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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 9 OTTOBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Finalmente Oslo rompe il conformismo e fa una scelta importante

Liu Xiaobo il Nobel del coraggio Premio per la Pace al dissidente in carcere. L’ira di Pechino: «Una decisione oscena» La polizia a casa del leader di “Charta 08” LA RICHIESTA DEL MONDO

Ora liberatelo! arack Obama l’ha detto con chiarezza, ultimo arrivato (per motivi di fuso orario) in un club di governanti mondiali che ha immediatamento chiesto la liberazione di Liu Xiaobo, dissidente e autore di Charta ’08: «Va liberato subito». Mettendo da parte le cene in ambasciata e i piccoli contrattini che, da ultimi, noi italiani abbiamo siglato alcuni giorni fa con il governo cinese. Che sono poco risolutivi per la nostra economia e ancor meno utili per avere un peso nella Cina del futuro. Una liberazione che, tra l’altro, rappresenterebbe una mossa a sorpresa in grado di ribaltare la situazione. Se la Cina ha intenzione di riguadagnare la faccia e “vincere” anche questo round con l’Ovest, deve liberare il dissidente Liu Xiaobo. Deve consentire la libertà di parola e di dissenso. Soltanto così non sarà mai più costretta a provare il bruciante dolore che prova chi riceve uno schiaffo in faccia.

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Il testo inedito della sua difesa al processo d’appello

«Non riuscirete a fermarmi, in Cina vincerà la democrazia» di Liu Xiaobo a mia innocenza è stata da me provata sulla base della Costituzione cinese, della Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite e del corso della storia. Un risultato molto importante ottenuto dalle riforme e dalla politica “della porta aperta”è stato il risveglio della popolazione cinese riguardo ai diritti umani. a pagina 4

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Parla John R. Bolton

Una biografia esemplare

«Grande evento, L’orfano che diventò ricorda Pasternak» voce della libertà L’ex ambasciatore Usa all’Onu: «Ora il regime è davvero nell’angolo, come l’Urss nel 1958»

L’8 dicembre 2008 è stato arrestato con l’accusa di “incitamento alla sovversione del potere dello Stato”.

Pierre Chiartano • pagina 3

V. Faccioli Pintozzi • pagina 2

Il mondo ricorda il grande musicista nel giorno del suo compleanno

Fini chiama la presidente di Confindustria per esprimerle solidarietà

Il “metodo Feltri”colpisce Emma

John Lennon, un giovane settantenne mancato

È indagato: ma annuncia per oggi il dossier contro Marcegaglia di Andrea Ottieri

A proposito di Terza Repubblica

Classe dirigente, dialogo con Romiti

ROMA. Il “dossier” su Emma Marcegaglia c’era, anche se Vittorio Feltri giovedì aveva tuonato: «I maledetti dossier di cui tutti discutono esistono soltanto nella fantasia ipereccitata dei nostri numerosi detrattori». Esiste e da oggi è in edicola con il Giornale. Fini ha chiamato la presidente di Confindustria per esprimerle solidarietà.

aro dottor Romiti, ho seguito con attenzione la sua intervista televisiva a Minoli che ha spaziato sulla penosa condizione dell’Italia di oggi. Dicendo cose crude e sacrosantemente vere.

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EURO 1,00 (10,00

di Enrico Cisnetto

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CON I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

197 •

Il premio Nobel con la moglie Liu Xia

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Omaggio al più eclettico dei Beatles: dopo di loro (e dopo di lui) niente è più stato uguale. Non solo nella musica Stefano Bianchi e Claudio Trionfera • pagine 16 e 17

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


le reazioni

prima pagina

Entusiasmo per la scelta

pagina 2 • 9 ottobre 2010

Da Havel a Obama, una sola richiesta: ora liberatelo onferire il premio per la pace a Liu Xiaobo «è un riconoscimento da parte della internazionale comunità delle voci (sempre più crescenti tra il popolo cinese) che spingono verso le riforme politiche, costituzionali e giuridiche nel Paese». Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, ha accolto con questa riflessione “politica” il conferimento del Premio Nobel al dissidente cinese. «Io sono personalmente commosso e incoraggiato dagli sforzi di centinaia di intellettuali cinesi e cittadini preoccupati, tra i quali Liu, che hanno firmato la Charta 08, in cui si chiede la democrazia e la libertà in Cina. Credo che negli anni a venire, le future generazioni cinesi saranno in grado di godere dei frutti degli sforzi che ora i cittadini cinesi stanno facendo per ottenere una forma di governo responsabile». Secondo Lech Walesa, «il mondo deve dichiarare se è pronto ad aiutare la Cina a entrare nell’area dove sono rispettati gli stessi principi e valori democratici. La Cina è un grande Stato che bisogna rispettare ma che deve anche aver riguardo per le norme e i valori rispettati dal mondo».

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José Manuel Barroso, che ha parlato però a titolo personale e non a nome della Commissione europea, ha detto: «Dietro l’assegnazione di questo premio c’è un messaggio forte per tutti quelli che nel mondo si battono per la libertà e i diritti dell’Uomo». Soddisfazione è stata espressa anche da Amnesty International («siamo felicissimi») e da Human Rights Watch, che la considera una vittoria per i diritti umani. Secondo la nostra Farnesina, inoltre, «l’assegnazione in maniera del tutto indipendente del Premio Nobel al dissidente cinese Liu Xiaobo incarna il riconoscimento internazionale per tutti coloro che, a prescindere dalla nazionalità di appartenenza, lottano per la libertà ed i diritti della persona. Sono valori che, come ha sottolineato il Presidente della Commissione Barroso, sono alla base della costruzione europea e che l’Europa deve continuare a sostenere ovunque nel mondo, senza eccezioni, sono il nostro dna». Per il ministero degli Esteri francese, quanto avvenuto «è un messaggio a tutti coloro che lottano pacificamente per i diritti dell’uomo». Secondo il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, l’unico esponente del governo di Parigi a pronunciarsi, «questa decisione incarna la difesa dei diritti dell’uomo ovunque nel mondo». E la Francia, ricorda il ministro, «ha espresso la sua preoccupazione» al momento della condanna a 11 anni di carcere del dissidente.

il fatto L’insegnamento e l’impegno politico: sono queste le cifre fondamentali della sua vita

Liu Xiaobo, il sogno si avvera

Oslo scuote il torpore occidentale e premia il dissidente che più di tutti rappresenta la Cina del futuro. Da orfano a professore universitario, una vita che da oggi diventa un esempio di Vincenzo Faccioli Pintozzi l principio fondamentale della demo- ve anche proteggere la dignità fondamencrazia è che il popolo è sovrano e che tale, la libertà e i diritti umani delle minoil popolo sceglie il suo governo. La ri- ranze. In breve, la democrazia è il mezzo voluzione copernicana dell’opera di moderno per giungere a un governo che Liu Xiaobo, il dissidente cinese che ieri ha sia davvero “del popolo, dal popolo, per il vinto il premio Nobel per la pace, ha que- popolo”». La citazione finale è del presiste parole come fulcro. Parole che a Zhon- dente Mao Zedong, l’architetto della Cina gnanhai – il quartiere blindato nei pressi contemporanea, alla cui opera Liu dice di della pechinese Città Proibita, dove vive e ispirarsi nel suo cammino democratico. lavora la leadership della Cina moderna – Ma partiamo dagli inizi. Liu Xiaobo è uno sono apparse come una provocazione in- scrittore cinese, attivo da molti anni nella sopportabile. È a causa di queste parole, difesa dei diritti umani sulla scena naziopoi tradotte nella pratica in un lungo do- nale del suo Paese. È stato presidente del cumento noto come Charta ’08, che Liu è Pen Club Internazionale dal 2003. L’8 dirientrato in carcere. Probabilmente, mentre veniva processato il 25 dicembre scorso, il professore ha ricordato anche il paragrafo successivo del suo testo: «La democrazia ha queste caratteristiche: il potere politico comincia con il popolo e la legittimità di un regime deriva dal popolo; il potere politico va esercitato attraverso scelte fatte dal popolo; le cariche nei posti più importanti a tutti i livelli del governo sono determinate atIl numero di ieri del nostro quotidiano, traverso libere e competitive che proponeva Liu come miglior aspirante elezioni periodiche; onorando il al Nobel per la Pace assegnato ieri volere della maggioranza, si de-

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cembre 2008 Liu è stato privato della libertà a causa della sua adesione al movimento Charta ‘08. Detenuto in un luogo sconosciuto, è stato formalmente arrestato solo il 23 giugno 2009 sulla base dell’accusa di “incitamento alla sovversione del potere dello Stato”. Dopo un anno di detenzione, il 23 dicembre 2009 si è svolto il processo; il 25 è stato condannato a 11 anni di prigione e a due anni di interdizione dai pubblici uffici. La sentenza è stata confermata in appello l’11 febbraio 2010.

Liu nasce a Changchun, nella provincia di Jilin, nel 1955.Viene educato alla religione cristiana. Consegue la laurea breve in letteratura all’Università dello Jilin nel 1982 e la laurea magistrale all’Università di Pechino nel 1984. Dopo la laurea, ottiene il dottorato all’Università Normale di Pechino nel 1988. Successivamente ha lavorato in diverse università all’estero, come la Columbia University, l’Università di Oslo e l’Università delle Hawaii. Come attivista per i diritti umani, Liu Xiaobo ha chiesto più volte al governo cinese di dare conto delle proprie azioni di repressione. In forza di ciò, è stato più volte arrestato e condannato nonostante le sue azioni siano sempre state pacifiche, in-


l’intervista

«Un grande evento, la storia cambierà» Parla Bolton, ex ambasciatore Usa all’Onu: «È come nel ‘58, quando fu premiato Boris Pasternak» di Pierre Chiartano bbiamo chiesto a un diplomatico di rango come John R. Bolton, ex ambasciatore degli Stati Uniti all’Onu, quali ricadute ci porterebbero essere sulla scena internazionale dopo l’assegnazione del premio per la Pace a un dissidente cinese tutt’ora in carcere. «Il premio Nobel dato a un oppositore mette il governo di Pechino in una posizione veramente difficile. Primo, perché attira l’attenzione sul rispetto dei diritti umani da parte governo comunista. Un effetto che verrà amplificato dalla cerimonia di consegna del premio che andrà deserta, perché Xiabo è in carcere. Ricorda il Nobel per la letteratura conferito a Boris Pasternak nel 1958 per Il Dottor Zivago». Il regime di Mosca lo costrinse a rinunciare al Nobel che senz’altro, come riconoscimento, aveva una timbratura anti-sovietica. «È veramente difficile prevedere quali saranno le prossime mosse del governo cinese». L’ex ambasciatore crede che Pechino non abbia ancora calcolato il potenziale di un simile evento e non sappia ancora quale sia la migliore politica di risposta.

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Qualsiasi mossa decida di attuare «la pubblicità a livello mondiale sarà enorme». «Hanno reagito in quella maniera così forte, perché hanno capito istintivamente le ricadute negative». Molti osservatori stranieri hanno sbagliato le valutazioni sul futuro della Cina. «Specialmente gli uomini d’affari che hanno pronosticato una crescita economica continua e un miglioramento del benessere ge-

nerale. Qualcuno l’ha chiamata“crescita pacifica”. Credo invece che sotto la superfice la situazione politica e sociale sia molto più complessa e difficile. C’è una cattiva analisi degli effetti della crescita economica sulla popolazione. Inoltre ci sono problemi legati alla soppressione dei diritti, non solo civili, ma anche di quelli religiosi. Ci sono poi da considerare le conseguenze a lungo termine della politica di controllo demografico. Sono tutti fattori destabilizzanti» continua Bolton, rispetto a un’im-

Ricorda in qualche modo il conferimento del premio per la Letteratura allo scrittore russo, dopo il Dottor Zivago

magine di dragone vincente, di asso piglia tutto dell’economia mondiale. «Dovremmo mettere in maggiore evidenza a livello mondiale i problemi interni della Cina. Questo getterebbe una luce diversa sul dossier Pechino. E non si tratta solo dei diritti umani». Per Bolton dunque questo premio potrebbe essere uno spiraglio per permettere al mondo di dare uno sguardo, forse furtivo, forse fugace, ma comunque utile all’interno del pianeta cinese. Sulla maturità del Chung Kuo come potenza mondiale il diplomatico Usa va cauto. «È sicuramente una potenza regionale che sta diventando sempre più aggressi-

clusa la partecipazione alla protesta di piazza Tiananmen nel 1989. Nel gennaio 1991, Liu viene condannato per “propaganda ed istigazione controrivoluzionarie”, senza però essere messo in carcere. Nell’ottobre 1996 viene obbligato a trascorrere tre anni in un “campo di rieducazione” (laogai) per “disturbi alla quiete pubblica”a causa delle sue critiche al partito comunista cinese. Nel 2007, Liu fu portato in un carcere dove fu interrogato su alcuni suoi articoli, apparsi su siti web stranieri. L’attività umanitaria di Liu ha ricevuto approvazione e considerazione all’estero. Nel 2004 Reporter Senza Frontiere lo ha premiato con il premio «Fondation de France», per la sua opera di strenuo difensore della libertà di stampa. Liu Xiaobo, insieme a più di 300 cittadini cinesi, ha scritto e firmato Charta ‘08, un manifesto pubblicato in occasione del 60º anniversario della proclamazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10 dicembre 2008). Ispirata alla famosa Charta ‘77 redatta negli anni Settanta dai dissidenti cecoslovacchi, Charta ‘08 è un grande appello alla libertà di espressione, al rispetto dei diritti umani e alle elezioni libere.

In realtà Xiaobo non sostiene la necessità di una radicale mutazione politica

va rispetto alle proprie pretese, in maniera particolare nel Mar Cinese, come si è visto di recente. La domanda da porsi è proprio se in futuro sarà una potenza responsabile o irresponsabile. Molti osservatori, compresi gli operatori economici, sono stati un po’ troppo ottimisti al riguardo». E come tutti i Paesi in crescita aveva una diplomazia che spesso guardava più all’interno del proprio Paese piuttosto che agli equilibri internazionali quando parlava, non sempre con moderazione.

«Ora la diplomazia cinese ha raggiunto un migliore livello d’esperienza. Il mio omologo cinese all’Onu quando c’ero anch’io ricopre oggi un incarico molto importante ad Hong Kong, a dimostrazione della crescita professionale in questo settore. Con un livello di sofisticazione che viene percepita negli ambienti più ristretti della diplomazia internazionale, come una migliore capacità di difendere gli interessi nazionali cinesi. Certo, ora che è stato conferito il Nobel a Liu Xiaobo la dovranno usare tutta questa perizia, per spiegare al mondo la posizione del regime comunista». Ora Pechino pur essendo uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, non riesce ancora ad esercitare molto potere al di fuori di quel contesto. Negli ultimi sette anni le cose sono un po’ cambiate, ma non hanno ancora un’influenza sull’Onu nel suo complesso, paragonabile a quella di Paesi come Francia e Inghilterra. «Gli Usa non devono temere di esercitare il loro potere sui diritti umani, quando si confrontano in quella sede con la Cina, come i cinesi non sono spaventati nel confron-

del suo paese, ma sostiene la necessità e l’opportunità di introdurre riforme democratiche e il rispetto dei diritti umani e della libertà di pensiero. Ad oggi Charta ‘08 ha raccolto quasi 10.000 adesioni, da cinesi di varia estrazione sociale ed origine etnica. Ora, il Nobel gli viene conferito per la sua “lunga e non violenta battaglia in favore dei diritti umani fondamentali in Cina”.

Il Comitato norvegese per il Nobel, si legge nelle motivazioni ufficiali del conferimento, ritiene da tempo che ci sia

tarsi con gli Usa su certi temi – lo dico per esperienza diretta. Obama andrà in Cina il mese prossimo, sarà interessante vedere cosa farà». Sicuramente per la politica estera americana il premio dato a un dissidente cinese sarà «un problema» più che una opportunità. «Il governo cinese continuerà a reagire negativamente alla vicenda. È una scelta che detestano e che sentono come un’indebita interferenza negli affari interni del Paese» e che rischia di offuscare la loro immagine di potenza emergente. E anche la cosiddetta transizione democratica non dà i segni sperati. «Non stanno aprendo a un sistema di decision making democratico». E sono sempre più spaventati da possibili interferenze esterne.Quando Obama tenta di espandere il debito interno stampando dollari e sperando di vendere titoli di debito alla Cina non mette gli Usa in una posizione di forza. «I temi economici saranno fra i temi più spinosi che Obama dovrà affrontare nel viaggio in Cina». È troppo presto per dire se una riedizione della dottrina Kennan di contenimento potrebbe funzionare. «Non so se potrebbe essere utile in questo momento, ammesso anche fossimo in grado di attuarla».

zione politica sono state ampliate. Il nuovo status della Cina deve comportare una maggiore responsabilità. La Cina viola diversi accordi internazionali dei quali è firmataria, così come la sua stessa legislazione in merito ai diritti umani. L’articolo 35 della Costituzione cinese sancisce che “i cittadini della Repubblica popolare cinese godono della libertà di espressione, di stampa, di assemblea, di associazione, di corteo e di manifestazione”. In pratica, è dimostrato che queste libertà sono chiaramente limitate per i cittadini cinesi». Parole du-

Il professore ha indicato al suo Paese la strada maestra da percorrere per accostare lo sviluppo dell’uomo ai grandi risultati economici che già consegue. Pechino si è sentita sfidata uno stretto legame tra i diritti umani e la pace.Tali diritti sono un prerequisito per la “fratellanza tra le nazioni”della quale Alfred Nobel scrisse nel suo testamento. Nei decenni passati, si legge ancora, «la Cina ha raggiunto risultati economici difficilmente eguagliabili nella storia. Il Paese è oggi la seconda economia più grande del mondo; centinaia di milioni di persone sono state sottratte alla povertà. Anche le possibilità di partecipa-

re, ma che riflettono la realtà. Quella stessa realtà che il dissidente voleva dipingere e, in qualche modo, cambiare in maniera pacifica. Una piccola polemica ha scosso ieri l’unanime gioia per la vittoria di Liu Xiaobo: Wei Jingsheng, considerato il padre della democrazia in Cina, ha definito “esagerato” il riconoscimento. La polemica nasce dal fatto che Liu ha collaborato, negli anni Novanta, con il governo cinese.

Per Wei, «ci sono decine di migliaia di cinesi molto più coraggiosi e rimasti nell’oblio nazionale che avrebbero meritato lo stesso riconoscimento». Certo, per quanto strano possa sembrare, Liu è il primo Nobel cinese nella storia della Repubblica popolare. Prima di lui, soltanto cinesi di etnia ma non di nazionalità erano stati insigniti del prestigioso riconoscimento. E forse c’è chi, nella storia del grande Paese asiatico, lo avrebbe meritato di più. Ma Liu Xiaobo ha fatto di più.

Ha indicato con il dito, da lontano, quale strada si deve percorrere se si vuole evitare altro spargimento di sangue in Cina e si preferisce accostare ai grandi risultati economici un vero sviluppo anche del popolo e dei diritti che questo ha per nascita. E questo, se mai dovesse avvenire, potrebbe essere il più grande risultato in questo nascente XXI secolo, a cui non mancano gli eroi ma in cui manca il tempo e la voglia per cercarli, onorarli come meritano e imparare da loro una vita migliore e possibile per tutti. Perché, come conclude sempre la motivazione ufficiale della Commissione norvegese, «attraverso le severe punizioni inflittegli, Liu è diventato il principale simbolo dell’intera battaglia per i diritti umani in Cina». E questo non è poco.


l’approfondimento

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Il testo completo della difesa (mai letta) del nuovo Nobel per la Pace durante il processo che lo ha condannato a 11 anni

«Non mi fermerete»

«Non rinnego nulla di ciò che ho fatto: anzi, lo rivendico con orgoglio. Quella dei diritti umani è l’unica strada per lo sviluppo della Cina, che rischia invece di sprofondare se continua a essere governata da una dittatura violenta» di Liu Xiaobo a mia innocenza è stata da me provata sulla base della Costituzione cinese, della Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite, delle riforme politiche che ho sostenuto e del corso della storia. Un risultato molto importante ottenuto dalle riforme e dalla politica “della porta aperta”è stato il risveglio della popolazione cinese riguardo ai diritti umani e l’aumento della protezione di questi da parte della società civile. Questo risultato ha spinto il governo cinese a progredire nella propria concezione dei diritti umani. Nel 2004, l’Assemblea nazionale del popolo ha rivisto la Costituzione per inserirvi “il rispetto e la protezione dei diritti umani”; in questo modo si hanno oggi dei principi costituzionali che tutelano queste realtà, così come una nazione dominata dalla legge. La nazione deve rispettare e proteggere i diritti umani, secondo i poteri che vengono attribuiti al popolo dall’articolo 35 della carta costituzionale. La mia libertà di

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esprimere opinioni diverse è il diritto di parola, che mi viene garantito dalla Costituzione in quanto cittadino cinese. Questo diritto non soltanto non deve essere limitato o rimosso dal governo; al contrario, dovrebbe essere rispettato dall’esecutivo e protetto dalla legge. Di conseguenza, alla luce di tutto questo, le accuse mosse contro di me infrangono i miei diritti basilari di cittadino cinese e sono contrari alla legge fondamentale della Cina. Siamo davanti a un caso tipico di “crimine di espressione”, che dimostra come sia ancora in vigore l’antico crimine di gettare in prigione gli scrittori. Questo modo di fare è contrario alla Costituzione e deve essere criticato, anche perché è irragionevole.

L’accusa usa delle citazioni prese da “Carta 08”per accusarmi di aver infangato il governo e il Partito, oltre che per ritenermi colpevole di “aver complottato in maniera sovversiva e aver cercato di ribaltare il governo”. Questa particolare ac-

cusa prende delle frasi fuori contesto e ignora totalmente il tono dominante di “Carta 08”, oltre alle opinioni che ho più volte sostenuto all’interno dei miei articoli. Mettere un termine al monopolio del potere e ai privilegi speciali di un singolo Partito significa soltanto chiede, al governo monopartitico, di ridare il potere al popolo e creare finalmente una nazione libera “per il popolo, con il popolo e del popolo”. I valori espressi da “Carta 08”e le riforme politiche che propone han-

La Costituzione garantisce il mio diritto di parola. Siete stati voi a tradire Mao

no come obiettivo a lungo termine la creazione di uno Stato federale, che sia libero e democratico. Sono presenti 19 misure riformiste, che mirano a operare in maniera graduale e pacifico. Dato che le riforme attuate al momento sono tutte di corto respiro, noi chiediamo al governo di camminare su due piedi invece che su uno solo, portando avanti una riforma che non sia soltanto economica, ma anche politica. Questo è il modo in cui una società civile spinge il governo a ridarle in-

dietro il potere, con pressioni dal basso che spingano l’esecutivo a fare quel cambiamento di rotta necessario. È in questo modo che il governo e la sua popolazione possono lavorare insieme in una buona cooperazione, che metta in piedi rapidamente quel governo costituzionale che i cinesi sognano da almeno un secolo.

Ho scritto un articolo che sostiene come il risveglio della coscienza dei diritti di una società civile serve per espandere i diritti della popolazione, per incrementare la coscienza del proprio potere e sviluppare una società in modo che possa portare la spinta riformista dal basso verso l’alto, per promuovere una riforma governativa dal basso verso l’alto. In realtà, l’esperienza riformista cinese degli ultimi 30 anni prova che le forze basilari necessarie per mettere in atto delle riforme creative vengono sempre dalla società civile; così come aumenta la coscienza e l’influenza della riforma civile, così il


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La gioia dei dissidenti di tutto il mondo per l’avvenimento

Un premio che onora la Cina del futuro

Le ricette proposte da Charta ’08 sono la strada da seguire, se Pechino vuole salvarsi dal crollo di Bernardo Cervellera a comunità degli attivisti democratici e dei dissidenti scoppia di gioia per l’assegnazione del Premio Nobel per la pace allo scrittore Liu Xiaobo. E anche se la polizia oscura le televisioni e imbavaglia la moglie di Liu, Liu Xia, il premio Nobel per la pace allo scrittore, sono un conforto per tutti coloro che con lui hanno avuto il coraggio di lottare e firmare il documento, Carta 08, che ha determinato la sua condanna a 11 anni di prigione per «sovversione contro il potere dello Stato». Zhang Zuhua, fra i firmatari di Carta 08 ha dichiarato che «il premio onora gli oltre 10 mila cittadini cinesi che con coraggio hanno firmato a sostegno delle idee espresse in Carta 08 e di tutti i prigionieri di coscienza». Da parte sua, il presidente del Comitato per l’assegnazione del Premio, Thorbjoern Jagland ha affermato che Liu «è il simbolo più eminente dell’ampia lotta per i diritti umani in Cina».

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bel a Liu sta nel fatto che la proposta di Carta 08 vede al cuore delle riforme la libertà religiosa.

È sempre più chiaro che non si può difendere l’uomo (cinese o di qualunque altra cultura) senza guardarlo come un valore assoluto e perciò dentro una visione religiosa che vede l’uomo come proprietà di Dio e non dello Stato. Proprio per questo – e forse per la prima volta nella storia della dissidenza cinese – nel documento sui diritti umani si chiede la libertà religiosa, l’eliminazione delle differenze fra attività religiose “legali” e “illegali”, ufficiali e sotterranee. Questo passo - un fondamento religioso dei diritti umani – è frutto della sofferenza e del carcere di molti dissidenti, fra cui anche Liu, che sono venuti a contatto con il meglio della civiltà occidentale. Il premio Nobel e la sottolineatura religiosa della proposta di Liu Xiaobo e di Carta 08 sono un monito anche all’occidente. Europa e Stati Uniti devono scegliere se continuare ad usare la Cina come un asino che ci tira fuori dalla crisi economica, senza considerare i diritti degli operai e quelli dell’ambiente, sfruttando la manodopera a basso costo e basta, oppure se potenziare non solo i rapporti di tipo materiale, ma anche i diritti umani e religiosi, essenziali allo sviluppo di un popolo.

Senza diritti umani il Paese forse potrà “modernizzarsi” dal punto di vista economico, ma in modo folle

Stupisce comunque il coraggio del Comitato per il Nobel a indicare Liu Xiaobo come vincitore in un momento in cui tutta la comunità internazionale si prostra davanti alla Cina super-ricca, super-potente, il più grande mercato al mondo, ecc… Il punto è che lo sguardo di Liu Xiaobo e di Carta 08 verso il loro Paese è profetico: senza i diritti umani la Cina forse potrà “modernizzarsi” dal punto di vista economico, ma questa modernizzazione sarà “folle”, portatrice di catastrofi già percepibili nella situazione attuale. Carta 08 ne cita alcune: “corruzione governativa, la mancanza di uno stato di diritto, deboli diritti umani, corruzione dell’etica pubblica, crasso capitalismo, crescente disuguaglianza fra ricchi e poveri, sfruttamento sfrenato dell’ambiente naturale, umano e storico, l’acuirsi di una lunga lista di conflitti sociali, e… una netta animosità fra rappresentanti del governo e la gente comune”. Frenando i diritti umani e la democrazia, il Partito comunista cinese diviene responsabile in toto del disastro umano verso cui si sta dirigendo la Cina. In questo senso la proposta di Liu (e il Premio Nobel), anche se irrigidisce Pechino che sta vomitando critiche e accuse, è la medicina più urgente per la Cina. Del resto, va detto che fra i firmatari di Carta 08 vi sono anche membri del Partito comunista e che le riforme politiche invocate dal documento, sono una stringente necessità da almeno 40 anni, da quando Deng ha proposto le “quattro modernizzazioni” (esercito, agricoltura, industria, tecnologia), ma non ha proposto “la quinta modernizzazione”, la democrazia. Un altro elemento importante nel dare il premio No-

Come scrive il grande dissidente cinese Wei Jingsheng, «da 20 anni a questa parte, insieme ai movimenti dei lavoratori, sono stati colpiti in maniera incessante anche i movimenti democratici. In entrambi i casi, si tratta di repressioni ordinate dai comunisti e dai loro alleati occidentali. Entrambi i movimenti hanno tentato e tentano in ogni modo di sopravvivere, ma con sempre maggiore difficoltà: e questo perché non c’è un’alleanza internazionale a loro sostegno, ma ne esiste una a loro contraria. Questa ha costretto la maggioranza dei politici occidentali ad arrendersi ai desideri dei comunisti, proteggendo soltanto il commercio. D’altra parte, anche i sindacati dell’Occidente subiscono infiltrazioni da parte del mondo dell’industria e si disinteressano dei movimenti dei lavoratori cinesi. E questa mancanza di sostegno è un’altra ragione che spiega perché non si riescano a creare nel Paese dei veri sindacati. Ma i lavoratori cinesi, che subiscono la più dura delle repressioni, arriveranno a un punto di rottura: a quel punto, lotteranno per difendere i propri diritti e i propri interessi». Il monito di Liu e di Carta 08 è che se non si compie questo passo di rispetto per l’uomo e per la sua dimensione religiosa, la Cina (e il suo supersviluppo economico) è destinata al fallimento. E il suo, sarebbe anche quello dell’occidente.

governo viene costretto ad accettare nuove idee e provare a metterle in pratica su basi sperimentali. Questa esperienza ha cambiato l’idea dominante, secondo cui le riforme politiche provengono sempre dall’alto. Se volessimo riassumerle, potremmo dire che le mie idee principali per una riforma politica della Cina sostengono che questa deve essere graduale, pacifica, ordinata e sotto controllo; e soprattutto deve essere interattiva, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso. In questo modo si avrebbe il minor costo e il maggior risultato possibile. Io conosco i principi base che regolano i cambiamenti politici: un cambiamento sociale ordinato e sotto controllo è migliore di uno che sia invece caotico e fuori controllo.

L’ordine retto da un governo cattivo è migliore del caos dell’anarchia. È per questo che mi oppongo a quei sistemi di governo che sono dittatoriali o monopolisti: ma questo non vuol dire che io “inciti alla sovversione del potere statale”. Opporsi non vuol dire sovvertire. Un’altra ragione per la quale io non sono colpevole delle accuse che mi vengono mosse è che queste contravvengono agli standard dei diritti umani che sono universalmente riconosciuti. Nel 1948, in qualità di membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Cina ha partecipato alla stesura della Dichiarazione universale dei diritti umani. Mezzo secolo dopo, nel 1998, la Cina si è impegnata solennemente davanti alla comunità internazionali: avrebbe firmato le due Convenzioni base dell’Onu che regolano i diritti umani. Uno, il Trattato internazionale sui diritti civili e politici della popolazione, riconosce la libertà di parola e chiede che i governi di ogni Paese la rispettino e la proteggano. Nella sua qualità di membro permanente del Consiglio di Sicurezza e membro del Consiglio Onu sui diritti umani, la Cina è obbligata a rispettare i trattati ed è responsabile rispetto agli obblighi che ne derivano. Pechino dovrebbe rappresentare un modello su come le clausole che proteggono i diritti umani possano essere messe in pratica. È soltanto in questo modo che il governo cinese può salvaguardare pienamente i diritti umani della sua popolazione. Dovrebbe dare il proprio contributo alla promozione della causa dei diritti umani internazionali perché, così facendo, dimostrerebbe il grado di civiltà degno di una grande nazione. Entrando nell’era moderna, il Partito comunista cinese è passato da debole a forte ed ha infine trionfato contro il Kuomintang. Il Partito ha raccolto la sua forza dalla promessa di “opporsi alla dittatura in nome della libertà”.

Mao Zedong e altri leader comunisti hanno più volte definito la libertà di espressione “un diritto fondamentale”. Ma dopo il 1949 - dalla campagna contro la destra alla Rivoluzione culturale, dall’esecuzione di Lin Zhao allo sgozzamento di Zhang Zhixin - la libertà di espressione si è persa nell’era maoista e il Paese è caduto in un silenzio mortale, come quello di 10mila cavalli muti.

Con l’inizio delle riforme, il Partito ha corretto alcune ingiustizie e ha migliorato di molto la libertà per le espressioni diverse; lo spazio per la libertà di opinione nella società è divenuto molto più grande, mentre si è ridotto il numero di scrittori gettati in galera. Ma la tradizione del “crimine di espressione”non è scomparso del tutto. Dal movimento del 5 aprile a quello del 4 giugno, dal Muro della Democrazia a “Carta 08”, sono molti gli esempi di quanto dico. Il mio processo è soltanto l’esempio più recente. Nel 21esimo secolo, la libertà di espressione è divenuto un diritto comune per le popolazioni di molte nazioni, e gettare uno scrittore in galera arriva soltanto quando mille persone gli puntano il dito contro. Da un punto di vista obiettivo, bloccare la libertà di espressione è come bloccare un fiume; le alte mura di una prigione non possono fermare l’espressione della libertà. Un governo non può sopprimere la legittima espressione di opinioni diverse e non può dipendere dall’imprigionamento degli scrittori per mantenere a lungo termine il potere. I problemi causati da una penna si possono risolvere soltanto usando una penna. Fino a che userete la pistola per risolvere i problemi causati da una penna, continuerete a creare disastri per i diritti umani. Soltanto eliminando la pratica di ingabbiare gli scrittori potrete garantire a tutti i cittadini quella libertà di parola promessa dalla Costituzione. A quel punto, la libertà di parola potrà essere protetta in una maniera sistematica e verrà bandita per sempre dalla terra di Cina l’abitudine di incarcerare chi pensa in maniera diversa. Il crimine di parola è contrario ai principi espressi dai diritti umani, principi presenti e tutelati dalle nostre leggi, ed è contrario alla Dichiarazione internazionale dei diritti umani. Va contro la giustizia universale e la corrente della storia. Mi dichiaro innocente per quello che ho fatto e spero che questa dichiarazione venga accettata da questa corte. Se questo avvenisse, questa sentenza rappresenterebbe un significativo precedente nella storia della giurisprudenza cinese; sarebbe una promozione nella questione dei diritti umani e una vittoria nel test della Storia.


politica

pagina 6 • 9 ottobre 2010

Lettera aperta. Il passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica fu traumatico perché mancava un vero ricambio

Questa Italia senza testa Dialogo con Cesare Romiti sulla crisi della nostra classe dirigente: bisogna costruirne una nuova prima di distruggere la politica di Enrico Cisnetto aro dottor Romiti, ho seguito con attenzione la sua intervista televisiva a Minoli che, partendo da una vicenda di straordinaria importanza storica – e non solo per la Fiat e il capitalismo italico – come la “marcia dei 40 mila”del 1980 a Torino, ha poi spaziato sulla penosa condizione dell’Italia di oggi. Dicendo cose crude e sacrosantemente vere. Già l’anno scorso, quando era arrivato al punto di farsi dare del

C

ha il raro privilegio, guadagnato sul campo grazie alla sua straordinaria storia, di potersi finalmente godere quella libertà che solo chi è stato nella vera stanza dei bottoni può permettersi raggiunta una “certa età” (a proposito, complimenti per le 87 primavere portate meravigliosamente).

Così, ammesso (e non concesso) che si tratti di una pazzia, siamo di fronte ad una lucidità alla Erasmo da Rotterdam.

Il confronto col passato non solo è impietoso ma induce a coltivare ben poche speranze per il futuro, almeno fino a che il sistema politico e il personale che lo popola saranno questi “comunista” per essersi schierato a fianco dell’Unità nell’appello a difesa della Costituzione sul caso Englaro, avevo diagnosticato che Lei fosse affetto da “sindrome Cossiga”, cioè che fosse irresistibilmente attratto dalla tentazione di togliersi sassi – o anche macigni – dalle scarpe, rendendo pubblici giudizi a dir poco taglienti. La verità è che Romiti

Che gli consente di fare autocritica sugli errori commessi, di raccontare senza falsi pudori i retroscena dei suoi anni alla Fiat, ma soprattutto che non gli impedisce di denunciare – con la necessaria credibilità e il giusto tono – il declino del Paese e le «condizioni disperate in cui si trova».Tutto questo senza peli sulla lingua, senza cerone o mezzucci da commediante, con

La Procura di Roma lo ha già interrogato

Consulenze d’oro: indagato Maroni ROMA. Nuova grana in casa Lega: la «Carrocciopoli» che da qualche mese ha incrinato l’immagine del partito di Bossi, mettendone a nuda molti casi di incerta moralità, stavolta tocca addirittura il ministro dell’Interno Roberto Maroni, finito sotto inchiesta per una questione di consulenze d’oro resa pubblica ieri dal settimanale L’Espresso. Insomma, Maroni è formalmente indagato per finanziamento illecito dalla procura di Roma (che ha avuto gli atti dai colleghi di Milano) ed è già stato interrogato in gran segreto nei giorni scorsi il ministro Roberto Maroni per una consulenza non scritta, in veste di avvocato, pagata 60mila euro dalla Mythos Business Development. Maroni, che ha escluso di aver violato la legge sul finanziamento ai parti-

ti, avrebbe spiegato ai magistrati che i soldi rappresentano il compenso per una attività legale e, a riprova di ciò, avrebbe fornito una copiosa documentazione. Una fattura da 14 mila euro, invece, riguarderebbe una consulenza di Isabella Votino, assistente e portavoce del ministro dell’Interno. «I soldi ricevuti dalla società Mythos, 60 mila euro, costituiscono il compenso per una attività legale»: questo sarebbe ciò che Maroni ha detto ai pm di Roma che lo hanno interrogato in gran segreto nei giorni scorsi. Gli atti dell’indagine che lo vede coinvolto sono ora al vaglio della magistratura romana che ha iscritto il nominativo del ministro nel registro degli indagati per l’ipotesi di finanziamento illecito ad un parlamentare.

un’onestà intellettuale – oltre che estetica – che fa o dovrebbe far invidia a suoi colleghi molto più giovani ma “senza palle”.

Ecco, a Romiti il coraggio non è mai mancato, e fa pensare che non sia solo una questione di età. La differenza è che ora il coraggio può metterlo anche al servizio di una sana autocritica. Incalzato da Minoli, lo ha fatto parlando di Berlinguer – «non meritava la sofferenza che gli ho procurato» – e in qualche modo di Craxi, che ha rivalutato solo “dopo”. Più in generale, Romiti ha voluto rivalutare tutta la classe politica della Prima Repubblica – a suo tempo oggetto di suoi strali che risultarono decisivi per buttarla a mare – non fosse altro al confronto con quella attuale. Come non essere d’accordo con Lei, caro Cesare, il confronto non solo è impietoso, ma induce a coltivare ben poche speranze per il presente e per il futuro, almeno fino a che il sistema politico e il personale che lo popola saranno questi. E però, amico mio, c’è un però. Perché l’autocritica potrebbe – oso dire dovrebbe – arrivare fino al punto di mettere in discussione il fondamento, o


politica

9 ottobre 2010 • pagina 7

Arriva lo «speciale» di cui giovedì Feltri aveva smentito l’esistenza ROMA. Il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, insiste con i dossier ma contraddice il suo “direttore editoriale”Vittorio Feltri. Già, perché il quotidiano di casa Berlusconi oggi pubblica il tanto contestato (e per altri versi sospirato) «dossier di quattro pagine» sulla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia. Giovedì scorso, dopo lo scoppio della bufera giudiziaria sul dossieraggio del quotidiano milanese, Feltri aveva affermato che non c’era nessun materiale pronto sulla Marcegaglia, altrochè! «I maledetti dossier di cui tutti discutono esistono soltanto nella fantasia ipereccitata dei nostri numerosi detrattori» aveva tuonato in conferenza stampa. Evidentemente la comunicazione tra il neo-direttore Sallusti e l’ex direttore Feltri (che pure sedevano uno accanto all’altro, in quella conferenza stampa) si è interrotta improvvisamente. Comunque sia, la direzione del quotidiano ieri non ha specificato quale sia il contenuto della pubblicazione, ma la notizia ha fatto comunque rumore perché collegata alle vicende svelate da intercettazioni telefoniche che hanno portato all’apertura di un procedimento nei confronti di Sallusti e il suo vice Nicola Porro, e alla perquisizione di uffici e abitazioni dei vertici del Giornale per violenza privata ai danni del leader di Confindustria. Accuse, vale ricordarlo, che gli interessati hanno naturalmente respinto con sdegno e fermezza: «Stavamo solo scherzando» , hanno spiegato per motivare le parole percepite invece come minacciose da Emma Marcegaglia.

La riposta via dossier del quotidiano berlusconiano è quasi una ritorsione per l’attenzione che la giustizia sembra stia dedicando al suo sti-

Oggi sul “Giornale” il dossier-Emma Intanto Fini telefona alla Marcegaglia per esprimerle la propria solidarietà di Andrea Ottieri

Il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri prima fa l’equidistante, poi è costretto a precisare: «Solo Vittorio dice la verità su di me» Bersani: «Ormai siamo arrivati al punto più basso nella civiltà della politica» le giornalistico: «L’iniziativa dei giudici di Napoli non è isolata», ha detto infatti il direttore del Giornale: «Nei nostri confronti ci sarebbe anche un’altra inchiesta, condotta da una procura del Nord». E forse è per questo che Fedele Confalonieri (rap-

presentante della minoranza nella proprietà del giornale, in quanto numero uno dell’azienda cui fa capo Mondadori, appunto socio di minoranza di Paolo Berlusconi nella proprietà del Giornale) ha fatto una dichiarazione salomonica a proposito del dos-

sier-Marcegaglia: «La versione di Feltri è verità. Anche quella della Marcegaglia». Un po’ di verità per uno non fa male a nessuno. Qualcuno deve avergli fatto notare la bizzarria del caso e quindi Confalonieri ha specificato che i giornalisti non avevano

quantomeno l’opportunità, di quei passi che proprio Lei in prima persona, più di ogni altro nel mondo economico e finanziario, fece all’inizio degli anni

fosse Aldo Fumagalli) quando chiese con tono perentorio ai politici di farsi da parte? E ricorda le invettive a Tangentopoli appena avviata, salvo poi

avuto un peso enorme nello svolgersi dei fatti.

Ci vuole una presa d’atto che occorre creare le condizioni per una svolta, e che questa non può che essere il frutto di un’alleanza tra alcuni esponenti politici e il sistema degli interessi Novanta per «spazzar via la classe politica che porta il Paese alla rovina» (sono parole sue di allora).

Già, si ricorda l’intervento che fece ad un convegno dei Giovani di Confindustria (non ricordo se a Capri o Santa Margherita Ligure, credo che fosse il 1991 e che presidente

essere costretto a “battersi il petto” pure Lei quando la prua dei magistrati si è rivolta anche verso la Fiat? Non le sfuggirà che averlo detto e fatto dalla tolda della Fiat, da padrone di giornali come La Stampa e il Corriere, ben sapendo che quando Romiti parlava, Mediobanca e il salotto buono erano d’accordo per definizione, ha

Le dico tutto questo non per il gusto di riaprire vecchie ferite o per costringerla a postumi mea culpa, ma per ragionare sull’oggi, e sulle responsabilità che la classe dirigente dell’imprenditoria e del management ha di fronte al declino senza precedenti del Paese. Altro che la “pazienza persa”della Marcegaglia, qui ci vuole una presa d’atto che occorre creare le condizioni per una svolta, e che questa non può che essere il frutto di un’alleanza tra alcuni esponenti del ceto politico e il sistema degli interessi. Non per ingerire, né per surrogare, ma per favorire la creazione di una classe politica. Senza commettere l’errore di 20 anni fa: deni-

capito nulla perché «l’unica ricostruzione autentica dei fatti che mi riguardano è quella descritta da Vittorio Feltri». Chi invece non è stato avvertito della marcia indietro di Confalonieri è il sottosegreatetario alla presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi. Una nota ufficiale gli attribuisce queste parole: «La mia più convinta solidarietà va a Il Giornale ma anche ad Emma Marcegaglia, entrambi vittime di un perverso meccanismo che trasforma vicende private in un’infernale macchina giudiziaria». Come dire: la colpa è della magistratura: rea di indagare su quotidiano che costretto dal destino cinico e baro a costruire dossier sui «nemici» del proprio editore. Tanto che la nota si conclude significativamente: «Ma c’è ancora qualcuno che vuole accusare Berlusconi di avere la fissa della riforma della giustizia?». Il presidente della Camera ieri ha chiamato Emma Marcegaglia per esprimerle solidarietà: è del tutto evidente che di dossieraggio del Giornale Fini se sa qualcosa.

Per concludere, c’è da annotare una desolata dichiarazione del segretario democratico Pier Luigi Bersani: «Quesi episodi testimoniano a che punto siamo arrivati. Non è certo un bel quadretto perché emerge il sospetto di ricatti e c’è il riferirsi a persone terze per risolvere dei problemi. Ma possiamo vivere in un paese così? Questo secondo tempo del berlusconismo può portarci veramente in basso nella civiltà della politica». Questa mattina, nelle edicole, ci sarà dunque l’ennesima prova di questa nuova “civiltà” politica: vedremo quali verità avrà svelato il quotidiano di casa Berlusconi sull’attività di Emma Marcegaglia e del suo gruppo.

grare il ceto politico, chiedere a gran voce la chiusura di una stagione politica – e porre termine alla Prima Repubblica era sicuramente necessario, ma non in quel modo – senza avere preparato il dopo, si è rivelata una sciagura. E il giudizio senza appello che lei ha emesso sulla cosiddetta Seconda Repubblica lo conferma. Ma oggi è il momento di creare le condizioni per passare alla Terza Repubblica, e bisogna assolutamente fare diversamente da allora. Per questo, caro Romiti, mi aspetto che spenda una parola “pesante” non solo sul passato, ma anche e soprattutto sul prossimo futuro. Ha tutta l’autorevolezza, l’energia e la testa che serve per «dare (ancora) a Cesare quel che è di Cesare». (www.enricocisnetto.it)


pagina 8 • 9 ottobre 2010

politica

Opposizione. I democratici riuniscono l’assemblea nazionale nella terra di Bossi: «Basta con il federalismo delle chiacchiere»

L’appello costituzionale

Il Pd chiede un cartello unico contro Berlusconi in caso di voto anticipato. «Non facciamo lo stesso errore del 1994», dice Letta di Errico Novi

ROMA. Va nel profondo Nord, il Pd di Bersani, a sfidare la Lega. Assemblea nazionale convocata al Palazzo dello sport di Busto Arsizio, proprio nella terra di Bossi. Un modo per rendere più udibili le stilettate che dal palco arrivano al Senatùr («basta con l’imbroglio del Carroccio che è al governo e fa finta di essere all’opposizione», proclama Rosy Bindi) ma anche per cavarsi d’impaccio in una fase complicata del dibattito interno. Inizia appunto la presidente una due giorni che si chiude oggi con il segretario ma che conosce forse il suo passaggio rivelatore già nel pomeriggio di ieri, quando dopo la Bindi prende la parola il vice di Pier Luigi Bersani, Enrico Letta: «Attenti all’incubo, quello del ’94, quando la nostra divisione ha consentito a Berlusconi di vincere la prima volta: qui o vinciamo, o battiamo Berlusconi, o si muore, e non ci sono “piani B”, lo dico a tutti gli amici che lavorano ai terzi poli». Nel bel mezzo dunque di un laborioso rituale di partito, utile a distrarre l’attenzione dalle doppiezze sulla legge elettorale e dal no di Montezemolo a vestirsi da papa straniero («roba da marziani», dice il presidente della Ferrari intervistato dal quotidiano online Lettera 43) il vicesegretario democratico infila una chiara indicazione sulla linea politica: no ai terzi poli perché tanto se si andasse a votare «non ci saranno senati in bilico: se Berlusconi vincerà, prenderà tutto, sceglierà anche il successore di Napolitano, cambierà pure la Costituzione».

Curioso che proprio mentre si parla di una nuova legge elettorale in grado di scardinare, tra l’altro, il perfido meccanismo polarizzatore che ha messo in crisi prima Prodi, poi Berlusconi, curioso appunto che il Pd faccia appello a un esempio come quello del ’94, indicato da Letta a dimostrare che la mancata associazione in un’unica grande alleanza costituzionale per battere il Cavaliere rischia di essere fatale come lo fu allora. Dalle alleanze di nuovo conio che in molti, dalle parti dei democratici, avevano invocato negli ultimi mesi – da un pezzo dei popolari rimasti con Marini e Franceschini a padri fondatori come Massimo Cacciari – si passa dunque alla richiesta di un comitato di liberazione nazionale assemblato attorno al Pd. Il tutto però si inquadra in una cornice fortemente antileghista. Già c’è la scelta della location, poi ci pensano prima Bersani, poche ore prima dell’inizio dei lavori dell’assemblea nazionale, a lamentare che «questo è ancora il federalismo delle chiacchiere», poi la Bindi e quindi lo stesso Letta, concordi a loro volta nella consegna di sparare contro Bossi: «Vada in pensione insieme con Berlusconi», anche perché «il federalismo è solo propaganda, poteva presentarlo Bonaiuti», dice il vicesegretario. Certo fa specie che il

Il presidente della Camera in Sicilia incontra Raffaele Lombardo

E Fini rilancia: «È il momento di cambiare la legge elettorale» di Francesco Lo Dico

PALERMO. Prima una serie di affondi all’assemblea dell’Osce, e poi un compiaciuto in bocca al lupo al Lombardo quater che lo ha salutato a Palazzo d’Orleans senza un solo pdl in giunta. La trasferta di Gianfranco Fini in Sicilia restituisce la sensazione di un leader agguerrito. Innanzitutto sul fronte della legge elettorale. «Ogni elettore dovrebbe poter scegliere il proprio parlamentare», ha rilanciato davanti ai dirigenti siciliani il presidente della Camera. Che non accenna a diminuire il pressing per fare piazza pulita del Porcellum.

Ma dal capoluogo siculo, giunge la sensazione di un Gianfranco Fini del tutto indisposto a regalare a Silvio Berlusconi qualche salvancondotto, e a tenere il punto su questioni come giustizia e legalità, che hanno segnato l’irreparabile strappo con il Cavaliere e la formazione di un nuovo soggetto improntato ai valori della destra europea, e meno a quelli dadaisti del premier. «Il Parlamento ha il dovere di mettere a disposizione delle risorse tecniche necessarie alle forze dell’ordine – ha spiegato il presidente della Camera

all’Osce – e alla magistratura che devono confrontarsi con la sofisticata tecnologia ormai nelle mani della mafia e della malavita». Recapitato il primo messaggio al Governo che promette di mettere a ferro e fuoco la magistratura, il leader in pectore di Futuro e libertà ha riservato un secondo cartellino giallo alla disastrosa gestione della cosa scolastica: «Si devono promuovere interventi legislativi e iniziative di carattere formativo e culturale – ha detto Fini – per ridurre la propensione delle persone, in specie dei giovani, ad alimentare la domanda dei mercati di beni illeciti, come ad esempio le sostanze stupefacenti». Ma la lotta alla malavita organizzata, è stata per l’ex leader di An, l’opportunità di rilanciare il discorso sulla televisione pubblica in debito di pluralismo e qualità: «La lotta alla criminalità organizzata – ha spiegato – richiede la mobilitazione degli organi di informazione, presupposto importante per la mobilitazione dell’opinione pubblica che deve passare dalla generica indignazione morale al concreto coraggio civile». «Per potere realizzare questi obiettivi – ha scandito Fini – occorre rafforzare gli spazi di libertà e di pluralismo della stampa e in generale dell’informazione». E dalla tv, la disanima del presidente della Camera, si è spostata alla politica, e alle sue relazioni pericolose con la delinquenza: «La priorità – mette a verbale Fini – è tagliare i legami tra mafia e politica, non ci si può affidare a questo riguardo all’eroismo e al disinteresse personale che pure dovrebbero essere valori ispiratori dell’etica pubblica». E a tal fine ha invocato «trasparenza, rigore e controllo».

Bacchettate anche da Palazzo d’Orleans, dove fatti gli auguri alla nuova giunta Lombardo, l’ex leader di An invoca fondi e attenzioni per sopperire alla catastrofica situazione del Meridione, e frena sul federalismo, precisando che dovrà essere attuato a patto di non relegare il Sud ai margini della scena politica.

vertice democratico faccia simili affermazioni solo tre settimane dopo aver concesso l’ennesimo sì ai lumbàrd sul federalismo fiscale. Alla vigilia dei 140 anni da Porta Pia il povero Francesco Boccia, delegato pd nella Bicamerale per il federalismo, ha prima definito un «contenitore vuoto» il decreto su Roma capitale, poi ha obbedito all’ordine dal Nazareno di dare il via libera al provvedimento «in nome della centralità di Roma».Tradotto: per non perdere terreno nei confronti di Alemanno a livello locale. Premessa insostenibile per una linea tutta sparata contrio il federalismo ancora da scrivere presentata a Busto Arsizio. Dove vengono squadernati anche altri dossier, da quello sull’immigrazione a cura di Livia Turco all’altro sul fisco messo a punto da Stefano Fassina.

Di sicuro la mossa consente di accantonare il principale tema di divisione all’interno del partito, il tipo di riforma elettorale da sostenere, appunto. «Ci vediamo qui sia per rafforzare l’identtà politico culturale che per gettare le basi di un’alleanza il più larga possibile, che non sia raccogliticcia», spiega per esempio il popolare (Area Dem) Giorgio Merlo. Il quale aggiunge che «certo, sulla legge elettorale l’unico accordo è nel superare quella attuale, mentre sul modo di farlo c’è molto dibattito». Giustificato eufemismo che un’altra fonte a taccuini

Il vicesegretario detta la linea: «Agli amici che lavorano ai terzi poli dico che non ci saranno senati in bilico: attenti perché se vince anche stavolta, il Cavaliere prende tutto, anche il Quirinale» spenti integra così: «Nessuno dice che a maggio, alla precedente assemblea nazionale, eravamo usciti con un unico documento approvato a pieni voti: riguardava proprio la legge elettorale e sanciva in modo inequivocabile la scelta del partito per il doppio turno di collegio alla francese». Quel risultato così chiaramente scolpito guarda caso è sparito dai dossier dell’assemblea di Busto Arsizio.

È anche l’abile stratagemma con cui Bersani e Bindi provano a tenere impegnata la macchina del Nazareno in modo da attenuare il tasso di isteria e litigiosità interne. E la trovata nelle intenzioni di segretario e presidente dovrebbe riuscire a rimuovere almeno per un po’ anche il dibattito sulla leadership e sul papa straniero. Missione semplificata appunto dalla risposta netta di Montezemolo che chiede di non essere «tirato per la giacchetta: resto dove sono non scendo in campo». A fornire le argomentazioni necessarie per rappresentare il Pd come immune da liti e crisi identitarie è appunto soprattutto Rosy Bindi, sollecita


politica

9 ottobre 2010 • pagina 9

Per il leader-poeta comincia una stagione particolarmente difficile

Sanità e primarie, Vendola tra due fuochi

Il governatore è pressato da Tremonti che non copre il debito, e da Di Pietro che gli volta le spalle di Lucio Lussi

BARI. Tempi difficili per il governatore della Regione Puglia Nichi Vendola, costretto a gestire due spine nel fianco di non poco conto. Da un lato Tremonti, che con le sue continue frecciate e un emendamento che rinvia al 15 dicembre l’approvazione del Piano di Rientro, rischia di commissariare la sanità pugliese; e dall’altro Antonio Di Pietro, che, in vista delle primarie di centrosinistra, sembra aver stretto con il Pd un accordo imperniato sull’appoggio dell’Idv al candidato democratico. Insomma, Vendola inizia a sentire puzza di bruciato intorno a sé, e improvvisamente si scopre più solo. Lo staff del leader dell’Idv, intanto, non smentisce l’accordo sottobanco con i cugini democratici, a patto però che il Pd non giochi sporco, estendendo a livello nazionale l’inciucio siculo con l’Mpa di Lombardo. In quel caso, infatti, l’appoggio dell’Idv verrebbe meno. Ma non finisce qui, perché fonti molto vicine a Di Pietro fanno sapere che se anche il partito «è formalmente a braccetto con il Pd, l’appoggio a Nichi Vendola è un’ipotesi non del tutto tramontata, soprattutto di fronte alla poca chiarezza dei democratici». E questo Vendola lo sa, anzi è perfettamente consapevole di poter puntare sulla fascia più intransigente dell’Italia dei Valori, e non è escluso che possa barattare il consenso elettorale di quest’ultima con l’appoggio alla candidatura a sindaco di Napoli di Luigi di Magistris. I collaboratori dell’eurodeputato dell’Idv non confermano né smentiscono. Si tratterebbe di un duro colpo per Di Pietro, che assisterebbe impotente allo sfarinamento del suo consenso, accerchiato da Vendola, Beppe Grillo e popolo viola. Ecco perché l’ex pm ha alzato i toni durante il dibattito sulla fiducia alla Camera, al fine di «riconquistare quella parte dell’Idv che vede in Vendola il candidato naturale della coalizione e per presentarsi come il leader radicale al fianco di un Pd moderato», ammettono alcuni uomini dello staff. Si professa ottimismo, invece, nell’entourage di Vendola, che avrebbe pronta un’alternativa per aggirare l’asse Pd-Idv. «Nichi non ha una strategia precisa ma punta a tutti», dichiarano da Sel, quindi è inevitabile che guardi con interesse ai grillini e al popolo viola, e se con quest’ultimo c’è un legame particolare, non a caso Vendola era presente alla manifestazione

del No B-day 2, più complesso appare il rapporto con i grillini. Secondo i bene informati, infatti, Vendola appare intenzionato a conquistarli differenziandosi nettamente dalla strategia leaderistica di Beppe Grillo, contrapponendole una proposta politica di responsabilità per cambiare il paese. Anche nel Pd, nonostante i proclami di parlamentari e dirigenti di partito, non è scontata una levata di scudi a favore del segretario Bersani, considerato da molti democratici incapace di essere un valido candidato premier. Una fetta consistente di iscritti e quadri del Pd continua ad essere attratta dalle sirene del governatore rosso. Del resto, è ancora fresco il ricordo delle primarie pugliesi di gennaio, che hanno visto il trionfo di Vendola contro il candidato del Pd, Boccia, formalmente appoggiato dalla stragrande maggioranza del suo partito. È finita 70 a 30 per il leader di Sel. Ma i parlamentari pugliesi del Pd sono certi che la batosta sia servita ai democratici, disposti a vendere la cara pelle pur di non consegnare il Pd a Vendola.

La speranza segreta è di spaccare in due l’Idv, incassando il sostegno di De Magistris. E a quel punto potrebbero arrivare anche i consensi dei grillini

nel liquidare le contraddizioni tra «la ricerca dei costi standard perché le siringhe abbiano lo stesso prezzo in tutti gli ospedali d’Italia» e la necessità di «garantire in tutto il Paese gli stessi livelli di assistenza». Sistemata la Lega, ripudiato il federalismo, c’è qualche carezza a Fini: «Vediamo se riesce a costruire una destra laica ed europea». C’è un buffetto per Vendola («non siamo anime morte, non siamo alla fiera delle vanità»), e verrebbe da credere che possa aprirsi uno spiraglio per marcare la distanza da quello a cui Letta allude come «il populismo di sinistra utile a Berlusconi». Invece no, perché la Bindi tiene a commemorare il compianto Edmondo Berselli svelando di aver letto alcuni suoi scritti postumi in cui sui decretava la fine della via blairiana per la sinistra occidentale.

Non è esattamente un annuncio di svolta riformista. E infatti la sola cosa che resta più visibile è l’appello alle donne «contro il berlusconismo». Preludio all’incipit con cui Enrico Letta avverte: «Anziché rispondere del suo fango, Berlusconi vuole portare nel fango con lui tutti quanti, dimostrando con i dossier che così fan tutti. L’Italia di oggi è l’Italia dello sputtanamento totale». E contro tale degenerazione c’è l’appello a non indugiare nei terzi poli e a unirsi tutti per non ripetere l’errore del ’94.

Pier Luigi Bersani ieri ha guidato l’assemblea del Pd che doveva stabilire una linea unitaria sulla riforma elettoriale e il contrasto all’attività del governo Berlusconi. A destra, Nichi Vendola che resta il più probabile competitore del segretario Pd nelle eventuali primarie del centrosinistra. Nella pagina a fianco, Gianfranco Fini

La quiete di Vendola è turbata anche dall’ennesimo rinvio dell’approvazione del Piano di Rientro sulla sanità da parte del governo. Il termine ultimo è ora slittato al 15 dicembre. Non certo un buon segnale per Nichita, che, dopo la passeggiata sottobraccio con Tremonti la scorsa settimana in Transatlantico, sperava di aver superato il niet del Governo. Tremonti, invece, ha chiarito che non è stato preso nessun impegno e continua a tenere sotto chiave, con la scusa del mancato rispetto del Patto di Stabilità, i 500 milioni di euro che andranno alla Regione Puglia all’approvazione del Piano. Il ricatto governativo continua, e Vendola ormai sembra certe delle intenzioni governative di far saltare il Piano di rientro, provocando così il commissariamento della sanità pugliese. Le Asl e le aziende ospedaliere, infatti, hanno autonomia finanziaria fino a novembre. L’altro lato della tenaglia che rischia di schiacciare Vendola è composto dai malumori del popolo pugliese, che non sembra disposto ad accettare i tagli ai posti letto e la chiusura degli ospedali. Per non parlare poi del processo di internalizzazione dei precari della sanità, fortemente a rischio dopo le intenzioni governative di far saltare il Piano, e con esso… la Giunta Vendola.


società

pagina 10 • 9 ottobre 2010

Proteste. Gli studenti chiedono più risorse e classi meno affollate ROMA. Sembra di essere tornati ai giorni della Pantera e dell’Onda. Ieri le città italiane sono state invase da universitari e studenti delle medie e delle superiori delle varie sigle e movimenti studenteschi che manifestavano contro la riforma del ministro Gelmini. La protesta è stata sostenuta anche dal mondo del lavoro con un’ora di sciopero è indetta da Flc-Cgil, mentre Unicobas ha manifesta insieme agli studenti e ai coordinamenti dei precari. Gli studenti protestano contro gli edifici fatiscenti, le classi superaffollate, la mancanza di risorse e il coinvolgimento economico delle famiglie, la carenza di borse di studio per gli studenti meritevoli ma privi di mezzi. Il corteo più numeroso, oltre 30mila studenti, è stato quello di Roma, dove i rappresentanti di Unione degli studenti e Link hanno affisso due striscioni all’ingresso del ministero della Pubblica istruzione di viale Trastevere, spiegando poi il gesto come necessario «per dare il buongiorno al ministro» in una giornata speciale. Sul primo striscione c’era scritto: «8 ottobre, 6.30 del mattino. Voi l’incubo, noi la sveglia». Sull’altro «La paura fa 90... cortei in Italia». «Noi non moriremo precari», «Siamo una marea di conoscenza e stiamo per seppellire questa ignoranza». La replica del ministro Gelmini non si è fatta attendere: «Bisogna avere il coraggio di cambiare. È indispensabile proseguire sulla strada delle riforme: dobbiamo puntare a una scuola di qualità, più legata al mondo del lavoro e più internazionale. Per ottenere questi obiettivi stiamo rivedendo completamente i meccanismi di inefficienza che hanno indebolito la scuola italiana in passato. Un lavoro e un percorso difficile, ma indispensabile. È necessario - ha detto la Gelmini - lo sforzo di tutti coloro che hanno a cuore la scuola. La protesta di oggi però mi pare

La piazza sfida ancora la Gelmini Il ministro: «Vecchi slogan per non cambiare». Santolini: «Tutta colpa dei tagli di Tremonti» di Franco Insardà

una nota dell’Unione degli studenti e Link-Coordinamento universitario «oltre 300mila sono scesi nelle piazze in 90 cortei in tutte le regioni italiane”. Lo affermano in una nota i rappresentanti di Unione degli Studenti e Link-Coordinamento universitario.30mila studenti a Torino, 20mila a Bologna, 15mila a Milano, 5mila a Firenze

Giuseppe Valditara (Fli): «Occorre capire quanti precari e in quanto tempo potranno essere assunti nei ruoli della scuola» riproporre vecchi slogan di chi vuole mantenere lo status quo». Il ministro ha poi polemizzato sullo sciopero proclamato da Cgil e Unicobas «promosso da chi è aprioristicamente contro qualsiasi tipo di cambiamento e crede di usare la scuola come luogo di indottrinamento politico della sinistra». Sui numeri delle manifestazioni si è registrato l’ormai consueto balletto di cifre. Secondo

e anche nelle città più piccole, da Siena a Cosenza, da Catanzaro a Genova c’è stata la partecipazione di più di 6mila studenti». Per Stefano Vitale «è in atto una grande risposta degli studenti contro le politiche di questo governo». Il ministero, invece, ha diffuso una nota con i dati dell’adesione del personale alla

protesta: «la percentuale di adesione allo sciopero è stata circa del 5,5 per cento tra dirigenti scolastici, insegnanti e personale Ata». Luisa Santolini, componente della commissione Cultura della Camera dell’Udc, ritiene che la Gelmini «non può sotto-

valutare la protesta degli studenti perché la sua riforma della scuola presenta luci e ombre. Da un lato va riconosciuto al ministro il coraggio di aver affrontato le questioni annose sia della scuola superiore sia dell’università. Dall’altro, però, questa riforma ha il peccato originale di essere nata sotto la minaccia della scure dei tagli lineari imposti dal ministro Tremonti. Il ministro è stata costretta a scrivere, in tempi brevi e a costo zero, una riforma così delicata che sta creando molti disagi e migliaia di precari. Una situazione simile si potrebbe verificare anche nell’università. Non sono, però, d’accordo con chi protesta giusto per abitudine». E a proposito di università Giuseppe Valditara, senatore di Futuro e Libertà per l’Italia, invita a «a non sottovalutare il problema delle risorse e degli investimenti nel

settore della ricerca e dell’istruzione, fermo restando la bontà della riforma universitaria che sta per essere approvata in Parlamento. Se i tagli al settore previsti per il 2011 non saranno sostanzialmente eliminati sarà messo a rischio l’ordinato funzionamento dell’università italiana, quindi la competitività del Paese. Inoltre, occorre capire quanti precari e in quanto tempo potranno essere assunti nei ruoli della scuola italiana, in modo da dare qualche certezza in più ai tanti lavoratori che vivono nell’incertezza del proprio futuro». Le parole del ministro sono state però criticate dalle opposizioni. «Con quale coraggio - si chiede Giuseppe Lumia del Pd - la Gelmini parla di una riforma che punta sulla qualità? I tagli rispondono solo ed esclusivamente alle esigenze di bilancio. Gli studenti e i precari protestano perchè la scuola è al collasso. Il governo non ignori le loro ragioni. Chi usa la scuola come luogo di indottrinamento politico è il governo, che ha introdotto persino programmi di educazione militare». E Massimo Donadi, capogruppo dell’Idv alla Camera, aggiunge: «La Gelmini farebbe meglio a confrontarsi con chi tutti i giorni vive sulla propria pelle gli effetti nefasti della sua riforma e ad ascoltare di più le proposte dell’opposizione, invece di liquidare come vecchi slogan la protesta di oggi».

Ma quella di ieri è soltanto la prima protesta di una lunga serie: il 13 ottobre si fermerà il personale non docente con contratti co.co.co. aderente a Felsa-Cisl, Nidil-Cgil e Uil Cpo. Gli studenti universitari annunciano che, a partire dall’inizio della discussione del ddl Gelmini alla Camera fissata per il 14 ottobre, in migliaia circonderanno il Parlamento «e non ce ne andremo - aggiungono - fino a quando la riforma non sarà ritirata». Il 15 ottobre, docenti e Ata vicini ai Cobas, il 16 le associazioni studentesche si uniranno alla protesta di Fiom-Cgil. Il 30 ottobre torneranno in piazza i precari: a Napoli è in programma una manifestazione del Cps. Il 3 novembre protesteranno gli iscritti all’Anief, gli educatori in formazione che nel giorno dell’ennesimo sciopero generale si ritroveranno a Roma davanti al ministero. Per quanto riguarda Cisl e Uil, nessuna manifestazione specifica per i comparti della scuola. Le due sigle hanno infatti deciso di organizzare un’unica manifestazione nazionale, oggi, a piazza del Popolo a Roma, in cui confluiranno i problemi dei diversi settori tra cui, appunto, la scuola.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

L’uomo secondo Shakespeare

SULLA SCENA DELLE PASSIONI di Maurizio Ciampa

ul libro di Nadia Fusini (straordinario fin dal suo titolo: Di vita si verso i colpi al cuore di questo pathos, Shakespeare guarda il mondo e lo conosce. E ce lo mostra. Sulla scena. muore, appena pubblicato dall’editore Mondadori) si dovrà rifletIn tempi Di vita si muore è destinato a inquietare non tanto l’accademia ortere a lungo. Ammesso che nel nostro Paese circoli ancora mai sprofondata nel sonno, e neppure la critica militante, da una qualche forma di appassionato e gratuito esercizio in cui non si distingue tempo uscita di scena, e senza troppo rumore. È destinato dell’intelligenza. Fanno comunque ben sperare le osservapiù il confine tra tragedia a inquietare chiunque voglia condividere la passione a zioni che, al libro, ha dedicato Massimo Cacciari e farsa, l’opera del poeta inglese ci rivela lungo accumulata (sono di oltre trent’anni fa le («Shakespeare desnudo» su L’Espresso del 30 prime riflessioni di Nadia Fusini su Shakesettembre). Davvero incisive (al contrario del la vera natura del mondo. Un percorso accidentato speare), la passione che tempra ogni parola titolo). L’opera di Shakespeare esprime un che si spinge alle periferie del cuore, del libro, e l’elevata temperatura della mente in cui «pathos… senza redenzione», come una ferita che il libro si sviluppa. Attraverso un bagaglio di parole che, non si rimargina, una lacerazione, una crepa o un abisin cui ci guida Nadia Fusini fin dall’inizio, appaiono strategiche. Parole dense e dalla lunso in cui scivolano e talvolta precipitano il senso dell’uomo e con il suo “Di vita ga memoria. Ebbrezza è una di queste parole, quasi una condizioil suo operare. «Si scopre la ferita e la si lascia così: aperta», dice si muore” ne di conoscenza, come, d’altra parte, era per i greci. la Fusini quasi a conclusione del suo libro. «È questo il pathos che la stessa Fusini sopporta e ci invita a sopportare», commenta Cacciari. Attra-

S

Parola chiave Merito di Sergio Valzania Rileggendo Luigi Santucci di Leone Piccioni

NELLA PAGINA DI POESIA

Nei misteri del mutante Bonnefoy di Roberto Mussapi

Prima e dopo John Lennon di Stefano Bianchi

con un intervento di Claudio Trionfera

Tom & Cameron fanno scintille di Anselma Dell’Olio

Quando l’arte è cosa mentale di Angelo Capasso


sulla scena delle

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passioni

Un’altra è immaginazione, la sua capacità di azzardo, il suo dinamismo sregolato, ma, al tempo stesso, vengono invocati, per temperare ebbrezza e immaginazione, l’«esercizio dell’ascolto» e la «disciplina dello sguardo». Ebbrezza, immaginazione, ascolto e sguardo si combinano e s’intrecciano, spingendo il cammino di chi s’inoltra nello «spettacolo delle passioni» del teatro di Shakespeare. Non uno spazio geometricamente ordinato, come si può ben immaginare, ma un paesaggio spezzato e in costante movimento, una fitta selva. Alla fine, quello che qui viene proposto è semplice, addirittura lineare. Mi è venuto alla mente, e forse l’accostamento potrà apparire improprio o forzato, il poeta Walt Whitman. «Ora, non voglio che ascoltare», dice Whitman. Tendere l’orecchio verso i suoni del mondo, tutti i suoni per quanto possano risultare stridenti. Niente altro. Semplice. «Legare le parole di Shakespeare l’una all’altra, e ad altre parole prima e dopo di lui, aprendo così il linguaggio shakespeariano alla propria profondità, scoprendo nella lingua shakespeariana le fonti della sua medesima comprensione». Semplice. Ed è il programma, è la proposta di Nadia Fusini. «Ora, non voglio che ascoltare». O leggere, che è anche una forma di ascolto. Solo leggere, piegandosi verso l’elementare vibrazione delle parole, l’eco, il suono, il rimbombo. Accostandole, sovrapponendole.Vivere nella «vita delle parole», respirando dentro il loro stesso respiro.

Tutti i saperi del testo, il potente armamentario metodologico stratificato nel tempo, affilato, sperimentato, tutti i saperi vengono utilizzati e, al tempo stesso, azzerati. Come sfogliare via via un libro, assimilarne le pagine e buttarle via. Resta soltanto Shakespeare, una sola scena costantemente illuminata, in cui è l’uomo a essere rappresentato, o ascoltato. Naturalmente, ciò che è semplice, almeno nell’ordine delle umane cose, ed è a queste che qui ci atteniamo, ciò che è semplice è anche il più difficile. C’è una strada da percorrere, molta strada, e non sempre battuta. C’è un processo da fare. Ci sono ostacoli da superare e virtù da acquisire. Ma tutto accade nel corso dello «spettacolo», nel momento stesso in cui va in scena, lì, in quello spazio precario, quell’arena polverosa. Nell’arco di tempo dedicato al serio svago della «tragedia». Un inizio, una fine, in mezzo il mondo.Tutto il mondo. Basterà guardare per sapere, guardare e sentire, farsi trovare, farsi attraversare dalle emozioni che la rappresentazione sprigiona. Scintille, scosse. Cosa seria le emozioni. Sarà bene avvertire gli spettatori, come fa Marston nel prologo alla Vendetta di Antonio, e come fa Nadia Fusini riportando, nelle prime pagine del suo Di vita si muore, quelle parole di doveroso avvertimento, una specie di allarme. Attenzione! Pericolo! Gli indifferenti lascino la sala, fuori chi ha sentimenti saldi, alla porta chi si difende dalle passioni; restino, invece, gli uomini dall’animo accidentato, benvenuti i cuori instabili, le anime ansimanti, gli abitanti delle periferie del cuore, gli extra-comunitari del sentire. Quello che vedrete è per loro, è per voi; per loro, per voi è riservato il posto. Queste le parole di Marston: «E perciò proclamo: se c’è in questo cerchio/ Chi sia incapace di potenti passioni, / chi storca il naso e si rifiuti di conoscere/ come erano e sono fatti gli uomini,/ e preferisca non sapere come/ dovrebbero essere, che s’affretti/ a lasciare i nostri tetri spettacoli:/ si spaventerebbe. Ma se c’è un petto/ inchiodato alla terra del dolore, se c’è/ un cuore trafitto dalla sofferenza, in questo cerchio…/ sia il benvenuto». Chiaro, no? Questo teatro, quello di William Shakespea-

re letto e ricostruito, quasi patito da Nadia Fusini, mette in scena passioni che sono di tutti gli uomini («passioni che muovano l’anima, che gonfino il cuore e pulsino in petto, strappino le lacrime agli occhi più avari, strazino la mente»). Ma non sono per tutti gli uomini. C’è anche chi non vuole sapere «come erano e sono fatti gli uomini», secondo le parole di Marston. Conoscere, che è patire, non è per tutti. Conoscere può escludere dalla vita. E «di vita si muore».

Ma vediamo che cosa accade a chi non lascia il «tetro» spettacolo. Intanto cambia la luce. La metamorfosi comincia sempre dal luogo, solo dopo viene quella dei cuori. Come l’inizio di una tempesta, quando si alza il vento, un presagio, il rituale di un’attesa.Tutto cambierà, ma non sappiamo come. Sono lenti i mutamenti più incisivi, impercettibili. Per piccoli passi. Poco a poco cambia la luce, avanza l’oscurità, si fa buio. «La stanza si trasforma in una caverna buia». Ma abitata, affollata da incubi e fantasmi. A loro appartengono queste voci, sottili, sinistre, sgradevoli. Doppie. Ci viene incontro Bruto, «vessato da passioni» che lo lacerano. Porta la guerra dentro di sé. E in sé, nella sua «caverna», nelle cavità di un’anima desolata, Bruto trattiene un veleno della mente, che via via si fa infezione, cancrena, putrefazione. Le immagini sono il veleno che lo consumano. Vive d’immagini Bruto, ne è infestato. Vive nel loro niente, un tempo vuoto, votato all’allucinazione, tra «il pensiero e l’atto». Lì, si estende il tempo infinito, il tempo immisurabile. Lì niente consiste, tutto passa Nadia Fusini ma senza esito, e dunque tutto ristagna in e la copertina acque immobili, acque morte, maleodoranti. del suo libro «Tra il pensiero e l’atto» c’è un punto vuoto, un interstizio, un interim, dove ogni cosa si fa impalpabile, evapora, e tutto si dilata, si deforma. Bruto scivola, frana, precipita su quel terreno dove non c’è modo di fare presa. Sabbie mobili. Poi, Amleto. E il dolore si fa voluttà, il lutto languore. Come se nessuno di questi sentimenti, di queste passioni forti, facilmente riconoscibili e a lungo esplorate, fosse destinato a restare nel suo naturale solco. Forse - azzardo - le passioni, i sentimenti, non hanno

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un loro naturale solco, non hanno natura, sono di per sé inclassificabili, anche se qualche scienziato ancora si affanna a stendere disperanti tavole classificatorie in cui poi, inevitabilmente, è destinato a inciampare. Le passioni, i sentimenti, la loro ribollente materia, vive nel disordine che avvolge ciò che muta, ciò che si muove sotto il cielo. E, qui, nell’Amleto, il movimento è uscito dai suoi cardini. C’è un bellissimo verso dei Fiori del male di Baudelaire che dice: «Il mondo è uscito dai Numeri e dagli Esseri». E cioè non ha più misura, non ha sostanza. Nell’Amleto il movimento si fa «tragedia», questa la sorprendente indicazione di Nadia Fusini: l’Amleto «è soprattutto un dramma sulla natura del movimento»: «La questione del moto finito e infinito, la meraviglia, lo stupore di fronte al movimento, di fronte a una differente rotazione dei pianeti, della terra, sono assolutamente centrali nella struttura logica del secolo. La trasformazione intellettuale che ne deriva è strabiliante.Vertiginosa. Nell’Amleto il movimento del dramma è senz’altro accidentato, va a sussulti: il caso domina prevalentemente l’intreccio». Sussulti, azioni a vuoto, movimenti squilibrati senza un asse cui riferirsi. Shakespeare ne è colmo. Pare un sismografo impazzito a inseguire il suo «sciame». Dappertutto la terra trema, e trema il senso, trema perfino il tempo che pare azzerato, un orologio rotto. Le passioni sono lo specchio in frantumi di questo terremoto vasto come il mondo.

Amleto dopo Bruto, e poi Otello, re Lear, Macbeth, articolano il racconto del mondo scosso. E questo racconto è una «scienza nuova», forse simile ai gesti dell’anatomia, forse analoga alle procedure della sismografia, o forse, ed è più probabile, vicina all’«esercizio dell’ascolto» e alla «disciplina dello sguardo» di cui si è detto, e alla vita precaria delle parole, da cui Shakespeare estrae il «poco» o il «nulla dell’esistenza». «Un bottino scarso», dice Nadia Fusini giunta alle fine del suo lungo itinerario. Oppure un bottino ricchissimo, a giudicare da tutto quello che è passato davanti agli occhi dei nostri strabiliati e stralunati, storditi spettatori, quelli che hanno scelto di restare, i precari dell’anima, che pensano di aver vissuto guardando e hanno pianto vedendo passare ombre. Ma è così che accade in questi tempi in cui si è assottigliato non solo il confine fra realtà e finzione, ma anche quello fra tragedia e farsa. Questo occorre «sopportare».


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parola chiave

9 ottobre 2010 • pagina 13

MERITO erito, parola infida. Nasconde l’arroganza dell’uomo di fronte al grande mistero del libero arbitrio. È davvero possibile meritare qualcosa? Se sì, davanti a chi, agli uomini o a Dio? Qualcuno può stare davanti al Signore e dire «Mi devi questo perché l’ho meritato»? Quelli che pretendiamo essere i nostri meriti sono in realtà i doni che Dio ci ha elargito. Nessuno ha meritato di essere intelligente, volonteroso, bello, simpatico, capace, per non dire di quanto proviene da una nascita fortunata che porta con sé ricchezza, cultura, rapporti, conoscenza delle lingue, status sociale. Ogni talento ci viene regalato, nella concezione più radicalmente atea dal semplice caso, dall’incrociarsi dei cromosomi e da una culla fortunata. Lo stesso tutti sono pronti a sostenere che il merito va premiato, riconoscendo che ogni talento ricevuto può venire con coltivato maggiore o minore sapienza, costanza e dedizione. Anche se una gara di questo genere parte con qualcuno molto favorito. La parabola dei talenti sembra aggiungere un dato sconfortante. Dei tre servi ai quali il padrone, in partenza per un lungo viaggio, affida il compito di custodire i beni, è il terzo, quello che ha ricevuto di meno, a mostrarsi incapace di fare fruttare l’unico talento che gli è stato consegnato. A questo si accompagna l’ammonimento «A chi ha sarà dato, mentre a chi non ha sarà tolto anche quel poco». Un Dio ben strano e capriccioso sarebbe quello che prima assegna dei doni e poi giudica sulla base di quello che ha dato.

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Forse sbagliamo il punto di vista, quando arriviamo a queste conclusioni. Oppure la nostra prospettiva è viziata da un accoglimento del caso, per sua natura ingiusto, come dominatore della realtà. È lo stesso Cristo che minaccia di perdizione quelli che hanno poco, a pronunciare il discorso delle beatitudini, avvertendo di quali siano le vere ricchezze, di dove si nascondano i talenti che Dio ci affida. Che non si tratti di denaro le scritture lo ripetono spesso, i poveri sono più vicini a Dio dei ricchi, non solo nel racconto che si conclude con la considerazione relativa alle difficoltà del cammello a passare attraverso la cruna di un ago. Isaia scrive (25,4) «Tu sei sostegno al misero, al povero nella sua angoscia», Geremia

Si sostiene che vada premiato, a seconda che si coltivi il proprio talento con maggiore o minore dedizione. Ma solo se si riconosce la sua natura di privilegio si può comprendere il suo vero significato

Il dono e l’arbitrio di Sergio Valzania

Il senso del fare umano non può essere finalizzato alla gloria e al vuoto benessere personali. Occorre mantenere un rapporto tra meriti individuali e finalizzazione sociale del loro manifestarsi. Altrimenti si rischia che tutto si giochi solo sulla contesa anziché sulla collaborazione (20,13) afferma che Dio ha già «liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori», i Salmi confermano che Dio «si è messo alla destra del povero» (109,3), «difende la causa dei miseri, il diritto dei poveri» (140,13). Matteo e Luca (11,7 e 7,22) ricordano che «la buona novella è predicata ai poveri», mentre Giacomo scrive nella sua lettera «Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano?» (2,5). Frasi sulle quali dovrebbero riflettere quelli che abitano nei Paesi ricchi del mondo, che godono per nascita di grandi privilegi e che di frequente si accapigliano per avene di più ancora. Quello che si suole chiamare merito è una forma di privilegio, la sua natura

profonda consistere nell’essere un dono di Dio e acquista il suo significato solo dopo essere stato riconosciuto come tale. Non siamo più abituati alla vecchia locuzione «A maggior gloria di Dio», sotto la quale venivano comprese tutte le realizzazioni effettuate in epoche nelle quali la Sua presenza veniva colta come più prossima all’uomo di quanto non lo sia oggi, almeno nel nostro continente. Essa racchiude il senso del fare umano, che non può essere finalizzato alla gloria, e neppure al vuoto benessere, dell’uomo stesso. Il mondo non è una valle di lacrime, non è vero che siamo nati per la sofferenza, né Dio ha creato l’universo e vi ha posto l’uomo perché lo attraversi nel dolore. Una vita protesa alla gioia è un dovere prima che un diritto, una

risposta alla chiamata di Dio, un modo di cogliere il senso del Suo sacrificio, che è accoglienza su di sé delle nostre inadeguatezze, dei nostri limiti, dei nostri errori, dei nostri peccati quindi. Il grande dono di Dio all’atto della creazione sta proprio nell’averci resi liberi, quindi capaci di sbagliare, e nell’averci liberato anche dalle conseguenze ultime dei nostri errori. La questione sta nel fatto che la gioia non può derivare dalla sopraffazione, dall’egoismo, i doni di Dio elargiti in maniera misteriosamente diversa a tutti gli uomini non sono dati per divenire lo strumento della prepotenza di alcuni sugli altri. Essi sono dati per venire divisi. Perciò deve mantenersi un rapporto fra meriti individuali e finalizzazione sociale del loro manifestarsi. A nessuno è chiesta la santità, ma a nessuno è lecito un atteggiamento di totale insensibilità per i bisogni degli altri, la difesa esclusiva di beni che al fondo non gli appartengono.

Se il rapporto fra gestione dei talenti individuali e comunità si spezza il rischio primo sta nell’impossibilità del loro riconoscimento. Se i meriti sono una ricchezza personale non si vede perché l’uno sia tenuto a riconoscere quelli dell’altro. Anzi, ciascuno si sforza di far prevalere i propri, negando valore a quelli altrui. Si tratta di un’esperienza che stiamo vivendo, più o meno consapevolmente. Qual è il vero merito infatti, se lo si misura solo nell’ottica della sua capacità di garantire un’affermazione sociale in gara con tutto il resto del mondo? La bellezza, la spregiudicatezza, l’abilità nel giocare a calcio o in borsa sono qualità che valgono allo stesso modo dell’intelligenza, della capacità di studiare o del senso estetico. Quando i rapporti sociali si basano esclusivamente sulla contesa e mai sulla collaborazione, sul piacere del contribuire al progresso comune, ciascuno è legittimato a far valere i propri talenti come meglio gli riesce. È inutile allora pensare di imporre gerarchie diverse da quella dell’evidenza dei risultati. Se il denaro, la fama, il successo divengono la misura della riuscita di una vita, allora ogni mezzo è lecito per conquistarli e ciascuno usa i talenti di cui dispone in tal senso. Può capitare però che chi crede di aver accumulato molto rischi di trovarsi in realtà con poco, talmente poco che anche quello gli sarà tolto.


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Rock

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musica

LA VERA AVANGUARDIA? Il carpaccio di Lady Gaga di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi amma mia, come mi piacciono le band che non danno mai nulla per scontato! Come gli Arcade Fire di Montreal, capeggiati da Win Butler e da sua moglie Régine Chassagne che nel 2004, con Funeral, centrifugarono rock, sinfonismi, folk ed elettronica guadagnandosi un bel 10 con lode da parte di David Bowie. Il quale, l’anno successivo, nello special tv Fashion Rocks non mancò di dividere con loro il palcoscenico intonando Wake Up, Life On Mars e Five Years. Poi, alla pattuglia di aficionados di questo collettivo canadese (7 elementi) si sono via via aggiunti David Byrne, Bruce Springsteen, gli U2 e Chris Martin dei Coldplay. Merito del loro repertorio fatto di frementi sinfonie e fiammate rock, maestose orchestrazioni e chitarre acidule. Il pensiero, inevitabilmente, corre agli anni Settanta e Ottanta: all’Art Rock di Split Enz ed Electric Light Orchestra, alla New Wave darkeggiante di Echo & The Bunnymen e Psychedelic Furs. A Funeral, autentico fiore all’occhiello, ha fatto seguito (2007) l’altrettanto valido Neon Bible con le sue folate di fisarmonica, i suoi guizzi di pianoforte, le sue chiimbizzarrite. tarre Qualsiasi altro gruppo, dopo simili precedenti, avrebbe campato di rendita poppeggiando alla meno peggio. Gli Arcade Fire, invece, con The Suburbs chiudono idealmente il cerchio replicando la loro tattica vincente: al primo ascolto, cioè, dischi come questo ti lasciano di stucco. Non sai se dirne bene oppure male. Poi, però, ti conquistano e non riesci più a toglierteli dalla testa. Qui, realisticamente, si cantano i sobborghi: quelli di Woodlands, Texas, ai margini di Houston. Periferie dell’American Dream, dove il californiano Win Butler è cresciuto prima di trasferirsi a Montreal,

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Jazz

zapping

on è che il personaggio da queste parti riscuota tanta simpatia. Ma poi in fondo perché no? Lady Gaga non è propriamente una musicista, ma basta non considerarla tale per amarla almeno un po’. Le sue canzoni sono dimenticabili, e allora basta dimenticarle e (non prendeteci per fricchettoni post), guardare la sua esibizione su internet in cui canta con addosso un bikini fatto di carpaccio, cioè di carne cruda. Carne su carne, anzi carne su plastica pop, ché di plastica (o pongo) è fatto, ci scommettiamo, il corpo di questa stella in metamorfosi. Le fettine sono più carnali dell’incarnato; è un’inversione metaforica non di poco conto. E a proposito di plastica, leggiamo anche che la Lady è salita sul palco insieme alla Plastic Ono band dell’ineffabile Yoko. E qui le cose cominciano a farsi pericolose proprio per la vedova Lennon. Pensate: una vita intera a fare l’artista d’avanguardia, dischi inascoltabili pubblicati, provocazioni nel letto e fuori, teorizzazioni politologiche, appelli alla pace all’amore, una fama (meritata) di scassabeatles. E alla fine che succede: la non-musicista Ono si trova sul palco con Lady Gaga, che in fatto di provocazioni in un paio d’anni l’ha surclassata, vendendo anche molti più dischi di lei (col mercato, discografico e artistico la Ono ha litigato da piccola). Certo, dal punto di vista del prestigio nei tea party artistici la Ono è piazzata meglio, ma questo semmai dimostra un’altra cosa. Che il mondo intellettuale-radical delle mostre è ormai una succursale del pop da classifica. Insomma: avanguardia per avanguardia ormai quella dell’arte non ha più niente da dire da un pezzo e bisogna rivolgersi alle star patinate dell’ultima generazione, è meglio e costa meno. Anche per avere un po’ di carpaccio.

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Gli Arcade Fire I più bravi di tutti

che al confronto è un giardino pieno di rose senza spine. Non-luoghi. Sobborghi dove «prima costruiscono la strada e poi costruiscono la città», si canta in Wasted Hours. Paesi per vecchi, dove gli unici hanno le bambini «braccia incrociate» (City With No Children). Speranze? Zero. Però la musica cresce, si inorgoglisce pezzo dopo pezzo, si mette a urlare che potrà esserci un futuro. Basta cercarlo, tra quelle file omologate di case. Ecco, allora, la title-track: ballata soffice, da mandar giù a memoria, con un tocco di follia alla Split Enz. Da qui, si dipanano sequenze musicali degne d’un film neorealista: la martellante, ma poi sempre più rallentata Ready To Start; il rock sfuggente di Modern Man, memore di Tom Verlaine e dei Television; la melodrammatica, rumorista Rococo; Empty Room, coi suoi

violini a pioggia e i suoi ceffoni punk; l’epica City With No Children, inno che bisognerebbe proporre a Bruce Springsteen; Half Light 1 e Half Light 2: sinfonia d’archi la prima, che s’immalinconisce pedinando il folk; cortocircuito elettrico la seconda: U2 e un battito elettronico che ricorda Giorgio Moroder. E ancora, inanellando emozioni contrastanti, la «springsteeniana» Suburban War; il rock & roll torrenziale di Month Of May; una ballata cristallina (Wasted Hours: leggi Neil Young) e una ballata asprigna (Deep Blue); il piano che incornicia We Used To Wait e Paul McCartney + Jacques Brel che si rincorrono in Sprawl 1 (Flatland), mentre Sprawl 2 (Mountains Beyond Mountains) si mette a citare con sapienza Heart Of Glass dei Blondie. The Suburbs (Continued), è il capitolo finale. Apocalittico e sognante come i 7 di Montreal. Dire che sono i più bravi di tutti, non è più un azzardo. Arcade Fire, The Suburbs, Mercury/Universal, 14,90 euro

Quei grandi bianchi dimenticati dalla storiografia on Il Jazz. L’era dello swing. Le orchestre bianche e i complessi si è finalmente conclusa, per i tipi della EDT di Torino, l’opera omnia di Gunther Schuller nella traduzione di Marcello Piras. Sei volumi che coprono l’intero arco del jazz dalle origini alla fine dell’era dello swing. Si tratta della più esaustiva storia di quel periodo, mai pubblicata fino a oggi. L’ottantacinquenne musicista e musicologo americano aveva iniziato a occuparsi di jazz quando, dopo essere stato cornista nell’orchestra del Metropolitan di NewYork diretta all’epoca da Arturo Toscanini e compositore di musica atonale, si trovò il 13 marzo 1950, quasi inaspettatamente, a ricoprire il posto di corno francese nel corso dell’ultima seduta per Capitol dell’ottetto di Miles Davis. Quel giorno Davis con Jay Jay Johnson, Lee Konitz, Gerry Mulligan, John Lewis, Al McKibbon e Max Roach registrarono le ultime quattro pagine di

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di Adriano Mazzoletti quel gruppo di composizioni che in seguito furono pubblicate in un album dal titolo The Birth of the Cool. Gli arrangiamenti di Miles Davis, Gerry Mulligan e Gil Evans di Deception, Rocker, Moon Dreams e Darn That Dream prevedevano anche la presenza di un corno francese e di un basso tuba. Per il primo venne scelto Gunther Schuller. Fu una scelta felice soprattutto per Gunther che si trovò in un ambito musicale per lui sconosciuto che lo colpì profondamente. Già nel 1951 era ormai inserito nel mondo musicale del jazz, non solo come strumentista, ma anche arrangiatore, compositore e direttore d’orchestra. Musicologo sentì la necessità di approfondire la conoscenza di tutto ciò che il jazz aveva creato dal suo apparire. Nel

1968 pubblicò Early Jazz: Its Roots and Musical Development, un volume di 500 pagine dove per la prima volta venivano analizzate, trascrivendo su pentagramma anche parti di assolo, le opere incise dal 1917 agli anni Trenta, da parte di musicisti noti come King Oliver, Jelly Roll Morton e Louis Armstrong, ma anche di altri meno noti e studiati come Sam Morgan, un eccellente solista di tromba i cui

lavori discografici erano rimasti nell’ombra. Ventitre anni dopo, Schuller pubblicava il secondo volume, The Swing Era: The Development of Jazz, 1930-1945. Questi due libri, dal 1996, sono stati pubblicati in sei tomi dalla EDT: il primo dedicato alle Origini, il secondo al Periodo classico, il terzo ai Grandi maestri, il quarto alle Grandi orchestre nere, il quinto ai Grandi solisti e infine il sesto alle Grandi orchestre bianche. Nell’ultimo pubblicato da pochi giorni, Schuller esamina con grande intuizione l’opera di Woody Herman, Artie Shaw, Glenn Miller e di altre orchestre e complessi che spesso la storiografia del jazz aveva ignorato o dimenticato. Gunther Schuller, Il Jazz. L’era dello Swing. Le orchestre bianche e i complessi - Glenn Miller, Artie Shaw, Woody Herman, Nat King Cole, EDT, 288 pagine, 18,00 euro


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arte concettuale è indubbiamente il movimento artistico che ha avuto maggiore influenza sull’arte degli ultimi cinquant’anni e continua mietere successi tra le nuove generazioni di artisti. È l’arte del concetto puro, l’arte che non ha come obiettivo ultimo la creazione di immagini, ma l’esposizione del pensiero attraverso immagini, oggetti, situazioni. Attingendo dalla filosofia, dalla semiologia, dalla linguistica, l’arte concettuale è una moderna interpretazione del principio leonardesco secondo cui l’arte «è cosa mentale». La mostra The Panza Collection. Conceptual Art è un grande evento sull’arte concettuale, attraverso cui il Mart, il Museo di Trento e Rovereto, rende omaggio a uno dei più grandi collezionisti internazionali di arte concettuale (ma non solo) del secondo dopoguerra, scomparso di recente: Giuseppe Panza di Biumo. La mostra prevede circa sessanta opere di artisti di fama internazionale, tra cui Robert Barry, Hanne Darboven, Jan Dibbets, Hamish Fulton, Robert Irwin, Joseph Kosuth, Lawrence Weiner, Sol LeWitt, David Tremlett, Franco Vimercati, Ian Wilson, Peter Wegner, tutte opere appartenenti alla collezione del conte Panza di Biumo, grande sostenitore del Mart fino dalla metà degli anni Novanta. Idealmente l’arte concettuale ha le sue radici nel dadaismo francese dei tre grandi artisti Marcel Duchamp, Man Ray e Francis Picabia. I tre dadaisti hanno prosciugato l’arte portando in primo piano il pensiero e il concetto rispetto all’immagine riprodotta. È stato nel 1961, grazie all’artista del gruppo Fluxus, Henry Flint, che è nato il termine «Arte concettuale» coniato da Flint per teorizzare un’arte nella quale le idee e i concetti prevalessero sulla dimensione estetica e

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L’

Architettura

Quando l’arte è cosa mentale di Angelo Capasso percettiva dell’opera d’arte. Ma è sul finire degli anni Settanta che l’arte concettuale assume un ruolo di primo piano, anche grazie a movimenti come Art & Language e artisti come John Kosuth e Sol Lewitt. L’opera d’arte per gli artisti concettuali è formulata come un progetto; la sua dimensione ideale, astratta deve prevalere su quella estetica, percettiva e tangibile. L’oggetto d’arte quindi diventa importante in quanto manifestazione e rappresentazione del pensiero, e resta quindi del tutto slegato dall’esecuzione. Si viene a delineare così un nuovo tipo di estetica, che si scontra direttamente con il modo di

fare arte inteso in senso tradizionale: un’estetica concreta e in aperta opposizione con la produzione artistica tradizionale. Uno dei principi fondamentali dell’arte concettuale è inoltre lo schierarsi contro le regole del mercato, del capitalismo dell’arte. Esso, infatti, rappresenta il mondo del consumo che muta le opere da arte in merce da vendere. L’arte, invece, secondo gli artisti concettuali, deve essere intesa come rappresentazione del pensiero, della sua libertà e impossibilità a essere coagulato in un semplice quadro o oggetto d’arte. Ne è un esempio One and three chairs di Joseph Kosuth (1965), un’o-

pera in cui la «sedia» è presente sotto tre diverse forme: l’oggetto che usiamo quotidianamente, una sua riproduzione fotografica e la sua definizione presa da un vocabolario. L’opera, in pura tradizione concettuale, è una riflessione sul linguaggio e sulla rappresentazione di esso. In quest’opera abbiamo l’idea di sedia, cioè un noumeno non esistente nel mondo fisico, usando la terminologia kantiana, e le possibili rappresentazioni della stessa nel reale: una sedia vera, una fotografia e la definizione di sedia data dal linguaggio umano. Tutti e tre tentativi e interpretazioni di un concetto, di un’idea. Ha scritto Giuseppe Panza: «Usiamo suoni, segni e immagini per esprimere la nostra volontà, i nostri pensieri e le nostre emozioni, nonché per comprendere quelli degli altri. È una condizione fondamentale per vivere e per costruire una società, ma come può esistere tutto questo in una società solo con un unico strumento, le parole, siano esse scritte e pronunciate oralmente?». Si tratta di una domanda importante che centra perfettamente il valore che l’arte concettuale ha avuto negli ultimi cinquant’anni di cultura artistica. Oltre che alla villa varesina, in Italia la più grande raccolta di opere del conte Giuseppe Panza di Biumo è conservata fra il Mart di Rovereto e il Palazzo Ducale di Sassuolo, ma la grande collezione Panza di Biumo oggi è fruibile al pubblico in alcuni dei più importanti musei del mondo. Ciò a dimostrazione che con le sue collezioni Panza di Biumo ha fornito un modello per altri musei contemporanei: l’idea di costruire le loro collezioni permanenti aggiungendo gruppi coerenti di opere, che si possono assemblare solo grazie alla rigorosa concentrazione dei grandi collezionisti su determinati artisti e periodi.

The Panza Collection. Conceptual Art, Mart, il Museo di Trento e Rovereto, fino al 27 febbraio 2011

Con Tobia Scarpa nel laboratorio di “Casabella” Milano è nato un nuovo spazio per conferenze, esposizioni e mostre dedicate all’arte e all’architettura. Promotrice dell’iniziativa è la storica, leggendaria, rivista di architettura Casabella, che dal 1928, anno della sua fondazione, costituisce un termine di riferimento per la cultura architettonica italiana e internazionale. Francesco Dal Co, che da oltre un decennio ha riportato alla grande tradizione Casabella esporta l’eleganza grafica e l’accuratezza pro-

A

di Marzia Marandola gettuale che distingue la rivista nel nuovo spazio milanese, denominato Casabella Laboratorio. diretto dalla giovane Carlotta Tonon, redattrice di Casabella. Situato in via Marco Polo 13, in un piccolo edificio manifatturiero dismesso, articolato da un atrio, un ampio salone e un piccolo giardino ombreggiato da una pergola di vite, il nuovo spazio espositivo è serrato tra vecchi alti edifici di abitazioni operaie e il grande cantiere delle Varesine, dietro Porta Nuova. L’ambiente espositivo, a pianta rettangolare, inserito tra due cortili aperti, è spartanamente allestito dallo studio Tassinari/Vetta, grafici di Casabella, con espositori a struttura metallica e vetro, della Unifor, illuminati da corpi luce Guzzini: le due imprese sono anche sponsor del progetto. A inaugurare lo spazio è stata allestita la mostra Tobia Scarpa. Monili per San Lorenzo (fino a oggi): dedicata ai gioielli e ai relativi disegni di progetto, realizzati dall’architetto e designer veneziano Tobia Scarpa. La piccola e incantevole mostra è interamente dedicata alle eleganti composizioni di forme geometriche pure, di volumi perfetti; come sferette, cilindri e fili metallici, elementi

spesso direttamente estratti dalla meccanica, ingentiliti dalle grazia del disegno, dalla preziosità della materia (argento, pietre dure e murrine) e dalla accuratezza sofisticata della lavorazione. Anelli rettangolari con castone a pentagramma dove si incastrano sferette metalliche configurano una composizione a metà tra un pallottoliere miniaturizzato e un meccanismo a cuscinetti a sfera; collane «conchiglie» e ad «arco» imprimono il disegno a eleganti monili, realizzati dalla storica manifattura San Lorenzo, che da quarant’anni realizza gioielli sofisticati. Figlio del grande architetto Carlo,Tobia è progettista di molte architetture, come testimonia il corposo e accurato volume, dalla grafica dinamica e divertente di Roberto Masiero e Michela Maguolo con Evelina Bazzo, Afra e Tobia Scarpa architetti 1959-1999.Tobia Scarpa architetto 2000-2009 (Electa, 528 pagine, 100,00 euro).Tra i progetti troviamo case e fabbriche, parti di città e nuovi edifici, restauri e oggetti di arredo e di design, gioielli e mazze da golf, vasi di vetro ed etichette per il vino.Tobia Scarpa collabora con la moglie Afra Bianchin fino al 1999, per proseguire poi in solitario la progettazione. Alla chiusura della mostra di Scarpa si avvicenderà, dal prossimo venerdì 15 ottobre, l’esposizione dedicata a due personaggi: l’architetto e designer Michele De Lucchi e il fotografo e artista belga Filip Dujardin dal titolo Vero, falso, verosimile.


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Musicalmente coraggioso, creativo, spesso e volentieri geniale, libero pensatore e pacifista. Oggi avrebbe spento 70 candeline. Se l’8 dicembre di trent’anni non fosse stato ucciso da un fan a New York. Ricordo del più eclettico dei Fab Four, a cinquant’anni dal primo concerto della band col nome di Beatles e a quaranta dallo scioglimento. Un marchio, quello dei quattro di Liverpool che segna uno spartiacque…

il paginone

Prima e dopo LENNON

di Stefano Bianchi ieccola, Yoko Ono. Proprio oggi atterrerà sull’isola islandese di Vioey, non lontano da Reykjavik, per riaccendere la Imagine Peace Tower. Lo fa ogni 9 ottobre, dal 2007, quando fece incidere su un pannello la scritta I dedicate this light tower to John Lennon. My love for you is forever, Yoko Ono. Anche stavolta, farà rivivere le colonne di luce con le parole Imagine Peace tradotte in ventiquattro lingue. Stavolta, però, è un 9 ottobre particolare: John Lennon avrebbe compiuto settant’anni se la sera dell’8 dicembre 1980 quello psicopatico di Mark Chapman non gli avesse sparato addosso cinque revolverate. Settant’anni dalla nascita e trenta dalla morte. Una doppia ricorrenza che ha messo in moto la Definitiva Santificazione Lennoniana, che come tutte le Santificazioni del Rock è fatta di buone cose ma anche di colossali patacche: come la recente vendita alla Beatles Convention di Liverpool, per undicimila euro e passa, del WC di casa Lennon a

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anno III - numero 36 - pagina VIII

Tittenhurst Park, utilizzato dal ‘69 al ‘72. O la penna stilo griffata Mont Blanc, col simbolo della pace tatuato sul pennino, la clip a forma di manico di chitarra e una targhetta con inciso il suo celebre autoritratto.

Nel bene o nel male (purché se ne parli), ecco l’inizio e la fine di John Winston Lennon. Che il destino ha voluto fossero anticipati, nei mesi scorsi, dal prologo (cinquant’anni fa) e dall’epilogo (quaranta) dei Beatles. 17 agosto 1960: il gruppo si esibisce per la prima volta con un contratto a nome The Beatles all’Idra di Amburgo, sulla Große Freiheit vicino alla Reeperbahn, via a luci rosse del quartiere di St. Pauli. 10 aprile 1970: a poche settimane dall’uscita del long playing Let It Be, Paul McCartney annuncia alla stampa di non voler più incidere dischi coi Beatles. Ma la premiata coppia Lennon/McCartney, in realtà, era già scoppiata dal ‘68, da «separati in casa». Lo scorso 10 aprile, fra l’altro, l’Osservatore Romano non solo ha riabilitato i Fab Four («Attraverso la loro musica quei quattro ragazzi di Liverpool, splendidi e imperfetti, sono stati capaci di leggere e di esprimere i segni di un’epoca che a tratti hanno persino indirizzato, imprimendovi un marchio indelebile. Un marchio che segna lo spartiacque tra un prima e un dopo. E dopo, musicalmente, nulla è più stato come prima»), ma ha dato un bel colpo di spugna a ciò che John Lennon esternò, il 4 marzo ‘66, al London Evening Standard: «Non so chi morirà per primo, se il Rock and Roll o il cristianesimo. Ma ora siamo più popolari di Gesù Cristo». Yoko Ono, oggi più che mai, tiene sotto controllo il mito. E i beatlesiani continuano a vederla come il fumo negli occhi: Yoko la cinica, l’opportuni-

sta, la responsabile dello scioglimento dei Beatles. «Lei è il mio professore, io il suo allievo», affermò John Lennon. «Ho la notorietà, ma è lei che mi ha insegnato tutto. Ho una mano destra, una mano sinistra e Yoko. Anzi: Yoko sono io». Immedesimazione totale. I beatlesiani, prima o poi, dovranno pur farsene una ragione. Se il Lennon post-Beatles non si è adagiato sugli allori, il merito è anche dell’artista concettuale già coinvolta nel movimento Fluxus, conosciuta il 9 novembre ‘66 all’i-

redato dalla celebre, scandalosa copertina che li ritrae totalmente nudi), Life With Lions e The Wedding Album, registrati insieme nel ‘68 e nel ‘69, sono dischi impossibili da digerire. Ma rappresentano l’incipit dell’artista che verrà: musicalmente coraggioso, creativo, spesso e volentieri geniale. E libero pensatore. E pacifista.

Dal 25 al 31 marzo ’69, nella camera 1902 dell’Hotel Hilton di Amsterdam, con Yoko dà vita a una particolarissima luna di

prese di posizione estremiste della coppia, negano il permesso di soggiorno negli Stati Uniti. Green card che John & Yoko otterranno, dopo estenuanti rinvii, nel ‘75. E ancora: il sostegno alle Black Panthers, al movimento femminista americano… Yoko Ono, in memoria di John, tira dritto e gestisce le celebrazioni da par suo. Dando cioè una bella riverniciata al mito, a cominciare dal canzoniere. La settantasettenne, anzitutto, ha voluto mettere le cose in chiaro evi-

Stasera Yoko Ono riaccenderà la Imagine Peace Tower come ogni 9 ottobre. Ma questa volta la celebrazione prevede moltissime altre iniziative. Come la rimasterizzazione dell’opera omnia da solista di John naugurazione di una sua mostra all’Indica Gallery di Londra. Fra i due è amore a prima vista, coronato dalle nozze del 20 marzo ‘69 a Gibilterra, dopo il divorzio di Lennon da Cynthia Powell e di Yoko da Anthony Cox. Lei lo «ipnotizza» dal punto di vista emotivo e culturale. Ma lui ha bisogno di una figura materna, oltre che di una moglie, per potersi riscattare da un’infanzia difficile. Con lei, John è meno fragile. E si scopre addosso la voglia di sperimentare. Certo: Two Virgins (cor-

miele: un Bed-In sulla pace nel mondo e contro le dissennate spese militari. Ne seguirà un altro al Queen Elizabeth Hotel di Montreal, dal 26 maggio al 2 giugno, con registrazione di Give Peace A Chance inclusa: dal vivo, fra le lenzuola, con la partecipazione straordinaria ai cori di Allen Ginsberg, Timothy Leary, Petula Clark, fotografi, giornalisti e hare krishna. E poi le battaglie a favore di Bob Sinclair e Angela Davis. Nel ‘72 il governo Nixon e l’Fbi, intimoriti dalle

denziando: «In questo anno molto speciale che avrebbe visto il mio marito e compagno di vita compiere settant’anni, mi auguro che questo programma di ristampe rimasterizzate possa avvicinare le nuove generazioni alla sua incredibile musica. Spero, poi, che queste centoventuno tracce che coprono l’intera carriera solista di John permettano a chi ha già familiarità con le sue opere di ricavare rinnovata ispirazione dalle sue incredibili doti di cantautore, musicista e can-


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Quel revolver in bianco e nero di Claudio Trionfera inque proiettili nella sera fredda di New York, solo uno fuori bersaglio, l’aria già elettrica e croccante del Natale in arrivo, quel Natale del 1980. «Hey Mr. Lennon, sta per entrare nella storia» aveva appena gridato Mark Chapman prima di sparare davanti all’ingresso del sontuoso Dakota Building sulla 72ª nell’Upper West Side. Era là che John Lennon abitava e stava rientrando per l’ultima volta accanto a Yoko Ono, dopo essere uscito dallo studio di registrazione dove aveva da poco inciso Double Fantasy che Chapman, poche ore prima, si era fatto autografare. E fu così che la leggenda dei Beatles si spezzò veramente. «Fisicamente». In un folle, esoterico incrocio di numeri e di presagi, di suoni e di simboli, come quello del revolver che aveva ucciso Lennon e richiamava il titolo del vinile numero sette della discografia dei Beatles, uscito nell’estate del ’66 con una indimenticabile copertina in bianco e nero e soprattutto Eleanor Rigby e il sitar e il rock psichedelico esibito per la prima volta. Quella notte dell’8 dicembre aveva risucchiato in un vortice scuro ricordi e musica e perfino la speranza lontana di rivederli, un giorno, tutti insieme di nuovo sullo stage. Risacca di lacrime e di nostalgia tra i lumini dei fans attorno al simbolo spirituale della band che aveva cambiato il mondo e la lunghezza dei capelli. E che con quella definizione - fusione di beat e beetles dunque coleotteri-beat - inventata proprio da John campione di calembour, aveva concluso una serie di passaggi attraverso quei nomi che erano stati una sorta di percorso di avvicinamento: da Johnny and the Moondogs, Quarrymen, Long John and

C

Alcune copertine dei dischi da solista di John Lennon. Accanto il musicista ausculta simbolicamente la condizione del mondo. Nelle altre immagini tre momenti-simbolo dell’opera dei Beatles: quello di “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band“ (1967), di “Abbey Road” (1969) e di “Yellow Submarine” (1969)

tante e dal suo carismatico potere di esprimersi sulla condizione umana. I suoi testi, oggi come allora, sono fondamentali. E io non potevo che intitolare questo progetto con le sue semplici, e ancora dirette parole: Gimme Some Truth». Datemi un po’ di verità, cantava Lennon nel ‘71 in una delle più intense canzoni di Imagine: «Sono stanco e disgustato di sentire discorsi da ipocriti conformisti, gente dalla vista corta, dalla mente limitata. Tutto quello che cerco è la verità. Datemi solo un po’ di verità…».

E le tante, lennoniane certezze trovano spazio nel florilegio di dischi che l’etichetta Emi ha prontamente pubblicato. Incisioni strutturate su fragori e melodie, avanguardia rock e pop d’autore. Capolavori, grandi e piccoli, che sempre hanno scandito l’imprevedibilità caratteriale di Lennon: uomo e artista tenero, collerico, romantico, nevrotico, passionale. C’è Power To The People - The Hits (versione singola, 19,50 euro; Experience Edition con cd e dvd, 21,50 euro), che raccoglie quindici fra i suoi più famosi successi: da Woman a Imagine, transitando per Mind Games, Happy Xmas (War Is Over) e Whatever Gest You Thru The Night. Ci sono i quattro cd a tema di Gimme Some Truth

(41,90 euro), efficacemente intitolati Roots: John’s Rock’n’Roll Roots And Influences; Working Class Hero: John’s Socio-Political Songs; Woman: John’s Love Songs e Borrowed Time: John’s Songs About Life. C’è l’opulenza del John Lennon Signature Box (164,90 euro), cofanetto di undici cd che sciorina uno dopo l’altro gli otto album solisti rimasterizzati in digitale negli Abbey Road Studios di Londra e negli studi Avatar di New York: John Lennon/Plastic Ono Band del ‘70, incisione al vetriolo; Imagine, ‘71, classico fra i classici; il doppio, radicale Some Time In New York City, ‘72, registrato dal vivo, che inanella pezzi furenti e politicizzati; Mind Games, ‘73, l’esatto opposto: crepuscolare, morbido, intimista; Walls And Bridges,‘74, idem come sopra, più pop che rock; Rock’n’Roll, ‘75, scrigno di classici anni Cinquanta brillantemente rivisitati; Double Fanta-

sy, ‘80, sette canzoni pop & rock per John e altrettante per Yoko; il postumo Milk And Honey,‘84, che sublima con tenerezza l’amore eterno della coppia. A questi, vanno aggiunti un extended play coi singoli che non sono mai stati inclusi su album (sei: da Power To The People a Give Peace A Chance) e un altro disco pieno zeppo di rarità e incisioni casalinghe come Love, God, Nobody Told Me, One Of The Boys, Serve Yourself e I Don’t Wanna Be A Soldier Mama I Don’t Wanna Die.

E come se non bastasse, Double Fantasy rivede la luce anche nella versione «spogliata» (21,50 euro) remixata ex-novo da Yoko Ono e Jack Douglas, già co-produttori insieme a Lennon del mix originale. «Double Fantasy

the Silver Beetles, Silver Beates, Silver Beats, Silver Beetles. Impasti quasi magici e misteriosi di numeri, di ricorrenze, di segni del destino marcati allo scadere dei decenni, ritmiche rotonde a seguire la musica nella scrittura armonica che non ha soluzione di continuità. Oggi Lennon avrebbe 70 anni - era nato la notte del 9 ottobre del ‘40 al Maternity Hospital in Oxford Street, durante un bombardamento tedesco - ed è morto da trenta. Settantenne anche Ringo Starr. Nel 1960, dunque cinquant’anni fa, il primo concerto del gruppo col nome fatidico di Beatles. Dieci anni dopo, lo scioglimento e l’inizio di carriere separate e soliste. Sembra che una regia invisibile abbia giocato coi numeri del tempo per rendere tutto ancora più «leggendario». D’altra parte quella di John è destinata forse a restare la leggenda più duratura, insieme con quella di tutto il gruppo. Era il ribelle dalla giovinezza tormentata, era colui che, da artista totale, determinava le «svolte» dei Beatles a ondate progressive, dall’epopea orientale a quella pacifista, ai rivoli psichedelici, al matrimonio con Yoko Ono che cancellava il passato di Chyntia Powell. Un impulso intellettuale inesauribile e irrequieto dall’alba al tramonto, motore perfino di quello scioglimento prematuro della band: era il 1970 e lui con la mente era già lontano, immerso in prospettive altre. Resta la musica. E restano le parole, anche quello yeah-yeah che aveva fatto di She Loves You una sorta di inno generazionale. Resta, non cancellabile, un po’ struggente e crepuscolare, effimera e perpetua allo stesso tempo, la sua Imagine visiva e sonora, ancora capace di provocare emozioni.

Stripped Down permette di focalizzare i sorprendenti vocalizzi di John», puntualizza la giapponese. «Ho voluto utilizzare nuove tecniche per dar forma a questi incredibili brani rendendo la sua voce più essenziale e “nuda” possibile. Dopo aver eliminato il suono di qualche strumento, il potere d’ogni singola canzone ha cominciato a brillare d’una nuova luce». Spostandoci più in là col tempo, giusto a metà strada fra la prima e la seconda celebrazione, il 12 novembre al Beacon Theatre di New York andrà in scena The 30th Annual John Lennon Tribute, organizzato dall’associazione benefica Playing For Change Foundation, che vedrà alternarsi sul palcoscenico Patti Smith, Jackson Browne, Cyndi Lauper, Joan Osborne, Shelby Lynne, The Kennedys e altri artisti. Dieci giorni dopo, l’emittente americana Pbs manderà in onda Lennonyc, il documentario diretto da Michael Epstein che racconta l’arrivo e la permanenza dell’ex Beatles a New York: dal domicilio del ‘71

nel Greenwich Village, fino al mortale agguato dell’80. Il tutto corredato dalle testimonianze dell’immancabile Yoko, Elton John, musicisti degli Elephant’s Memory che suonarono con John & Yoko dopo aver partecipato alla colonna sonora del film Un uomo da marciapiede, del presentatore televisivo Dick Cavett e del fotografo Bob Gruen.

Di Paul McCartney, neanche l’ombra: «Se avessi inserito anche lui», ha dichiarato il regista, «il film si sarebbe sbilanciato troppo sulla relazione fra i due. Così, invece, è al cento per cento John Lennon». Ultima annotazione: oggi, al Rock and Roll Hall of Fame and Museum di Cleveland, verranno sigillate tre «capsule del tempo» che racchiudono preziosi «reperti»: tutte le registrazioni del dopo Beatles, le copertine degli ellepì, regali dei fans, memorabilia e altri oggetti-chiave… Due rimarranno a Cleveland, una prenderà il volo per Liverpool, destinazione John Moores University School of Art & Design. Tutte e tre, verranno riaperte il 9 ottobre 2040, quando scoccherà il fatidico centenario. Chi vivrà, vedrà. Di sicuro, mancherà la vedova.


Narrativa

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Belle Poitrine

seguire le vicende, divertenti e leziose, di Belle Poitrine con destino da attricetta viene spesso in mente Marilyn Monroe quando sullo schermo era così ingenua o fintamente ingenua da parere una scema. La Belle di cui parliamo è la protagonista di una biografia sotto forma di autobiografia di Belle Schlumpfert, nata nella bifolca cittadina di Venezuela (Illinois), poi sbalzata nella Chicago delle «sciccherie», un termine, questo, che la starlet fisicamente ben dotata usa di continuo. Una storia di vita con un sense of humor sempre offerto come se fosse involontario: e qui sta la bravura di Patrick Dennis. L’autore (1921-1976) scrisse questo testo, Povera piccina, nel 1961 dopo aver goduto del grande successo piovutogli addosso con Zia Mame (nel 1956), che la Adelphi ha fatto conoscere agli italiani poco tempo fa. Non siamo certo ai fuochi d’artificio letterari del precedente romanzo, ma Dennis corre disinvolto sulla corda della leggerezza arguta. Il rischio del tono ripetitivo indubbiamente c’è, ma ha la gravità continua del difetto. Belle è talmente sprofondata nella sua stupidaggine mascherata con chiffon che è facile credere agli applausi tributati all’omonimo spettacolo messo in scena a Broadway da Neil Simon e Bob Fosse. Belle è entusiasta del mondo fin da quando apre gli occhi, grata a «Mammina» (il padre non l’ha mai conosciuto), la donna che le ha inculcato il brivido di essere sempre in scena. Una fille de joie nel senso letterale, anche quando nella realtà lo diventava secondo l’accezione che questo termine ha nella lingua francese. Lei, che non la racconta mai giusta, ammette di aver «intrattenuto» bei giovanotti e ricchi signori, ma guai a essere scambiata per «una di quelle». Già questo guaio era capitato a Mammina nell’ammuffita e ottusa Venezuela (novemila abitanti) solo per il fatto che lei, «un fiorellino del Sud», rallegrava i pomeriggi di alcuni uomini nella disinibita residenza di Madame Louise. Fin da quando sgambetta per le strade, la precocemente flessuosa Belle capisce «che il destino che aveva in serbo era una carriera da grande attrice drammatica». Immagina esordi strabilianti: «Il mio unico scopo nella vita è stato esibirmi, regalare al pubblico americano felicità e sorrisi, tormenti e lacrime». Si sente già «esibita» quando un maturo signore le mette la mano sulle ginocchia, al cinema. Lei ha undici anni, va matta per il cinema.

libri

Patrick Dennis POVERA PICCINA Adelphi, 341 pagine, 22,00 euro

A

importa se solo di Chicago, debba essere sempre descritto con abbondanza di parole francesi, anche questo è «sciccheria». Tutto quel che le pare attraente è «carinissimo»: il topo di campagna finalmente veste abitini attillati. Ha l’illusione d’aver sposato un riccone, poi si trova moglie del soldato Poitrine, occhialuto, gracile, zoppicante, e poco dopo vedova di lui. Ma tutto è teatro, per Belle. Anche quando va in carcere, anche quando spara al ricattatore che ha in mano le sue foto hard, anche quando il suo livello di vita scivola fino alla miseria e all’alcolismo. C’è poi la resurrezione, come capita nelle storie americane. Belle trova la fede e un’incrollabile fiducia in sobrie regole di vita. «Alla fine ho vinto io» dice. È comunque appagata. La donna che conquistò una certa fama, di cui parla Dennis, è anche l’insieme delle parti interpretate nella vita, professionale e di spettacolo, di Jeri Archer. Nei panni, appunto di Belle Portine, di Mammina, di Pupina e di Divi. Sul come sia nata l’idea di questa falsa autobiografia, ce lo spiega Matteo Codignola nella postfazione: Dennis incontrò il fotografo Cris Alexander, rimase incuriosito dalle foto di tante attrici. «Partì più che da una storia da una serie di immagini». Nacque così la vita di «una star sui generis, di nascita discutibile come Billie Holliday, di inizi oscuri come Lucile LeSuer (in arte Joan Crawford), di carattere non accomodante come Bette Davis. Una star che avrebbe trasformato tutto quanto toccava in un’immane e risibile catastrofe, secondo l’invidiabile legge solo americana in base alla quale nello spettacolo non conta la presunta“qualità”, ma lo spettacolo di per sé». Un’opera buffa le foto di Alexander, quasi a rasentare la formula del rotocalco.

il destino di un’attricetta

Riletture

Dopo “Zia Mame”, “Povera piccina”: una storia di vita piena di umorismo apparentemente involontario di Pier Mario Fasanotti Afferra al volo quell’occasione che proprio limpida non è. Seguono le cosiddette «foto artistiche», poi una sgangherata quanto osé pellicola dove compare come contadinella senza veli. Imbarazzo, ma poco male: «La mia corsa verso il successo era cominciata». In avanti va, tra alti e bassi, tra un début e l’altro. Ovvio che l’haute monde, non

Santucci, Orfeo e il coraggio della memoria

iene ristampato Orfeo in Paradiso di Luigi Santucci che vinse nel ’67 il Premio Campiello. È l’opera più importante che Santucci ci abbia dato da un versante lirico e poetico dove la memoria e il tempo scorrono anche drammaticamente. Orfeo è un giovane che ha perduto la madre, Eva, e non si dà pace arrivando alla disperazione. Si aggira all’inizio del romanzo tra le guglie del Duomo di Milano con l’intenzione di buttarsi giù e suicidarsi. In sogno tornano in mente a Orfeo i momenti di quella disperazione: e ancora sul Duomo: «In verità le guglie, le tettoie e il Duomo tutto sembravano fatti di quella caligine chiara e opaca, le sue pietre non erano che nebbia rappresa, era come se la Cattedrale fosse un enorme mantice di nebbia e la spandesse sulla città intorno fino alle estreme casupole». Così nel sogno. Quanto a Milano, patria di Santucci, è il luogo dove nel ’63 aveva ambientato anche Il velocifero. Mentre Orfeo pare deciso a farla finita con la vita, compare un signore che verrà chiamato Des Oiseaux, il quale resterà presente poi per tutta la narrazione inviando via via lettere di consenso e di approvazione per il comportamento di Orfeo che dopo quell’incontro non pensa più al

V

di Leone Piccioni suicidio. Si tratta di «comprendere il problema del tempo…: la riconquista del tempo passato, da Lei compiuta è un’operazione che a Lei può sembrare magica ma lo è più in apparenza che in realtà. Il passato appartiene di fatto e di diritto, come il possesso reale, all’uomo e quindi l’uomo può ritornarne padrone e ospite… egli non sa che il passato non è un flatus mentis, ma piuttosto un paese la cui realtà gli è dato di rintracciare e di snidare». Tutto si può dunque riconquistare dal passato: «Il paradiso favoleggiato dal Poeta - insiste Des Oiseaux - non è fatto di angelicate rose né di cori sovrapposti né di larve o bei canti; bensì di strade, caffè, creature che ci sono state restituite per merito del nostro coraggio mnemonico». È un concetto del tempo che si può definire agostiniano e il libro si apre proprio con una citazione da Sant’Agostino. Orfeo decide così di ripercorrere i momenti della vita della madre identificandosi in essi con la soluzione di riportare al presente quello che invece è passato. Così quando Eva nasce, Orfeo è presente ed

Torna il romanzo con cui lo scrittore vinse nel 1967 il Premio Campiello

è presente quando da bambina la portano a passeggio al giardino, quando adolescente la portano al primo ballo, quando è corteggiata, quando i suoi si trasferiscono all’estero perché il padre è socialista, nei giorni di lutto, nell’incontro con Leandro, che sarà suo marito, nel momento del concepimento del figlio che sarà Orfeo: «Eva e Leandro sedevano sul divano, le dita intrecciate, guardavano immobili un punto davanti a sé. I loro occhi erano carichi di visione, e quella visione pareva avere come bersaglio la serratura dietro cui Orfeo si nascondeva, tanto che per un istante egli si temette scoperto». E arriveremo alla nascita o rinascita di Orfeo. Grandi pagine della storia avvenuta durante la vita di Eva ricompaiono nel racconto: i tumulti di Milano, quando il generale Bava Beccaris fa sparare sulla folla, la guerra di Libia, Caporetto del 1917. Scrive Daniele Piccini nel postfazione del libro che Santucci «quando si accinge a questa impresa narrativa, ma anche lirico-filosofica, ha all’attivo la sua raggiunta maturità» dopo l’uscita nel 1963 del Velocifero «che resta il suo più vasto affresco narrativo». Ma della vena di scrittore di Santucci non si può dimenticare neanche in questa sede la sua straordinaria ironia e anche la comicità, che ha saputo spargere in tanti altri suoi libri.


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poesia

9 ottobre 2010 • pagina 19

Bonnefoy, i misteri di un mutante di Roberto Mussapi ouve, la mitica Douve, personaggio nato dall’immaginazione di Yves Bonnefoy, uno dei massimi poeti viventi. Douve è uno dei miti e dei misteri della mia formazione poetica, lo è ancora, oggi. Douve è uno dei pochi miti creati da un poeta nel Novecento. Chi è Douve? Solo leggendone l’epopea, Movimento e immobilità di Douve, potremo accostare quel mistero. Bonnefoy mi colpì subito perché la sua poesia creava immagini e le dileguava, contemporaneamente. La poesia di Bonnefoy appare e svanisce con la rapidità attimica in cui la realtà stessa della poesia è nata. Ecco il suo desiderio violento di cose, di realtà, di pieno, la sua angoscia di gnostico.Tutto appare come in uno schermo, non per tornare in volti o immagini, ma per rinascere metamorfosato in te che scrivi. Bonnefoy non scrive la poesia per la pagina, dove peraltro splende, ma per la zona aborigena di ogni poeta e lettore in cui la visione si genera. Forse, in questo senso, è il più grande poeta vivente. Poiché in lui coesistono la modernità drammatica della domanda di cosa, di entità, e la presenza di una cosa che è mobile e mutante come la poesia. Dal punto di vista della crisi e del dilemma dei nostri tempi è il più attuale, il più contemporaneo. Ma dal punto di vista del sortilegio, dell’incanto poetico, della strana trasparenza che la poesia investe sulle cose, è un grande continuatore della poesia antica e originaria. In lui tutto è mistero, ma il mistero non è mai confuso, si declina e prende forma come nei millenni avvenne nella nostra mente. La sua statura è decisamente superiore, poiché fa tremare le cose della cui esistenza non è certo, e, facendole tremare, le rivela vive e esistenti.

D

Douve, la mitica Douve. È un paesaggio silvestre, quello della fondazione del mondo di Bonnefoy, vale a dire quello di Douve: polverizzando ogni memoria di Arcadia il poeta ripresenta la selva nella drammatica concezione dantesca, che poi è quella della fiaba, densa di crudeltà ma anche di incanti, di catture e prodigi: le streghe di Macbeth ma anche Puck e gli incantesimi del sogno, la maledizione che addormenta nella morte Aurora e il suo castello, ma anche il bacio del principe che la ridesta rivelando sonno quella che pareva morte. Douve appare correndo sulle terrazze, lottare contro il vento, evocare l’edera che si aggrappa alle pietre, in lotta tra l’aggrapparsi alla vita, ascendere spinta dalla fame di luce della linfa, o abbandonarsi al vento. Un vento più forte delle nostre memorie, ed eccola, invisibile ma certamente presente, là fuori, Douve, «E tu infine regnavi assente dalla mente»,

il club di calliope

La gamba smobiliata dove penetra il grande vento,

come Artemide, al margine delle spingendo davanti a sé teste di pioggia, mura e delle pareti del ricordo, solo alla soglia del regno vi farà luce, già nuovamente fuggente verso gesti di Douve, gesti già lenti, gesti neri. lo spazio inesplorato del bosco e della notte. È lei la presenza cer(…) cata, la certezza di cui non si può Il tuo viso stasera rischiarato dalla terra, fare a meno, e ha il volto di una ma vedo corrompersi i tuoi occhi, donna, come il volto di una donna e la parola “viso” non ha più senso. assunse da allora e per sempre la realtà stessa in Alighieri. BeatriIl mare interiore schiarito d’aquile che volteggiano: ce, certo, la realtà che rende poeta il poeta, ma anche Elena, «colei questa è un’immagine. che fece gonfiare mille vele», la Ti tengo, fredda, a una profondità dove ragione del conflitto primordiale, le immagini svaniscono. la prova della realtà stessa su questa terra, con l’enigma della Yves Bonnefoy loro inafferrabilità ultima: «ad ogni istante ti vedo nascere, Douda Movimento e immobilità di Douve ve,/ Ad ogni istante morire». EcTraduzione di Roberto Mussapi cola, ora, fuggente verso la morte, inutilmente chiamata dal poeta come Euridice, alle soglie di quel regno, «Gesti di Douve, gesti già fatti lenti, gesti neri». Il presa del ritorno, nella certezza della sua luce. E qui, nel pallore, il fiume sotterraneo, l’incuboso regno di Ade, una trionfo della selva, rivolto agli alberi che si annullarono al nebbia crescente gli strappa il suo sguardo: Euridice che passaggio di lei, che richiusero su di lei le loro strade, gli si allontana, mentre Ermes detta a Rilke il suo pianto, «al- alberi, «solenni mallevadori che Douve anche se morta/ beri di un’altra riva», ma anche Beatrice che vien meno, resterà luce senz’esser più nulla». prima del poema, nella Vita Nuova, là dove morte e presenza confliggono e stabiliscono il dilemma. Foglie, roccia Da questo momento Douve ha rivelato i fondamenti ardesia: dalle volatili entità cadute con cui Sibilla scrive stessi del reale, nella sua natura di presenza-assenza, dall’antro di Cuma i suoi oracoli, al sogno della pietra, di movimento e immobilità. Quando il libro di Douve si ciò che è, della presenza, di ciò contro cui batti e ti ferisci. conclude, Douve non cessa di esistere, ma è ormai ricoLa selva regna, la forra penetra nella bocca, le cinque dita nosciuta altrove, senza ormai bisogno di identificarne le si disperdono a caso in foresta, la testa per prima scorre apparizioni, di disperare alle scomparse: Douve, nella tra le erbe, il petto si orna di sua scomparsa fatta luce, si è transustanziata, parleranneve e lupi, e per due volte, al no per lei le voci di un teatro, un teatro-selva, che conferYves Bonnefoy. termine di questi due versi, meranno rafforzandolo il teatro di voci di Bonnefoy, inAll’intera sua opera maintenant, «ora»: tutto sta scenandolo in un dramma tra attori che non si vedono, poetica è stato appena avvenendo, è metamorfosi in ma in realtà comunicano in una storia la cui trama è indedicato un volume dei atto, ma la metamorfosi non ci visibile a noi spettatori, quanto al drammaturgo, capace Meridiani Mondadori, basta, non ci appaga, vogliamo però di inscenarla, senza vederla, ciecamente ascoltancon testo francese a la presenza. «Presenza esatta done il dettato lontano e misterioso. L’immagine di Doufronte. Il volume è curato da Fabio Scotto che ormai nessuna fiamma ve si è sdoppiata nella pura presenza delle voci e nella che firma anche, con può ridurre… Oh più bella e permanente realtà della pietra. Al teatro di queste voci Diana Grange Fiori, la infusa la morte nel tuo riso!». Il che si cercano di lontano, che appaiono come in una seltraduzione dei testi. dramma delle scomparse e va tra vapori magici per poi dissolvere, si contrappone la Per i tipi dei Quaderni delle apparizioni continua in- voce della pietra, le pietre scritte che non portano epigradel Battello Ebbro sta cessante, e continuerebbe se fi recenti, tracciate da una mano, ma voci e parole ormai per uscire La pietra e il proseguissimo fino al termine incorporate nelle fibre della pietra come conchiglie e pevento. Scritti sull’opera la parafrasi di Movimento e sci che vediamo incorporati nei marmi rosa di Verona. di Yves Bonnefoy di immobilità di Douve. Ma il nu- Quelle voci sono pietra e quelle pietre sono voci, l’altra Roberto Mussapi cleo agonico è la dove la mor- faccia del fuggevole ma certo mondo delle voci fluttuante, la scomparsa, rende più cer- ti, il grande teatro doveYves Bonnefoy rimette in scena il ta la presenza, sul modello, o direi l’archetipo dantesco: tempo moderno e riparte per l’impresa estrema, la visiol’acme della Vita Nuova non è altro che il vestibolo della ne della luce ultima, quella che segnalò la Presenza e che Commedia: la morte di Beatrice dà il via al viaggio, all’im- la illumina anche a occhi abbagliati o spenti.

VIAGGIO DENTRO L’ABBANDONO in libreria

A

C.

di Loretto Rafanelli

Questo tetto che affiora nella notte ci protegge più di una croce o un santo. Ora che improvvisamente piove è benedetto. In un’abside di plastica bagnata splende una pianta di ortensie azzurro-fuoco.

Antonella Anedda

è una guerra che insanguina la notte/ …che ci schianta…/ …che ci annienta» e «il mio corpo è un luogo pubblico», «cosa ci faccio in questo circo disgraziato?». Ma «ho continuato ad esserci,/ diversa, ad ascoltare il mondo/ da lontano, le vostre voci». Sì, «è stato un viaggio/ …dentro l’abbandono,/ il corpo immobile come controfigura» con la «lama nella gola,/ e non sapere cosa viene ancora». Chi urla da questo dolore, da questo «muro oltrepassato» è la poetessa Giovanna Rosadini, che in versi ci riporta alla sua incrinata vita (Unità di risveglio, Einaudi, 11,50 euro), all’oceano di buio vissuto, «perduta nel crepuscolo straniero»: il coma, la

«C’

quasi morte. Ed è un racconto che emoziona e travolge e ci fa intimi al suo percorso di vita nell’«oblio artificiale». Da lì, da quell’esperienza, la poesia diviene testimonianza profonda, lacerata, ma pure composta parola, forte nei suoi tratti, precisa nei suoi alti connotati lirici. E c’è la forza di «ricominciare» sapendo che «la persona/ che eravamo è ormai solo passato…», un «corpo naufragato», una vita guastata «in un istante dilatato come un mare». Ma è bene «sentirci partecipi a un sorriso, al germoglio di un sentimento condiviso». Seppure ci sia sempre un dubbio: «sapremo mai/ la sostanza perduta, ritroveremo/ il luogo, il corpo che abbiamo abitato?».


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di Pier Mario Fasanotti on è certo questa la sede per fare la storia dei cartoni animati e di come siano cambiati. Ma è occasione per manifestare stupore dinanzi a una virata brusca. Adolescenti e preadolescenti, da alcune settimane anche italiani, seguono con entusiasmo The Cleveland Show (Fox di Sky). A tutte le ore grazie al videoregistratore, per cui sarebbe inutile e ipocrita invocare la «protezione» della fascia oraria. Dico questo perché questa serie cartonata ricorre alle parolacce, a continui riferimenti sessuali e inneggia alla scorrettezza: in teoria sarebbe da ora tarda. È irriverente verso la famiglia, la gerarchia sociale. Gli episodi, divertenti a piccole dosi, ripetitivi nel loro insieme, riassumono lo sbandamento, anzi lo slabbramento, dell’epoca in cui viviamo. Se la realtà è in un certo modo, non c’è verso di riproporre personaggi e scenari disneyani, che francamente paiono preistorici e leziosi, e ormai appartengono alla letteratura del passato. Cleveland è il nome del capo-famiglia (tutti sono di colore, e questa è una novità), un disoccupato neo marito di una donna lavoratrice. Rallo, il più piccolo dei tre figli, è il classico bambino terribile (cinque anni) da prendere a schiaffi. Ai giovani telespettatori piace perché dice «cazzo» (ecco il salto rispetto al «cacchio» di Homer Simpson), perché al padre intima «via dalla mia sedia, ciccione» e chiude la bocca della mamma con un «basta predicozzi, bella!». Al ciccioncello, goffo e ingenuo fratello Cleveland junior (doppiato molto bene da Davide Perino), che in uno dei primi episodi parte per Washington in gita scolastica «scortato» dalla sorella Roberta, l’irritante Rallo dà questo augurio: «Rimorchia qualche troietta». Non ci sono tabù. Padre e madre (Donna Tubbs) restano a casa e guardano programmi televisivi trash come The barf family («La famiglia vomito»), ossia speculare alla loro.

N

Teatro

Televisione

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spettacoli DVD

I Cleveland

troppo oltre i tabù

LE VIE DEI FARMACI NON PORTANO IN AFRICA uasi quarantamila persone al giorno. A tanto ammontano le persone che ogni ventiquattro ore perdono la vita nei Paesi in via di sviluppo. Quasi sempre, ma non inspiegabilmente, per malattie del tutto curabili. Un tema complesso e luttuoso, sul quale indaga con coraggio Le vie dei farmaci , documentario di Michele Mellara e Alessandro Rossi. Grazie al ricco supporto di materiali e testimonianze, i due registi delineano un quadro assai fosco che adombra le forti responsabilità di un grande colosso farmaceutico come Big Pharma. Opera d’inchiesta lucida e vibrante.

Q

PERSONAGGI

TRE STAR AL TOTO-SANREMO uasi ufficiale Morandi, è bagarre sulla vedette che accompagnerà l’intramontabile Gianni sugli assi dell’Ariston. A contendersi le luci del Festival tre grossi calibri dello show-business nostrano. Che però, ormai è ufficiale, non includono la bella e ribelle Rodriguez, giubilata dal consigliere Rai AntonioVerro: «Abbiamo bisogno di modelli positivi, spero che Belen non sia nel cast». In rampa di lancio restano secondo indiscrezioni Manuela Arcuri, non proprio una novità nella kermesse sanremese, Elisabetta Canalis (che metterebbe sul piatto anche il cameo di mister Clooney), e più defilata,Vanessa Incontrada.

Q

I Cleveland sono moderni nel senso che il capo-famiglia è padre vero di Junior, mentre gli altri figli sono del precedente matrimonio di Donna. L’attualità, mutuata dallo squallore di una larga parte della borghesia americana (siamo in Virginia), consiste anche nella sempre crescente vicinanza dell’Europa allo sciattume e alla dissacrazione che negli States fanno tendenza. Nulla è corretto. I frammenti di bontà che compaiono in scena sono considerati unanimemente «pallosi», ridicoli, ostacoli alla piccole e rabbiose quotidianità. La serie è stata creata da Seth MacFarlane, Mike Henry e Richard Appel nel 2009. È una costola (spin-off) dei Griffin,

che sono somiglianti, per la scorrettezza, ai Simpson. Però più volgari e intimamente cattivi. Se Homer Simpson ha valori dai quali nemmeno la sua approssimazione socio-morale si distanzia, i Griffin e anche i Cleveland sguazzano nella caricatura esasperata dell’antibuonismo. Rallo e Stewie Griffin si assomigliano in quanto finti bambini: in realtà sono adulti che impongono in famiglia regole e ricatti, che sindacalizzano su tutto avendo come bussola il tornaconto e la perfidia. Sintesi di ciò che accade in molte famiglie vere, in specie per la resa dei genitori, la loro debolezza, il loro credere che tutto il cinismo aggressivo dei minori non sia mai da contestare o correggere.

di Francesco Lo Dico

Lo sguardo di Cristo (parte II) dritto negli occhi mpossibile non segnalare l’occasione che anche quest’anno Romaeuropa Festival 2010 ci regala per assistere a performance di pregio. In particolare è doveroso sottolineare, per chi non li avesse mai sentiti nominare o per chi non si perde un loro spettacolo, le giornate a cavallo di questo fine settimana dedicate alla «Societas Raffaello Sanzio», esponenti di punta del teatro d’avanguardia italiano, osannati dalla critica mondiale e prodotti a gara dai maggiori festival europei. La compagnia fondata nel 1981 da Romeo Castellucci, Chiara Guidi e Claudia Castellucci ha la sua sede ufficiale al Teatro Comandini di Cesena sebbene sia quasi sempre in tournée all’estero. «Il teatro non è la mia casa, la prima forma di nutrimento è passato attraverso la pittura, la scultura, il mio modo di lavorare non è letterario, non è legato alla presentazione di un testo teatrale», avverte Castellucci e aggiunge a proposito della tecnologia: «…è importante quando permette di riuscire a rivelare dei corpi, fantasmi che altrimenti non potresti realizzare in altro modo» - giusto per farsi un’idea di ciò a cui si andrà ad assistere.

I

di Enrica Rosso Tre le diverse opportunità per approcciarsi al lavoro di una delle compagnie più strutturate e proficue d’Europa, fino a domani, alle Officine Marconi, la prima nazionale del loro ultimo lavoro Sul concetto di volto nel figlio di Dio. Vol. II, performance di 45 minuti che prosegue il progetto biennale sul rapporto con l’immagine del Cristo. «Voglio incontrare Gesù nella sua lunghissima assenza», ha chiarito Castellucci in occasione del primo episodio già messo in scena. Ed ecco a materializzare quello sguardo una scia luminosa sorprendere le azioni di varia natura che si sviluppano in scena, in un dialogo diretto

con l’immagine cristica proveniente dalla tradizione pittorica occidentale che le sovrasta e che, in questo caso, a differenza di ciò che accade solitamente nella pittura sacra, guarda dritto negli occhi dell’osservatore. La religione con il suo corredo iconografico viene dunque messa al servizio dell’uomo al di là dell’essere manifestazione mistica o teologica. Sarà poi Villa Medici a ospitare, anche in questo caso fino al 10 ottobre, un altro importante capitolo della produzione artistica della Societas: Storia dell’Africa contemporanea. Vol. III. La performance, della durata di 12 minuti, sarà replicata tre volte al giorno con

la seguente cadenza: 17.00, 17.40 e 18.20. Uno studio incentrato sulla ritualità di un movimento estremamente semplice, realistico, simbolicamente potente: l’atto di inginocchiarsi. In scena lo stesso Castellucci & family a restituire il significato della genuflessione alle sue possibili varianti senza perderne di vista la matrice ancestrale a cui si fa riferimento nel titolo. Sempre a Villa Medici, oggi e domani alle 20.30, è inoltre possibile assistere alla proiezione del ciclo filmico della Divina Commedia suddivisa in Inferno 1h36mn, Purgatorio 1h13mn, Paradiso 6mn. Realizzati nel 2008 per il Festival d’Avignon in collaborazione con La Compagnie des Indies e prodotta e realizzata dalla televisione franco-tedesca Arte, l’operazione ha segnato una punta estrema dell’ardore creativo di Castellucci salutata da Le Monde come una tra le dieci produzioni culturali che hanno segnato il primo decennio del Duemila. Assolutamente da non perdere. Societas Raffaello Sanzio, Roma, Officine Marconi e Villa Medici, fino al 10 ottobre - Info: 06 45553050 romaeuropa.net


Cinema

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9 ottobre 2010 • pagina 21

Tom & Cameron

nnocenti bugie è un divertente, galoppante thrillercommedia in cui brillano due star di prima grandezza: Cameron Diaz e Tom Cruise. Letteralmente esplosivo, è un film che sfrutta il genere con spirito e ironia, fregandosene della logica secondo cui ogni cosa deve tornare. Così saltiamo molte spieghe su perché e per come, ridotte al minimo. Roy Miller (Cruise) è un agente segreto in fuga: ha prelevato un aggeggio superpotente creato da un ragazzogenio (Paul Dano) - una sorta di batteria nucleare che non si esaurisce mai - ambito da malviventi e dalla Cia, il suo datore di lavoro. È inseguito da tutti, anche dai suoi, perché Fitzgerald (Peter Sarsgaard), un agente antagonista, ha convinto il capo che Miller è una canaglia che si è impossessato dell’aggeggio e del suo inventore a scopo di lucro personale. La trama serve per ordire spettacolari scene d’azione ed effetti speciali: atterraggi di fortuna notturni con un aereo di linea in mezzo a un campo di grano, inseguimenti d’auto con un morto ammazzato al volante e una bionda che guida dal sedile posteriore cercando di evitare scontri multipli senza poter toccare i pedali, salti da palazzi molto alti e furiose sparatorie uno-contro-tanti con armi automatiche e molti cadaveri, anche all’interno di un aereo in volo. June Havens (Diaz) è nell’aeroporto di Wichita, Kansas, diretta a Boston per il matrimonio della sorella. Si scontra fisicamente con Miller, uno sconosciuto, che vuole servirsi di lei, poi si scoprirà perché. Il loro meeting cute è ben congegnato e brillante, nella nobile tradizione dell’incontroscontro della commedia romantica. Il film è stato criticato per il troppo spazio dedicato agli effetti speciali Cgi e il troppo poco dato all’approfondimento dei personaggi, tutti bravi attori, e alla storia d’amore tra i protagonisti. Effettivamente la chimica tra Diaz e Cruise è notevole e avrebbe meritato più attenzione. Torneranno un giorno i film di cassetta che uniscono con più equilibrio azione e storia d’amore. Nel frattempo non stracciamoci le vesti. Il film ha charm e nemmeno un attimo di noia: se attori come Viola Davis, Paul Dano e Celia Weston sono sotto utilizzati, le scintille comico-romantiche tra i due divi fanno pensare a vecchie glorie del genere come Charade o All’inseguimento della pietra verde. James Mangold è il regista di Quando l’amore brucia l’anima e Quel treno per Yuma, mica bruscolini. Da vedere.

I

fanno scintille

The Town, di e con Ben Affleck, è un poliziesco classico, tratto dal romanzo di Chuck Hogan, Prince of Thieves. Fa piacere che un attore, con la carriera a pezzi dopo il floppone di Gigli, si sia ritirato su prima come regista e poi come commediante. Il suo esordio nella regia è stato l’ottimo Gone Baby Gone (2007), con il suo affascinante fratello Casey come protagonista, e il

di Anselma Dell’Olio secondo film è molto godibile. Affleck resta attaccato alle sue radici a Beantown anche stavolta. Una voce fuori campo racconta che a Boston ogni anno ci sono 300 rapine in banca; la maggior parte ha origine nel quartiere di Charlestown, un miglio quadrato che contiene «più rapinatori di banca che il resto degli Stati Uniti messi insieme». Doug (Affleck) è il rampollo di una schiatta di professionisti del ramo. È molto legato al padre, che sconta una lunga pena (è il fantastico camaleonte Chris Cooper, il rigido militare omofobo di American Beauty). Gli altri attori sono di rango. Rebecca Hall (Vicky Cristina Barcelona) è Claire, la direttrice della banca rapinata da Doug e dai suoi compliciamici di una vita. È un ruolo un po’ tinca: non offre molti spazi per brillare, come la Hall sa fare. Jem è Jeremy Renner, il protagonista di The Hurt Locker, talmente autentico da far credere che fosse un vero artificiere arruolato per fare se stesso nel tesissimo film premio Oscar di Katherine Bigelow, schizzato a Venezia perché non politicamente corretto. Trasformista anche lui, qui sembra un balordo nato e cresciuto a birra e patatine a Charlestown. Jon Hamm (Mad Men) è il pubblico ministero che sospetta di Claire, e Pete Postlethwaite (In nome del padre) è un boss spietato. Il punto centrale è l’incontro tra Claire, presa in ostaggio dopo la rapina della sua banca, e Doug, che dopo averla liberata scopre che abita nel suo quartiere, che si va imborghesendo. Architetta un incontro con lei in lavanderia per capire se la donna ha notato qualche dettaglio fisico, intravisto nei travestimenti da suora dei rapinatori, che potrebbe incastrarli. A sorpresa s’innamora di lei, e il loro rapporto gli fa scoprire la possibilità di un’altra vita. Affleck, che ha partecipato allo script, aveva l’ambizione

di raccontare qualcosa sulla cultura criminale. Non gli è riuscito perfettamente, ma ha fatto un poliziesco di buon livello. Da non perdere, principalmente per la straordinaria interpretazione di Renner, che ruba la scena a tutti.

Avevamo letto e apprezzato Quella sera dorata, il romanzo di Peter Cameron con l’evocativo titolo The City of Your Final Destination, ora un film di James Ivory (Camera con vista, Howard’s End). Era al Festival di Roma l’anno scorso, accolto senza entusiasmo. Il film è molto fedele all’atmosfera rarefatta del libro. L’oro del romanzo è tutto nei lunghi dialoghi, sfaccettati e rivelatori di pulsazioni segrete, taciute, represse. Il film non se li poteva concedere che limitatamente. Omar (Omar Metwally), un giovane dottorando in letteratura, vince una borsa per scrivere la biografia di Jules Gund, uno scrittore d’origine ebraico-tedesca cresciuto in Uruguay. Il libro è fondamentale per la carriera accademica del giovanotto, come non cessa di ricordargli la sua organizzata, ambiziosa e comandina fidanzata Deirdre (Alesandra Maria Lara). Il problema è che la famiglia Gund rifiuta l’autorizzazione per la biografia del loro parente, suicidatosi dopo aver pubblicato un solo libro. Deirdre spinge il sognante e timido Omar a recarsi alla tenuta dei Gund in Sud America, per far cambiare idea agli eredi: il fratello Adam Gund (Anthony Hopkins), la vedova Caroline (Laura Linney) e la giovane amante Arden (Charlotte Gainsbourg). Il viaggio gli cambierà la vita. È un film di sentimenti delicati, sopraffini, come sempre nei film di Ivory. Qui sono addirittura estenuati, quasi impalpabili, eppure il film si segue con attenzione, e se alla fine non rimane molto se non l’eleganza rarefatta di una famiglia i cui sentimenti sono sempre trattenuti, non dispiace affatto passare un paio d’ore in sua compagnia. U na s c o n fi n a t a g i o v i ne z z a

Non concede un attimo di noia “Innocenti bugie” con Cruise e la Diaz: un film che fa pensare a vecchie glorie come “Charade”. Buono il poliziesco di e con Ben Affleck (“The Town”) e il film di James Ivory tratto dal romanzo di Peter Cameron: impalpabile, come nello stile del regista. E poi c’è Pupi Avati...

è il film di Pupi Avati escluso da Venezia. Prolifico come Woody Allen, l’autore ha una filmografia divisa tra i suoi ruvidi e più autentici film «popolani» (Il cuore altrove, Gli amici del Bar Margherita) e quelli borghesi (Il papà di Giovanna, La cena per farli conoscere). Il nuovo si gioca tra un presente agiato e un passato povero. Lino è un giornalista sportivo (Fabrizio Bentivoglio) sposato con una ben nata docente di filologia medievale (Francesca Neri) da 25 anni. Non hanno figli, un dolore, ma sono molto legati. Lino comincia a perdere la memoria del presente, mentre la sua infanzia torna fresca come allora. La discesa nell’Alzheimer è ben documentata, ma preferiamo l’Avati più demotico, scaltro e cinico di La seconda notte di nozze.


Fantastico

pagina 22 • 9 ottobre 2010

è un luogo comune duro a morire fra i critici che si occupano di narrativa popolare, gli storici della letteratura che si interessano anche di questo argomento e gli studiosi soprattutto accademici. Vale a dire che l’Italia è un Paese arretrato, sia rispetto alle altre nazioni europee, figuriamoci nei confronti degli Stati Uniti, per quanto ha riguardato l’elaborazione e poi la pubblicazione di una narrativa dell’Immaginario (orrore, fantastico, fantascienza) tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Non è quasi esistita e non si è diffusa per motivi diversi, che secondo gli studiosi vanno ricercati nella nostra arretratezza culturale, nei condizionamenti politici e religiosi, nella mancanza di una industria avanzata eccetera eccetera. È una leggenda metropolitana, consolidata poi dall’aver preso per buone, da parte delle élites intellettuali, delle teorie prima di Todorov (1970), secondo cui in sostanza il «fantastico» è un che di effimero basandosi soltanto sulla «esitazione» del lettore (quindi non qualcosa in sé presente nella narrativa), e poi di Italo Calvino (1970), secondo cui c’è un fantastico italiano dell’Ottocento caratterizzato dall’emotività e un fantastico del Novecento caratterizzato dal suo «uso intellettuale». Tesi accettate acriticamente.

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ai confini della realtà

C’

C’era una volta

Così non è. Tutti questi pregiudizi e queste teorie nascono semplicemente dalla mancanza d’informazioni e quindi di conoscenza dei fatti. Credo di aver dimostrato, documenti alla mano, nel mio lungo saggio introduttivo all’antologia Le aeronavi dei Savoia. Protofantascienza italiana 1891-1952 (Nord, 2001) che il luogo comune nasce da una percezione diffusa: non aver guardato nei posti in di Gianfranco de Turris cui si doveva guardare, cioè le riviste popolari italiane di quel periodo. Rivi- Corriere e ne ha tratto un saggio do- credo - riscrivendoli per adattarli con ste che sono invece piene di racconti e cumentatissimo che fa capire come luoghi e nomi italiani (per questo, riromanzi di questo genere. Inoltre - con quel settimanale siano in effetti tengo, Foni non è riuscito a trovare le elemento fondamentale - la storia edi- approdati in Italia un giornalismo e fonti originali di alcune storie il cui toriale italiana non ha seguito quella anche una letteratura che potremmo autore è indicato con una sigla o con degli altri Paesi, ma soprattutto quel- definire «sensazionalistici», giunti, un nome ignoto, come è il caso della la statunitense, e quel genere di rac- nella loro formula di base, identici si- Morte purpurea di A.Adler), poi incrementando sempre più le firme itaconti non ha trovato più il suo spazio. no ai nostri giorni. Bisognava scartabellare i supplementi domenicali dei È falso sostenere che tra fine dell’800 e prima quotidiani dell’epoca, le riviste popolari, le pubblicametà del ’900 l’Italia trascurasse la narrativa zioni specializzate, le apdell’Immaginario. Lo dimostra un documentato pendici di mensili e addirittura i grandi settimanali saggio di Fabrizio Fonti dedicato alla prima annata d’intrattenimento letterario del mitico settimanale di Luigi Albertini. che oggi non esistono più. Che già nel 1899 raggiunse le 200 mila copie Spulciando quelle vecchia pagine ci si sarebbe imbattuti in una marea di storie fantastiche, fantascientifiche, orrorifi- In Piccoli mostri crescono. Nero, fan- liane, spesso con semplici lettori o che, spiritiche. Essendosi invece i no- tastico e bizzarrie varie nella prima scrittori d’occasione. Come afferma stri ricercatori, con in prima fila i pe- annata de «La Domenica del Corrie- Foni La Domenica del Corriere divenraltro benemeriti Ghidetti e Lattarulo re» (Perdisa, 250 pagine, 16,00 euro), ne un potente catalizzatore dell’Imcon il loro Notturno italiano (1984) brutto titolo ma accattivante coperti- maginario collettivo dell’epoca. Comper finire al recente, ma per nulla in- na, Foni ci fa scoprire quell’universo plici naturalmente anche le tavole di novativo (anzi ripetitivo) Fantastico meraviglioso che il genio di Luigi Al- Achille Beltrame. italiano a cura di Costanza Melani bertini fece scoprire agli italiani Si legge in una risposta della «picco(2009), limitati a scremare i testi dei giunti alla vigilia del nuovo secolo la posta» del settimanale: «Il lettore è grandi autori del mainstream disde- abituandoli a tutto quanto di singola- ristucco del solito terzetto amoroso e gnando la «paraletteratura». re, strano, eccezionale si poteva ra- preferisce quelle curiosità, quelle Ora, riprendendo quel mio spunto di strellare nelle notizie di ogni parte stravaganze che molte volte sono la dieci anni fa, un giovane studioso co- del mondo e, ovviamente, anche pub- verità del dimani». Tutto un programme Fabrizio Foni ha preso in mano ed blicando racconti sulla stessa falsari- ma, che se era valido ieri figuriamoci esaminato con cura certosina la pri- ga. Che inizialmente furono tradotti dopo cento anni e più! Così si precima annata (1899) della Domenica del dall’inglese o dal francese, spesso - io sa nella susseguente risposta a un al-

tro aspirante scrittore: «Non è adatto perché troppo semplice ed i lettori hanno bisogno di sale, di droghe, di eccitanti». Con questo programma La Domenica passa dalle iniziali 70 mila alle 200 mila copie. E siamo nel 1899: quante riviste italiane oggi possono permetterselo? E allora la percentuale degli alfabetizzati era assai inferiore a quello di 110 anni dopo. Foni segue l’annata raggruppando capitolo per capitolo le sue tematiche-guida: in primis delitti di tutti i tipi, processi che avvincono l’opinione pubblica, descrizioni macabre e realistiche di morti efferate; quindi l’alienità che viene dall’estero, le usanze più singolari e crudeli, i riti più raccapriccianti, i fachiri, i cannibali, i disastri naturali in lontani Paesi; quindi il vasto settore di spiritismo, occultismo e i fenomeni di quella che oggi si chiama parapsicologia e allora metapsichica; infine le «meraviglie della scienza» con ampi spazi a invenzioni mirabolanti come quelle di Tesla l’«avversario» di Edison, e tutto quel che ha a che vedere con l’elettricità, la nuova energia che sembrerebbe consentire tutto.

Intelligente l’idea di avvicinare al tema degli articoli anche l’esame della pubblicità del settimanale, le cui reclame più singolari e grottesche nell’arco di 70 anni meriterebbero un libro a sé. Infine, i racconti (che avrebbero meritato in verità assai più spazio) con una analisi generale dei temi e in particolare dei più interessanti e curiosi di essi. La Domenica del Corriere, dice l’autore si presentava come una «inesauribile macchina dei sogni», un «apparato per sognare» e per far ciò non poteva occuparsi della normalità ma della patologia del reale: l’abnorme, il diverso, il disgustoso, l’orrido, il curioso. E quando non lo era a sufficienza i redattori davano un aiutino, come si suol dire: «La realtà ha sempre bisogno di un piccolo aiuto, di qualche dettaglio in aggiunta che la renda più romanzesca». E infatti la rubrica di maggior successo fu «La realtà romanzesca» affidata allo scrittore «salgariano» Aristide Gianella. Infatti, «il bizzarro può annidarsi dappertutto». Leggere Piccoli mostri crescono dà la sensazione di entrare in una terra incognita di cui si era snobbata l’esistenza, per la prima volta esplorata come si deve, una inesauribile fonte di meraviglie e sorprese, che ci consente anche di capire come fossero curiosi e originali i giornalisti e gli scrittori di oltre un secolo fa. Altro che Italietta umbertina! Peccato che nuoccia un po’ al libro, dal punto di vista della leggibilità, il tono eccessivamente sostenuto (certe volte addirittura legnoso) dello stile quasi paraccademico, una pignoleria bibliografica che giunge ai limiti del feticismo, un uso esagerato del sic, un eccesso di excursus collaterali (penso a quello su Barnum). A mio parere un libro del genere, rivolto al grande pubblico e con lo scopo di divulgare certi temi, avrebbe dovuto essere più sorvegliato da questi punti di vista.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando,Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

Ripassiamo la grammatica per tutelarci dai prezzi

LE VERITÀ NASCOSTE

Un volo da 30 euro? Una settimana vacanza da 300 euro volo incluso? Un automobile da 9000 euro? Un vasetto di carciofini con olio extra vergine di oliva? Proposte interessanti che nascondono un pericolo: sono poco chiare e non contestabili. Un volo da 30 euro significa che si parte da 30 euro per arrivare a cifre superiori; così come una vacanza da 300 euro vuol dire che il costo minimo è di 300 euro per arrivare a prezzi superiori in relazione alla tipologia della struttura offerta. Stesso discorso vale per il prezzo base di un’auto che con una serie di accessori può salire notevolmente. Un alimento con olio extra vergine di oliva significa che contiene questo tipo di olio, il che non esclude la presenza di altri oli meno pregiati, magari in quantità maggiori. I messaggi pubblicitari o le indicazioni in etichetta così come formulati non sono contestabili perché non ingannevoli. Meglio sarebbe stato pubblicizzare un volo a 30 euro, il che sta a significare che quello è il prezzo senza altre sorprese. Il carciofino in vasetto dovrebbe essere all’olio extra vergine, il che escluderebbe la presenza di altri oli. Insomma per tutelarci siamo costretti a ripassare la grammatica!

Primo Mastrantoni

LOMBARDIA, SOSTEGNO ALLA VITA Finalmente una bella notizia dalle istituzioni. Nasce il fondo Nasko attraverso cui la regione Lombardia potrà dare sostegno alle donne che non rinunciano alla gravidanza, scegliendo di non abortire per ragioni economiche. A ciascuna mamma verranno erogati 250 euro mensili per 18 mesi, comprensivi anche dei mesi di gravidanza, per un totale di 4500 euro. La regione Lombardia inoltre mette a disposizione una serie di servizi integrati a sostegno della maternità, consulenza psicologica compresa. Le donne destinatarie di tale aiuto sono coloro che sarebbero spinte all’aborto per motivi economici e saranno segnalate dai consultori e dai centri di aiuto alla vita. Oggi la linea di demarcazione non è tanto fra “pro-life”e “pro-choice”, fra sostenitori del diritto alla vita e diritto alla libera scelta. Oggi il principale tema del dibattito sociale è soprattutto se lo scegliere il ricorso all’aborto legale sia effettivamente una libera scelta oppure no. Se la donna decide di abortire per motivi economici, dove la mettiamo la “libera scelta”? I problemi economici si risolvono con provvedimenti economici, non con gli aborti! La libera scelta si palesa inoltre laddove vi siano valide e credibili alternative. I consultori non possono ridursi ad

essere distributori semi-automatici di interruzioni volontarie di gravidanza e contraccezione. La contraccezione stessa è oggi davvero una libera scelta per le famiglie? Oggi una famiglia è libera di avere tutti i figli che desidera o è limitata da ragioni economiche? Fare figli è solo un diritto per i ricchi? I poveri non hanno diritto a procreare? Una volta il proletariato era colui che aveva nella prole numerosa la propria unica ricchezza, oggi al povero potrebbe essere tolto anche questo minimo diritto. Il povero di oggi perciò è da meno del proletario di ieri?

Glauco Santi

IL NOSTRO RIFIUTO, LA VOSTRA RISORSA “Il nostro rifiuto, la vostra risorsa” è una campagna di sensibilizzazione rivolta ai cittadini di oltre cento comuni della Campania, che ha l’ambizione di ottenere un miglioramento della raccolta differenziata, una riduzione della quantità dei rifiuti prodotti e una maggiore consapevolezza in merito ai consumi responsabili e sostenibili. In piena emergenza rifiuti, non possiamo che ripartire dalla raccolta differenziata per riciclare il “rifiuto buono”e ridurre il “rifiuto cattivo”. La situazione della Campania è sotto gli occhi di tutti: differenziata al minimo, un solo impianto, po-

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zione di servizio nella città di Bielefeld, in Westfalia, hanno ripreso una scena piuttosto inconsueta. Di fatto, un pensionato è andato in bicicletta alla pompa per fare uso il compressore, utilizzabile gratuitamente - solitamente si va per gonfiare le gomme dell’auto. Invece il pensionato non doveva gonfiare le gomme della bici, né il pallone dei nipotini. Giunto al compressore, l’uomo ha preso una scatola dal portabagagli della bici, ne ha estratto un cosa di plastica. Una volta imbottito d’aria si è scoperto che l’oggetto in questione era una bambola gonfiabile.Tra lo sbigottimento degli altri clienti della stazione di servizio, l’uomo ha a questo punto serenamente messo la bambola gonfiabile sotto braccio, come se fosse la cosa più comune del mondo (il fatto è accaduto in pieno giorno) per riavviarsi verso casa. I responsabili della stazione di servizio, intervistati da un giornalista giunto a apprendimento del fatto, non hanno sollevato obiezioni: «Chiunque può usufruire delle nostre pompe», hanno dichiarato i responsabili della stazione di servizio, perplessi.

che discariche, tanti rifiuti che inevitabilmente finiscono in strada. I numeri sono impressionanti: la sola provincia di Napoli produce circa 1.500.000 tonnellate di rifiuto indifferenziato ogni anno, più di tutte le altre province campane insieme; l’unico termovalorizzatore attivo, quello di Acerra, può bruciare, a pieno carico, 400.000 tonnellate annue di rifiuto indifferenziato. Se solo riuscissimo a portare la differenziata ad un accettabile 50%, e ottenessimo una riduzione sensibile del rifiuto indifferenziato attraverso i consumi responsabili, potremmo ridurre il rifiuto indifferenziato della Campania a poco più di 1.500.000 di tonnellate annue, a fronte degli oltre 3.000.000 attuali. Certo, sarebbe ancora necessario costruire gli impianti di termovalorizzazione. Nei giorni scorsi è stato inaugurato, a Salerno, il primo impianto di compostaggio della Campania. Dal punto di vista economico, di quel tipo di impianto, al posto del quale si sarebbe dovuto costruire un impianto a biomasse per la valorizzazione energetica del rifiuto organico, vi è da dire che il problema è tutt’altro che risolto: l’impianto di compostaggio non risolve di certo il problema dell’indifferenziato, proprio perché tratta altra tipologia di rifiuto.

PRECISAZIONE ACI

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e di cronach

Dal gommista per gonfiare una bambola

Le vie del cervello Un ragazzo di 20 anni ne possiede circa 176mila chilometri, stipati tra encefalo e midollo spinale. È la sostanza bianca, l’insieme di fasci di fibre nervose che mettono in connessione le centinaia di miliardi di neuroni presenti nel nostro cervello

Parlando dell’Aci, il giornalista Alessandro D’Amato nelle prime sei righe del suo articolo, pubblicato il 7 ottobre, fa un bel po’ di confusione tra Aci - Automobile Club d’Italia - che mai è stato commissariato e il cui presidente avv. Enrico Gelpi è stato eletto dall’Assemblea nel dicembre 2007, e Automobile Club Milano, ente autonomo. Il commissariamento di cui si parla nell’articolo è relativo all’Automobile Club Milano, il quale ha ora un “neopresidente”nella persona di Carlo Edoardo Valli.

Ufficio Stampa ACI


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grandangolo Il bilancio del primo mese senza marines

Ma in Iraq la corsa al petrolio non è ancora cominciata Gli americani sono andati via eppure la stabilità politica è ancora un obiettivo lontano da raggiungere. Per questi motivi, estrarre greggio dai pozzi è ancora più pericoloso di prima: le compagnie occidentali vorrebbero investire di più, ma la sicurezza resta un costo troppo alto. Il puzzle iracheno non è ancora risolto di Antonio Picasso passato un mese e più dal ritiro delle truppe Usa dall’Iraq. Sappiamo che in questi oltre trenta giorni il Paese non ha trovato quella stabilità politica che sperava di raggiungere dopo le elezioni di marzo. Del resto, fare in così poco tempo ciò che non si è ottenuto nella prima metà dell’anno era un’illusione di pochi. Forse nemmeno il presidente Obama nutriva speranze tanto velleitarie. L’Iraq odierno sembra vivere in una sorta di limbo, dal quale viene svegliato improvvisamente nel modo più drammatico, per mezzo di attentati che si ripetono in tutto il territorio nazionale. La responsabilità di questa situazione è da attribuire parigrado alle istituzioni di Baghdad, che in più di sei mesi non hanno saputo attribuirsi quella credibilità di immagine necessaria per governare, ma anche agli Stati Uniti, la cui decisione di abbandonare la scena è apparsa affrettata e priva di una visione di lungo periodo. La vittima di questi errori è prima di tutto la popolazione locale, ma il sistema economico nazionale, proprio per l’insicurezza in cui versa l’Iraq, non può godere a pieno degli investimenti stranieri che gli permetterebbero di sollevarsi da una condizione di pesante arretratezza.

È

Il settore degli idrocarburi, in modo particolare, è il comparto su cui ricadono le deficienze più ingenti per la mancanza di capitali, infrastrutture e inno-

vazione. Questi potrebbero arrivare solo dall’estero. Tuttavia i potenziali partner europei e nordamericani sembrano restii a tuffarsi nel ginepraio iracheno. Hanno paura di inviare i propri tecnici in un teatro di guerra e temono di rimetterci anche in termini monetari. Inoltre le spese che dovrebbero sostenere per la protezione del proprio da parte delle società di contractor risultano sempre elevate. L’Iraq ha bisogno degli investimenti di tutti e non ha alcuna intenzione di snobbare capitali che vengano per esempio dal Giappone (Mitsubishi), op-

Attualmente sono quasi centomila gli uomini addetti alla sicurezza impegnati sull’intero territorio iracheno pure dalla vicina e un tempo rivale Turchia, rappresentata dalla Tpao. Maliki non può permettersi di negare alcuna concessione petrolifera. A loro volta le big oil vedono nel Paese arabo una sorta di Klondike del terzo millennio. La concorrenza fra tutte, quindi, è sì eleva-

ta, ma altrettanto spuria. Ogni compagnia petrolifera ha bisogno della partnership per lo sfruttamento, nel modo più efficiente e tecnologicamente valido, delle singole concessioni assegnate. Ognuna necessita della competenza e del know how di cui è leader un’altra società. Chi è forte nel ramo delle trivellazioni chiede un aiuto da parte di quelle compagnie più affermate nella estrazione, oppure nel trasporto.

Tuttavia, Baghdad né agevola l’ingresso di capitali stranieri né facilita il lavoro dei tecnici impegnati sul posto. Per quanto non li disdegni assolutamente. Impone condizioni di sfruttamento che spesso non possono essere soddisfatte nel breve periodo. Nella fattispecie dei giacimenti di Zubair, Akkas, Mansuriyah e Siba, il ministro al-Ameedi ha detto che le assegnatarie dell’appalto dovranno prima di tutto provvedere alle infrastrutture di trasporto interno del greggio e soprattutto del gas. Se le major non realizzeranno una “National gas pipeline network”, il governo bloccherà le concessioni. A un primo sguardo, queste necessità sembrano comprensibili. L’Iraq è solo al 44esimo posto come consumatore di energia elettrica, su scala mondiale. Mentre è 49esimo come produttore. Il saldo della bilancia commerciale degli idrocarburi è sì a favore delle esportazioni. Ma i 2 milioni di barili che escono quotidianamente dal Paese non sono

abbastanza. Peraltro sul territorio nazionale non esistono impianti di raffinazione. Baghdad vorrebbe colmare questi vuoti nel più breve tempo possibile. Vorrebbe inoltre allacciarsi al Southstream piuttosto che al Nabucco, non importa, e garantirsi così un ruolo di fornitore diretta dell’industria europea. Al-Maliki, però, pretende che obiettivi tanto ambizioni quanto validi vengano raggiunti dalle compagnie straniere. Queste, a loro volta, chiedono come tornaconto una garanzia di sicurezza che Baghdad non è in grado di fornire. Veniamo così al secondo ostacolo.

Le big oil, non avendo una copertura di sicurezza da parte delle istituzioni, fanno ricorso ai contractos. Attualmente sono quasi 100mila gli uomini addetti alla sicurezza impegnati su territorio iracheno. Dopo il ritiro delle truppe Usa, si è registrato un aumento di circa 7mila unità. «È anche vero però che il settore petrolifero è nelle mani dei contractor fin dal giorno dopo dello scoppio della guerra», dice Carlo Biffani, direttore della Security Consulting Group (Scg), società italiana di consulenza per le imprese impegnate in situazioni di rischio. «La gestione della sicurezza dei pozzi è spartita al 50% fra il governo iracheno e le compagnie petrolifere, sia come responsabilità sia come spese». Biffani spiega che ogni singola major, nel momento cui decide di investire in Iraq, mette in budget la voce “spese per


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Nel 2009 la crescita economica è drasticamente rallentata rispetto al passato

Anche a Baghdad c’è la crisi e la gente sogna più il benessere che la sicurezza sservando l’Iraq da una prospettiva macro-economica, il 2009 si è chiuso con una crescita produttiva poco superiore al 4%. Un dato positivo, se visto in termini assoluti. Non è così se lo si confronta con il +9,5% del 2008. Solo il settore degli idrocarburi può dirsi virtuoso. E nemmeno a tutti gli effetti. La settimana che si è appena conclusa ha visto le big oil di tutto il mondo riunite in un vertice a Istanbul, dove si è cercato di fare chiarezza sull’Iraq e sulle sue potenzialità. Sulla carta, l’ex regno di Saddam potrebbe essere il quarto produttore mondiale di gas e petrolio, grazie a una riserva complessiva calcolata intorno a 115 miliardi di barili. In realtà, la mancanza di infrastrutture e di denaro declassa l’Iraq alla dodicesima posizione. Secondo gli ultimi rilevamenti, il Paese produce 2,3 milioni di barili al giorno, contro i quasi 10 milioni dell’Arabia Saudita.

O

la sicurezza” e contatta l’agenzia che ritiene più adeguata a fornirle questo servizio. Tuttavia è a Baghdad che spetta l’ultima parola sulla scelta della società di contactors. È una esclusiva ragionevole: il governo iracheno non può permettere che una società privata straniera arrivi con i propri uomini armati sul territorio di sua giurisdizione. Il rischio

Il governo vorrebbe avviare in tempi brevi un’exit strategy per le agenzie di sicurity: oggi sono bersaglio dei terroristi delle guerre private è già stato vissuto con le vicende che hanno visto implicata la Blackwater.

La partnership nasce tecnicamente dall’accordo fra le istituzioni nazionali e le singole compagnie petrolifere. Queste ultime, però, restano assoggettate alla volontà delle prime. Baghdad comunque cerca di venire incontro agli investitori stranieri, per quanto le sue disponibilità di spesa non siano infinite. Ai contractors, si aggiunge infine la “Oil police”, un reparto delle Forze di polizia irachene atto esclusivamente alla protezione delle infrastrutture petrolifere. In quest’ambito, è sempre della scorsa settimana la conclusione del corso di addestramenti di 527 agenti di polizia iracheni che hanno seguito i corsi di specializzazione e consulenza messi a punto dalla Nato Training mission-Iraq (Ntm-I). Si è trattato di un risultato importante in cui, ancora una volta, i Carabinieri ita-

liani hanno svolto un ruolo da protagonista. Come si legge in una nota rilasciata dal comando Nato, «l’impegno dell’Arma ha fornito alla Polizia irachena competenze specifiche di elevato spessore professionale, in settori quali l’attività investigativa, la pianificazione operativa, il controllo della folla senza trascurare insegnamenti di etica professionale e di diritto umanitario». Unità di questo reparto appena diplomato andranno a costituire le forze che il governo al-Maliki ha stanziato per la sorveglianza dei pozzi. Sempre la scorsa settimana, si tenuta a Roma la “Nato Mp Chiefs Conference”. Un summit al quale hanno preso parte i comandanti delle Polizie Militari dei Paesi membri della Nato, i cui uomini sono impegnati nelle operazioni internazionali. Nel corso dei due giorni di lavori, sono state trattate le varie caratteristiche delle Mp, alcune delle quali sono costituite da forze militari di polizia a competenza generale, costantemente impegnate nel contrasto alla criminalità organizzata e al terrorismo internazionale. Sono stati esaminati i contributi delle singole unità nelle operazioni in Afghanistan, Iraq e Kosovo e i possibili sviluppi della specifica dottrina.

Nei limiti del possibile quindi – tenendo presenti gli ostacoli politici e di stabilità del Paese – l’obiettivo è riacquistare progressivamente il controllo della sicurezza anche intorno ai giacimenti petroliferi. Baghdad vede la presenza dei contractors come un aiuto che deve essere solo transitorio. Persone armate straniere sparse in Iraq rischiano di essere giudicate più come un nemico, invece che un sostegno a difesa della sicurezza comune. Sono un obiettivo per i terroristi, così come lo sono i pozzi. Per questo alMaliki vorrebbe avviare in tempi brevi un’exit strategy anche per le agenzie di sicurezza. Prima, tuttavia, bisogna stabilizzare la politica nazionale.

Nell’ambito sociale e del mercato del lavoro, dei 30 milioni di cittadini iracheni, circa un quarto vive al di sotto della soglia di povertà. Le stime più recenti indicano un’inflazione al 15%. All’inizio dell’anno il Business Intelligence Middle East, osservatore delle fluttuazioni economiche nella regione con base ad Abu Dhabi, ha pubblicato un sondaggio dal quale emergeva che il 36% degli iracheni intervistati considerava l’arretratezza economica del Paese prioritaria rispetto alle condizioni di sicurezza. In dettaglio, il 21% vedeva nella mancanza di lavoro come il primo problema che il nuovo governo avrebbe dovuto affrontare. È stato calcolato inoltre che nel 1990, prima delle due guerre del Golfo e delle sanzioni Onu inflitte al regime, il reddito pro capite iracheno era in media di 3.500 dollari. Oggi, dopo un lungo tracollo, il dato è tornato lo stesso di allora. Tuttavia il valore reale di 3.500 dollari attuali non è pari a quello di vent’anni fa. Il Paese quindi è caduto in un circolo vizioso. L’unica voce fuori dal coro giunge dal Kurdistan. La provincia, grazie alla conquistata autono-

mia, vanta una completa solidità economica. Questo non significa però che non sia esposta al pericolo di un tracollo dello stato di sicurezza interno. A proposito di quest’ultima, si può sinteticamente affermare che più ristagna l’economica e più i disoccupati sono esposti al rischio di essere reclutati come mujaheddin e terroristi. E ciò appare come un disincentivo per gli stranieri a investire in tutto il Paese.

O s s e r v a n d o n e l d e t t a g l i o il comparto petrolifero, possiamo sottolineare che il suo mancato rilancio è dovuto a ragioni politiche e di sicurezza. Una volta risolte queste, si potrebbe davvero auspicare che l’Iraq torni al benessere economico che gli era proprio circa trent’anni fa – quindi ben prima della guerra del Golfo e quando il conflitto con il vicino Iran non aveva ancora lacerato la società civile. Teniamo presente però che allora il Paese era soggetto alla dittatura di Saddam Hussein. Sul fronte politico, le major occidentali sono vittime dell’indolenza del governo di Nouri al-Maliki. Il ministro del petrolio, AbdulMahdy alAmeedi, continua a cambiare la carte in tavola per quanto riguarda le concessioni. L’ultimo esempio si è avuto nel corso degli ultimi quattro mesi in merito all’assegnazione dei maxi-giacimenti di Zubair, Akkas, Mansuriyah e Siba. La gara per ottenere i singoli appalti è in corso dall’inizio dell’anno. Oltre quaranta sono le compagnie coinvolte e fra queste ci sono anche Edison ed Eni. Ancora a giugno, al-Ameedi aveva rinviato per la terza volta il termine di presentazione delle offerte, stabilendo come data di scadenza il 20 ottobre. L’obiettivo di Baghdad era e resta quello di aumentare al massimo il numero di partecipanti all’asta, in modo da accontentare qualcuno e, una volta fissati gli appalti, lasciar aperta la speranza per chi ne è rimasto fuori di correre per altre e future concessioni. In questo senso, la tattica è chiara. (a.p.)


mondo

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Tensioni. A Parigi vive la più grande comunità di immigrati di tutta Europa e il capo dello Stato vuole lanciare un segnale politico al suo elettorato deluso

La “rom pax” di Sarkozy Dal Papa per spiegare che la Francia non è razzista, ma che è difficile governare una realtà multietnica di Enrico Singer iete mai stati nella metropolitana di Parigi? Chi ha fatto almeno una volta questa esperienza, ha sperimentato in pochi attimi che cosa significa vivere immersi nella più grande società multietnica d’Europa. Attraverso una scala mobile, è entrato in una specie di torre di Babele dove, paradossalmente, è proprio la lingua - pur con tanti accenti diversi - a unire volti, storie, culture, religioni, costumi, origini che hanno poco in comune se non il luogo in cui vivono gomito a gomito. A volte con tensioni violente. A volte con amori che superano le differenze. A volte con incomprensioni e sospetti. Non c’è bisogno di spingersi a Vitry, a Bobigny, a Saint Denis o in qualunque altro centro della smisurata banlieue - la periferia dove vivono 9 degli 11 milioni di abitanti della metropoli - per rendersi conto che, ormai, il rapporto tra parigini francesi e parigini immigrati, o figli di immigrati, è di metà e metà.

S

Nel Paese della Liberté, Égalité, Fraternité, sin dal primo censimento, non sono mai state fatte domande sull’etnia, né sulla re-

ligione, perciò non è possibile conoscere le percentuali esatte della composizione di una popolazione che, al primo gennaio di quest’anno, ha raggiunto i 65.447.374abitanti. L’unico dato certo è il numero delle persone che non sono nate in Francia: 6 milioni e 700mila, di cui 2.169.406 vivono proprio a Parigi. Ma dietro questi numeri ci sono almeno due generazioni di figli e discendenti di immigrati che sono nati in Francia e che moltiplicano per due o per tre il dato complessivo. Con risultati in qualche caso sorprendenti, come quello che mette al primo posto tra le comunità non di origini francesi quella portoghese arrivata tra il 1960 e il 1980.

Poi ci sono gli arabi arrivati dalle ex colonie - Algeria, Marocco, Tunisia - tra il 1950 e 2000. Poi, ancora, i neri africani (sia musulmani che cristiani) venuti dall’Africa Centrale e Occidentale tra il 1970 e il 2000. E gli ebrei sefarditi del Nord Africa arrivati negli anni ’60: da trecento a quattrocentomila di loro vivono nell’area metropolitana di Parigi che ha la più alta concentrazione di ebrei nel mondo occidenUna donna rom espulsa con la sua bambina. Nella foto grande, Sarkozy con il Papa. A destra, folla nel metrò

tale, dopo New York e Los Angeles. Ma ci sono, ancora più numerosi, gli asiatici sud-orientali provenienti dall’Indocina anche in questo caso, dalle ex colonie di Vietnam, Cambogia e Laos - e i neri sbarcati dai Caraibi francesi (Guadalupa e Martinica) tra il 1960 e il 2000. Poi ci sono i cinesi arrivati dalla Repubblica popolare, in gran parte dalla Manciuria e dalla regione di Wenzhou nella provincia di Zhejiang: un’immigrazione relativamente recente (apparsa a metà degli anni ’90) e per la gran parte illegale. Da ultimo, poi, sono arrivati i nuo-

lia - che trasmette la cittadinanza soltanto in base alle origini della famiglia. È difficile sostenere che sia razzista un Paese - e il suo governo - che ha fatto dell’inclusione e dell’uguaglianza dei diritti il fondamento della sua politica d’integrazione degli immigrati. È anche vero, però, che è altrettanto difficile sostenere che la Francia sia il Paese delle meraviglie dove regna l’armonia e tutti si sentono fratelli. Multietnico, multirazziale, multiculturale sono termini che hanno significati diversi e la Francia oggi quella di Sarkozy, ma ieri

Il rapporto tra i parigini francesi e non è di metà e metà sul totale di una popolazione che ha raggiunto gli 11 milioni di abitanti. Il governo insiste sull’integrazione, ma i problemi esistono vi immigrati dall’Europa orientale, ormai “comunitari”. Quello che in un vagone della metropolitana sembra un variopinto intreccio di etnie, è in realtà lo spaccato di una società che è cambiata in fretta dalle immagini tradizionali della Francia fissate nei film in bianco e nero del commissario Maigret, ma anche in quelli già a colori del comico capitano della Gendarmeire interpretato dall’attore Louis de Funès che, guarda caso, arrivava anche lui da fuori, dalla Spagna, con discendenza dai marchesi di Galarza della nobiltà di Siviglia.

In questi mesi di polemiche feroci sulle espulsioni e sui “rimpatri volontari”dei rom decisi da Nicolas Sarkozy, sul razzismo che sarebbe presente in Francia sono state scritte molte analisi costruite più su basi ideologiche che su dati di fatto. È difficile sostenere che sia razzista un Paese e il suo governo che ha scelto lo jus soli assicurando la cittadinanaza a chiunque nasca sul suo territorio, anche da genitori entrambi stranieri, e non quello jus sanguinis - in vigore, per esempio in Ita-

anche quella di Mitterrand - è un Paese che vuole essere “di francesi”, con il rispetto delle tante minoranze, ma anche con il rispetto delle leggi da parte di tutti i suoi cittadini, di qualsiasi origine siano.

Soltanto gli imperi erano veramente multietnici - quello asburgico, quello ottomano, quello britannico, quello zarista, poi quello sovietico (e in parte ancora quello della Russia di Putin) - perché controllavano altri Paesi e altre popolazioni. Oggi gli Stati Uniti possono definirsi multietnici per-

ché sono un Paese nato con l’immigrazione: chiunque vi è stato accolto è diventato americano indipendentemente dall’etnia, anche se, in realtà, negli Usa ci sono tanti hyphenatedamericans, gli americani col trattino, come gli italo-americani, gli afro-americani, gli ispano-americani. Ma tutti con gli stessi diritti e con le stesse opportunità, come dimostra l’afro-americano Barack Obama entrato alla Casa Bianca. Questo non significa che negli Stati Uniti non ci sia - e, soprattutto, non ci sia stato - razzismo. È proprio in una società plurietnica che le tensioni sono più frequenti. Perché - generalizzando - si possono identificare due categorie di razzismo. Quella dei Paesi chiusi che vogliono difendere la presunta superiorità della loro “razza” e


mondo

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Terzo summit tra Benedetto XVI e il presidente

L’incontro “riparatore”

Vaticano ed Eliseo alla ricerca di una ventata di popolarità di Antonio Picasso l terzo incontro fra il papa Benedetto XVI e il presidente francese, Nicolas Sarkozy, si è svolto all’insegna della piena cordialità. Entrambi, Vaticano ed Eliseo, sono alla ricerca di una ventata di popolarità, in seguito ai problemi di immagine trascorsi da ciascuno. Lo scandalo della pedofilia si è infiltrato nell’opinione pubblica transalpina, tradizionalmente sensibile alle crisi della Chiesa.

I

che cercano di sbarrare la strada all’immigrazione e ai diversi. E quella dei Paesi aperti in cui il razzismo è un fenomeno esasperato e perverso del rifiuto di un’altra etnia. In quest’ul-

Con la parte più estremista dei giovani immigrati di seconda o terza generazione che rivendica le proprie origini e rifiuta il modello sociale francese. Con la parte più reazionaria dell’o-

Dalla rivolta delle banlieues, alle espulsioni degli ultimi mesi, passando per il no all’ingresso della Turchia nella Ue, la strategia dell’inquilino dell’Eliseo che pensa ormai alle elezioni del 2012 tima categoria si deve considerare il razzismo dell’America della discriminazione dei neri.

Anche le tensioni a sfondo razziale che ci sono state e che ci sono ancora in Francia entrano in questa seconda categoria. E si muovono a doppio senso, come le rivolte nelle banlieues vecchie e recenti - dimostrano.

pinione pubblica - sia composta da puri gaulois, sia da immigrati integrati - che pretende soltanto legge e ordine. Un intellettuale come Alain Finkielkraut, attento osservatore della società del suo Paese, ha scritto che «mentre la Francia predica integrazione e laicità e rinnova costantemente l’allerta contro i fenomeni di razzismo e antise-

mitismo mischiati al crescendo di violenza nei ghetti urbani, il malessere sociale endemico fa emergere fenomeni di razzismo rovesciato». Una sorta di «francofobia» che scatena, a sua volta, reazioni altrettanto pericolose. Un rapporto del ministero dell’ Educazione nazionale ha censito in un anno oltre 1500 episodi contrapposti d’intolleranza che sono lo specchio del quotidiano scontro sociale nelle periferie in un miscuglio confuso di ostilità nei confronti dei francesi bianchi, degli ebrei, ma anche degli immigrati, in paprticolare, dei musulmani e della cultura islamica.

Quando Nicolas Sarkozy era ancora ministro dell’Interno e si confrontava con la rivolta delle banlieues, nel 2004, disse che «non c’era bisogno di qualche banda di giovani neri o maghrebini scatenati per sapere che esistono due categorie di francesi e che non basta il successo di campioni come Zidane a nasconderlo». Poi sono arrivate le altre scelte del Sarkozy presidente: il no alla Turchia in Europa e, infine, la sua offensiva contro i rom. Che - va sempre ricordato - in Francia sono appena 15mila: l’anello più piccolo e più debole della catena dell’immigrazione. È davvero razzismo? O più verosimilmente è un segnale politico lanciato a quella parte di elettorato che si è già allontanata da lui? Il nuovo Sarkozy, in fondo, non fa altro che tentare di ripercorrere la vecchia strada che lo portò all’Eliseo. Con quale fortuna si vedrà soltanto nel 2012.

Il pontefice ha promosso una politica di trasparenza e di riconoscimento degli errori, dove essi siano stati commessi. In Francia questo ha provocato un profondo dibattito fra laicismo e clero nazionale. Sarkozy, a sua volta, è probabile che si sia reso conto di aver commesso un’esagerazione, per quanto riguarda la sua linea dura di espulsione dei rom. La scorsa settimana, l’Unione europea ha annunciato l’apertura di una formale procedura di infrazione nei confronti di Parigi. Questo non ha provocato alcun cambiamento di rotta. Adesso però, il presidente francese è voluto giungere a Roma con l’intento di chiarire la questione di fronte a un’autorità morale che, nel Paese, è stata la prima a sollevare i dubbi sulla positività della vicenda. Il summit, tuttavia, non va visto esclusivamente come un incontro riparatore. È vero che a Sarkozy ora serve l’appoggio della Chiesa per recuperare sul terreno elettorale. Mentre il clero necessita della spalla dello Stato laico francese al fine di conservare la sua posizione di riferimento per la coscienza collettiva. D’altro canto, Benedetto XVI e Sarkozy sono impegnati in prima persona nella politica internazionale e, come attori protagonisti di questo settore, desiderano percorrere lo stesso cammino. In Vaticano si è parlato di pace, di Medio Oriente e di immigrazione. A questo proposito, il cardinale francese Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso,

ha guidato un breve momento di preghiera per la Francia, nella cappella di Santa Petronilla in San Pietro. Al raccoglimento ha preso parte lo stesso Sarkozy dopo essersi incontrato con il Santo Padre e il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone. Una collaborazione ancora più esplicita si è riscontrata nell’ambito del processo di pace in Medio Oriente. Domani si aprirà a Roma il sinodo dei vescovi delle Chiese orientali. L’evento è stato preparato con cura ed è atteso da tempo. Il cristianesimo, soprattutto nel mondo arabo-islamico, sta cadendo

Collaborazione ancora più esplicita nel processo di pace in Medio Oriente, in vista del sinodo dei vescovi delle Chiese orientali vittima di una diaspora quasi irrecuperabile. Roma, incontrando i responsabili delle diocesi cattoliche locali e ospitandone la loro riunione nelle prossime due settimane, desidera mettere un freno a questo fenomeno. La Chiesa vuole tornare a essere una voce importante e ascoltata nelle terre in cui ha mosso i primi passi. Non può infatti permettersi di perdere la Terra Santa. Auspici della stessa portata sono riscontrabili a Parigi.

Il ministro degli esteri francese, Bernard Kouchner, insieme al suo omologo spagnolo, Miguel Angel Moratinos, visiteranno i Territori palestinesi e la Giordania proprio in questi giorni. Sarkozy spera invece di riunire il 21 ottobre a Parigi il premier israeliano, Benjamin Netanyahu e il presidente dell’Autorità palestinese, Abu Mazen, e il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton. Roma d’oltre Tevere e Parigi vogliono camminare insieme sui terreni più accidentati della politica globale.


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pagina 28 • 9 ottobre 2010

Il dopo voto. L’unico vero vincitore delle elezioni è internet SARAJEVO .In questa prima settimana di risultati non-ufficiali, ma comunque sufficienti a dichiarare vincitori e vinti delle elezioni di domenica scorsa, è partita una guerra di tutti contro tutti, con poche eccezioni. I partiti vincenti Sdp (Partito socialdemocratico della Bosnia Erzegovina) e Snsd (Unione dei socialdemocratici indipendenti), in vista della costituzione del governo statale, hanno cominciato ad affilare le armi della retorica, il primo pan bosniaco-erzegovese, il secondo separatista. Gli sconfitti eccellenti della Republika Srpska (Rs), il Partito del progresso democratico (Pdp) e il Partito democratico serbo (Sds), e l’Unione per un futuro migliore (Sbb) nella Federazione, urlano che non riconosceranno i risultati delle elezioni presidenziali, parlano di macchinazioni e truffe nei seggi. Il partito croato numero uno invece, l’Unione democratica croata (Hdz), dichiara giunto il tempo per la costituzione della terza entità croata, furibondo per essere stato “defraudato” del proprio rappresentante etnico alla presidenza.

Bosnia Erzegovina: tutti contro tutti Vecchi politici sì, ma nuove voci in vista. Questa volta scelte dalla Rete di Valentina Pelizer

D u r a n t e l a c a m pa g n a elettorale è emersa una nuova retorica, una retorica degli orti. La competizione si è spostata dal piano nazionale a quello interno delle entità. Quest’anno gli scontri più accesi sono stati fra i partiti con candidati alla presidenza e, dato l’apartheid elettorale, i politici della Rs si sono attaccati fra di loro per il rappresentante serbo, mentre quelli della Federazione per i rappresentanti croato e bosgnacco. Così i croati dell’Hdz hanno combattuto rilanciando una campagna fortemente etno-centrica, che li ha visti stravincenti nei propri territori (con pun-

gli “altri” (né serbi, né croati né bosgnacchi) che in questo paese servono solamente da abbellimento multietnico per le visite internazionali mentre aspettano di avere un giorno uguali diritti politici attivi e passivi come gli altri cittadini.

Queste elezioni, alle quali molti si sono riferiti come

È emerso di nuovo un Paese intrappolato nelle alchimie etniche di Dayton, ma con una coscienza civica che usa il web per farsi spazio te superiori al 40%) ma sconfitti alla presidenza. Li ha giocati il candidato dell’Sdp, Komsic, che ha a sua volta puntato su una carta di identificazione nazionalista, anche se non etnica, ed è stato votato in maniera trasversale da una popolazione bosniaco-erzegovese che non si identifica nell’essere bosgnacca. Puntando al mito del paese unico ha raccolto i voti di bosgnacchi liberali, serbi della federazione, croati non nazionalisti e soprattutto dei famosi “ostali”,

«l’ultima opportunità per il cambiamento», hanno rivelato in maniera impietosa gli orientamenti di media e giornalisti, sopratutto della Tv e della carta stampata. I casi più eclatanti sono stati quelli di Dnevni Avaz e Tv Alfa, dalla parte del loro proprietario Radoncic, leader dell’Unione per un futuro migliore Sbb (di ispirazione berlusconiana, come esplicitamente dichiarato dal suo fondatore). Abbiamo assistito poi al lancio di Tv1, fondata dalla miliardaria Jenkins

Bruxelles cancella il visto per l’area Schengen

Sarajevo più vicina alla Ue Con il 34,65% dei consensi Bakir Izetbegovic (ma ricordiamo le cifre record dell’astensionismo a questa tornata elettorale: un bosniaco su due è rimasto a casa) candidato del Partito d’azione democratica (Sda) - figlio di Alja, il pater patriae dei musulmani di Bosnia - è il nuovo membro musulmano della Presidenza della Repubblica bosniaca tripartita su base etnica. Questo dato, sebbene non totalmente definitivo, è comunque certo. Al seggio croato è stato confermato con il 57,07% Zeliko Komsic, del Partito social democratico (Sdp), degli ex comunisti ed il solo con base elettorale multietnica ad avere un certo peso specifico nello scenario politico bosniaco. Salvo sorprese dell’ultima ora, rinnovo del mandato qua-

driennale anche per il seggio serbo, dove con il 49,84% dei voti Neibosa Radmanovic, dell’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (Snsd), primo partito della Repubblica Srpska (l’entità serba del Paese), di impronta fortemente nazionalista e ostile allo stato centrale bosniaco. Radmanovic è però tallonato con il 47,07% da Mladen Ivanic, presidente di una coalizione in gara con l’Snds, il cui leader Milorad Dodik è stato eletto nuovo presidente dell’entità serba. In questo crocevia di poteri, la Ue si è inserita ieri abolendo i visti d’ingresso per l’intera area Schengen, sia per la Bosnia che per l’Albania. Che così si aggiungono al via libera ottenuto da altri tre paesi balcanici: Macedonia, Montenegro e Serbia.

di origini bosniache che, insieme a Dani, uno dei maggiori settimanali della Federazione, hanno preso posizione a favore di Haris Silajdzic (presidente uscente e vero sconfitto nella corsa elettorale), costruendo una campagna contro l’Sdp e contro gli altri partiti “bosgnacchi”. La Tv federale invece, con Bakir Hadziomerovic (il redattore di “60 minuti”, una delle trasmissioni politiche più seguite), ha fatto apertamente campagna per l’Sdp. Quanto alla Rs, Dodik ha mantenuto saldamente il controllo su tutti i media tradizionali, fino a “negare” il diritto di Alternativna Tv a fare reportage sulle elezioni.

Adesso i cittadini della Bosnia Erzegovina possono scegliere di rintanarsi nei propri gusci, tapparsi le orecchie e fare finta di niente per i prossimi 4 anni, oppure possono comprendere che hanno di fatto avviato un cambiamento. Il cambiamento non sta tanto nel voto, ma nel potere (dimostrato) di deridere e di mobilitare. La guerriglia mediatica fatta dal sito pritisak contro Dodik Pritisni i za malo vode Mile ode (tira l’acqua e Dodik se ne va, ndr.) alludendo a come tirando la catenella anche Mile (Milorad) può essere sciacquato via, è solo un esempio a cui vanno aggiunti spot satirici prodotti da gruppi e cantanti apprezzati come Frenkie a Dubioza Kolektiv, video quali gdjelova.ba (dove sono i soldi), le passeggiate politiche delle Glavuse di Akcija gradjana (grandi teste in cartapesta, caricature dei leader politici al potere) a Banja Luka, Sarajevo e Mostar indicano che la paura, il rispetto verso il potere è messo in questione da più parti. Quello che emerge è che nessun partito ha vinto, non ci sono maggioranze strabilianti e perfino la macchina dell’Snsd di Dodik esce ammaccata e meno forte. Ancora una volta emerge una Bosnia Erzegovina intrappolata nelle alchimie etniche di Dayton ma quello che c’è di nuovo, autoctono e trasversale è una coscienza civica che usa l’arte e il multimedia per farsi spazio. Pronta a desacralizzare i signori della politica e a deriderli, creando alla lunga lo spazio necessario affinché quei messaggi che si basano su programmi e visioni conciliative, come quelli promossi da Nasa Stranka e dalla campagna di Raguz, candidato croato di HDZ 1990 alla presidenza, possano essere colti e non passare inosservati.


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9 ottobre 2010 • pagina 29

Ucciso anche il governatore della provincia di Kunduz

A settembre persi 95mila posti di lavoro: peggio delle previsioni

Attentato nella moschea: 14 morti in Afghanistan

I disoccupati Usa restano inchiodati al 9,6%

KABUL. Ennesimo attentato ieri in Afghanistan dove la violenza ormai si ripete senza sosta. Il governatore della provincia di Kunduz, Muhammad Omar, è rimasto ucciso in un attentato a una moschea della vicina provincia di Takhar, nel Nord del Paese. Secondo i mezzi di informazione locali, sono rimaste uccise almeno altre 14 persone mentre sono una ventina i feriti. Nessuno ha rivendicato la responsabilità dell’azione terroristica, che comunque è la più grave verificatasi in Afghanistan dopo le elezioni legislative del 18 settembre scorso. Negli ultimi tempi, comunque, i Taliban hanno rafforzato molto la loro presenza nelle province settentrionali afghane. La polizia ha riferito che una forte esplosione è avvenuta durante la preghiera del venerdì in una moschea di Taloqan. Non è ancora chiaro se l’attentato sia stato compiuto da un kamikaze o con un ordigno azionato a distanza: un team di inquirenti è giunto sul luogo dell’attaco per verificare quanto avvenuto ma ancora non c’è una versione ufficiale. Tra le vittime dell’attacco vi sono anche alcune guardie del corpo del governatore di Kunduz. Il governatore della provincia di Takhar, Abdul Jabar Taqwa, ha indicato che lo scoppio ha investito centinaia

WASHINGTON. Gli Stati Uniti perdono altri 95mila posti di lavoro nel mese di settembre, secondo i dati del dipartimento del Lavoro, a conferma del momento di forte rallentamento dell’economia. E ora appare sempre più vicino un intervento della Fed a sostegno della crescita, con nuove misure di stimolo monetario. La perdita di posti di lavoro di settembre, riferita ai settori non agricoli, si aggiunge a quella di agosto (57mila, dato rivisto dal precedente -54mila) e a quella di luglio (-66mila, rivisto dal precedente -54mila). Il numero del mese scorso è superiore alle previsioni di economisti e operatori, che indicavano una variazione nulla dei posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione si attesta al 9,6% in settembre, in

In Vietnam è l’ora delle “case freccia” Sottili come un foglio di carta, ci abitano famiglie intere di Francesco Tortora

HANOI. A causa della forte inurbazione, ad Hanoi diventano sempre più diffuse le“mini case”o “case sottili”, quelle che gli architetti e gli urbanisti vietnamiti chiamano invece le“case freccia” (dalla forma appuntita del tetto), per combattere contro la sempre più crescente penuria di spazi, sottratti dai grattacieli e dalle grandi sedi societarie. Nel 1991, per acquistare 32 metri quadri d’appartamento nei sobborghi di Thai Ha Street, nel Distretto Dong Da erano sufficienti 18 once d’oro in valore, dopo soli due anni a causa del forte incremento dei valori abitativi e dei nuovi piani regolatori, il valore d’acquisto della stessa metratura nello stesso quartiere è giunto a livelli tali per cui ora ti ci compri il solo angolo/cottura. Dall’esterno, le case di quel quartiere sembrano una specie di divisore in cemento, piazzato nel bel mezzo di una strada trafficata. Lui, ovvero il capo famiglia, usa il primo piano per la sua moto. Il secondo piano è praticamente il soggiorno, ma senza spazio né per il tavolo né per le sedie, giusto lo spazio di un guardaroba adatto più per le Barbie che per una famiglia. La camera da letto ed il bagno sono al terzo piano ed infine c’è un locale lavanderia in cima, al quarto piano. «Sai, dice il capo famiglia, a prima vista sembra alquanto scomodo ma quando cominci a viverci, ti ci adatti e va bene lo stesso anche così. Oltretutto si affaccia sulla parte principale della strada, il che per noi è davvero conveniente!». Infatti, il “core business” (diciamo) della famiglia è l’attività di lavanderia anche con consegna a domicilio. Per questo, ogni centimetro quadro disponibile in casa è occupato dagli abiti dei clienti della lavanderia a conduzione familiare. Anche l’appartamento situato al numero 56 di Nguyen Phuc Lai Street nel Distretto Dong Da, un casa di proprietà del 37enne Pham Minh Duc, è un altro luminoso esempio di casa costruita con i nuovi criteri edilizi. La struttura-base è un metro in profondità e tre metri in lunghezza. Il piano terra ha sufficiente spazio per una super-micro-toi-

lette, al secondo piano vi è la camera da letto e il soggiorno. «Queste case stanno distruggendo non solo l’intera vista del tessuto urbano ma stanno danneggiando persino le nostre vite, non solo in quanto proprietari ma anche dal punto di vista delle semplici persone che attraversano il quartiere», afferma Do Tu Lan, direttore del Reparto di Sviluppo Urbano, presso il ministero dei Lavori Pubblici. Si tratta di un funzionario che più volte ha manifestato il suo dissenso rispetto ai piani di sviluppo ed alle regolamentazioni del settore introdotte dal governo.

Ed anzi, ha più volte suggerito forme alternative di edilizia più rispettosa non solo dell’ambiente e della salute psico/fisica degli abitanti ma anche più rispettose degli stilemi costruttivi tipici e riconoscibili dello spirito vietnamita. Il suo malessere è reso ancor più casustico man mano che coscientizza di essere come una canna che s’agita nel deserto. Cioé, Do Tu Lan resta quasi sempre del tutto inascoltato. I problemi connessi con il settore edilizio in Vietnam sono ulteriormente aggravati da quel che sta accadendo nel campo dell’indotto edilizio, ovvero i cementifici, vicino all’orlo del collasso produttivo. Il ministero dei Lavori pubblici, infatti, sta per presentare una legge per una sospensione delle concessioni relative a nuove linee di produzione in ambito cementizio, per porre un qualche limite ad un settore che ormai si avvia ad essere “surriscaldato”, oltretutto tra quelli a maggior tasso di inefficienza in quanto a corretto utilizzo dell’energia (altro tasto estremamente delicato in varie nazioni d’Asia impegnate sul fronte dello sviluppo, non solo ovviamente il colosso cinese). In base ai dati, per ogni milione di tonnellate di cemento prodotto, il settore energetico deve fornire almeno 90-95 milioni di Kilowatt/ora. Una pressione insostenibile, nelle parole dello stesso ministro con l’incarico del dipartimento dei materiali da costruzione,Vu Quang Diem.

Garage per una moto al primo piano; soggiorno al secondo, letto e wc al terzo e lavanderia al quarto. In totale 32 mq.

di persone che partecipavano alla preghiera. La moschea è vicina all’università del capoluogo provinciale Taloqan e tra i fedeli c’erano moltissimi studenti, ma anche parecchi anziani membri dei consigli tribali locali. Tra le vittime, oltre a Omar, c’è l’imam della moschea.

Sempre ieri, a Kandahar un religioso membro del locale Consiglio degli ulema è stato assassinato da sconosciuti che erano a bordo di una motocicletta. Nel maggio 2005, un altro commando aveva ucciso a colpi d’arma da fuoco l’allora capo del Consiglio degli ulema di Kandahar, Maulvi Abdullah Fayyaz.

linea con il dato di agosto. «A prima vista sono dati parecchio brutti, ma se si va a guardare al settore privato c’è un miglioramento per quanto inferiore alle attese. Il grosso dei licenziamenti arriva dal pubblico, e riguarda chi ha lavorato al censimento», commenta Jay Suskind di Duncan-Williams. Gary Thayer di Wells Gargo Advisors sottolinea come ci sia ancora una «crescita debole dell’occupazione nel settore privato» che, unita alla perdita di posti nelle amministrazioni federali e statali, appesantisce tutto il mercato del lavoro. Nel settore privato sono stati creati in settembre 64mila nuovi posti, meno dei 75mila previsti e dei 93mila di agosto (rivista da +67mila). Nel pubblico si sono invece persi 159mila i posti contro i 150mila cancellati nel mese precedente. «Credo che nel complesso i numeri siano abbastanza negativi da convincere la Fed a impegnarsi nel quatitative easing» spiega all’agenzia di stampa Reuters Mark McCormick di Brown Brothers Harriman. «Si pensa ad un programma di acquisti da 500 miliardi di dollari e non penso che questi numeri vadano a cambiare di molto la questione».


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il personaggio della settimana Storia (e possibile agonia) di un fiume che attraversa le culture e le tradizioni

Il bel Danubio rosso Dai fasti mitteleuropei agli orrori del nazismo; dalla ricchezza della miseria filosovietica alla rinascita di oggi. Fino all’ultimo disastro che oggi ne minaccia l’integrità ambientale di Marco Ferrari

Il valzer, fin dai tempi di Strauss, è sempre stato accomunato al Danubio e all’Impero Austroungarico. Nella pagina a fianco, due immagini del fiume, sotto l’invasione mortale dei fanghi rossi

l fiume scorre nella storia dell’Europa e ne segna la sua evoluzione, nel bene e nel male, cambiando bandiere, confini, colore e umore, a seconda dei casi. Adesso che il fango rosso, fuoriuscito da una fabbrica di alluminio in Ungheria, lo ha raggiunto, minaccia di contaminare l’intero ecosistema del secondo fiume più lungo d’Europa. Il bel Danubio blu non c’è più. Nessuna canzone muterà il suo destino.

I

Così connaturato alle vicissitudini dell’uomo, il Danubio significa cultura mitteleuropea, crogiuolo di etnie, lingue, letterature, musiche e poesie che in quella corrente un tempo si contaminavano, come oggi il fiume si contamina d’inquinamento. Ma Danubio è da sempre sinonimo di frontiere, fin dai tempi delle conquiste romane e turche. Di qua e là scorre un flusso di identità che non si mischiano, che accettano l’ampiezza di quel distacco d’acqua immutabile nelle stagioni e nei secoli. Nel suo tragitto sinuoso tocca ben dieci Paesi: gonfia la pancia di sei stati (Germania, Austria, Slovacchia, Ungheria, Croazia, Serbia), di altri due (Bulgaria e Romania) ne determina il confine, di un altro, la Moldova, ne lambisce un tratto navigabile di 570 metri e infine per 47 chilometri divide le sponde tra Ucraina e Romania sino al suo mutabile e variabile delta. La geografia è ben poca cosa rispetto alla cultura che determina nelle sue famose anse, svolte che determinano idiomi, sguardi e persino modi diversi di chiamarlo, Danubio, Dunau, Duna, Dunaj, Dunav, Dunrea. Cesella città come Ratisbona, Vienna, Bratislava, Budapest, Belgrado, Ulm, Resensburg, Novi Sad modellandone il profilo urbanistico, i tempi di vita, i locali, le luci, la bruma, diventandone colonna sonora imperterrita, sottofondo di battiti cardiaci di capitali inquiete, destinate a determinare le vicende del vecchio continente. Da ultimo i suoi ponti aprono e

chiudono storie importanti che sembrano non finire più come testimoniato dall’ingresso di Napoleone a Vienna nel 1809 oppure dal grido di Hitler, «Cancellatimi Belgrado dalla faccia delle terra» o ancora dai bombardamenti su Belgrado nel 1999 che ci significarono l’impossibilità della convivenza pacifica. Già nel suo nascere, come ci racconta Claudio Magris nel sempiterno Danubio, il fiume è sinonimo di contrasti. Due paesi tedeschi, infatti, se ne contendono la paternità a suon di carta bollata, marce di protesta e sprezzanti dimostrazioni: le cittadine si chiamano Furtwangen e Donauschingen e distano pochi chilometri di distanza. Un esordio poco pacato che pare orientare il percorso irruente che il Danubio segnerà nel suo passaggio tra bellezze e oltraggi, monumenti e offese, grida strozzare di libertà e poesie lasciate liberamente scorrere sulla superficie dell’acqua. Forse nessun corso come il Danubio ha un’innata propensione a far distinguere l’uno dall’altro, ad accentuare il diverso che sta sull’altra sponda, ma allo stesso tempo ad esserne attratti. Come nel film di Théo Anghelopoulos Il passo sospeso della cicogna il confine che separa un Paese dall’altro è sinonimo di distanza ma anche di affinità. L’interprete della pellicola, Marcello Mastroianni, sta con un piede posato su un territorio e un altro sollevato sull’altro territorio («Se faccio un passo sono altrove ... oppure sono morto»): un’immagine per condensare la convinzione che le frontiere debbano venir cancellate.

Ma al di là della completa navigabilità del sistema fluviale, nessuno è riuscito a farne un flusso di contatti di culture, neppure gli Asburgo con loro grandezza militare e nobiliare. Le sinfonia di Mozart come i walzer di Strass spezzano le loro note sui fili spinati che determinano ancora le frontiere, un tempo esclusivamente politiche, oggi prevalentemente economiche. Qui sono nati eccessi che hanno segnato i nostri sogni, i lager nazisti di Mengele e Eichmann, la sistematica uccisione della cultura klezmer, la rivolta di Budapest del 1956, la fine in diretta televisiva del regime di Nicolae Ceausescu, sino ai drammatici casi di Bosnia e Kosovo in epoca di globalizzazione. Ma


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Sono sei le vittime del disastro ROMA. Cinquanta tonnellate di ar-

su queste sponde danubiane sono nate anche le teorie di Sigmund Freud che hanno spalancato le porte alla modernità, la deontologia dell’arte e della letteratura di Gyorgy Lukáks, le metamorfosi paradossali di Franz Kafka, le ricerche interiori di Sandor Marai, il cosmopolitismo di Elias Canetti. Se l’Occidente viene interpretato, secondo l’etimologia, come terra del tramonto (il sole che tramonta, occidit), il suo grande fiume, vale a dire il Danubio, ha sempre rappresentato mitologicamente la volontà di cambiamento, di movimento dell’Europa molteplice e mai identica. Così il secondo corso fluviale del vecchio mondo pare quasi il

Tra scontro e incontro, questo fiume ha osservato da sempre declini e ascese di grandi imperi, ideologie, politiche, religioni e regimi simbolo continente che rifiuta la logica della stabilità, che sperimenta sulla propria pelle le esasperazioni ideologiche e politiche. Un fiume, dunque, che alimenta il sangue dell’Europa riunendo memoria e vita, passato e futuro, riconoscendo la propria intrinseca molteplicità che poi si è diffusa, con la stessa costanza, nel resto del pianeta, sino all’Australia, alla Patagonia, al Canada, la dove le antiche civiltà danubiane e mediterranee si sono riprodotte. E chi ha voluto mettere ordine a queste molteplicità mai ci è riuscito, da Napoleone agli Asbur-

go, da Hitler a Stalin. Quel corpo scuro e acquoso che entra nel ventre delle città e delle nazioni, determinandone il cambiamento costante, porta un fluttuare di esistenze inarrestabile ma anche un mutamento del paesaggio, da linde pianure e piste ciclabili, da curve perigliose a gole rocciose.

Quelle delle Porte di Ferro sono considerate uno spartiacque tra due mondi diversi, all’odierno confine tra Jugoslavia e Romania. Qui il fiume pare restringersi, destinato a farsi niente, a farsi gola, eco, ma poi si ravviva, raggiunge la pianura della Valacchia dove prende corpo l’ultimo tratto che si getta nel Mar Nero dopo un percorso di 2.960 chilometri dei quali 2.427 navigabili. Alle Porte di Ferro, confine tra i confini, dove anche i romani intervennero con la costruzione di un ponte che doveva unire i due mondi, la Mitteleuropa arresta il cammino e lascia spazio ad altri bacini geografici, culturali e poLo litici. scrittore tedesco Felix Hartlaub, inviato qui nella seconda guerra mondiale, parla di «giungla sudorientale» includendo tutto ciò che esiste oltre Belgrado, in una nebbia storica e visiva che rende indefinibili le terre balcaniche. Già in questa divisione fisica si consuma, al termine oramai consolidato della guerra fredda, la fine del concetto di Mitteleuropa annientato dall’irrompere irrequieto della modernità politica, dal ravvivarsi di antichi nazionalismi e di divisione etniche e religiose, quasi che il grande fiume rifiutasse la logica unitaria a cui volevano spingerlo sia gli uomini di Stato sia

i popoli forti della storia, dai Romani ai Visigoti, dai Tedeschi ai Russi. Persino i singoli contenitori non sono più gli stessi di qualche decennio fa, la Germania è unita, la Cecoslovacchia divisa, la Jugoslavia dissolta, Serbia e Croazia si sono spartite le sponde, il blocco comunista cancellato, Ucraina e Moldova trattano su alcune decine di metri di fanghiglia, la stessa povera Moldova avvia la costruzione di un porto fluviale, unico sbocco d’acqua della irrequieta Bessarabia e la Romania non è più una falsa terza via ma l’unica via finale che il Danubio imbocca prima di farsi mare. Al di là dei cambiamenti il fiume principale dell’Europa va avanti nel tempo, secondo la lezione formulata da Giuseppe Ungaretti nella splendida poesia «I fiumi». L’acqua scorre sempre rappresentando il movimento della nostra vita, delle nostre speranze, dei nostri timori e delle generazioni che ci hanno preceduto e che hanno contribuito a fare di noi ciò che adesso siamo. Per penetrare nell’anima dei luoghi lungo il fiume, come ha fatto Magris nel suo rinomato volume “Danubio”, occorre comprenderne la complessità, la frammentazione, la problematicità e soprattutto la centralità storica, qui dove ogni pezzo di terra è conquista, affronto, linciaggio, tormento, appartenenza. Tra scontro e incontro, il Danubio ha osservato da sempre declini e ascese di imperi, ideologie, politiche, religioni, unità e divisioni etniche, cambiamenti repentini di nome e frontiere. Talvolta ha sopportato le tecnologie umane che hanno imposto distruzioni ambientali, dighe, ponti, strettoie, annientato comunità, edifici e siti archeologici. Infi-

senico liberate nell’ambiente, mercurio e cromo a livelli altissimi. Greenpeace ha pubblicato i risultati delle analisi dei campioni di fanghi tossici prelevati martedì, a un giorno dall’incidente avvenuto nell’impianto di lavorazione dell’alluminio di Ajka, nell’Ovest dell’Ungheria. Le analisi rilevano valori di metalli pesanti «sorprendentemente alti». Oltre a mercurio e cromo, «elevata soprattutto la concentrazione di arsenico». Greenpeace stima che i fanghi tossici fuoriusciti dall’impianto «hanno liberato nell’ambiente circa cinquanta tonnellate di questo metallo tossico». L’arsenico, pericoloso per piante e animali, può accumularsi in particolare negli invertebrati e danneggiare il sistema nervoso degli uomini, come pure il mercurio che si accumula in particolare nei pesci. «Questa contaminazione - ha spiegato Vittoria Polidori, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia - rappresenta un grave rischio per gli ecosistemi acquatici, le falde di acqua potabile e la salute pubblica, anche a lungo termine. Denunciamo il tentativo di occultamento del Governo ungherese, che non ha ancora pubblicato alcun dato sulla contaminazione dei fanghi». Intanto, ieri il fango ha fatto la quinta e la sesta vittima: due operai della fabbrica di alluminio dalla quale è uscito il veleno.

ne eccoci al delta, un magma non di lava ma di detriti dove il materiale alluvionale portato dal Danubio aumenta la larghezza di circa 40 metri, rendendolo estremamente dinamico. A Tulcea, contraddittoria cittadina di scambi e incontri, il rio si divide in tre rami. Nessuno sa cosa incontrerà in quel tragitto mobile di paludi, laghi, salici, pioppi, foglie, fango, dune, giunche, canne, uccelli, anatre, oche, pellicani, pesci d’acqua dolce e capanne di paglia inondate periodicamente. Schivano i battelli turistici, kayak tradizionali, pescatori di trote, storioni e aringhe, motoscafi con cacciatori a bordo e barche di legno che salgono e scendono alla scoperta di ciò che il Danubio ha prodotto nel lungo tragitto. Le acque sembrano appartenente sollevate di scaricare il peso delle tensioni del viaggio in tutto quell’attraversare ostilità e confini, etnie e lingue, porti fluviali e villaggi. Come, se non bastasse tanto cambiamento d’umore e di bandiere, sulla parte ucraina risiedono gli ultimi Livopani, discendenti dei «fedeli del vecchio rito» che lasciarono la Russia nel 1772 per evitare persecuzioni razziali. Un tassello in più all’insieme di storie che si delineano sul fiume. Qui, sul delta, la vegetazione palustre e riparia, con formazioni uniche in Europa, ammanta di mistero la fine del viaggio. Accanto ai canneti si incontrano fioriture notevoli di ninfea, loto e piante carnivore nel più incredibile parco naturale europeo. Avanzando nella nebbia si notano poi lembi di selva con salice, pioppi, querce e frassini di varie specie, a volte con esemplari secolari e aspetti tropicali, colonie di salice nano. Infine spuntano isole galleggianti che trasportano via i fantasmi della storia.


ULTIMAPAGINA Ritratti. La giornalista finanziaria Bartiromo, tra le più seguite negli Stati Uniti, sarà la madrina del Columbus Day

Riecco la Niña, la Pinta e la di Velia Majo er anni ha commentato per la Cnbc la parata newyorkese del Columbus Day, il giorno (ogni secondo lunedì di ottobre) in cui l’America ricorda l’arrivo di Cristoforo Colombo, ma questa volta per Maria Bartiromo, la giornalista finanziaria più seguita in tv dagli americani, sarà diverso. Sarà lei la madrina, lunedì prossimo; sarà lei il Grand Marshal della Columbus Parade, e percorrerà la Fifth Avenue di Manhattan fiera di portare la fascia tricolore, quella fascia che, nelle edizioni passate, hanno indossato tra gli altri Sophia Loren, Roberto Cavalli, Franco Zeffirelli. Dietro di lei musica, gruppi folk, carri dedicati ai successi e all’impegno di associazioni italiane in America, sfileranno come ogni anno dal lontano 1929, e gli italoamericani potranno così ricordare le loro doppie radici e suggellare il legame tra Italia e America.

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Maria Bartiromo sarà circondata da bandierine bianche, rosse e verdi che sventoleranno al suo passaggio sulla Quinta Strada, salutando di qua e di là i tanti italoamericani che decideranno di condividere con lei un giorno così importante. In realtà Maria è una di loro: un’italoamericana di padre napoletano e di madre siciliana di Agrigento che, cresciuta in un quartiere di Brooklyn, Bay Ridge, abitato in prevalenza da italoamericani, ha creduto nel sogno americano ed ha saputo farsi strada, come lei stessa ammette «con il lavoro duro» e a diventare la giornalista economica più famosa d’America. L’ambiziosa ragazza di Bay Ridge, nata nello stesso quartiere dove John Travolta, che interpretava Tony Manero, ha girato La febbre del sabato sera, frequentava una scuola privata cattolica, la Fontbonne Hall Academy, ma nel tempo libero aiutava il padre, chef nel ristorante Rex Manor, a fare i conti. «Non ho mai dimenticato - ha affermato qualche anno fa in un’intervista - l’immagine che ho stampata in mente di mio padre in quella cucina, tanto sudato da dover portare una bandana sulla fronte». Dopo la laurea in giornalismo alla New York University, subito un lavoro in radio e poi alla Cnn dove rimarrà cinque anni, ma è nel 1995 che Maria Bartiromo si trasferisce alla Cnbc. Sono suoi i primi collegamenti trasmessi direttamente dal parterre del Nyse, la borsa più grande del mondo, in mezzo ai brokers. «Quando ho cominciato a trasmettere in diretta dal floor della borsa, ero la prima in assoluto a farlo. È stata dura, in molti non mi volevano tra i piedi perché ero una giornalista e per di più donna. Pensavano che quello fosse il loro club». Per dieci anni urlerà al microfono le quotazioni, annunciando i vincitori e riferirà i consigli degli analisti. Autrice di libri di successo tra cui Use The News, dove dava consigli come realmente mettere a frutto le notizie, è sposata con l’editore miliardario e gestore di fondi Jonathan Steinberg, appartenente ad una delle più influenti famiglie newyorkesi. È facile incontrarla al ristorante di Sirio Maccioni “Le Cirque”, dove Bartiromo “in-

SANTA MARIA na. Ma nonostante Maria Bartiromo sia l’immagine del successo, la giornalista italoamericana appare sobria perché sicura dei propri mezzi. Ammette che senza dubbio la sua bellezza mediterranea l’abbia aiutata: «Non posso nascondere - ha dichiarato in un’intervista rilasciata al magazine Capital - che in un settore a preponderanza maschile sia più facile trovare chi preferisce uscire a pranzo o parlare con te, piuttosto che con un grigio signore in giacca e cravatta!». La femminilità può aiutare dunque, ma non basta.

Lunedì prossimo percorrerà la Fifth Avenue di Manhattan fiera di portare la fascia tricolore verde bianca e rossa, quella fascia che, nelle edizioni passate, hanno indossato, tra gli altri, Sophia Loren, Roberto Cavalli e Franco Zeffirelli canta”supermanagers e miliardari con la sua bellezza mediterranea. E fu proprio ad una cena informale con Ben Bernanke, chairman della Fed, la banca centrale americana, che qualche anno fa Maria fu artefice di un clamoroso scoop. Ben Bernanke si lasciò andare ad uno sfogo affermando che «quando parlo di tassi di interessi non mi sento compreso a fondo». Fu così che gli operatori, ascoltando questa affermazione riportata in trasmissione da Maria Bartiromo, si diedero subito da fare, comprando e vendendo. Tanto che che i tabloids hanno dato a Maria Bartiromo l’appellativo di Money Honey. Quando la giornalista della Cnbc nel suo programma Closing Bell intervista importanti personaggi del mondo degli affari, gli indici si muovono, con velocità e di conseguenza.

I suoi ammiratori hanno persino realizzato indici paralleli, «Maria Bartiromo Market Hairindex», in base al quale l’acconciatura della giornalista è messa in correlazione con l’andamento di Wall Street. I guai sono in agguato se la giornalista italoamericana è spettinata. Alcuni analizzano il suo abbigliamento: vestito rosso e il toro si scate-

«Chi legge e ascolta notizie finanziare è ben informato - chiariva - e non può essere preso in giro. Alla fine conta se quello che dici fa la differenza per chi ti ascolta». La verità è che Maria Bartiromo lavora anche 14 ore al giorno, alle sette e trenta di mattina ha già fatto un giro di telefonate e parlato con i principali operatori del mercato americano e non lascia nulla al caso. Pur avendo intorno a lei assistenti e collaboratori, preferisce controllare tutto di persona: «Sono molto “hand on”, io mi impegno in prima persona. Se qualcosa non funziona se la prendono con me, non con il producer della puntata. Sono io a dover fare le domande giuste». Tutti aspettano dunque la passeggiata di lunedì di Maria Bartiromo su Fifth Avenue, sperando che non ci sia troppo vento a scompigliare la sua capigliatura. Altrimenti per la borsa saranno guai.


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