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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 2 OTTOBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il premier chiede una commissione d’inchiesta sulla giustizia. E i finiani attaccano: «Sulla riforma non accettiamo diktat»
Berlusconi extraparlamentare Uscito dall’apnea che si era imposto in Parlamento, torna a fare il tribuno contro i magistrati: «Un’associazione a delinquere». Gli risponde Napolitano: «Basta contrapposizioni sterili» AGNELLO E LUPO
UN PAESE DA SALVARE
Il moderato è durato solo un giorno
Serve subito un progetto alternativo
di Giancristiano Desiderio
di Enrico Cisnetto
ra che il governo Berlusconi ha i suoi trecentosedici voti che gli permettono di andare avanti non è il caso, appunto, di “andare avanti”? Secondo il presidente del Consiglio è molto meglio tornare indietro e ricominciare una lotta con la magistratura che «è un’associazione a delinquere». C’è una differenza come tra il giorno e la notte tra il Berlusconi che abbiamo sentito in Parlamento e il Berlusconi che si è intrattenuto con amici e simpatizzanti per festeggiare i suoi 74 anni. Qual è il vero Berlusconi? Quello ingessato del Parlamento o quello a briglia sciolta della festa di compleanno? Quello parlamentare o quello extra-parlamentare? Da molto tempo il governo non batte un colpo.
on solo le opposizioni. Non solo gli osservatori e vasti pezzi di classe dirigente. Non solo quelli della Lega, seppure tra qualche stop and go. Qui a dire che la situazione non regge e che si andrà alle elezioni a marzo ci sono un po’ tutti, compresi i berlusconiani di stretta osservanza. Insomma, comunque si voglia leggere l’esito della fiducia riscossa dal Governo «Berlusconi dipende dai voti di Fini e Lombardo», oppure «È aumentato il perimetro della maggioranza» resta fermo il giudizio che non ci sono le condizioni perché la legislatura possa durare non solo fino alle fine, ma nemmeno oltre la prossima primavera.
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Parlano i costituzionalisti Ainis, Capotosti e Grilli
«Ma ora fermate il caos e tornate alla politica» «Ormai è impossibile riuscire ad affrontare i grandi temi con la dovuta calma: e poi basta fare solo accuse generalizzate» Vladimiro Iuliano • pagina 3
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Parlano gli esperti di Udc, Api e Pd
L’opposizione alla prova della riforma elettorale Le proposte sul tavolo sono tante e, talvolta, anche molto distanti tra loro: ma è da qui che può ripartire il Paese
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Riccardo Paradisi • pagina 4
A Roma l’internazionale democratica
Fini, Casini, Rutelli: l’unità comincia dall’agenda mondiale Occorrono rispetto reciproco e sicurezza nelle aree di crisi: e così i moderati italiani si trovano subito d’accordo Errico Novi • pagina 6
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Dall’Ecofin nuove regole per i bilanci: «E ora dobbiamo salvare le banche»
Un’Europa a trazione tedesca Via libera alla linea del rigore sul debito, ma senza le multe di Francesco Pacifico
A vent’anni dalla Riunificazione
La lezione di Kohl (rilanciata da Angela)
l nuovo patto di stabilità si ferma alle questioni di principio: e, almeno su queste, tutti sono d’accordo con il rigore sul debito chiesto dalla Germania. Ma niente multe, per ora. Che tradotto significa: Italia e Francia sono avvisate ma non bastonate. L’Ecofin ha rinviato le decisioni concrete più importanti e si è fermato a constatare la debolezza della ripresa e la fatica che le banche stanno facendo per venire fuori dalla crisi.
nella storia più recente la lunga rincorsa tedesca verso un ruolo di primazia europea. E il punto di svolta è stato l’unificazione. Prima di allora era un Paese dimezzato, continuamente esposto alle pressioni dell’Est e dell’Ovest. Costretto a sviluppare un’attività diplomatica morbida per non irritare i suoi potenti alleati.
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I
EURO 1,00 (10,00
di Gianfranco Polillo
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CON I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
192 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
A proposito dell’appello di Bagnasco
«Noi politici cattolici pronti a uscire dalla riserva» L’impegno secondo Costallo, Martinez, Miano, Olivero e Vignali. Monsignor Crociata annuncia: «Faremo crescere nuovi partiti» Franco Insardà • pagine 8 e 9
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
l’analisi
prima pagina
Il premier lupo e quello agnello
pagina 2 • 2 ottobre 2010
Il moderato è durato solo un giorno di Giancristiano Desiderio ra che il governo Berlusconi ha i suoi trecentosedici voti che gli permettono di andare avanti non è il caso, appunto, di “andare avanti”? Secondo il presidente del Consiglio è molto meglio tornare indietro e ricominciare una lotta con la magistratura che «è un’associazione a delinquere». C’è una differenza come tra il giorno e la notte tra il Berlusconi che abbiamo sentito in Parlamento e il Berlusconi che si è intrattenuto con amici e simpatizzanti per festeggiare i suoi 74 anni. Qual è il vero Berlusconi? Quello ingessato del Parlamento o quello a briglia sciolta della festa di compleanno? Quello parlamentare o quello extra-parlamentare? Da molto tempo, praticamente dalla primavera scorsa, il governo non batte un colpo e se si vuole citare qualcosa di significativo bisogna risalire fino alla legge finanziaria. Incassata la nuova fiducia il governo dovrebbe mettersi di buona lena a lavorare e invece il capo del governo dedica la sua intelligenza e la sua passione all’unico punto tra i cinque del suo programma proposto al Parlamento: giustizia. Come se i problemi degli italiani fossero quelli di Berlusconi. In effetti, al punto in cui siamo non si può escludere che sia così.
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Nelle settimane e nei mesi che speriamo di avere alle spalle, il governo si è interessato, anche con un certo trasporto, della crisi del Pdl, dei finiani, della casa di Montecarlo, delle dimissioni del presidente della Camera, dei triumviri Granata, Briguglio, Bocchino, dei Tulliani. Tutti temi assolutamente centrali in Europa e nel mondo. È come se le ambizioni del governo che voleva cambiare il mondo italiano si fossero ridimensionate fino al punto da abbandonare ogni proposito di riforma di sistema. Giulio Tremonti era partito con grandi progetti che poi ha smarrito per strada: la crisi mondiale della finanza e delle banche, che si è spostata dall’America alla Grecia, lo ha costretto a rivedere le cose da farsi. In giro si dice che il ministro delle Finanze sia stato bravo a mettere in salvo i conti pubblici, ma che nulla sia stato fatto per l’economia reale dei consumi, delle merci, degli scambi e per questo ora è difficile rimettere in moto un’economia nazionale fortemente rallentata e calante come il sole di mezza sera. Quando farà di nuovo giorno? Quei trecentoquarantadue voti che il governo ha raccolto alla Camera mercoledì sono sufficienti per un nuovo giorno? Detto fatto. I magistrati sono delinquenti. Eppure, di cose da fare ce ne sono. Anche di normalissime. Se solo non fosse ossessionato dai giudici, Berlusconi si accorgerebbe che la prima cosa giusta da fare è nominare un competente ministro delle Attività produttive. Quella casella è libera da troppo tempo per non pensare male del governo e del presidente del Consiglio: o non si sa chi sia l’uomo giusto da mettere al posto giusto o si dedicano le energie quotidiane per altre cose. La politica estera italiana, poi, è quasi sempre fatta a partire dalla politica interna. È un vizio antico. Il governo Berlusconi non sfugge a questa regola e, semmai, l’ha radicalizzata. La politica estera è fatta a partire direttamente da Arcore. La lotta politica interna alla maggioranza si è trasformata in un litigio personale in cui i Padri Fondatori del Pdl si sono prodotti in scenette e scenate. È come se la nota formula “teatrino della politica”si fosse materializzata su un palcoscenico che, in verità, ha anche ricordato a tratti il Bagaglino. Forse, mai la politica italiana è stata più provinciale. Il governo è esce da questo provincialismo o l’Italia è destinata a diventare la regione meridionale della Germania.
il fatto La «pace» è vacillata subito. I finiani: «Sulla giustizia non accettiamo diktat»
Dopo il sonno, la tempesta
«I magistrati? Un’associazione a delinquere, serve una commissione d’inchiesta». Ma Napolitano frena il premier-tribuno: «Ora basta contrapposizioni sterili» di Pietro Salvatori
ROMA. All’interno della magistratura «c’è un’associazione a delinquere che vuole sovvertire il risultato delle elezioni» ed «eliminare colui che è stato eletto dagli elettori»: per questo serve «una commissisone parlamentare d’inchiesta» sulle toghe. Non ha fatto in tempo a incassare la fiducia di entrambe le Camere, che il presidente Berlusconi si è cacciato nuovamente nei pasticci. Beccato letteralmente con le mani nella marmellata da un video pubblicato ieri dal sito di Repubblica, che lo ha immortalato mentre usciva da palazzo Grazioli.
Sentendosi sicuro, tra amici e sostenutori, il presidente del Consiglio ha inscenato un piccolo show, durante il quale non le ha mandate a dire a nessuno. Sarà stata l’euforia per i festeggiamenti del settantaquattresimo compleanno, oppure l’esasperazione per le lungaggini del dibattito parlamentare, che ha visto il suo governo ottenere più di trenta voti di margine alla Camera, che, per i soliti bizantinismi di palazzo, non sono affatto sufficienti per portare a termine la legislatura. Resta il fatto che il Cavaliere ha rivolto parole dure, durissime, nei confronti della magistratura, arrivando a domandarsi: «In che mani è la sovranità del Paese? È nelle mani dei pubbici ministeri di sinistra». E, come ironica estrema ratio, ha invocato il cielo come unica protezione possibile, invitando i suoi sostenitori a scrutare tra le nuvole «perché ci sono gli angeli, che stanno certamente vegliando su di noi e ci difendono dai giudici» (sic!). Ma in fondo, si dirà, il presidente del Consiglio non ha fatto altro che ribadire in maniera informale ciò
che dice di pensare da anni del terzo potere dello Stato. Una tesi che sicuramente potrebbe avere la sua propria ragion d’essere. Il vero caso politico è determinato piuttosto dalle reazioni che si sono susseguite alle sue parole, che vedono i finiani schierati in prima linea nel contestare le affermazioni del leader che solo tre giorni fa ha riscosso, salvo sporadici casi, la loro fiducia. È pur vero che lo stesso Berlusconi, riferendosi alla trasmissione di Santoro AnnoZero, e allargando poi il discorso, ha parlato a nuora perché suocera intendesse: «Questi che vengono fuori dalle sagrestie della politica, che hanno nella attività politica l’unica loro professione, hanno bisogno dei partiti così come delle imprese proprie, per avere i soldi dei gruppi in Parlamento, i soldi dello Stato per le elezioni, i finanziamenti... hanno bisogno di un giornale attraverso cui raccogliere i soldi... sono veri e propri imprenditori della politica». Futuro e Libertà sembra avere inteso bene le parole del premier. Il federalismo, si diceva nei giorni scorsi, sarà il principale nodo da risolvere per una maggioranza di governo che si sta frammentando sempre più con il passare dei giorni, e che per il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani non esiste più.
Insieme alla giustizia, tema spinosissimo e sul quale Fabio Granata, esponente di punta della pattuglia finiana a Montecitorio, non si è sentito di rinnovare la fiducia a Berlusconi. Il messaggio contenuto nel video potrebbe dunque portare a un precipitare della crisi serpeggiante nella maggioranza di
le interviste
«Fermate il caos e tornate alla politica» Ainis, Capotosti e Grilli sulle esternazioni del Cavaliere: «È come indagare sul Parlamento» di Vladimiro Iuliano
ROMA. Le intemerate del presidente del Consiglio scuotono il mondo della politica. Ce n’è per tutti: dalle donne agli ebrei, entrambi oggetto di barzellette dagli incerti esiti, dai «sagrestani della politica» alla politicizzazione della televisione fatta da AnnoZero. Ma in particolare è con i magistrati che Berlusconi se la prende. Le toghe rosse, nelle cui mani sono racchiuse le sorti del Paese. Una vera e propria «associazione a delinquere» secondo il premier, definizione che, tra le conferme in campo azzurro e gli sbalordimenti nelle fila dei finiani, ha terremotato i fragili assetti che si erano raggiunti nei giorni scorsi. Ma la vera novità è un’altra.
Nell’ormai celebre video pubblicato sul sito di Repubblica, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si propone, per rimuovere «il macigno» posto «sul nostro sistema democratico», di «chiedere una commissione parlamentare che faccia nomi e cognomi e dica se, come credo io, c’è effettivamente una associazione a delinquere nella magistratura». Vale a dire prefigurare una situazione nella quale il potere legislativo mettesse sotto accusa quello giudiziario, portando, con tutta probabilità, a un corto circuito istituzionale. «Ma ve lo immaginate un intero potere dello Stato che marcia armato contro un altro potere?», si domanda Michele Ainis, costituzionalista. «È come se la magistratura facesse un’inchiesta diretta non nei confronti di un parlamentare specifico, ma contro tutto il Parlamento.Vi sembra una
cosa normale?». Per Pietro Grilli, ordinario di Scienza politica presso l’ateneo di Roma Tre, si sta solo attizzando un inutile fuoco di paglia: «Non voglio buttarci acqua sopra – spiega a liberal – ma quella di Berlusconi mi sembra semplicemente una boutade. Bisogna contestualizzare, riflettere su dove, come e quando l’ha detto». Più che essere preoccupato di una situazione che «comunque rimane tesa», ma alla quale «il discorso contenuto nel video non aggiunge
Il potere legislativo non può mettere sotto accusa quello giudiziario: si arriverebbe a un corto circuito istituzionale né sottrae alcun elemento rilevante», il professor Grilli mostra la propria preoccupazione per l’invelenimento complessivo del clima politico. «Di ogni virgola si fa una questione enorme – sottolinea – finendo per parlare di argomenti futili e lasciare da parte la politica. Da questo punto di vista siamo caduti in basso a tutti i livelli, dal dibattito di palazzo a quello giornalistico. Occorre riprendere il filo di un ragionamento politico concreto».
Nel caso dovesse concretizzarsi, la commissione parlamentare sulla magistratura sarebbe «una stortura». Almeno questo il parere di Ainis, che spiega: «le commissioni di inchiesta sono strumenti di con-
governo. Le parole del capogruppo di Fli Italo Bocchino sono pacate, ma esprimono con nettezza una decisa presa di distanza: «Le associazioni a delinquere sono quelle che i magistrati combattono. Dobbiamo limitare le storture che ci sono in ogni settore e dare più forza alla magistratura che indaga sulle associazioni a delinquere, quelle vere».
Eppure per Giorgio Straquadanio, parlamentare vicinissimo al presidente del Consiglio non c’è nulla di strano né, tantomeno, di nuovo: «Berlusconi ha parlato semplificando molto l’argomento – spiega a liberal – come si fa chiacchierando per la strada. Detto questo la sua rimane una proposta politica, non un atto parlamentare specifico». E se dovesse tramutarsi come tale, non sarebbe un messaggio di guerra rivolto a Gianfranco Fini e i suoi? «Non vedo perché – risponde l’onorevole – Il lodo Alfano risponde proprio all’esigenza di difendere le più alte cariche dello Stato da un’associazione a delinquere che esiste e c’è. Non di certo per cambiare l’organizzazione istituzionale del Paese. Se questa è la preoccupazione di fondo, perché il movimento di Fini, che ha più volte affermato di condividerla, non dovrebbe voler fare luce su quello che succede?». L’ottimismo di Straquadanio è destinato a cadere nel vuoto. Raggiunto al telefono da liberal, l’onorevole Lo Presti, ex membro della consulta della giustizia
trollo del Parlamento nei confronti delle attività del governo. Servono per acquisire i dati su queste attività, rielaborarli e controllare se c’è stato dolo da parte di qualcuno. Per questo, le commissioni parlamentari hanno gli stessi poteri della magistratura». Per questo, se una commissione si ritrovasse a indagare sulle attività delle toghe «si devierebbe rispetto alla finalità tradizionale e tipica di questo istituto».
Grilli si mostra scettico sull’esito di un simile progetto: «Una commissione di questo tipo non vedrà mai la luce, non ci sono i margini. D’altra parte, è auspicabile che sia così». Ma oltre alle argomentazioni in punta di diritto, il professor Ainis ne ricorda una di sostanza ordinamentale: «non si dimentichi che la Costituzione italiana stabilische che l’ordine giudiziario deve essere indipendenti dagli altri poteri dello Stato, e autogovernarsi». Come a dire che nessuno, se non il Consiglio superiore della magistratura, può «indagare» sulla bontà del lavoro delle toghe. Quello della presenza di un’associazione a delinquere all’interno della magistratura è «un concetto del tutto nuovo» per il dibattito politico, che «potrebbe spesso condurre a una crisi di governo». È l’opinione di Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Corte costituzionale. «Si sa che tra Berlusconi e la magistratura il rapporto non è di certo idilliaco – spiega il professore – ma un’idea così grave e precisa non era mai stata esplicitata prima di oggi». Secondo il
del Pdl e candidato laico al Csm prima di passare nelle fila di Fli, fatica a darsi una spiegazione razionale delle affermazioni del premier: «Berlusconi non può aver detto una cosa del genere, evidentemente non era compos sui». Espressione, per intenderci, che nel linguaggio giuridico indica chi non è capace di intendere e di volere. «Questa è una vera pazzia – prosegue Lo Presti – noi non solo non parteciperemo mai a una commissione d’inchiesta contro la magistratura, ma la ostacoleremo in tutti i modi». Una
presidente Capotosti, una commissione d’inchiesta formalmente è possibile: «l’ordinamento spiega che deve riguardare materie di pubblico interesse, per cui si potrebbe anche istituire. Ma quello che Berlusconi prefigura è piuttosto un preciso reato. Dovrebbe dunque presentare una formale denuncia presso un pubblico ministero, invece di invocare una commissione». Oltre che sul piano formale, a preoccupare il professore è anche l’accavallarsi di competenze tra i vari ordinamenti dello Stato: «si creerebbe un cortocircuito: un’inchiesta proposta dall’esecutivo al legislativo, che indaghi sul giudiziario. Un ibrido, un mostro a due teste che non starebbe in piedi».
Si prefigura all’orizzonte una crisi istituzionale, e non solo: «I rapporti tra magistratura e politica sono destinati a diventare ancora più tesi, è inevitabile. Anche perché i termini utilizzati dal presidente del Consiglio inaspriscono senza alcun dubbio il livello della discussione». deputati, che «l’alleanza tra Berlusconi e Fini non c’è più», perché «i problemi che sono esplosi all’interno del centrodestra non sono più risolvibili». Il presidente del Consiglio è stato bacchettato, pur indirettamente, anche dal capo dello Stato, che in un messaggio al congresso delle Camere penali italiane ha auspicato che sulla giustizia cessino le «sterili contrapposizioni», per fare largo ad interventi di «ampio respiro, che rafforzino il ruolo di garante del giudice». Nel pomeriggio altre grane sono piovute sul capo del premier. L’Espresso, sul suo sito, pubblica un altro video. Questa volta Berlusconi è a colloquio con alcuni militari al lavoro in Abruzzo. Una barzelletta di dubbio gusto sul conto, ancora una volta, di Rosy Bindi, e una bestemmia segnano i poco edificanti minuti del filmato. E provocano le reazioni indignate di tutto il mondo cattolico, proprio in un momento nel quale, attraverso l’azione del senatore Quagliariello, il Popolo della libertà stava cercando di porre nuovamente al centro della propria agenda i temi della bioetica.
Le parole, contenute in un video pubblicato dal sito di “Repubblica”, potrebbero portare a un precipitare della crisi serpeggiante nella maggioranza di governo «follia istituzionale e morale» secondo il deputato, «che non sta né in cielo né in terra». Parole che rischiano di far cadere nel caos i fragili equilibri sui quali si sostiene l’attuale maggioranza, e con lei il Paese intero. «Se vogliono continuare su questa strada l’accordo raggiunto sarà di breve respiro. Ma se ne assumeranno le responsabilità».
Una spaccatura che nel corso della giornata si è fatta via via più profonda, tanto da far rilevare a Dario Franceschini, capogruppo del Pd alla Camera dei
E come se non bastasse, Raffaele Lombardo, che con i suoi cinque deputati controlla un pacchetto di voti che fa gola al governo, ha attaccato duramente il premier, ritenendo «del tutto insoddisfacente per la Sicilia», della quale è governatore, l’analisi del problema fatta da Berlusconi nel suo discorso di mercoledì.
l’approfondimento
pagina 4 • 2 ottobre 2010
Gli esperti di Udc, Api e Pd sono in cerca di una sintesi su un sistema di voto che possa superare il Porcellum
L’esame di maturità
Nei prossimi mesi, molto dipenderà dall’andamento dell’iter parlamentare della nuova legge elettorale chiesta dalle opposizioni. La strada per modificare le regole è stretta, ma è anche l’unica per cambiare il Paese di Riccardo Paradisi lleanza costituzionale” l’ha chiamata Massimo D’Alema: un patto da stringere per dar vita ad una nuova maggioranza di responsabilità nazionale che renda possibile e sostenga un esecutivo di scopo. Esecutivo che affronti la crisi economica e la riforma elettorale.
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Uno scenario – definito parafascista dal ministro della Giustizia Angelino Alfano – ma che tiene insieme un vasto fronte articolato che andrebbe dal Pd all’Udc passando per i finiani e per l’Api di Francesco Rutelli. Non sono solo D’Alema e Bersani a ragionare così nel Partito democratico. Dario Franceschini, leader di AreaDem, parla dell’esigenza d’una risposta politica urgente di fronte all’emergenza democratica che secondo l’ex segretario del Pd costituirebbe Berlusconi. Emergenza tale da rendere necessario «un appello a tutte le forze politiche per cambiare la legge elettorale che permetta un bipolarismo moderno e nor-
male». Insomma, il Pd secondo Franceschini deve puntare a modificare l’attuale legge elettorale e se si dovesse andare alle urne senza che siano state modificate le regole del gioco dovrebbero promuovere un’ampia alleanza anche con il Terzo Polo di Casini-Fini-Rutelli, per evitare che “l’Italia finisca nelle mani di Berlusconi”. Insomma il Pd, pur lentamente, sta prendendo coscienza della necessità di fare una mossa tanto da aggiungersi alla richiesta che l’Udc ha formalizzato al presidente della Camera di sollecitare l’inserimento nel calendario della commissione Affari Costituzionali tutte le proposte di legge di modifica del sistema elettorale. Una prospettiva su cui non ha tardato ad allinearsi anche Alleanza per l’Italia che ha già depositato in Senato una proposta di modifica dell’attuale legge elettorale in senso tedesco. Una prospettiva che ha già messo in allarme lo stato maggiore berlusconiano e lo stesso premier: «Se si dovesse creare
un asse tra Pd, Udc e Fini sul cambiamento della legge elettorale – dice il coordinatore del Pdl Sandro Bondi – cio’ significherebbe la fine del bipolarismo e insieme la sconfitta del Pd come ipotesi di sinistra democratica». Ma è Berlusconi stesso a dirsi seriamente preoccupato del fatto che in caso di caduta del governo il presidente Napolitano possa trovare una maggioranza di transizione pronta a cambiare il porcellum che per il Cavaliere resta il salvacondotto
Sta a Bersani il compito di trovare una sintesi nel suo partito
della sua maggioranza. Il punto è che se Api, Udc e persino Futuro e libertà (seppure di obbedienza bipolarista) sarebbero pronti a convergere sul modello tedesco e quindi ad avere lo strumento per riempire di contenuto un governo di scopo volto alla modifica della legge elettorale, nel Pd di proposte di riforma elettorale ce ne sono almeno otto, forse nove dopo che negli ultimi giorni s’è aggiunto il modello australiano. Certo, l’assemblea nazionale del Pd s’è espressa ufficialmen-
te per il doppio turno alla francese, ma parlare di una linea ufficiale nel Pd è quasi un’esercitazione di ironia. Per questo si deve partire proprio dal partito di Bersani per capire se esistono condizioni per immaginare una prospettiva come quella sulla quale stanno lavorando i centristi. Roberto Giacchetti, membro della commissione Affari costituzionali per il Pd, ammette che al momento nel suo partito non ci sono posizioni conciliabili sulla riforma elettorale. Il Pd è spaccato come una mela tra proporzionalisti e maggioritari, perché spaccato tra la vocazione maggioritaria e l’idea d’un partito coalizzante. «Certo, vista la posta in gioco sarebbe opportuno – dice Giacchetti – trovare un punto d’incontro, che potrebbe essere il sistema tedesco visto che, a voler semplificare, è una via al mezzo tra il proporzionale e il maggioritario. L’unica cosa però che potrebbe davvero costringere il Pd a una sintesi – ammette Giacchetti – è un’ac-
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Non si può ridurre il «dopo-fiducia» a una lotteria su quando si andrà alle urne
Subito un progetto alternativo per rifare insieme l’Italia
Il nodo della «responsabilità» non è più solo quello di riscrivere la legge elettorale: occorre rifondare il Paese e questo compito tocca ai moderati di Enrico Cisnetto on solo le opposizioni. Non solo gli osservatori e vasti pezzi di classe dirigente. Non solo quelli della Lega, seppure tra qualche stop and go. Qui a dire che la situazione non regge e che si andrà alle elezioni a marzo ci sono un po’tutti, compresi i berlusconiani di stretta osservanza. Insomma, comunque si voglia leggere l’esito della fiducia riscossa dal Governo - «Berlusconi dipende dai voti di Fini e Lombardo», oppure «È aumentato il perimetro della maggioranza» - resta fermo il giudizio che non ci sono le condizioni perché la legislatura possa durare non solo fino alle fine, ma nemmeno oltre la prossima primavera. E poco importa sapere su quale buccia di banana il governo scivolerà, se uno stop dei finiani a qualche provvedimento, magari in materia di giustizia, o un dietrofront della Lega, magari per cavalcare in qualche modo la “questione morale”. Quello che importa è che il capolinea è dietro l’angolo.
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Ma si tratta di una valutazione fondata, oppure il combinato disposto tra la paura del premier a innescare il meccanismo delle elezioni anticipate - con il rischio di non arrivarci per via di un qualche governo, anche solo momentaneo, che si possa formare - e la paura di perderle in caso si facciano, potrebbe indurre lo stesso Berlusconi a comportamenti politici più saggi di quelli fin qui tenuti? Molti tra i berlusconiani sperano che sia proprio così, cioè che il Cavaliere trovi il bandolo di una capacità di iniziativa politica che gli consenta di navigare tra le opposte esigenze di una Lega che si è abituata ad avere - e usare - la golden share dell’esecutivo e di un gruppo-partito neo-costituito che non ha nessuna voglia di regalare al Pdl l’occasione giusta per far saltare il banco e andare al voto ma nello stesso tempo ha anche bisogno come il pane di darsi una fisionomia leggibile dall’opinione pubblica. Ma francamente le probabilità che questo sia l’esito della vicenda politica sono assai poche. Prima di tutto perché se Berlusconi disponesse di questa bussola politica ne avrebbe già fatto uso nei due anni e oltre di legislatura, e così non è stato. E in questo frangente, tra l’altro, non basterebbe nemmeno cercare di riavviare la macchina delle riforme strutturali che si è inceppata da tempo: per dare un senso alla legislatura occorrerebbe avviare una vera e propria stagione costituente, e qui le già residue probabilità si azzerano del tutto. E quelle foto impietose di Berlusconi addormentato nel pieno del dibattito al Senato con Bondi che cerca di svegliarlo sono la certificazione della stanchezza non solo fisica dell’uomo, sulla quale il promo che farebbe a riflettere è proprio lui. In secondo luogo, anche avendocela, la bussola, ormai è chiaro che sono gli
altri attori della partita ad avere il pallino in mano, e l’espressione usata dal Cavaliere l’altro giorno al termine della seduta alla Camera in cui ha chiesto e ottenuto la fiducia – “che compleanno di m...” – testimonia non solo che le cose stanno così, ma anche che lui è il primo ad esserne consapevole. In terzo luogo, non bisogna sottovalutare gli automatismi
Visti i modi e i contenuti degli attacchi nella maggioranza, ormai è difficile fermare il massacro che la guerra per bande che ha caratterizzato la vita politica in questi ultimi tempi ha innescato. A proposito di emme, la storia insegna che quando si aziona il ventilatore con l’idea di essere capaci di pilotarne l’orientamento, poi finisce sempre con lo sporcarsi tutti, a cominciare da quelli che si erano illusi di
essere padroni del gioco. Quindi, visti i modi e i contenuti degli attacchi incrociati fin qui consumati, anche volendo è assai improbabile che si possa magicamente fermare il massacro. Allora, se tutto congiura perché ben presto si formalizzi quella crisi di governo che ormai è nei fatti da mesi, cosa può succedere non dico di utile, ma quantomeno che possa arrecare il minor danno possibile al Paese?
Il suggerimento che l’amico Stefano Folli ha lanciato – «le opposizioni si preparino all’unità nazionale» – mi sembra l’unica saggia che in questa difficile congiuntura si possa immaginare. Si tratta però di declinare bene questa affermazione. Io ho due modesti suggerimenti da dare. Il primo riguarda la legge elettorale. Casini prenda l’iniziativa di sottoporre a tutte le forze di buona volontà una proposta intorno a cui raccogliere il consenso di tutti coloro che, esponenti del Pdl compresi, sono dell’idea che le prossime elezioni devono tenersi con una legge elettorale diversa dall’attuale, che finalmente consenta ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti e al sistema politico di riarticolarsi su basi più serie e solide di quelle del bipolarismo malato che ha caratterizzato la Seconda Repubblica. Dico Casini e l’Udc non solo perché hanno metabolizzato la scelta di una legge alla tedesca, che non solo è quella che serve ma appare anche l’unica in grado di far coagulare il più vasto consenso possibile. Che poi ci voglia un nuovo governo per far camminare questa ipotesi, o che la Lega e Fini se la sentano di fare una scelta parlamentare anche in vigenza del governo Berlusconi, questa è cosa che si vedrà. Ma è necessario prendere l’iniziativa, farlo alla luce del sole e con grande acume politico. Il secondo suggerimento è di natura programmatica. Che sia per un governo alternativo a questo in corso di legislatura o che sia per chi verrà dopo il voto, comunque il Paese ha bisogno di un progetto di respiro. Dunque anche qui si prenda l’iniziativa di mettere intorno ad un tavolo tutti coloro che sono interessati a dare una base programmatica seria a quella soluzione politica che Folli ha definito «un governo di responsabilità per evitare rischi di brutte avventure». Nell’uno come nell’altro caso, prima si comincia meglio è. (www.enricocisnetto)
celerazione del quadro politico. Solo a quel punto, vista la posta in gioco, si cercherebbe la quadra». Più omogenee come si diceva le posizioni al centro. Pierluigi Mantini ricorda come l’Udc abbia proposto da tempo una legge sul modello tedesco che potrebbe essere un punto di mediazione accettabile. Un altro possibile compromesso potrebbe essere trovato – secondo l’esponente dell’Udc – sulla semplice eliminazione del premio di maggioranza dall’attuale legge elettorale o sul ritorno al Mattarellum. Nei prossimi giorni Mantini presenterà una proposta di legge che chiede l’abolizione del premio di maggioranza dalla legge del 2005.
Da parte sua Alleanza per l’Italia ha presentato sia alla Camera che al Senato un testo che è sostanzalmente il modello tedesco che mantiene la sempilificazione con la soglia si sbarramento. «Un modello – secondo Linda Lanzillotta – che mette gli ammortizzatori al bipolarismo e soprattutto elimina questo sistema bicefalo con meccanismi incompatibili. Del resto nella stessa Gran Bretagna conservatori e liberali hanno fatto alleanza, e ragionano sulla sfiducia costruttiva. È ormai evidente ovunque che uno schema bipolare rischia di schiacciare i poli verso le estreme». Una consapevolezza che a Lanzillotta viene anche dal fallimento dei due grandi partiti italiani che avrebbero dovuto esercitare l’egemonia sui due poli. Cosa che non è accaduta. «Insieme ai progetti del Pd, a cui avevo creduto e aderito, e del Pdl in Italia è fallito il bipolarismo. Affondato anche da una legge elettorale tra le peggiori in circolazione. Peggiore persino del pessimo Mattarellum un sistema elettorale che già costringeva alle ammucchiate tipo Ulivo ma che almeno lasciava al parlamento qualche prerogativa». Lanzillotta è ottimista anche sulla convergenza dei finiani. «Per far salvo il principio di trasparenza del voto a cui Fini tiene si potrebbe introdurre, parallelamente all’ordinamento tedesco, la sfiducia costruttiva. E questo renderebbe più coerente col modello dell’elezione di governo il rapporto con gli elettori». Certo è, ammette Lanzillotta che «Se il presidente della Repubblica si trovasse di fronte a una crisi di questo governo il presidente dovrebbe prendere atto che esiste una maggioranza già concorde su un solo e operativo modello di riforma da attuare in un governo di scopo. Ed è su questo perciò che dovrebbe fondarsi il patto di coalizione. Sta al Partito democratico il compito – conclude Lanzillotta – di trovare una convergenza sulla legge elettorale per sbloccare la paralisi in cui ci ha portato lo schema maggioritario».
diario
pagina 6 • 2 ottobre 2010
Primi passi. Posizioni comuni anche con il ministro Frattini, che assicura: «Nessun allarme specifico per l’Italia da al Qaeda»
L’internazionale dei moderati
Casini, Fini e Rutelli al convegno sulla sicurezza: «Partiamo insieme da qui» di Errico Novi
ROMA. Non è un caso che Gianfranco Fini si appelli alla storia. Agli “aventiniani” del ’24 e alla proclamazione della Repubblica del ’46. Due eventi passati per la Sala della Lupa di Montecitorio, dove si svolge il meeting su“Sicurezza, sviluppo e democrazia” organizzata dall’Alleanza dei democratici, rete internazionale delle formazioni liberaldemocratiche di tutto l’Occidente. Il presidente della Camera fa gli onori di casa, davanti a una straordinaria platea di autorità internazionali. Ma soprattutto si richiama all’«unità» che in Italia come in Europa è stato possibile trovare «anche in una fase turbolenta come questa» sui grandi temi della politica globale. E la suggestione storica vale ancor di più per un altro motivo: perché tra i relatori, oltre alla Terza carica dello Stato, ci sono Francesco Rutelli e Pier Ferdinando Casini, gli altri due leader di quell’area della responsabilità, del nascente “terzo polo” che si affaccia sulla scena politica interna.Tra gli arazzi di una delle sale più ricche di Montecitorio, dunque, si sancisce anche la vicinanza tra le forze moderate, innanzitutto sulle questioni del convegno. Una convergenza che oltretutto non esclude il ministro degli Esteri Franco Frattini, tra i primi a prendere la parola nella parte mattutina del meeting. Il capo della Farnesina coglie l’occasione per escludere «allarmi particolari per l’Italia», dopo che l’intelligence europea ha sventato un piano di al Qaeda per colpire diverse capitali nel Vecchio Continente. Non manca di ricordare, Frattini, l’impegno dell’Italia in Afghanistan, che non ha mancato di produrre una azione diplomatica su Teheran, attore non prescindibile in quell’area di crisi.Tutte scelte di politica estera ampiamente condivise anche all’esterno dell’attuale maggioranza di governo, come ricorda Casini: «Abbiamo votato per le missioni dei nostri soldati in Afghanistan, e lo abbiamo fatto proprio in nome delle tre parole chiave di questo con-
Esteri e attuale vertice del Consiglio di sicurezza afghano Rangeen Dafdar Spanta, l’ex Capo di Stato maggiore israeliano Dani Haloutz, con il co-presidente del Partito democratico François Bayrou che chiude il convegno in serata. Non a caso, giacché Bayrou è da anni considerato da Rutelli un interlocutore politico privilegiato. Il leader dell’Api, con Gianni Vernetti, è il promotore del meeting e nel suo intervento riassume la tesi di partenza: «Sicurezza e sviluppo sono pre-condizioni irrinunciabili per costruire la democrazia. E a sua volta la crescita di un Paese si realizza proprio attraverso la convergenza di democrazia e libertà economiche. Se è dunque dalla sicurezza che bisogna partire, va ricordato che questa non è una concessione della volontà divina, ma va conquistata con i necessari strumenti. E proprio sulla necessità di questi strumenti», tiene a dire il leader di Alleanza per l’Italia, «con il presidente Fini e il presidente Casini abbiamo sempre dato il nostro contributo, compiuto insieme gli sforzi e preso gli impegni che andavano assunti». sul ruolo dell’Italia e dell’Europa nelle strategie per la sicurezza internazionale la vicinanza riguarda anche il governo e le componenti moderate del Pd, rappresentate nel corso del dibattito, oltre che da Fassino, anche da Enzo Bianco. «Sulle scelte fondamentali c’è convergenza co le idee esposte da Frattini», dice dopo il primo round di interventi Gianni Vernetti, deputato di Alleanza per l’Italia e coordinatore dell’Alvegno», dice il leader dell’Udc, «ed è grazie alle grandi questioni internazionali che anche in Italia siamo riusciti a volare alto, a liberarci dalla cappa pesante in cui da noi spesso siamo avvolti. Non è un caso che qui ci accorgiamo di condividere le posizioni del ministro Frattini: vale per me, per Rutelli che ci invita a discutere di alta politica, per Fassino. Sulla politica estera dunque ci accorgiamo di essere tutti uniti».
Non si registra solo l’assonanza di toni tra i leader dell’area della responsabilità, ma si riafferma una volta di più che
mi. E in particolare sulla politica estera», aggiunge il parlamentare, «si lavora insieme per mettere a punto strategie sui grandi temi della sicurezza, senza mai prescindere dalla definizione delle azioni concrete». E certo, conviene Vernetti, «una giornata del genere rappresenta anche l’auspicio perché in Italia il tono del confronto possa innalzarsi. Di sicuro le riflessioni svolte qui costituiscono una piattaforma importante per
Meeting organizzato dall’Alliance of Democrats di cui fa parte l’Api: «Nasce qui la piattafoma del terzo polo sulla politica estera», dice Vernetti leanza dei democratici. «Il meeting di oggi è uno di quegli eventi che danno senso alla nostra rete, un network, va ricordato, non solo europeo, che comprende anche i democratici americani, i giapponesi. È una formula decisamente più efficace rispetto a quella delle vecchie “internazionali”, in cui ci si ritrova non per mera appartenenza ideologica ma per l’effettiva consonanza dei program-
la politica estera del nuovo polo moderato che stiamo costruendo in Italia. Con Casini e Fini registriamo ancora una volta convergenze importanti».
Sul palco dei relatori si alternano attori di primo piano dei Paesi coinvolti nelle aree più calde dello scacchiere internazionale: il presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani, l’ex ministro degli
Soprattutto negli interventi dei relatori italiani, a cominciare da Frattini, ricorre spesso il tema della libertà religiosa e dei conflitti che impropriamente, in nome della religione dividono il pianeta. «Teniamo sempre presente l’insegnamento di Giovanni Paolo II: ogni religione ha i suoi fanatici, ma nessuna guerra si può fare in nome di Dio», ricorda Casini, «e una simile cruciale affermazione va sostenuta anche da uno sforzo di realismo rispetto alla democrazia effettivamente realizzabile in molti Paesi: visto che Il Parlamento è sempre e in ogni Stato la massima espressione della democrazia, bisogna anche lavorare per individuare standard parlamentari compatibili con culture diverse dalla nostra». È un’impostazione del tutto simile a quella suggerita da Fini, che ricorda come la democrazia possa nascere a condizione di «rispettare le identità e la specificità di altre culture. Non è pensabile l’instaurazione della democrazia se non attraverso il suo consolidamento nella coscienza dei popoli».
diario
2 ottobre 2010 • pagina 7
In 4.000 ieri a Roma. Cremaschi: «Ultima chiamata all’esecutivo»
In agosto il tasso è sceso dall’8,4 all’8,2%
Fincantieri, sindacati: «Subito tavolo col governo»
Disoccupazione in calo: la prima volta dal 2009
ROMA. Il tempo è scaduto, il governo deve mantenere gli impegni presi e aprire immediatamente un tavolo a Palazzo Chigi sulla cantieristica per rilanciare il settore e scongiurare il rischio di tagli all’occupazione e la chiusura di siti. È questa “l’ultima chiamata” all’esecutivo che è arrivata ieri dalla manifestazione nazionale indetta, unitariamente, da Fiom, Fim e Uilm, che ha visto sfilare per le vie di Roma, oltre 4mila lavoratori provenienti da tutti gli stabilimenti del gruppo Fincantieri. Una iniziativa di protesta, che ha coinciso con lo sciopero nazionale al quale ha aderito, secondo i dati diffusi dalle organizzazioni sindacali, il 100 per cento dei lavoratori.
ROMA. Per la prima volta dall’i-
Aggressione a Belpietro, sparatoria con la scorta Agguato di un uomo armato e travestito da finanziere
nizio della crisi, la disoccupazione è in calo in Italia. Il tasso di agosto è sceso all’8,2%: meno 0,2 punti percentuali rispetto a luglio e giugno. È il livello più basso da settembre 2009, rileva l’Istat nelle stime provvisorie. In particolare il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) sempre ad agosto è sceso al 25,9% rispetto al 26,7% del mese precedente. Si tratta di un «livello che rimane elevato», ma comunque segna il quarto calo consecutivo su base congiunturale. Nello stesso mese estivo il tasso di inattività femminile ha raggiunto il 49,2% (0,2% in più rispetto a luglio e 0,4 punti percentuali in più ri-
di Gaia Miani
Con la manifestazione di ieri nella Capitale, i sindacati sono dunque tornati a bussare con forza alla porta del governo. C’è sì una convocazione per l’11 ottobre prossimo al ministero per lo Sviluppo economico, ma il rischio che l’incontro si risolva in un nulla di fatto è alto. «Stiamo stufi - ha sottolineato ieri il responsabile della cantieristica della Fiom, Giorgio Cremaschi, chiudendo la manifestazione a Piazza Santi Apostoli - con persone al ministero dello Sviluppo Economi-
ROMA. Nottata con brivido per il direttore del quotidiano Libero Maurizio Belpietro. Un uomo armato di pistola, la scorsa notte, si è introdotto nel suo condominio milanese per poi essere costretto alla figa dalla scorta del giornalista, che ha sparato tre colpi in aria. Belpietro era appena tornato nel suo appartamento, poco dopo le 22, e aveva salutato l’agente che lo accompagnava. Il capo della scorta del giornalista ha raccontato di aver notato l’aggressore sulle scale, tra il quarto e il quinto piano mentre scendeva per andare a casa, e si è insospettito. L’aggressore, stando sempre al racconto della scorta, ha puntato la pistola contro il poliziotto, ma non ha premuto il grilletto (o forse l’arma si è inceppata). L’agente a quel punto ha esploso almeno due colpi in aria per intimidirlo, e dopo qualche secondo ha fatto fuoco una terza volta. L’aggressore, che non è ancora stato identificato e catturato, sentendo gli spari è riuscito a fuggire. «Sono una persona tranquilla, un freddo, non mi faccio prendere dall’agitazione. Ho pensato solo alle persone care. Sono amareggiato soprattutto perché prevale un senso di ingiustizia. E mi domando perché da tempo in questo paese non sia normale che si possa esprimere le proprie opinioni senza essere privato della libertà ed essere aggredito». Belpietro ha commentato così la brutta esperienza, intervendo alla trasmissione Mattino 5.
scale. Tra l’altro l’aggressore, mi ha riferito l’agente, indossava una camicia della Guardia di finanza. Probabilamente l’uomo avrebbe suonato alla mia porta poco dopo che l’agente se ne era andato. E se anche io avessi guardato dallo spiocino, cosa che non ho fatto perché avrei pensato fosse di nuovo la scorta, avrei comunque aperto la porta dato che avrei visto la divisa».
«In casa c’erano mia moglie, i miei suoceri - ha concluso il direttore - e le mie figlie che dormivano e non si sono accorte di nulla». Belpietro ha poi ricordato che «a gennaio scorso un uomo ha cercato di introdursi, spacciandosi per un’altra persona, a Libero ma la scorta lo fermò e lo portò in questura dove confessò che voleva picchiarmi». Dopo l’agguato, mentre è stata rinforzata la vigilanza e la scorta (raddoppiati i poliziotti da 2 a 4 ), alla questura di Milano si lavora all’identikit dell’aggressore. Ad assicurarlo è lo stesso questore Vincenzo Indolfi durante la conferenza stampa. Dal mondo politico, inatnto, sono arrivati moltepli messaggi di solidarietà bipartisan. Nella maggior parte viene espressa preoccupazione per il clima di odio nel paese. Il ministro Alfano ha parlato a lungo telefonicamente con il giornalista auspicando che al più presto si possa fare luce sull’accaduto. Da parte sua, il ministro Maroni ha sottolineato che episodi come quello vissuto da Belpietro sono «purtroppo anche suscitati da certe affermazioni e da certi attacchi personali, che non devono avere spazio nel dibattito e nel confronto democratico. Il rispetto delle opinioni altrui è un principio fondamentale che troppo spesso viene dimenticato da chi pensa che per la lotta politica sia utilizzabile la violenza». Il cdr di Libero nell’esprimere solodarietà al loro direttore ha scritto: «Risulta difficile pensare, come di certo qualcuno farà, al gesto isolato di un folle. Quanto successo sembra piuttosto il frutto maturo di una ideologia di violenza e di odio che mette nel mirino chiunque provi a distaccarsi da un’idea dominante e precostituita di verità e giustizia».
Il malvivente è riuscito a scappare subito. Il direttore di “Libero” si dice amareggiato. Solidarietà dai ministri Alfano e Maroni
co che si limitano a dire quello che hanno fatto e che non possono fare perché non hanno la responsabilità di decidere». Quella di oggi (ieri, ndr), ha detto il sindacalista, è davvero «l’ultima chiamata al governo: non c’è alternativa all’apertura di un tavolo a Palazzo Chigi perché così non si può andare avanti. Non si può pensare che mentre loro chiacchierano, ci sono persone che perdono il posto di lavoro». «Hanno tentato - ha concluso Giorgio Cremaschi - di mettere i cantieri l’uno contro l’altro. Ma non ci sono riusciti e non ci divideranno perché questa è la lotta di tutti i lavoratori di Fincantieri contro la chiusura dei siti. E noi l’impediremo».
«Quando sono tornato intorno alle 23 a casa - ha spiegato il direttore di Libero - dopo aver chiuso il giornale, sono salito con l’ascensore al mio appartamento insieme all’agente di scorta: io sono sotto scorta da 8 anni. Sono entrato in casa e ho fatto appena in tempo a chiudere la porta alle mie spalle che ho sentito tre colpi di pistola. Ho cercato quindi di chiamare la scorta, e mi è stato detto di non aprire la porta e di non uscire». L’agente «era ancora sul pianerottolo dell’appartamento quando si è trovato davanti un uomo armato che senza dire nulla ha puntato la pistola e ha sparato. L’arma si è inceppata ha continuato Belpietro - e l’agente ha reagito aprendo il fuoco mentre l’uomo fuggiva per le
spetto ad agosto 2009), ovvero quasi una donna su due tra i 15 e i 64 anni non ha un lavoro né lo sta cercando. Il tasso di occupazione è pari al 56,9%, invariato rispetto a luglio e con una riduzione di 0,5 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il numero delle persone in cerca di occupazione diminuisce del 2,4% rispetto a luglio, risultando in aumento del 3,6% rispetto ad agosto 2009. In base a dati destagionalizzati e a stime provvisorie, il tasso di disoccupazione registra un calo di 0,2 punti rispetto all’8,4% di luglio, mentre rispetto ad agosto 2009 registra un aumento di 0,3 punti percentuali.
I tecnici dell’Istat spiegano come «il fenomeno principale che emerge è un’attenuazione del deterioramento del mercato del lavoro». La flessione del tasso di disoccupazione, precisano, è favorita da due fattori «l’aumento dell’occupazione femminile e il contemporaneo incremento dell’inattività sempre femminile». L’Istat aggiunge nelle stime provvisorie che ad agosto 2010 l’occupazione maschile registra una diminuzione rispetto al mese precedente dello 0,2% e dello 0,9% rispetto al corrispondente mese dell’anno precedente.
società
pagina 8 • 2 ottobre 2010
In prima linea. Le opinioni di Carlo Costalli (Movimento cristiano dei lavoratori), Franco Miano (Azione cattolica), Andrea Olivero (Acli) e Raffaello Vignali
La riserva cattolica Al richiamo di Bagnasco i cristiani in politica replicano che sono pochi, non poco impegnati di Francesco De Felice
ROMA. Benedetto XVI li ha richiamati più volte a farsi classe dirigente e a operare per far «sorgere una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile». E da Palermo, a ventiquattr’ore dall’invito di Angelo Bagnasco a «buttarsi nell’agone politico», il mondo dell’associazionismo cattolico ha risposto presente. Nella settimana che ha preceduto la visita del Papa nel capoluogo siciliano di domenica 3 ottobre, i fondatori del Forum delle persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro (Acli, Movimento cristiano dei Lavoratori, Compagnia delle Opere, Confartigianato, Confcooperative e Cisl) si sono dati appuntamento anche in video conferenza con altri tre capoluoghi di provincia: Napoli, Bari, Reggio Calabria.
Per Andrea Olivero, presidente delle Acli, l’appuntamento palermitano va inteso come «una risposta e un segnale di un rinnovato impegno all’invito a fare di più e meglio che ci viene dal cardinale Bagnasco». Il Forum chiede all’associazionismo cattolico, agli intellettuali e alle personalità del mondo imprenditoriale e universitario e della comunicazione, ai politici che, si riconoscono nei valori della Dottrina sociale della Chiesa, di impegnare i propri comportamenti su cinque punti programmatici: rendere trasparente l’azione delle istituzioni; bloccare il clientelismo dilagante nel pubblico impiego; promuovere programmi di educazione alla legalità e di rispetto delle regole; fermare il sottoutilizzo dei giovani e delle donne del Sud e promuovere iniziative di contrasto alla povertà dilagante nelle famiglie. E proprio da Palermo Olivero ha detto: «Occorre respingere la logica dell’emergenza. Ci vuole ordinario buon governo, legalità e competenza. Basta fondi straordinari per la gestione ordinaria, che “precarizzano”e mortificano il Sud. Straordinario, piuttosto, deve essere l’impegno della classe dirigente e della società civile, di noi cat-
Mariano Crociata chiude la conferenza della Cei
«Faremo crescere i nuovi politici» ROMA. «I vescovi italiani hanno deciso di avviare un percorso per accompagnare la crescita, la coscienza e la formazione in senso lato dei laici cattolici, in vista della possibilita di un coinvolgimento da parte di singole persone in impegno politico concreto»: è questo l’impegno che ha preso monsignor Crociata, segretario della Cei, chiudendo la Conferenza episcopale permanente. Del resto, «i propositi e gli impegni» manifestati negli ultimi giorni dal governo durante la verifica in Parlamento sono «certamente apprezzati», ma devo diventare «impegni operativi nei confronti delle esigenze concrete della gente». I vescovi, ha spiegato monsignor Crociata, ascoltano «da vicino persone, famiglie, gruppi da cui viene testimoniata la nostra stessa preoccupazione», e quindi raccolgono «le diffuse aspettative della gente verso una gestione della cosa pubblica che sia quotidianamente attenta alle esigenze reali del Paese». Esigenze, ha aggiunto, «che si sono moltiplicate negli ultimi tempi, con l’esplosione di emergenze di veri e propri drammi sociali». Poi, richiamando «l’angustia per la situazione del Paese» espressa cardinale Angelo Bagnasco, nella sua prolusione di lunedì scorso, il segretario dei vescovi ha ricordato che l’interesse della Chiesa è verso il «superamento di questa fase, in un orizzonte di collaborazione, oltre che di preoccupazione per il bene di tutti. La nostra presenza di Chiesa - ha precisato - esprime la volontà di una reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e per la ricerca del bene del Paese, in un rapporto con le istituzioni e con la società intera». Monsignor Crociata ha ricordato
poi che la Cei non ha «competenza a esprimere giudizi sui passaggi politici». Tuttavia, ha aggiunto, sulla spinta delle «attese della gente affinché si operi per affrontare i problemi di ogni giorno, la Chiesa ritirne eche ogni sforzo compiuto in direzione di un impegno duraturo a risolvere questi problemi deve essere sostenuto e incoraggiato». «La nostra funzione - ha aggiunto - è di collaborazione ecclesiale per il bene comune, non quella di interferire nelle dinamiche politiche». Nello specifico, a proposito della riforma federalista i vescovi italiani «hanno sempre espresso un giudizio non negativo» ma invitano a salvaguardare «l’esigenza di unità del paese nel segno della solidarietà».
Infine, accennando al delicato tema degli abusi sessuali compiuti da sacerdoti, Crociata ha ribadito che la Chiesa Italiana segue «in maniera rigorosa e impegnata» le indicazioni del Papa e della Congregazione della Dottrina della Fede, e cioè mette in campo «la massima attenzione alle richieste delle vittime alle quali si deve rispondere con vicinanza e rispetto; un forte impegno nel discernimento vocazionale e nella formazione dei candidati al sacerdozio e alla vita religiosa; l’accertamento tempestivo delle responsabilità; l’allontanamento anche cautelativo di chi sia coinvolto; l’avvio in tempi rapidi del processo canonico e nessun ostacolo ma favore verso i procedimenti civili avviati».
tolici in particolare. Per rilanciare il Mezzogiorno bisogna ripartire da tre valori e questioni fondamentali: l’autonomia nella solidarietà, e dunque la sfida del federalismo solidale; il lavoro dignitoso; la cultura delle regole e della legalità».
Ma l’impegno dei cattolici in politica, secondo Olivero, va considerato sotto un duplice aspetto: «Da un lato sono pochi quelli che effettivamente riescono a mantenere un legame con il Paese e, quindi, ad alimentare quel senso di bene comune che si sta smarrendo. Dall’altro, sono molti coloro che, invece, pur richiamandosi ai valori del mondo cattolico nel concreto non danno delle dimostrazioni convincenti, Quando il Papa ha parlato di nuove generazioni,
non si è riferito soltanto al campo politico, ma ci ha spiegato che non bastano coloro che ci sono: serve ampliare decisamente il numero». Sulla stessa linea anche Carlo Costalli, presidente del Movimento cristiano dei lavoratori, secondo il quale i cattolici impegnati in politica sono «pochi anche se la maggior parte di loro, colpevolmente o meno colpevolmente, hanno poco radicamento con il mondo cattolico e sono distanti dalle esigenze delle persone. L’unica eccezione va fatta per quelli che fanno riferimento a Comunione e Liberazione. Gli altri sono soli e non al comando nei loro partiti, un po’ meno nell’Udc, vista la comune radice cristiana del partito».
Dal versante di Comunione e Liberazione, Raffaello Vignali, deputato del Pdl e per cinque anni presidente della Compagnia delle Opere, la vede in modo diverso. «Le parole del cardinal Bagnasco si riferivano non tanto ai cattolici che in politica ci sono indipendentemente dallo schieramento, ma ai giovani perché pensino alla politica come ambito di impegno. La mia formazione è stata caratterizzata proprio dall’idea
società ritiene che «i cattolici impegnati in politica sono pochi e non penso che siano poco impegnati. È necessaria una crescita di consapevolezza di tutto il mondo cattolico sul carattere decisivo di questa testimonianza e occorre una maggiore attenzione dell’intera comunità. Il cardinale Bagnasco ha voluto sottolineare l’urgenza di questo tempo, chiedendo a tutti un impegno maggiore. Siamo in una lunga fase di transizione che ha bisogno ancora di tanta semina, anche se sono evidenti dei segni positivi».
E proprio sulle prospettive
che la fede c’entra con tutto, politica compresa e l’essere cristiani non significa ritirarsi in un ambito protetto, ma giocare le sfide che la realtà richiede. Bagnasco insiste molto sull’emergenza educativa che ritengo sia il tema che caratterizza di più la sua presidenza della Conferenza episcopale italiana. Personalmente conosco tanti amici che sono in Parlamento che hanno mantenuto i
insiste Costalli: «Ci sono delle persone brave nei vari partiti, ma sono distratti e coinvolti nella continua litigiosità degli schieramenti e lontani dai problemi e dalle aspettative delle persone e delle associazioni. C’è, invece, un popolo cattolico che vuole tornare a contare non soltanto nei partiti, ma nella società civile. L’invito del cardinal Bagnaco a osare di più non è rivolto soltanto alla politica. Nella riunione del Forum a Reggio Calabria abbiamo elaborato un documento nel quale abbiamo dichiarato la nostra vicinanza e il nostro appoggio ai cattolici che già sono in politica». Andrea Olivero però ammette: «Siamo in po’ sfiduciati perché il nostro impegno in ambito pubblico, come per il Family day, immaginavamo potesse essere recepito dalla classe dirigente. E l’invito del cardinal Bagnasco va proprio in questa direzione: quella di costruire dei validi interlocutori che possano interpretare al meglio i valori cattolici. Altrimenti c’è il rischio che le associazioni siano ancora una volta strumentalizzate. E questo a noi non piace. Credo che negli ultimi decenni ci sia stata una grossa cesura nel passaggio dal mondo delle associazioni alla politica che non ha più prodotto personalità come Alcide De Gasperi, don Luigi Sturzo e Aldo Moro. Le scuole di formazione hanno dato pochi risultati, la soluzione potrebbe essere quella di continuare a seguire, sostenere e cri-
L’ex presidente della Compagnia delle Opere, Raffaello Vignali: «Con molti parlamentari cattolici stiamo facendo un buon lavoro. I giovani hanno bisogno di educatori e di esempi» rapporti con le associazioni cattoliche. E con molti stiamo facendo un ottimo lavoro nell’intergruppo parlamentare per la sussidiarietà. Se il mio lavoro politico non nascesse ogni giorno dal vivere l’esperienza cristiana non avrebbe molto senso. Purtroppo ho constato personalmente che la percezione che si ha della politica è assolutamente negativa. Quando ho fatto la scelta di candidarmi qualcuno riteneva che fosse una follia». Il presidente dell’Azione Cattolica, Franco Miano,
ticare quanti dal mondo cattolico approdano alla politica e che rappresentano le associazioni». E Raffaello Vignali sottolinea l’aspetto fondamentale legato alle nuove generazioni cattoliche: «I giovani che hanno voglia di impegnarsi ci sono, ma hanno bisogno di adulti in grado di educarli e che siano un esempio positivo da seguire». E da giovedì 14 ottobre a Reggio Calabria ci saranno altri momenti di confronto e di riflessione per la 46esima Settimana sociale dei cattolici italiani.
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Parla Salvatore Martinez, presidente del Rinnovamento dello Spirito
«Non discutiamo più di numeri, ma di qualità» «L’invito della Chiesa è a impegnarsi a rinnovare la coscienza sociale, sempre più degradata e sopita» di Franco Insardà
ROMA. «Il problema non è se siano pochi i cristiani in politica, ma l’impressione è che siano poco cristiani quelli che ci sono. Da loro si vorrebbe di più e meglio». Il giudizio di Salvatore Martinez, presidente del Rinnovamento nello Spirito Santo, movimento ecclesiale che conta più di duecentomila aderenti, sull’attuale situazione del mondo politico è critico. Presidente, non le sembra di essere troppo duro? La mia ovviamente è una sintesi, direi, giornalistica del mio pensiero che parte dalla prolusione del cardinale Angelo Bagnasco in occasione dell’apertura dei lavori del Consiglio permanente della Cei. Come giudica quel discorso? È un invito a risvegliarsi e a passare dal disimpegno all’impegno. È un inno al realismo cristiano, uno stimolo franco e compassionevole a non rinviare la rimozione dei paradossi sociali che angustiano l’Italia. Un invito a tutti i laici cattolici a non disertare la storia, ma a trasfigurarla guardando in faccia questo nostro mondo con un nuovo e appassionato protagonismo. Appunto, parliamo del richiamo ai cattolici «di buttarsi nell’agone, di investire il loro patrimonio di credibilità, per rendere più credibile tutta la politica». Sono parole puntuali, stringenti e in sintonia con gli appelli che da Cagliari in poi Benedetto XVI ha rivolto ai cattolici. Si tratta di toni in qualche modo ultimativi nei confronti dei laici cristiani a impegnarsi, riformando e rinnovando la coscienza sociale, sempre più degradata e sopita. Allo stesso tempo è un ennesimo monito ai responsabili delle istituzioni civili e politiche a superare egoismi autoreferenziali che continuano a generare confusione, disagi e ingiustizie. La stagione delle riforme e della corresponsabilità sociale devono essere realmente avviate. Oggi invece? C’è un indebolimento della testimonianza e credo che questo faccia i conti più che con gli schieramenti attuali o futuri con la qualità dell’impegno della testimonianza. L’invito che viene dalla Chiesa è quello di stare in politica da cattolici, da credenti, con una laicità cristiana di proposta e non di rinuncia o di assenza. Evitando atteggiamenti minoritari o complessi di inferiorità. Su quali direttrici va indirizzato l’impegno dei cattolici? Vanno reclamati gli spazi che si sono determinati, rispetto ai quali si registra una certa latitanza. Bisogna rimettere a tema l’istanza del bene comune che vuole moralità, socialità dei corpi intermedi, protagonismo delle reti sociali e un’etica delle virtù. Risvegliare e rifor-
mare la coscienza sociale, sempre più degradata, e quella carità politica che i cristiani hanno sempre assicurato al Paese, ancor prima dell’Unità d’Italia. C’è una carità politica, per dirla alla Sturzo, che è esigenza di giustizia e oggi non ci si può più sottrarre di fronte a una società che si propone di vivere al di là del bene e del male. Qual è il vostro contributo? Noi invochiamo intanto un rinnovamento spirituale, perché soltanto un’etica delle virtù riuscirà a dare coraggio e forza laddove sembrerebbe che il cambiamento non sia possibile. Partire dalla società civile significa esprimere atti politici attraverso i quali la gente ritrova il gusto della partecipazione, della responsabilità e il coraggio di osare. L’invito è a un maggiore rigore, come ogni tempo di crisi, impone e nelle parole del cardinal Bagnasco c’è l’appello a non disertare questa stagione, ma a fare dell’impegno socio-politico una missione.
«La vera novità, come registra anche il presidente della Cei, sono i corpi intermedi che iniziano a ridestarsi con le reti e la sussidiarietà orizzontale»
Una sfida difficile. Da parte del Papa e del cardinal Bagnasco c’è l’invito a stare in politica da cattolici con una laicità cristiana evidente di proposta. La vera novità, come registra il presidente della Cei, sono i corpi intermedi che cominciano a ridestarsi con le reti e la sussidiarietà orizzontale. L’associazionismo rappresenta una speranza per superare le divisioni? Il cardinale Bagnasco esorta a riprendere la parola per diffondere la forza umanizzante del Vangelo e per affermare il valore profetico delle ricchezze proprie dei corpi intermedi, così da poter superare i divari e i disagi che vanno accentuandosi tra Nord e Sud e assumere una visione nuova e più fraterna dinanzi alle povertà emergenti. Un compito abbastanza difficile. Non c’è soltanto la rappresentanza politica e i partiti che fanno la storia di un Paese, ma esiste anche una vitalità, una ricchezza che ancora va espressa, raccontata e che tiene in piedi il nostro stato sociale.
economia
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Top manager. Il nuovo amministratore di Unicredit parla alla stampa MILANO. «La fiducia è tanta e ho fiducia che raggiungeremo gli obiettivi che ci siamo posti»: con queste parole il nuovo amministratore delegato di Unicredit federico Ghizzoni si è presentato alla stampa italiana all’indomani della sua nomina. «Confermiamo la forte presenza nel mercato italiano e nei 22 Paesi in cui siamo», ha aggiunto il numero uno parlando delle strategie del gruppo di Piazza Cordusio. «Presenteremo entro fine anno un business plan al Cda e poi decideremo se e quando presentarlo al mercato», ha annunciato. Quanto a pressioni esterne alla banca il neo amministratore delegato ha detto: «Il discorso delle interferenze politiche sul riassetto di UniCredit non esiste. Il nostro mandato è di lavorare giorno per giorno per far crescere la banca, solo quello”. Ghizzoni ha tagliato corto anche rispetto alle polemiche sui soci libici: ”Non interferiscono nelle politiche del gruppo”, ha assicurato.
Ghizzoni, debutto da equilibrista «Radicati ma indipendenti. Forti in Italia ma anche all’estero»: l’ad si presenta di Andrea Ottieri
canalità: in Paesi come la Russia, di dimensioni enormi, non ha senso puntare sulla crescita degli sportelli, bisogna trovare altri modi per raggiungere i clienti». Sempre sulle strategie del gruppo, Ghizzoni ha aggiunto: «Ci concentreremo su Paesi in cui abbiamo posizioni leader come la Polonia, Turchia, Russia e, in Centro Europa, la Repubblica Ceca». D’altro canto, dove «non siamo universal bank ma tra le tre o quattro banche maggiori cercheremo una leadership in termini di business».
Quanto agli equilibri interni, Ghizzoni ha detto: «Cercheremo di accelerare sulla nomina del direttore generale. Non abbiamo ancora deciso se uno o due. Sarà una questione di giorni non di settimane». Ma su questo delicatissimo tema (la ricomposizione degli equilibri tra anima tedesca e anima triveneta di Unicredit passa di qui) il presidente Dieter Rampl ha spiegato che «Non è ancora stato convocato un
Insomma, la presentazione è «equidistante»: Ghizzoni conosce bene, ovviamente, le tensioni incrociate che hanno portato al licenziamento di Profumo e alla sua nomina. Quindi, molti sorrisi e tanta buona educazione. Per esempio, Ghizzoni si è definito ”fortunato” per il nuovo incarico che gli è stato assegnato dal cda: «Per me è un grande onore e una grande responsabilità. Lavoro in Unicredit da più di trent’anni, le sfide che abbiamo davanti sono importanti ma posso contare su un gruppo forte. La fiducia è tanta», ha ribadito. «Saremo più selettivi - ha proseguito - nell’erogazione del capitale e nel definire le strategie, ma non abbandoneremo questo modello che è stato un modello di successo». Ed ecco un colpo alla botte leghista, dal momento che il Carroccio da sempre accusava Profumo di non favorire abbastanze le realtà del Nordest nella concessione di prestiti e sostegni. Ma Ghizzoni è anche l’uomo dell’Est, ossia quello che negli ultimi anni ha segnato lo sviluppo di Unicredit verso l’est europeo. E dunque ieri ha promesso massima attenzione alla clientela, e forte presenza tanto nel mercato italiano quanto in quello internazionale. Saranno queste le sue linee guida: «L’intenzione ha spiegato il top manager è continuare a crescere e consolidare la nostra presenza nel Centro-Est Europa. Un’area molto importante per noi perchè è destinata a
«Per quanto mi riguarda, la Libia ha investito nel Gruppo perché crede nella nostra politica»
L’addio di Profumo: «Siate autonomi» MILANO. Nel giorno dell’insediamento di Ghizzoni, l’ex ad Alessandro Profumo ha scritto una lettera d’addio ai suoi collaboratori: «Care colleghe e cari colleghi, ora che le intense emozioni di questi giorni sono alle spalle, sento il bisogno di scrivere a voi, donne e uomini di Unicredit che ancora oggi mi viene spontaneo chiamare colleghi, per ringraziarvi e parlarvi del futuro. Senza il contributo di voi tutti non avrei mai potuto vivere questi anni meravigliosi, che hanno trasformato una serie di banche, nazionali e locali, in un grande gruppo, riconosciuto come uno dei migliori nel sistema bancario europeo. Per me il regalo più grande sarà sapere che Unicredit continua a lavorare e a crescere sulla base dei nostri valori, primo tra tutti quello del lavoro, della sua autonomia e della sua dignità. Sono certo che saprete tutelare l’indipendenza di Unicredit».
Il nuovo amministratore di Unicredt Federico Ghizzoni. Sotto, la sede milanese del Gruppo in Piazza Cordusio crescere più che l’Europa occidentale». Per questo, ha insistito Ghizzoni, «c’è la forte determinazione a mantenere la nostra leadership in quest’area». Tant’è che «Vienna rimane la sede del Centro ed
Est Europa». D’altra parte, «non ci sono acquisizioni in discussione», anche perché «non sono l’unica via per crescere», ha precisato. Piuttosto, ha spiegato che il gruppo svilupperà «molto la multi-
cda». Altro tema scottante, la Libia. «Per quanto mi riguarda, la Libia è un investitore nel Gruppo Unicredit perché crede nel gruppo», ha sottolineato Ghizzoni, replicando a chi gli chiedeva del ruolo dei libici nel capitale di Unicredit. Ghizzoni ha ricordato il sostegno arrivato dai libici nei momenti difficili della crisi ed ha ricordato che si tratta di «un investitore di lungo termine e che non interferisce nelle politiche del gruppo». E i rapporti con l’ad uscente Alessandro Profumo? «C’era un accordo reciproco, lo stesso Profumo ha detto che dopo 15 anni era giunto il momento di separare le nostre strade», ha detto subito Dieter Rampl. «Ora ha aggiunto - è il momento di Ghizzoni, non voglio parlare più del passato». Rampl ha inoltre spiegato che la decisione di convocare un consiglio straordinario per discutere dell’uscita di Profumo, è stata presa per ”evitare fughe di notizie. La cosa migliore era evitarle». Quanto a Ghizzoni, ha assicurato che il suo predecessore è la prima persona che ha chiamato, subito dopo la nomina ad amministratore delegato: «Era molto contento», ha aggiunto.
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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Esce nelle sale “La pecora nera”
MATTI DA SLEGARE
di Anselma Dell’Olio a pecora nera di e con il romano Ascanio Celestini, uno dei quattro film itaaver visto La pecora nera, però, per pensare che forse i selezionatori abbiano semliani nel concorso principale della Mostra di Venezia, ha sollevato poplicemente voluto dare spazio a un esordiente originale nel panorama italiaIn concorso lemiche sin dall’inizio. Primo, perché ha sbalzato dalla rassegna no, ma è anche vero che il regista bolognese non sarà mai accarezzato da il film di Pupi Avati, Una sconfinata giovinezza, che esce fra un ambiente rocciosamente ateo e de sinistra. Celestini, nato nel a Venezia, ha pochi giorni, e ognuno potrà giudicare se Marco Mueller, diret1972, è noto per i suoi spettacoli teatrali su temi sociali, e per suscitato polemiche fin tore della Mostra, ha scelto bene; in secondo luogo perché due documentari, uno sui precari dei call center, Parole dall’inizio il film di Ascanio Celestini a qualcuno è parsa una scelta politica di parte. Avasante, e uno sui lavoratori notturni, Senza paura, inti è un cattolico praticante e a suo tempo demodubbiamente «impegnati». Più noto per l’attività che ha sbalzato dalla rassegna quello di Pupi cristiano, marchi d’infamia tra i cineasti, e ha fatisul palcoscenico, l’autore col pizzetto appartiene Avati. Non è un’opera di denuncia, ma cato per essere accettato e accreditato appieno dalla alla seconda generazione del teatro di narrazione (l’arpiuttosto un’evocazione poetica congrega progressisti-o-morte della cinematografia italiana. tista più noto della prima è Marco Paolini). Sono spettacoli (Quando debuttò La seconda notte di nozze al Lido, che meritain cui l’attore-autore domina la scena con la sua sola presenza, dedicata ai reietti senza calarsi in un personaggio unico; affabula, invece, in monologhi va di vincere il Leone d’oro, un influente giornalista del settore, nel tidella società incantatori che stabiliscono un forte rapporto con il pubblico: scenografie e mor-panico che il suo giudizio non fosse «potabile», chiedeva ai colleghi con attrezzi sono inesistenti o ridotti al minimo. risatina imbarazzata: «Ma posso dire che mi è piaciuto un film di Avati?»). Basta
L
Parola chiave Esistenza di Franco Ricordi Cordelli e il tempo: un corpo a corpo di Maria Pia Ammirati
NELLA PAGINA DI POESIA
Delio Tessa nell’eden del dialetto di Francesco Napoli
La guerra fredda di Palma Bucarelli di Mauro Canali Pirandello messo a nudo di Pier Mario Fasanotti
Il Rinascimento tra Veneto e Friuli di Marco Vallora
matti da
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ne scopriamo perché). La Suora, arrivata nell’enorme negozio, stende un fazzoletto sulla sedia vicino alla cassa e tira fuori il rosario, dopo aver consegnato la lista della spesa al paziente. I dialoghi tra i due Nicola - uno modello, l’altro più bizzarro - consistono nel più matto che vuole comprarsi tutto («tanto qui sotto ci sono magazzini pieni di cose. Appena ne togli una, viene subito sostituita»). Le avventure e la logica del megastore sono messe in relazione con la stralunata «sensatezza» dei matti dell’istituto; l’ipermercato è peggio, o almeno non meglio (secondo l’autore) dell’inutile, superfluo, eccessivo, becero consumismo di massa, con i suoi infiniti prodotti uguali di marche e sottomarche diverse assiepati sugli scaffali. Non è così differente, sembra dire Celestini, dalle pile di vestiti usati nei sacchi di plastica accatastati nella cameretta di Nicola, con mucchi di carta igienica dappertutto - solo più ordinato. «Prendi», gli dice la Suora, offrendogli rotoli su rotoli, mentre noi siamo tenuti a inorridirci per la sua tremenda meschinità: «Non è quella dei malati, è quella che uso io». Però è divertente la battuta di Nicola 2: «Budda è una sottomarca di Dio».
Il teatro di narrazione è antico (il cantastorie) e anche modernissimo, perché corrisponde alle esigenze di un teatro in crisi da decenni, che per sopravvivere deve costare poco. Le opere precedenti di Celestini sono state trasmesse in tv, e l’artista collabora con Parla con me di Serena Dandini, su Rai tre. Ha vinto molti premi (Ubu, Associazione Critici Italiani, Histryo, Bagutta, Vittorio Gassman, Golden Graal, Satira Politica, Fescennino d’oro, Campidoglio, premio Volponi e altri) e a Venezia si è aggiudicato il premio Mimmo Rotella, che va al film «che più s’avvicina alle arti figurative», per il suo debutto nel cinema narrativo. La pecora nera nasce come spettacolo di narrazione sui manicomi, poi trasformato in libro e dvd. Celestini ha condotto una lunga ricerca sul tema, con visite in vari ospedali psichiatrici italiani e interviste con pazienti ed ex infermieri. Ha elaborato il materiale raccolto in un monologo teatrale, portato a lungo in giro per l’Italia, che racconta i malati mentali, le loro fissazioni, ubbie e sogni, la quotidianità, prima della legge Basaglia del 1978. Il film è sceneggiato; ci sono attori che recitano i vari personaggi, la scenografia è realistica, l’autore ha il ruolo di Nicola adulto, e Luigi Fedele è Nicola bambino, «nato nei favolosi anni Sessanta». Incontriamo Nicola da grande con la sua ombra, Nicola 2 (un bravissimo Giorgio Tirabassi) sul tetto dell’istituto, mentre guardano il paesaggio. Qui non siamo dalle parti della Fossa dei Serpenti di Anatole Litvak (1948) o di uno dei tanti film di denuncia sull’orrore delle condizioni in cui vivevano i pazienti psichiatrici, tenuti spesso in luoghi degradati di indicibile sporcizia e abbandono, anche perché sono chiusi da più di trent’anni. È piuttosto quella di Celestini un’evocazione poetica che invita ad apprezzare l’umanità palpabile, fantasiosa e turbata di reietti della società, che sognano e vogliono amore, come tutti.
Si diceva che all’inizio del film i due Nicola guardano il panorama; una voce narrante che accompagna gli eventi, quella di Nicola adulto, racconta la barzelletta dei matti che decidono di darsi alla fuga, saltando i cento cancelli che sbarrano la strada tra loro e la libertà. (Gli istituti psichiatrici, dice Nicola, sono irti di cancelli su cancelli: si apre il primo che poi viene chiuso a chiave, prima di aprire il successivo, e così via). Arrivano al novantesimo cancello e i fuggitivi si stancano. «Torniamo indietro - dice uno - finiamo di saltarli domani». Nicola ha passato trentacinque anni nell’istituto, ma fin quasi alla fine vediamo una persona dolce, remissiva e piuttosto normale. Sembra un essere come tanti anche nei flashback che raccontano la sua infanzia, funestata da una madre con la testa rapata e talmente malridotta da infiniti elettroshock, che è sempre coricata tra le lenzuola («cinesi sudari di fabbricazione industriale»), medicata e, quando la incontriamo, pronta per una lobotomìa. La Suora (una perfetta Luisa De Santis) assicura il piccolo che ora «non c’è più bisogno di tagliare il cranio per recidere i centri nervosi, si entra direttamente dagli occhi. Il professore che ha inventato l’intervento ha avuto il Nobel». Nicola cresce a casa della Nonna (una superba, totalmente credibile Barbara Valmorin). «Mia nonna si è sempre vestita da vecchia. La nonna è sempre stata vecchia. Mia nonna è nata vecchia ed è morta vecchia. In mezzo è stata vecchia per tutta la vita». Questo il classico stile incantatorio di Celestini. Nicola adulto accompagna la Suora al supermercato a fare la spesa, portandosi dietro, salvo poche volte, Nicola 2 (solo alla fianno III - numero 35 - pagina II
slegare
LA PECORA NERA GENERE COMMEDIA/DRAMMATICO DURATA 93 MINUTI PRODUZIONE ITALIA 2010 DISTRIBUZIONE BIM DISTRIBUZIONE
REGIA ASCANIO CELESTINI INTERPRETI GIORGIO TIRABASSI, MAYA SANSA, ASCANIO CELESTINI, MAURO MARCHETTI, BARBARA VALMORIN, LUISA DE SANTIS
Negli appunti di lavorazione, il regista scrive dell’ateismo della De Santis («Non ha mai detto una preghiera fino in fondo in vita sua»). Fa il paio con Carlo Mazzacurati, che parlando del suo film La passione, che ruota intorno alla rappresentazione sacra del Venerdì Santo, s’affretta a ripetere nelle interviste «Io sono laico, io sono laico», per fugare ogni dubbio e non essere scambiato per un impresentabile beghino, sinonimo di credente nel suo universo. La Nonna è credente; per lei l’ospedale è «un condominio di santi. I matti sono santi, la suora è santa, e il dottore è il più santo di tutti, è gesùcristo». (Si raccomandano le minuscole e le due parole attaccate).Tutto è ironico, penoso, anche la Nonna che porta le uova delle sue galline a tutti: alla maestra perché non bocci il nipote che disturba la classe e non impara niente, alla Suora perché tratti bene la figlia malata e il nipote, che diventerà inquilino anche lui (solo alla fine capiamo perché), regala uova a tutti per favorire pietà e benevolenza: «Uova fresche che puzzano ancora del culo della gallina», si vanta sempre, scocciando il nipote. Le scene più dure sono quelle con i fratelli grandi di Nicola, che vivono in montagna dove passa l’estate, «non in vacanza ma per aiutarli con le pecore». Sono uomini grevi, ignoranti, bestiali, maneschi. Il padre non è molto meglio, ma gli compra il primo cremino: ma il bambino, furioso perché ne vorrebbe cento di cremini, e sa che il padre non glieli comprerà mai, per rabbia mette il gelato in tasca, dove il cioccolato crea una schifosa macchia marrone. Il padre cerca di pulirlo con erbacce strappate da terra e s’arrabbia quando il piccolo si gratta. «Mi hai pulito con l’ortica» si giustifica Nicolino. Il film forse vuol farci credere che i matti diventano tali per la detenzione coatta e per gli eccessi di elettroshock; ma tra le scariche elettriche e i disagi dell’istituto, e i trattamenti orripilanti di quei parenti da incubo, è difficile scegliere. Il film è fatto bene, le riprese bellissime (di Daniele Ciprì), costumi, scenografie e direzione degli attori pure. Se solo ci fosse un arco narrativo che inchioda alla poltrona per vedere come va a finire (gli elementi ci sarebbero per creare attesa e suspense) non si guarderebbe in continuazione l’orologio, temendo che si sia fermato, poiché il film è di una lentezza esasperante. Al Lido (ma solo in Sala Grande) sette minuti d’applausi.
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ESISTENZA l termine è filosofico ma al contempo assai usuale anche nella vita di tutti i giorni. Ne sia prova il semplice e burocratico certificato di esistenza in vita che spesso ci viene richiesto e che possiamo ritirare a vista nelle nostre circoscrizioni. Certo è strano acquisire il «certificato d’esistenza», e ricordo come un professore all’università affermasse che chi non avesse letto le Confessioni di Sant’Agostino non meritasse tale certificato. Quindi nessuno di noi esisteva… Ma al di là del fatto pratico non si può fare a meno di riferirsi anche a quello che è stato definito inesorabilmente «significato dell’esistenza», la ragion d’essere della nostra vita e di tutto ciò che incontriamo in essa. Tuttavia non possiamo scordare nemmeno il senso più universale del termine, e ricordiamo al proposito le terribili quanto sublimi parole del Gallo silvestre leopardiano: «così questo arcano spaventoso e mirabile dell’esistenza universale, ancor prima di essere dichiarato o inteso, si dileguerà e perderassi». Se infatti la nostra esistenza singola è destinata a finire, è evidente come l’esistenza universale sembri, almeno apparentemente, sopravvivere a noi tutti. Ma il Gallo silvestre non la pensa così; e nella stessa maniera in cui oggi non si parla più di eventi che furono famosissimi in passato, così di questo nostro universo non rimarrà «nemmeno un vestigio; ma un silenzio nudo e una quiete altissima empieranno lo spazio immenso». L’esistenza universale, per il Gallo silvestre, è destinata alla fine.
Il suo significato è la ragion d’essere della nostra vita e di tutto ciò che in essa incontriamo. E se non c’è dubbio che quella singola è destinata a finire, su quella universale sono aperti molti interrogativi...
Ma l’esistenza non è l’essere; infatti quel silenzio nudo rappresenta l’essere al di fuori dell’esistenza. Dobbiamo pertanto pensare come l’esistenza sia l’opposto di quel peculiare silenzio nudo: essa è clamore, movimento, parole, suono, agitazione; tutto ciò che in fin dei conti intendiamo come rumore della storia, per lo meno in contrapposizione a quella «quiete altissima», a quel vuoto. Pertanto, a prescindere dalle dispute medioevali fra essenza ed esistenza, e più vicini alla filosofia che da quel nome ha preso vita nel XX secolo - l’esistenzialismo - siamo portati a pensare nella maniera seguente: l’esistenza si distingue dall’essere in riferimento opposto a quelle due sfingi del pensiero che sono lo spazio e il tempo. L’esistenza è sempre riferita a queste entità, senza le quali essa non può dirsi tale. Senza spazio e tempo non c’è esistenza. E non soltanto la singola esistenza di tutti noi, ma anche quella dei popoli, delle civiltà, di tutto ciò che sappiamo esistere. L’esistenza non è tale senza uno spazio e un tempo che siano legati fra loro. Quindi l’esistenza presuppone, necessariamente, un «qui e ora», uno hic et nunc, senza la cui relazione
Da Shakespeare, a Leopardi, a Jaspers, da Ulisse con i suoi marinai ai cosmonauti del futuro, tutto indica che siamo attori - dramatis personae - del nostro esistere, nel “mare dell’essere”. Solo naufragando in questo mare, qui e ora, si può apprendere il linguaggio per accedere al suo vero significato
I
La cifra del naufragio di Franco Ricordi
essa non ha motivo di dirsi tale. Ma cos’è questo hic et nunc che caratterizza l’esistenza in rapporto all’essere che, al contrario, si presuppone anche nel suo vuoto, ovvero nel suo corrispondere al nulla, sempre e dovunque? Rispondiamo con un termine latino, anche se di origine greca: l’esistenza è dramatis persona. Non soltanto per quello che riguarda l’uomo che, da quando nasce a quando muore, assume le sembianze di una dramatis persona attraversando tutte le età della vita. Dramatis personae sono anche tutte le altre entità cui conferiamo la peculiarità dell’esistere: i popoli, le nazioni, le lingue parlate e scritte, le istituzioni, il regno animale, quello vegetale, il mondo, i pianeti, l’universo a noi noto.Tutte queste entità, essendo riferite a un preciso hic et nunc, anche superan-
do il concetto della relatività einsteiniana, si stabiliscono per tutti noi come dramatis personae, partecipanti di un dramma, tragedia o commedia particolare ovvero universale. È questo il principio necessario a ogni esistenza che, altrimenti, non sarebbe tale. E questo dramma in cui tutte le dramatis personae si confrontano è l’esistenza universale. E non è un caso che il Gallo silvestre affermi «prima di essere dichiarata o intesa, si dileguerà e perderassi»: la fine dell’esistenza universale è concepita nella misura in cui essa potesse venire «dichiarata o intesa», quindi fosse in qualche maniera un messaggio per qualcuno che ascolta. Le sue parole sono esattamente le stesse che pronuncia Prospero, l’ultimo grande protagonista shakespeariano: «Questo stesso vasto globo, sì, e quello che con-
tiene, tutto si dissolverà, come la scena priva di sostanza ora svanita, tutto svanirà senza lasciare traccia».
Ma Prospero si riferisce a uno spettacolo teatrale appena inscenato, che in tal caso non è soltanto metafora ma rappresentazione dell’esistenza, quella stessa rappresentazione che rischia di non essere «né dichiarata né intesa» per il Gallo silvestre. Quindi anche per lui l’esistenza è un «teatro andato a vuoto», una rappresentazione che non potrà essere intesa. È ciò che viene rappresentato come «naufragio» dell’esistenza, e che si ripercuote in tante altre opere del Bardo. Ed è la medesima situazione cui perviene la filosofia di chi forse ha meglio inteso, nel Novecento, il senso ultimo dell’esistenza: Karl Jaspers. Anche riferendosi al tutto-vivente, Jaspers ha sottolineato la peculiarità teatrale, ovvero cinetica dell’esistenza: «L’inquietudine è l’aspetto del tutto-vivente. La rigida compattezza delle rocce e delle forme è solo un’inquietudine solidificata». E certo la riflessione di Jaspers sulla bomba atomica, di cui si è ricordato di recente il 65° anniversario, si coniuga mirabilmente con la sua metafisica. Ma proprio l’esperienza fondamentale della filosofia di Jaspers è il «naufragio»: l’esistenza è la soglia del naufragio in cui sperimentare l’essere. E Hans Blumenberg, nel suo Naufragio con spettatore, ha saputo rilevare assai bene il medesimo paradigma teatrale dell’esistenza. In questa metafora che da Shakespeare a Leopardi a Jaspers viene riferita evidentemente al «mare dell’essere» - quindi non soltanto a Ulisse e ai marinai del passato ma anche ai cosmonauti del futuro - si chiarifica il suo significato ultimo. La possibilità di intendere, come scrive Jaspers, la «cifra» di questo naufragio: anche per Leopardi il rapporto con l’infinto, come tutti ricordano, si esprime proprio in un dolce «naufragare». Esistenza è naufragio. Ma nel naufragio c’è forse un ultimo senso o significato, come nel celebre quadro di Caspar David Friedrich Naufragio della speranza. Esistenza è dunque possibilità di percezione del linguaggio in una precisa dimensione spazio-temporale che si identifica nel naufragio. In ogni caso l’esperienza dell’esistere si attesta come naufragio. Che riguardi il singolo, le comunità, l’universo, l’esperienza esistenziale è destinata al naufragio. Tutte le dramatis personae dell’universo esistono e sono tali solo in relazione al loro essere-per-il-naufragio. E soltanto da esso e in esso, enucleando il significato ultimo di tale esperienza, si può accedere al suo linguaggio. Esistenza: teatralità dell’essere nel naufragio.
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Rivisitazioni pagina 14 • 2 ottobre 2010
musica
Cantanti, nuovi teorici DELLA SOCIETÀ LIQUIDA di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi uvide sequenze in bianco e nero e in un ventaglio di colori saturi, incrociano un montaggio frenetico per poi stopparsi sulle foto scattate da Dominique Tarlé. Raccontano perlopiù di Keith Richards, che sa ciò che vuole: concepire grande musica (l’album Exile On Main Street è soprattutto affar suo), cuocersi al sole, ubriacarsi di Jack Daniel’s e strafarsi di tutto con la sua donna, Anita Pallenberg. Mick Taylor, che ha preso il posto di Brian Jones, lo segue viziosamente a ruota; Mick Jagger, al contrario, si trattiene: fa la spola con Parigi dove c’è Bianca in attesa di Jade; Bill Wyman e Charlie Watts temporeggiano, vanno e vengono. Di sicuro, non vogliono stare al gioco di Keith che dà retta a spacciatori, groupies, intrusi. Benvenuti a Villa Nellcôte. Cronache dei Rolling Stones in esilio (dorato). Stones In Exile, il documentario diretto da Stephen Kijak presentato all’ultimo festival di Cannes, si è trasformato in un dvd (Eagle Rock Entertainment/Edel, 19,90 euro) che racconta il making of di Exile On Main Street: snobbato all’uscita ma poi incensato. Capolavoro che dopo aver succhiato il blues, si mette a sbiancarlo. E dopo aver distillato rhythm & blues, country, gospel, li macina con prepotenti dosi di rock al vetriolo. Exile On Main Street prende forma dall’estate 1971 per sei mesi filati, fra gli stucchi e la cantina di Villa Nellcôte affittata da Keith Richards a Villefranche-surMer, vicino a Nizza. Gli Stones si sono rifugiati qui, con il loro Mobile Studio parcheggiato in giardino. Dopo aver guadagnato (e sperperato) un mucchio di soldi, non vogliono che il fisco inglese continui a tartassarli. Spiega Jagger nel dvd: «Avevamo lavorato duro, ri-
R
Classica
zapping
na volta c’era bisogno di un filosofo, un teorico, qualcuno che tirasse fuori dal taschino don Benedetto Croce e Francesco Saverio Nitti, et eziandìo Labriola o Rosmini. C’era chi apprezzava Gianfranco Miglio, chi interloquiva con Lucio Colletti, e c’era (una volta) un noto sindaco heideggeriano. Mo’ lo spirito del tempo presuppone la battuta di Dionigi di Siracusa, che non poteva fare due passi in giardino senza trovarsi tra le fette un Platone e pensò di sicuro: i filosofi ci hanno scassato la mentula. Chi ha un partito rincorre un cantante, quindi. Serve un Vecchioni che appoggi i nostri ideali, un J-Ax che corrobori, un Jovanotti che rappi qualche slogan ripetibile. In questo Berusconi è all’avanguardia, perché scegliendosi artisti di genere come Apicella è un passo avanti nel postmoderno. Si può ridere di Apicella e Berlusconi e si farà il loro gioco. Ma gli altri non hanno capito e quindi vanno a caccia di cantanti. Un Bennato Edoardo, un Enrico Ruggeri, tornerà anche Morgan e dal suo dramma umano tirerà fuori un inno di speranza, vedrete. I cantanti sono nella posizione di forza, sono i nuovi teorici della società liquida ma con qualche sogno a mezz’aria. E lo sanno, infatti sono più difficili da raggiungere dei politici. Se cerchi Sandro Bondi con due telefonate trovi il suo cellulare, se cerchi Cesare Cremonini devi mandare mail per due settimane ad addetti stampa che sembrano funzionari del Pcus. E poi abbiamo Fiorella Mannoia, che sul Fatto della settimana scorsa parlava a Sandra Amurri della sua arte, e anche un po’ di politica. Un po’ che di più non sta bene. Da signora di classe, da nuova eroina del Pd con il cambio automatico e un grande comfort di marcia. Noi la preferivamo quando cantava il Pescatore con Pierangelo Bertoli. Ma il mondo ha bisogno di teste.
U
Rolling Stones
Cronache dall’esilio scosso molto successo, venduto milioni di dischi. Ma i nostri contratti discografici prevedevano diritti d’autore molto bassi. Scoprimmo che all’interno della gestione c’era un tizio che vantava i diritti su tutto ciò che facevamo, sia per il passato sia per il futuro». Sottolinea Bill Wyman: «Eravamo sempre indebitati perché il denaro volava letteralmente via dalle nostre mani. Nessuno di noi, ovviamente, aveva pagato le tasse: credevamo ci fosse un accordo e che qualcuno le pagasse per noi. Purtroppo non era così, e se fossimo rimasti a Londra ci avrebbero arrestati». «Lavoravamo a qualsiasi ora, nell’arco della giornata», ricorda Charlie Watts. Così i pezzi del disco prendono forma che è un piacere, nelle cantine fradicie d’umidità che fanno perdere l’accordatura alle chitarre. L’attrezzatura, ogni tanto, smette di funzionare; le luci saltano e scoppiano piccoli incendi. Il pianoforte viene sistemato in una stanza, la chitarra acustica in cucina dove il suono, grazie alle piastrelle, è ottimo. Un’altra stanza ospita gli ottoni, e nello studio
principale trovano alloggio la batteria di Charlie Watts e l’amplificatore di Keith Richards. Anche Bill Wyman suona il basso lì, ma il suo amplificatore è posizionato in corridoio. Ogni Stone, sceglie il posto migliore con l’acustica migliore. Così come i musicisti aggiunti: il trombettista Jim Price, il sassofonista Bobby Keys, i pianisti Nicky Hopkins e Ian Stewart. Keith suona da dio, Mick canta come mai in vita sua, Bill, Charlie e Mick sono ingranaggi a orologeria. Quei mesi di jam sessions, fruttano brani che s’intitoleranno Ventilator Blues, Tumbling Dice, Happy, Sweet Virginia… Composizioni che sanno d’America, per dare un calcio all’Inghilterra ingrata. Si mangia sempre nel tardo pomeriggio, seduti attorno a un lungo tavolo. Fra una portata e l’altra, si fuma marijuana sorseggiando champagne, bourbon whiskey, beaujolais. E poi c’è la cocaina, procurata da Keith. Non si nasconde nulla. Tutto avviene alla luce del sole. Poi (voce fuoricampo di Keith Richards), «arrivarono il freddo e l’autunno. E noi avevamo tutto quel materiale inciso in un camion e in una cantina. Io e Mick ci guardammo dicendo: “Le nostre risorse sono finite. E anche quelle degli altri”. Credo fosse una sensazione comune. La conclusione fu: “Ecco, ce l’abbiamo fatta”».
Quando Adelina Patti debuttò alla “Pergola” arcello de Angelis, storico e critico della musica milanese di nascita ma fiorentinissimo d’indole, sa sempre allettare i suoi lettori con primizie succulente. Accadde con i saggi di estetica (Mazzini, Leopardi e, soprattutto, Giannotto Bastianelli, compositore e critico di punta nell’Italia d’inizio Novecento, figura originale e tragica, sulla quale Suso Cecchi d’Amico aveva pensato di scrivere una sceneggiatura), accadde e accade con le indagini sulla vita operistica a Firenze tra la prima metà del Settecento e l’inizio del secolo scorso. L’ultimo tassello di questo scavo indomito e proficuo ha da poco visto la luce nella benemerita collana Storia dello spettacolo diretta da Siro Ferrone per Le Lettere: Il melodramma e la città. Opera lirica a Firenze dall’Unità d’Italia alla Prima guerra mondiale consta di 608 pagine (143 delle quali riservate a bi-
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di Jacopo Pellegrini bliografia e indici) e costa la cifra non indifferente di euro 58,00. Ma se, come Umberto Eco e, si parva licet, il sottoscritto, siete appassionati di elenchi e cataloghi, allora la preziosa cronologia (da pag. 75 a 220) delle opere e degli oratori eseguiti tra il 1865 (Firenze capitale) e il 1915, col suo generosissimo apparato di note (238 pag., 48 le testate giornalistiche compulsate), stimolerà la salivazione e aguzzerà l’ingegno vostri. Quante informazioni nuove: il debutto italiano di Adelina Patti, il maggiore soprano del secondo Ottocento, va retrodatato d’un anno, dal 1866 al ’65, quando ella si esibì alla Pergola in Sonnambula, Barbiere e Lucia; già dal 1893, al Pagliano (oggi Verdi), Gemma Bellincioni sfoggia nella Traviata quelle «toilettes principesche» di foggia moderna, che ai tempi
della prima veneziana (1853) erano state scartate in pro di meno provocatori abiti Luigi XIV; lungo gli anni Settanta il basso buffo e impresario Giuseppe Natali, al Piazza Vecchia, riesuma le «antiche opere buffe» di Cimarosa, Guglielmi, Paër (ne parlò anche Hanslick, il critico viennese), mentre i coniugi Tiberini (Angiolina e Mario, celebre tenore verdiano) tengono in vita uno spartito rossiniano fuorimoda, Matilde di Shabran. Come nel resto d’Italia, imperano prima il grand opéra francese (in traduzione) e l’opera ballo italiana, poi la Giovane Scuola di Puccini, Mascagni & C.; eppure, il capoluogo toscano può vantare una piccola febbre mozartiana con vari Don Giovanni e, addirittura, un allestimento di Nozze, due di Così fan tutte. In questo mezzo secolo sorgono ovunque nuovi
spazi, il pubblico s’allarga, il repertorio si stabilizza, i teatri, ancora gestiti in regime impresariale, patiscono guai finanziari (in certi casi è questione di contributi pubblici, le cosiddette «doti»: nihil novi sub sole, difatti sempre de Angelis dà in contemporanea alle stampe, presso Lim di Lucca, Si chiude. Anzi, si apre! Cronache musicali di «poveri» teatri dal 1960 ad oggi); e se Firenze perde importanza (niente prime assolute di rilievo), vi maturano tuttavia esperimenti interessanti, primo fra tutti il «teatro a repertorio» (20 titoli) realizzato nel 1876-77 tra la Pergola e il Pagliano dall’impresario Scalaberni. Spunti per ricerche, notizie, aneddoti, curiosità; il solo neo di questo librone è il numero non indifferente di refusi: Marcello è un cane da tartufi bibliotecari e archivistici, non un puntiglioso revisore di testi. Ha bisogno di redattori dediti, e stavolta gli sono mancati.
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i eravamo lasciati pochi mesi fa, con la mostra di Cima da Conegliano e Cima ritroviamo ancora, in questa piccola, umile, ma fruttuosa occasione espositiva, che ci permette di tornare a studiare questa terra di confine, anche culturale, tra Veneto e Friuli. Così, mentre Milano, tragicamente pompier, issa in pompa magna il ditone imbecille di Cattelan (ah che nostalgia del pollicione divertente di César!), nullità tornita in milionario marmo di Carrara, che ha provocato eroici viaggi di recupero dell’artista offeso, da parte del melodrammatico assessore meneghino, e una battuta memorabile dell’assessore leghista Massimilano Orsatti, che neanche Campanile - «se vogliano accreditarci come capitale mondiale dell’arte dobbiamo sì saper mediare ma anche accettare quello che non ci piace», con il ditone direttamente in loco, ecco che in altri parti del nostro Paesino, zone che paion paradisiache, anche perché la pianta marcia del leghismo non ha ancora attecchito, si può assistere a questa celebrazione intelligente e grandiosamente modesta, in una mostra di proporzioni non marmoree né gagosiane, in cui però s’ammirano piccoli gioielli quasi campestri e si rivalutano artisti di tutto rispetto, come questo Giovanni Martini, come aveva già intuito il conoscitore da tartufi Cavalcaselle. Che scrive per lui, di queste intense figure stupefatte e come ritagliate nel sasso paesano della fede, altro che marmo in plastica milanese!: «come fossero figure di carta tagliate con le forbici». Per cui non stupisce più - e la mostra curata con amore e competenza, da Luca Majoli e Anna Maria Spiazzi, ce lo fa capire bene, che questo sensibile artista, che un tempo si pensava uscito dall’ambito vivarinesco, soprattutto di Bartolomeo, ma che invece risente molto già della moderna collusione con Cima e altri belliniani che potesse essersi occupato anche di scultura. Come qui si può ben confrontare, paragonandolo a quell’altro interessante «falegname» della pietas religiosa, che va sotto il nome del Bellunello, studiato in catalogo dall’esperta Lucia Sartor,
C
Design
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Quel meticciato
rinascimentale tra Veneto e Friuli di Marco Vallora sotto l’egida di Caterina Furlan. E com’è rivelatore, in quel tornito tempietto codazziano di diaspro della pala di Spilinbergo, ove il chiarosciuro sciabola le fisionomie e i panneggi, con un elegante scure cromatica, da boscaiolo ingentilito, com’è credibile e commovente quel gesto istintivo del Bambino al tempio, che resiste al destino di circoncisione fatale, appendendosi alla barba bianca del Sacer-
dote, e frugandogliela, come alla ricerca di un nido di cardellino, animale così frequente in queste contrade di simboli. La mostra è presto spiegata e visitata, anche se nell’intorno attendono proficue occasioni di visite, davvero soprendenti, in paesi che hanno nomi accattivanti, o curiosi, come Corbolone (e qui un magnifico Bonifacio de’ Pitati, tra Carpaccio e Giorgione), Concordia Sagittaria, Navolé,
Settimo di Cinto Caomaggiore... e basterebbe quel nome a invogliare al pellegrinaggio. E certo bisognerebbe almeno giungere sino a Mortegliano, per visitare quel vivissimo altare scolpito, sacra pasticceria lignea, attribuito al Martini, e degno di competere con le gran macchine scolpite di Pacher e dei maestri tirolesi: un prodigio solidificato. Presto spiegata, la stimolante iniziativa, perché tra fascinosi esempi (una volta tanto essenziali) di miniature, codici, sigilli, lettere, breviari, piviali, calici, croci astili e formidabili croci pettorali, di manifattura veneziana, e infine statuti illuminanti del territorio di Portogruaro, si capisce appunto il perché, non solo artistico ma anche storico, di questa mostra. Dedicata all’incrocio di confine, fra la terraferma lagunare di Venezia (che ha bisogno d’un porto di sfogo) e il Friuli occidentale, leggi Portogruaro, la quale, trasformandosi anche urbanisticamente in una cittadina sussiegosa e rimpolpata, mette a disposizione il suo territorio, le sue ricchezze e i suoi artisti, d’ambito friulano, che risentono di nomi cari alla storia dell’arte, come Domenico e Gianfrancesco da Tolmezzo, Pomponio Amalteo, sino al grandioso Pordenone, che qui fa da ombra lontana e tumultuosa. È dunque come se le acque nervose e nordiche, graficamente irrigidite, del Tagliamento, si incrociassero qui (più che scontrarsi) con quelle più placide e luminose dell’arte lagunare, producendo dei sinceri, umili piccoli capolavori, sommessi ma sorprendenti, di meticciato culturale. Non c’entra nulla: ma come preferiamo il ditino del Bambino di Martini al ditone di Cattelan.
Rinascimento tra Veneto e Friuli, Portogruaro, Collegio Marconi, fino al 17 ottobre
Cinquant’anni, li dimostra ed è sempre più bella suoi anni sono cinquanta, li dimostra, ed è sempre più bella! La sedia progettata dal danese Verner Panton è il simbolo di quel favoloso periodo, alla fine degli anni Cinquanta, durante il quale il designer, a bordo del suo furgoncino Volkswagen, perlustra in lungo e largo l’Europa, alla ricerca di nuove ispirazioni; torna in Svezia e decide di rivoluzionare tutto ciò che aveva visto. Forme sinuose, totalmente prive di angoli, colori accesi, tecnologia sperimentale, diventano gli strumenti del suo lavoro. Nel 1958, la Cone Chair, la cui forma ricorda chiaramente quella di un cono gelato, è cosa mai vista nell’universo contemporaneo del design, ed è subito successo. Da allora progetta e realizza un’inverosimile quantità di oggetti, lampade, sedute, tappeti, moduli abitativi. Le sue creazioni confluiscono in modo quasi ossessivo nella composizione degli interni: le Visiona, allestimenti per la società chimica Bayer a Colo-
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di Marina Pinzuti Ansolini nia, la sede della Spiegel ad Amburgo, il ristorante Varna ad Aarhus, la sua stessa casa a Basilea. L’atmosfera quasi claustrofobica, psichedelica e spaziale ci rimanda a quell’idea di mondi futuri immaginati con la fantasia degli anni Settanta. Pareti e soffitti, illuminati da luci basse e calde, si fondono attraverso elementi plastici in un’orgia avvolgente di colori forti: blu, rosso, viola, arancio. Non si conosce con certezza la data di nascita della celebrata Panton Chair; il progetto dovrebbe risalire agli anni ‘59/‘60. L’idea era quella di realizzare una seduta basculante in plastica, attraverso un unico stampo. La Vitra è interessata all’oggetto sin dai primi anni Sessanta e solo dopo un periodo di gestazione lunghissimo, basato sulla ricerca del materiale più idoneo, riesce a produrla, nel 1967. Le prime serie furono realizzate in poliestere e fibroresina, quindi fu la
volta del poliuretano espanso, ma il risultato non sempre eccellente in termini di resistenza, comporta il ritiro della sedia dalle vendite alla fine degli anni Settanta. In seguito è lo stesso Panton a non darsi per vinto e la produzione riprende alcuni anni dopo, con altri procedimenti più efficaci ma costosi. Oggi la Vitra produce la Panton Chair in versione più economica, grazie al procedimento di stampa a iniezione, raggiungendo così il traguardo desiderato. Nel 2006 nasce una versione Junior, dedicata ai bambini, identica all’originale ma di un quarto più piccola. Per festeggiare i cinquanta anni di quest’icona del design, lo spazio Flagshipstore Molteni & C-Dada di Milano, ha presentato, oltre a una panoramica dell’opera dell’artista, venti interpretazioni della Panton Chair per opera degli studenti dell’International School of Monza. Juta, cd, vasetti di plastica, cartone, specchi, tappi, coperchi, giocattoli trovati sulle spiagge danno nuova vita alla sedia diventata negli anni una delle più famose nel mondo. Le opere, nel segno dell’ecosostenibilità, saranno battute all’asta, prima di Natale; il ricavato a favore dell’«Africabougou», per lo sviluppo dei villaggi nell’Africa sub Sahariana.
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Protagonista indiscussa della grande stagione del post-figurativo e dell’astrattismo, la sovrintendente alla Galleria nazionale d’arte moderna (a cui Rachele Ferrario ha dedicato una biografia) è rimasta celebre per l’avventuroso salvataggio del patrimonio artistico durante l’occupazione nazista di Roma. Ma è la resistenza della Bucarelli all’offensiva culturale comunista che merita soprattutto di essere ricordata…
il paginone
La guerra fred
di Mauro Canali singolare che solo oggi il complesso percorso professionale ed esistenziale di un personaggio come Palma Bucarelli, sovrintendente alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna negli anni dal secondo dopoguerra al 1975, protagonista indiscussa della grande stagione artistica del post-figurativo e dell’astrattismo, abbia trovato una sistemazione critica che consente di decifrare l’importante ruolo che questa vera e propria «regina di quadri» ha avuto nella recente storia della nostra cultura. Conoscevamo di lei molte vicende, trasmesseci da chi l’aveva conosciuta, e anche dal suo prezioso diario, il quale, ancorché limitato a pochi mesi della sua vita - il semestre a cavallo della liberazione di Roma del giugno 1944, - aveva tuttavia consentito, grazie alla preziosa curatela di Lorenzo Cantatore, di tracciare un primo provvisorio bilancio della vita intensa e laboriosa di questa donna straordinaria, di quanto le debba la storia artistica del Paese con i suoi rinnovati valori estetici.
È
Io credo che il momento più significativo della vita della Bucarelli non sia stato tanto quello, pure importante, da lei vissuto durante la guerra e l’occupazione nazifascista di Roma, in cui rientrano le rischiose vicende relative all’avventuroso salvataggio del patrimonio artistico della Galleria Nazionale d’Arte Moderna dai disastri della guerra prima, e dalle razzie dei tedeschi in fuga poi, quanto quello del secondo dopoguerra, legato alla stagione della «guerra fredda culturale», filiazione della più vasta «guerra fredda» esplosa tra mondo occidentale e mondo comunista. Un conflitto che la vide bersaglio privilegiato del fuoco incrociato con cui i settori artistici legati al Partito comunista tentarono d’impedirne l’opera diretta a far circolare nel nostro Paese «l’arte nuova». Che poi non era altro che l’insieme di quelle tenanno III - numero 35 - pagina VIII
denze estetiche, germinate nei primi decenni del secolo XX dalla grande stagione delle avanguardie artistiche, che in Italia avevano vissuto per venti anni una vita asfittica, emarginate dai prevalenti valori estetici imposti dal regime fascista. Credo che le vicende professionali ed esistenziali di Palma Bucarelli, attenta-
Guttuso e Trombadori, guardiani dell’estetica realista, furono i suoi acerrimi nemici. Del resto Umberto Terracini non esitò a definire «indegna sozzura» un’opera di Burri da lei acquisita per la Gnam
mente esaminate da Rachele Ferrario in Regina di quadri. Vita e passioni di Palma Bucarelli (Mondadori, 20,00 euro), vadano lette come una grande tragedia politica. La tragedia politica di un Paese diviso su tutto, anche, e soprattutto, sul terreno della cultu-
ra. Assistiamo infatti, dal 1947 alla fine degli anni Cinquanta e oltre, a una vera e propria battaglia condotta da un Pci che, con Togliatti alla testa, tenta di condizionare il dibattito artistico ed estetico in atto con l’obiettivo di tradurre nel concreto le tesi gramsciane sulla egemonia culturale, e perciò intollerante nei confronti di quei settori della cultura italiana che sfuggono al suo controllo. Battaglia che non di rado assume aspetti grotteschi, in cui parlamentari autorevoli del Partito comunista non esitano a trascinare sul terreno della lotta politica questioni attinenti al dibattito estetico, fino a ricorrere addirittura a interpellanze parlamentari. In nome di un richiamo al buonsenso artistico e ai valori estetici delle masse popolari, si
tenta in realtà di affermare il controllo del partito sulle questioni estetiche, la sudditanza dell’arte alle esigenze della politica. E un momento di questa battaglia per l’egemonia culturale è rappresentato senza dubbio dai tentativi posti in atto dal Pci per giungere al controllo delle istituzioni culturali.
Solo in questa prospettiva assume un significato il conflitto avviato dal Partito comunista contro la Bucarelli, il cui interesse per l’astrattismo americano dei Pollock, dei Motherwell, dei Baziotes, la rende ancor più ai loro occhi un nemico politico. Così può accadere che Umberto Terracini giunga a definire, nel corso di una interpellanza parlamentare, un’opera di Burri, acquistata
dalla Galleria nazionale d’arte moderna, «vecchia, sporca e sdrucita tela da imballaggio», «indegna sozzura raccattata dalla gerla di uno spazzaturaio». Tutto ciò quando Burri era ormai un artista affermato, e le sue opere erano ormai esposte nei più importanti musei come il Moma e il Guggenheim di NewYork, l’Istituto d’Arte di Chicago e l’Istituto Carnegie di Pittsburgh. Una battaglia di retroguardia, tuttavia, quella ingaggiata dal Partito comunista, in cui si distinsero i due guardiani dell’estetica comunista, Trombadori e Guttuso. Ma la guerra non si svolse solo verso l’esterno, contro quegli uomini di cultura e artisti considerati avversari politici, essa si sviluppò anche come guerra intestina, poiché i giovani artisti, legati al Pci, quando cominciarono a viaggiare all’estero e si trovarono a contatto con le tendenze estetiche delle avanguardie, si resero rapidamente conto di quanto fossero vecchi e superati i valori estetici dell’arte figurativa e neocubista sostenuta da Guttuso. Ricorderà lo scultore Pietro Consagra, an-
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dda di Palma dato a Parigi, nel Natale del ’46, insieme ad Accardi e Sanfilippo, in una sorta di viaggio-premio organizzato proprio dal Pci, che: «Andammo con il cuore in gola… e trovammo la chiave che cercavamo». A Parigi, Consagra incontra Brancusi, Pevsner e Arp, e comprende tutti i limiti soffocanti in cui l’estetica di partito irretisce la sua ansia di ricerca. Al loro ritorno, i tre consumano l’inevitabile crisi dal partito, e, fatta eccezione per Accardi, finiscono progressivamente per allontanarsene per non farvi più ritorno. Ma la via era stata ormai aperta. Qualche mese dopo sarà la volta di Perilli, Dorazio e Guerrini, che andranno a Parigi con un viaggio organizzato dalla federazione giovanile comunista e torneranno con i loro precedenti valori estetici sconvolti, tanto da unirsi subito agli altri tre, ai quali si era nel frattempo aggiunto Turcato, per dare vita al gruppo e alla rivista Forma 1, in netta antitesi, questa volta, con una dialettica tutta interna al Pci, con gli artisti figurativi raccolti dietro a Guttuso. Insomma è una vera guerra fratricida che, da parte sua, la Bucarelli alimenta, impegnata com’è a far conoscere le grandi novità estetiche che vanno maturando all’estero, e ad allestire, infaticabile, mostre come quella del 1946 sulla Pittura francese d’oggi, che finiva inevitabilmente per rappresentare un richiamo irresistibile per le impazienze e la fame di novità delle giovani generazioni degli artisti. Si consumano anche amicizie di lunga durata, e molti di loro si troveranno a troncare i rapporti con Guttuso, un vero «Papa rosso» dell’estetica di partito. Naturalmente Togliatti in persona non esita a schierarsi, a far sentire la sua voce, e, con un articolo apparso su Rinascita a firma Roderigo di Castiglia, nome de plume dietro cui si cela, bolla l’arte astratta definendola l’espressione degli sciocchi.
Ma la Bucarelli, anche quando, come agli inizi degli anni Sessanta, si muove per acquisire grandi capolavori dell’arte impressionista, si trova la via sbarrata dai soloni del l’estetica del Partito comunista, i quali le rimproverano, come fa di nuovo Antonello Trombadori, di trascurare l’arte italiana. Si tratta ovviamente di una menzogna, poiché mai come in questo periodo la Galleria nazionale d’arte moderna è stata impegnata ad acquisire importanti opere di Turcato, Capogrossi, Fontana, Birolli, Consagra,
Afro, Savinio, Vedova, Scipione; insomma il meglio dell’«arte nuova» italiana. È in questa circostanza che Trombadori accuserà la Bucarelli di esterofilia, cioè di trascurare l’arte contemporanea italiana. Replicherà la Bucarelli che «l’accusa di esterofilia da parte di un comunista era decisamente insolita. Per anni il fascismo aveva praticato e promosso una politica culturale autarchica e ora proprio Trombadori mi rimproverava di essere troppo aperta alle novità straniere: un assurdo». Ma la faziosità della lotta politica
lei fino alla fine dei suoi giorni. La successiva mostra allestita per esibire questi capolavori da poco acquisiti è l’occasione per il rinfocolarsi delle polemiche, che, oltre che provocare il definitivo blocco, da parte del ministero, dell’erogazione di altri fondi, si spingono fino alla grottesca richiesta da parte di alcuni settori politici della stampa e del Parlamento della destituzione o, addirittura, dell’incriminazione della Bucarelli. Suo acerrimo avversario si mostra sempre Antonello Trombadori che nella circostanza si chiede
Tre opere acquisite per la Gnam da Palma Bucarelli: “Nudo sdraiato” di Modigliani, “L’Arlesiana” di Van Gogh e le “Ninfee rosa” di Monet (foto: Galleria nazionale d’arte moderna, su concessione del Ministero per i Beni e le Attività culturali). In basso l’ingresso della Galleria a Roma e la copertina del libro dedicato alla Bucarelli. Nella pagina a fianco: un’immagine della sovrintendente, l’autoritratto di Guttuso e Antonello Trombadori visto da Cagli operai, «pensando che si trattasse di pezzi di lamine di ferro staccatesi dalle casse, stavano per buttare via». La Bucarelli progettò di allestire una mostra della collezione Guggenheim nella sua Galleria, andando incontro a mille pretestuosi ostacoli burocratici, e
Anche quando si mosse per assicurarsi capolavori dell’impressionismo fu rimproverata di essere troppo aperta alle novità straniere. Ma quando espose Piero Manzoni fu scandalo anche tra i cattolici «se comprare pittura impressionista negli anni Sessanta non sia velleitario», come se una Galleria d’arte moderna non abbia il compito istituzionale di orientare la propria attenzione a tutte le tendenze estetiche e a tutti i periodi.
trasferita sul terreno artistico non conosce limiti, e quando, con l’aiuto degli amici Argan e Lionello Venturi, la Bucarelli riesce a farsi assegnare un fondo di 500 milioni per l’acquisto di alcune opere d’arte impressioniste e post-impressioniste, e ad assicurare alla Gnam capolavori indiscussi come il Sentiero tra le rocce di Cézanne, le Ninfee rosa di Monet, il Nudo sdraiato di Modigliani e l’Arlesiana di Van Gogh, la polemica contro di lei, capeggiata dal solito Trombadori, è talmente feroce da impedire il nuovo acquisto che la Bucarelli si stava apprestando a portare a termine, cioè la Donna in piedi di Manet. Il rammarico per questo importante acquisto mancato sarà vivo in
Ma la Bucarelli non si trovò a combattere solo contro i guardiani dell’estetica comunista. Molti attacchi le giunsero anche dai settori cattolici più retrivi. Sono esemplari al riguardo le vicende legate alla prima Biennale veneziana del dopoguerra del 1948, che accolse tutte le opere di scuola astrattista e surrealista che Peggy Guggenheim aveva raccolto in vent’anni di attività di gallerista e di mercante d’arte. Spesso si trattava di artisti le cui opere erano pochissimo conosciute, o del tutto ignote, in Italia.V’erano opere di Max Ernst, di Jean Arp, dell’allora sconosciuto Jackson Pollock, di Giacometti, Mondrian, Mirò, Magritte, Duchamp, i mobiles di Alexander Calder, uno dei quali, come racconta nella sua godibilissima autobiografia la stessa Peggy Guggenheim, gli
al veto finale del ministro Gonella, che, dopo aver visto le opere alla Biennale, s’era convinto che si trattasse di «arte degenerata». Il lavoro di Rachele Ferrario dedica una particolare attenzione all’altro scandalo della storia delle mostre, quello che chiama in causa un altro grande artista italiano, Piero Manzoni, morto giovane, e oggi presente con le sue opere in tutti i più importanti musei del mondo. L’allestimento di una sua personale da parte della Bucarelli solleva un’ondata di proteste da parte del mondo politico, soprattutto cattolico e conservatore, con le immancabili interpellanze parlamentari e relativi strascichi giudiziari. Si vuole negare la legittimità di esporre il celebre barattolo di Piero Manzoni dal titolo Merda d’artista, rinunciando a capire quanto di provocatorio vi fosse in esso. Lo spiegherà molti anni dopo la stessa Bucarelli, per la quale lo scandalo sollevato era
il risultato «di pudore e di cattiva coscienza fuori luogo». «Quello delle “scatolette”- commenterà la Bucarelli - fu un fatto morale, legato al clima del momento». «I quadri si compravano a occhi chiusi? A scatola chiusa? E allora Manzoni disse: bene, io vi do la scatola chiusa, con dentro la m…… d’artista».
I due nemici della Bucarelli, come si è detto, furono senza dubbio Trombadori e Guttuso, per motivi essenzialmente ideologici. Sostenitori dell’arte figurativa i due, decisamente volta alle nuove tendenze dell’arte astratta la prima, i duellanti svilupparono un conflitto che durò decenni, fino a giungere qualche volta nelle aule giudiziarie. Con accuse apparentemente razionali, ma che mal celavano i profondi motivi ideologici. Con molta onestà intellettuale, Duccio Trombadori, il figlio di Antonello, molti anni dopo ammetterà che la questione che divideva i due era di natura ideologica: «Palma guarda all’arte americana, segue l’astrattismo sulla linea di Greenberg, Rosenberg e Venturi. La critica di mio padre, invece, soprattutto negli anni Cinquanta, è velata dall’ideologia di sinistra e dal realismo». Un modo elegante di ammettere che si trattò di un conflitto politico mascherato da contrasti estetici, di una «guerra fredda culturale», un aspetto non secondario della più vasta e più tragica «guerra fredda» che divise per un cinquantennio il mondo.
Narrativa
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libri
Franco Cordelli LA MAREA UMANA Rizzoli, 165 pagine, 18,00 euro
iù degli altri termini, di parole amate e accarezzate dallo scrittore, la rammemorazione è quello giusto per entrare nelle pagine di questo recente romanzo di Franco Cordelli, La marea umana. Una parola che non concede svaghi ma inchioda il lettore nei termini in cui il testo si declina, più che per l’ossessione del tempo, a cui le pagine danno ampio respiro anche di breve cronaca temporale, per il pensiero del tempo come flusso ininterrotto e come discontinuità, un tempo che nella sua espressione più evidente si fa corpo, marea umana. Un vortice di nomi e persone che dal più banale dei ricordi, il ricordo della scuola e del liceo, la fotografia che emerge d’improvviso, ti travolge costringendoti alla rammemorazione. La marea umana, di cui andremo a tracciare il plot, sfuggente come sempre nell’opera di Cordelli, non è solo (e banalmente) un testo del ricordo. È un feroce corpo a corpo, per questo il denso monologo dell’io-narrante, col tempo, il ricordo, la morte e la dimenticanza. Proprio su questa separazione tra morte e dimenticanza, sul valore della separazione fisica, l’allontanamento, torna spesso il ragionamento del protagonista. Cos’è la morte se non l’oblio anche quando l’altro fisicamente ancora esiste? La storia comincia infatti su questa rapida successione: il protagonista riceve una telefonata da una vecchia compagna di scuola,Valeria. Il ricordo è più che appannato, l’io-narrante fatica a riprendere le immagini del passato, chiaramente le fugge per una sua speciale ritrosia, eppure Valeria lo attrae in trappola poiché confessa che la telefonata non è destinata a lui, ma a un altro compagno di classe Azio. Azio o Aki , due nomi per un personaggio solo, è il compagno a cui il protagonista era legato. Valeria lo sta cercando per dargli la notizia della morte di Donata, la ragazza
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Corpo
a corpo con il tempo I topoi della scrittura filosofica attraverso la forma-romanzo. Nella “Marea umana” di Franco Cordelli
Il bibliofilo
di Maria Pia Ammirati
che Azio aveva frequentato come fidanzata. La marea umana viene a formarsi da qui, quella umanità che sembra dimenticata ma appartiene alla storia di tutti, al passato definito come mare, materia consistente e sfuggente. «Su questa Valeria lontana non c’è che la fotografia di Aki. Siamo un gruppo di persone, tutti studenti. Dopo l’esame di maturità avvenuta nell’anno 1962, è la cena d’addio di una comunità… benché perduta, destinata a influenzare la vita di ciascuno». La marea umana avanza anche per volontà del protagonista che si mette alla ricerca di Aki. Nel ricercare, il variopinto mondo della marea si colora di persone assenti, morte o semplicemente partite, allontanatesi. Aki, ad esempio, è partito lasciando l’Italia per l’Indonesia («perché Aki era partito, perché aveva abbandonato l’Italia, aveva venduto il suo bene?»). La ricerca innescata da Valeria, una persona banale, quasi una voce, diviene quindi il pretesto di un viaggio, anche letterale, dentro le ossessive domande che il protagonista del romanzo rivolge a sé. Prima d’ogni cosa, perché il tempo si maschera da reticente e poi d’improvviso (con una punta velenosa lo scrittore cita l’avverbio come amato dai narratori) svela le clamorose magagne, ovvero i ricordi, il passato, l’ingombro delle persone? Il testo procede fitto nelle domande ma a differenza della sua materia metafisica, è un testo pieno di ganci reali, intanto dettati da una ferrea cronologia che parte da quella fotografia del 1962 e procede per tappe («il 1966 era uno spartiacque… è l’anno della morte di quello studente»; «nel 1989 io e Rita ci demmo appuntamento a piazza Euclide»; «Ruben trascorse con me il giorno di Santo Stefano del 2006»). Poi sostanziati da una domanda ricorrente e fondante sulla necessità di scrivere: «Perché tanto accanimento a raccontare quanto non si può raccontare o, peggio, è inutile raccontare?». Il romanzo di Cordelli lucidamente torna sui topoi della scrittura filosofica, lo fa servendosi della forma romanzo, come lo scrittore l’ha sempre immaginata, non una mera concatenazione di tempo-spazio. Non è certo la vituperata morte del romanzo a cui si allude, ma a qualcosa di più grave: la separazione dal mondo, a cui aderisce la mimesi della letteratura.
Ottone Rosai, un teppista a via Toscanella
a figura del teppista esercitò su parecchi intellettuali dei primi decenni del Novecento un fascino ambiguo e pericoloso, tanto da arrivare in seguito a coincidere con quella dello squadrista di stampo fascista. Furono soprattutto i futuristi, memori delle direttive del loro capofila Marinetti che concepiva la guerra come «sola igiene del mondo», a venire attratti, oltre che dalle manifestazioni legate al dinamismo dell’epoca industriale rappresentato dalla velocità delle macchine, anche da un’immagine che incarnasse il rifiuto radicale di ogni passatismo di derivazione borghese. In tale clima oltranzistico che sfociò in un’accesa campagna a favore dell’interventismo, il pittore Ottone Rosai aderì al gruppo di intellettuali fiorentini che si riunivano attorno ai tavolini del mitico caffè delle Giubbe Rosse e che, influenzati dalla lezione di Marinetti dopo averla a lungo osteggiata, fecero capo alla rivista Lacerba, fondata da Papini e Soffici nel 1913. L’autodidatta Rosai è, tra le varie figure del teppista proposte dalle avanguardie, senz’altro una delle più credibili e autentiche. Il pittore si era precedentemente immortalato in un Autoritratto
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di Pasquale Di Palmo in figura di teppista e aveva pubblicato su Lacerba una fin troppo eloquente Canzone teppistica. Nel 1919 esce un volumetto che documenta l’esperienza vissuta sul fronte del Monte Grappa con i granatieri, dal titolo Il libro di un teppista. Lo pubblica Attilio Vallecchi, amico di Rosai, che si era improvvisato editore dopo aver stampato, nella sua tipografia, alcune delle più importanti riviste letterarie di inizio secolo, da Leonardo a Il Regno, da La Voce alla stessa Lacerba. Rosai riporta le vicissitudini che hanno contrassegnato la sua esperienza al fronte, le sue inquietudini di fronte all’inerzia di una guerra dai risvolti imprevedibili, la sua rabbia per i cosiddetti «imboscati» che si permettono di fare la morale a chi va a morire in trincea. La copertina può risultare fuorviante rispetto al contenuto del libro e per il suo indiscutibile fascino si può considerare come una delle più riuscite nella stessa produzione editoriale novecentesca. Sotto il nome dell’autore, riportato senza patronimico, figura il titolo che, a un cer-
Vallecchi ripubblica il diario dal fronte del Monte Grappa uscito nel 1919
to momento, anziché scorrere orizzontalmente, scende per mancanza di spazio: le ultime tre lettere precipitano verticalmente verso il basso, ricordando il procedimento irregolare delle parole in libertà futuriste e della scrittura infantile. E ai bambini o, addirittura, agli alienati rimanda anche il disegno sottostante che riproduce un uomo (il teppista del titolo?) che aggredisce con un coltello in pugno una donna elegante sul bordo di un sentiero dove un cane e un gatto stilizzati osservano placidamente la scena. Sullo sfondo si nota una casa alla cui finestra è esposta una bandiera italiana, unico riferimento al patriottismo e ai valori nazionalistici di cui il libro è impregnato. Come nel Kobilek di Soffici, Rosai adotta nel libro un procedimento narrativo di tipo diaristico e gli spunti vengono spesso offerti dalle lettere che il pittore spedisce a casa dal fronte. La casa editrice Vallecchi ripropone ora, nella collana «Avamposti», Il libro di un teppista (140 pagine, 10,00 euro) in cui appare anche Via Toscanella, originariamente pubblicato dallo stesso editore nel 1930. Si tratta di una serie di brevi prose di ambientazione perlopiù toscana, dai tratti popolareschi e bozzettistici che rinviano, non di rado, alle espressioni figurative dello stesso autore.
Personaggi
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a siamo sicuri di conoscere davvero Luigi Pirandello? Risposta, che forse a certuni parrà assai perentoria: no. Così geniale, così profondo e così complesso, Pirandello rischia sempre la sorte toccata a Franz Kafka, ossia d’essere ridotto a un’aggettivo. Kafkiano, pirandelliano. Appunto. In quel groviglio emotivo e artistico che fu la sua vita si addentra Matteo Collura (con Il gioco delle parti, Longanesi, 339 pagine, 18,60 euro), tra i migliori conoscitori dello scrittore di Girgenti. Non è, la sua, una biografia ortodossa. Salta di qui e di là, ma avendo sempre come perno l’intenzione di sviscerare e capire i tanti misteri di un uomo che «giocava» con le maschere e quindi con le molteplici identità dell’uomo. Vengono citati brani dalle sue opere, parti delle lettere, interventi giornalistici. Suscita senza dubbio profonda emozione la parte finale del libro ove si narra, pure con la verosimiglianza che deriva dalla conoscenza di ciò che «il maestro» disse e scrisse, la sua fine di uomo solo. Di uomo che ha dinanzi a sé un crocefisso e immagina che proprio quel grumo di dolore potrebbe essere Dio, quello e non altro. E poi le puntigliose raccomandazioni testamentarie: «Mi si avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro di infima classe, quello dei poveri. Nudo». Insistenza sulla nudità, che è poi essenzialità dell’essere umano, ritrovata libertà dagli orpelli sguaiati dell’omaggio, dell’ufficialità imbecille, dal chiasso mondano di chi non ha capito niente e magari pretenderebbe che uno come Pirandello fosse così come lui vorrebbe che fosse, ossia la più grande delle idiozie (non fu immune Benedetto Croce).
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ALTRE LETTURE
SE OMERO E GLI ALGORITMI SI DANNO LA MANO di Riccardo Paradisi
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Già finita la mia vita? Questo pare dire il drammaturgo che sussurrava all’orecchio del figlio Stefano qualcosa che aveva a che vedere con l’«olivo saraceno» della sua terra natia, così angosciosamente associata alla pazzia della moglie e a un’infanzia dove aveva scorto buche simili ad abissi. E poi l’immagine dell’attrice Marta Abba, fresca e consolante, ma pure intrecciata al pudore e al coriaceo moralismo di chi la pensò e l’amò sempre. È lei la donna alla quale Pirandello confessa di «dover tutto». Il pensiero a lei, solo a lei, non certo a tanti altri, tantomeno a quelle «canaglie fameliche» e quei «parassiti dell’ingegno» dei quali si sentiva vittima. In buona parte, a proposito di questi omuncoli della politica e della critica, aveva ragione piena, anche se, come Collura scrive, Pirandello era vittima del complesso del perseguitato. Lui consapevole d’essere genio, dotato di forte autostima, ebbe a ragionare e a negoziare con tanti idioti conformisti. Scrisse, fieramente, a Marta un giorno: «I fischi degli idioti e dei nemici non mi farebbero nulla». Annota Collura: non sente più le martellate del fabbro, o del mondo, «lui non ode più niente. Finalmente può chiudere gli occhi, quest’uomo cui la vita ha donato senza risparmio l’impulso più potente nella creazione dei capolavori d’arte: l’infelicità». Sì, era infelice. Profondamente e vivacemente infelice. Lasciò incompiuto i Giganti della montagna, che lui considerava «orgia di fantasia… leggerezza di nuvole su profondità di abissi». Pensava, e lo
ogos non è solo il discorso, né si può intendere come semplice parola il Verbo che secondo Giovanni sta all’inizio di tutto. È inevitabile, se vogliamo recuperare il senso perduto del logos, paragonarlo ai numeri perché i loro destini si sono a tal punto intrecciati che l’uno non sarebbe esistito senza l’altro. È questa la tesi di Paolo Zellini nel suo Numero e logos (Adelphi, 449 pagine, 32,00 euro), due entità che appaiono insieme già nei versi di Omero,di cui si intuisce l’affinità nelle prime teogonie, nella tragedia antica e nella filosofia pitagorica.Il libro di Zellini scopre una fitta trama di analogie e corrispondenze tra concetti scientifici e formule sapienziali. Pensare al logos non si riduce a una vana evocazione di ombre, miti e tradizioni, ma porta a recuperare una costellazione di significati che appartengono alla scienza più avanzata.
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Pirandello messo a nudo
Tra le sue indicazioni testamentarie, quella di essere avvolto senza abiti in un lenzuolo. Ed è così, nella sua essenzialità di essere umano, che Matteo Collura ci restituisce, in una biografia non ortodossa, il grande scrittore. Svelandone i misteri, la solitudine, la disperata infelicità di Pier Mario Fasanotti confidò a Marta, già alla prossima «diavoleria» letteraria. Ancora una volta la sua tormentata esistenza entrava nella sua fantasia: «Una donna rossa, di sogno… la felicità… con un poeta, pupazzo di pazza, che ha una moglie pazza… che lo affoga in un pozzo… la mia fantasia non è mai stata tanto fertile… ma l’anima mia è in un’ansia terribile… come in un vento che non so dove mi debba portare… Al porto della felicità? Ma quella moglie pazza… Forse la morte è vicina». Lo era, infatti. La sua opera è stata sempre «uno strappo nel cielo di carta». Sondava l’anima degli uomini, spesso con cristianissima pietà: e questo pochi lo compresero, in specie coloro che misero in dubbio, da ignoranti, «la moralità dell’opera sua». Pirandello era un cristiano, di netta marca evangelica, che si scagliava contro gli eccessi guerrieri di una certa cristianità. «Io sono religiosissimo» scrisse un giorno a Silvio D’Amico «sento e penso Dio in tutto ciò che penso e sento». Diceva e ripeteva di «vendicarsi d’essere nato». Nel 1935 lo aveva ribadito a Stefano, a proposito della «stupidità e volgarità degli uomini». «Anche tu, figlio mio, ne stai facendo esperienza; e mi fa piacere sentirti dire che seguiti a lavorar contento come se nulla fosse. La verità è che ci vendichiamo, scrivendo, d’esser nati». Certo, la gran folla degli stupidi s’assiepava fuori delle sue stanze. Ma lui avvertiva anche la necessità morale di farsi sentenza contro se stessi, per il fatto che uno deve prendere coscienza dei delitti commessi dalla propria immaginazione. E punirsi per questo. «Delitti anche innocenti… quante cose av-
vengono nella vita, dentro di noi! E poi più nulla. Il gorgo si richiude, e tutto torna uguale». Nel dramma Non si sa come emerge la novità filosofica della «libertà come condanna». L’uomo non ha solo la possibilità di rimuovere dalla coscienza i ricordi abietti, ma anche di autocondannarsi. Uno dei personaggi, a furia di ragionare sopra i delitti che si consumano nel chiuso dell’animo, finisce per darsi in pasto alla follia. Tradimenti pensati, pazzia come spazio quasi necessario se non liberatorio: ecco i temi pirandelliani che non nascevano certamente a caso, avvinghiati com’erano alla sua vita di uomo, di marito sfortunato, di padre ingombrante, di mancato amante-compagno di una donna che gli avrebbe potuto offrire ciò che mai ebbe: la tenerezza, l’accudimento, la sensualità candida e «sapiente».
Struggente un monologo contenuto in Quando si è Qualcuno: «Tu non hai compreso questo ritegno in me del pudore d’esser vecchio, per te giovine. E questa cosa atroce che ai vecchi avviene, tu non la sai: uno specchio - scoprirsi all’improvviso - e la desolazione di vedersi che uccide ogni volta lo stupore di non ricordarsene più - e la vergogna dentro, la vergogna allora, come di un’oscenità, di sentirsi, con quell’aspetto vecchio, il cuore ancora giovine e caldo». E poi: «Veramente quando si è Qualcuno, bisogna che al momento giusto si decreti la propria morte, e si resti chiusi - così - a guardia di se stessi». Il bisogno di amare di un uomo non più giovane che, scrive Collura, «si dibatte nell’incomprensione, vittima delle crudeli leggi della società… ed è lei, non può che essere che lei, Marta Abba, l’oggetto di quell’amore disperato».
CON ROZANOV NEL CUORE DELL’ORTODOSSIA *****
asilij Rozanov intraprese il viaggio ai tre monasteri legati alla figura del beato Serafim di Sarov (uno dei più famosi asceti del XIX secolo) nella speranza che in quei luoghi benedetti potesse migliorare la salute della figlia Tanja. Un pellegrinaggio in cui ebbe modo di osservare la folla di pellegrini di ogni ceto sociale e di ammalati in attesa di una guarigione miracolosa, di godere della quiete irreale che circonda i monasteri ortodossi. Il viaggio offre al filosofo l’occasione per rappresentare la realtà del monachesimo mettendola a confronto con l’interpretazione del cristianesimo inteso come religione della sofferenza. Per eremi silenziosi (Lindau, 91 pagine, 12,50 euro) racchiude molti dei grandi temi filosofico-religiosi di Rozanov.
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QUANDO LA CHIAVE È L’IMMAGINAZIONE *****
è un potere sepolto nel nostro io che la maggioranza delle persone sciupano senza la consapevolezza di gettar via un tesoro. Baloccandosi in fantasticherie e sogni a occhi aperti. È il potere dell’immaginazione, quella funzione che porta la nostra mente a incidere nel mondo, aprendo scenari nuovi oltre il tirannico dato di realtà. Piero Morosini, esperto internazionale di management,in Le 7 chiavi dell’immaginazione (Etas edizioni, 240 pagine, 22,00 euro) accompagna il lettore alla scoperta del potere magico dei sogni prendendo a modello alcune realtà comunitarie e aziendali. Che cosa hanno in comune, scrive infatti Morosini, la comunità di San Patrignano, la compagnia aerea Easyjet e le aziende di abbigliamento Diesel e Zara? Ecco la risposta: la presenza di un leader in grado di immedesimarsi in coloro che ha di fronte, siano essi clienti o persone bisognose di aiuto e di creare un futuro di successo usando il potere dell’immaginazione.
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Danza
MobyDICK
pagina 20 • 2 ottobre 2010
spettacoli DVD
TUTTO IL VENTENNIO IN NOVE CAPITOLI
di Diana Del Monte
na giovane mini-rassegna che sogna di diventare grande, grandissima, la più importante della capitale. Queste le ambizioni di Tersicore. Nuovi spazi per la danza, festival di danza contemporanea dell’Auditorium della Conciliazione di Roma; a svelarle, durante la conferenza stampa, è stato Valerio Toniolo, amministratore delegato del teatro: «La speranza è quella di riuscire a creare un appuntamento fisso, in collaborazione con Romaeuropa Festival, che si affermi come un polo d’attrazione
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Kylian, Abbagnano & Co. Le ambizioni di Tersicore per la danza contemporanea italiana e internazionale di altissimo livello». La quinta edizione, in effetti, sembra nata per gettare le fondamenta dell’ambizioso progetto; sotto lo sguardo attento di Eleonora Abbagnato, prima ballerina dell’Opéra di Parigi e madrina dell’evento, infatti, Tersicore propone quest’anno un programma breve, solo cinque appuntamenti, ma di qualità. A inaugurare la manifestazione, mercoledì scorso, i giovani danzatori della Nederlands dance theatre II, fucina di giovani talenti che dal 1978 affianca la formazione principale. Dal 1990, la giovane compagnia è entrata a far parte della struttura artistico-organizzativa ideata da Jiri Kylian; vent’anni fa, infatti, il coreografo ceco ha voluto creare una triade in grado di accompagnare e valorizzare tutta la vita artistica del danzatore: la Ndt1, la formazione originaria, composta di trenta danzatori dai
Televisione
alla marcia su Roma alla presa del potere, passando per il delitto Matteotti, la costruzione dello Stato totalitario, l’ascesa, la resistenza e la caduta. Quattro ore e mezzo in compagnia di due grandi nomi della cultura italiana: Renzo De Felice, massimo storico del Ventennio, e Folco Quilici, documentarista di lungo corso che monta immagini di repertorio e documenti d’epoca in rigoroso contrappunto. Questa, in sintesi, è la Breve storia del fascismo che l’Istituto Luce propone in nove capitoli. Divulgazione e rigore, come comanda il vecchio defunto servizio pubblico.
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22 ai 40 anni; la Ndt2, l’ensemble di giovani talenti dai 17 ai 22 anni visti mercoledì all’Auditorium; la Ndt3, una compagnia formata da danzatori professionisti over 40, che speriamo di vedere presto, che non ha nulla da invidiare agli altri due elementi del gruppo. Per ognuna, Kylian, che dallo scorso anno ha lasciato la direzione artistica a Jim Vicent, ha costruito un repertorio vario e valido, capace di esaltare le peculiarità delle diverse formazioni e sviluppare al massimo il potenziale artistico di ogni stagione della vita. Dopo l’appuntamento capitolino, il giovane ensemble di 18 elementi è oggi a Modena, al Teatro Luciano Pavarotti. In questa piccola tournée italiana, i giovani della Ndt2 hanno presentato quattro coreografie: Déjà vu e Solo di Hans Van Manen, in prima nazionale all’Auditorium, Sleepless di Kylian e Minus 16 di Ohad Naha-
rin, un patchwork coreografico travolgente che porta sul palco la compagnia nella sua totalità, accompagnata da un’eclettica ed entusiasmante compilation musicale. Il programma di Tersicore proseguirà poi, il 7 ottobre, con il Ballet Preljocaj, per la seconda volta ospite della rassegna, e il 22 e 23 ottobre con lo spettacolo in due serate ideato dalla madrina del Festival, Eleonora Abbagnato e i Coreografi del XX Secolo. Un’elegante e raffinata antologia quella proposta dalla prémière danseuse che vede una selezione di artisti tra i più validi oggi sulla scena ripercorrere le tappe fondamentali della storia della danza contemporanea, da Lamentation di Martha Graham (1934) al passo a due del balcone da Romeo e Giulietta di Roberto Cannito (2010). Il 13 novembre, infine, il sipario della quinta edizione di Tersicore si aprirà per l’ultima volta su Winter Variation, l’ultimo lavoro del coreografo israeliano Emanuel Gat, realizzato in collaborazione con il Romaeuropa Festival. Le premesse sembrano buone, per le ambizioni restiamo in attesa.
CANTAUTORI
C’ERANO UNA VOLTA I BRIGANTI DI BENNATO riganti si nasce. E lui modestamente lo nacque, si direbbe parafrasando Totò. Anno dopo anno, le scorribande di Eugenio Bennato nel mondo del folk hanno avuto il pregio di conquistare all’intera Penisola il Taranta Power. Galeotta fu Brigante se more, canzone da lui composta trent’anni fa su commissione di Anton Giulio Majano per L’eredità della Priora. Una storia che ha riportato alla luce le rivolte sudiste alle soglie dell’unità d’Italia. Smessi i panni del musicista, Bennato riannoda le fila di quella storia sanguinosa in Briganti se more (Coniglio, 224 pagine,14,00 euro).
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di Francesco Lo Dico
“Presa diretta”, una parentesi d’intelligenza
na parentesi di intelligenza ce la dobbiamo pur concedere. Spostiamo l’attenzione dalle reti Mediaset, saltiamo Rai 1 e Rai 2 e andiamo su Rai 3. Domenica in prima serata c’è Presa diretta, programma di inchieste diretto e condotto da Riccardo Icona. Uno dei temi più attuali sviscerato da Icona è stato il rapporto tra donna e lavoro. Il telespettatore ha avuto un immediato attimo di vertigine: ha visto le donne così come sono, ossia un misto di cervello, emozioni, famiglia, maternità, ambizioni professionali, tempo libero. Sembra ovvio, ma molte reti ci mostrano ormai la donna come riduzione a cosce che si accavallano, a scollature ammiccanti, a battute eternamente virate sulla comicità sessuale da tinello di periferia culturale. Presa diretta, con interviste, dati e scenari micro e macro, ha messo il dito sulla piaga: l’Italia, con l’eccezione di Malta, è all’ultimo posto per quanto riguarda
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la parità uomini e donne. Partiamo da casi singoli, col vantaggio che ha la televisione, ossia dare un volto (mobile e parlante) a un problema che di solito risulta freddo e magari noioso se viene trattato sulle pagine dei giornali. Stefania B. è stata responsabile marketing di una multinazionale fino a quando ha avuto un figlio. Prima declassata, poi indotta a licenziarsi. Nessuna sorpresa statistica: nel nostro Paese il 27 per cento delle donne abbandona il lavoro dopo il primo figlio.
Dice una «cacciatrice di teste»: oggi la donna deve scegliere tra carriera e famiglia, inoltre c’è la tendenza a fare figli sempre più tardi perché si vuole essere prima «accreditati» nel mondo del lavoro. Emanuela, barista nel Comasco, ha avuto un figlio con problemi epilettici. Il suo «capo» le ha detto: «Questo proprio non ce lo dovevi fare». Licenziata. Emanuela si è rivolta alla magistratura, che le ha dato ragione. Una madre vicentina, laureata alla Bocconi con 110 e lode si è vista rifiutare la possibilità di lavorare part time (sei ore il giorno). Iacona ci mostra come le cose cambiano radicalmente in un Paese come la Norvegia. Qui (dove l’indice di natalità è dell’1,9 per cento, un vero record) i politici hanno agito con la forza della legge, poco importa se di destra o di sinistra. Al governo e nel parlamento le
donne sono almeno al 50 per cento. Nel settore privato si devono ancora fare passi in avanti, ma si è già avanti. Un allora ministro dell’Economia (della destra) ha fatto approvare una legge in base alla quale un’azienda esce dalle quotazione di Borsa se nel suo consiglio di amministrazione non ha almeno il 40 per cento di donne. Non solo le donne ma anche i padri hanno il permesso parentale, ossia si possono allontanare dal lavoro per accudire i figli. Anche i liberi professionisti, aiutati dallo Stato. La telecamera ha inquadrato tre papà con i figli (sei in tutto). Tra questi c’era il consigliere del primo ministro (che pure lui usufruì della legge). Unanime il consiglio che i norvegesi danno al resto dell’Europa: nulla alla fine si fa (se non chiacchiere) senza la forza della legge, unica a portare nella società una trasformazione radicale, con benefici economici indiscussi e comprovati dalle statistiche. Che squallido parlare di donne solo con i cabaret, i concorsi di bellezza e la pubblicità dei profumi. Occorre cambiare (p.m.f.) canale. E sovente.
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poesia
2 ottobre 2010 • pagina 21
Con Tessa nell’eden del dialetto
LA POBBIA DE CÀ COLONETTA L’è ceppada la pobbia de cà Colonetta: tè chi: la tormenta in sto Luj se Dio voeur l’à incriccada e crich crach, pataslonfeta-là
di Francesco Napoli elio Tessa sta al centro della letteratura milanese del Novecento ed è tanto più centrale in quanto dei poeti dialettali di questo periodo è quello che più si mantiene prossimo alla tradizione del secolo precedente, cioè all’eden della poesia dialettale», parola di Pier Paolo Pasolini che in materia di dialetti qualcosa ne sa. Come per Napoli e per Roma, anche per Milano si possono distinguere due momenti corrispondenti a due differenti linee poetiche: la prima, cresciuta all’ombra di Carlo Porta, raggiunge i vertici proprio con Delio Tessa; la seconda, successivamente, si esalta nell’innovazione profonda data alla materia da Franco Loi. Il quale ha confessato, in un recente e molto approfondito libro-intervista (Da bambino il cielo. Autobiografia, Garzanti), di aver scoperto Tessa tardi, per cui
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il club di calliope INFINE L’ARRIVO DEL GIORNO
Notte e poi ancora notte a folate sferzanti senza sosta preda di un rivolgimento brado. E così continua, e non vedi fine. Notte e poi ancora notte che non diminuisce
quando Dante Isella presenta parti del suo Strolegh sull’Almanacco dello Specchio 1973, ravvicinandolo proprio a Tessa, confessò di non averlo fino ad allora letto. Ma poi ci si mise su, innamorandosene tanto da affermare a ragion veduta, e con quel lombardismo dell’articolo prima del cognome, «che il Tessa scrive con una maestria straordinaria dal punto di vista della musicalità del testo, sfruttando la ricchezza di un vocabolario ibrido tra il milanese di città e quello arioso (…) inserendosi nella tradizione europea più moderna».
ma l’à trada chi longa e tirenta, dopo ben dusent ann che la gh’era! L’è finida! eppur … bell’è inciodada lì, la cascia ancamò, la voeur nó morì, adess che gh’è chí Primavera … andemm … nà … la fa sens … guardegh nò.
Figlio unico di una famiglia d’origini modeste, Delio Tessa (Milano, 1886-1939) non aveva granché voglia di studiare e dopo aver faticato a raggiungere una laurea in legge in quel di Pavia, si mise a esercitare l’avvocatura con l’amico di una vita, quel Carlo Fortunato Rosti che sarà il suo più fedele esecutore delle volontà letterarie postume. Un grande amore non corrisposto per una giovane pianista lo segnò per la vita e, antifascista convinto, per andare avanti si affidò a collaborazioni, pubblicando da vivo la sua prima e unica raccolta con Mondadori nel 1932: L’è el dì di Mort, alegher! Com’era fisicamente? Ce lo racconta Carlo Linati: «Non molto alto, minutino, sorridente da una faccetta lievemente rosata, un dente d’oro nella bocca vizza e, dietro gli occhiali (era miope) ballettanti, un po’malsicuri nella loro orbita, quei suoi occhi grigi ed acquosi, da cordiale allucinato.Vestiva un po’ demodé. Nella bella stagione: pantaloni di tela bianca, solino, cravatta, maggiostrina sulle ventiquattro (o ventitré?). Se era nuvolo, portava sempre sul braccio la vecchia ombrella a becco di suo padre. D’inverno invece indossava un paletot color tanè (tabacco) che gli dava l’aspetto di un notaietto di provincia. È stato anche un fine dicitore di poesie, che preparava come si preparerebbe
VIBRANDO INSIEME A CESARE VIVIANI in libreria
e grava finché dura. Infine avverti l’arrivo del giorno che ti sfiora con una mano: ancora confusa, nella semioscurità, la riconosci, la domandi. Senti mano umana gentile e forte. Ti conduce per vie altrimenti impraticabili, e tu appena riconosci, dal tuo deserto, l’opera degli uomini. Inspiri il possibile e ti affidi all’altro. Pronunci il nome della vita e dici: infine l’arrivo del giorno ti sfiora con la mano. Giovanni Piccioni
di Loretto Rafanelli
i può dire che CesareViviani, con le proprie intuizioni critiche, guidi il critico all’interpretazione della propria poesia, questo perché egli non è solo un eccellente poeta, ma pure uno dei pochi poeti che ha alle spalle un vertiginoso pensiero poetante, una ricca elaborazione teorica, con numerosi saggi sulla poesia e sulla psicanalisi. Ma Daniela Bisogno, l’autrice del bel saggio L’orma dell’angelo. Saggio sulla poesia di Cesare Viviani (Interlinea, 160 pagine, 16, 00 euro), da parte sua, è critico che, riprendendo Karoly Kerényi, sa «vibrar insieme» all’autore di cui parla, sapendo cogliere «gli appelli silenziosi che il critico ha il dovere di cogliere», che è poi la «dedizione all’opera». Questa comunanza dà vita a un libro che dice molto di Viviani, ma pure, attraverso gli scritti del poeta, così ben letti dal critico, della poesia in generale. La Bisagno, ripercorre il viaggio poetico di Viviani dalle prime prove, dove emerge il «processo di sovversione delle strutture sintattiche», ai versi che evidenziano le «tracce umbratili del dolore e della morte, del miracolo e della gioia», e dove si avverte anche l’influenza subita dal pensiero mistico cristiano ed ebraico. Infine, «amico dell’invisibile» si è detto, montalianamente, di Viviani: è vero è questo il filo che sottintende la sua opera, ma pure la continua capacità di rinnovarsi.
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Delio Tessa (da L’è el dì di mort, alegher!)
un concerto» e proprio le poesie dell’amato Porta era solito recitare a un pubblico ristretto di amici e conoscenti, casomai in qualche caffè di periferia. Schivo di temperamento, è vissuto da scapolo, appartato, con il conforto della famiglia e di pochi amici che gli sono stati vicini sino alla fine (purtroppo precoce poiché una setticemia, provocata da un ritardato intervento a un’infezione a un dente, lo portava via il 21 settembre 1939). Per sua volontà fu sepolto in un campo comune di Musocco, ma nel 1950 il Comune di Milano gli decretò gli onori del Famedio al Monumentale, collocando la sua sepoltura fianco a fianco con quella di Alessandro Manzoni. La critica si è fin troppo soffermata su un preconcetto e cioè sulla sua presunta tendenza al bozzettismo minore e al verismo ottocentesco, attribuendolo anche al persistere negli ambienti culturali milanesi delle propaggini di una cultura scapigliata interpretata da Lucini e venature elegiaco-crepuscolari, come il tema dei vecchi, ereditato tra gli altri anche dall’altro dialettale Virgilio Giotti. Ma per Tessa se tutto questo è vero va inteso come l’aver voluto indossare, non senza orgoglio, un abito fuori moda. E basti allora leggere il finale di La pobbia de cà Colonetta («andemm … nà … la fà sens … guardegh nó») con tutto il carico di inorridito dolore che è tutt’altro che bozzettistico.
La base del suo linguaggio è certamente il milanese «basso» e popolare, quello ruvido e un po’ ostico di una Milano che allora già non c’era più ma sul quale vanno a innestarsi, con fantasie degne del miglior Palazzeschi o accortezze fonosimboliche di stampo pascoliano, accorti pastiche lessicali provenienti non solo da altre sponde del dialetto stesso ma anche da lingue colte come italiano, tedesco, latino ecclesiastico, inglese («D’intornovia/ damazz e pretascion,/ veggiabi, vesighett, ghicc, paracar,/ tutta la compagnia/ morta la se descanta/ ai reciamm del grossista del catar!», in A Carlo Porta). Sul piano tematico, poi, sembra prevalere quello funerario, tema in evidenza in Caporetto 1917, versi sicuramente portati dalla disastrosa situazione politica italiana del primo dopoguerra. Le sue liriche sono improntate a una curiosa, ma certamente singolare originalità, in cui il discorso appare disorganico e frammentario, e il contenuto pervaso da una sconfinata desolazione, che, in parte, è di origine culturale (scapigliatura lombarda, ma anche il Decadentismo francese, nonché il pessimismo del romanzo russo,Tolstoj,Turgenev e Dostoevskij) e, in parte, è prodotto dalla sua inquieta personalità, dominata dalla sfiducia negli uomini e nelle loro istituzioni; dalla stessa consapevolezza - abolita ogni fede religiosa in senso positivo - di un destino duro e inflessibile. E allora si legga con coraggio la Mort de la Gussona o De là del mur o Poesia dell’Olga, quest’ultimo poemetto chissà, forse antesignano di quelli su Carla e Rudi firmati anni più avanti da Elio Pagliarani.
i misteri dell’universo
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ello studio degli eventi antichi sono utili non solo i testi di carattere storico o scientifico, ma anche testi letterari apparentemente slegati dal passato. Dopo decenni ho riletto le poesie di Catullo, parte delle quali scritte sul lago che ora chiamiamo di Garda, noto anche con il nome antico di Benaco, ma che Catullo chiama lago lidio. Lago che è il maggiore dei laghi italiani, noto per il Monte Baldo che lo delimita a est, dove passava nella prima guerra mondiale la linea del fronte e dove combattè mio nonno... Lago dalle sponde assai belle, dal clima dolce che permette la crescita di limoni, e celebre per la bellissima penisola di Sirmione. Qui viveva Catullo, qui i romani avevano splendide ville, il luogo era famoso per le terme ancora esistenti. Qui Catullo scrisse quella che considero una delle più belle poesie della letteratura, dedicata alla sua amata (ma poco fedele) Lesbia, cui dice: «Baciami mille volte e ancora cento, poi nuovamente mille e ancora cento, e dopo ancora mille e dopo cento, e poi confonderemo le migliaia, tutte insieme per non saperle mai...». Versi che certo D’Annunzio ripetè alla sua maniera ad altre Lesbie nei cui confronti era lui forse infedele.
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D’Annunzio aveva comperato la villa, divenuta poi il Vittoriale, che era stata di Cosima Wagner, dove una bambina rivelò il proprio genio musicale giocando con i tasti del pianoforte di Liszt, e divenne la grande Giuseppina Cobelli, soprano ora quasi dimenticato, che sorride con un micio in grembo dalla sua modesta tomba nel cimitero di Gardone Riviera. A Giuseppina avrei mandato i mille baci e ancora cento sognati da Catullo; e attorno al lago ora vivono non poche altre stelle della lirica di oggi e di qualche tempo fa, le elenco senza dire dove, Fiorenza Cossotto, Katia Ricciarelli, Maria Laura Martorana, Adriana Lazzarini, Adriana Maliponte, Mietta Sighele... Non so se l’elenco è completo e trascuro altre persone pure associate alla musica... e certo i mille baci e ancora cento ben sarebbero meritati da qualcuna di queste stelle. Al di là della divagazione romantica ispirata dal Lago di Garda, di grande importanza è il termine usato da Catullo, lago lidio. Il termine si riferisce agli Etruschi, provenienti secondo la tradizione classica proprio dalla Lidia, tradizione che ora può essere confermata da considerazioni linguistiche e genetiche. Catullo aveva portato sul lago dall’Adriatico una sua grande barca; era a lui ben noto che gli Etruschi arrivavano spesso in barca sul lago, proveniendo dall’Adriatico, fatto forse ampiamente discusso nel perduto libro che su di essi scrisse l’imperatore Claudio. Fatto che oggi sembra facile, ma in passato non lo era, quando i fiumi della pianura padana
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ai confini della realtà
Cartoline
dal lago lidio
di Emilio Spedicato non avevano argini e bastavano poche giornate di pioggia a farli straripare e divenire larghi decine di km. Occorreva quindi una tecnica di navigazione adatta per questo tipo di fiumi. Possiamo dare per certo che questa tecnica fosse in possesso dei più grandi navigatori dell’antichità, i Pani dell’India (la parola Pani significa acqua in bengalese e
Pani ed Etruschi visitassero il Garda, una delle porte di ingresso delle Alpi, che permetteva di evitare le gole dell’Adige. Abbiamo evidenza che raggiungessero anche il lago di Como: altra porta di ingresso per la Germania via il passo dello Spluga di antichissimo utilizzo? L’unico indizio a me presente è l’inusuale elevata percentuale di occhi
Così Catullo chiamava il Garda, derivando il nome dalla Lidia da cui provenivano gli Etruschi. I quali, forse al seguito dei Pani, si spinsero con le loro navi in quelle acque e in quelle di altri laghi. E ai Pani si possono far risalire gli occhi verdi così diffusi nel lecchese... altre lingue dell’India), abituati a navigare per fiumi come il Gange, lo Yamuna, la Sarasvati prima del suo disseccamento, l’Indo con i suoi vari affluenti... Navigatori che seguendo i monsoni raggiungevano facilmente i porti dell’Egitto sul Mar Rosso e vi lasciavano smontate le grandi navi tenute insieme da corde di fibra di cocco. Quindi raggiungevano il Nilo per lo Wadi Hammamat portando con loro navi piccole pure smontate, le rimontavano a Tebe e con quelle navigavano per il Mediterraneo. E ricordo quanto detto in un precedente articolo, che gli Etruschi erano lavoratori specializzati, in particolare di gioielli, spesso al seguito dei Pani. Abbiamo quindi dal passo di Catullo il suggerimento che
verdi nel lecchese, informazione che devo al mio oculista. Gli occhi verdi sono abbastanza comuni, ed estremamente apprezzati nelle donne nell’Hindukush, vedasi il libro di Hosseini sul ragazzo che inseguiva gli aquiloni. Sono rari nella popolazione generale, ma curiosamente sembrano avere una percentuale di presenza elevata fra i... soprani! Ricordiamo Virginia Zeani, dai colleghi considerata la donna più bella del mondo e famosa per i suoi occhi verdi. Ricordiamo la grande Fanciulla del West che è stata Gigliola Frazzoni, dalla collega Luciana Serra definita più che bellissima e con gli occhi verdi. E fra i soprani sopra citati che vivono attorno al lago di Garda uno ne esiste, con gli occhi verdi, Maria Laura Martorana, soprano di coloratura, recente vincitrice dell’Oscar della Lirica; ha cantato rosso vestita una splendida Regina della Notte il 31 agosto all’Arena di Verona. Quanto sopra suggerisce che un nucleo di Pani provenienti dall’India, ricchi e con mogli dagli occhi verdi,
localizzati nella zona di Lecco che è ingresso naturale nel lago arrivando dal fiume Adda, abbia lasciato una eredità genetica attinente agli occhi verdi.
Ma la maggiore evidenza di contatti con il Mediterraneo e la lontana India viene dal lago di Iseo, detto, come scrive il Coronelli, nel suo libro che fu il primo preso a caso nella libreria del Centro studi camuno a Capodiponte, e sulla prima pagina che a caso aprii, lago di Siviano. E Montisola, dice il Coronelli, era detta isola di Siviano, e ancora oggi il suo porticciolo si chiama Siviano; e il fiume Oglio era detto fiume Siviano. Siviano può certamente derivarsi da Siva-Shiva, la divinità dei Pani, nel libro dell’Esodo detta Sefon (detto Sirviah nel Sedicesimo secolo dai Kafiri del Kabulistan). Questo suggerisce non solo che i Pani arrivassero in quel lago, ma che ci avessero delle sedi permanenti. Per quale motivo? Possiamo solo speculare, dato che la religione e la storia dei Camuni è ignota. Ma notiamo che Camuno può significare popolo di Manu, che i Germani sono detti da Tacito discendere da tre figli di Mannu, che l’Avesta parla di un Manu sopravvissuto al diluvio in una caverna sotto la cima di un monte. E una simile caverna esiste proprio sotto la cima di Montisola, sulla quale una chiesetta cristiana certo ha sostituito un più antico luogo di culto. Si può pensare a contatti antichissimi fra la meravigliosa civiltà della Val Camonica e la lontana e sviluppatissima civiltà dell’India; e questo prima e dopo il diluvio. Arguire di più non mi è ora possibile...
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato
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Meno carte e più servizi. La svolta sta per arrivare
LE VERITÀ NASCOSTE
L’ufficio complicazione cose semplici non deve avere alcun spazio nelle Regioni. Sburocratizzazione e semplificazione amministrativa sono un “credo”che spero presto verrà tradotto in uno specifico disegno di legge, che darà il via ad una vera e propria rivoluzione a costo zero per semplificare la vita a cittadini e imprese: in altre parole meno carte, meno sportelli e più servizi. Se ogni cittadino è molto sensibile al problema, ancora di più lo sono le imprese, specialmente quelle piccole, che in quanto tali non sono dotate degli strumenti economici e strutturali per sopportare i costi della burocrazia. Basti pensare che, ben il 70% degli imprenditori veneti, per esempio, ritiene che il riordino, la riduzione e la semplificazione delle procedure amministrative debba essere un’azione prioritaria delle istituzioni. Semplificazione vuol dire ad esempio tagliare passaggi procedurali, controlli, adempimenti inutili, eliminare tutto quello che è superfluo o addirittura dannoso per il buon funzionamento dell’amministrazione. Un cambio di approccio nei confronti del cittadino, nell’ambito del quale la collaborazione del personale e dei dirigenti sarà fondamentale.
Daniele Stival
UNA PRECISAZIONE DI NUCARA Leggo con ritardo e La ringrazio per il bell’articolo che Marco Palombi ha voluto dedicarmi su liberal il 18 settembre scorso. Articolo fin troppo accurato quanto alla ricostruzione della mia biografia privata e pubblica. Peccato però che l’estensore non resista alla poco professionale tentazione di scivolare su toni da rivista di parrucchiere, indulgendo alla profusione di notizie non-notizie e in quanto tali miserevoli e lesive prima di tutto della sua stessa dignità di aspirante “professionista”. Mi riferisco, tra le altre meschinità profuse dal nostro, all’insistito e tautologico riferimento all’inesistenza di un partito, come tutti sanno costituzionalmente vivo e vegeto. Oppure alla scadente notizia, secondo la quale le capacià professionali di Chiara Capotondi, mio addetto stampa, sono incapsulate nello scoop rivelatore della sua ben nota parentela. O, ancor peggio, alla sconvolgente informazione sul mio indirizzo di residenza, che mi appartiene da ben trentaquattro anni! Quanto ai miei “saldissimi”legami con la Calabria, si è chiesto il suo dipendente come potrebbe essere diversamente, vista la mia provenienza anagrafica e il fatto non trascurabile che, su
cinque legislature che hanno sancito la mia elezione al Parlamento, quattro mi abbiano assegnato il seggio in quella regione? Può darsi che, come dice Casini, il Pri sia un «simulacro di partito», ma è «l’unico partito laico rimasto sulla scena politica» (sempre Casini). Il Pri mantiene infatti viva e attiva la sua struttura organizzativa: Consiglio Nazionale e Direzione Nazionale, eletti nei regolari congressi che continua a celebrare. Durante il fascismo il Pri era in condizioni molto peggiori, ma non mi risulta che i bollettini del regime lo classificassero con l’aggettivo “inesistente”. La mia collocazione politica, infine, è precisissima, perché dettata dalla linea espressa proprio da un congresso, quello del 2007, e perché risponde alle alleanze che sono state stipulate. In particolare, sono stati quattro i congressi del Pri ad indicare, e poi confermare, l’alleanza con Silvio Berlusconi. Ed è talmente precisa questa mia collocazione che quando, da Forza Italia prima e dal Pdl poi, mi è stato proposto di sciogliere il partito per aderire ad una formazione più grande, ho ringraziato e sono rimasto sotto la mia bandiera, che è quella dell’Edera. Non intendo ammainarla. E Lei, caro Direttore, lo sa bene, perché
L’IMMAGINE
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Vende i suoi capelli: licenziata! TORONTO. Stacey Fearnall, per onorare la memoria del padre morto di cancro qualche tempo prima, ha deciso di partecipare ad un’iniziativa di beneficienza, nella quale ha messo all’asta i suoi capelli. La vendita delle ciocche di Stacey ha permesso di raccogliere più di 2.700 dollari di fondi. La donna, rapata a zero, era un po’ preoccupata circa il suo aspetto, ma non si aspettava certo che le cose prendessero la piega che hanno preso. Infatti Stacey, che fa la cameriera, è stata licenziata dal ristorante dove lavorava. I gestori hanno spiegato che non è nulla di personale, ma che richiedono il rispetto di alcuni “standard”, relativamente all’aspetto fisico: agli uomini, per esempio, è proibito indossare orecchini. «È ridicolo che sia punita per aver fatto una cosa buona», ha detto la donna in un’intervista, ma i suoi titolari hanno spiegato che avevano avvertito Stacey che non avrebbero apprezzato questa sua “offerta” di beneficenza (ma la donna ha ribattuto che non erano stati chiari sulle conseguenze), e le avevano chiesto di trovare un altro modo per raccogliere fondi: in ogni caso, si sono detti disponibili a riassumerla… una volta che le saranno ricresciuti i capelli.
quando mi propose di sciogliere il Pri nel partito unico del centro-destra, rifiutai di firmare quel documento (la Carta dei Valori), che a Palazzo Wedekind firmarono in tanti, compreso l’On. Buttiglione. Proprio per questo il titolo dell’articolo di Palombi, “Il Repubblicano del Re” mi è sembrata solo una trovata gratuita e irriguardosa. I repubblicani, tutti, sono solo dei repubblicani e servono la Repubblica. Potrò anche sbagliare, ma il miglior servizio che ora posso rendere alla Repubblica, è quello di impedire, con le forze di cui dispongo, una deriva del mio Paese. Mi basta citare Ugo La Malfa che tanti anni fa rispose così ad Eugenio Scalfari: «Non mi importa del Pci, non mi importa del Psi, non mi importa della Dc e non mi importa nemmeno del mio partito, mi interessa il mio Paese».
Francesco Nucara
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NO AI MINARETI
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Abbiamo forti perplessità sulla “campagna d’autunno” annunciata dalla Lega Nord (sì ai campanili, no ai minareti) , e ci richiamiamo ai principi di democrazia e pluralismo proprio dell’identità occidentale, oltre che al dna improntato al dialogo e al confronto. Non è più accettabile questo continuo stillicio da parte del Carroccio con argomentiprovocazione. Per non parlare poi delle ripercussioni sul clima d’opinione che potrebbe subire il condizionamento di paure immotivate e irrazionali che provocano risentimenti contro altre professioni di fede. Un conto è schierarsi contro il terrorismo islamico, un altro contro la religione islamica in maniera aprioristica. È evidente che la professione di fede deve restare nel privato senza tentare di istituzionalizzarsi e diventare fatto pubblico, visto che la laicità del nostro ordinamento costituzionale è un cardine fondamentale.
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Nemici amici In altre circostanze sarebbero stati nemici giurati. Ma quando si è soli e bisognosi di compagnia, si possono scoprire amicizie inaspettate. Così questi uccelli, un Kookaburra (a destra) e un anatroccolo, sono divenuti inseparabili. Entrambi orfani e ospiti del Seaview Wildlife Encounter
Alessandro e Ferruccio
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il caso europa Il ministro Tremonti con il presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet: ieri l’Ecofin ha definito i principi che dovranno ispirare il nuovo patto di stabilità europeo. Ma le posizioni sono ancora lontane sulle misure concrete. Nella pagina a fianco, il presidente della commissione europea Barroso e l’economista Mario Baldassarri
Divisioni. Slitta ancora il via libera definitivo alla riforma del patto di stabilità. Ma Parigi e Roma hanno frenato Berlino
L’Europa alla tedesca
L’Ecofin rilancia l’allarme sulla stabilità bancaria: «Il ritmo della ripresa e i rischi legati al debito sovrano potrebbero contagiare il settore» di Francesco Pacifico
ROMA. Tra i Ventisette il debito dell’Italia o il deficit irlandese non fanno ipotizzare crack fragorosi come quello greco. Preoccupano invece le ripercussioni che una ripresa troppo lenta potrebbe avere sulle banche. Soprattutto in prospettiva dei nuovi e più stringenti criteri contabili contabili di Basilea 3.
In questo clima la settimana europea che doveva dare l’assenso definitivo alla riforma del Patto di stabilità rischia di passare alla storia come l’ennesimo fallimento. I Paesi dell’area euro hanno convenuto che non ci sono al momento le condizioni per un accordo, quindi meglio rimandare tutto alla prossima riunione. E tanto basta – soprattutto se si ricorda la perentoria lettera del ministro delle Finanza Wolfang Schaüble ai colleghi la scorsa settimana – per capire l’ennesimo sgarbo alla Germania. Con la locomotiva del Vecchio Continente che nel ventennale dell’unificazione tedesca, scintilla dell’unione monetaria, fa fatica a comprendere l’isolamento alla quale vorrebbero destinarla le altre principali economie dell’area. Se in Europa le cose andranno meglio del previsto a fine anno (+1,8 per cento di crescita contro l’1 precedentemente stimato) è perché la Germania ha ripreso a correre (+3,4 per cento il Pil la previsione di Bruxelles) grazie alla tenuta delle esportazioni verso l’Asia. Ed eccezion fatta per la politica (la Merkel fa fatica a tenere assieme la coalizione) a Berlino le cose non potrebbero andare meglio.
La bilancia commerciale a luglio ha registrato un surplus di 13,5 miliardi. L’indice Dax, con il suo + 4 per cento dall’inizio dell’anno, segna la migliore performance in Europa. L’indice Ifo, il barometro della fiducia di oltre 7mila imprese del manifatturiero, dell’edilizia, dell’ingrosso e del dettagli, è balzato a quota 106,8, a livelli mai visti. A guardare i numeri nella loro crudezza, tutto confermerebbe la bontà di una linea che impone una parità di bilancio propedeutica per trovare nelle pieghe del bilancio i fondi per gli incentivi alla ricerca per le imprese esportatrici. Le quali possono così garantirsi una produzione all’avanguardia e sfidare il dumping sul prezzo fatto degli emergenti. Ma questo schema salta se si guarda appena fuori dai confini tedeschi. Il resto d’Europa arranca in un processo di modernizzazione della propria impresa, che doveva essere completato già prima della crisi. E che ha costretto Paesi come la Francia e la Spagna a sfidare la piazza provando a riformare le pensioni e a riequilibrare il welfare. A peggiorare la situazione c’è anche la scelta dei tedeschi di limitare le importazioni di macchine di precisione dai vicini e quello – nonostante i richiami della Ue o i consigli di Fmi e Ocse – di non aprire il proprio ricco mercato interno ai fornitori di servizi stranieri. Eppoi c’è un castello di debiti nelle banche del Vecchio Continente, che nessuno sa quantificare nonostante tutte le operazioni trasparenza e l’istituzione di nuove
authority. E lo stesso vale anche per la Germania, paese nel quale il sistema è contraddistinto dalla presenza pubblica e da regole opache. Secondo l’associazione bancaria tedesca le nuove regole di Basilea 3, con il Tier I per la capitalizzazione che passa dal 4 al 6 per cento, imporrà per gli istituti locali l’esborso di 105 miliardi. Altrimenti, con la ripresa che rallenta il rientro delle aziende e i bond statali che potrebbero andare a picco, le realtà grandi e piccole per la Germania potrebbero non avere i capitali necessari per pareggiare le perdite.
È per questo che l’Eurogruppo di giovedì – con Francia, Italia e Spagna a tirare le fila forti delle loro passività – ha accettato sanzioni dure (lo 0,20 del Pil) contro coloro che hanno un debito superiore al 60 per cento del Pil. Ma nel contempo ha congelato l’automaticità delle procedure d’infrazione, il blocco ai diritti di voto in seno al Consiglio d’Europa e legato i tempi di rientro a fattori molto controversi come l’indebitamento privato o la congiuntura negativa, che rallenta il gettito. Ed è per questo che ieri l’Ecofin si è soffermato sui rischi sistemici che possono arrecare le banche all’intera area. Nelle conclusioni finali si legge che «nonostante le diverse misure di stimolo adottate in risposta alla crisi il ritmo di ripresa rimane incerto in Europa e negli Stati Uniti a causa delle situazioni di bilancio difficili». Soprattutto i Ventisette temono che «i rischi legati al
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«Senza investimenti non ci sarà ripresa» Mario Baldassarri ribadisce: «Il rigore da solo non basta a dare uno choc all’economia reale» di Franco Insardà
ROMA. «L’Europa procede a una gamba sola: quella del rigore finanziario. Sacrosanto, ma non sufficiente per camminare bene. Accanto al rigore c’è bisogno dello sviluppo». Mario Baldassarri, presidente della commissione Finanze del Senato e capogruppo di Futuro e Libertà, ribadisce il suo pensiero sulla politica economica europea. Secondo l’Ecofin nonostante le recenti performance economiche «migliori del previsto», in Europa la ripresa resta «fragile e incerta». L’Ecofin conferma la situazione di stallo dell’Europa. Da una parte la seria consapevolezza che i rischi legati ai debiti sovrani esistono, soprattutto perché si aggiungono quelli di altri grandi Paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna. E dall’altra? L’incapacità di impostare una strategia europea di crescita che con il rigore finanziario stabilizzi il debito e dia rassicurazioni per il futuro. I ministri economici della Ue hanno «preso nota» delle proposte della Commissione per rafforzare la governance economica e il patto di stabilità. La governance economica non può essere intesa soltanto in termini di patto di stabilità finanziaria. Non dimentichiamoci che all’origine si chiamava patto di stabilità e di crescita... I ministri hanno riaffermato l’importanza di creare una
architettura ”adeguata” sulle politiche economiche e di bilancio. C’è un problema di strategia di politica economica europea e nazionali. Prima fra tutti la follia di disinteressarsi dell’euro forte. Lei è stato uno dei primi a lanciare quest’allarme. Cinque anni fa. Bisogna, infatti, tener presente che ogni dieci centesimi di apprezzamento dell’euro valgono mezzo punto di crescita in tutta Europa. I dati di quest’an-
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Le nostre proposte sono sul tavolo da un anno e adesso che si prepara la Finanziaria attendiamo i contenuti
”
no lo dimostrano: quando l’euro è arrivato a 1,20 sul dollaro e sul renminbi cinese le esportazioni e la crescita sono salite soprattutto in Germania e Italia, dove il manifatturiero è solido. Oggi, invece, con l’euro a 1,35, che punta verso 1,45, si registra un punto in meno di crescita. Che cosa bisogna fare? Modificare lo statuto della Bce, che deve avere, ovviamente, il controllo dell’inflazione che fa in modo egregio e, in alcuni casi con eccesso di zelo, influendo sullo sviluppo. La Bce non può, cioè, guardare soltanto all’inflazione. Anche perché ogni punto di inflazione corrisponde a due
mercato del debito sovrano potrebbero avere un effetto di contagio sul settore bancario». Ieri Mario Draghi, nelle vesti di presidente del Financial Stability Board, ha invitato «le autorità nazionali europee a risolvere il problema dell’eccessiva dipendenza di alcune banche dalle iniezioni di liquidita pubbliche», per evitare che si diffondano «istituti di credito zombie in Europa». Ma questo processo passa per una via opposta a quella che potrebbe essere tentata di seguire l’Europa che si oppone alla Germania. Alla quale il banchiere italiano ha ricordato che l’imperativo è «andare avanti con risolutezza sulla riforma delle regole nel settore finanziario». Il concetto è semplice: gli stimoli servono a poco se ci si dimentica di regolare meglio l’attività di agenzie di rating e degli intermediari finanziari. Perché «la risolutezza mostrata dai regolatori ha portato buoni risultati». Partendo da casa sua, dall’Italia guidata in campo economico da Giulio Tremonti, il governatore ha ricordato che senza la politica del bastone e della carota della Bce – tassi bassi e lotta all’inflazione – «negli ultimi tre anni si sarebbe registrata una contrazione del Pil molto più forte». Con politiche che, secondo i funzionari di via Nazionale, «hanno evitato una ulteriore caduta del Pil dell’1 per cento». Soltanto nelle prossime settimane si capirà se i Paesi dell’area euro vorranno darsi strumenti in grado di ab-
punti di crescita. I presupposti di Maastricht erano che l’euro avesse un’inflazione del due per cento e una crescita del tre per cento. Negli ultimi dieci anni questi numeri sono completamente cambiati. Oggi quali dovrebbero essere i parametri? Da tempo propongo una Maastricht 2 che preveda maggiore rigore sul deficit di parte corrente e più forti sugli investimenti. I parametri dovrebbero essere: zero per il deficit corrente e per ogni un per cento di avanzo corrente l’autorizzazione al due per cento di investimenti. Il presupposto, quindi, non può più essere soltanto un limite di spesa al tre cento. Juncker ha assicurato che la riforma del patto di stabilità non avrà ripercussioni per l’Italia: è vero? In termini di equilibri finanziari non vedo differenze tra oggi e un anno fa. Il problema sorge se dovessero pretendere di indicare un percorso di riduzione del debito, senza prevedere misure adeguate allo sviluppo. Chi ha ragione tra la Germania che tiene i conti in ordine, per poi dare forti sovvenzioni e sgravi fiscale alla sua impresa, e la Francia che, invece, chiede più flessibilità per aiutare l’economia reale? Tutte e due, perché la manovra deve essere di rigore e di investimenti. La Germania ha adottato il rigore, conquistando la leadership della crescita grazie alle esportazioni. Se gli investimenti previsti dalla Francia saranno in parte autofinanziati con l’avanzo corrente
bassare il debito in maniera corposa come chiede Berlino, oppure si seguirà un approccio più morbido come chiedono Francia, Italia e Spagna. Ma non mancano sentori che si vada – o si rischi – questa seconda direzione. Ieri, l’unità, i ventisette l’hanno trovato soltanto per affievolire gli effetti di Basilea 3. Meglio «allungare il periodo di transizione che non deve portare a un nuovo sistema bancario-ombra che aumenta i rischi sistemici». E non bisogna dimen-
sono d’accordo, ma se ha un retropensiero e la flessibilità significa un deficit maggiore le cose non funzioneranno. Cosa dovrebbe fare l’Italia per rimettersi in marcia? Quello che ho sempre proposto: una manovra aggiuntiva che prevede tagli di spesa corrente maggiori del deficit per poter spostare le risorse su famiglie, imprese, investimenti, ricerca, sicurezza. La sua proposta, però, non è stata accolta. Il governo l’ha fatta propria a dicembre scorso, con un ordine del giorno. Ho ricordato anche al presidente Berlusconi, giovedì in Senato, che le proposte di Futuro e Libertà sono sul tavolo e adesso che si prepara la Finanziaria attendiamo di conoscerne i contenuti. Il ministro Tremonti però non è d’accordo. Lui ritiene che quei tagli di spesa mirati e non orizzontali non si possono fare. Io insisto che è necessario farli prima di tutto sulle due voci che sono palesemente sospette di essere non solo sprechi, ma anche imbrogli: gli acquisti per 134 miliardi di euro e i fondi perduti per 44 miliardi. Ognuno, però, ha la sua opinione...
schema credibile e robusto di soluzione delle crisi fondato su regole comuni, in sinergia con le garanzie sui depositi evitando comportamenti di azzardo morale». Eppoi, a differenza di quanto va dicendo da tempo la Merkel, in Europa si considera come principale chiave di votla il contributo della domanda interna. «La fiducia nel funzionamento dei mercati finanziari», hanno messo nero su bianco i ministri finanziari, «dovrebbe essere ulteriormente ristabilita mentre si perseguono gli sforzi del consolidamento fiscale». Olli Rehn – ma il riferimento va oltre Dublino – ha però sottolineato che «data l’attuale situazione di crisi e l’esplosione del deficit per salvare gli istituti bancari è difficile che l’Irlanda possa continuare a essere un Paese a bassa tassazione. Soprattutto per le società». Il monito del commissario Ue agli Affari economici e monetari vale infatti per tutti i Paesi con i conti rosso, che non potranno affidarsi alla leva fiscale per aiutare l’economia reale. Nonostante l’inflazione bassa, il problema vale in primo luogo per le piccole aziende e il mondo delle professioni, che si trovano a fronteggiare costi fissi comunque alti. Secondo un’analisi fatta dal centro studi di Scenari immobiliari, la bassa attività non ha impedito ai canoni per la locazione non residenziale, per gli uffici, di arrivare a settembre nel centro di Milano a 400 euro al metro quadro, a Roma a 340 euro, a Napoli a 245 euro e a Bari a 195 euro.
I membri dell’Unione non trovano neanche l’intesa sulla tassazione sugli istituti di credito voluta dalla Merkel. Eppure sono i tedeschi a tirare la ripresa di tutta l’area ticare neppure la necessità «di mantenere a livello globale un terreno comune di gioco: la possibilità di ottenere un accordo sull’aumento dei requisiti di capitale e la definizione di standard di liquidità adesso deve essere attuata in modo coerente in tutti i Paesi».
In quest’ottica meglio desistere dall’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziare (chiesta da Parigi) e una sulle banche (chiesta da Berlino) . Nella nota finale l’Ecofin ha rilanciato «con un mix di proposte per rendere il settore finanziario più responsabile evitando misure eccessive». Per quando riguarda il balzello sugli istituti meglio «una componente di uno
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l’approfondimento
I problemi per il Bundestag non mancano: invecchiamento della popolazione e debito impensieriscono il “motore” dell’Ue
Germania 2.0
A vent’anni dalla riunificazione, i tedeschi hanno trovato (seppur con fatica) un’identità unica, abbandonando quel concetto di “eccezionalità” adottato nel ’900. Ora la sfida è unire i Länder anche nei mercati mondiali di Ubaldo Villani-Lubelli e nell’immaginario collettivo la caduta del muro di Berlino resta un evento decisivo della storia del Novecento, lo sono molto meno gli undici mesi successivi. Dal 9 novembre 1989 fino al 3 ottobre 1990 la Germania ha, infatti, cercato di porre le basi per ricostruire e re-inventare se stessa: libere elezioni nel marzo del 1990, unione monetaria nel luglio dello stesso anno, il 31 agosto la ratificazione del patto di unificazione e il 3 ottobre la tanto attesa riunificazione. L’artefice di questa impresa in tempi così brevi fu Helmut Kohl. La Germania unita è per noi, oggi, un dato acquisito, normale, quasi scontato, ma in quegli undici mesi non tutti ritenevano opportuno e giusto l’annessione della Germania comunista (DDR) alla Repubblica Federale Tedesca. L’intellettuale di sinistra Günter Grass preferiva una confederazione e temeva la voglia di potenza di una Germania unita, Oskar Lafontaine ed i Socialdemocratici erano critici e
S
sottovalutarono l’euforia popolare per la riunificazione. E per questo persero le elezioni del marzo 1990. In Occidente, poi, Margaret Thatcher, George Bush padre e François Mitterand erano scettici ed avevano paura di un ritorno della grande potenza tedesca. Kohl riuscì ad avere l’appoggio internazionale, in cambio diede l’impegno della futura Germania per la costruzione dell’attuale Unione Europea e soprattutto per l’introduzione dell’Euro.
A vent’anni di distanza possiamo dire che, nonostante siano stati commessi degli errori, l’unificazione tedesca fu un successo e si può fare un primo bilancio. Il momento è, tra l’atro, dei migliori: la Germania è tornata ad essere la prima economica dell’area euro ed un modello per tutto l’Occidente. In occasione del ventesimo anniversario dalla riunificazione della Germania, il Governo federale tedesco ha presentato un rapporto sullo stato del processo di unificazione. Nella re-
lazione sono messi in evidenza punti di forza e di debolezza di tale processo. C’è sicuramente ancora molto da fare, ma i progressi sono indubbi. Del resto, lo stato dell’economia della vecchia Repubblica Democratica Tedesca (DDR) era peggiore di quanto si immaginava o si poteva percepire dall’esterno. Fu attraverso un corposo programma di sostegno ed investimenti economici ai nuovi Länder della Germania dell’Est che si cercò di ridurre il più possibile il gap economico e sociale.
A oggi, l’Ovest ha speso circa 82,2 miliardi di euro per lo sviluppo dell’Est
Fino ad oggi sono stati spesi dalla Germania Occidentale circa 82,2 miliardi di euro per finanziare e sostenere lo sviluppo dell’ex Germania dell’Est attraverso i cosiddetti Solidarpakt I e II. Il Solidarpakt II è ancora oggi in vigore e durerà fino al 2020. Inoltre, fino al 2013 ci saranno anche i fondi dell’Unione Europea. Si tratta di cifre ingenti e di iniziative, che, seppur molto impopolari nelle zone occidentali della Germania - in quanto una parte di tutti gli stipendi viene an-
cora oggi prelevato per sostenere i nuovi Länder - hanno permesso di ridurre sostanzialmente la differenza economica tra le due parti della Germania.
Del resto, fatto 100 il prodotto interno lordo della Germania occidentale, nel 1991 il prodotto interno lordo dei Länder dell’Est era al 42,3%, ma nel 2009 è arrivato ben al 75,0%. Questo è naturalmente stato possibile grazie al processo di privatizzazione delle imprese, che nella vecchia Germania dell’Est erano naturalmente tutte statali. C’è poi da registrate che questo faticoso tentativo di riunire la Germania non solo politicamente, ma anche e soprattutto economicamente si è dovuto scontrare con l’emigrazione di molti cittadini dell’Est nella Germania dell’Ovest: circa 5,5 milioni dall’unificazione ad oggi – un milione in meno da Ovest ad Est. Un dato solo apparentemente negativo, come ha giustamente ricordato la Merkel in occasione dell’anniversario della firma del patto di
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Va controllato il “terzismo” del Nord: insieme all’antimeridionalismo, può divenire pericoloso
L’efficienza (e lo Stato) über alles hanno compiuto il miracolo Le rischiose scelte adottate dopo il 3 ottobre si sono dimostrate vincenti, ma hanno schiacciato il resto del Vecchio Continente di Gianfranco Polillo nella storia più recente la lunga rincorsa tedesca verso un ruolo di primazia europea. Ed il punto di svolta è stato l’unificazione. Prima di allora eravamo di fronte ad un Paese dimezzato, continuamente esposto alle pressioni dell’Est e dell’Ovest. Costretto a sviluppare un’attività diplomatica morbida per non irritare i suoi potenti alleati, dal cui equilibrio dipendeva gran parte della sua sopravvivenza. Si può pertanto comprendere la felicità, non solo delle elite ma di un intero popolo, di fronte alla caduta del muro di Berlino. Con il crollo dell’ultimo simbolo della “guerra fredda” cessava una posizione di minorità. L’orgoglio tedesco poteva nuovamente liberarsi anche a danno dei propri vicini. Se non si capisce questo, si comprende poco delle modalità, soprattutto di tipo finanziario, che hanno accompagnato la riedificazione del Paese. Le strade potevano essere diverse. Si scelse innanzitutto quella più conveniente per la Germania, lasciando agli altri partner europei il compito di arrangiarsi. La scelta principale fu un rapporto di cambio irrealistico – one to one – tra il marco occidentale e quello orientale. Scelta giustificata esclusivamente da considerazioni di carattere politico: non mortificare i cittadini dell’Est. Poteva anche dimostrarsi sostenibile, ma a condizione di svalutare la nuova moneta nazionale, per rispettare il peso effettivo di un’economia più larga, ma meno competitiva. Si preferì invece alzare i tassi d’interessi, per attirare capitale straniero e ottenere i mezzi finanziari all’opera di rilancio dei disastrati lander incorporati. La Francia, chiusa nella torre d’avorio di un orgoglio nazionale altrettanto fermo, non accettò di svalutare il franco, ma seguì la Germania sulla via della stretta finanziaria. Il cerino acceso rimase nelle mani italiane e fu la grande crisi del 1992 che polverizzò la lira, abbattendo le fondamenta del suo sistema politico.
È
Da un punto di vista egoistico, la scelta tedesca si è dimostrata vincente. Grazie anche all’apporto estero, nei lander dell’Est lo Stato ha investito qualcosa come 1.500 miliardi di euro. Una somma che corrisponde all’intero PIL italiano e che fa impallidire gli sforzi compiuti, nel nostro Paese, per venire incontro alle esigenze del Mezzogiorno. Grazie a quelle somme, sono state riconvertite industrie che erano stracotte. Hanno preso corpo le grandi infrastrutture. Si è aperto un canale privilegiato nei rapporti con un mondo, quello ex-comunista, che finalmente usciva dal torpore e voleva recuperare, quanto prima, il tempo perduto. Il risultato è stato il sorgere di un’area economica sempre più integrata dove, per effetto della delocalizzazione, le grandi imprese industriali tedesche potevano produrre a costi infe-
riori, grazie ai minori salari, e ricollocarsi al centro dei grandi traffici internazionali. Il lungo miracolo tedesco si spiega soprattutto così. Un’industria potente, che produce innanzitutto beni strumentali. Relazioni sindacali accomodanti, dovute sia a un’antica tradizio-
Il sentiero di ripresa scelto da Berlino ci ha segnato: la crisi del 1992 polverizzò la lira e la nostra politica ne socialdemocratica, che alle caratteristiche di un mercato del lavoro caratterizzato da un eccesso di offerta: la mano d’opera dell’Est. Una forte propensione alla ricerca e all’investimento. Un welfare austero, attento all’efficienza. Banche (si è visto con la recente vicenda Unicredit) soprattutto legate al territorio e poco propense all’avventura finanziaria. Una mistura eccellente che ha macinato profitti e attivi della bilancia dei pagamenti, ottenendo, proprio dal commercio internazionale, le risorse aggiuntive necessarie per estendere la propria influenza. Erano soprattutto tedeschi i prestiti a favore della Grecia, prima dell’esplodere della crisi. E sempre tedeschi i finanziamenti agli Stati Uniti e al resto dell’Europa. Sono stati questi gli ingredienti che hanno consentito alla Germania di espandersi oltre i suoi confini storici fino a creare, nel cuore dell’Europa, una grande area integrata dal punto di vista economico e finanziario. Ne fanno parte i Paesi liberati dal vecchio giogo comunista e antiche democrazie. Alcune delle quali come l’Austria, unite da una più antica tradizione culturale. Altre come i Paesi Bassi, il Belgio o il Lussemburgo, con un lungo passato d’indipendenza ed anche di fiera opposizione a ogni ingerenza esterna. Altre ancora, come le
provincie orientali della Francia o una parte del territorio nazionale italiano, in bilico, tra pulsioni separatiste dal resto della Nazione e paura di una pura integrazione passiva. Ma è soprattutto nel nostro Paese che quel magnete esercita un’attrazione, che potrebbe risultare fatale. Nel nord, il peso del “terzismo”– industrie sub-fornitrici di quelle tedesche – è rilevante. La loro performance dipende strettamente dalla produzione “made in Germany” e dalle sue possibilità di esportazione. Antiche suggestioni e pulsioni antimeridionalistiche costituiscono, inoltre, un brodo di cottura che può avere effetti imprevedibili, nella sua saldatura con processi reali che spingono verso la progressiva divaricazione e l’illusione che si possa abbandonare la sponda nazionale per essere artefici del proprio destino. Eppure la storia dovrebbe insegnare qualcosa. Non solo quella più antica. Ma quella più recente. Siamo partiti, non a caso, dal processo che guidò l’unificazione: tanta voglia di tornare insieme, tanto impegno, ma innanzitutto Deutschland über alles (Germania soprattutto). Una lezione da non dimenticare.
unificazione. In ogni caso, fino al 2006, la popolazione ad Ovest è costantemente aumentata, è, al contrario, diminuita di circa il 9,5 per cento nell’Est. C’è del resto un evidente squilibrio: nel 2008 in Germania vivevano 82 milioni di persone, di cui solo 16,5 milioni nell’Est, ovvero appena il 20,1 per cento. In più, sono soprattutto i giovani ad abbandonare i territori dell’Est della Germania.
Attualmente sono 452.000 gli anziani tra gli 80 e gli 85 anni e da qui al 2025 si stima che saranno il doppio. Anche le nascite sono diminuite e dalle 200.626 del 1990 si è passati alle 133.284 del 2008. Infine, un dato rilevante è quello della disoccupazione: nei Länder dell’ex Germania comunista è al 13%, nel resto del paese al 6,9. Stando ai dati, la Germania sembra un Paese diviso in due: Est contro Ovest. Secondo uno studio del Die Welt addirittura il 19 per cento dei cittadini della Germania Occidentale non è mai stato nella Germania dell’Est ed il 12 per cento di questi ultimi non ha mai visitato i Länder dell’Ovest. È indubbio che l’unificazione non è ancora del tutto completata e che ha portato con sé numerosi problemi, che ancora oggi non sono del tutto risolti. Ci sono certamente ancora molti delusi, ma è comunque una minoranza. È vero che il successo della Linke (l’estrema sinistra tedesca), che ha nelle regioni dell’ex Repubblica comunista la gran parte dei suoi elettori, è la testimonianza più evidente di come il malcontento cresca e le aspirazioni di quegli undici mesi tra il novembre del 1989 e l’ottobre del 1990 non si sono sempre trasformate in realtà. Come ha recentemente ricordato Angela Merkel, si deve ancora costruire un patrimonio concettuale comune, ma è solo questione di tempo. L’annessione ha sostanzialmente cancellato una parte della storia della Germania. Una volta che il 3 ottobre 1990 si è realizzata l’unità politica, costituzionale ed amministrativa, è poi iniziata la discussione sull’identità della nuova Germania. Non è stato solo un radicale cambiamento per i cittadini dell’Est che hanno finalmente potuto conoscere i principi di libertà e di democrazia. È l’intera Germania che ha dovuto e potuto, finalmente, riflettere su stessa, in cerca di una nuova identità. La Germania ha abbandonato il cosiddetto Sonderweg. Quella via speciale, quello stato di eccezionalità che per tutto il Novecento è stato parte della vecchia identità nazionale. Con la riunificazione la Germania ha iniziato a re-inventarsi. La Germania di oggi ha una nuova generazione che ha trovato una nuova patria nei Länder dell’Est: e questo è il simbolo più evidente del successo raggiunto il 3 ottobre 1990.
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Quito. Ancora altissima la tensione sociale, si rischiano nuove violenze Ecuador è uno di quegli Stati a sud della più nota isola di Santa Lucia. Ma nonostante sia forse meno famoso, benché comparso in qualche campionato mondiale di calcio, potrebbe avere una certa importanza non solo per i milioni di persone che vi abitano e neanche solo per le sue consistenti riserve di petrolio, ma anche perché vi sono in corso avvenimenti che potrebbero dare segnali preoccupanti per tutto il continente con ripercussioni anche oltre. In Ecuador infatti le ultime sono state ore da colpo di Stato, golpe, come si dice da quelle parti. Almeno così sembra. Certo è che il presidente è stato ferito a un piede e assediato da poliziotti e poi liberato da militari. Da qualche tempo alcuni reparti della polizia e dell’esercito manifestavano contro i tagli ai benefici fiscali delle forze dell’ordine. Giovedì le proteste sono sfociate in violenza e nell’assedio al parlamento di Quito, fino al ferimento del presidente Rafael Correa, che si era rifugiato in un ospedale dove di fatto è stato tenuto per dodici ore sotto sequestro. Il presidente dall’interno ha respinto la possibilità di aprire un dialogo con il gruppo di poliziotti ribelli fino a che questi non avessero posto fine alla loro rivolta. «Non farò alcun passo indietro: se volete occupare le caserme, se volete lasciare i cittadini indifesi, se volete tradire la vostra missione, fatelo, se volete tradire la patria, fatelo, ma questo Presidente non cederà», aveva affermato Correa nel corso di un agitato incontro con i leader dei rivoltosi. Allo stesso tempo aveva promesso che al fine di evitare un possibile bagno di sangue non avrebbe permesso che i suoi sostenitori cercassero di portarlo
L’
Ecuador, sventato il colpo di Stato Il presidente Correa rapito e poi liberato Nel Paese torna l’incubo dei militari di Osvaldo Baldacci
l’ospedale la battaglia tra militari per liberarlo è stata senza esclusione di colpi ed ha lasciato sul terreno almeno due morti e quaranta feriti. Dell’irruzione sono stati protagonisti 500 militari del Gruppo Operazioni Speciali di Quito, che hanno combattuto fuori e dentro l’ospedale. Intanto si sono verificati tafferugli e violenze anche
Il 38% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Oltre a poliziotti e militari, hanno protestato anche insegnanti e autisti via dall’ospedale, dove - ha concluso Correa – «mi tengono sequestrato e non mi sento al sicuro». Nella notte poi l’esercito è riuscito a compiere un blitz salvando il presidente e restituendolo alle sue piene funzioni, tanto che ha potuto subito arringare la folla e rinnovare lo stato di emergenza per una settimana, delegando all’esercito anche la sicurezza interna al Paese. Il Capo della polizia si è dimesso per non aver saputo fermare i suoi uomini. Ma intorno al-
in altre zone della capitale e in altre città del Paese. Per alcune ore è stato bloccato l’aeroporto di Quito. Perù e Colombia per la preoccupazione hanno chiuso le frontiere con l’Ecuador. L’Unasur ha riunito d’emergenza a Buenos Aires i dodici Paesi membri. Ora la situazione sembra essersi ristabilita, ma restano i motivi della tensione. Correa ha subito denunciato le violenze come un tentativo di colpo di Stato, rifiutandosi di circoscriverle alle proteste per la di-
Richiamo al dialogo e alla libertà di stampa
L’appello dei vescovi Oltre all’unanime condanna internazionale per gli avvenimenti in Ecuador, anche i vescovi del Paese hanno condannato le violenze. Ma in una nota pubblicata ieri hanno però sottolineato: «Occorre aprire subito un autentico processo di dialogo. Chiediamo al governo e al Parlamento di non imporre le loro decisioni in forma unilaterale, ma di aprire un autentico processo di dialogo che conduca ad una convivenza costruttiva e partecipativa. Chiediamo, altresì, che confermino la loro legittimità ogni giorno, con il rispetto di tutti e al tempo stesso evitando la tentazione di utilizzare il potere a loro conferito al di fuori della cornice dello stato di diritto». L’episcopato dell’Ecuador, “per raggiungere una soluzione della crisi”, lan-
cia «un appello urgente a tutti gli ecuadoriani affinché mantengano la serenità e scelgano la pace sociale, e non lo scontro, quale atteggiamento fondamentale». Ai settori sociali che si sono sentiti danneggiati dalle recenti decisioni del governo,“in particolare ai fratelli poliziotti e militari”, i vescovi chiedono «che si reintegrino nelle loro funzioni come custodi dello stato di diritto» poiché rilevano - «è l’unica cornice possibile per la vita democratica». Infine, i vescovi dell’Ecuador che scrivono «soltanto il dialogo, audace e costruttivo, può condurre verso un Paese migliore», dopo aver rilevato «l’importanza della libertà di stampa e di espressione, libertà che deve essere garantita in modo completo».
minuzione degli stipendi delle forze dell’ordine. E ha esplicitamente accusato l’opposizione di essere coinvolta nel tentato golpe: «non tutti erano poliziotti, c’erano infiltrati di partiti politici», ha detto lo stesso Correa, mentre fin dalle prime ore fonti a lui vicine avevano parlato di “moventi politici” che avrebbero spinto l’azione dei poliziotti in rivolta. Correa ha voluto accusare anche alcuni dei suoi avversari politici di aver diffuso, tra i membri dei servizi, dati falsi sulla contestata legge “Ley de servicios publicos” approvata dal Parlamento sulle condizioni economiche e su altri provvedimenti riguardanti la polizia.
Molti dei sostenitori di Correa schierati fin da giovedì di fronte al palazzo presidenziale hanno puntato il dito soprattutto contro il principale avversario politico del capo dello Stato, l’ex presidente ed ex colonnello Lucio Guitierrez. «Non ci sarà perdono e non dimenticheremo», ha sottolineato Correa poco prima chiedere ai suoi sostenitori un minuto di silenzio per le vittime della rivolta. Eletto nel 2007 e riconfermato nel 2009, Correa si è conquistato la popolarità con misure a favore dei settori più umili (ha moltiplicato i programmi sociali nei settori della salute, dell’istruzione e anche di accesso alla proprietà) e con un approccio duro nel rimborso del debito estero e contro le multinazionali del petrolio. Da giugno infatti una legge impone nuove regole alle compagnie petrolifere e statalizza petrolio e gas, fonti primarie del reddito del piccolo Paese andino. Proveniente da una famiglia modesta di Guayaquil, in una nazione dove il 38% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, nelle ultime settimane, oltre alle proteste dei poliziotti ha dovuto affrontare anche le proteste degli insegnanti e degli autisti. Ha rotto le relazioni diplomatiche con la Colombia dopo il bombardamento da parte di Bogotà di un campo delle Farc sul suo territorio, nel 2008. È un esponente del nuovo socialismo sul modello di Hugo Chavez, e questo resta senz’altro uno dei problemi strutturali cui va incontro gran parte del continente latino-americano: la contrapposizione tra caudillos populisti che non tollerano opposizioni e dall’altra il pericolo di estremisti nostalgici del passato. In mezzo, mancano forze moderate capaci di unire il Paese.
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Il governo cinese vuole portare un proprio uomo sulla Luna
Nuovo audio: «I cambiamenti climatici uccidono il mondo»
Pechino lancia la seconda missione spaziale
Bin Laden torna online e si scopre “ecologista”
PECHINO. Tutto è quasi pronto nella base spaziale di Xichang (Sichuan) per il lancio della seconda sonda lunare. Esperti confermano che anche se sono previste piogge, il programma potrà andare avanti come fissato. Ieri sera un missile Lunga Marcia 3C ha portato nello spazio la sonda Chang’e-2, fino a farla ruotare in un’orbita lunare, a 15 km di distanza e per sei mesi. Il lancio coincide con la festa della fondazione della Repubblica popolare cinese che quest’oggi celebra i suoi 61 anni. Da stamane a Xichang sono arrivate migliaia di persone per assistere da vicino al lancio. Si vendono persino biglietti (a 800 yuan, quasi 80 euro) per vedere da buone posizioni la partenza del razzo. La sonda lunare compirà diversi test e prenderà molte foto in preparazione al lancio della Chang’e-3 che si spera potrà arrivare sul suolo lunare entro il 2013. Il programma Chang’e per la conquista della luna – dal nome di una eroina della mitologia cinese che è volata sulla luna - è stato lanciato nel 2007 con la Chang’e-1, rimasta 16 mesi in un’orbita lunare. Entro il 2017, Pechino spera di portare sulla terra esemplari di rocce lunari; nel 2020 spera di poter inviare un uomo sulla luna. Il programma spaziale cinese è stato reso pubblico nel 2003, con la passeggiata spaziale di Yang Liwei, divenuto un eroe nazionale. Questi, tuttavia, Yang Liwei, il primo cinese nello spazio, non è fra gli astronauti che compongono la seconda missione nazionale ad equipaggio umano del Programma spaziale. Secondo i giornali cinesi il colonnello Yang, divenuto un eroe nazionale dopo aver fatto 14 volte il giro della Terra in solitaria nell’ottobre del 2003, vuole dare un’opportunità del genere anche ad altri astronauti. «Non sarò – dice alla Xinhua – nella missione Senzhou VII». Molti pensano però che l’eroe sia caduto in disgrazia per alcune frasi favorevoli all’Occidente.
ROMA. Dopo il presidente ame-
Allarme terrorismo anche in Svezia Per i servizi Usa c’è l’ombra di al Qaeda sull’Europa
ricano Obama, anche lo sceicco del terrore Osama bin Laden si riscopre “verde”. Il leader del terrore si è rifatto vivo ieri: alcuni siti islamici hanno diffuso un nuovo messaggio audio del fondatore di al Qaeda, che questa volta ha espresso la sua preoccupazione per il cambiamento climatico globale e le alluvioni in Pakistan. Nel messaggio, della durata di undici minuti, trovato dal Site Intelligence Group (il centro di monitoraggio dei siti integralisti islamici) bin Laden cita le inondazioni che nelle settimane recenti hanno flagellato il Pakistan. E dà alcuni consigli agli agricoltori del Sudan, dove abitò alcuni anni prima di inse-
di Pierre Chiartano
STOCCOLMA. Si chiama Saepo (Säkerhetspolisen) ed è l’intelligence svedese. Ieri ha rivelato che è cresciuta la «minaccia terroristica contro la Svezia» e che è stato innalzato il livello di allerta da «basso ad elevato», una scelta non facile perché comporta dei costi di sistema. In ogni caso, gli agenti hanno rassicurato che la minaccia non è imminente. Le rivelazioni dei giorni scorsi assomigliano a una procedura per riaccendere una pista ormai diventata fredda, cioè l’intelligence Usa fa filtrare notizie alla stampa su una rete e un complotto terroristico che da tempo non da più segni di vita, con la speranza che l’uscita di notizie riattivi qualche canale che possa essere intercettato o individuato. Di concerto anche gli apparati d’intelligence dei Paesi possibili bersaglio degli ultrafondamentalisti fanno i loro passi per non trovarsi allo scoperto. La Saepo ha dichiarato che la sua decisione di far salire al livello 3 l’allerta, su di una scala di cinque, è basata su un rapporto dello Sweden’s national centre for terrorist threat assessment (Nct). La relazione parte da quello che essere sembra «un cambiamento nelle attività di certi gruppi svedesi, che si ritiene vogliano colpire il Paese». I servizi di intelligence stanno cercando di acquisire ulteriori informazioni per ridurre la minaccia, e sottolineano che «paragonata alla situazione di altri Stati europei, l’allerta in Svezia è ancora bassa». È anche vero che solo pochi giorni fa c’era stato un episodio particolare. Si era trattato di un allarme bomba su un aereo in volo tra il Canada e il Pakistan: un Boeing 777 della Pakistan Airlines con 273 passeggeri a bordo era stato dirottato sull’aeroporto di Stoccolma, dopo che una donna ha avvertito la polizia canadese che a bordo c’era un uomo con addosso dell’esplosivo. Gli agenti avevano informato il pilota che aveva fatto atterrare l’aereo allo scalo di Arlanda, il principale aeroporto svedese. La polizia svedese aveva arrestato un uomo che si trovava a bordo dell’aereo. Sicuramente la notizia che die-
tro i progetti terroristici che avrebbero dovuto investire l’Europa ci fosse la mano di bin Laden non ha tranquillizzato gli apparati di sicurezza svedesi, anche se nel piano degli attentati veniva menzionata solo l’Inghilterra, la Germania e la Francia. la notizia è stata riportata dalla radio americana Npr. Molti mesi fa, il leader di al Qaida avrebbe inviato una direttiva ai suoi sostenitori, dove indica di auspicare attentati nello stile di quelli compiuti a Mumbai (India) in almeno tre nazioni europee: Francia, Germania e Regno Unito. La National public radio ha citato fonti dei servizi segreti e persone vicine al dossier.
«Sappiamo che bin Laden ha inviato una direttiva», ha dichiarato a Npr, sotto copertura di anonimato, un responsabile che ha avuto accesso a informazioni che riguardano questo complotto. «E in questo caso, non crediamo che gli Stati Uniti non siano sulla sua short list di obiettivi strategici. Lo sono per forza». Gli 007 occidentali hanno scoperto progetti di attentati legati ad al Qaida in Regno Unito, in Francia e in Germania, sul modello degli attacchi di Mumbai, secondo quanto riportato dagli organi di informazione anglosassoni e in parte confermato da responsabili, ma non dai governi interessati. Secondo Npr, uomini armati pensavano di aprire il fuoco sulla folla in luoghi turistici molto affollati in Europa e di assumere il controllo di un albergo su un modello di attacchi che rappresenterebbe un nuovo stile per al Qaida, malgrado i dettagli restino per il momento poco chiari. Per Npr, alcune persone che dovevano partecipare alle sparatorie sono già in Europa. Secondo altri potrebbero recarsi nel Vecchio Continente utilizzando proprio passaporti europei, cosa che complicherebbe gli sforzi per localizzarli e fermarli. Le prime informazioni che riguardano questo complotto provenivano da Ahmad Siddiqui un cittadino tedesco detenuto nella base americana di Bagram, in Afghanistan.
L’intelligence svedese ha rivelato che è cresciuta la «minaccia terroristica contro Stoccolma». Alzato il livello d’allerta
diarsi in Afghanistan. L’audio è accompagnato da un’immagine fissa del capo di al Qaeda e dalle foto delle persone alluvionate che ricevono soccorsi.
«Il numero delle vittime causate dal cambiamento climatico è molto alto, più alto del numero delle vittime della guerra. La catastrofe pakistana è enorme ed è difficile descriverla. Ciò che stiamo affrontando esige un’azione rapida e seria da parte di uomini coraggiosi e di buon cuore per portare soccorso ai fratelli musulmani pakistani». Il video, la cui autenticità deve essere ancora confermata, segna il ritorno di Bin Laden online: mancava dal 25 marzo La data della registrazione non viene svelata e l’unico riferimento temporale è un’espressione di auguri ai musulmani del mondo per la festa dell’Eid al Fitr, che segna la fine del mese sacro del Ramadan, avvenuta il 10 settembre scorso. Due giorni fa al Qaeda aveva già rivolto dure critiche al governo del Pakistan per la gestione dell’emergenza causata dalle devastanti alluvioni di questa estate. Grazie alle quali, però, i terroristi sperano di reclutare nuovi scontenti fra gli sfollati, che vengono attirati con aiuti immediati.
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il personaggio della settimana
l destino dell’uomo che per diciotto anni ha regnato sulla metropoli è segnato. Per il successore, già emerge un nome: quello di Sergei Sobyanin
L’ultimo zar di Mosca Yuri Luzhkov è stato «cacciato» della capitale dal presidente russo. Ma lui cerca di resistere perché sa che su quella poltrona si gioca il vero braccio di ferro tra Putin e Medvedev di Enrico Singer ui fa finta che tutto sia come prima. Anche ieri è arrivato con il suo autista al palazzo rossomattone del Municipio di Mosca proprio di fronte alla statua di Yuri Dolgoruki, il principe di Suzdal, che nel 1147, fondò la città. Un chiaro gesto di sfida quello di Yuri Luzhkov che, licenziato martedì scorso dal presidente Dmitri Medvedev, resiste. Vuole presentare un ricorso alla Corte Suprema e, intanto, ha spedito una lettera di fuoco al Cremlino in cui evoca senza troppi giri di parole l’era del terrore staliniano. «In Russia la paura di esprimere la propria opinione esiste dal 1937. Se anche l’attuale leadership alimenta questa paura con le sue dichiarazioni, allora è facile arrivare alla conclusione che c’è un solo capo nel Paese le cui parole sono scolpite nel granito e devono essere seguite senza esitazioni», ha scritto Luzhkov che ha concluso così il suo atto d’accusa: «Come si concilia questo con i suoi appelli allo sviluppo della democrazia?». In altre parole, il riformista Dmitri Medvedev sarebbe un democratico innovatore soltanto quando gli fa comodo. Ma quando è in gioco
il potere reale - che a Mosca si misura in miliardi di affari e nel controllo del cuore politico della Russia - userebbe i vecchi metodi di Stalin. Parola di Yuri Luzhkov.
L
Il vecchio padrone della città minaccia un ricorso alla Corte suprema e parla di metodi staliniani ma si prepara anche a un esilio dorato
Il vecchio padrone di Mosca, 72 anni suonati, ma una vitalità e una voglia di non mollare da giovane lottatore, non si dà ancora per vinto. Al suo migliore amico, Josif Kobzon, un cantante che è soprannominato il Frank Sinatra russo, ha confidato di avere già affidato ai suoi avvocati il mandato di ricorrere di fronte ai giudici della Corte Suprema. Ed è anche riuscito a portare in piazza, due giorni fa, qualche migliaio di persone che hanno manifestato chiedendo di tornare all’elezione diretta del sindaco che fu abolita da Vladimir Putin, allora presidente, nel 2005, e sostituita con la nomima presidenziale per rafforzare la verticale del potere. Allora Luzhkov non protestò perché Putin lo confermò nel suo posto. Ma adesso, proprio in base a quella legge di cinque anni fa, il nuovo presidente Medvedev ha potuto mandarlo via. E Luzhkov ha scoperto sulla sua pelle che, in fondo, sostituire il voto popolare con una nomina presidenziale non è stata poi una mossa così democratica. Chissà, forse anche la Corte Suprema russa potrebbe essere d’accordo, ma a Mosca pochi scommettono che il sindaco sfiduciato riuscirà a risalire la china e a tornare in sella. Nonostante la strenua resistenza di Luzhkov, la prima parte dello scontro al vertice si è già conclusa e per l’ex sindaco e sua moglie - Elena Baturina, la donna più ricca di Russia - il futuro sarà, probabilmente, un esilio dorato. Magari nella splendida residenza che hanno acquistato a Londra con i miliardi fatti all’ombra di diciotto anni di amministrazione della capitale russa. La battaglia di Mosca, però, è arrivata soltanto a metà del suo percorso perché se è stato, ormai,
messo da parte Yuri Luzhkov, bisogna ancora decidere chi prenderà il suo posto. E proprio su questa successione si misurerà l’esito finale del braccio di ferro tra le due teste del Cremlino: Medvedev e Putin.
Il 2012 si avvicina e, in vista delle elezioni presidenziali che con ogni probabilità riporteranno Vladimir Putin, anche formalmente, nell’ufficio più importante del Cremlino e Medvedev in quello di numero due, ognuno cerca di rafforzare le sue posizioni e il controllo di Mosca è strategico in questa prospettiva. Di Luzhkov si diceva - e non a torto - che era uomo di Putin e, per questo, la decisione di Medvedev di sfiduciarlo è stata interpretata come l’ennesima incrinatura nel tandem che guida il Paese. In realtà, l’incrinatura - se c’è emergerà proprio adesso. I possibili successori di Yuri Luzhkov, stando ai nomi che circolano, sono ben sette. E ognuno ha una storia e una posizione precise nel panorama politico russo. Come vuole la liturgia del potere post-sovietico, Vladimir Putin ha incontrato ieri la dirigenza del partito Russia Unita, di cui è presidente, per discutere i candidati e scegliere la rosa che sarà presentata - probabilmente oggi stesso - al presidente Medvedev come ha riferito il portavoce di Putin, Dmitry Peskov. Con i dirigenti del partito Russia Unita - che è ampiamente maggioritario nel Paese - sono state trattate anche questioni relati-
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ve alla preparazione delle elezioni amministrative che sono in programma per il prossimo 10 ottobre e che saranno un altro momento importante per registrare gli equilibri interni tra il capo di Stato, Medvedev, e il capo di governo, Putin.
La conta dei candidati alle elezioni amministrative è importante per definire la forza degli eserciti dei due leader in campo, ma la battaglia di Mosca è un caso a parte. Il sindaco della capitale gestisce infatti un budget stellare, superiore a quello della maggioranza delle Repubbliche che compongono la Federazione russa, e assorbe il 90 per cento dei capitali che si muovono nell’intero spazio ex sovietico. Avere il proprio uomo a Mosca significa assicurarsi buona parte del controllo sul Paese. Così è stato con Luzhkov, così sarà con il suo
Sobyanin, il ministro delle Emergenze, Sergei Shoygu, e l’ex governatore di Kaliningrad, Georgij Boos. Novaya Gazeta (il quotidiano per il quale lavorava la giornalista Anna Politkovskaja, uccisa nel 2006), scommette già su Sobyanin che, oltre ad essere vicepremier, è il capo dell’amministrazione presidenziale e scrive che l’attuale governatore della regione di Nizhny Novgorod, Valery Shantsev, diventerà capo della giunta dell’amministrazione cittadina.
Sobyanin è un pezzo molto importante dell’apparato, è un tecnico attraverso il quale il Cremlino mantiene rapporti con i dirigenti regionali e le compagnie petrolifere. Già governatore con ampia esperienza, ha lavorato a stretto contatto sia con Putin che con Medvedev. Dal febbraio 2009, Sobya-
Il premier si è consultato ieri con il vertice del partito Russia Unita per definire la possibile rosa da presentare al presidente: già oggi la scelta? successore. Secondo le indiscrezioni che circolano al Cremlino, la rosa ristretta che Putin dovrebbe presentare a Medvedev comprende tre papabili: il vice premier, Sergei Il sindaco sfiduciato di Mosca, Yuri Luzhkov, cerca di resistere. Ma Dmitri Medvedev e Vladimir Putin (a sinistra) si stanno già confrontando sulle scelta del successore. In basso, Luzhkov con la moglie, Elena Baturina, e (qui a fianco) la residenza di Londra che hanno acquistato attraverso una società offshore per 50 milioni di sterline . Ha 65 stanze (25 da letto) e un parco di quattro ettari
Attraverso una società offshore l’ex sindaco e sua moglie hanno comprato la residenza di Witanhurst
Per Elena e Yuri un buen retiro a Londra che è secondo solo a Buckingham Palace e, alla fine, Yuri Luzhkov e sua moglie, Elena Baturina, dovranno gettare la spugna e abbandonare il feudo di Mosca, il loro buen retiro sarà fuori dalla Russia che, pure, gli ha dato tanto. Poco più di un anno fa - forse presagendo che il vento stava per cambiare - la signora Elena ha compranto per 50 milioni di sterline la residenza di Witanhurst che, dopo Buckingham Palace, è il più grande palazzo di Londra. Una casa, se così si può definire, di 65 stanze su tre piani, con 25 camere da letto e una sala da ballo, la Grand Ballroom che misura venti metri per otto.Tutto immerso nel verde di un parco di quattro ettari a pochi passi dal villaggio di Highgate, nella campagna di uno dei più esclusivi sobborghi a Nord della capitale. Disegnata dall’architetto George Hubbard per un magnate dell’industria del sapone sir Arthur Crosfield - nel 1774, ha subito grandi trasformazioni nell’800 e in tempi recenti è stata anche utilizzata come set del
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programma della Bbc Fame Academy (il format ripreso da Amici di Maria de Filippi) e dell’ultima riedizione del film Dorian Gray con l’attore Colin Firth. La moglie dell’ex sindaco di Mosca ha sempre negato di aveva acquistato questa proprietà. E, in effetti, la vendita è stata perfezionata - tutto il mondo è Paese - da una società offshore: la Safran Holidays delle Isole Vergini.
Ma a Londra i bene informati giurano che la nuova proprietaria è proprio lei: Elena Baturina. Che, attraverso i suoi architetti, ha già presentato un progetto per demolire l’ala di servizio dell’edificio e sostituirla con una struttura in gran parte sotterranea che ospiterà una sala cinematografica da 300 posti, una piscina, una palestra e un parcheggio del 25 automobili. Progetto che ha scatenato le proteste della Victorian Society che difende le dimore storiche britanniche. Per questi lavori Elena Baturina spenderà altri 50 milioni di sterline. Una bazzecola per la donna più
ricca di Russia che Forbes ha piazzato al terzo posto in tutto il mondo nella speciale classifica di chi ha fatto fortuna con le sue mani dopo la cinese Wu Yajun e la spagnola Rosalia Mera. Se WuYajun è diventata miliardaria grazie al bomm immobiliare cinese e Rosalia Mera ha inventato la catena dei negozi Zara, l’ascesa di Elena Baturina è legata a filo doppio al potere di Yuri Luzhkov che conobbe quando era segretaria del Soviet di Mosca. Poi il matrimonio e l’avvio dell’attività imprenditoriale. Il primo affare arriva a metà Anni Novanta per la fornitura di sedili in plastica allo stadio Luzhniki diretto, guarda caso, da un amico del sindaco. Oggi la sua società - la Iteko - è un tentacolare impero edile-immobiliare.Yuri Luzhkov è stato, ininterrottamente, sindaco di Mosca per 18 anni e, non a caso in questi anni, il mercato immobiliare della capitale russa è diventato uno strano fenomeno, dove non è chiaro se la speculazione sia superiore alla corruzione o (e. s.) viceversa.
nin è anche presidente del consiglio di amministrazione del primo canale della tv pubblica. Se la scelta cadesse davvero su di lui, si potrebbe dire che, ancora una volta, ha vinto il compromesso. Perché Sobyanin è uomo dell’apparato - e questo significa che è uomo legato a Vladimir Putin - ma è anche uomo legato alla parte più dinamica dell’imprenditoria che considera Medvedev il suo punto di riferimento. Centrale è la posizione di Gazprom, di cui Dmitri Medvedev è stato presidente, che ha avuto certamente un peso nel siluramento di Luzhkov.
Molti analisti russi sono convinti che il dopo-Luzhkov si rivelerà positivo per MosEnergo, compagnia controllata da Gazprom, che nel suo business sulla capitale è sempre stata intralciata dalla Moscow United Energy Company (Mipc), controllata dal municipio, che produce energia termica e controlla praticamente tutta la rete di riscaldamento di Mosca che è alimentata da grandi stabilimenti di quartiere che, attraverso una complessa rete di tubi sotterranei, raggiungono i palazzi. Il mercato del riscaldamento è uno dei più ricchi business della capitale e si divide tra MosEnergo, che copre circa il 65 per cento della rete, e Mipc con il restante 35 per cento. Luzhkov è stato il principale alleato di Mipc ed era riucito anche ad accaparrarsi, alla fine del 2007, il 26 per cento della stessa MosEnergo. Secondo gli esperti, come partner, il municipio di Mosca si è rivelato molto scomodo per Gazprom che da tempo vorrebbe unire in una supercompagnia le società di produzione energetica di Mosca. Luzhkov non glielo aveva permesso. In futuro si vedrà.
ULTIMAPAGINA In mostra. Apre i battenti al Vittoriale il Museo che raccoglie oggetti e creazioni inedite del poeta pescarese
Abiti e scarpe, la griffe firmata di Francesco Lo Dico opo essere stata espropiata ai tedeschi, la villa era rimasta tacita a specchiarsi nelle acque bresciane del lago di Garda. Ma fu nel 1921 che un esule illustre sarebbe giunto a popolarla insieme a un munifico corteo di opere d’arte. Gabriele D’Annunzio aveva scelto di farne la metafora di pietra della propria mente. E fu così, che sopravvissuto al suo creatore, il Vittoriale racconta ai posteri la parabola di quell’aviatore inafferrabile che pure stilò con maniacale premura l’inventario del suo mito.
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Oggi ne svela un nuovo anfratto assai intimo il museo D’Annunzio segreto, nuovo spazio espositivo voluto dal presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani, Giordano Bruno Guerri, che in soli due anni alla cabina di regia ha saputo restituire smalto e respiro internazionale a una magione davvero unica. «Al Vittoriale c’erano ancora armadi chiusi, credenze sigillate, cassetti che non potevano essere aperti. I visitatori morivano dalla voglia di sapere che cosa vi fosse custodito all’interno – spiega a liberal il presidente Guerri – e così mi sono detto: “D’Annunzio ha costruito tutto questo affinché tutto di lui fosse mostrato”. Ho creduto perciò di farne conoscere anche la sfera privata. Il Vate ha sbertucciato la morale borghese della sua epoca. E sono certo che nell’avere aperto a tutti i suoi armadi posso contare sulla sua benedizione. È il padre di tutti i dandy, D’Annunzio, e ogni cosa che ha lasciato qui, l’ha affidata al nostro sguardo per continuare a interrogarci e stupirci». Progettato da Angelo Bucarelli, il museo collocato sotto l’anfiteatro accoglierà 150 oggetti. E anche se faremmo torto ai lettori che vorranno scoprirne di persona il mistero custodito in ciascuno, la curiosità supera la cortesia. «Si potranno ammirare vesta-
D’ANNUNZIO Dall’alto, in senso orario, D’Annunzio nella sua “Officina” del Vittoriale, una statua che arreda la magione, l’anello del Vate, delle calzature, una vestaglia e uno spolverino. Gli oggetti quotidiani del poeta pescarese sono per la prima volta in mostra almuseo “D’Annunzio segreto” che apre i battenti da oggi a Gardone Rivera
Giordano Bruno Guerri: «Abbiamo aperto al pubblico i suoi cassetti e i suoi armadi: lui che è il padre dei dandy, avrebbe sicuramente approvato» glie, accappatoi, scarpe, monili – spiega Guerri – molti di questi disegnati dallo stesso D’Annunzio, che per amore delle sue badesse di passaggio si scoprì brillante stilista. Per le sue creazioni, il poeta ideò persino una griffe: “Gabriel Nuntius Fecit”. Alla mostra se ne potrà ammirare il logo.Non solo esteta, ma anche facitore di bellezza in prima persona. Un aspetto del Vate che è praticamente inedito, e che la collezione finalmente illumina in maniera esemplare». Ma per
un D’Annunzio segreto, sul quale il museo proietta nuova luce, c’è ancora un D’Annunzio frainteso o pericolosamente giocato come una figura Panini negli album politici di casa nostra. È arrivato finalmente il momento di restituire al Vate una dimensione storica più precisa. «È ora di strappare la figura del poeta dall’ade del fascismo – argomenta lo storico di Monticiano – D’Annunzio era un libertario e un anarchico che espresse il suo spirito all’interno e al di fuori del suo contesto storico.
È del tutto erroneo continuare a presentarlo come l’icona del decadentismo. Ogni sua fibra era tesa verso l’avvenire, che seppe presentire come nessuno: il cinema, la politica, la sessualità libera e gioconda, la cura dell’immagine. Non solo D’Annunzio ci è contemporaneo, ma riesce ancora a stupirci perché per certi versi è un passo avanti ai nostri tempi. L’appuntamento con il nostro radioso avvenire, non proprio dietro le spalle, è da oggi sul lago di Garda.