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Lo schiavo che obbedisce, spesso sceglie di obbedire

Simone De Beauvoir

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 5 OTTOBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il riconoscimento a Robert Edwards: nel ‘78 guidò il concepimento artificiale di Louise Brown

Polemiche per il Nobel a Mr. provetta Premiato il padre della fecondazione in vitro. La Chiesa: «Inaccettabile» di Gabriella Mecucci

Parla il genetista Bruno Dallapiccola

«Una scoperta scientifica rovinata dal marketing»

l premio Nobel della medicina alla maternità artificiale: il riconoscimento va a Robert Edwards, ottantacinquenne padre della fecondazione in vitro; lo scienziato che nel 1978 guidò la nascita di Louise Brown. La Chiesa solleva dubbi sul Premio che pone «gravi questioni morali».

«Le ricerche di Edwards hanno caratteristiche proprie di un Nobel per la medicina: hanno tracciato un nuovo solco d’indagine nella scienza. Il problema è che lo spirito di quel lavoro è stato tradito». È il commento del genetista Bruno Dallapiccola.

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di Francesco Lo Dico

L’Anm risponde a Berlusconi: «Gli insulti rischiano di provocare un sovvertimento istituzionale»

Scontro sul Porcellum

Maroni insiste: «Elezioni subito». Ma i finiani e Lombardo lo bloccano: prima cambiamo la legge elettorale. E parte l’ipotesi di un nuovo governo MAGGIORANZA IN CONFUSIONE

di Errico Novi

L’Italia non può essere paralizzata dal gioco del cerino

ROMA. «Facciamo l’ultima guer-

di Giancristiano Desiderio difficile sapere se il ministro Maroni dicendo «diamoci tre settimane per capire: o il governo va o si stacca la spina» sia stato pessimista o ottimista. Non è passata neanche una settimana da quando il governo ha ricevuto una sorta di nuova fiducia alla Camera e da quando il presidente del Consiglio ha annunciato a Roma e al mondo che «il governo va avanti per tutti e tre gli anni della legislatura» e già siamo al punto in cui Italo Bocchino può dire che «se Berlusconi facesse cadere il governo e nascesse una nuova maggioranza per cambiare la legge elettorale non sarebbe uno scandalo». L’ultimatum di Maroni è praticamente già superato. Il governo non tiene e Berlusconi sembra vivere un incubo: vuole durare, ma può durare solo con i voti di Fini.

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Parla Gaetano Pecorella

«Al premier l’ho detto: Silvio, è meglio che eviti le urne» «Sarebbe più utile mandare avanti la legislatura per cercare di trovare un accordo quanto più possibile ampio sul Lodo costituzionale» Franco Insardà • pagina 3

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Ora il Pdl teme di ”perdere” altri senatori

A Palazzo Madama ci sono i numeri di un nuovo esecutivo Voci di fuga e disponibilità di alleanze con i finiani: ci sarebbe la possibilità di una maggioranza alternativa per la riforma del sistema di voto

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ra». Il discorso rivolto da Berlusconi ai fedelissimi suona più o meno così: cupo e definitivo. Evoca vicende fosche e tragiche della storia. Ma il finale, per il Cavaliere, è già scritto: si torna alle elezioni per evitare di «fare la fine di Angelo Rizzoli». Così la salita del tardo pomeiggio al Colle, dove Berlusconi ha messo nelle mani di Napolitano il nome di Paolo Romani come ministro dello Sviluppo, è solo un diversivo. Dell’attuale governo, al Cavaliere, ormai interessa poco. Non potendo trovare un accordo sul Lodo, berlusconi ormai pensa solo alle urne. Il problema è che in Parlamento, non tutti sono d’accordo. Anzi, la diaspora verso i finiani (o comunque verso l’ipotesi di un governo che cambi la legge elettoriale) cresce di ora in ora anche al Senato, dove Berlusconi si sentiva rassicurato dal voto della scorsa settimana. E allora se Maroni dà voce alla maggioranza chiedendo «elezioni subito», Bocchino frena: l’idea di un altro governo che cambi la legge elettorale non è infondata. E allora via con le adesioni, multiformi, che vanno da Raffaele Lombardo a Bersani.

Riccardo Paradisi • pagina 4 CON I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

Il 18 scadono i termini per le conferme dei terreni

Expo 2015 a Milano: così stanno facendo saltare tutto di Giancarlo Galli oveva essere la grande occasione, l’Expo 2015, per il rilancio di Milano come capitale di un Nord operoso e dinamico, proiettato nel mondo; e si sta invece, giorno dopo giorno, trasformando in un angoscioso tormentone. Peggio: in una rissa, vieppiù aspra e confusa, dove si mischiano rivalità politiche, personalismi, interessi immobiliaristici. Mentre l’opinione pubblica ambrosiana osserva e giudica con crescente e disincantato scetticismo. Tanto che per le elezioni comunali della prossima primavera piovono dubbi sulla tenuta della sindachessa Letizia Moratti. a pagina 8

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19.30


prima pagina

pagina 2 • 5 ottobre 2010

la polemica

Volete le urne? Con un’altra legge L’attuale sistema non garantisce governabilità. Va cambiato prima di tornare a votare di Giancristiano Desiderio difficile sapere se il ministro Maroni dicendo «diamoci tre settimane per capire: o il governo va o si stacca la spina» sia stato pessimista o ottimista. Non è passata neanche una settimana da quando il governo ha ricevuto una sorta di nuova fiducia alla Camera e da quando il presidente del Consiglio ha annunciato a Roma e al mondo che «il governo va avanti per tutti e tre gli anni della legislatura» e già siamo al punto in cui Italo Bocchino può dire che «se Berlusconi facesse cadere il governo e nascesse una nuova maggioranza per cambiare la legge elettorale non sarebbe uno scandalo». L’ultimatum di Maroni è praticamente già superato. Il governo non tiene e Berlusconi sembra vivere un incubo: vuole durare, ma può durare solo con i voti di Fini e più dura e più i finiani prendono confidenza con il loro nuovo partito. Tutti, anche se non lo dicono, si

È

preparano al voto. Ma non è detto che il voto sia dietro l’angolo.

Sotto i nostri occhi sta andando in scena già la campagna elettorale. Non lo vede solo chi non vuole vedere. La settimana scorsa al Parlamento è andata in scena la commedia degli equivoci. Pierluigi Bersani vi ha dato anche un titolo vagamente goldoniano: «La fiducia del cerino». Nessuno, neanche la Lega, si è voluto prendere la responsabilità di togliere la spina ad un governo che è al buio da molto tempo. Tuttavia, un governo che non governa è ancora un governo che può fare qualcosa: propaganda. È qui che non si deve sottovalutare Berlusconi che, come sottolineava Montanelli ormai un bel po’ di anni fa e senza essere ascoltato, è «il più grande piazzista d’Italia». Berlusconi è un tecnocrate della politica e un maestro della campagna elettorale postmoderna. Il suo scopo è ora organizza-

re al meglio la sua macchina elettorale. La trattativa sulla giustizia è un compito al quale lui stesso non crede. Ma tra la preparazione del voto e il voto ci sono di mezzo almeno due ostacoli: il governo e le istituzioni. Le parole di Bocchino rivelano un paradosso: dovrebbe essere lo stesso capo del governo a far cadere il suo governo. Ma caduto il governo ecco il secondo e più serio ostacolo: se caduto un papa se ne fa sempre un altro, perché caduto un governo non se ne può fare un altro? Il ritorno immediato alle urne è una invenzione berlusconiana che andava bene quando la democrazia dell’alternanza era da costruire, ma ora che il bipolarismo vien giù la soluzione non è da ricercarsi nel voto a oltranza ma nel sistema istituzionale. Tutto que-

sto è bollato con disprezzo come centrismo o palude o giochi di palazzo, ma Berlusconi, che dopo una carriera politica ventennale e in primo piano vuole realizzare “il più grande ricambio generazionale della storia”, dovrà pur provare a spiegare perché il bipolarismo frana su se stesso.

Non è più possibile paralizzare tutto il Paese solo per vedere chi resta con il cerino in mano

L’infinita transizione

italiana sta finendo senza approdare a nulla. Il bipolarismo non è riuscito a diventare adulto e virtuoso. Ci resta un sistema istituzionale che i partiti o quel che ne resta hanno il dovere di far funzionare al meglio. Berlusconi preparando qualcosa di simile alla “gioiosa macchina da guerra”dimostra di non appartenere alla cultura moderata di cui questo Paese ha bisogno per ritrovare calma e rilancio sociale.

il fatto Mentre si inasprisce la polemica tra Berlusconi e la magistratura, si affaccia l’ipotesi di un nuovo governo

La riforma del Porcellum La Lega insiste: subito al voto. Ma i finiani (alleati con Lombardo) puntano a una nuova legge. Proprio come chiede l’opposizione di Errico Novi

ROMA.

«Facciamo l’ultima guerra». Il discorso rivolto da Berlusconi ai fedelissimi suona più o meno così: cupo e definitivo. Certo è che la storia, per il Cavaliere, è già scritta: si torna alle elezioni. Solo la scommessa fatale, solo il tentativo di conquistare una maggioranza piena e depurata da Fini, secondo il premier, può evitargli di «fare la fine di Angelo Rizzoli». Così la salita del tardo pomeriggio al Colle, dove Berlusconi ha messo nelle mani di Napolitano il nome di Paolo Romani come ministro dello Sviluppo, è solo un diversivo. Un incidente, una casella riempita tanto per evitare l’antipatico voto di sfiducia contro il suo interim in discussione alla Camera. Dell’attuale governo, al Cavaliere, ormai interessa poco. E il motivo è semplice, come raccontano i berlusconiani di vecchia data, chiamati a raccolta per preparare lo showdown elettorale: a questo punto il capo ra-

giona solo in termini personali, nel senso che dietro un’ipotesi di accordo con i finiani e un proseguimento della legislatura, intravede la sua fine certa, giacché «al termine del processo Mills gli arriverebbe la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici». Non a caso la sua richiesta è tanto precisa quanto impossibile da esaudire: «Uno scudo che non sospenda semplicemente le cause contro di lui ma le fermi definitivamente. Il Lodo Alfano costituzionale non può bastare al presidente. Il punto è che Futuro e libertà non è disponibile a nessuna ipotesi di questo genere».

E infatti Fabio Granata conferma: «L’impegno è sui cinque punti del program-

ma, ma non sul processo breve». D’altronde il Cavaliere ha preso la decisione definitiva proprio con il voto di fiducia della settimana scorsa. Se la maggior parte degli osservatori ha interpretato la golden share conquistata dai finiani nel senso, politicamente più ampio, di una diarchia Berlusconi-Bossi ormai tramontata, per il capo del governo il significato importante è uno solo: il Parlamento attuale non può più garantirgli il salvacondotto che gli serve. È molto pragmatica, dicono ancora i suoi, l’analisi sviluppata dal Cavaliere. «Sono in trappola. E lo dirò in campagna elettorale. Spiegherò che i poteri impegnati a farmi fuori dal ’94 stavolta ci minac-

ciano da vicino: sono addirittura penetrati nel mio partito, poi hanno provocato una scissione, adesso puntano a bloccare tutto, compreso il federalismo». E soprattutto comprese le leggi, come quella sul “processo lungo”ipotizzata da Ghedini, Alfano e Costa, che lo salverebbero dalle condanne. «Puntano a tenermi sulla graticola fino a una condanna infamante come quella di aver corrotto un avvocato nell’ambito di un processo. Poi vogliono impormi un megarisarcimento a De Benedetti, che sulla scorta di quest’ulteriore sentenza tenterebbe di sfilarmi la Mondadori». Ecco lo spettro perfettamente materializzato davanti agli occhi del Cavaliere di una fine «come quella di Angelo Rizzoli».

Tutto serve, a questo punto, anche i voti di un partito come la Destra di Storace, persino l’impresentabile Ciarrapico. Anche la Lega, in prima fila con

Maroni nell’invocare le urne. C’è un’altra minaccia decisamente più concreta e vicina con cui fare i conti: l’eventuale nascita di un esecutivo istituzionale incaricato solo di modificare la legge elettorale. Nella sua intervista a Repubblica Italo Bocchino dice per la prima volta in modo esplicito che «esiste già una maggioranza alternativa, tanto alla Camera quanto al Senato, in grado di ritrovarsi sulla modifica del sistema di voto». E anche Raffaele Lombardo pronuncia un giudizio senza appello: «Mi associo a coloro che pur di non votare con questa legge elettorale farebbero salti mortali». Ma Berlusconi, assicurano ancora i suoi, sarebbe preparatissimo anche di fronte a un simile scenario: «Non dovrebbe fare nulla, a quel punto: apparirebbe vittima di una congiura di palazzo».

Tutto chiaro, allora. Compresa l’invocazione di un’in-


l’intervista Parla Gaetano Pecorella, ex avvocato del Cavaliere

«Al premier l’ho detto: meglio che eviti il voto»

«È più utile andare avanti per trovare un accordo quanto più possibile ampio sul Lodo costituzionale» di Franco Insardà

ROMA. «Andare oggi al voto, bloccando per

Silvio Berlusconi a Milano è tornato ad accusare i magistrati. A destra, Gaetano Pecorella. Nella pagina a fianco, Maroni dagine parlamentare sulla magistratura. Iperbole sulla quale la prima commissione del Csm investe il comitato di presidenza per chiedere un approfondimento. In attesa che Palazzo dei Marescialli si pronunci, arriva il presidente dell’Anm Luca Palamara a censurare «le invettive e gli insulti: questa aggressione continua non è più solo un problema dei giudici ma di tutte le istituzioni». Basta con uno «stillicidio», dice Palamara, che in realtà punta solo a una cosa: «Sovvertire gli equilibri tra i poteri». Può essere questo il grimaldello che apre la porta del voto? Forse sì, considerato che subito i finiani rispondo al punto, con Briguglio che dice: «Siamo contrari a qualsiasi commissione di inchiesta sulla magistratura». Come dice Bocchino, «se si vuole cercare la rottura, questo è l’argomento giusto». Oggi Fini riunisce i suoi nella

sede di Farefuturo per lanciare il comitato promotore del nuovo soggetto politico: percorso che subisce una violenta accelerazione, considerato il sempre più probabile ritorno alle urne. Una strada che di fatto Berlusconi dovrà battere facendo appello soprattutto alla sua specializzazione per le campagne elettorali. Tanto più che il deflusso verso il nuovo partito dei finiani non è limitato al Parlamento: si moltiplicano gli annunci dei passaggi dal Pdl a Futuro e libertà, dal Piemonte, dove la finiana Siliquini denuncia le «persecuzione contro gli assessori di Fli nelle giunte di centrodestra», al Veneto, dove il deputato finiano Bellotti sventola la bandiera dell’orgoglio anti-leghista: «Mettono le mani su ogni spazio di potere, bisogna reagire». Sono i discorsi che ti aspetteresti dal Pdl, ormai senza voce. A parte quella del capo.

sei-sette mesi la politica, penso che sia una scelta abbastanza suicida. Se accadesse si bloccherebbero tutto, anche per le questioni legate alla giustizia. Se la Corte costituzionale dichiarasse incostituzionale il legittimo impedimento dopo dicembre i processi riprenderebbero e potrebbero chiudersi in tempi non troppo lunghi». Così il parlamentare del Pdl Gaetano Pecorella, per anni difensore di Silvio Berlusconi, vede l’attuale momento politico-giudiziario. Presidente il nodo giustizia assomiglia un po’ a quello gordiano? Ci vorrebbe una spada. Al di là delle battute credo che nel discorso fatto alla Camera dal presidente Berlusconi sui punti della riforma sia difficile non essere d’accordo sulla separazione delle carriere, i due Csm e la responsabilità del giudice, punti caratterizzanti di qualsiasi sistema giudiziario liberal-democratico. Sulle buone intenzioni, delle quali è lastricato l’inferno, credo che non si possa sollevare alcuna riserva, ma ora bisognerebbe passare ai fatti. Un’ipotesi realistica? C’è d’augurarsi che Fini e il suo gruppo non si mettano di traverso. Appena ottenuta la fiducia, però, il presidente del Consiglio è tornato ad attaccare i magistrati. Se da un lato c’è una magistratura che ha svolto delle funzioni che non le sono proprie e continua ad avere attenzione su Berlusconi, dall’altra parte c’è una risposta ovvia, con alle spalle circa sedici anni di persecuzioni giudiziarie come hanno dimostrato i risultati di quasi tutti i processi. Bisognerebbe che ci fosse una fase di armistizio per fare le riforme, sospendere i processi e le polemiche. I finiani hanno ribadito la loro contrarietà a una riforma contro la magistratura. È una posizione che dovrebbe trovare d’accordo tutti, perché non si fanno riforme contro qualcuno. Le riforme devono servire a far funzionare meglio o per riportare alle regole di uno Stato liberal-democratico anche la magistratura. Alcune notizie di altri procedimenti che starebbero per avviarsi, diffuse più o meno ad arte, aumentano i momenti di tensione. Se, invece, si partisse con le riforme si discuterebbe di quelle o non di altro. Allora il lodo Alfano costituzionale si farà? I numeri per farlo approvare ci sono, non quelli per una legge che eviti il referendum popolare. Credo che comunque vale la pena di andare avanti, si può fare e di deve fare perché il Parlamento votò il legittimo impedimento come norma transitoria in attesa dell’approvazione del lodo Alfano. Si tratta, quindi, di rispettare un impegno istituzionale e trovo abbastanza

inspiegabile che la sinistra non si renda conto dell’utilità di questa norma. In che senso? Con questo sistema nessuno riuscirà mai a governare. Appena c’è una posizione di dissenso con la magistratura qualsiasi procuratore potrebbe trovare il sistema di mettere in piedi un processo penale. Il problema non riguarda questa maggioranza, ma la politica che deve poter governare. In altri Paesi non c’è una tensione così forte tra politica e magistratura perché esistono dei meccanismi di riequilibrio tra i vari poteri. Nello specifico, però, parliamo dei procedimenti in corso nei confronti del presidente Berlusconi. Quelli passati si sono chiusi tutti o con l’assoluzione o con la prescrizione. Il meccanismo, però, è tale che finito uno se ne mettono in piedi altri due: il processo Mills è iniziato dopo quello Sme e così via.Tra l’altro va considerato che parliamo di episodi precedenti all’attività politica di Berlusconi. Come mai consiglia di modificare il legittimo impedimento? È un modo per superare le difficoltà legate all’eventuale referendum sul lodo Alfano che si trasformerebbe in un referendum pro o contro Berlusconi. Il clima politico si avvelenerebbe maggiormente, spaccando ancora di più il Paese. La mia proposta va nella direzione che la Corte costituzionale non decida sul legittimo impedimento, magari prevedendo qualche modifica. Sarebbe un modo per poter discutere sul lodo Alfano in modo più sereno e arrivare a fine legislatura. La richiesta di elezioni anticipate rischia di bloccare tutto? Chi spinge su questa strada è soprattutto la Lega che lo fa per motivi di sua opportunità politica, assolutamente comprensibili. Credo, però, che il presidente Berlusconi abbia ben chiaro che in questo momento per il Pdl sia meglio rimandare il ritorno alle urne. Non è un rischio troppo forte per il premier andare a elezioni anticipate? Potrebbe non vincerle. Sarebbe un salto nel buio, ma questa ipotesi la ritengo improbabile, soprattutto per i demeriti della sinistra. Sono convinto che il Pdl è ancora un partito che può ottenere la maggioranza anche nelle prossime elezioni. A oggi che cosa si sente di consigliare al premier di tentare di ricucire i rapporti con gli alleati? Assolutamente sì e lo dico da tempo. Fini ha introdotto degli argomenti seri nel dibattito della maggioranza e non lo ha fatto sempre e soltanto per contrapporsi a Berlusconi. Quello della democrazia interna al Pdl, sollevato da alcuni di noi da tempo, e di maggiore attenzione ai soggetti deboli nella società sono problemi veri.

Fini ha introdotto degli argomenti seri nella maggioranza. Quello della democrazia interna al Pdl è stato sollevato da tempo da alcuni di noi


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l’approfondimento

Sono gli stessi vertici del Pdl a temere la «fuga» di almeno dieci senatori verso il gruppo di Futuro e Libertà

Simulazione di governo Per Berlusconi, la fiducia al Senato dimostra che un altro esecutivo è impossibile. La diaspora verso i finiani dimostra il contrario: vediamo quali sono i numeri di una nuova, possibile maggioranza per cambiare la legge elettorale di Riccardo Paradisi he il senato sia l’inespugnabile fortezza del governo Berlusconi è una certezza che ha cominciato a traballare da questo week-end. Quando i capigruppo del Pdl a Palazzo Madama, Gasparri e Quagliariello, hanno portato al Cavaliere la lista di una decina di senatori pronti a muoversi verso un’area grigia disponibile a un governo di transizione che dovrebbe avere lo scopo di mettere a punto una riforma della legge elettorale. «Bisognerà vedere cosa diranno i sondaggi al momento della verità.– dice l’esponente del Pdl Lucio Malan – Ma è vero che basterebbero quattro o cinque Giuda per ritrovarsi con un altro governo».

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E Quagliariello non è più ottimista: «Qui in senato dovremmo essere tranquilli, in teoria, ma vai a vedere…».Vai a vedere appunto se di fronte al rischio di un’interruzione della legislatura e dunque della perdita dello status parlamentare una pattuglia sufficiente a determinare una

nuova maggioranza non decida di fornire numeri e ossigeno a un governo di scopo. Ma non è solo questione di peones.Tutti gli eletti al nord del centrodestra si risparmierebbero volentieri le elezioni anticipate: «Il calo del Pdl e i consensi a favore della lega – dice l’ex governatore del Piemonte Enzo Ghigo – è allarmante ed è molto meglio finire la legislatura. Non so se qualcuno tradirà per evitare le urne. Ma la storia parlamentare è piena di questi esempi». Insomma altro che Fort Knox del governo, il Senato è a rischio per la maggioranza di governo come lo è la Camera. E del resto basta farsi due conti dopo l’ultimo voto di fiducia ottenuto dal premier a Palazzo Madama per capire che la solidità della maggioranza ottenuta dal governo è meno solida di quanto appaia, come Beppe Pisanu ha cercato di far capire al premier già dalla scorsa estate. La fiducia al governo è stata votata dal 174 senatori, i no sono stati 129, 18 gli assenti equamente ripartiti tra maggioranza e opposizione.

È l’analisi di questi numeri che rileva come un governo parlamentare non sia affatto irrealizzabile. Pd, Udc e Idv hanno 136 voti a cui potrebbero aggiungersi due o tre senatori a vita: Scalfaro, Andreotti, Colombo (Pininfarina, Levi Montalcini e Ciampi non si fanno vedere in Senato ormai da tempo), i dieci finiani, la senatrice di ”Io sud” Adriana Poli Bortone, l’ex esponente del Pd Riccardo Villari ora nel gruppo misto. Una somma che potrebbe dare dai 155 ai 157 senatori: circa cinque in meno della

Nel Pdl sono molti a non voler rischiare l’avventura delle urne

maggioranza necessaria e sufficiente per costruire un governo senza Lega e Popolo della libertà. Considerato che nella lista Gasparri-Quagliariello i senatori disponibili al passaggio sono, come si diceva, una decina, ecco che i numeri per un governo di transizione ci potrebbero essere davvero. Transfughi, addirittura traditori li chiama Malan, ”disponibili a un governo istituzionale” preferisce definirli il senatore pidiellino Paolo Amato: «Se si dovesse formare una maggioranza per un governo istituzio-

nale io la chiamarei maggioranza istituzionale. In assenza di un mandato imperativo costituzionalmente sancito non vedrei lo scandalo nel formarsi parlamentare di una maggioranza diversa dall’attuale. Certo c’è un premier forte come Berlusconi che caratterizza molto la maggioranza che lo sostiene. Ma questa è una considerazione politica, che non toglie una sola ragione a chi invece si appella al principio costituzionale della democrazia parlamentare». Amato è uno di quei senatori del Pdl che trova paradossale il fatto che si parli di elezioni anticipate e scioglimento delle Camere all’indomani di un voto di fiducia che ha confermato il sostegno al premier. «Certo fini ha aperto un’altra opzione ma è tuttavia ancora all’interno di quest’area; spingerlo fuori forzando la mano potrebbe essere un errore fatale. Che potrebbe generare una maggioranza alternativa in vista di un ricorso anticipato alle urne». Per ora a Palazzo madama non c’è il liberi tutti ufficiale ma si respira in molti settori la per-


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Neanche l’ipotesi di un accordo per un governo «tecnico» ricompatta i democratici

La riforma impossibile del Pd spaccato sul sistema di voto

Veltroni non cede sulla vocazione maggioritaria, Bersani punta sulle alleanze e D’Alema sul modello tedesco: un altro fronte divide il partito di Antonio Funiciello

ROMA. Bersani la ritiene una tappa decisiva: cambiare la legge elettorale è lo strumento principale per dare vita a quella grande alleanza costituzionale che ha in mente. Questa alleanza non c’è modo di costruirla - dicono al Nazareno - senza passare per il governo tecnico che scriva la legge elettorale destinata a superare il Porcellum. Per Bersani la formazione di un governo tecnico è propedeutica all’accordo che va da Fini a Di Pietro, una sorta di prova generale della prima che andrà poi in scena alle prossime elezioni. Con buona pace di Vendola, rimasto tra i pochi a contrastare questo esito. L’alleanza larga servirebbe per smontare l’automatismo delle primarie, che ovviamente non potrebbero essere celebrate in un contesto di emergenza nazionale. Se la parola d’ordine è liberarsi di chi mette a rischio la democrazia, non c’è tempo da perdere con le conte interne. Tutto chiaro. Peccato che quando Bersani prova a guardarsi in casa per portare fuori una qualche proposta che incontri i favori dei possibili futuri alleati, non trovi che il caos. Alla fine dello scorso maggio, l’Assemblea nazionale del Pd una proposta di riforma elettorale l’aveva, in verità, votata all’unanimità. I media non avevano dato risalto alla cosa, ma la proposta del doppio turno alla francese era stata fatta propria da tutto il partito e, difatti, non sarà rivista alla prossima riunione lombarda dell’Assemblea prevista per 8 e il 9 ottobre. Bersani, appena eletto un anno fa, aveva richiamato all’impegno politico Luciano Violante, che Veltroni nel 2008 non aveva invece neppure ricandidato. Violante, neo responsabile per il partito della riforma dello stato, aveva lavorato alacremente per produrre un documento che recasse un progetto preciso di riforma elettorale e, dopo varie riunioni, aveva scelto il sistema francese. Nulla di nuovo: era già nel programma elettorale del 2008 del Pd di Veltroni. Fatto sta che quella scelta l’Assemblea riunita a maggio ha confermato, con una riforma delle istituzioni ad essa coerente. Il problema è che il doppio turno alla francese è una scelta che, se potrebbe piacere a Fini, senz’altro spiace a Casini. Ma più che col merito del documento Violante, l’incertezza con cui i possibili alleati del Pd guardano alla buona volontà mostrata da Bersani per mettere mano al Porcellum, si spiega col sospetto destato dalle mille voci che emergono dal Nazareno quando si parla, pur vagamente, di riforma elettorale. Nelle due Camere, i parlamentari del Pd hanno praticamente presentato ogni possibile forma di superamento del Porcellum, dal sistema spagnolo a quello australiano. Si succedono iniziative diverse sulla riforma elettorale, buona ultima quella nata per

volontà di Pietro Ichino e dei Radicali, che hanno dato vita all’associazione per l’uninominale. Se il governo dovesse entrare in crisi, Fini e Casini si aspettano che il Pd sappia reagire con una sola voce, cercando un’intesa possibile. L’inge-

Nelle due Camere hanno presentato proposte diverse, spesso anche in acceso contrasto tra di loro gneria elettorale e costituzionale in cui il Pd si esercita è, al contrario, un viatico poco confortante in vista dei tempi stretti che una crisi offrirebbe a chi volesse scongiurare il ritorno alle urne.

Nulla divide il Pd come le opzioni in campo contro il Procellum. È nota la preferenza di D’Alema e dei suoi

per un sistema proporzionale con soglia di sbarramento bassa, un tedesco corretto all’italiana: ogni partito corre per sé e, dopo il responso delle urne, si vede che maggioranza parlamentare può nascere. Su questa linea è anche il vice di Bersani Enrico Letta. Il segretario democratico, invece, ha non poche perplessità per tale opzione e preferirebbe un sistema elettorale più schiettamente bipolare. La sua storia, in fondo, è quella del Pci emiliano, l’unico Pci assieme a quello toscano a pensarsi in termini bipolari già prima della caduta del Muro. In questa convinzione, Bersani è supportato dalla Bindi. Tra i popolari Marini è più proporzionalista di Fioroni, che oggi guarda piuttosto positivamente a un rafforzamento dell’assetto bipolare. Franceschini, quando si candidò contro Bersani, era fortemente bipolarista e la sua piattaforma programmatica prevedeva l’adozione del francese; oggi, chissà. Fasino è in materia cauto, mentre Veltroni ritiene indispensabile per la sua idea di Pd a vocazione maggioritaria ogni soluzione che rafforzi il bipolarismo, in una sostanziale prospettiva bipartitica. Non è un caso che i dirigenti democratici che hanno aderito all’associazione per l’uninominale di Ichino siano tutti vicini all’ex sindaco di Roma. Come d’altronde Ichino stesso, che Veltroni volle nel 2008 candidato in Lombardia.

Ci sono poi differenziazioni territoriali: i parlamentari democratici del Sud sono più proporzionalisti di quelli del Nord e sostenitori indefessi della reintroduzione delle preferenze. Quelli settentrionali, d’altro canto, non vedono male un sistema spagnolo, proporzionale a circoscrizioni molto piccole, che potrebbe riscontrare il favore della Lega. Insomma, se il doppio turno alla francese scelto a maggio dal Pd oggi potrebbe non essere spendibile, si tratta di capire come costruire dentro il partito una sintesi intorno a una proposta che incontri il favore degli alleati moderati del governo tecnico e della futura grande alleanza democratica. I tempi stringono e il Pd deve cercare di accelerare.

cezione del rischio che la legislatura si posa interrompere. E chi non è disponibile a staccarle la spina sarebbe disponibile a un governo istituzionale, non lo fa solo per opportunismo. Insomma non è solo faccenda di peones, c’è anche chi nel Pdl non trova giusto né opportuno liquidare un’ampia maggioranza ottenuta alle elezioni per rischiare l’avventura elettorale. I finiani sono i più abbottonati. Il senatore di Futuro e libertà Giuseppe Valditara ripete la formula ufficiale di queste ore: «Noi vogliamo attuare il programma di governo che abbiamo condiviso e a cui abbiamo dato la nostra fiducia. Non ci interessano scontri con la magistratura a cui non siamo disponibili né scenari da elezioni anticipate». E se il premier decidesse di tagliare il nodo e chiedere elezioni anticipate? «Ci regoleremo di conseguenza» dice Valditara. Una risposta che ha il suo corollario nella già dichiarata disponibilità dei finiani a ragionare su una nuova legge elettorale.

Non a caso sul webmagazine Fare futuro compare un’articolo ”Sulla legge elettorale si gioca \\u2028la sostanza democratica” dove dove tra le altre cose si legge che «è ormai tempo di ridare agli elettori la possibilità di indicare il proprio candidato perché è qui che viene percepito il deterioramento della classe dirigente; di qui l’indignazione verso la “compravendita” parlamentare addebitata come un effetto del “porcellum”; e, in ultimo, l’insofferenza crescente verso alcune candidature discutibili (vedere, tanto per intendersi, la polemica chilometrica sulle “veline” in lista)». È la stessa linea indicata da Pasquale Viespoli, capogruppo Fli al senato, nel suo discorso di fiducia al governo «Noi siamo rispettosi della sovranità popolare e proprio in nome della sovranità popolare chiediamo che si cambi l’attuale legge elettorale perché stabilisce non la sovranità del popolo ma la sovranità padronale». D’altronde a Futuro e libertà una revisione dell’attuale legge, magari con rilevanti quote proporzionali, converebbe anche a puri fini elettorali. A scanso d’equivoci un senatore di Fli dice a liberal che sono almeno 5 senatori del Pdl che sono pronti a passare al gruppo finano nel caso di rimessa del mandato governativo, «per questo al premier – dice la fonte finiana – conviene andare avanti con la legislatura e il programma». Non tutti, nel Pdl, si trincerano nella difesa dello status quo come Sandro Bondi: «C’è la volontà di affossare il bipolarismo per ritornare agli amati riti della partitocrazia». Gaetano Quagliariello ha parlato della possibilità di una nuova legge nel contesto però di una ampia riforma istituzionale. Comprendendo che la ridotta per la difesa del Porcellum senza rispondere con una proposta alternativa potrebbe essere fatale.


diario

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Conti. I numeri della prima metà dell’anno sono contraddittori: meglio del 2009 su base annua, peggio su base trimestrale

La ripresa? S’è (quasi) fermata Torna a crescere il rapporto deficit/pil. E nel 2010 è già al 6,1% ROMA. I conti pubblici migliorano, ma le entrate calano. Nel primo semestre del 2010 il rapporto tra deficit e Pil, il prodotto interno lordo, è sceso al 6,1% dal 6,3% dello stesso periodo dell’anno scorso. La notizia arriva dall’Istat, che ha diffuso i dati sull’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche. Il saldo primario, nel secondo trimestre, é stato positivo e con un’incidenza sul Pil dell’1,5%, ma nel totale dei sei mesi risulta negativo e pari all’1,5% del Pil. In calo risultano essere invece le entrate fiscali. Nel secondo trimestre, la diminuzione è stata dell’1,8%, con un rapporto tra entrate e Pil che sale al 44,7%. In sei mesi le entrate totali sono scese dello 0,8%, con un’incidenza sul Pil del 42,3 per cento. Le sole entrate correnti hanno registrato, nel secondo trimestre 2010, una diminuzione tendenziale dello 0,1%, dovuto all’effetto combinato di una diminuzione delle imposte dirette (-1,8%), delle altre entrate correnti (1%) e di una crescita delle imposte indirette (+1,1%), dei contributi sociali (+1%). La forte diminuzione delle entrate in conto capitale (-47,2%), spiegano all’Istat, è dovuta principalmente alla contabilizzazione dei versamenti una tantum relativi all’imposta sostituiva di alcuni tributi.

Altri numeri vengono poi dalle uscite dello Stato. La spesa pubblica nel secondo trimestre di quest’anno è diminuita in termini tendenziali dell’1,2%, a fronte dell’aumento del 2,5% rilevato nel corri-

mento è l’effetto combinato di un aumento dei redditi da lavoro dipendente (+2,2%), delle prestazioni sociali in denaro (+2,4%), degli interessi passivi (+0,6%) e di una diminuzione dei consumi intermedi (-5,5%), delle altre uscite correnti (2%). Le uscite in conto capitale sono diminuite in termini tendenziali del 20,2%. In particolare, gli investimenti fissi lordi sono diminuiti del 18,3% e le altre uscite in conto capitale del 22,8%. Numeri che spiegano che, pur in un panorama di riduzione, continua a cre-

La spesa pubblica nel secondo trimestre è diminuita in termini tendenziali dell’1,2%, a fronte dell’aumento del 2,5% nel 2009 spondente periodo dell’anno precedente. Il loro valore in rapporto al Pil è stato pari al 48,2% (49,9% per centonel corrispondente trimestre del 2009). Nel primo semestre le uscite totali hanno registrato una diminuzione dello 0,9%, rispetto all’aumento del 3,4% segnato nello stesso semestre del 2009. Ed una incidenza rispetto al Pil pari al 48,4% (era 49,6% nello stesso periodo del 2009). Le uscite correnti hanno registrato nel secondo trimestre un aumento tendenziale dello 0,5 per cento. Tale au-

gnati alle Regioni affinché possano decidere gli investimenti, bisogna ripartire dal fatto che il patto di stabilità non può costituire un blocco degli investimenti per le amministrazioni virtuose, bisogna decidere che si mette in moto una macchina. Tutte le cose che vediamo fare sono invece cose che sottraggono risorse ai soggetti, tutte concentrate al Ministero dell’Economia, tutto è dentro questa idea che non bisogna spendere, la realtà è che aumenta la spesa corrente e diminuisce la spesa per investimenti».

di Alessandro D’Amato

scere la spesa corrente per lo Stato, e a diminuire quella per investimenti. È come se la spesa pubblica pensasse più al presente che al futuro. Un risultato che fa tornare in mente l’analisi, della settimana scorsa, di Susanna Camusso, vicesegretario generale della Cgil: «Le politiche di questi anni hanno determinato una progressiva divaricazione tra Nord e Sud del Paese, la crisi, come spesso succede, l’ha ulteriormente accentuata. Le risorse del Fas e dei fondi strutturali europei vanno conse-

«Rifinanziare gli ammortizzatori»

Epifani rilancia la Cig ROMA. «Chiediamo che si provveda a rifinanziare l’intesa sull’estensione della Cig in deroga, che finisce a fine anno», altrimenti «centinaia di migliaia di lavoratori si troveranno il prossimo anno senza alcuna protezione». Lo ha affermato il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, illustrando la proposta del sindacato per una riforma degli ammortizzatori sociali: una proposta «da realizzare gradatamente». «Non pensiamo solo all’emergenza, ma ad una riforma organica per dare un sistema europeo di ammortizzatori sociali che sia inclusivo e finanziariamente sostenibile», ha proseguito Epifani sottolineando che ci sono settori e figure non inclusi: donne, precari, migranti. Alla priorità di provvedere a una riforma di ammortizzatori sociali, il numero uno della Cgil ha fatto riferimento an-

che in relazione al tavolo con le organizzazioni imprenditoriali e sindacali che si è aperto ieri pomeriggio. «Si apre un confronto, ma bisogna innanzitutto definire su cosa confrontarsi. Per noi c’è un problema urgente che riguarda gli ammortizzatori in deroga e il rapporto tra la mobilità e l’innalzamento dell’età di pensionamento, perché in centomila rimangono senza mobilità e senza pensione». Epifani ha inoltre indicato i punti dell’innovazione tecnologica, dello sviluppo, del Mezzogiorno e del fisco come centrali del rilancio dell’economia in Italia: «Su tutto questo è necessario e utile che le parti sociali dicano la loro» ha sottolineato il Segretario generale della Cgil, secondo il quale bisognerebbe riaprire, infine, anche il confronto su democrazia e rappresentanza sindacale.

Nel frattempo, il tasso di disoccupazione ad agosto è sceso all’8,2% dall’8,4% registrato sia a luglio che a giugno. L’istituto di statistica ha precisato che il tasso è al livello più basso da settembre 2009. Per quanto riguarda il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) ad agosto è sceso al 25,9% dal 26,7% di luglio. Mentre il tasso di inattività femminile ad agosto e’pari al 49,2%, ovvero quasi una donna su due (tra i 15-64 anni) non ha un lavoro né lo cerca. Commenta lavoce.info che i peggioramento dei dati sulla Cassa Integrazione nel secondo trimestre 2010, in gran parte dovuto alla Cig in deroga insieme al nuovo aumento del tasso di disoccupazione, porta questa stima della quota di forza di lavoro in cerca di occupazione all’11,3 per cento. Le ripercussioni della crisi sul mercato del lavoro non si arrestano anche se sembra esserci per la prima volta un’inversione di tendenza sul lato dell’occupazione. Il numero complessivo di occupati è salito rispetto al trimestre precedente, benché sia ancora inferiore rispetto allo stesso trimestre di un anno fa. Questa lieve ripresa è avvenuta esclusivamente attraverso le nuove tipologie contrattuali, su cui sin qui si era concentrata la distruzione di posti di lavoro (i contratti a tempo determinato sono calati del 10 per cento dal secondo trimestre 2008 e pesano per ben il 42 per cento del totale dei posti andati persi). La fine del periodo di Cassa Integrazione e il fatto che ormai non si assuma più con contratti a tempo indeterminato contribuisce a spiegare la loro flessione (-1 per cento, rispetto allo 0,7 per cento dello scorso trimestre).


diario

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L’iniziativa di Luciano Ciocchetti supera la vecchia normativa

Oltre cento palestinesi approdano sul litorale pontino

La Regione Lazio presenta il nuovo Piano casa

Un barcone di clandestini a pochi km dalla Capitale

ROMA. Per capire fino in fondo e presentare nel dettaglio il nuovo “Piano Casa” promosso dalla Regione Lazio sulla spinta del vicepresidente e assessore all’Urbanistica Luciano Ciocchetti, è utile esaminare prima alcuni dati oggettivi: più del 53% delle imprese edili laziali reputa il dettato della vigente legge regionale 21/2009, inutile e inattuabile. In alcun modo ha inciso in termini di crescita economica della nostra regione. Del resto il settore delle costruzioni riveste da sempre un ruolo strategico e punto di forza dell’economia nazionale , di quella laziale e romana. Per fare un esempio un milione di euro investito in edilizia attiva un giro d’affari di 1,79 milioni di euro e che ogni miliardo consente di creare complessivamente 23 mila posti di lavoro. Per questo la nuova legge riscriverà le regole fissate dalla precedente giunta. Offrirà nuove opportunità e quindi dovrebbe dare nuovo impulso all’intero comparto. È previsto il riuso del patrimonio edilizio esistente per evitare così ulteriore consumo di territorio (punto forza della vecchia politica della sinistra) che attraverso l’uso indiscriminato dell’accordo di programma ha deregolamentato la pianificazione urbanistica. La vecchia stesura aveva creato

ROMA. Le nuove rotte dei disperati arrivano direttamente a Roma. Sono oltre 150 gli immigrati che ieri mattina all’alba sono sbarcati da un barcone palestinese arenatosi sulla spiaggia in località Capoportiere, sul litorale di Latina. Hanno raggiunto clandestinamente la costa pontina su una imbarcazione di 15 metri, in legno con scritte in arabo. Arrivavano molto probabilmente dal Pakistan, dopo un viaggio duranto giorni e giorni a bordo di un peschereccio e, pare, anche di un gommone. A dare l’allarme, un peschereccio italiano che avrebbe riferito alla Guardia costiera di aver incrociato sulla propria rotta l’imbarcazione in evidente stato di difficoltà.

Il quoziente familiare parte da Roma Via libera alla proposta lanciata dall’Udc capitolina di Angela Rossi

ROMA. È stata approvata nella seduta di ieri del consiglio comunale di Roma la delibera sul quoziente familiare fortemente voluta dall’Udc e portata avanti dal capogruppo al Comune capitolino, Alessandro Onorato. Una battaglia iniziata nella scorsa primavera e che ha visto l’appoggio, ieri pomeriggio, di tutto il consiglio. La delibera, infatti, è stata votata da maggioranza e opposizione. «È un risultato storico – afferma Alessandro Onorato – per noi. Il dato di fatto è che l’Udc, dall’opposizione, riesce a far passare l’iniziativa di introdurre il quoziente familiare nella Capitale. Quindi nel pratico si dimostra che si può contribuire alla crescita di una città anche stando all’opposizione. Ecco l’esempio di quella che si definisce opposizione costruttiva». In termini concreti come sarà calcolato ed applicato il quoziente familiare e in realtà di cosa si tratta? Di uno strumento per rendere più agevole e concreto l’accesso ai servizi pubblici comunali a tariffe agevolate in base alla reale composizione delle famiglie. L’obiettivo è quello di calcolare i costi di accesso ai servizi pubblici comunali in base alla concreta realtà familiare. Calcoli che saranno effettuati in base ad un algoritmo, proposto sempre dal capogruppo Onorato, e che prende in considerazione ad esempio, i nuclei che abbiano un anziano a carico (nella Capitale sono 419 mila le famiglie che hanno almeno una persona anziana al proprio interno) ) o un figlio fino a 24 anni, un disabile soprattutto se minore o un ragazzo disoccupato. Saranno così rimodulate le tariffe e le graduatorie ottenute dall’indicatore Isee.

rato - non vuole essere uno strumento calato dall’alto ma solo il primo e decisivo passo per ristrutturare la fiscalità locale e ridare al territorio di Roma un tessuto familiare vivo, in crescita e al passo con i tempi. Occorre restituire centralità alla famiglia e, con essa, dare nuove prospettive al futuro dei cittadini romani». Anche il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, pur non sottolineando la paternità dell’iniziativa, ha ricordato nel giorno del dibattito sulla fiducia, come il quoziente familiare sia in fase di sperimentazione in varie città di Italia. «Fa piace che il Presidente Berlusconi abbia voluto ricordare che a Roma il Comune sta affrontando il tema del quoziente familiare, grazie a una proposta di delibera consiliare dell’Unione di Centro - ha dichiarato ancora Onorato -. Al di là del dibattito che la dichiarazione del premier ha suscitato, quello che conta realmente è introdurre al più presto uno strumento di sostegno concreto per le vere vittime dell’attuale crisi economica, le famiglie».

Il provvedimento prevede l’accesso agevolato ai servizi calcolato sulla reale composizione delle famiglie

tante aspettative fra i cittadini ma anche tra la piccola e media impresa, ma con le limitazioni poste dalla vecchia amministrazione regionale di fatto si era rivelata inutilizzabile. Prova di ciò è rappresentata dall’esiguo numero di interventi nei comuni del Lazio.

Insomma, data per superata la norma vigente, la nuova amministrazione presenta ora una vera e propria rivoluzione normativa che si muove su queste direttrici: semplificazione, rilancio dell’edilizia, riqualificazione del patrimonio immobiliare esistente, riqualificazione delle periferie e meno consumo del terreno libero.

L’obiettivo finale è quello di estendere il quoziente familiare all’addizionale Irpef, cosa che rappresenterebbe un sostanziale sgravio fiscale sui bilanci familiari ed anche, altro obiettivo dichiarato, la prova provata che l’iniziativa potrebbe essere applicata a livello nazionale. «La delibera sul Quoziente Roma – aveva dichiarato al momento della presentazione Alessandro Ono-

La delibera approvata ieri prevede la messa in campo del primo servizio il cui costo sarà calcolato in base ai nuovi parametri previsti dal quoziente familiare per il prossimo mese di gennaio. Poi sarà formata una Commissione permanente, presieduta da Alessandro Onorato, che agirà di concerto con le associazioni familiari, i sindacati, le parti sociali per ragionare sull’impatto e sulla gradualità di applicazione delle nuove tariffe.“In sostanza – racconta ancora Onorato – discuteremo sulle variabili da applicare per lo sconto. Fino a ieri si calcolava solo in base al reddito, da oggi si considera quanti figli sono a carico, se ci sono ragazzi universitari, se ci sono disabili o anziani e verrà considerata la tipologia fattuale del reddito: ad esempio se si tratta di un pensionato o invece di un lavoratore autonomo. Anno dopo anno si inseriscono queste variabili sui servizi socio-educativi. L’approvazione della nostra delibera – conclude – dimostra che i fatti si possono fare”.

Una volta a riva, molti dei clandestini si sono dati alla fuga e hanno fatto perdere le proprie tracce. Circa una quindicina di loro sono stati fermati e

identificati nei pressi del barcone spiaggiato. Undici immigrati, sfuggiti ai controlli delle forze dell’ordine, sono stati bloccati invece sulla spiaggia di Anzio dai carabinieri. Si tratta di nove adulti e due bambini, tutti egiziani e palestinesi. «Gli immigrati si erano dispersi - ha spiegato il maggiore Emanuele Gaeta, comandante della compagnia di Anzio - ma siamo riusciti a individuarli e ora stiamo provvedendo all’identificazione. Per quanto ci riguarda abbiamo individuato solo uomini, più i due bambini». Carabinieri, guardia di finanza e le motovedette della guardia costiera sono impegnati nelle ricerche in mare e a terra degli altri clandestini, da Latina fino a Nettuno. Sul posto si è recato anche un elicottero delle forze dell’ordine che ha perlustrato la zona dall’alto. Si tratta del primo sbarco del genere nel Lazio. Attualmente le ricerche sono finalizzate a trovare gli altri clandestini riusciti a fuggire, approdando in altre zone lungo il litorale pontino. Fino ad ora non sono state individuate altre imbarcazioni.


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grandangolo Cronaca di un fallimento annunciato

Expo 2015 Ecco perché a Milano sta saltando tutto Entro il 18 ottobre vanno presentati a Parigi i piani definitivi della kermesse. E invece tutto è in alto mare: non ci sono nemmeno i permessi d’uso dei terreni. C’è chi dice che dietro ci sia la Lega che vuole fare lo sgambetto alla Moratti, comunque più che l’efficienza, la città ha mostrato grande dilettantismo di Giancarlo Galli oveva essere la grande occasione, l’Expo 2015, per il rilancio di Milano come capitale di un Nord operoso e dinamico, proiettato nel mondo; e si sta invece, giorno dopo giorno, trasformando in un angoscioso tormentone. Peggio: in una rissa, vieppiù aspra e confusa, dove si mischiano rivalità politiche, personalismi, interessi immobiliaristici. Mentre l’opinione pubblica ambrosiana osserva e giudica con crescente e disincantato scetticismo.Tanto che per le elezioni comunali della prossima primavera, allorché la sindachessa Letizia Moratti (Forza Italia) correrà per il “bis”, non si escludono clamorose sorprese, sebbene anche fra i potenziali avversari la confusione regni sovrana.

D

Andiamo però con ordine, a beneficio della comprensione. Il 31 marzo 2008 (due anni e mezzo fa, si prenda nota), a Parigi, l’assemblea generale del Bie (Bureau international des expositions), è chiamata a scegliere fra le metropoli candidate a ospitare l’evento nel 2015, che farà seguito a quello di Shangai del 2010 (tuttora in corso e rivelatosi un enorme successo, soprattutto d’immagine, per l’economia cinese). In lizza sono rimasti l’Italia e la Turchia con Smirne. La contesa è serratissima: la sindachessa Moratti, trasformatasi in globe-trotter per raggranellare consensi, non s’è certo risparmiata. E ottiene l’investitura battendo Smirne con 86 voti contro 65.

Sarebbe naturale, finanche scontato, un generale tripudio. Invece, il 10 aprile, la Società per la gestione dell’Expo nasce fra polemiche e gelosie. Nessuna discussione sulla presidenza affidata a Diana Bracco, industriale farmaceutico nonché al vertice dell’Assolombarda, ma pollice verso nei confronti del manager Paolo Glisenti, che – affiancando la sindachessa Moratti – è stato il vero re-

Tutto cominciò il 31 marzo 2008, quando il Bureau international des expositions preferì Milano a Smirne gista del successo. È accusato di pretendere un compenso troppo alto (all’incirca un milione di euro, spalmati nel tempo). Glisenti, cinquantenne gentiluomo, esperto in pubbliche relazioni e immagine di livello internazionale, un po’ nauseato, finisce col rinunciare. Mesi perduti, in una progettazione che segna il passo. Non certo agevolata dai ministeri romani, che lesinano sugli impegni di finanziamento. Una cifra vicina a 2

miliardi di euro, cui dovrebbero concorrere sia gli enti pubblici che immobiliaristi privati, costruttori edili, evidentemente interessati al grosso e ghiotto business. Senonché la crisi economica, giunta come un ciclone a ciel sereno, induce più di un privato a defilarsi.

Conti alla mano, il cerchio dei numeri non quadra, e la prospettiva di un buco fra entrate-uscite porta alla revisione “al ribasso” del progetto. Se il tema dell’expo (acqua e terra) non può variare, al successo di Glisenti, il parlamentare di Forza Italia Lucio Stanca, già amministratore delegato di Ibm-Italia e berlusconiano a ventiquattro carati, tocca il poco entusiasmate compito di muoversi con l’accetta. Meno dipendenti al quartier generale e un primo ridimensionamento, anche fisico, dell’Expo. In un clima fattosi pesante, ingarbugliato dalle risse partitiche per le poltrone, il senatore Stanca è accusato di voler tenere il piede in due scarpe (a Milano e a Roma, in Parlamento), di pretendere un compenso eccessivo. Sembra davvero che il mondo milanese non sappia vedere oltre i danèe. Dov’è finito l’orgoglio ambrosiano? Fatto sta che pure Stanca è messo nella condizione di gettare la spugna. Appare a questo punto sulla scena il terzo supermanager: Giuseppe Sala, ex direttore generale del comune di Milano. Tutto a posto? Nemmeno per idea.

Eppure sono passati quasi mille giorni dal trionfo parigino, dalla vittoria su Smirne. Elisabetta Soglio, giornalista d’inchiesta e di razza, scrive sul Corriere della Sera: «C’è un piccolo particolare… Non è ancora stata definita la disponibilità delle aree che ospiteranno l’esposizione e l’orto botanico». Parole messe nero su bianco il 28 settembre. Siamo ai limiti dell’incredibile. Per ospitare l’Expo era stata individuata un’area espositiva di 971mila metri quadri, attorno al nuovissimo insediamento della Fiera campionaria a Pero-Rho (dieci chilometri in linea d’aria da piazza Duomo), ma anche in questo caso s’erano fatti i conti senza l’oste. Ovvero i proprietari dei terreni. La vicenda prende risvolti kafkiani. Infatti, i due terzi dell’area individuata appartengono alla Fondazione Fiera di Milano (dove ha potere di vigilanza la Regione), il rimanente è del Gruppo Cabassi, privato. Trattative snervanti che rischiano di finire su un binario morto, poiché nemmeno gli enti pubblici (comune, provincia, regione) mostrano concordia, mentre i privati alzano il prezzo.

Ecco “il punto” della situazione. Il 18 ottobre il Bie di Parigi dovrà avere la certezza della disponibilità dei terreni per ufficializzare (entro novembre) la registrazione definitiva del dossier sulla candidatura di Milano. È probabile che prima dello scoccare della mezzanotte fatidica, i protagonisti raggiungano l’ac-


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Al Castello Sforzesco il premier non ha parlato di ricandidatura

E Berlusconi, alla festa del Pdl, si “dimentica” di lanciare Letizia

Qui sopra, l’architetto Stefano Boeri che ha cambiato idea all’improvviso sulla localizzazione dell’Expo benché fino a poco fa sia stato consulente del sindaco Moratti proprio per la kermesse del 2015. Sopra, Letizia Moratti con Silvio Berlusconi. A destra, uno scorcio dell’Expo di Shanghai

cordo in extremis, ma viene spontaneo e naturale domandarsi: perché si è lasciato che la Moratti (nominata commissario straordinario per l’Expo) perseguisse la candidatura, salvo bruciarle le ali? Ancora: per quali ragioni il sindaco, gettando evidentemente il cuore oltre gli ostacoli, non s’era premurato di assicurarsi la disponibilità dei terreni, accordandosi con la Fiera e il Gruppo Cabassi, che ora sta rilanciando sul prezzo o, in alternativa, ottenere una disponibilità edificativi delle aree a manifestazione conclusa? I critici (e sono molti, vieppiù numerosi) puntano il dito contro una gestazione dell’evento quasi dilettantesca, a livello tecnico e politico. In pratica: s’era partiti con un masterplan (i termini anglosassoni riempiono sempre la bocca), a dire poco faraonico. Canali navigabili sul modello dei navigli leonardeschi, strade sopraelevate, padiglioni avveniristici. Puntando sull’ipotesi di 30 milioni di visitatori, in buona parte stranieri che avrebbero fatto la gioia di albergatori, ristoratori e commercianti. Poi, innanzi alla dura realtà dei costi-ricavi, il susseguirsi delle retromarce.

Ancora più penosa, se possibile, la travagliata vicenda politica. Al momento della candidatura di Milano, capoluogo e regione erano rette dal centrodestra (la Moratti e Formigoni), con la Provincia nelle mani di Filippo Penati, Pd. Attriti e scintille. Alle ultime elezioni, anche la Provincia si tinge d’azzurro, col berlusconiano Guido Podestà. Ma le polemiche fra i vertici del triangolo regione-provincia-comune non sopiscono. Gelosie personalistiche o qualcosa in più, considerato che la Lega di Umberto Bossi, fortissima in Regione ma piuttosto debole a Milano-città, l’Expo mai l’ha vista di buon occhio. Così, agli occhi dei milanesi e dei lombardi, gente concreta e tutt’altro che distratta, la bella torta dell’Expo 2015 si sta trasformando in una modesta e bruciacchiata frittata, che potrebbe risultare persino indigesta. In quattro anni di permanenza a Palazzo Marino, la sinda-

chessa Letizia, per distinguersi dal predecessore (l’ottimo e amato Gabriele Albertini, reduce da due positivi mandati), lo aveva poco gentilmente gratificato di “amministratore di condominio”. In effetti l’Albertini (ora eurodeputato del Pdl, assai critico verso il berlusconismo) aveva rimesso ordine in città. Rendendola ben più vivibile di quanto sia attualmente. Certo, un colpo d’ala era auspicabile, dopo aver sistemato le retro-

Ultima assurdità: Stefano Boeri, area Pd, ex consulente del sindaco, ha cambiato idea sul luogo della kermesse vie. Pensare all’Expo è stato meritevole, ma come giudicare il degrado urbano, la crescente insicurezza, i cantieri stradali che non finiscono mai, le nuove linee della metropolitana in costruzione bloccate dalla pioggia? Nodi e contraddizioni che vengono al pettine, proprio alla vigilia delle elezioni amministrative della primavera 2011.

Avvelenata ciliegina. Il Pd, pur dilaniato, si prepara a lanciare la candidatura a sindaco di un brillante (sia detto per inciso, anche un po’ supponente) architetto. Stefano Boeri, creatura della buona e ricca borghesia ambrosiana. Intellettuale-progressista. E che va a sostenere il Boeri nelle assemblee del centrosinistra? Il progetto dell’Expo a Rho-Pero non gli piace. Quindi: «Andiamo all’Ortomercato. Sono aree pubbliche, non ci sarebbero rischi di speculazione e sarebbero adatte al tema». Perfetto, salvo un dettaglio, che dettaglio non è. Stefano Boeri, sino a poche settimane fa, è stato apprezzatissimo collaboratore di Letizia Moratti, nonché il principale estensore del masterplan (sempre quella parola, in inglese) dell’Expo. È davvero calata la nebbia, sui cieli di Milano.

MILANO. Che le cose non vadano per il verso giusto e che Letizia Moratti sia in un momento di grande difficoltà politica, è dimostrato anche da un fatto molto preciso: domenica scorso per lei doveva essere il giorno della incoronazione da parte di Silvio Berlusconi. Invece, nel rutilante discorso di domenica pomeriggio al Castello Sforzesco, nell’ambito della festa del Pdl, il premier tra un magistrato e una commissione d’inchiesta non ha neppure accennato alla possibilità di ricandidare l’attuale sindaco si Milano alle comunali della prossima primavera. Berlusconi ha concentrato il proprio comizio soprattutto sui temi di politica nazionale, puntando in particolare sugli attacchi alla magistratura e sulle capacità di tenuta della maggioranza di governo. Su Milano, nemmeno un accenno: niente sulla moschee, niente sull’Expo e, soprattutto, nemmeno una parola sulla ricandidatura della Moratti. Si è trattato di una vera e propria doccia fredda per il primo cittadino di Milano, che ha lasciato la festa nazionale del Pdl senza rilasciare alcun commento sull’intervento conclusivo del premier. Ma non per il presidente della Regione Lombardia: «Nessuna sorpresa», ha detto, al termine dell’intervento del premier, Roberto Formigoni. Che ha precisato: «Non era questo il momento. Era un appuntamento nazionale. E poi, in fondo, anch’io sono stato ricandidato ufficialmente dal presidente a dicembre, quasi sotto Natale. Di tempo ce n’è ancora». Dura, invece, la valutazione di Stefano Boeri, l’archistar che correrà alle primarie del Pd per la scelta del candidato sindaco del centrosinistra: «Oggi Berlusconi non ha speso nemmeno una paro-

la per ricandidare Letizia Moratti. L’imbarazzo nel centrodestra nei confronti di un sindaco che si è dimostrato incapace di governare Milano è sempre più evidente. Neppure i tanti milioni che Moratti promette di spendere in campagna elettorale rassicurano Berlusconi».

In realtà, la vera spina nel fianco di Letizia Moratti non è tanto Berlusconi, quando Umberto Bossi. Il leader leghista, nei mesi scorsi, non aveva fatto segreto della volontà del suo partito di mettere le mani su Milano reclamando la poltrona del primo cittadino. Del resto, a Milano città la Lega è molto più debole che nel resto della Ragione e un sindaco le farebbe da

volano in vista delle elezioni politiche dove il Carroccio vuole superare la concorrenza del Pdl nel centrodestra superandolo in tutto il Nord. D’altra parte, il successo parallelo dell’Expo di Shanghai, dove per altro la delegazione ufficiale italiana è nutrita e assai “costosa”, indurrebbe la politica cittadina e nazionale a spingere sul pedale del sostegno alla Moratti almeno per ben figurare in campo internazionale. Ma evidentemente alla Lega interessa solo il proprio orto, non solo a dispetto dell’Italia, ma anche a dispetto del Mondo.


panorama

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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Quando l’Italia riscopre i suoi filosofi a filosofia italiana va di moda e ha una sua dignità che fino a qualche anno fa non le veniva pubblicamente riconosciuta. Per molto tempo la filosofia di casa nostra, fatta soprattutto nelle aule accademiche, ha voltato le spalle alla tradizione critica del pensiero italiano per dedicarsi all’importazione di filosofie straniere che se da un lato hanno giovato - perché tutto è bene a sapersi in filosofia, proprio come nella vita - dall’altro hanno indotto a divulgare l’idea sbagliata della arretratezza del pensiero italiano. Oggi un libro di Roberto Esposito - discusso domenica sul Corriere della Sera da Ernesto Galli Della Loggia con un ampio articolo - capovolge questa immagine e dice: no, il pensiero italiano non ha sposato né la linea metafisica né quella empirista né quella illuministica e la sua particolarità si rivela per il nostro tempo preziosa legata com’è a categorie come “vita”“politica”“storia” che per loro natura sono anti-ideologiche e spingono a pensare e capire piuttosto che a ripetere astrattamente concetti sterili e stecchiti.

L

Tutto molto vero. E, infatti, il libro di Esposito - Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (Einaudi) - è un buon lavoro anche se, va pur detto, la ricostruzione del pensiero italiano nei suoi snodi principali è stata fatta non poche volte e con ottimi risultati da Gentile a Garin. Perché dunque discuterne? Perché questo è uno di quei libri che hanno per argomento non solo la storia della filosofia, ma anche la filosofia stessa, dal momento che per fare una buona storia della filosofia bisogna pur avere una buona idea della filosofia. Insomma, qui si gira intorno a un’idea che il pensiero italiano, con Croce (nella foto) e con Gentile, ha espresso con grande consapevolezza e chiarezza: l’identità dialettica di storia e filosofia o, con parole più ordinarie, la filosofia è storia pensata. Galli Della Loggia solleva proprio qui due obiezioni. La prima: nella storia della filosofia italiana rientrano autori che non furono filosofi: Machiavelli, Galileo, De Sanctis. Ma in questo modo non c’è una indebita sovrapposizione tra “filosofia” e “pensiero”? Ma una delle particolarità del pensiero italiano è proprio questa: una volta unite filosofia e storia non è più possibile andare a cercare la filosofia - e la buona filosofia - unicamente nelle teste dei filosofi. Così Croce poteva dire che «Machiavelli vale cento filosofi» ed è filosofia tutto ciò che accresce il patrimonio dei concetti direttivi della storiografia. La seconda obiezione dice: se in Italia abbiamo uno Stato nazionale che fa acqua la responsabilità non sarà anche di quella filosofia che, legata alla storia e al bios, non è mai riuscita a pensare l’idea di Stato in termini moderni? Tuttavia, alla domanda giusta e impertinente va detto che la filosofia è solo una parte, per quanto importante, della storia che è più ampia di ogni pensiero.

Cattolici in politica: ripartire da Aldo Moro Bisogna completare quella «terza fase» aperta nel 1975 di Luca Diotallevi Anticipiamo un saggio di Luca Diotallevi che sarà pubblicato nel numero 4-5 2010 della rivista «La Società»

centro non come il luogo delle rendite politiche pronte per qualsiasi trasformismo, ma come il luogo da cui gli elettori decidono di una competizione democratica.

irca trentacinque anni fa, tra le elezioni amministrative del 1975 e quelle politiche del 1976, Aldo Moro comprese che erano ormai maturate le condizioni per il passaggio alla «terza fase». Essa doveva vedere lo sviluppo di nuove relazioni tanto tra sistema politico e società quanto tra attori politici. In sintesi: meno pervasività della politica nel primo caso, più competizione politica e meno centralismo nel secondo.Tutto ciò era possibile perché il Paese era cresciuto e i cattolici erano stati protagonisti di quella crescita. Rispetto a trentacinque anni fa, completare quella transizione ci appare oggi compito non solo politico, ma anche politico, poiché la politica deve ad un tempo ritrarsi e riformarsi. Ciò che ostacola il formarsi di una nuova generazione di politici cattolici non è la scomparsa delle vecchie forme, ma il tardare dell’affermarsi di nuove forme, di forme nuove nella relazione tra politica e società, di forme nuove nella regolazione di una maggiore competizione politica, di forme nuove di organizzazione della partecipazione politica. Senza alcuna pretesa di esaustività, da questa ultima affermazione possono essere enucleati quattro punti.

3. Dopo la fine della Dc il mondo cattolico italiano ha spesso confuso pluralismo politico e disattenzione alla insopprimibile dimensione organizzata della partecipazione politica. Che poi questo sia avvenuto nella forma della mera irrilevanza o in quella scaltra degli «indipendenti di …» è del tutto irrilevante. Non si fa politica se non attraverso organizzazioni politiche, se non attraverso partiti: non c’è rilevanza politica senza organizzazione politica.

C

4. Per comprendere la portata della dimensione politica della sfida in atto, completare la transizione, per i cattolici è fondamentale distinguere due istanze, entrambe legittime, ma diverse: la rappresentanza degli interessi ecclesiastici ed il raggio completo della sfida politica. Almeno da Sturzo, sappiamo che la seconda è cosa diversa e più ampia della prima. Con altrettanta chiarezza sappiamo che i cattolici hanno non la facoltà, ma il dovere di battersi perché anche dalla politica non manchi il contributo al bene comune. Un approccio identitario e rivendicazionista risulta del tutto inadeguato alla azione politica, tanto perché tende a minacciare il respiro e la libertà dell’azione della Chiesa quanto perché impedisce di cogliere tutta la legittima complessità del dovere politico rispetto al bene comune. Potremmo ben dire che, ai cattolici che accettano la sfida politica, la responsabilità per il bene comune impone davvero una vocazione maggioritaria. Essi non possono e non debbono limitare la loro azione a pochi temi, né la propria attenzione a pochi individui od a poche formazioni sociali. Questo si esprime anche in una visione dei rapporti politica/società (sussidiarietà verticale ed orizzontale), in una visione delle regole politiche (poteri limitati, responsabili, contendibili), in una giusta tensione a correre per vincere (agonismo della libertà). Nella paura per il bipolarismo, per tanti politici cattolici di lungo o breve corso si mescola la nostalgia per rendite individuali con un senso ingiustificato di insuperabile marginalità. Al contrario, in un paese ormai fatto solo di infinite minoranze quasi nessuno si candida a correre per la sfida politica vera, quella grande. In questo paese di frammenti forse dalla tradizione del cattolicesimo può nascere chi raccolga la sfida grande.

In un paese ormai fatto solo di infinite minoranze, la politica è chiamata ad affrontare le grandi sfide

1. In questi trentacinque anni le resistenze alla transizione hanno spesso avuto successo. Il debito pubblico sta lì a misurare (per difetto) il costo imposto al paese da chi ha ostacolato la transizione da una società “meno aperta”ad una società “più aperta”. Così ci troviamo oggi alle prese con la necessità di chiudere la transizione in pessime condizioni economiche e sociali, globali ma più e prima ancora locali. 2. Per giocare davvero la partita politica della transizione occorre liberarsi non già della polarità destra/sinistra ma da una sua visione assiomatica. Né destra né sinistra sono bene o male in sé. Sturzo ebbe a destra il suo principale avversario (il fascismo), De Gasperi a sinistra (il comunismo): possiamo da ciò forse dedurre che Sturzo era di sinistra e De Gasperi di destra? Essi con coraggio e libertà ingaggiarono la battaglia che c’era da combattere e la combatterono. È così sempre, ovunque, per tutti i veri riformisti, per chi intende il


panorama

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Il Pontefice ha parlato lungamente del giudice, facendo riferimento al suo sacrificio fatto per «salvare gli uomini»

Se Falcone diventa un martire Perché il discorso di Benedetto XVI a Palermo segna una svolta nella lotta alla mafia di Luigi Accattoli immagine simbolo della visita del Papa in Sicilia è quella che lo mostra in preghiera ai bordi dell’autostrada, davanti alla stele di Capaci che ricorda Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta. Il segno forte di quell’immagine sta nel fatto che Falcone non era un credente, era un “laico”e dunque il Papa teologo non si è limitato a rendere omaggio ai martiri cristiani Puglisi e Livatino, ma ha associato al proprio atto di memoria e di segnalazione per il riscatto dell’isola anche i martiri altrui. Vedo in questa scelta un’applicazione alla Sicilia della preoccupazione e della sensibilità del Papa teologo per l’incontro della Chiesa con i non credenti, che egli indica con la suggestiva denominazione ebraica di Cortile dei Gentili: cioè la cerchia umana più vasta, che non appartiene al Popolo di Dio e alla quale è comunque destinato il messaggio di Cristo rivolto “a tutte le genti”. Con calore Benedetto lungo la sua giornata palermitana aveva ricordato il sacerdote martire della mafia Pino Puglisi nell’incontro con i sacerdoti in cattedrale e ai giovani aveva richiamato la figura di Rosario Livatino, anch’egli ucciso dalla mafia, segnalando che per ambedue è avviato l’iter per riconoscerne il martirio e l’esemplarità cristiana. «Martiri della giustizia e indirettamente della fede», aveva chiama-

L’

to gli uccisi dalla mafia Giovanni Paolo II in occasione della visita ad Agrigento nel maggio del 1993, dopo aver incontrato i genitori di Livatino.

Ma solo i cristiani sono da considerare martiri e da tenere in conto nella pedagogia ecclesiale del riscatto dalla mafia? E gli altri, i poliziotti e i magistrati e i politici che sono stati uccisi nella stessa impresa, andando alla prova del sangue con le sole motivazioni di giustizia

umana? L’omaggio del Papa alla stele di Capaci è la risposta a questa domanda: tutti i siciliani di buona volontà che hanno dato la vita per liberare l’isola dalla “strada di morte” che è la mafia – così l’ha chiamata – vanno ricordati e portati a modello nel dialogo con i giovani. Giovanni Falcone è un martire della giustizia esattamente come Paolo Borsellino (che era un cattolico praticante e che il giorno prima di essere ucciso era andato a confessarsi): questi dà la vita in nome di Cristo, quello in nome dell’uomo. Borsellino è morto nella stessa città e conducendo le stesse indagini per le quali due mesi prima era stato ucciso il collega Falcone. In Sicilia è frequente l’interrogativo – in ambito ecclesiale – sulla diversità e similitudine di queste figure. Né esso vale solo per i magistrati: si potrebbe condurre lo stesso raffronto tra il politico democristiano Piersanti Mattarella – poniamo – e il comunista Pio La Torre.

Anche in questo caso, il Papa teologo ha voltuo seguire la strada segnata da Giovanni Paolo II

Come guardare dunque – nella Chiesa – al “martire” che non è cristiano ed è soltanto un “giusto delle genti”? La questione è stata trattata – in riferimento ai martiri della seconda guerra mondiale e dell’America Latina – da un teologo svizzero di lingua tedesca che Giovanni Paolo II volle cardinale, Hans Urs von Balthasar, al quale Joseph Ratzinger ha sempre guardato come a uno dei suoi

“maestri”. Secondo la terminologia proposta da Von Balthasar, l’uno è un “martire per Cristo” e l’altro un “martire per l’uomo”: il riconoscimento ecclesiale della testimonianza dell’uno – sostiene il teologo svizzero – non limita, anzi chiarifica, l’apprezzamento per quella dell’altro. Se meglio risalta la comunanza di esperienza storica, il nome cristiano ci “guadagna”, perché l’obiettivo è di parlare all’uomo d’oggi e non di prendere distacco da lui. Così io credo va visto il gesto di Papa Benedetto. Egli non ha fatto un discorso a Capaci, dove ha solo pregato e dunque ad aiutarci nell’interpretazione non abbiamo che le parole del portavoce Federico Lombardi: «Durante il percorso da Palermo verso l’Aeroporto, il Papa ha voluto che il corteo si fermasse a Capaci, nel punto dove avvenne il tragico attentato contro il giudice Giovanni Falcone e la sua scorta. È sceso dalla sua macchina per deporre un mazzo di fiori presso la stele eretta in ricordo delle vittime, e ha sostato in preghiera silenziosa, ricordando tutte le vittime della mafia e delle altre forme di criminalità organizzata». Si è trattato dunque di una scelta personale di Papa Benedetto e l’intenzione era di ricordare “tutte le vittime” della mafia. C’è abbastanza in questa dichiarazione per intendere la pienezza dell’intenzione papale in quell’ultimo gesto in terra siciliana. www.luigiaccattoli.it

Il caso. Rientra la protesta: il presidente della Lazio Lotito annuncia la soluzione della vertenza

Accordo fatto: calciatori al lavoro di Alessandro D’Amato

ROMA. «Esistono necessità che devono es-

re una lista di tre, quattro nomi, accettati dalle due parti e quali affidare la presidenza dei collegi; istituire un’autorità terza che scelga i nomi, ma questa è una via più difficile e più lunga da attuare». Altro punto delicato era quello delle spese mediche, argomento sul quale ormai sembrano superate le maggiori difficoltà. «La scelta ultima

Non proprio. La possibilità di legare gran parte delle retribuzioni a standard di rendimento e ai risultati sportivi raggiunti dalla squadra e dal giocatore, l’introduzione di un codice etico a cui i giocatori dovrebbe attenersi dentro e fuori dal campo, in aggiunta all’abolizione del tetto massimo alle multe che le società possono comminare ai propri tesserati, e la possibilità di non permettere ai giocatori posti fuori rosa di effettuare la preparazione con il resto del gruppo sono ancora problemi a cui non si è trovata una soluzione. E soprattutto, in alto mare è anche l’obbligo per i giocatori di accettare trasferimenti in squadre di pari livello, blasone, che disputano le medesime competizioni e che garantiscono lo stesso contratto, pena la rescissione unilaterale del contratto pagando soltanto metà degli emolumenti restanti: è un punto controverso, che difficilmente passerà. Perché andrebbe contro le norme comunitarie, e sarebbe a rischio annullamento.

sere rispettate Noi abbiamo posto sul tappeto una serie di problematiche essenziali e sulla base di queste stiamo allestendo le condizioni per riscrivere l’accordo collettivo a tutela dei calciatori e dei club». Con questa dichiarazione un po’ burocratica, il presidente della Lazio prima in classifica Claudio Lotito ha risposto ieri a una domanda durante Radio anch’io sport sullo sciopero dei giocatori. Per il presidente della Lazio l’accordo per il rinnovo del contratto dei calciatori tutela sia loro sia le società. Al momento, ha detto, lo sciopero è stato scongiurato, e l’accordo pare vicino.

Sì alla mediazione sugli arbitri e sulle visite mediche. Resta il problema dei trasferimenti obbligatori senza il consenso dei giocatori

La nuova intesa, secondo l’avvocato Leonardo Grosso, vicepresidente dell’AIC, dovrebbe includere una nuova composizione dei Collegi Arbitrali, in particolare riguardo al presidente. «Al momento i due arbitri di parte nominavano un presidente o lo stesso veniva sorteggiato da una lista composta per metà da nomi indicati dall’Aic, per metà dalla Lega. Ora abbiamo due vie: individua-

spetta al calciatore, e la società concorre solo per quanto già stabilito delle norme», precisa il braccio destro di Campana. Il principio vigente sarà quello della «provata professionalità» del medico indicato dal calciatore, «questo per evitare, come accaduto in un paio di casi clamorosi, che il calciatori si affidi a sconosciuti che ne mettano a rischio la carriera». Tutto a posto, allora?


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ell’ultimo fin di settimana si è svolto a Valencia, in Spagna, il XVIII Congresso internazionale della Famiglia, promosso da Iffd: International Federation of Family Development. L’Iffd è costituito da una rete internazionale di associazioni familiari e dal 1978 funziona a pieno ritmo in oltre 40 Paesi, distribuiti in tutti i continenti. Il suo obiettivo specifico è quello di diffondere tra tutti coloro che si occupano di economia e di politica, di istruzione e di sanità, di welfare e di lavoro,“la prospettiva famiglia”, come forma mentis indispensabile per rispondere ai bisogni reali di tutte le persone di ogni stato e condizione, di ogni razza e religione. Il titolo di quest’anno era quanto mai intrigante in un momento storico in cui assistiamo a nuove forme di negazione e di aggressione dei diritti umani fondamentali: Family, school of human right, La famiglia scuola di diritti umani. Questo era il tema di fondo, emerso in quasi tutte le relazioni, in famiglia si apprende quali sono i diritti fondamentali dell’uomo, ma in famiglia si impara anche a rispettare i diritti altrui assumendo la prospettiva della reciprocità. Per cui se al di fuori della famiglia è difficile riuscire a sapere quali sono i diritti fondamentali dell’uomo, è ancor più difficile riuscire a rispettare quelli degli altri e ad esigere il naturale rispetto dei propri. L’idea che la famiglia costituisca il luogo in cui affiora con maggiore determinazione la consapevolezza di sé, della propria identità e della propria responsabilità, ha fatto da filo conduttore in tutto il dibattito che ha accompagnato le tavole rotonde, le singole relazioni e i gruppi di lavoro, da quelli più strutturati a quelli più informali. Eppure non c’è dubbio che noi oggi assistiamo ad una profonda crisi della famiglia. C’è soprattutto in Europa e in America del Nord un evidente tentativo di alterare profondamente il profilo che da sempre caratterizza la famiglia, dissolvendolo in una sorta di modelli alternativi che mettono in crisi non solo i diritti fondamentali dell’uomo: primo tra tutti il diritto alla vita, ma anche la loro interfaccia con i doveri di reciprocità, tra cui il patto intergenerazionale è comunque il più importante.

N

La famiglia è un tema di cui si discute volentieri, un valore riconosciuto su cui si investe però sempre e solo in modo virtuale, senza che questo abbia nulla di virtuoso, perché lascia le famiglie sempre più sole davanti alle loro responsabilità. Contemporaneamente al Congresso di Valencia si è tenuto a Zagabria un altro congresso, promosso dai Vescovi di tutta Europa, in cui il grido di allarme è stato una volta di più la denuncia del gelo demografico dell’Europa. La contrazione delle nascite sembra aver imboccato un cammino di non ritorno, perché sta contagiando in modo evidente anche i Paesi

il paginone Iffd è una rete internazionale di associazioni, fondata a Roma

Un network dell’Est europeo, recentemente entrati a far parte della Comunità europea, come se in Occidente ci fosse un virus che silenziosamente, ma irreversibilmente va silenziando le fonti della vita.

A Valencia la chiave narrativa del Congresso voleva essere più positiva e ha cercato di porre insistentemente l’accento sulla famiglia come luogo privilegiato in cui si apprende ad essere felici e a fare felici gli altri. Ma certamente non ha potuto fare a meno di denunciare l’infinita distanza delle istituzioni da questa prospettiva. Ci sono stati relatori qualificati, protagonisti a vario titolo delle politiche familiari nei rispettivi paesi, che hanno concordemente messo in evidenza lo scollamento che esiste tra il parlar di famiglia e il deliberare a favore della famiglia. Con forza si è messo in evidenza il bisogno di porre all’attenzione dei governi nazionali la responsabilità di proteggere la famiglia in modi concreti. È stato fatto nella tavola rotonda: La famiglia nella agenda politica

L’idea che il nucleo familiare costituisca il luogo in cui riesce ad affiorare con maggiore determinazione la consapevolezza di sé, della propria identità e della propria responsabilità, ha fatto da filo conduttore in tutto il dibattito che ha accompagnato le tavole rotonde e le singole relazioni e in quella: La famiglia nella Società civile e nelle organizzazioni internazionali. Da qualunque punto geografico, da qualunque prospettiva politica, si è preso in esame il problema, sempre è emerso il silenzio velleitario e povero di ricadute pratiche che c’è attualmente nel nostro mondo. Lo hanno detto Lucy, ministro dell’Istruzione nella Repubblica del Panama, Dainius Kreivys, ministro dell’economia in Lituania, Michael Schwarz, Presidente in Austria del Committee on the Family, Aramtza Quiroga, presidente del Parlamento basco, Liliana Negre, senatrice argentina, Juan Cotino, vicepresidente del governo della Comunidad Valenciana, Alfonso de Salas, capo della Divisione della cooperazione intergovernativa per i diritti umani nel Consiglio d’Europa. E questo stesso silenzio fatto di promesse in

libertà, senza la concretezza dell’impatto reale nella vita delle famiglia italiane, è una delle note caratteristiche della politica italiana di entrambi gli schieramenti.

Le difficoltà economiche presenti nel Paese, lo ha detto bene Dainius Kreivys, ministro dell’economia in Lituania e lo ha confermato con dovizia di dati Michael Schwarz, Presidente in Austria del Committee on the Family, non sono la causa per cui non si può intervenire a favore della famiglia così come si vorrebbe e così come ogni politico sa bene, ma ne sono semplicemente la conseguenza. La macchina economica e la produttività stentano a rimettersi in movimento un po’ dovunque, l’indice di fiducia dei consumatori è più basso che mai, perché le famiglie sono in un certo senso paralizzate da una logica che sembra ignorare totalmente i loro bisogni. Non c’è nulla che favorisca attivamente le politiche demografiche, peggio ancora c’è qualcosa che invece spinge sottilmente ma concretamente a spezzare il legame di solidarietà tra le generazioni. Nella nostra società occidentale, un po’dovunque, gli anziani sono sempre più soli, confinati in luoghi più o meno attrezzati sotto il profilo sanitario, non a caso si parla di Rsa, ma certamente freddi e poco in sintonia con i bisogni affettivi che solo una famiglia può soddisfare. All’insegna dell’ottimismo e della speranza sono state invece le sessioni di lavoro gestite direttamente dalle coppie che si occupano di orientamento familiare nel mondo. Una iniziativa che senza nulla chiedere alle istituzioni ha lanciato una sorta di programma “fai da te”, per cui le famiglia si organizzano in reti di famiglie


il paginone

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nel 1978, che funziona a pieno ritmo in oltre 40 Paesi, distribuiti in tutti i continenti strane, senza stupirsi della intrinseca conflittualità che presentano rispetto al modello originario di famiglia.

Si è svolto a Valencia il 18esimo Congresso promosso dalla International Federation of Family Development

k per la famiglia

Una società debole produce una politica debole e una politica debole conferma una società sempre più debole e questo si manifesta dei cambiamenti legislativi di un Paese. Ma il messaggio conclusivo del Congresso è stato di tutt’altro tono. Famiglie che hanno positivamente a cuore il futuro dei loro figli non possono farsi travolgere da una diagnosi che pur sembrando pienamente realista è in realtà improntata ad un pessimismo che sembra giustificare l’inerzia delle reazioni sul piano personale, sociale e politico. E allora da Valencia, nel documento finale, è stata lanciata una nuova sfida che, partendo proprio dalla rete delle associazioni familiari comprese sotto la sigla Iffd, possa ribaltare quel posizionamento culturale che vuole la famiglia vittima di politiche che a volte la ignorano e a volte ne minano le fondamenta. Una rete internazionale di famiglie e di associazioni familiari capaci di dettare la loro agenda politica a livello internazionale con proposte concrete, da monitorare rigorosamente

di Paola Binetti per capire meglio come poter fronteggiare le loro difficoltà, a cominciare da quelle di carattere prevalentemente educativo. Attualmente questa è la conferma più efficace di come le famiglia sono in grado di rilanciare la sussidiarietà orizzontale come forma di solidarietà efficace tra di loro. Le diverse esperienze di orientamento familiare fatte in Kenia o in Nigeria, in India o in Brasile, in Ecuador o in Canadà, in Italia o in Spagna, mostrano al di là di ogni ragionevole dubbio quanto forte e profonda sia la creatività delle famiglie quando vogliono proteggere quel futuro, in cui i loro figli dovranno vivere. Un futuro migliore per i nostri figli è la richiesta che risuonava in tutti i gruppi di lavoro, negli interscambi di esperienze, nelle domande poste ai politici di turno.

Accantonata la logica dell’autoreferenzialità, dei diritti individuali intesi come forma di autoaffermazione e come soddisfacimento di desiderio personali, al centro del dibattito c’erano costantemente loro: i figli, i giovani, la loro formazione, la loro felicità. Il vero nemico non sembrava la povertà o meglio il progressivo impoverimento economico e sociale che è stato ripetutamente messo in evidenza, ma il rischio della morte della famiglia, che comporta inevitabilmente la perdita di senso del concetto stesso di diritti umani, perché è in famiglia che il senso di umanità nasce, si sviluppa e giunge al suo pieno compimento. Eppure c’è chi si incarica di disfare la famiglia con una insistenza che mentre propone la affermazione di nuovi diritti umani, nello stesso tempo non si rende conto di come manda al mace-

ro molti altri diritti umani, che si sono andati gradatamente affermando nel tempo e che sembravano caratterizzare stabilmente la nostra civiltà.

Proprio dalla Spagna, Paese ospitante, è venuta fuori una critica durissima al cosiddetto divorzio express, che propone accanto alla rapidità con cui si può sciogliere il vincolo matrimoniale, basta un anno, anche la legittimità della mancanza di ragioni specifiche. Basta che uno lo voglia, e voilà sembra essere tornati al vecchio ripudio che non cercava giustificazioni di sorta, se non quella semplicissima di essersi stancati di un determinato rapporto. Il paradosso è che il contratto più importante nella vita di una persona, il suo matrimonio, si possa sciogliere nel modo più rapido e superficiale, finendo col dare ra-

La macchina economica e la produttività stentano a rimettersi in movimento un po’ dovunque, anche perché nessuno pensa di favorire attivamente le politiche demografiche. Anzi, c’è qualcosa che spinge sottilmente ma concretamente a spezzare il legame di solidarietà tra le generazioni

gione a chi si chiede allora che differenza ci sia tra matrimonio e unione di fatto, se l’una e l’altra possono essere liquidate così banalmente. Gli amici spagnoli hanno denunciato un processo di desjuridificación del matrimonio in atto da tempo in tutta Europa ma con una incidenza particolarmente forte nel diritto spagnolo. L’impoverimento, inizialmente sul piano culturale ma subito dopo con ampia ricaduta sul piano politico-legislativo, della relazione giuridica coniugale riduce inevitabilmente i doveri coniugali a semplici desiderata morali. Se un matrimonio può sciogliersi facilmente senza nessun motivo e senza neppure il consenso dell’altro, allora l’immagine che più facilmente è stata usata per descrivere questa situazione è quell’antico ripudio unilaterale, che almeno finora non apparteneva alla cultura occidentale, anche perché costituisce un attentato allo stesso principio di uguaglianza.

Quando il concetto di famiglia, il suo valore, perdono la capacità di essere riconosciuti come la principale forza di garanzia per l’uomo, per la sua sicurezza e per la sua felicità, a qualunque età e in qualunque condizione, allora nella nostra società si insinua il dubbio su quale sia la funzione della famiglia: a cosa serva e quindi in che modo debba essere regolamentata anche sotto il profilo giuridico. A tal punto questo dubbio può corrodere la nostra cultura che nel dibattito tra Esperti si comincia a parlare di un Diritto di famiglia che dubita di se stesso, un diritto in cui si possono mettere in discussione i suoi stessi fondamenti e da cui si possono ricavare le riforme più

a livello nazionale ed internazionale. Una rete associativa consapevole che se la famiglia non può essere ridotta a clava della politica, come ha recentemente denunciato Romano Prodi, non può neppure essere un tema di parte o di partito, deve appartenere all’agenda politica di tutta la comunità politica, che finalmente decide di investire sul suo futuro. Perché senza famiglia... non c’è neppure classe o comunità politica, c’è solo un insieme di persone litigiose e conflittuali, dilaniate dalla ricerca di interessi individuali e incapaci di perseguire un interesse comune in vista di un bene comune. Non a caso è la famiglia la scuola dei diritti umani, il luogo dove si impara ad esigerli per sé e per gli altri, dove in definitiva si scopre di essere qualcosa di più di un insieme e di individui, che competono per raggiungere esclusivamente i propri interessi... Il prossimo appuntamento dell’Iffd sarà a Città del Messico tra una manciata di mesi e vedremo per allora a che punto stiamo con la famiglia...


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Idee. L’intervento integrale all’incontro internazionale di Alliance for Democrats: una roadmap per la pace nel Paese

Sulla strada giusta Il presidente del Kurdistan è convinto: «Con la democrazia l’Iraq sta rinascendo» di Massoud Barzani ento spesso dire che non esistono valori umani universali. Che le genti di tutto il mondo sono divise da fratture culturali, etniche e religiose così profonde che diventa impossibile trovare un punto comune di incontro. Con la sua storia - tragica e lunga - di dittature e conflitti, l’Iraq viene speso usato come uno degli esempi più significativi di queste divisioni inconciliabili. Ma io vengo qui, oggi, per dirvi che questo non è vero. E vengo a dirvelo in qualità di chi ha visto in prima persona il lato più oscuro dell’uomo, che ha visto

S

questo è inequivocabile. Il desiderio di poter dormire tranquilli nei nostri letti la notte; di non vedere la gioventù dei nostri figli distrutta a causa del nome che portano, o della loro religione, luogo di nascita o opinione politica; di avere quelle possibilità che non sono state concesse ai nostri padri, e di poterne trasmettere di nuove ai nostri figli. Il problema, tuttavia, è come raggiungere questi valori e come assicurarne la continuità nella società. Io credo che la storia irachena sia la migliore prova della saggezza di quel vecchio proverbio de-

C’è chi vorrebbe vedere Baghdad ritornare ai metodi del passato per ignoranza, smania di potere o pura cattiveria: ma io credo che la nostra gente spinga i propri leader a guardare al futuro il tentativo di sterminare il proprio popolo, che può testimoniare la distruzione di quasi tutti i villaggi curdi, che ha dovuto constatare come i corpi di donne e bambini venissero gettati in delle fosse comune. Nonostante tutto questo, posso dirvi che in quanto esseri umani tutti noi condividiamo certi valori, e

mocratico secondo il quale «nessun uomo può essere sicuro, se un altro uomo ha paura».

La sicurezza deve essere universale. Ma questo significa anche che, mentre la sicurezza è necessaria per lo sviluppo della società, la stessa non serve a nulla senza democrazia e libertà. Senza la possibilità per ciascuno di scegliere i propri

leader, e poi controllarli. Questa consapevolezza è sempre stata nel cuore della lotta dei curdi, ed essa rimane la nostra visione per il futuro dell’Iraq. È per questo che abbiamo combattuto con tanta forza: per un Iraq che sia governato attraverso le leggi, guidato dai principi contenuti nella nostra Costituzione. Noi sappiamo per esperienza che ogni passo verso

Ancora difficile, ma non impossibile, la strada verso un governo iracheno a 210 giorni dalle elezioni

Un puzzle politico sul Tigri di Pierre Chiartano lmeno un record il nuovo Iraq l’ha battuto. Sono passati 210 giorni dalle elezioni e non c’è ancora un governo a Baghdad. Nel 1977, in Olanda, per mettersi d’accordo e formare un governo, il Parlamento ci mise ben 208 giorni. L’Iraq, dalle politiche del 7 marzo, è dunque senza un governo e, secondo molti analisti, lo sarà ancora a lungo. La Bbc ha ricordato ieri come ci vollero tre mesi solo per ratificare il risultato elettorale. Domenica, oltre sette mesi dopo il voto, la candidatura del premier uscente Nuri al-Maliki, per un nuovo mandato, ha ottenuto il sostegno dell’Alleanza Nazionale irachena, il maggiore blocco sciita iracheno, al quale però mancano

A

quattro seggi per avere la maggioranza in Parlamento. E a Maliki è pronta a opporsi la Lista Irachena, altro blocco sciita, ma di impostazione laica, guidato dall’ex premier Iyyad Allawi, che ha vinto di misura le elezioni, raccogliendo anche molto del voto sunnita, con 90 seggi contro gli 89 di Maliki.

Al-Maliki avrebbe però compiuto un passo decisivo verso l’ottenimento del secondo mandato. Con l’appoggio del partito sciita National Alliance ha superato il suo avverario diretto Adel Abdel Mahdi. E serve il pallottoliere, come per certe insicure maggioranze italiche, per contare le “teste”, cercando di scoprire se esistono i numeri per soste-

nere un governo. Il partito di Maliki, l’Alleanza per il diritto, ha anche l’appoggio di Moqtada al-Sadr e del suo partito Sadr Trend party. Fatto che ha sollevato non poche preoccupazioni a Washington. Visto che Sadr, che dal 2007 si è autoesiliato a Teheran, è il più strenuo antiamericano iracheno. È anche quello che più ha guadagnato, in termini di seggi, dal ritiro delle truppe Usa. Sadr da sempre ne chiedeva il ritiro, anche dopo l’accordo con Usa e Baghdad, affinché le sue milizie deponessero le armi. A questo punto, sommando i seggi dei sadristi, si arriva a quota 148. Per raggiungere la maggioranza necessaria per istituire un nuovo governo ne servono altri 15 (il Parla-

una mentalità improntata sul “prendo tutto io”significa andare verso un disastro sicuro; non soltanto per la regione del Kurdistan, ma per tutto il popolo iracheno. Nonostante non sempre ci troviamo d’accordo con alcune decisioni prese per tutto il Paese, noi tutti dobbiamo imparare a rispettare i diritti dei popoli di scegliersi le proprie guide. Va rispettata inoltre la


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vanno tenute fuori dalla nostra società quei processi politici che vogliono disintegrare, o quanto meno emarginare, una qualche componente della vita del Paese. Ecco perché mi sono reso disponibile a lavorare insieme a chiunque: l’importante è che voglia condividere i nostri valori, e sia pronto a lottare per essi nel Parlamento nazionale. Voglio ripeterlo: siamo pronti a partecipare a qualunque governo a Baghdad che voglia sostenere la Costituzione e lavorare in accordo con altri gruppi. Noi non discutiamo di singole politiche o di singole persone. Non ci interessa chi è il primo ministro, né basiamo la nostra politica sul petrolio o sulle strutture amministrative.

Vogliamo parlare di diritti, democrazia e rispetto delle leggi: sono queste le politiche che ci interessano, quelle che possono dimostrare veramente le intenzioni di un governo. Abbiamo combattuto troppo a lungo, e visto troppe volte cosa succede se si trovano dei “compromessi” su questi valori. La regione del Kurdistan ha imboccato la strada della democrazia dal 1991, mentre in Iraq questa è arrivata nel 2003: il nostro popolo non intende tornare indietro. Noi non possia-

minoranze e per le nostre comunità religiose. Abbiamo iniziato un progetto per rendere più trasparenti e responsabili le nostre istituzioni davanti al popolo. Abbiamo approvato leggi a favore del commercio e per gli investimenti in modo da attrarre le aziende straniere.

Tuttavia, noi siamo soltanto all’inizio della ricostruzione della nostra società. Per oltre cento anni ci è stato impedito l’accesso e la partecipazione al governo di noi stessi. Abbiamo bisogno di aiuto da parte degli altri democratici, con maggiore esperienza tecnica nella costruzione delle istituzioni. Dopo decenni di vita in uno Stato non democratico, vogliamo trovare nuove opportunità per la nostra gente; non soltanto per lo sviluppo economico, ma anche perché possano crescere al di là delle azioni del governo e delle istituzioni. Abbiamo davanti a noi una lunga strada, durante la quale dobbiamo scrollarci di dosso le violenze e gli abusi del passato. Alcuni bambini di Halabja sono nati con deformità o difetti causati dalle armi chimiche. Molti adulti in tutto il Paese ancora soffrono traumi psichici o fisici, effetto degli anni di dittatura. La nostra società ha appena

Vanno tenuti fuori dalla nostra società quei processi politici che vogliono disintegrare, o quanto meno emarginare, una qualche componente della vita nazionale. È l’errore del passato, da evitare decisione sul metodo di unire le comunità in una struttura federale. C’è qualcuno che non è d’accordo con noi, su questi valori. C’è chi vuole vedere l’Iraq ritornare ai metodi del passato per ignoranza, smania di potere, paura dei cambiamenti o pura cattiveria: ma io credo che la nostra gente spinga i propri leader a guardare al futuro. Gli iracheni vogliono che il sistema

di sicurezza nazionale sia in stretto contatto con la popolazione, e soprattutto vogliono che lo scopo di questi sia quello di proteggere i diritti umani. Non schiacciarli. Noi non permetteremo a chi vuole sviare il processo politico di riuscirci. Dobbiamo continuare a costruire la fiducia tra le nostre comunità, rafforzando le istituzioni e applicando lo stato di

mento in infatti composto da 325 seggi) che potrebbero arrivare dai curdi. Se la mossa dovesse riuscire, Maliki otterrebbe una vittoria decisiva contro un altro ex primo ministro, Ayad Allawi, e la sua coalizione, Iraqiya. Nelle precedenti elezioni Allawi aveva ottenuto 91 seggi, in leggero vantaggio rispetto agli 89 del partito di Maliki. I negoziati per un nuovo governo erano iniziati già alla fine del Ramadan, il mese sacro per i musulmani, a testimonianza di quanto rapidamente possano cambiare le alleanze (e le maggioranze) in Iraq.

Intanto sull’altro fronte il blocco Al Iraqiya di Iyad Allawi – un tempo assai vicino a certi ambienti Usa – sembrerebbe prossimo a un accordo con due partiti sciiti. Un esponente dell’alleanza aperta ai sunniti e prima forza nelle elezioni del 7 marzo, ha affermato che sono emerse convergenze con il Consiglio islamico supremo e con Al-Fadhila, due partiti sciiti che non si sono alleati con il rivale Nouri Al Maliki. Ma i segnali distensivi tra i due contendenti continua-

diritto. Dobbiamo impegnarci affinché sia chiaro a tutti che le minoranze e la parte vulnerabile della popolazione saranno al sicuro nella nostra società: non ci limiteremo a garantirne la sopravvivenza, ma daremo loro l’opportunità di progredire. Ma questo significa che, in Iraq, ognuno deve avere il diritto di scegliere la forma e la struttura del proprio governo. Per questo

no a cominciare dal discorso televisivo di venerdì scorso di al-Maliki che tendeva una mano ad Allawi e alle forze che lo sostenevano per un alleanza di governo. I siriani, eterni giocatori delle partite altrui, non potevano star fuori dal tavolo iracheno. Il presidente siriano Bashar al-Assad è infatti andato a Teheran per incontrare Mahmoud Ahmadinejad, per discutere di Libano Palestina e Iraq,

mo permetterci di fare compromessi sulla natura intrinseca dello stato federale: se mai dovesse esserci una linea rossa, sarebbe quello. Nella regione kurda abbiamo percorso una lunga strada per creare vere istituzioni democratiche. Abbiamo sperimentato un vero boom economico, cominciato a ricostruire le nostre infrastrutture, creato protezioni per le

di persuadere l’Iran a restare fuori dalla sua prolungata battaglia politica contro il premier uscente, Nuri al Maliki, dopo le elezioni del 7 marzo. Insomma, voleva che il siriano chiedesse ai mullah di non ingerire nelle vicende interne irachene. A dimostrazione che pur contendenti in politica interna, Allawi e Maliki convergono contro l’ingerenza sciita che viene da oriente. Ora l’ago della bi-

Bashar Assad è andato a Teheran dopo che l’ex primo ministro iracheno, Iyad Allawi, aveva chiesto alla Siria di persuadere l’Iran a restare fuori dalla politica irachena naturalmente. L’incontro è avvenuto a porte chiuse ed è stato incentrato su questioni «bilaterale e regionali, incluso Libano, Iraq e Palestina», secondo quanto riportato dall’agenzia Isna. Assad ha anche incontrato il leader supremo della repubblica islamica, Ayatollah Ali Khamenei, a altri alti funzionari iraniani. La visita di Assad a Teheran arriva dopo che l’ex primo ministro iracheno, Iyad Allawi, aveva chiesto alla Siria

lancia nella difficile situazione politica di Baghdad potrebbero diventare i curdi. E pare che Washington stia tessendo la tela per questa convergenza. La Casa Bianca teme l’influenza dei partiti sciiti e del loro settarismo, perché ha paura che possa alimentare di nuovo la violenza e la guerra civile. Infatti fu proprio la presa d’atto di questa divisione settaria del Paese che portò al successo del surge. In realtà vincente fu la divisione dei

iniziato un lungo processo di riconciliazione. Ma noi siamo determinati, e supereremo il nostro sanguinoso passato.Voglio ringraziarvi per questo invito. È un onore essere con voi oggi, e chiedo il vostro sostegno per piene relazioni bilaterali con il mondo. Lavoriamo insieme per il giorno in cui le urne elettorali siano le sole a trionfare, per tutti e ovunque.

centri urbani, della capitale in primis, in quartieri sciiti e sunniti. L’aumento di truppe doveva servire solo nel caso questo piano avesse fallito. Comunque la situazione è tesa e lo dimostra anche l’ennesimo rinvio per il censimento generale della popolazione in Iraq, nel timore che possa far deflagrare una situazione già instabile.

A dare la notizia è stato, Mahdi al-Allaq, vice ministro della Pianificazione nonché direttore dell’Organizzazione centrale per la statistica e le tecnologie dell’informazione (Cosit), che fa capo allo stesso ministero – spiegando come la decisione fosse stata presa nel corso di una riunione straordinaria del Consiglio dei ministri che si era tenuta domenica per discutere il da farsi. Il risultato: meglio spostare la data dal 24 ottobre al 5 dicembre, «per concludere i negoziati sulle questioni irrisolte», ha precisato Allaq. L’agenda dei problemi «irrisolti» vede, tra le altre cose, il conflitto territoriale che oppone arabi e curdi nelle cosiddette «zone contese».


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Elezioni. Il 31 ottobre la popolazione torna al voto per il ballottaggio una vittoria a metà quella dell’aspirante presidente brasiliana Dilma Rousseff, 62 anni, candidata del Partido dos trabalhadores (Pt) e pupilla del presidente brasiliano uscente Lula. Le urne cui sono accorsi 130 milioni di brasiliani per un voto tutto elettronico hanno riservato più di una sorpresa. Gli ultimi sondaggi e persino gli exit poll di domenica notte infatti davano l’erede di Lula oltre la metà dei consensi, cosa che le avrebbe consegnato l’incarico senza dover ricorrere al secondo turno. Ma così non è andata, e anzi i due principali rivali sono andati molto al di sopra delle aspettative. E ancora una volta nel mondo c’è di mezzo un terzo polo che raccoglie il consenso degli elettori e ottiene un mandato a difendere posizioni non omologate ai contenitori considerati maggiori. Per quanto già le coalizioni più affollate abbiano nature un po’ confuse, con ad esempio la candidata di centro-sinistra Dilma Rousseff alleata a diverse formazioni di conservatori; mentre il cosiddetto centrodestra è rappresentato dai socialdemocratici, che tra i punti forti della loro campagna elettorale avevano l’aumento del salario minimo e delle pensioni; il terzo polo verde, già al governo con Lula e poi rivale, ultimamente ha mostrato più vicinanza all’opposizione che alla coalizione di centro-sinistra, da cui ad esempio li divide la linea tecnocratica, tutta industria, energia e petrolio dell’ultimo Lula, oltre che la fortissima rivalità personale tra Marina e Dilma, di cui rimangono memorabili gli scontri quando erano al governo insieme. Dilma Rousseff, spesso criticata perché troppo dipendente da Lula che ha un consenso molto

È

Il Brasile alle urne senza un presidente La pupilla di Lula si ferma prima del 50% Mentre avanzano a sorpresa gli ecologisti di Osvaldo Baldacci

avrebbe fatto delle aperture all’aborto (e anche alcune ambiguità sui matrimoni omosessuali) che poi ha smentito, e questa sua posizione pur appena intravista le sarebbe costata molti voti, e proprio le donne hanno preferito spostare la loro preferenza dalla candidata presunta abortista all’altra donna in lizza, che è inflessi-

Il Pardido Verde di Marina Silva si attesta (a sorpresa) sul 20 per cento, una crescita di 7 punti rispetto alle previsioni pre-elettorali superiore all’80%, nelle urne si è fermata al 46,5%. Il risultato è piombato come una mazzata sul quartier generale del Partito dei lavoratori. Secondo gli analisti, contro l’aspirante primo presidente donna del Brasile hanno pesato diversi fattori. Senz’altro lo scandalo corruzione che qualche giorno fa ha coinvolto la capo gabinetto e braccio destro della Rousseff, Erenice Guerra, che le è succeduta al governo. Ma molto ha pesato anche il tema dell’aborto: la Rousseff

bile contro l’aborto. Un fatto su cui riflettere a proposito del rapporto tra donne e aborto. La candidata che ha costituito la maggiore sorpresa è stata appunto l’altra donna, la leader dei verdi brasiliani Marina Silva, nera e nata poverissima, che ha raggiunto il 20%, circa 7 punti sopra le previsioni. La candidata verde, secondo i politologi, ha beneficiato anche del voto di molti che non erano convinti dei due schieramenti principali. Il voto verde a questo punto sarà

In Parlamento anche Romario e Bebeto

Il più votato? Un clown Sarà un Parlamento spumeggiante quello della prossima legislatura in Brasile. Quello che forse è giusto aspettarsi da un Paese come il Brasile, una delle democrazie serie e più stabili degli ultimi decenni, capace di gestire l’enorme processo elettorale interamente col voto elettronico, e allo stesso tempo un Paese complesso, ricco di contraddizioni, e anche famoso per il suo spirito allegro nonostante tutto. E infatti il più votato al Parlamento è stato un serissimo clown. L’amatissimo pagliaccio delle tv brasiliane, Tiririca, ha conquistato 1,1 milioni di preferenze, il 6% circa, puntando sull’antipolitica. “Votate il deputato vestito da pagliaccio: molto meglio di questi pagliacci vestiti da deputato”, il suo azzeccatissimo

slogan. Candidato in un partito alleato di Lula, Francisco Everaldo Oliveira Silva, 45 anni, il “commediante, compositore, cantante e umorista”, che va in giro con camicette fiorite o dipinte con colori choccanti e un cappellino abbinato, ha puntato sul populismo: «Tu sai cosa fa un deputato federale? Non lo so neppure io, ma vota per me che poi ti racconto». E sulle provocazioni: ha ripetuto che quando sarà eletto penserà prima alla sua famiglia, poi a i poveri, da cui proviene. Non è certo se sappia leggere e scrivere. E poi il Brasile è anche samba, ma soprattutto calcio: Romario è stato eletto con quasi 150mila voti a Rio; Bebeto, invece, ha avuto il sostegno di 30mila voti e avrà uno scranno nell’assemblea. (O.Ba.)

decisivo, e non si esclude che la Silva, ministra dell’Ambiente di Lula nel 2003, possa rimettere in campo Serra, anche perché è difficile immaginare nella stessa compagine governativa le due donne insieme con i loro caratteri e la loro aperta rivalità. Per ora la Silva dice di non voler dare indicazioni di voto: «Il voto è dell’elettore». Il successo di Marina Silva non è evanescente: il Pardido Verde è risultato primo con il 41% nel Dipartimento Federale, lo stato della capitale Brasilia, con il 10% in più che la Dilma, ed è arrivata seconda in stati importanti come Rio de Janeiro, Amazonas, il Pernambuco e il Cearà. Marina Silva ha eroso voti alla Rousseff anche nella sua roccaforte, il Nordest povero dove le politiche sociali di Lula sono determinanti. Molto migliore delle aspettative anche il risultato del candidato socialdemocratico che ha conquistato il diritto al ballottaggio: Josè Serra ha ottenuto il 32,5 dei voti quando era accreditato appena del 27%.

Però la sua linea è un po’incerta: a causa della grande popolarità di Lula e del fatto che questi ha mantenuto la politica economica dei predecessori che erano socialdemocratici, Serra ha inizialmente provato ad attaccare Dilma presentandosi lui come il vero erede della continuità di Lula. Dopo che ovviamente questa politica non ha pagato, ha provato a distaccarsene, facendo però fatica a recuperare lo spazio perduto. Ora potrebbe provare a puntare sul fallimento della rivale, che in fondo ha perso il suo primo serio confronto politico per il quale Lula le aveva spianato la strada. Per inciso, José Serra è oriundo calabrese, figlio di emigranti italiani, cresciuto nel quartiere della Mooca, la Little Italy di San Paolo, ex leader studentesco esiliato durante la dittatura militare. Serra è un uomo con convinzioni di sinistra, che però oggi si trova a rappresentare l’alternativa di centrodestra. La favorita resta comunque Dilma Rousseff, nata nel 1947 a belo Horizonte da padre bulgaro. È stata guerrigliera marxista contro la dittatura militare, e ha trascorso tre anni in carcere, dove è stata torturata. Donna aspra, dice che non è il suo carattere ad essere difficile, ma il ruolo che ricopre. Mira ad essere la prima donna presidente del Brasile. Al suo mentore Lula ha fatto l’ultimo favore: andando al ballottaggio il 31 ottobre, gli ha regalato un altro mese di presidenza.


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Trovano conferma gli obiettivi possibili indicati dalla rete Fox

In fiamme 20 cisterne, destinate ai soldati dell’Afghanistan

Terrorismo, Frattini: «Minacce reali, vigiliamo»

Pakistan, attacco talebano ai camion Nato

NEW YORK. Sembra senza sosta l’allarme internazionale contro possibili minacce terroristiche. L’allarme terrorismo diramato dagli Stati Uniti per possibili attentati in Europa ad opera di gruppi legati ad al Qaeda «è realistico, ma non vi sono allarmi speciali per l’Italia». Lo ha chiarito il ministro degli Esteri, Franco Frattini secondo il quale «i principale Paesi europei sono un obiettivo potenziale di terroristi che provengono da regioni come il Pakistan e l’Afghanistan, dove i nostri uomini sono impegnati a portare pace e stabilità, e per questo è importante che il loro lavoro continui».

ISLAMABAD. Sei persone sono

Frattini ha escluso, tuttavia, che ci sia una minaccia specifica per l’Italia: «Non ci sono obiettivi specifici, non ci sono allarmi speciali dedicati all’Italia», anche se episodi come l’arresto a Napoli di un presunto estremista algerino con un kit di esplosivo fornisce «qualche elemento importante». Diverso è il discorso per la Francia, dove secondo fonti citate dalla rete Usa Fox, nel mirino ci sono la Tour Eiffel e la cattedrale Notre Dame, e per la Germania, dove tra i potenziali obiettivi c’è la stazione centrale di Berlino, la torre della Tv di Alexanderplatz e l’hotel Adlon. Il mini-

Pensioni in Cina, sale l’età minima La corruzione e gli aborti costringono Pechino alla riforma di Vincenzo Faccioli Pintozzi l governo cinese, sempre più preoccupato dall’invecchiamento galoppante della popolazione, ha approvato un rischioso piano di riforma del sistema pensionistico che costringerà i lavoratori a rimanere in attività per altri cinque anni prima di poter ricevere il sussidio statale. D’altra parte gli scandali legati alla corruzione dei quadri locali – che sempre più spesso “spariscono” con i fondi pensione delle città che amministrano – e soprattutto l’invecchiamento della popolazione non lasciano alternative. La riforma entrerà in vigore a Shanghai il prossimo 9 ottobre. Secondo i media statali, in base al nuovo sistema i cittadini potranno scegliere di posticipare il pensionamento a 65 anni (per gli uomini) e a 60 (per le donne). La riforma riguarda tuttavia solo le imprese private, sempre più numerose nelle fasce ricche del Paese, mentre per i lavoratori statali rimarrà in vigore il vecchio sistema. Al momento l’età per il pensionamento è fissata a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne. «La riforma spiega Bao Denru, vicedirettore della Commissione per la Sicurezza Sociale di Shanghai - cerca di venire incontro alle necessità delle persone. Lascia la libertà a chi vuole di continuare a lavorare ancora e a chi invece vuole andare in pensione di poterlo fare». Secondo quanto riferisce la stampa locale, «la decisione di portare avanti una riforma di questo genere è derivata anche dai fondi per le pensioni», che secondo la propaganda «sono diventati insufficienti». Zheng Bingwen, dell’Accademia cinese di Scienze Sociali, ha dichiarato che il deficit dei fondi da destinare alle pensioni ha raggiunto in Cina i 200 miliardi di dollari ed è destinato persino ad aumentare per il futuro. Secondo alcuni analisti, tuttavia, posticipare l’eta per il pensionamento non serve a risolvere il problema, ma semmai solo a ritardarne gli effetti. Sono poi in molti a criticare il nuovo sistema, sostenendo che consentire a persone avanti negli anni di continuare a lavorare sottrae posti di lavoro alle nuove

I

generazioni. Questo problema nasce dalla famigerata legge sul figlio unico, che alcuni giorni fa è stata confermata da Pechino “almeno per i prossimi 20 anni”. Limitando la natalità nel Paese in maniera coercitiva, infatti, il governo ha di fatto condannato a lavorare di più tutti: senza figli, infatti, si riduce il numero di contributi versati al sistema pensionistico, che ora inizia a scricchiolare.

Che la legge dei figlio unico sia un lento suicidio della popolazione è ormai evidente a molti: essa comincia a minare le fondamenta la crescita economica cinese. Anzitutto perché la popolazione invecchia in modo molto veloce. Secondo il ministro del Lavoro e quello della Sicurezza sociale, entro il 2030 il 23% della popolazione avrà più di 60 anni. Si tratta di 351 milioni di nuovi pensionati, che andranno a gravare sulle casse dello Stato. Di conseguenza, aumenterà anche la percentuale del numero di cittadini non lavoratori a carico degli altri. Al momento, il rapporto è di 3 lavoratori per 1 pensionato; fra 20 anni, arriverà a 2 per 1; nel 1975 la proporzione era di 7,7 a 1. Ma ci sono problemi anche per la manodopera, che in un Paese da 1 miliardo e 300 milioni di abitanti inizia a scarseggiare. Finora lo sviluppo cinese si è basato sulle fiumane di giovani provenienti dalle campagne, pronti a lavorare per pochi euro al mese. Ma ormai i giovani scarseggiano e le fabbriche fanno fatica a raccogliere operai. Ciò è sentito soprattutto nella “cinta d’oro”della provincia del Guangdong (la più industrializzata) e nella ricca Shanghai. Proprio per questo i deputati di Canton e Shanghai continuano a chiedere di cambiare la legge, per permettere alle coppie di avere almeno due figli. Alcune voci ancora non confermate dicono che il governo voglia lanciare un progetto pilota in cinque province in cui togliere la legge e studiare gli effetti. Finora però, a tutte le richieste di scienziati e demografi, Pechino ha sempre risposto esaltando i suoi successi.

Il governo non sa come recuperare i fondi da destinare a una popolazione sempre più vecchia e senza figli che lavorano

stro degli Interni tedesco, Thomas de Maiziere ha però minimizzato l’allarme: «Non c’è al momento - ha detto - nessuna indicazione di minacce immediate pianificate contro la Germania. Quindi non c’è bisogno di essere allarmisti». Nel Regno Unito, anche se non sono stati indicati singoli possibili bersagli, è stata rafforzata la sicurezza per i reali. Un’allerta attentati dopo gli Usa è stata diramata anche da Gran Bretagna e Giappone. I messaggi non consigliano comunque di annullare i viaggi in Europa un evento che da solo rappresenterebbe una vittoria per i terroristi - ma di evitare, se possibile, i luoghi affollati.

state uccise e altre nove ferite in un attacco rivendicato dai talebani contro alcuni camion-cisterna della Nato. L’attacco è avvenuto nella notte vicino alla capitale e almeno 20 camion sono bruciati dopo che una decina di militanti hanno preso d’assalto il deposito e hanno sparato sui veicoli, in attesa per caricarsi di gasolio. Alcuni colpi hanno incendiato qualcuno dei camion diffondendo poi le fiamme. I talebani hanno rivendicato attacchi simili avvenuti nel nord e nel sud (Sindh) il 1° e il 3 ottobre, in cui circa 60 camion sono stati distrutti. I camion servono per i rifornimenti alle truppe Nato che combattono in Afghanistan. Questi at-

tacchi avvengono in un momento in cui i rapporti fra Nato e Pakistan sono tesi: alla fine di settembre un bliz aereo della Nato in Afghanistan ha sconfinato nel vicino Pakistan, uccidendo tre soldati. Per tutta risposta Islamabad ha bloccato alcuni dei convogli che riforniscono la Nato in Afghanistan.

Secondo personalità pakistane e straniere, intervistate da AsiaNews, gli attacchi contro i convogli Nato danno ai militanti una grande pubblicità, ma non influenzano le loro operazioni in Afghanistan. Il loro numero, in questi due anni non è cresciuto molto e la maggior parte dei convogli raggiunge illesa la sua destinazione. La tensione fra Nato, Usa e Pakistan è comunque in atto. Soprattutto Washington vorrebbe che Islamabad si impegnasse di più nella lotta anti-terrorista contro i talebani che trovano rifugio in Pakistan, soprattutto nella frontiera del nord-ovest, al confine con l’Afghanistan. Nel frattempo, la popolazione pakistana continua ad affrontare le peggiori alluvioni della sua storia: milioni di persone sono tuttora sfollate, senza neanche un domicilio provvisorio. Mancano anche acqua, cibo e medicinali di base.


cultura

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Il caso. Nel 1978 fece nascere artificialmente la piccola Louise Brown. La Pontificia Accademia per la Vita: «La Ivf suscita gravi interrogativi morali»

Il Nobel delle polemiche Il premio va a Robert Edward, “padre” della fecondazione in vitro. E il Vaticano attacca: «Ignorate le ragioni dell’etica» di Gabriella Mecucci n premio Nobel esplosivo quello di quest’anno. A partire da Radio Vaticana, che per bocca di Lucio Romano, assegna al premio il proprio personale dissenso: il Nobel ad Edwards, ha spiegato Romano, «disattende tutte le problematiche di ordine etico e rimarca che l’uomo può essere ridotto da soggetto ad oggetto». «È un Premio Nobel che deve essere assolutamente preso in considerazione in ragione di un’analisi anche di ordine etico – ha commentato Romano – mentre quest’anno attraverso un’assegnazione così decisa del premio stesso, si disattendono tutte le problematiche di ordine etico ad esso connesse». Ma le polemiche sul riconoscimento al biologo inglese Robert Geoffrey Edwards non sono nuove. L’ottantacinquenne ricercatore è il “padre” della fecondazione in provetta. La IVF (in vitro fertilisation) che, sin dalla sua nascita è stata fonte di infinite discussioni e di altrettante polemiche.

U

Tutto è cominciato nel 1978 quando nacque Louise Joy Brown, oggi una trentaduenne grassottella e in salute, concepita al di fuori del corpo di sua madre. Ed è proprio questa la prima ragione che spinse l’allora papa Giovanni Paolo secondo a condannare la procreazione in vitro: utilizzando quella tecnica infatti la sessualità veniva scissa completamente dalla procreazione. Sino ad allora c’era stato sesso senza concepimento, da quel momento in poi ci sarebbe stato anche il concepimento senza sesso. Dietro la critica serrata dei cattolici alla nuova scoperta c’erano poi molte altre ragioni: il disporre degli embrioni, considerati vita a tutti gli effetti, come un oggetto, non curandosi dell’enorme numero che ne andava distrutto, il rischio di manipolazioni genetiche alla scopo di selezionare il bambino fatto su misura: alto, biondo, occhi azzurri, ed altro. In Italia sull’argomento fecondazione in vitro nel 2005 ci fu anche un combattuto referendum che vide la sconfitta del fronte laico (o laicista) e la vittoria della Conferenza episcopale. Insomma, ce n’è abbastanza per poter dire che nei sa-

cri palazzi ieri si è masticato amaro di fronte a questo Nobel. La IVF infatti ha anche enfatizzato uno dei grandi problemi etici attuali: la difesa della famiglia composta da uomo e donna. Se è infatti possibile concepire al di fuori del corpo anche le coppie composte da due uomini o due donne possono “fabbricarsi” i figli. Anche per questo il Vaticano definì nel 1978 la nascita di Louise come «un evento che può avere gravi conseguenze per l’umanità». Robert Geoffrey Edwards ha quindi scoperchiato 32 anni fa una pentola in continua ebollizione. E che dire inoltre della decisione di Stoccolma di preferirlo

mide? Il nipponico rappresenta una sorta di eroe positivo per il mondo cattolico proprio perchè le“sue”staminali non richiedono la distruzione dell’embrione. Dunque, il rinfocolarsi della polemica sarà inevitabile. Ma chi è questo vecchietto che con le sue scoperte ha causato una rivoluzione carica di tante conseguenze etiche e politiche? La motivazione del Nobel lo descrive come un “pioniere” che ha consentito di nascere a ben 4 milioni di bambini: «Le sue scoperte – spiega il comunicato del Karolinska Institut – hanno reso possibile il trattamento della sterilità che colpisce un’ampia porzione dell’umanità,

bridge, ma è nato a Manchester nel 1925. Dopo aver combattuto nella seconda guerra mondiale, studia biologia prima negli Stati Uniti e poi in Scozia, dedicandosi in particolare all’embriologia. Dal 1958 è ricercatore dell’Istituto nazionale per la ricerca medica di Londra, dove inizia le sue indagini sul processo di fecondazione. Dal 1963 prosegue il lavoro a Cambridge, prima all’università e poi nella clinica Bourn Hall. Nel 1968 riesce a ottenere la fertilizzazione di un ovulo in laboratorio. Nel 1978 nasce la prima bambina concepita in provetta. Gran parte del lavoro fatto da Edwards, si giova della fondamentale collaborazione del ginecologo inglese Patrick Steptoe, morto nel 1988. Il Nobel è per metà anche suo. Ed è stato proprio Steptoe a fondare il primo centro al mondo per la fecondazione assistita. Dopo la scomparsa dell’amico e collega Edwards procede con la sperimentazione. Nel 2007, ormai famosissimo, viene inserito nella prestigiosa lista pubblicata dal Daily Telegraph dei cento più grandi geni viventi. L’inventore della fecondazione in vitro si è sempre proclamato un socialista convinto tanto da

Le motivazioni lo descrivono come un “pioniere” che ha consentito di nascere a ben 4 milioni di bambini: «Ha reso possibile il trattamento della sterilità nel mondo» allo scienziato giapponese, Shinya Yamanaka, che ha trovato il modo di estrarre cellule staminali, in grado di curare e guarire alcune malattie, dall’epider-

più del 10 per cento delle coppie nel mondo».

Edwards oggi è professore emerito all’università di Cam-

non rammaricarsi del fatto che la regina non lo avesse insignito di alcun titolo per la sua scoperta. Non ha invece fatto mistero di puntare ad ottenere il Nobel. Con le sue dichiarazioni in interviste e conferenze non ha certo favorito il dialogo con chi si opponeva alla fecondazione in vitro. Ha detto fra l’altro riferendosi ai risultati raggiunti: «Fu un enorme successo, che andò ben oltre il problema della fertilità. Riguardò anche l’etica del concepimento umano. Volevo scoprire chi fosse davvero al comando, se Dio stesso o gli scienziati. Ho dimostrato che noi eravamo al comando».

Eppure la tecnica di laboratorio con la quale è riuscito a determinare un concepimento extra corporeo non è particolarmente complicata. Una sorta di uovo di Colombo. L’ovulo femminile viene estratto dalle tube della paziente: questa è l’operazione messa a punto da Steptoe. Poi una volta catturato l’ovulo lo si fa fecondare in provetta da uno spermatozoo. La fecondazione può essere omologa, fatta cioè con lo sperma del marito o del compagno, o eterologa, attingendo cioè a delle vere e proprie banche del seme in cui è garantito l’anonimato del donatore. L’embrione viene poi impiantato nell’utero della donna. Le possibilità che si arrivi ad una gravidanza per questa via non sono alte: chi dice il dieci, chi il venti per cento. Delle gravidanze così raggiunte solo un


cultura

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Parla il genetista del Bambino Gesù: «Troppi rischi inutili»

«La ricerca tradita in nome del business» Bruno Dallapiccola: «Spesso si specula sulla sofferenza di giovani coppie. Del tutto sane» di Francesco Lo Dico

ROMA. Oltre 4 milioni di bambini in ogni parte del globo, nati grazie alla tecnica Fivet da lui messa a punto nel 1968 insieme a Steptoe, e sperimentata per la prima volta dieci anni dopo. Sono questi i numeri che sono valsi al britannico Robert Edwards il premio Nobel per la medicina. Un riconoscimento importante, quello assegnato al padre della fecondazione in vitro, che la stampa ha salutato con grande entusiasmo «in un clima che rischia di soffocare la corretta informazione», avverte Bruno Dallapiccola. Genetista di fama internazionale, e Direttore scientifico dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù, Dallapiccola spiega che ricerche di «le Edwards erano nate con finalità diverse da quelle con cui erano state concepite trent’anni prima». Un discrimine che ha dei connotati precisi: «il marketing della provetta». Professore grazie a Edwards sono nati 4 milioni di bambini. Un Nobel meritato, sembra. Non c’è dubbio. Le ricerche di Edwards, possiedono caratura e caratteristiche proprie di un Nobel per la medicina. La Fivet ha tracciato un nuovo solco d’indagine nella scienza moderna. Il problema è che lo spirito di quel lavoro è stato tradito. Tradito? Ci spieghi. Trent’anni fa, il lavoro di Edwards sorgeva in uno scenario socio-culturale completamente differente. Le tecniche di fecondazione da lui messe a punto si limitivano a particolari problemi riproduttivi che afferivano a una platea di donne assai limitata. Man mano però esse sono state utilizzate in maniera sempre più indiscriminata in ragione del business. Con il risultato che troppo spesso si tacciono per interesse i rischi legati a queste tecniche, applicate con troppa faciloneria anche in casi in cui potrebbero essere superflue. Se non dannose. A riguardo della tecnica in vitro, si dice che aumenti i rischi di malformazione. Allude a questo? Partiamo da una considerazione. La Pgd, ossia la diagnosi preimpianto, è spesso complementare alla fecondazione in provetta, ed è espressamente rivolta a coppie ad elevato rischio riproduttivo, e cioè qualora in famiglia

60-70 per cento arriva al parto. Questa tecnica, in particolare l’inseminazione eterologa, ha portato con sé numerosi fenomeni degenerativi: dall’utero in affitto, al congelamento del seme per poter procreare anche dopo la morte, sino alla determinazione del sesso del nascituro e di parecchie altre caratteristiche. Edwards ha più volte dichiarato di non vedere nulla di particolarmente scandaloso nel determinare in laboratorio se il figlio sarà maschio o femmina. E del resto ha difeso anche altre forme di manipolazione, compresa la clonazione: salutò, ad esempio, come una straordinaria conquista la nascita della pecora Dolly. Favorevole anche all’uso delle staminali embrionali, ha dichiarato invece insopportabile l’idea della clonazione di un individuo maturo.

Molte le reazioni positive all’assegnazione del Nobel. Anche se un po’scontate. Fra le al-

È stato assegnato ieri dall’Accademia di Svezia il Premio Nobel per la medicina. A ottenerlo è stato il biologo ed embriologo inglese Robert Edwards (nella foto a sinistra e, sopra, con Louise Brown, che nel 1978 fece nascere tramite la fecondazione in vitro). A destra il genetista Bruno Dallapiccola

tre, quella di Carlo Flamigni, di Severino Antinori e di Ignazio Marino. Quest’ultimo, in particolare, coglie l’occasione anche per polemizzare con la legge 40 che in Italia regolamenta la Ivf: «Chiedo dunque - termina - di riaprire la discussione su questa norma». Diversa l’opinione - e anche questo prevedibile - di Roberto Colombo, membro della “Pontificia accademia per la vita” e del “Comitato nazionale di bioetica: «La fecondazione in vitro suscita gravi interrogativi morali quanto al rispetto della vita umana nascente e della dignità della procreazione umana. Non tutto ciò che è scientificamente brillante, clinicamente possibile, e giuridicamente consentito è, perciò stesso esente da questioni etiche, familiari e sociali». La polemica si è già aperta, anzi lo era da 32 anni, e la decisione del Karolinska institut di Stoccolma non farà che rinfocolarla.

vi siano casi di malattie genetiche e cromosomiche trasmissibili.Ma questo tipo di diagnosi non può essere invece la prima scelta di una coppia fertile. Bisogna sapere infatti che la Pgd, abbassa di molto la possibilità di portare a termine una gravidanza e che non fornisce diagnosi esatte al millesimo. C’è infatti un trenta per cento di errore possibile. Tra le righe, mi pare di capire che si è diffusa un’eccessiva impazienza. Genitori subito, e a tutti i costi? Proprio così. Sono passate sotto i miei occhi molte giovani coppie allarmate da pochi mesi senza fertilità. È spesso accaduto che neppure avevano iniziato l’iter della fecondazione artificiale, che poi la donna è rimasta incinta in tutta spontaneità e senza correre inutili rischi. Immagino che altri, li abbiano invece affrontati. È il clima socio-culturale di cui dicevo. Si sponsorizza la fecondazione in vitro perché è assai remunerativa: gioca con le intime debolezze dell’uomo e della donna che non riescono ad avere un bambino in tempi stretti. E che l’impazienza rende vulnerabili, nonostante siano perfettamente sani. Ormai è maturata una pressione tale, che è stata smarrita una nozione elementare confermata dalla medicina: la natura ha i propri tempi. Che rischi corrono le coppie che preferiscono bruciarli? A proposito del vitro, abbiamo registrato un maggiore rischio di malformazioni legato ai geni di origine materna e paterna. A causa di una superovulazione dovuta agli ormoni e all’innaturale numero di ore necessario per il concepimento, si dà vita a una specie di accanimento riproduttivo, spesso controproducente. Come nel caso di un uomo che naturalmente produce pochi spermatozoi: spesso sono di bassa qualità, e la gravidanza diventa ancora più irta di insidie. Che cosa direbbe a una giovane coppia impaziente, se venisse a trovarla in studio? Che spesso al reparto maternità del mondo, si vendono illusioni un tanto al chilo. E che in assenza di onestà intellettuale, e corretta informazione, spesso si possono pagare a caro prezzo.

Si vende la provetta come un prodotto qualsiasi, e si tacciono i pericoli. Spesso corsi senza ragione...


cultura

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Letteratura. A Villacidro, la 25esima edizione del Premio Dessì: vince Francesco M. Cataluccio con “Vado a vedere se di là è meglio”

Nuovo lessico famigliare

di Alessandro Marongiu n Italia, a far compagnia ai 60 milioni di allenatori di calcio, com’è noto ci sono (almeno) 30 milioni di scrittori, con leggera prevalenza dei poeti sui prosatori - fatto dovuto, probabilmente, più agli effetti collaterali dell’istruzione scolastica e delle poesie fatte mandare a memoria da maestri e professori, che non al retaggio dell’italica tradizione. Una della conseguenze più spiacevoli di questa situazione, assieme al proliferare dell’editoria a pagamento, è l’esistenza di un numero di premi e concorsi letterari (almeno) pari a quello degli aspiranti premiati. Tra le tante iniziative di nessun conto, e con le manifestazioni più importanti che perdono tutto il loro prestigio col passare degli anni, abbattute come sono dallo svelamento della compravendita dei voti che le sostiene o da presentatori guardoni, c’è ancora qualche premio serio che, nel migliore dei casi, è anche intitolato a uno scrittore (vero) del passato, e che ha anche il pregio non secondario di preservarne la memoria. Quello che si tiene a Villacidro dal 1986 nel nome di Giuseppe Dessì, è uno di questi. Che quest’autore abbia bisogno del Premio perché qualche volta si torni a parlare di lui, è più che mai una realtà sconfortante: oltre ad aver scritto per il teatro, la radio e la televisione (sua la sceneggiatura di La trincea, l’originale televisivo diretto da Vittorio Cottafavi che, nel novembre del 1961, inaugurò il secondo canale della tv di Stato), Dessì è infatti tra i maggiori dimenticati della narrativa italiana del secondo Novecento, visto come s’è persa del tutto memoria di alcuni suoi meravigliosi romanzi come Introduzione alla vita di Michele Boschino e I passeri, e che lo Strega per Paese d’ombre pare passato invano.

Qui sotto, un’immagine dello scrittore sardo Giuseppe Dessì. In basso, una fotografia del vincitore della 25esima edizione del Premio a lui intitolato, Francesco M. Cataluccio, e la copertina del suo libro “Vado a vedere se di là è meglio”. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

I

Leggere oggi le parole di critici che si stracciano le vesti per Invisibile di Paul Auster, e che ignorano che con Michele Boschino lo scrittore sardo già nel 1942 metteva a frutto la lezione di Pirandello sulla scomposizione del punto di vista e le complicazioni dell’identità, mette addosso una certa tristezza. Il Premio, dicevamo. Questa venticinquesima edizione, come tutte le

precedenti, ha avuto per protagoniste le due sezioni di narrativa e poesia, cui si è aggiunto il riconoscimento speciale della giuria, istituito dal secondo anno di esistenza della manifestazione, attribuito a personalità di spicco della società e della cultura italiane (in passato è andato, per esempio, a Oreste Macrì, Luigi Pintor, Nando Dalla Chiesa, Giuseppe Ayala e, nel 2009, Marco Pannella). E poiché in un Premio a dimensione umana, com’è ancora questo intitolato allo scrittore di Villacidro - ma questa consi-

più accreditato Antonio Franchini, in gara con Signore delle lacrime (Marsilio), e Marco Balzano, autore di Il figlio del figlio (Avagliano).

L’opera del fiorentino ha convinto i giurati presieduti da Anna Dolfi per la sua natura multiforme, per il suo essere, come recita la motivazione del premio, «un libro enciclopedia che si costruisce su un agglomerato di racconti, e che riesce ad essere una straordinaria guida di viaggio, un romanzo familiare, una galleria di ricor-

di favoloso» capace di «generare un incantamento poetico da un paesaggio urbano o da un museo di storia naturale», al centro di una raccolta «le cui singole poesie hanno l’iridescente lucore delle lanterne magiche di Proust, e il vasto respiro delle città invisibili di Italo Calvino». Il Premio Speciale della Giuria quest’anno s’è fatto in due: a quello consueto, assegnato per il

Antonio Riccardi sì è aggiudicato la sezione della poesia con “Aquarama e altre poesie d’amore”, battendo sia Franco Buffoni, in gara con “Roma”, sia Alberto Toni, in competizione con “Alla lontana, alla prima luce del mondo” derazione non tragga in inganno: i partecipanti sono stai ben 450 -, la competizione tra i finalisti è competizione vera, capita talvolta che il verdetto sovverta il pronostico: è così che la scorsa domenica, durante l’evento conclusivo presentato da Paola Salluzzi, a risultare vincitore tra i romanzieri è stato Francesco M. Cataluccio con Vado a vedere se di là è meglio: quasi un breviario mitteleuropeo, edito da Sellerio, che ha battuto l’inizialmente

di». Meno sorprese nella poesia: Antonio Riccardi, che con Aquarama e altre poesie d’amore, uscito per Garzanti, aveva già vinto il Mondello, ha prevalso su Franco Buffoni (Roma, Guanda) e Alberto Toni (Alla lontana, alla prima luce del mondo, Jaca Book). Dei versi di Riccardi è piaciuta «la naturalissima sintesi di quotidiano e

2010 al divulgatore scientifico più conosciuto d’Italia, l’affabile e intramontabile Piero Angela, se n’è infatti affiancato uno voluto espressamente dalla Fondazione Dessì, che ha voluto così riconoscere il gran lavoro svolto da Cristiana Collu, la direttrice museale che ha fatto del MAN di Nuoro un polo culturale d’assoluta eccellenza a livello nazionale. E tra i reading, gli eventi musicali e gli spazi dedicati alla narrativa per l’infanzia - protagonista quest’anno è stato Geronimo Stilton ”in persona” - che hanno animato tutta la scorsa settimana villacide-

rese, c’è stato anche molto spazio, com’è giusto che sia, per Giuseppe Dessì. Di particolare rilievo è stata la presentazione del nuovo volume dei suoi diari, pubblicato dalla Firenze University Press, l’ultimo a esser stato curato dalla studiosa Franca Linari, scomparsa a soli 50 anni nell’aprile del 2009.

Gli anni coperti, che vanno dal 1949 al 1951, sono cruciali per Dessì che, lasciata la Sardegna per Roma (si sposterà poi a Ferrara e Ravenna, e diventerà più tardi provveditore agli studi, rinunciando suo malgrado all’insegnamento), incontrerà il male fisico, sotto forma di un attacco ischemico, e il malessere morale, a causa della separazione dalla moglie. Ecco affacciarsi in una mente in continua agitazione come la sua, l’idea del suicidio: presto respinta, però, e non tanto per sé o per istinto di conservazione, quanto per la consapevolezza che un simile gesto ricade pesantemente su chi sopravvive al suicida e ne segna in maniera irrimediabile, pur se non si ha colpa alcuna, il resto della vita.


cultura

5 ottobre 2010 • pagina 21

ave the story», grandi storie di ieri raccontate per tutti da grandi scrittori di oggi. Il primo a pensarci è stato Alessandro Baricco, che ha partorito l’idea e creato una nuova occasione editoriale. Grazie alla collaborazione di Scuola Holden, Gruppo Editoriale L’Espresso e Fondazione Musica per Roma, è divenuta poi un’occasione speciale per ritrovarsi ad ascoltare i capolavori del passato filtrati dalla penna dei grandi scrittori del presente e, per una volta, trasformati in lettori d’eccezione. La proposta è decisamente allettante: un’ora di vera soddisfazione adatta ad una fascia di età molto ampia al costo di 5 euro. Un’occasione più unica che rara per far stare insieme nonni, genitori e figli, a godersi lettori eccellenti che ci intrattengono. La prima lettura per opera dello stesso Baricco, da qualche giorno già reperibile in libreria, ha rivisitato il mito di don Giovanni.

sferito in Italia già dal 1837, quindi tutto torna. E allora eccoci al racconto vero e proprio, quello di Camilleri, che comincia con «Tutto ebbe inizio il 25 marzo del 1832» e procede di pari passo con quello originale nel presentare lo stupore con cui il barbiere Ivàn Jakovlè viè rinvenisse nel bel mezzo del panino con cui si apprestava a far colazione, appena sfornato da sua moglie, un naso, crudo per giunta, e di come, nel medesimo istante, un suo affezionato cliente il maggiore Kovalèv, che di fatto maggiore non era, controllandosi allo specchio per verificare lo stato di un foruncoletto si accorgesse che gli era sparito il naso dalla faccia.

«S

Per il secondo appuntamento di Save the story Andrea Camilleri ci ha offerto l’appassionante racconto della sua versione de Il Naso, ispirato all’originale di Nikolaj Vasil’evic Gogol. Ovvio che la sala fosse stracolma e festante, pronta a salutare l’ingresso in scena del grande Camilleri con un applauso che non finiva più, che ogni occasione fosse buona per scaturirne un altro. Lui, dal canto suo, la figura imponente accomodata nella poltrona di design, ha dato fondo a tutta la sua ironia interpretativa, al suo calore umano, alla sua intelligenza, con generosità e sense of humor. Ornando le parole con quell’accento siciliano che, grazie al commissario Montalbano, è ormai patrimonio comune, si è trasformato per un’ora nel nonno che tutti noi avremmo voluto avere. «Ho scelto questo racconto per pigrizia», attacca, «è un racconto breve e si può raccontare facilmente, sono poche pagine me la sbrigherò in fretta» e giù la sala a ridere; «figuriamoci dover raccontare I promessi sposi», altra risata, e via di questo passo con quella voce arrochita dal fumo che vien subito da contargli le sigarette. «Il Naso non ha niente da levare e niente da mettere», ed è vero, ogni singolo passaggio risulta indispensabile ed esaustivo nel quadro generale del racconto, «è dunque impresa ardua metterci le mani». Sì, ma a lui è riuscita egregiamente. «Mi sono introdotto in questo racconto in punta di piedi, con l’umiltà di quegli impiegatucci invischiati

Riletture. Per il ciclo «Save the story», Andrea Camilleri racconta Gogol

Interpretando oggi i maestri di ieri di Enrica Rosso negli apparati di una burocrazia pachidermica, che l’autore così bene descrive». Ben sappiamo che Gogol, nella sua breve vita, fu maestro assoluto nel rendere proprio quelle situazioni al limite da cui era stato tanto deluso quanto indispettito, (tanto da decidere di lasciare il paese natio che rimase comunque la sua massima fonte d’ispirazione) vergando capolavori assoluti che hanno segnato la letteratura mondiale e quella rus-

sa in particolare. Basti dire che lo stesso Dostoevskij gli riconosceva che dalle falde de Il cappotto di Gogol aveva preso vita tutto il resto della letteratura russa. Un altro mostro sacro come Anton Cechov era rapito dalla bellezza del racconto La carrozza, mentre Aleksandr Puskin prediligeva proprio Il naso.

Tornando a Gogol, pare che un chirurgo italiano fosse riuscito nell’intento di riattaccare un setto nasale sulla faccia del legittimo proprietario, dopo averne accuratamente custodito il naso - troncato di netto - all’interno di un pane caldo. La notizia non sfuggì a Gogol che ne rimase sommamente impressionato tanto da restituirci il fatto di cronaca in

Il prossimo appuntamento, domenica, sarà con Ottavia Piccolo e “I promessi sposi” nella versione attualizzata di Umberto Eco forma di racconto. I racconti di Pietroburgo, la raccolta di cui Il naso fa parte, data 1842. Effettivamente Gogol si era tra-

Tre foto di Andrea Camilleri, che all’Auditorium di Roma, per il ciclo “Save the story”, ha riletto il racconto “Il naso” di Gogol (qui sopra)

L’allestimento di Roberto Tarasco ci mette in condizione di godere a pieno della mimica di Camilleri tramite la proiezione dei suoi primi piani in lettura, come fosse un concerto, sul grande schermo posto alle spalle dell’autore stesso, alternate a quelle che supponiamo essere le illustrazioni del volume. Andandosi a intrufolare nelle pieghe d’espressione di Camilleri la telecamera permette a tutto il pubblico in sala di compiacersi di come gli si illumini lo sguardo quando introduce la descrizione, molto ampliata rispetto all’originale, della Prospettiva Nevskij, o del sorriso sornione con cui narra di come il barbiere Ivàn Jakovlè viè, una volta avutolo sotto le sue grinfie, si vendicasse sul maggiore Kovalèv per lo spavento preso e «in un attimo gli trasformasse la faccia in una gigantesca torta di panna di quelle che si portano in tavola agli onomastici», aggiungendo poi di suo pugno «mancavano solo i canditi». Un piccolo omaggio alla cassata siciliana. Camilleri svela poi come Gogol avesse, dopo una prima stesura, deciso di cambiare il finale del racconto non dando per scontato che si trattasse semplicemente di un sogno, ma suggerendo che «si può dir quello che si vuole, ma simili avvenimenti al mondo accadono, di rado ma accadono». Altro appuntamento andato a segno, domenica 3 ottobre, è stato quello con un altro celeberrimo naso: quello di Cyrano de Bergerac nell’esilarante riscrittura di un burlone di gran classe: Stefano Benni. La domenica successiva, ultimo incontro di questo primo ciclo, salirà sul palco dell’Auditorium Ottavia Piccolo a dar voce alla vicenda dei Promessi Sposi più famosi d’Italia nella versione attualizzata di Umberto Eco: Renzo e Lucia dovranno quindi confrontarsi con bullismo, mafia e bossetti locali per riuscire a coronare il loro sogno d’amore.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Handicap: cancelliamo l’ignoranza e riscriviamo il sistema assistenziale Manifestazioni come l’Handicap Day dimostrano l’importanza di informare e sensibilizzare sul tema delle disabilità. Senza dimenticare, inoltre, che le discipline artistiche, dal teatro alla musica, dalla arti figurative fino al cinema, rappresentano anche un ineguagliabile strumento di socializzazione. Bisogna garantire la piena autonomia e l’autodeterminazione delle persone con disabilità, e ben vengano iniziative come queste iniziative come queste. È altrettanto giusto sottolineare che azioni di questo tipo da sole non bastano per garantire il miglioramento della qualità della vita per i disabili. Bisogna cancellare l’ignoranza certo, ma anche costruire e riscrivere. Riscrivere il sistema socio-assistenziale e costruire un’offerta attenta ai bisogni reali delle persone più bisognose. Coinvolgiamo attivamente le associazioni dei disabili e le loro famiglie e conferiamo a un organo come la Consulta per i problemi della disabilità e dell’handicap la maggiore capacità operativa possibile.

Mauro De Clemente

BOSSI-BERLUSCONI, PEDINE INTERSCAMBIABILI DEL POTERE

RECUPERO CREDITI. INFORMARSI ALL’895 PUÒ COSTARE PIÙ DEL DEBITO

Cari amici di liberal, sono un vostro assiduo lettore; vorrei esprimere alcuni suggerimenti, e se possibile, mettere dei punti fermi verso il destino del Partito della Nazione, incentrato sul ruolo dell’Unione di centro. Il primo è un “no” netto alla tenaglia bossiana; il secondo è un “no” all’asse sempre esistente in Lombardia, e più in generale nel Nord, tra Berlusconi e Formigoni, imperniato sul potere economico, sostenuto da Comunione e liberazione e dalla Compagnia delle Opere, le quali non vedono di buon occhio, anzi vorrebbero annientare sul nascere, il progetto ambizioso dell’Udc. Per la costruzione del Partito della Nazione è necessario guardare ai vari cittadini di diverse culture e strati sociali, molti dei quali astenutisi alle recenti tornate elettorali. Combattiamo quindi l’asse Formigoni-Berlusconi, che imprigionerebbe il nostro progetto.

Caro debitore, hai in sospeso un pagamento con tuo gestore telefonico. Per informazioni chiama l’895 895 8915. Sempre tua, Ge.Ri. Gestione Rischi Srl. Contattare il numero indicato costa, oltre lo scatto alla risposta, un euro da fisso, un euro e mezzo da mobile. Spesso il sollecito riguarda poche decine d’euro e non di rado i gestori telefonici incaricano la società di intimare il pagamento, nonostante sia aperto formalmente un contenzioso. I costi vengono comunicati a inizio telefonata, ma la sostanza non cambia: far pagare per richiedere o fornire spiegazioni a chi ti intima un pagamento è un abuso. Se poi la questione è complicata, ci vuole poco a pagare per la telefonata un importo superiore al presunto debito. Da specificare che i numeri 895 sono della stessa famiglia degli 899, che sono disabilitati in automatico dai telefoni fissi.

Leonardo Sparacio - Firenze

Mamma mi hanno clonato Ari Mahardika, l’architetto indonesiano autore e protagonista (assoluto) dello scatto, è un vero artista della “clonazione” digitale. Dopo essersi fotografato in varie pose grazie all’autoscatto, elimina lo sfondo e assembla i suoi piccoli doppioni in scene realistiche e credibili

È facile così che l’utente utilizzi il cellulare, al costo al minuto di 1,56 euro.

Domenico Murrone

LA VERA AZIONE PREVENTIVA La minaccia di attentati si fa ancora sentire in Europa; stavolta l’intelligence sembra addestrata ad entrare in ogni angolo e capire il pericolo in tempo debito, ma

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

quanto durerà? C’è un problema tra Islam e Occidente che, indipendentemente dalle vere responsabilità, si può sconfiggere solo propagandando la democrazia e la tolleranza non solo all’interno dei nostri paesi, ma all’interno dei loro, in quanto solo la volontà e la coscienza popolare può salvare una nazione dal fondamentalismo.

Gennaro Napoli

da ”The New Yorker” del 02/10/10

La nuova Camelot raccontata da Woodward on è «gola profonda», l’uomo del Bureau che spifferava notizie e piste a Bob Wodward negli anni Settanta, la fonte di un nuovo successo giornalistico. Questa volta il vincitore del Pulitzer per lo scandalo Watergate, sembra aver di nuovo fatto centro, ma con altri mezzi. Si è infilato nelle stanze del potere, per sbirciare come si spingono i bottoni e perché. In veste di controllore, per conto dell’opinione pubblica americana, sulle guerre di Obama.

do di costruire un percorso che possa portare maggiore stabilità nelle relazioni tra Delhi e Islamabad. Tempo fa anche un autorevole esperto italiano aveva puntato il dito sui rapporti indo-pakistani come il nodo gordiano in Asia centrale. Washington avrebbe dunque deciso d’infilare la quinta per migliorare i rapporti con l’India e poi cercare di mediare tra i due giganti asiatici, che ricordiamo sono anche potenze nucleari. Ci sono i commenti privati di Obama, come in una nuova Camelot da raccontare e dipingere a tinte più tenui rispetto al chiaro scuro di un conflitto.

N

Quelle che naturalmente ha ereditato dalle passate amministrazioni, ma che ha cercato di fare sue, studiando uno stile che facesse uscire il Paese dal pantano di una serie di conflitti difficili, lunghi e molto costosi. Chiuso, si fa per dire, il capitolo Iraq, rimane la grande incognita sull’Afghanistan. Il giornalista del Washington Post ha deciso di scrivere un libro, Obama’s War, il quinto dall’11 settembre 2001. Questa volta ha voluto però calarsi nelle stanze del West Wing, dove lavora il presidente e il suo staff, per raccontare nei minimi dettagli i conflitti dell’America democrat. Dettagli che mai prima l’opinione pubblica Usa era stata in grado di conoscere, dall’esatto numero di uomini che servono per continuare la guerra ad una cronologia – quasi minuto per minuto – delle decisioni del presidente, delle sue valutazioni, dei dubbi e delle incertezze vissute nelle Stanza Ovale e negli uffici che la circondano. Racconta della maniera in

cui la nuova amministrazione ha cercato, prima di capire, e poi di agire in modo che l’eredità che dovrà essere lasciata lasciata al Paese non sia così pesante. Il punto nodale è il rapporto tra Afghanistan e Pakistan su cui tanto si è detto e scritto. Ma sembra che finalmente gli uomini di Obama abbiano imboccato la via giusta. Abbiano trovato la quadra per spiegare l’inaffidabile «ambiguità» con cui il governo di Islamabad non combatte i talebani, anzi li finanzia. Dopo che l’Inter-service intelligence agency ha divorato un mare di finanziamenti, quasi due miliardi di dollari all’anno, la guerra in Afghanistan sembra al punto di partenza. Woodward fa riferimento ai video che riprendono decine di pick-up dei talebani pieni di armi di ogni genere che passano tranquillamente il confine tra i due Paesi. Il punto è l’India. E Obama sta cercan-

La paura dell’India è ciò che spinge i pakistani a foraggiare talebani e altri gruppi di insorgenti, forse nella convinzione che, prima o poi, l’America e l’Occidente di lì se ne andranno. Ma ciò che colpisce è la reazione di Obama, quando si è reso conto con che cosa aveva a che fare. Durante la campagna elettorale aveva promesso di «aggiustare» la situazione in Afghanistan. Una volta nella Sala Ovale ha sbattuto la faccia contro la realtà. Nel racconto di Woodward è Obama in prima persona e non i suoi consiglieri a fare le scelte e mettere i paletti di quel conflitto. E in questo assomiglia molto a Jfk, che torreggiava in capacità d’analisi rispetto a tutti i propri consiglieri. È di nuovo Obama a coprirsi le spalle dal Pentagono con documenti, ordini e consulenze legislative molto dettagliate. Insomma, «non azzardatevi a chiedermi altri uomini».


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LE VERITÀ NASCOSTE

I rapinatori più stupidi del mondo MASTIC BEACH. Zifiris “John”Valsamis e Stephanie Benatatos avevano messo a punto un piano che sembrava loro ottimo per mettere insieme un po’ di soldi per acquistare della droga: fingere il loro rapimento e farsi dare del denaro dai genitori di lei. Entrambi con piccoli precedenti penali, hanno quindi messo in atto il loro piano: hanno chiamato assieme la madre della ragazza e hanno raccontato di essere stati imprigionati in un Suv nero, interrompendo la comunicazione per creare maggiore realismo e mettere in ansia la donna. Dopo qualche minuto, Valsamis ha richiamato la donna, dicendo di essere stato liberato ma che doveva pagare un riscatto per la ragazza, al-

trimenti «le sarebbe successo qualcosa di brutto». Ma i due non dovevano essersi messi molto bene d’accordo, dato che nel frattempo, Stephanie aveva chiamato la polizia, raccontando invece che era lei ad essere stata liberata. La polizia, pur avendo avuto già subito qualche sospetto sulla veridicità del racconto, ha chiamato la madre della ragazza per informarla e raccogliere informazioni, e la simulazione è quindi emersa in modo lampante. I due sono stati arrestati. Anthony Prince e Luke Carroll, soprannominati “Dumb and Dumber” (Stupido e più Stupido), invece, hanno

ACCADDE OGGI

LE BUGIE DEL GOVERNO HANNO LE GAMBE CORTE Il termovalorizzatore di Acerra, quello gestito dai benefattori d’Italia, come definì la famigerata Impregilo il nostro premier, non era quello l’albero della cuccagna, il mostro che tutto doveva ingerire? Funziona, quando tutto va bene, a un terzo della propria capacità, cioè brucia 1/6 dei rifiuti dell’area metropolitana di Napoli, lasciando le altre 5mila e passa tonnellate da smaltire in discarica. E se oggi, ci si comincia a domandare, con 5 discariche aperte basta uno “scarto di caramella” per mandare in crisi raccolta e smaltimento, che succederà fra sei mesi quando chiuderanno, perché sature, Savignano, S. Arcangelo e S.Tammaro? Ma soprattutto, il Gatto & la Volpe, ovvero Berlusconi e Bertolaso, che fine hanno fatto? In Campania, la verità sta venendo a galla perché, come scriveva Fedro «Mendacium pedes non habet».

L.D.M.

IL “MAGO” DI ARCORE E LE CRITICHE DI PEZZOTTA Ho letto con molto interesse l’editoriale di Savino Pezzotta di giovedì 30. Indubbiamente l’onorevole ha colto nel segno enumerando gli insuccessi dei governi Berlusconi che si sono succeduti dal 1994 ad oggi. Il “mago” di Arcore con i fedeli alleati della lega Nord sta conducendo il Paese a una rassegnazione e a un declino, che dal dopoguerra non avevamo mai conosciuto. Come accennava l’on. Pezzotta, basta girare tra la gente, nei bar, nelle piazze, nei quartieri, per capire che molti italiani sono alquanto delusi dalle

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

di Vincenzo Bacarani

5 ottobre 1962 Esce nel Regno Unito il primo singolo a 45 giri dei Beatles, Love Me Do 1966 Nei pressi di Detroit un sistema di raffreddamento malfunzionante causa una parziale fusione del nucleo alla Centrale elettronucleare Enrico Fermi. La radiazione venne contenuta 1970 Montreal, il commissario britannico al commercio James Cross viene rapito da membri del gruppo terroristico Fronte di Liberazione del Québec 1973 Firma della Convenzione europea sui brevetti 1984 Marc Garneau diventa il primo canadese nello spazio, a bordo dello Space Shuttle Challenger 1991 Linus Torvalds pubblica la prima versione del kernel Linux 1993 Papa Giovanni Paolo II pubblica l’enciclica Veritatis splendor 1994 Omicidio di massa in Svizzera di 48 membri dell’Ordine del Tempio Solare 1999 Nel disastro ferroviario di Ladbroke Glove in Inghilterra muoiono 31 persone

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

rapinato una banca di Vail, Colorado, utilizzando una pistola giocattolo, riuscendo a mettere in fila una serie di “ingenuità” da record. I due infatti hanno rapinato una banca di cui erano regolari clienti. Non hanno fatto nulla per nascondere il loro forte accento australiano e hanno indossato le magliette del negozio di articoli sportivi dove lavoravano. E su queste le targhette con il loro nome…

politiche economico-sociali del governo in carica. La scuola è alla deriva, le pensioni e i redditi da lavoro dipendente hanno notevolmente perso peso in quanto a potere d’acquisto, i tagli alle Regioni farano aumentare le tariffe dei vari servizi, nonostante l’Istat, periodicamente, ci fornisca dati sull’inflazione assolutamente non credibili. Occorre una forte opposizione politica che si arricchisca di richieste concrete quali giustizia fiscale, incentivi ai giovani lavoratori e alle famiglie numerose, nonché detassazione per i ceti meno abbienti. Sebbene la provincia di Bergamo sia ancora tra le benestanti d’Italia, sa bene l’on. Pezzotta i rischi che corre nel settore della piccola industria e dell’edilizia. Spero che egli insieme a Casini dia voce, anche sulla stampa locale, alle esigenze che stanno emergendo anche tra quei bergamaschi, d’origine e non, che non si riconoscono negli ideali e nella posizione della Lega Nord.

Fabio Baroni - Bergamo

UNA LOGICA VITTORIA Certo che il voto finiano è stato determinante! Perché vederlo come un indebolimento della maggioranza? Il governo ha ottenuto i favori che giustamente gli spettavano e occorrerebbe, a questo punto, vedere Futuro e Libertà come una costola attiva e sinergica del governo. A sinistra l’hanno capito e per questo il veleno è dilagato, con Bersani che ancora una volta non accetta un risultato, così come il solito leader dell’Idv, che identifica il premier come lo stupratore della democrazia.

Bruna Rosso

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

APPRENDISTATO: DOPO BOLZANO, LA LOMBARDIA Sul fronte dell’apprendistato finalmente qualcosa si muove. Qualche giorno fa è stata firmata l’intesa tra ministero del Lavoro, ministero dell’Istruzione e Regione Lombardia per rendere operativo il contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione. Dopo la provincia autonoma di Bolzano, la Regione Lombardia è il secondo ente pubblico italiano che ha recepito l’istituto di questo tipo di apprendistato regolato dalla legge 276 del 2003. La normativa è rimasta in naftalina (e continua a rimanervi per tutte le altre Regioni) perché nessun ente si è interessato del problema (ad esclusione appunto della provincia autonoma di Bolzano e ora della Lomardia). La legge infatti demanda la regolamentazione dei profili formativi alle Regioni. In un articolo di alcuni mesi fa Michele Tiraboschi, professore di Diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia e uno tra i più illuminati giuslavoristi, ha denunciato su Avvenire quello che ha chiamato “l’esercito dei dispersi”. In Italia sono circa 126 mila i ragazzi tra i 14 e i 17 anni che abbandonano la scuola senza conseguire una qualifica o un titolo di studio. E che cosa fanno questi ragazzi? Niente. Spesso rimangono in famiglia cercando qualche lavoretto part-time che magari dura lo spazio di una settimana. Al Sud la situazione è ben più grave: sono oltre 50 mila i fuoriusciti dal sistema formativo, spesso fagocitati dal lavoro nero o, addirittura, dalla malavita. Ma la stragrande maggioranza delle Regioni, nonostante questo fenomeno negativo sia in costante crescita e riguardi quasi il 6 per cento dei ragazzi tra i 14 e i 17 anni, non regolamenta i profili formativi come previsto da una legge di ben sette anni orsono. Al di là di tali considerazioni negative, c’è veramente da sottolineare positivamente le iniziative della provincia di Bolzano e della Regione Lombardia. È lecito ora attendersi che altri enti pubblici seguano il più presto possibile queste iniziative per arginare un fenomeno negativo in costante crescita. Questa forma di apprendistato per il dirittodovere di istruzione e formazione, infatti, può garantire al ragazzo una qualifica professionale valevole anche ai fini contrattuali. Il duplice vantaggio consiste nel garantire al giovane il proseguimento della formazione scolastica e, nel contempo, l’introduzione al mondo del lavoro in modo tale che il suo breve curriculum vitae possa risultare più interessante. La speranza è che ora anche le Regioni del Sud, dove il fenomeno della dispersione scolastica è più forte, si muovano e brucino sul tempo altre regioni del Nord. Sarebbe un segnale confortante non solo per i giovani che hanno a che fare con il lavoro nero, ma anche per tutto il Paese. bacarani@gmail.com

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John R. Bolton, Mauro Canali,

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Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Roselina Salemi, Katrin Schirner,

Angelo Crespi, Renato Cristin,

Emilio Spedicato, Davide Urso,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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