Manfredi a un personaggio, in tal modo facendoci capire che non solo di marmo inerte si tratta. Midget War e Millennium Arena ci spostano in un futuro vicino in cui la tecnologia la fa da padrone, lo spionaggio industriale e gli intrighi internazionali sono lo sfondo, insieme agli istinti primordiali dell’uomo come la vendetta e la violenza. Poiché si tratta di storie con un colpo di scena finale non si può dire di più, se non che Manfredi in questo caso dispiega le sue capacità di creatore di suspense e di inventore di trame ai limiti del possibile, in cui si scontrano idealità diverse e i lati negativi della psiche umana spesso sembrano prevalere, ma alla fine non prevalgono. Anche qui, nella seconda storia, emerge l’amore di Manfredi per la classicità. Uno dei personaggi, direttore di un settore dello spionaggio italiano, è uomo di azione ma anche di lettere: ama il latino, ha vinto il Certamen Ciceronianum e viene coinvolto nell’intrigo proprio mentre sta recandosi a un concorso internazionale di poesia latina. Insomma, usa la mitraglietta e il calamo allo stesso modo!
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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Detenuti al lavoro nelle aree archeologiche romane
LE VERITÀ NASCOSTE
È certamente positivo il progetto di recupero del patrimonio ambientale della città di Roma svolto attraverso l’impiego di detenuti degli istituti penitenziari della Capitale. In questo modo, chi ha commesso un crimine e un reato ripaga concretamente la società del danno procurato, tanto più che la rieducazione dei detenuti passa principalmente attraverso il lavoro. Ma dovrebbero essere tutti i detenuti a lavorare durante la detenzione, non solo poche unità. Bisognerebbe impiegare in tutte le regioni e provincie d’Italia i detenuti in progetti per il recupero del nostro patrimonio ambientale, la pulizia dei greti dei fiumi e dei torrenti e delle molte spiagge del nostro meraviglioso Paese. Non a caso l’attivazione sul territorio nazionale di iniziative inerenti la promozione del lavoro è diventato obiettivo primario che l’amministrazione penitenziaria persegue, al fine del coinvolgimento consapevole e responsabile dei soggetti in espiazione di pena in attività lavorative volte all’integrazione e al reinserimento nella comunità sociale.Tutto questo nella convinzione che il lavoro è uno degli elementi determinanti su cui fondare percorsi di inclusione sociale non aleatori.
Donato Capece
QUELLA DC NATA AL NORD E L’ESIGENZA DI UN FEDERALISMO SOLIDALE Il Sole 24 Ore, con un interessante articolo a firma di Dino Pesole, cerca di rinfrescare le nozioni del ministro Bossi sulla storia della Democrazia cristiana, probabilmente da rivedere (assieme a tante altre questioni). La Dc, contrariamente all’analisi del “senatur”, nasce nel pieno del secondo conflitto mondiale (1942) come un partito decisamente legato al territorio del Nord, in particolare a quel Nord profondo, contadino, cattolico e lavoratore che faceva della triade “casa-chiesa- ottega” il proprio punto di riferimento. Molta parte di quel Nord oggi in camicia verde nasce indubbiamente da questo sostrato sociale. Territori vocati a una tragica emigrazione che, partita alla fine dell’Ottocento, si protrarrà anche durante il regime fascista, nonostante i proclami mussoliniani, trovarono infatti un importante punto di riferimento nel rassicurante pensiero democristiano, nella sua azione moderata, nel valore della sua classe dirigente, che aveva fatto la Resistenza, anche pagando a caro prezzo l’adesione alla democrazia (si pensi a Porzus e alle vicende del “Triangolo della Morte”, con l’uccisione di molti sacerdoti e politici moderati solo colpevoli di aver invocato una pace sociale), e nell’adesione all’Alleanza Atlantica e al Piano Marshall. Riforma agraria, Piano casa,
riforma fiscale, provvedimenti messi in campo negli anni del centrismo segnato dall’impronta della figura di De Gasperi, strizzavano certamente l’occhio a questi stati sociali, gettando le basi di quel “boom”che poi caratterizzerà l’Italia degli anni Sessanta. Certo, la progressiva meridionalizzazione di apparati dirigenti e di governo, esasperata alla fine degli anni Ottanta, ma già iniziata nei tragici “anni di piombo”, porterà ad un certo distacco e alla nascita dei primi fermenti anti-centralisti. Non posso qui non citare, a tal proposito, l’intelligente intuizione di un grande politico della terra veneta quale Antonio “Toni”Bisaglia (1929 - 1984), morto prematuramente all’apice della sua carriera: creare un partito federato, sul modello della Csu bavarese, per stare realmente accanto agli interessi e alle priorità del territorio, di fronte ad un progressivo distacco di una partitocrazia crescente da quella borghesia, che aveva appoggiato la nascita della Dc. Una lezione importante, che esaltava un federalismo solidale, nel solco della tradizione dei comuni italiani (di là viene non a caso il motto “Libertas”), come indicato nel lontano 1919 da Don Sturzo in prima persona, per prevenire quei fermenti che già agitavano le acque del Nord d’Italia, nel generale riflusso ideologico degli anni Ottanta. Un modello che forse, nel progetto di un nuovo sogget-
L’IMMAGINE
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NAIROBI. Un’ora e mezza di combattimento tra un uomo e un pitone lungo oltre quattro metri, per difendersi dal quale, Ben Nyaumbe ha dovuto anche afferrarlo a morsi. È la terribile avventura capitata all’agricoltore keniano nella fattoria che dirige. Ben era solo e si stava preparando la cena. All’improvviso una cosa gli ha avvolto le gambe: erano le spire di un pitone, forse attratto dal profumo del cibo. Ben è riuscito a divincolare le gambe, ma è stato avvolto al braccio sinistro, un stretta potenzialmente mortale, dalla quale si è difeso azzannando alla coda l’enorme serpente, riportando segni e ustioni alla bocca. Ma il pitone con lentezza è riuscito a trascinarlo sul ramo di vicino albero, dove l’incredibile lotta è continuata. Ben - riferisce ancora - era stanco, ma infine ha cercato di tirar fuori dal pantalone il cellulare per lanciare l’allarme. Rapidamente aiutato, è stato salvato, esausto. I soccorritori sono riusciti a bloccare il serpente e a metterlo dentro - legato e impaccato - nel bagagliaio del pick up con quale erano arrivati. Intendevano consegnarlo in un vicino parco naturale. Ma la mattina dopo, quando si accingevano a partire per liberare il pitone... sorpresa?! Era sparito.
to politico legato alla coesione e responsabilità nazionale, avrebbe senso riprendere, per dare, come sottolineato recentemente anche dalla Cei, un senso solidale e non egoistico alla riforma dello Stato in atto, da non ridurre a mero slogan propagandistico di qualche soggetto politico o, peggio, a paravento per parole d’ordine dure e contro l’interesse della nostra “povera Patria”.
Marco Chinaglia
LA DONNA INGANNATA DUE VOLTE
Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
e di cronach
Assalito da un pitone, si difende a morsi
Potenza sommersa Il fotografo Mark Tipple si è immerso per ritrarre l’esatto istante in cui subacquei e surfisti venivano investiti dalle onde, e spesso ha dovuto fare i conti con 5 chili di strumentazione sbattuti sulla sua testa dalla furia del mare. Tanta fatica è stata premiata con istantanee come questa
Il presidente iraniano ha affermato recentemente che la lapidazione di Sakineh era una notizia falsa e tendenziosa, tanto per riaffermare che il mostro islamico creato dall’Occidente è una burla preconfezionata. Mi chiedo se la diplomazia internazionale si rende conto del livello di vessazione, burla e violenza morale e fisica, ai quali le donne sono costrette in quelle zone. Le condannate alla lapidazione spesso non sono ree di aver compiuto atti sessuali o sentimentali, ma solo per averlo fatto con una persona di differente culto o etnia. Molte accettano la loro condizione solo per quieto vivere o sottomissione, ma la conservazione di una certa razza sta alla base storica di implementazione del potere di un popolo su di un altro, cosa che si è potuta perpetrare anche a danno della personalità femminile, culturalmente e fisicamente.
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FIOCCO AZZURRO Siamo nuovamente diventati tutti zie e zii: è nato Davide Vincenzo Diacono. Augurissimi e complimenti alla mamma Nina e al papà Giuseppe.
La redazione di liberal
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pagina 24 • 25 settembre 2010
Brasile. Il 3 ottobre il Paese elegge il nuovo presidente: In testa ai sondaggi c’è Dilma Rousseff e potrebbe farcela
La guerrigliera di Lula Dalla lotta armata alla presidenza del Brasile ecco la nuova Evita Peron di Rio de Janeiro di Maurizio Stefanini a giovane faceva la guerrigliera. Poi è diventata una dura tecnocrate, con l’aspetto di massaia in carriera e il soprannome di “Dama di Ferro”, a mo’ di Margaret Thatcher. In campagna elettorale si è trasformata nella “nuova Evita Perón”: non per la demagogia che in effetti le è abbastanza aliena, ma per il modo in cui si è rivoluzionata il look. E ormai in dirittura d’arrivo per la Presidenza si è messa a fare anche la candidata pro-vita, sia pure con prudenti distinguo. Nata a Belo Horizonte il 14 dicembre del 1947 da un padre cospiratore comunista bulgaro, che costretto all’esilio in Brasile si era trasformato in un imprenditore di successo, decisivo braccio destro di Lula e poi sua delfina designata, quasi certamente Dilma Vana Rousseff sarà la prossima presidentessa del Brasile. Il dubbio principale, ormai, è se ce la farà al primo turno del 3 ottobre, o se ci sarà un ballottaggio il 31 ottobre. Dilma, come la chiamano tutti per brevità, durante il regime militare degli anni Sessanta militò nel trotzkysta-luxembourghista gruppo di Política Operária e poi nel Comando de Libertação Nacional da esso derivato, partecipando a un’azione famosa come il furto della cassaforte dell’ex-governatore di San Paolo Ademar de Barros. Avvenuto a Rio de Janeiro il 18 giugno del 1969, fruttò un bottino di 2,6 milioni di dollari dell’epoca, pari a 16 milioni di dollari attuali. Per questo tra 1970 e 1973 fu detenuta e anche torturata: ragione per cui nel 2006 la Commissione Speciale per le Riparazioni della Segreteria per i Diritti Umani dello Stato di Rio de Janeiro le accordò un indennizzo.
D
Era anche un militante quel Carlos Araujo che sposò alla fine della decade, per poi divorziarvi. In compenso, già col ritorno della democrazia si era risistemata su un versante decisamente riformista: prima nel Partito Laburista Brasiliano (Ptb) di Ivete Vargas, nipote del “Perón brasiliano” Getúlio Vargas; poi, dopo la scissione da quel partito, nel nuovo Partito
Democratico Laburista (Pdt) di Leonel Brizola, riconosciuto dall’Internazionale Socialista. Segretaria alle Miniere e Energia del Rio Grande do Sul quando tra 1991 e 1995 ne fu governatore l’esponente del Pdt Alceu Collares, tornò all’incarico nel 1998, ma stavolta con l’esponente del Pt Olívio Dutra. Fu quando l’anno dopo il Pdt decide di abbandonare la
Classe 1947, economista, durante la dittatura militare rubò una cassaforte con 2,6 milioni di dollari. Passò 3 anni in prigione coalizione che Dilma cambiò partito, per mantenere il posto. E il primo gennaio del 2003, con l’insediamento di Lula alla presidenza, fu promossa al dicastero corrispondente al livello nazionale.
È stata Dilma, dunque, l’artefice prima di quella politica della diversificazione energetica a tutto campo che tra ritorno massiccio al biocarburante con relativo asse Lula-Bush, scoperte di immensi giacimenti di greggio off-shore nell’Atlantico del Sud, sviluppo del nucleare e realizzazioni di immense dighe in Amazzonia l’ha fatta diventare una bestia nera degli ecologisti, ma ha posto infine rimedio allo storico tallone d’Achille del Paese. Alla Casa Civile, che in Brasile è una via di mezzo tra il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio italiano e il Primo Ministro francese, andò José Dirceu, anch’esso un riformista con un passato da ex-guerrigliero perfino più avventuroso di Dilma: fuggito a Cuba, per poter tornare a combattere il regime militare lì si era fatto cambiare i connotati con un intervento di chirurgia plastica, per poi sposarsi con una donna cui aveva
rivelato la propria vera identità solo dopo la transizione alla democrazia. Scampato prima agli sbirri e poi alla comprensibile ira della moglie, è inciampato infine in una brutta storia di compravendita di voti, per la quale lo hanno condannato a dieci anni di ineleggibilità a tutte le cariche pubbliche che scadrà nel 2015.
E fu così che il 21 giugno 2005 Dilma fu promossa, apposta per rilanciare l’immagine dell’Amministrazione Lula in vista delle presidenziali del 2006. Ottenuta la rielezione del presidente, già dall’anno successivo Dilma aveva detto di voler correre per la testa del Paese nel 2010. La costituzione brasiliana vieta infatti un terzo mandato consecutivo, e Lula ha preferito non dar retta a chi gli consigliava di fare una riforma costituzionale alla Chávez. Per la verità, quando si fece il primo sondaggio nel marzo del 2008, Dilma stava appena al 3%, contro il 38% del candidato del centro-destra (anche se a sua volta leader studentesco esule ai tempi del regime militare): l’ex-ministro della Pianificazione e della Sanità e exgovernatore di San Paolo José Serra. A sua sfavore giocavano il non essere stata ancora desi-
gnata in modo ufficiale, il non aver mai avuto incarichi elettivi, e anche una certa legnosità dell’immagine. In seguito, tra l’aprile e il dicembre del 2009 ha avuto anche il problema di un cancro al sistema linfatico, che peraltro dice di aver superato brillantemente.
È stato solo a marzo che Dilma ha iniziato ad avvicinarsi a Serra; a maggio lo ha raggiunto; da giugno ha iniziato a prendere il largo; e adesso oscilla tra il 49 e il 55, contro il 22-28% dell’avversario. Un po’ è stato lo stesso Serra a rovinarsi da solo: facendo una campagna elettorale moscia, come se fosse stato già eletto e dovesse ragionare da statista che sottolineava la sua continuità con il successore; e scegliendosi un vice particolarmente portato alla gaffe. Un po’ è stato Lula a usare pesantemente la sua influenza per aiutarla, anche infischiandosene delle multe e delle denunce che gli sono piovute addosso per violazione delle leggi elettorali: le multe le ha pagate, e le denunce ha messo in conto che arriveranno in tribunale a risultato già acquisito. Ma, soprattutto, è
stata Dilma a impegnarsi in una faticosissima ma efficace ridefinizione della propria immagine. Ha iniziato a gennaio un chirurgo plastico a rifarle palpebre e faccia, per farle apparire 10 anni di meno. Poi è andata da un famoso parrucchiere di modelle e dive, che l’hanno pettinata verso l’alto e le hanno cambiato la tinta dei capelli in rosso. In seguito la stessa moglie di Lula le ha prestato la sua estetista. E poiché era stato lo stesso Presidente a spiegarle che dopo aver perso tre elezioni era stato infine eletto quando aveva deciso di tagliarsi la barba, calare di peso e mettersi la cravatta, alla fine le ha prestato anche un consulente politico che le ha fatto sostituire gli occhiali con lenti a contatto e i vestiti monocromatici con tailleur multicolori. Ne è mancato un vero e proprio corso di dizione e comunicazione con una famosa giornalista. A quel punto Serra ha lasciato perdere l’aplomb ed ha iniziato ad attaccare quella corruzione diffusa che resta il grande problema dell’amministrazione Lula: anche se non è che l’opposizione ne sia immune. Con ira di Lula - che ha infatti pesantemente inveito contro i giornalisti - lo ha aiutato la stampa, che su uno scandalo ha ora costretto alle dimissioni Erenice Alves Guerra: l’avvocatessa che aveva preso il suo
mondo
25 settembre 2010 • pagina 25
Fa ancora storia il motivetto “Lula-la” composto da Gol Costa per il presidente
Con l’appoggio di Chico Barque il successo è garantito Una legge proibisce ai candidati di “regalare” concerti elettorali, ma non ha fatto i conti con i jingle: trasmessi ovunque di Pietro Gallina
BUENOS AIRES. Dal Paese del Carnevale non è esa-
Sopra, posto alla Casa Civile, quando Dilma Roussef, a aprile Dilma aveva dato le dila candidata missioni per candidarsi. Effetappoggiata tivamente lei ha perso un paio di punti e Serra è risalito, ma dal presidente Lula ormai sembra troppo tardi. A (in basso nella foto) per le elezioni ogni modo, in una tribuna tra candidati a una tv cattolica, che si terranno il 3 Dilma ha provato a sfondare ottobre; a sinistra, in nuovi settori dell’elettorato una immagine tratta dal suo portfolio col dirsi «personalmente contraria all’aborto», anche se poi elettorale. A destra: ha aggiunto che avrebbe af- Gilberto Gil e Chico Barque, due frontato il problema in termini di “sanità pubblica”. Secondo “monumenti” della musica brasiliana le rilevazioni, nel più popoloso Paese cattolico del mondo sarebbe anti-abortista il 73,5% dei cittadini.
gerato affermare che la musica contagiante e dittatrice influirà sensibilmente sulle prossime elezioni brasiliane del 3 ottobre. Come è accaduto in passato essa sarà in buona percentuale responsabile per la votazione di parlamentari, governatori e presidente nei quattro anni a venire. Ma perché la musica è così importante in Brasile al punto da avere leggi severissime sul suo uso in campagna elettorale? Si premette che in questo Paese i canditati ne inventano di tutti i colori pur di ottenere voti. Inutile dire che sono nella maggioranza dei casi sistemi vietati dalla legge, come per esempio quelli: di inviti o tessere gratuiti come compra/vendita del voto per ballare in feste, discoteche o serestas; dell’offrire agli elettori regalie in cibi e alcolici; pacchi dono; medicine; giocattoli; mattoni, cemento o vernice per riparare case fatiscenti nei suburbi poveri; promesse di posti di lavoro scritte e timbrate; licenze per vendite ambulanti; megafeste con ninfette e satiri che ballano il pagode; barconi del piacere con cantanti di arrocha che passano una nottata in mare per ballare corpo a corpo e ancora tante altre fantasiose maniere fino ad arrivare a una ultima notizia dallo Stato del Paraiba: compra/vendita di voti nella città di Solânea attraverso la distribuzione, con moto-taxi, di crack, la droga che sta devastando il Brasile. Si potrebbe cercare di comprendere perché nei Paesi nord occidentali tali pratiche hanno minor seguito, ma si devono considerare alcuni fattori assenti in Europa. L’enorme numero di giovani in confronto agli anziani, unito a una capacità critica scarsa di recepire discorsi di propaganda elettorale televisiva o sulla stampa. Infatti è elevata la quantità di analfabeti o semianalfabeti, oltre alla comprensibile sfiducia popolare verso i politici.
proprio musicista preferito. La legge elettorale recita nell’articolo 7: «È proibita la realizzazione di concerti/comizio e di eventi simili per la promozione di candidati, come pure rappresentazioni remunerate o no, di artisti con il fine di animare una riunione o comizio elettorale». Articolo 9: «Fino alle 22 del giorno antecedente alle elezioni, sarà consentita [...] la sfilata di automobili e carri muniti di altoparlanti e hi fi per la divulgazione dei jingle musicali e messaggi dei canditati». Articolo 10: «È severamente vietato l’uso di Trios Eletricos in campagna elettorale». Non è difficile immaginare un Paese dalla facciata allegra come il Brasile, invaso nelle piazze e sulle spiagge da gente che danza e da tanti cortei di auto che invadono le città con altoparlanti a tutto volume e che sparano, di ogni singolo candidato dei circa venti partiti, la sua musichetta di propaganda, il suo jingle. Quasi sempre un motivetto con ritmi o di samba o di pagode o axé, sul quale si incollano un paio di versi più o meno del tipo: «Carlito è il nostro deputato preferito, quello che darà lavoro, casa e scuola pure a te e quindi votalo al numero 333». Sono motivi ossessivi, fatti per appiccicarsi alle orecchie come un chewing gum! La Becker del Direto di Porto Alegre afferma «che un buon jingle può mutare le sorti di una campagna». La legge ha proibito i comizi/show, ma non ha potuto evitare che i jingle siano cantati o composti da famosi artisti e passati anche alle radio e in tv. Anche Lula aveva avuto dalla sua parte Gal Costa che per lui incise e cantò in tv il famoso jingle Lula-lá. E adesso per tutti gli elettori musico-dipendenti è febbre alla ricerca di chi fa i jingles col cantante migliore, ed è quasi una moda per i giovani collezionarli. I siti dei cantanti sono assediati e altri ne vengono creati per aggiornare e sistemare le nuove posizioni: quale tra quattro candidati sarà quello che il mio musicista preferito voterà? Ovvero voglio votare musica e musicisti in cui credo e non i politici. Attualmente gli schieramenti paiono essere i seguenti: Dilma Roussef ha il voto di Chico Buarque; Wagner Tiso del sambista Marquinhos de Oswaldo Cruz, di Alcione e probabilmente anche di Gal Costa e Daniela Mercury. José Serra non ha cantanti di spicco nella sua rosa, probabilmente Sergio Reis, ma ha appoggi dal mondo dell’arte tra i quali quelli di Carlo Vereza e Ferreira Gullar. Il candidato Plínio de Arruda (Psol) ha avuto l’appoggio di Leandro Konder, Chico de Oliveira e Aziz Ab’Saber. La vera rivelazione di questa campagna è invece Marina Silva che sta ottenendo la maggioranza dei vip della musica brasiliana con molti baiani: Caetano Veloso, Maria Bethania, Gilberto Gil, Adriana Calcanhoto, probabilmente Carlinhos Brown e Nando Reis.
Secondo il distretto di Porto Alegre «un buon jingle può mutare le sorti di una campagna». E siccome non è vietato, è caccia all’autore più bravo
Determinante è anche il clima caldo che nei tre quarti della nazione va dal tropicale all’equatoriale e che spinge a vivere più nelle strade che in casa. Ecco dunque la festa che esplode con musiche ritmate e danze all’aperto: nei cortei che sfilano per i viali seguiti da migliaia di fan, in ogni bar e ristorante, in ogni automobile che sfreccia nelle vie con altoparlanti assordanti. Ognuno sta con le sue musiche da esibire come vestiti per corpi frenetici in movimento: questa è la normalità urbana. Si pensi se fosse al servizio della campagna elettorale! Un inferno! Infatti i comizi/concerto con invito di cantanti più o meno famosi, o sponsorizzazioni di opere musicali nelle sale da concerto, sono proibiti proprio perché per la musica e i propri beniamini accorrerebbero folle immense che sarebbero facilmente convinte a votare il politico appoggiato dal
quadrante
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Artico. Mosca vuole battere la competizione di Canada, Danimarca, Norvegia e Usa n questi giorni di alta tensione che si sono vissuti all’Onu, una superpotenza come la Russia è passata inosservata. La sua linea di basso profilo nel proscenio dell’Assemblea Generale è stata interrotta unicamente dalle dichiarazioni del suo Primo ministro,Vladimir Putin, rilasciate l’altro giorno in merito all’Artide. «Crediamo che sia un imperativo morale quello di mantenere la regione artica estranea alle diatribe diplomatiche mondiali e farne una zona di pace e di cooperazione», ha detto Putin durante il primo “Forum sull’Artico” che si è tenuto in questi giorni a Mosca. L’occasione per esprimere queste parole era ben lontana dal Palazzo di vetro, dove gli obiettivi dei fotografi e le luci della ribalta si sono concentrati su Ahmadinejad, Obama e Sarkozy. Ognuno di loro ha guadagnato, nel bene o nel male, la propria dose di visibilità. Tuttavia il leader russo, dal margine di un convegno puramente nazionale, ha espresso una concretezza e lungimiranza maggiori rispetto quelle che i “Vip” di New York avrebbero desiderato esporre.
I
La conquista dei Poli resta una meta ambita, le cui origini si nascondono nella storia del colonialismo ottocentesco. Le spedizioni intraprese dalla Norvegia, dalla Russia zarista, dall’Impero britannico e, in minima parte, anche dall’Italia, sono entrate nella mitologia dell’epoca moderna. L’ultimo dei grandi esploratori è stato lo scienziato Artur Chilingarov che, solo nel 2007, ha raggiunto in sottomarino il Polo per deporre sott’acqua una bandiera russa e delineare i confini che interessano al suo Paese. Le ricerche in Artide e Antartide sono motivate dalla necessità di localizzare e sfrut-
Guerra Fredda per il Polo Nord Putin cerca nuove risorse e prepara una fase di “neocolonialismo” nella regione di Antonio Picasso
avuto successo, dimostrando che, effettivamente, i due poli non si limitano a essere un’immensa riserva idrica. Da qui consegue il fatto che la corsa al Polo rappresenti la nuova frontiera degli interessi geopolitici delle nazioni logisticamente più vicine. Nel caso dell’Artico, la competizione vede in pole position Canada, Danimarca, Norvegia, Stati Uniti e ovvia-
Gli scienziati hanno dimostrato come Artide e Antartide siano piene di gas, idrocarburi di ogni tipo, ma anche di ferro e diamanti tare le risorse minerarie ed energetiche che, si ritiene, siano nascoste in queste terre non abitate. Gas, petrolio, idrocarburi di ogni tipo, ma anche diamanti e ferro. Il Polo Nord e il Polo Sud sono sempre stati considerati una sorta di Eldorado. Supposizioni, queste, dovute in parte all’immaginario collettivo. Un mondo sconosciuto resta fonte di immaginazione anche per l’uomo del Terzo millennio. D’altro canto, molte delle ipotesi formulate poggiano su ricerche che hanno
mente Russia. Mosca ha da sempre cercato di porsi su un gradino più elevato rispetto alle altre nazioni.
Tuttavia, non si può dimenticare che i governi canadese e danese – che mantiene la giurisdizione della Groenlandia – possono vantare gli stessi attributi. I governi di questi singoli Paesi hanno ingaggiato una “corsa all’oro” dopo che un team di ricercatori Usa ha annunciato la drastica previsione per cui, entro il 2030, il riscalda-
Greenpeace contro le navi rompighiaccio
Nazioni e ambientalisti Negli anni Venti, fu Umberto Nobile, generale dell’Aeronautica italiana, a far sognare anche l’Italia affinché vedesse sventolare il Tricolore al Polo Nord. Tuttavia, la spedizione del 1928 – fortemente voluta da Mussolini – si rivelò fallimentare. I nostri esploratori vennero salvati da una nave soccorso sovietica. Al di là delle imprese nostrane, del Polo si continua a parlare come della prossima frontiera energetica. Il forum organizzato a Mosca questa settimana prevedeva di far luce sulle risorse che sarebbero estraibili una volta ritiratisi i ghiacci. La competizione tra le nazioni è cominciata tempo fa, lo scopo è impossessarsi dei tesori nascosti sotto al ghiaccio: gas, petrolio e altre ricchezze minerali. Si stima infatti che almeno un quarto del petrolio e
del gas del pianeta siano presenti sotto il Mar Glaciale Artico. Gli appetiti industriali, tuttavia, hanno stimolato anche la reazione del mondo ambientalista. Dall’inizio di settembre, infatti, non si contato i blitz di Greenpeace per bloccare le ricerche condotte dalle navi rompighiaccio, dotate di sonde petrolifere. Lo scopo degli attivisti è quello di chiedere ai singoli Ministri dell’Ambiente dei Paesi che si affacciano sul Mare del Nord e che si incontreranno nei prossimi giorni a Bergen (Norvegia), per un summit nell’ambito della convenzione Ospar (Convenzione di Oslo e Paris per la salvaguardia del Nord-Est Atlantico) di adottare una moratoria affinché vengano bloccate le perforazioni off-shore in acque profonde. (a.p.)
mento globale potrebbe lasciare il circolo polare libero dai ghiacci. In quel caso, si ritiene che un quarto delle ricchezze energetiche del pianeta non ancora sfruttate e sepolte sul fondo del mare artico possano essere di accesso all’uomo.
Tornando alla dichiarazione di Putin e quindi sulla notizia in quanto tale, è interessante capire il motivo di questa posizione di Mosca. Perché il Cremlino ha deciso di parlare dell’Artico ora? E perché, inoltre, in modo così conciliatorio? «Abbiamo sentito predizioni futuristiche che minacciano una battaglia per l’Artico», ha detto ancora l’ex presidente russo. «Ma stiamo monitorando con attenzione la situazione e crediamo che la maggior parte degli inquietanti scenari presentati non abbiano basi reali». Possiamo pensare che il leader russo abbia assunto un tono conciliatorio in quanto la Russia, determinata da un punto di vista politico a conquistare l’Artico, tema di non disporre degli strumentazione tecnologica adeguata per riuscire nell’impresa. Non è da Putin usare termini quali “pace e cooperazione”, se non perché dietro questi ci sia un fine ben preciso nelle menti del Cremlino. Mosca sta da tempo pensando di installare vicino a diverse città della Russia del Nord e nella repubblica siberiana dellaYakutiya alcune centrali nucleari galleggianti, che dovrebbero fornire energia alle prossime colonie petrolifere durante l’estrazione di petrolio e di gas. Nei cantieri siderurgici vicini a San Pietroburgo, si è già al lavoro per la realizzazione di questo progetto così avveniristico. Nelle previsioni del governo di Mosca, vi sono in agenda otto reattori nucleari da posizionare nel Mar Artico, che dovrebbero essere pronte nel 2012. Nei piani degli scienziati russi queste stazioni energetiche saranno un ibrido tra una piattaforma galleggiante e una nave rompighiaccio, serviranno per la fornitura energetica delle future città minerarie sul mare e avranno una capacità di resistenza di circa 12 anni. «Gli interessi economici e geopolitici sull’Artico sono molto forti, ma non ho dubbi che tutti i problemi nella regione, inclusi quelli della piattaforma continentale, possono essere risolti in un’atmosfera di partnership», ha detto sempre Putin. A quanto pare Mosca è pronta per un nuovo colonialismo. Bisogna capire se ne abbia anche le risorse economiche.
quadrante
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Lo staff di Sarkozy insiste e la premiere dame rinvia il suo cd
Al potere da18 anni è stato silurato da Medvedev
Carla Bruni se la canta e l’Eliseo entra in crisi
Lo zar di Mosca Iuri Luzhkov pronto a dimettersi
PARIGI. «La France souffre et
MOSCA. Sarebbe sempre più
madame chante» (la Francia soffre e madame canta): così la riassume Paris Match. In un momento di crisi politica ed economica come quello attuale, non si addice a una first lady pubblicare un cd e andarsene a cantare in giro, come se niente fosse. È questa la convinzione dei consiglieri dell’Eliseo, che avrebbero suggerito a Carla Bruni di rinviare l’uscita della sua ultima fatica discografica per non fare la figura di Maria Antonietta con gli affamati e le brioche. L’indiscrezione è uscita sul settimanale d’Oltralpe, che ha seguito il presidente francese Nicolas Sarkozy e la premiere dame lo scorso fine settimana a New York, in una pausa romantica alla vigilia dell’Assemblea generale dell’Onu.
vicino il siluramento del potente sindaco di Mosca Iuri Luzhkov, in rotta con il presidente russo Dmitri Medvedev e al momento in Austria per trascorrere il suo compleanno con la ricca moglie Elena Baturina. Il tribunale di Mosca ha dato giovedì sera ragione a un partito di opposizione, il Fronte di sinistra, che aveva protestato per il divieto del comune di Mosca di autorizzare una azione di protesta, intitolata “Giornata della collera”, programmata per il 20 marzo scorso. Luzhkov aveva mandato sul posto la polizia, che aveva utilizzato i manganelli e fermato oltre 70 manifestanti. Ora il Fronte di Sinistra potrà quere-
Da mesi Carlà lavora al suo quarto album da cantautrice, e viene descritta come una «perfezionista, che può passare ore o giorni sulla definizione di un arpeggio e di una melodia». A metà luglio, con 24 nuove canzoni, si sentiva pronta per l’uscita del nuovo album. Che toccherà (parole sue) anche temi politici, come un brano-parodia della vita presidenziale e un altro ispirato al dibattito sull’identità nazionale. Quando non mancava ormai
La quindicesima volta di Hugo Chavez Il Venezuela domenica al voto per le politiche di Mauro Frasca la quindicesima volta che tra presidenziali, politiche, amministrative e referendum Hugo Chávez si misura con i suoi oppositori, da quando nel 1998 fu eletto presidente del Venezuela. Le prime dodici vinse sempre: l’undicesima, le politiche del 2005, addirittura per abbandono degli anti-chavisti, che boicottarono per protesta contro gli asseriti brogli al referendum revocatorio dell’anno prima. La tredicesima volta, al referendum sulla riforma costituzionale del 2007, invece perse, di misura e a sorpresa. Alle amministrative del 2008 pareggiò: 18 governatori su 23, ma con i cinque dell’opposizione nelle zone più popolose e importanti del Paese. Ma al nuovo referendum di riforma costituzionale del 2009 tornò a vincere, e ottenne così il diritto a ricandidarsi nel 2012. L’Assemblea Nazionale nel Venezuela bolivariano non conta in realtà molto, e in più l’anno scorso la legge elettorale proporzionale è stata rimpiazzata da un simil-Mattarellum, in cui 110 deputati su 167 vengono designati in collegi uninominali studiati apposta per sovrarappresentare quelle aree del Paese in cui Chávez è più forte (e altri tre sono scelti dagli indigeni con procedure proprie). Insomma, da una parte si sapeva già che l’opposizione, cinquanta partiti raccolti nella Tavola dell’Unità Democratica, sarebbe andata per forza meglio che la volta scorsa, quando per il boicottaggio tutti i deputati andarono ai partiti chavisti. Dall’altra, era anche previsto che difficilmente il Partito Socialista Unito del Venezuela in cui Chávez ha fatto concentrare i suoi sostenitori avrebbe perso una comoda maggioranza dei seggi.
È
tuazione dell’ordine pubblico: che come ha scritto lo stesso New York Times il Venezuela abbia un record mondiale di 54 omicidi ogni 100mila abitanti, contro i 32 della Colombia, i 19-20 del Brasile, i 17 dell’Iraq, i 10-12 del Messico e i 9 della media mondiale, deriva da cifre contestate e che Chávez ha infatti respinto con sdegno; ma senza però fornirne di alternative. Che però il Paese sia sempre più pericoloso è sensazione comune, e infatti anche il governo sta ora affannosamente tentando di mostrare che prende il problema sul serio.
Ma forse ancora più umiliante è il meno 2-3% del Pil e il 30% di inflazione, proprio mentre il resto dell’America Latina cresce invece a ritmi del 5% l’anno. E le misure di razionamento con cui Chávez sta cercando di ovviare rischiano solo di complicare ulteriormente: non solo perché deprimono ulteriormente l’iniziativa privata, ma anche perché diffondono tra la gente l’incubo di una carta annonaria alla cubana. Paradossalmente, proprio nel momento in cui Raúl Castro la sta invece smantellando. Sull’onda di questo malcontento, ad agosto alcuni sondaggi hanno dato l’opposizione in testa: anche se in contraddizione con rilievi di tipo opposto, e in Venezuela pesa molto chi è il committente. Chávez si è però preoccupato, e non solo è sceso in campo direttamente nella campagna, ma ha anche deciso di sostenere i propri candidati con misure di tipo sociale o clientelare, la definizione dipende dai punti di vista. Il fatto che un programma per facilitare l’acquisto di elettrodomestici e uno di vacanze popolari abbiano preso il posto delle “Misiones” educative e sanitarie dimostra comunque come in questo momento il cuore dei venezuelani batta per il consumo, più che per le “realizzazioni” di stampo cubano. Insomma, sembra che il partito chavista possa aver ripreso il sopravvento, e una proiezione gli assegnerebbe 124 seggi. Ma il contesto è tale che, come nel 2008, forse anche in questo caso si finirà per parlare di un pareggio.
La popolarità del presidente quest’estate era calata ai minimi: “solo” il 31%. Ma adesso sta recuperando terreno
che l’ok dei discografici, l’equipe presidenziale si è fatta avanti per suggerire alla moglie del Presidente una maggiore discrezione. Lei ha ceduto alle pressioni dell’Eliseo, pur senza nascondere una certa insoddisfazione. C’è infatti il rischio che, con la campagna per le prossime presidenziali alle porte, Carla debba rinviare sine die la sua carriera musicale. Secca la smentita della portavoce di madame Sarkozy, che assicura che l’artista sta ancora componendo e quindi non ha mai fissato nessuna data per le registrazioni. Fatto sta che il paragone fra Maria Antonietta e la premiere dame è girato parecchio sui siti francesi.
L’elemento di dubbio e di interesse, però, era che la popolarità di Chávez quest’estate era calata al 31%: il minimo da quel 2002 in cui in effetti l’opposizione tentò la doppia spallata extraistituzionale della sommossa di piazza e dello sciopero generale, incassandovi peraltro due sonore batoste. Un motivo è la pessima si-
lare il comune per ottenere un risarcimento dei danni morali e materiali. Sempre il tribunale della capitale ieri ha contestato il divieto imposto dal sindaco di far svolgere una sfilata di omosessuali, che era in programma il 28 maggio. Stando al quotidiano Kommersant, Luzhkov è ormai alle corde: dovrebbe rientrare domenica a Mosca, ma solo per presentare lunedì le dimissioni ed evitare una serie di pesanti accuse.
Sotto inchiesta potrebbero finire il patrimonio edilizio della moglie Elena (la donna più ricca di Russia e la quarta a livello mondiale) e i tanti onerosi appalti organizzati dal sindaco, spesso proprio per lei. Fonti autorevoli citate da Kommersant affermano che il siluramento è imminente. All’orizzonte la separazione tra l’incarico di sindaco e quella di capo del governo cittadino, attualmente entrambi ricoperti da Luzhkov. La prima andrebbe a un rappresentante delle strutture federali, forse al vicepremier Serghei Sobianin; la seconda a un capace ed esperto amministratore, forse l’ex primo vice dell’attuale sindaco moscovita,Valerii Shantsev, al momento governatore della regione centrale di Nizhni Novgorod.
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l’approfondimento
Cesare Geronzi promette che non ci sarà alcuna fusione tra Generali e Mediobanca e si scaglia contro le Fondazioni
Una poltrona per troppi
Bankitalia impone tempi brevi per la nomina in Unicredit. I soci italiani e quelli tedeschi sono divisi sul nome. Financial Times candida Arpe ma a Roma si parla molto di Roberto Nicastro per garantire la continuità di Francesco Pacifico
ROMA. Nel rompicapo Unicredit si profila anche l’incidente diplomatico. Aglidi Khetrish, portavoce dell’ambasciata libica in Italia, fa sapere attraverso una nota diffusa dall’agenzia Lydia Press (vicina a Seifulislam Gheddafi) che la Jamahiriyya «non è responsabile dell’uscita di Alessandro Profumo da Unicredit». Per poi sottolineare che il Paese «ha investito in numerosi settori in Italia e non c’entra con la faccenda, che è solo un affare politico».
Ai libici, che ne controllano oltre il 7 per cento, interessa soltanto la stabilità dell’istituto. Che deve crescere in linea con i progetti di Profumo. Della stessa idea Bankitalia. Pur non amando il cesarismo del banchiere cresciuto in Mc Kinsey, via Nazionale ha imposto che l’interim del presidente Dieter Rampl sia breve. Serve un capoazienda– è stato messo nero su bianco – in grado di garantire la continuità. Ed è proprio questo paletto a rendere molto difficile la scelta del successore di Alessandro Profumo, che diffi-
cilmente sarà annunciato al Cda previsto per il 30 settembre a Varsavia. In questo caos il Financial Times ha lanciato la candidatura di Matteo Arpe. Il commentatore Paul Betts ha parlato di «un nome ovvio». In realtà il numero uno di Sator non sarebbe in lizza per la carica. Quanto meno questa ipotesi sarebbe meno credibile di altre voci in circolazione, quali il tentativo di Giulio Tremonti di piazzare su quella poltrona il direttore generale del Tesoro,Vittorio Grilli, o di un ritorno di Profumo in piazza Cordusio, su input di Draghi, ma come presidente. Così i dietrologi hanno innanzitutto letto nel pezzo dell’autorevole columnist una stoccata a Cesare Geronzi, il presidente di Generali che con Arpe litigò ai tempi di Capitalia, a tal punto da licenziarlo quando il manager bloccò il matrimonio con Intesa. Soprattutto, nell’articolo di Betts si comprendono i desiderata della city londinese e dei fondi azionisti di Unicredit, che guardano a un amministratore più interessato a parlare con gli investitori che con i partiti. Uno come Arpe po-
trebbe fare da argine contro «azionisti importanti che hanno una visione della banca che non va al di là del loro naso» e «politici di un’arroganza esponenzialmente maggiore di quella di cui è stato accusato Profumo».
Di diversa idea sono gli azionisti italiani, che guardano invece a un manager che sappia comprendere le necessità degli investitori istituzionali. I quali spesso mostrano un’indole conservativa rispetto a strutture dinamiche come le banche. Un profilo come il banchiere targato Bo-
È difficile che si arrivi a una decisione per il cda del 30 settembre
fa-Merryl Linch Andrea Orcel, già visto a colloquio giovedì a Milano con Paolo Biasi e Fabrizio Palenzona, e che in passato ha seguito per il mondo delle fondazioni tutte le tappe dell’espansione in Europa di Profumo. I soci tedeschi, che per statuto non possono rivendicare l’Ad, invece vorrebbero un manager italiano che abbia lavorato nel mercato tedesco e che sappia confrontarsi con le esigenze di una piazza esigente come quella di Monaco. Ma i nomi fatti finora (Mario Greco o Enrico Tommaso Cucchiani) sono stati con-
gelati per non creare nuove tensioni con le fondazioni azioniste e con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. In questo scenario rischiano di dover ridimensionare le loro ambizioni (e non soltanto in Unicredit) i due artefici del defenestramento dell’ex amministratore delegato: il reggente Dieter Rampl e il vicepresidente Fabrizio Palenzona.
Di aver fatto un’operazione al buio, se ne sono resi conto soprattutto durante il Cda di martedì scorso (quello del licenziamento di Profumo) quando avrebbero ricevuto telefonate molto esplicite dal Tesoro (titolare della vigilanza sulle fondazioni azioniste) e Bankitalia. E siccome i tedeschi e gli enti un anno fa si erano resi protagonisti di uno scontro profondo, con Paolo Biasi (Cariverona) interessato alla presidenza di Rampl, c’è il timore che possa riaprirsi una ferita, chiusa soltanto per la necessità di ricapitalizzare la banca. Serve trovare un manager che garantisca una certa continuità con i progetti di Profumo, impari in fretta a muoversi in un colosso
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Necessità internazionali e ambizioni territoriali: una strettoia dalla quale è difficile passare
Piazza Cordusio e Pomigliano, due malati di globalizzazione
Il conflitto continuo tra mercato mondiale e esigenze locali è al centro della crisi di gestione che ha colto due diversi “giganti” dell’impresa di Francesco D’Onofrio a complessa vicenda delle dimissioni di Alessandro Profumo dall’incarico di amministratore delegato di Unicredit è stata esaminata da molti punti di vista. Vi è stata, e vi è, innanzitutto, la questione del difficile rapporto tra i diversi azionisti e il management complessivo di Unicredit. Vi è stata, e vi è, l’affaire della progressivamente più forte presenza libica nella gestione finanziaria di Unicredit. Vi è stata, e vi è, la questione dei profitti decrescenti di Unicredit. Vi è stata, e vi è, la questione del rapporto tra Unicredit e le grandi banche statunitensi ed europee operanti nel medesimo settore. Ma vi è stata, e vi è, una questione che assimila in qualche modo la vicenda di Unicredit a quella alla quale abbiamo assistito qualche settimana fa in riferimento alla Fiat: il tormentato rapporto tra globale e locale.
L
Sia la Fiat, infatti, sia Unicredit stanno vivendo la difficile stagione della loro specifica politica – automobilistica l’una, finanziaria l’altra – in un contesto che per un verso tira l’una e l’altra verso le nuove dimensioni del mercato globale, e per altro verso le costringe a tenere in considerazione anche e soprattutto la dimensione locale. La dimensione globale, infatti, tende sempre più a costruire una propria dimensione fortemente legata allo specifico prodotto, di volta in volta considerato trainante: l’auto nell’un caso; l’investimento finanziario nell’altro. Questa spinta alla globalizzazione tende dunque a fare del singolo prodotto di volta in volta considerato l’elemento determinante della specifica politica industriale di chi registra le novità della competizione in chiave globale. Non si tratta soltanto del costo del lavoro o del singolo investimento finanziario, sebbene entrambi questi aspetti siano molto rilevanti l’uno per l’auto, e l’altro per gli investimenti finanziari. Si tratta – come abbiamo potuto constatare in riferimento a Termini Imprese prima, a Pomigliano dopo e al Lingotto infine – di un insieme di questioni che attengono certamente al costo di produzione della singola vettura, ma che coinvolgono anche visioni generali di nuove relazioni industriali, confronti sul costo del lavoro per unità di prodotto in parti diverse del globo, prospettive di espansione del mercato dell’auto in questa o quella parte del mondo. In breve, le vicende degli ultimi tempi della Fiat hanno dimostrato la grande differenza tra il rapporto che l’Italia in quanto tale aveva vissuto un tempo in riferimento alla Fiat medesima, e il rapporto nuovo che stenta ad instaurarsi da quando la Fiat è entrata in un
nuovo contesto internazionale a significativa trazione statunitense. Termini Imprese, Pomigliano, il Lingotto hanno rappresentato, e rappresentano, ad un tempo, decisivi fatti territoriali tipici dell’espansione tutta italiana della Fiat originaria, e hanno posto in evidenza la dura difficoltà di
Le necessità produttive sempre più spesso scardinano le antiche istituzioni della democrazia combinare visione globalizzata da un lato, e perdurante consistenza locale dall’altro. Le vicende di Unicredit hanno a loro volta dimostrato sino ad ora che le spinte alla sua radicale internazionalizzazione, soprattutto sul territorio europeo, si sono via via venute scontrando con le visioni del territorio o dei territori nei quali operano quei nuovi soggetti istituzionali che sono le Fondazioni bancarie. Queste ultime si sono infatti venute costituendo secondo una logica istituzionale ed una cultura politica propria del territorio, e quindi della politica che di quel territorio si fa paladina e si erge a difesa.
S i a m o d u n q u e in presenza di un tendenziale contrasto di fondo tra le esigenze strettamente produttive che questo moto di globalizzazione pone in evidenza, e le forme territoriali proprie della politica che vede in quei territori più gli elettori che non i produttori. Il conflitto che vediamo realizzarsi tra globale e locale diventa pertanto sempre più un conflitto tra politiche industriali legate tendenzialmen-
te al singolo prodotto, di volta in volta ritenuto determinante per le esigenze della competitività nella nuova dimensione della globalizzazione, e politiche industriali che nascono dal territorio ma in ordine alle quali la politica tende a considerare come determinanti più gli elettori in quanto tali che non le capacità competitive globali dei singoli segmenti produttivi presenti sul territorio medesimo.
Anche in riferimento alla vicenda Unicredit, pertanto, si può rilevare che stiamo assistendo ad un fenomeno che diviene sempre più decisivo: la globalizzazione tende a scardinare le antiche istituzioni della democrazia locale in nome delle necessità produttive che anche i singoli territori sono sempre più costretti a considerare rilevanti.
presente in 22 nazioni e tenga nel giusto conto quel territorio che per le fondazioni e per i tedeschi è interfaccia imprescindibile per fare business. Ma se il muro contro muro tra gli azionisti dovesse andare avanti, allora non resta che una soluzione interna. E un nome c’è già: è quello di Roberto Nicastro, deputy Ceo con responsabilità sul retail. Molto vicino a Alessandro Profumo, qualche mese fa si fece già il suo nome per la successione. Erano i tempi dell’aumento di capitale da 4 miliardi lanciato da piazza Cordusio, quando si parlò di un presunto piano di Banca Italia per spingere Profumo verso alla presidenza, in modo da limitare in un colpo solo lo strapotere dell’ex Ad e le mire di Rampl.
Se c’è qualcosa di vero in questa vicenda è che la candidatura di Nicastro avrebbe il placet di via Nazionale. Che si aggiunge al via libera della struttura interna, invece poco propensa a promuovere l’altro deputy Ceo, Paolo Fiorentino, visto il suo passato in Capitalia. Volente o nolente dovrà occuparsi della partita Cesare Geronzi. Il presidente di Generali è stato accusato da Repubblica di aver tramato nell’ombra per poter poi realizzare una fusione tra Mediobanca e il Leone, se non tra Unicredit e piazzetta Cuccia, e blindare il potere finanziario italiano. Il “ragioniere di Marino” ha smentito prima in un’intervista al quotidiano capitolino, quindi è tornato sul tema ieri, dalle colonne del Corriere della Sera. Un’operazione simile è soltanto «una fantasiosa ipotesi», perché mancano le condizioni. A dirla tutta la fusione Mediobanca-Generali – o quella tra piazzetta Cuccia e Unicredit – portebbe forti plusvalenze in fase di concambio agli azionisti. Cioè al gotha dell’imprenditoria, da sempre critico per la remuneratività del Leone. Ma al momento ci sono questioni più prosaiche da risolvere. Geronzi se l’è presa con le fondazioni, spinte verso «un’azione disgregatrice» soltanto per interessi materiali (i dividendi). Dino De Poli, signore di Cassamarca e uno degli artefici, gli ha scritto per ricordare che il banchiere romano è l’ultimo a porter giudicare visto i debiti portati in piazza Cordusio dalla sua Capitalia. Per tutta risposta ambienti vicini alla presidenza del Leone hanno ribattuto che non soltanto De Poli era favorevole alla fusione tra le due banche, ma che Geronzi è pronto a spingere per «una disciplina che detti oggettivi, rigorosi criteri di professionalità ed indipendenza nelle designazioni dei membri delle fondazioni e nella indicazione, da parte di queste, dei componenti gli organi deliberanti delle banche». Guarda caso lo stesso progetto che era alla base della guerra planetaria lanciata nel 2003 da Giulio Tremonti contro Antonio Fazio, le principali banche e le fondazioni. E che costò il posto al ministro.
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il personaggio della settimana Vita e successi della donna che ha annunciato il “licenziamento” del marito da Unicredit
La manager di Profumo Dirigente Eni, cattolica, democratica (legata a Rosy Bindi), volontaria con Emergency. È Sabina Ratti, compagna e «guida» del banchiere più popolare e contestato del momento di Alessandro D’Amato on si sa se la scena resterà negli annali delle trattative per la liquidazione dei manager. Ma, di sicuro, nella storia del giornalismo sì. La Ducati rossa che si ferma in via Barozzi, davanti al rinomatissimo studio Bonelli, Erede e Pappalardo, e la signora che ne scende facendosi poi largo tra la pattuglia dei giornalisti per varcare la porta e salire al piano dove il marito si è asserragliato dopo l’addio alla “sua”banca. E la stessa signora che si prende la responsabilità di scendere, a mezzanotte, per annunciare che le dimissioni sono state finalmente firmate, e Alessandro Profumo è ufficialmente l’ex amministratore delegato di Unicredit: «C’è stata una richiesta del cda e si è dimesso. Ha firmato. Mio marito e io siamo serenissimi, anche se sottoposti a un grande stress».
N
Ma chi la conosce non si è stupito per niente. Sabina Ratti è fatta così: sempre in prima linea, anche nel fare le veci del marito, se lo ritiene necessario. Oppure a parlare per lui, che spesso è taciturno e perso nei propri pensieri, anche in quelle occasioni ufficiali in cui bisognerebbe dimostrare un po’ di partecipazione nel conversare con chi si incontra e fare i soliti convenevoli. Anzi: le cronache raccontano di lei che entra nei salotti ripetendo due volte i saluti («ciao ciao, come stai come stai»), e lui invece abituato più ad annuire e a rispondere per monosillabi. Ma evidentemente quella tra Sabrina e Alessandro è una coppia ben assortita, in cui gli opposti si conciliano: l’esuberanza e la personalità di lei – quante donne conoscete con un reddito maggiore di 100mila euro all’anno che per gli spostamenti preferiscono la moto all’autista? – viene in soccorso alla timidezza di lui, che spesso porta l’ex a.d. di Unicredit a distrarsi ed estraniarsi per rifugiarsi nei suoi pensieri. Oppure ad alzarsi e andarsene quando una cosa non gli sta bene. Si racconta infatti che così abbia reagito Profumo alla prima offerta di liquidazione da parte dei suoi ex soci. Anche perché era imbarazzante: 25 milioni di euro, derivati dal calcolo “al ribasso” di bonus e premi a causa degli ultimi due anni di crisi economica, che hanno portato Piazza Cor-
dusio più volte sull’orlo del collasso. Così mi trattate dopo quasi vent’anni?, pare abbia pensato prima di lasciare la poltrona dov’era seduto e rifugiarsi nello studio legale più rinomato di Milano. E poi portare a casa molto di più, in una vicenda che comunque per uno come lui rimane piuttosto imbarazzante. Profumo è stato graziato più volte negli ultimi anni in cui Unicredit ha mantenuto un capoazienda che ha chiesto 7 miliardi di euro agli azionisti e nello stesso periodo non è riuscito a riportare la banca a livelli di redditività accettabili. Per chi ha sempre considerato la qualità della “bottom line” l’unica legittimazione al comando, una resa dei conti doveva esser accettata come naturale evoluzione delle cose. Anche se, come in questo caso, la causa scatenante non sono i numeri di bilancio, ma l’aver contrariato una volta di troppo una parte consistente dei suoi soci. Invece è stato il primo a “buttarla in politica” e c’è da scommettere che se lo scudo offerto da Tremonti e dalle Fondazioni amiche (Torino, Reggio Emilia) fosse stato più consistente, avremmo assistito a una resistenza degna dei migliori banchieri “di relazione” che tanto disprezza. Non ci ha risparmiato l’ipocrisia del: «Mi dispiace per tutti gli uomini e le donne che in questi anni hanno lavorato al mio fianco». E men che meno si è evitato la caduta di stile di otto ore di barricate nello studio dell’avvocato per spuntare 10-15 milioni di euro in più sulla liquidazione. Altro che «devono avere il coraggio di cacciarmi»: alle 15 di quel martedì 21 settembre, Profumo il voto se lo sarebbe risparmiato volentieri, solo che in quel caso l’assegno d’oro sarebbe stato di poco superiore ai 20 milioni di euro. Allora meglio la fuga da Piazza Cordusio, meglio costringere i giornalisti ai tripli turni e a sorbirsi la sgommate della moto nel centro di Milano. In poche ore la firma sulla lettera di dimissioni si è rivalutata fino a 40 milioni, regalandoci la beffa finale dei due milioni dati in beneficenza.
E adesso, che farà Alessandro? E cosa ne pensa Sabina? Di certo c’è soltanto una cosa: che decideranno insieme. Ha scritto Annalena Benini sul Foglio che la
loro è «l’epica di una coppia molto unita, anche se lei a Milano non ha mai voluto farsi chiamare signora Profumo, per paura forse di perdere in individualità, anzi era lui che si divertiva a dire: “Preferisco essere considerato il marito di Sabina”, quando Sabina Ratti si candidò alle primarie del Pd, capolista per Rosy Bindi (Con Rosy, Democratici davvero) e Profumo l’accompagnò a votare. Non voleva, con la sobrietà di una signora che non mette in tavola le bottiglie di champagne ma le scaraffa per non sembrare cafona, dividere i successi del marito, ma pretende adesso di aggrapparsi all’insuccesso, indicando anche la strada futura: “Comunque non è la fine del mondo, non c’è mica solo l’Unicredit!”». Troveranno un’altra banca? Per lei non sarebbe la soluzione migliore.
Manager Eni, esperta di responsabilità sociale d’impresa e di sviluppo sostenibile, impegnatissima nel sociale, la definiscono semplice, profonda, ma anche concreta, una che lavora e guarda ai risultati, insomma una manager. Vicina a Emergency e al Partito Democratico appunto nella corrente di Rosy Bindi, per il marito sogna qualcosa di più. E i sogni, si sa, son desideri. La Ratti è una di quelle donne “non ornamentali”che la Bindi volle all’epoca candidare nelle proprie liste per le primarie: «Voglio donne reali, non vip da copertina», disse Rosy polemizzando con Veltroni (e suscitando una risposta piccata di Afef Tronchetti Provera mentre, vale ricordarlo, Milly Moratti preferì usare il nome del marito per presentarsi agli elettori del Pd). D’altronde, come ha scritto Marianna Rizzini ancora sul Foglio, Sabina a casa respirava cattolicesimo democratico: era ragazzina negli anni caldi ma nel ’77 lei e Alessandro non avevano tempo per marce e tadzebao: «Non avevano nemmeno vent’anni, erano già fidanzati. Un giorno lei ha scoperto di essere incinta. E certo che il bambino lo teniamo, e anzi festeggiamo, e non importa se all’inizio dobbiamo vivere da mamma e papà. La casa c’era, veramente, l’avevano regalata a Sabina i genitori. Bisognava sistemarla e allora Sabina ci andava tutti i giorni
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anche con il pancione, e lui studiava e lavorava, e meno male che c’era papà Ratti perché sennò magari il posto al Banco Lariano Alessandro non lo avrebbe trovato». Per questo oggi lei e il marito non amano i salotti e le località mondane, preferiscono frequentare pochi amici e trascorrere le vacanze in Africa invece che in Sardegna. Ha firmato, insieme ad Alessandro, il Patto Generazionale dell’ex socialista Luca Josi, impegnandosi a sessant’anni a lasciare o a rifiutare ruoli di comando in politica e nell’economia, a favore dei giovani. Proviene da una famiglia cattolica, è sempre stata orientata verso la sinistra moderata, come suo marito, so-
più emarginati e immigrati. La Ratti aveva detto poche parole per spiegare la sua scelta politica: «Rosy rappresenta una risposta chiara per quanto riguarda la laicità, quello che dice e fa ci conforta». Alla serata c’era anche Alessandro Profumo, solo in veste di accompagnatore, aveva precisato, e «per ascoltare». Sorpresa: è la stessa Casa della Carità a cui l’ex ad di Unicredit, proprio su pressione della moglie, ha fatto destinare due dei quaranta milioni di buonuscita dall’istituto di credito. Sul suo sito web, la Casa della Carità si presenta come «una fondazione che persegue finalità sociali e culturali istituita nel maggio 2002 su iniziativa del cardinale Carlo
trica più uno sportello di tutela legale». E tra le tante attività meritorie, c’è anche quella di combattere la violenza negli stadi. Come? Ma con «L’Inter Club – Non violenti per passione», che «promuove la cultura del tifo non violento, organizza eventi di solidarietà legati allo sport, favorisce la pratica sportiva dei minori».
Maria Martini e che ha come garanti il sindaco e l’arcivescovo pro tempore della città di Milano. La nostra principale attività è ospitare e prenderci cura di persone in difficoltà. Ogni giorno ospitiamo circa 150 persone tra uomini e donne, italiani e stranieri, giovani e anziani. I nostri ospiti sono coinvolti nel proprio reinserimento sociale, nella ricerca di un lavoro e di un’abitazione. Inoltre, nella Casa esistono luoghi di ospitalità per mamme sole con figli e per sofferenti di disagio psichico. Abbiamo anche un centro di ascolto e ambulatori di assistenza medica e psichia-
sandro Profumo e Gino Strada in tribuna d’onore a San Siro per seguire la partita della Beneamata. E anche qui, l’amicizia tra i due è stata ancora una volta favorita dall’onnipresente Sabina. Poi i rapporti si sono leggermente raffreddati, ma l’impegno sociale incarnato dal medico che cura i bambini e i diseredati delle guerre del modno è sempre stato fonte di ammirazione per i due coniugi. Soprattutto per Sabina. Ma, insomma, cosa farà “da grande” Alessandro? Se lo chiedono in tanti, tantissimi. Il patto di non concorrenza non dovrebbe permettergli di sedersi su un’altra
Già, l’Inter. Una passione, il calcio che accomuna anche il grande manager della banca orientata al profitto al medico volontario che apre ospedali nei più orrendi teatri di guerra del pianeta. E infatti li chiamavano «il ticket», perché si presentavano sempre in coppia, Ales-
Vicina alla sinistra, tre anni fa si candidò alle primarie milanesi del Pd: e il marito l’accompagnò a votare stenitore di Prodi e di Veltroni, che tuttavia non aveva risparmiato qualche critica al nascente Pd: «Vedo poca innovazione e troppe pressioni dei vecchi apparati», aveva detto Profumo.
All’epoca della campagna elettorale, scriveva Affari Italiani, Sabina Ratti raccolse i suoi possibili elettori in una bella cena alla Casa della Carità di don Virginio Colmegna (diretta da Maria Grazia Guida, anch’essa eletta a Milano con la Bindi); il menù della cena risotto, prosciutto e mozzarella, lo stesso degli ospiti abituali di don Colmegna, per lo
La signora della motocicletta Dirigente Eni con il cuore a sinistra; milanesità conclamata tra cene mondane e volontariato francescano; fedelissima all’insegnamento del cardinal Carlo Maria Martini ma patita di motociclette: la personalità di Sabina Ratti è multiforme, come si addice alla Milano bene di una volta. Compagna di Alessandro Profumo da anni, per molti ne rappresenta anche l’eminenza grigia; o la portavoce, a seconda dei casi. la verità è che come dice una vecchia legge, dietro a ogni grande uomo c’è una grandissima donna. È il suo caso. D’altra parte, la Ratti non ha manie di protagonismo (difficilissimo trovare notizie su di lei) ma è molto concreta. Come nella sua attività di volontariato (è cattolica) al fianco dell’amico Gino Strada. E quando decise di candidarsi alle primarie Pd di Milano, tre anni fa, in lista con Rosy Bindi, a differenza di altre candidate illustri, si presentò con il suo nome, non con quello - di sicuro più riconoscibile - del marito. Insomma, tutto si può dire di lei, tranne che sia la «Signora Profumo». Semmai può essere vero il contrario: proprio Alessandro Profumo al seggio del Pd, tre anni fa, disse: chiamatemi il marito della signora Ratti.
poltrona bancaria prima di un anno, e non è tanto di questi tempi: spesso le aziende di credito pretendono un intervallo di tempo ancora più ampio.
Probabilmente Profumo ha scambiato qualche milione di euro con qualche mese in meno di esilio dorato: comprensibile, per uno come lui, che non ha certo pensato nemmeno per un attimo a farsi da parte, anche se il patto generazionale gli consente soltanto altri sette anni di lavoro, prima del ritiro. Di sicuro non torneranno alle Maldive, dove hanno vissuto qualche tempo fa un «Primo dell’ anno con naufragio» insieme ad Alberto Luca Recchi, fotografo di squali, accompagnato dalla moglie, la giornalista Caterina Stagno.Tutti appassionati di mare e sub esperti, ebbero la sfortuna di vedersi la barca incagliata nella barriera corallina durante la navigazione, e successivamente trovarsi distrutte la carena e l’elica. In attesa dei soccorsi, raccontava Repubblica all’epoca, i naufraghi hanno fatto un’altra escursione tra gli squali. Un’esperienza molto simile agli ultimi consigli di amministrazione di Unicredit, forse. In ogni caso, in questi sette anni qualcosa da fare si può trovare. Lui ambirebbe a rimanere nello stesso campo, anche se sarà difficile trovare un posto all’altezza di uno che ha trasformato in colosso internazionale una banca che in Italia non era nemmeno la più grande. Lei, invece, per il marito immagina un futuro nell’agone peggiore: la politica. Però Alessandro nicchia. Per un manager abituato a prendere decisioni e a prenderle in fretta, eventualmente pagando anche per gli errori in prima persona, la politica italiana non sembra nemmeno lontanamente il luogo ideale. Sarà un bel discutere, tra il signor Profumo e la signora Ratti: magari a modo loro, tra le molte parole di lei e i lunghi silenzi di lui. Chi vincerà?