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he di c a n o r c

L’amore e l’odio non sono ciechi, bensì abbagliati dal fuoco che essi stessi apportano

Friedrich Nietzsche

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 21 OTTOBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Maggioranza e opposizione ai ferri corti: ma sulla norma soprattutto colpevoli equivoci. La base di Fini in rivolta

Almeno tenete fuori il Quirinale Destra e sinistra paralizzano il Paese con il “lodo degli imbrogli“ C’è l’inganno del Pdl:coinvolgere nello scudo il Colle per camuffare il salvacondotto per Berlusconi C’è quello di Pd e Idv:fingere di non sapere che,fin dall’inizio,la legge è sempre stata “retroattiva” di Riccardo Paradisi

Senza risorse e senza libertà

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Privatizziamo la Rai prima che i partiti la distruggano di Gianfranco Polillo a somma di due opposte faziosità può assicurare l’imparzialità dell’informazione? Domanda retorica. Eppure questo è il paradosso che sembra caratterizzare sempre più la situazione italiana. E dilagare dalla televisione alla carta stampata. Una volta vigeva il principio dell’azionista di riferimento. I canali televisivi erano distribuiti tra i principali partiti della Prima Repubblica: una convenzione che trovava un correttivo nella professionalità di chi ci lavorava. E al tempo stesso il sistema politico spingeva verso la ricerca di intese più ampie. a pagina 11

Via libera a una manovra da 80 miliardi

ul nuovo Lodo Alfano costituzionale, approvato in prima commissione martedì scorso e presto all’esame dell’aula, è stata montata una bolla mediaticopolitica che sarebbe clamorosa se in Italia non fosse ormai ordinario il clamoroso. Una bolla alimentata di non sense, fuor d’opera generati da riflessi condizionati che nel discorso della maggioranza, come in quello di una parte dell’opposizione, moltiplicano equivoci e confusione. a pagina 2

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Il ministro elogia i finiani

Parla Michele Ainis

Alfano rilancia: «E adesso cambieremo anche la Carta»

«Ma il Presidente deve essere sempre sopra le parti»

E intanto Casini: «Questa legge è un errore: forse inevitabile. Speriamo che almeno serva a rendere più sereno il clima»

«In realtà questa norma resta lo stratagemma più onesto tra i tanti pensati fin qui dalla maggioranza»

Errico Novi • pagina 3

Alessandro D’Amato • pagina 8

Il grande pasticcio di Kabul Dalle elezioni irregolari alla trattativa Nato-talebani L’opinione del celebre analista pakistano

di Antonio Picasso eri nella storia dell’Afghanistan è stata scritta una pagina dalle tinte chiaro scure. Da tempo si parlava della ineluttabilità di trattare con i talebani. Ma forse nessuno si sarebbe immaginato che i negoziati si aprissero con i rappresentanti del nemico scortati dalle truppe Nato a Kabul. Un bilancio altrettanto negativo, arriva dalla commissione elettorale. a pagina 14

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di S. P. Seth e versioni sul futuro dell’Afghanistan sono molte e mutevoli. Ma non tutte dipendono dall’esercito americano. Né solo dalla forza dei talebani: il problema ora è che il Pakistan non vuole perdere questa guerra. a pagina 14

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s eg ue a (10,00 pagina 9CON EURO 1,00

I QUADERNI)

• ANNO XV •

Drastico ridimensionamento delle spese statali e invenzione del «welfare-to-work»: il governo britannico disegna i contorni di una nuova società

Francesco Lo Dico • pagina 5

Il New York Times rivela i particolari degli incontri fra Usa e terroristi

Ma il vero ostacolo ora è Islamabad

Tagli & sviluppo: la lezione di Cameron

NUMERO

205 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Una rivoluzione «oltre la Thatcher»

Se Tremonti facesse un viaggio a Londra... di Carlo Lottieri

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el Regno Unito sta succedendo qualcosa d’importante. Il governo guidato da David Cameron ha infatti annunciato un radicale ripensamento del bilancio statale che implica, di fatto, un’articolata riforma della stessa società inglese. Quello annunciato ieri è infatti un piano di austerity da 80 miliardi di sterline che prevede drastici tagli alla spesa pubbliIN REDAZIONE ALLE ORE

ca. Chi da noi si lamenta per le (timide) sforbiciate di Giulio Tremonti, dovrebbe forse fare un viaggetto a Londra e chiarirsi un poco le idee. Basti sottolineare che il Regno Unito dovrà ridurre di circa 500 mila unità i dipendenti statali in quattro anni, così da abbassare di circa il 25% l’onere rappresentato dalla maggior parte dei ministeri. a pagina 9

19.30


la polemica

prima pagina

Ma questo scudo è obbligatorio

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Non sapevate che era una legge ad personam? di Giancristiano Desiderio odo Alfano e “retroattività” sono la stessa cosa ma - circostanza molto strana - un po’ tutti fanno finta di non saperlo o di scoprirlo soltanto ora. Pierluigi Bersani ha detto che il lodo Alfano è un provvedimento «vergognoso». In cosa consisterebbe la vergogna? Nel fatto che il presidente del Consiglio (e anche il capo dello Stato) vedrà sospesi i processi in corso nei suoi confronti anche se riguardano fatti antecedenti alla assunzione della carica istituzionale. Ma, di grazia, di cosa stiamo discutendo da due anni e passa e anche più se non del modo di consentire a Silvio Berlusconi di beneficiare di uno “scudo istituzionale” che gli permetta di dedicarsi, previa legittimazione popolare, al lavoro del governo? Lo scudo del lodo Alfano è di per sé retroattivo o non serve proprio a niente. Lo sanno tutti come tutti conoscono il segreto di Pulcinella. Lo scandalo consiste solo nel girare volontariamente intorno a un equivoco e fingere che si tratti di una novità. Ma sotto il cielo del lodo Alfano non c’è alcuna novità. Retroattivo è perché retroattivo era.

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Molto spesso la politica italiana gira intorno agli equivoci o alle cose non dette. Tutta la nota vicenda giudiziaria, che ebbe inizio quando Antonio Di Pietro lavorava alla Procura della Repubblica di Milano e continua tutt’oggi con l’ex pm che siede in Parlamento e veste i panni del leader politico, è un equivoco in cui si tace o non si dice con chiarezza che il “caso italiano” è un’anomalia che può essere superata soltanto ricorrendo a un provvedimento speciale. Berlusconi non è soltanto un cittadino italiano che ha problemi con la giustizia, ma è un leader politico che da quando ha messo piede in Parlamento ha dovuto fronteggiare un assalto giudiziario che non ha precedenti nella storia del nostro Paese. Questo, ormai, è una constatazione dei fatti: non occorre essere berlusconiani per riconoscere il trattamento speciale che i pubblici ministeri hanno riservato a Berlusconi. È talmente vera questa particolare situazione che lo stesso Berlusconi, avendo l’intelligenza e l’abilità a rigirare a suo favore la frittata, ne ha fatto un suo punto di forza e successo polarizzando la lotta politica sulla famosa coppia Berlusconismo e Antiberlusconismo. Il giustizialismo ha danneggiato più i giustizialisti che i “giustiziati”. Il lodo Alfano, in fondo, è un modo per consentire a Berlusconi di governare senza doversi difendere in tribunale, ma è anche un modo per provare a chiudere la lunghissima stagione di Mani Pulite in cui la sinistra è stata vittima della sua stessa illusione di arrivare al governo percorrendo la scorciatoia giudiziaria. L’anomalia è molto più grande di quanto non si voglia credere e riguarda molti più uomini politici di quanto non si immagini. Il lodo Alfano conviene a tutti: al governo, all’opposizione, alle istituzioni, al Paese. Senza il lodo Berlusconi avrà da agitare il solito alibi: «Non mi hanno fatto governare». Con il lodo, Berlusconi non avrà più scuse: o governa a regola d’arte o si toglie dai piedi. L’interpretazione giuridica che viene data del lodo Alfano lascia il tempo che trova: come la guerra è cosa troppo seria per affidarla ai generali, così la costituzione è cosa troppo importante per lasciarla ai giuristi. Più importante della giustizia è la libertà. La modifica costituzionale, indicata dalla stessa Consulta, permetterà al premier di governare (se ricorderà come si fa) e all’opposizione di fare una scelta riformista (se non è totalmente cieca).Vale la pena di provarci se non si vuole rivedere per l’ennesima volta Il caimano contro tutti.

il fatto Il gioco delle dichiarazioni opposte e incrociate tra Pdl, Pd e Idv

I tre equivoci del Lodo L’assurdo clamore per la retroattività, il coinvolgimento ingiustificato del Colle, l’accostamento sbagliato alla Francia: così la cattiva politica specula sulla norma di Riccardo Paradisi ul nuovo Lodo Alfano costituzionale, approvato in prima commissione martedì scorso e presto all’esame dell’aula, è stata montata una bolla mediatico-politica che sarebbe clamorosa se in Italia non fosse ormai ordinario il clamoroso. Una bolla alimentata di non sense, fuor d’opera generati da riflessi condizionati che nel discorso della maggioranza, come in quello dell’opposizione, moltiplicano equivoci e confusione.

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Il primo non sense è il clamore suscitato dalla retroattività del provvedimento del Lodo. S’è gridato allo scandalo, ci si è stracciati le vesti sul corollario dello stop retroattivo ai dibattimenti che prevede che «i processi nei confronti del Presidente della repubblica o del premier, anche relativi a fatti antecedenti l’assunzione della carica, possono essere sospesi con deliberazione parlamentare». Ora, dove starebbe il nuovo scandalo? Dove starebbe il nuovo colpo di mano, ammesso che di questo si tratti, rispetto al precedente Lodo Alfano, quello bocciato dalla corte costituzionale nell’ottobre del 2009? Già, perché naturalmente, anche quel Lodo Alfano, il primo, aveva natura, funzione e utilità retroattiva. Altrimenti quale sarebbe l’utilità di un simile provvedimento per chi lo promuove e lo promulga? Le uniche novità di questo Lodo rispetto al precedente sono la sua natura costituzionale e il fatto che l’immunità

giudiziaria non sia più estesa ai presidenti della Camera e del Senato. Novità introdotte per assolvere le richieste che la Corte costituzionale aveva formulato dopo aver bocciato il primo lodo. D’altra parte di questo genere di provvedimenti, che tendono a mettere al riparo con uno scudo giudiziario il premier si può pensare tutto il bene o tutto il male possibile, ma sta di fatto che essi nascono da specifiche situazioni come quella italiana dove ormai da un quindicennio è in atto uno scontro logorante e paralizzante tra potere politico e potere giudiziario e, e più nello specifico, tra il premier Silvio Berlusconi e la magistratura. Non si tratta di stabilire chi abbia ragione o chi abbia torto, se ci sia un fumus persecutionis contro Berlusconi o, se al contrario, da parte dell’attuale presidente del consiglio vi sia una pervicace e prepotente volontà di sottrarsi al giudizio della magistratura. Si tratta di capire, per restare nel merito della questione, che la faccenda del Lodo nasce con la guerra politico giudiziaria nata dopo l’ingresso sulla scena politica di Berlusconi. Certo quindi che si tratta di una ”legge ad personam”, ma non nell’accezione spregiativa della formula, piuttosto nella sua accezione neutralmente esplicativa.

Il secondo non sense è contenuto nel nuovo provvedimento. Il coinvolgimento nel Lodo della presidenza della Repubblica. Che cosa c’entra il coinvolgimento


l’annuncio

E Alfano rilancia: «Cambiamo la Carta» Casini: «La retroattività è sbagliata, ma nell’anomalia italiana è un errore quasi inevitabile» di Errico Novi

ROMA. La quiete dopo la tempesta. Dopo il profluvio di scomuniche piovute martedì sera per il primo sì al Lodo Alfano, i toni si abbassano. Forse anche perché il principale punto di caduta delle critiche dell’opposizione – con l’Idv in prima fila e lo stesso Bersani agguerritissimo – mostra la sua fragilità: se infatti in molti avevano polemizzato per la retroattività dello scudo per le alte cariche, con il passare delle ore diventa sempre più chiaro che quell’elemento è assolutamente imprescindibile per il ddl in discussione a Palazzo Madama. Che senso ha sospendere i processi di Berlusconi se non si interviene su quelli anteriori al mandato? Ne convengono innanzitutto i finiani, e forse Italo Bocchino afferra la chiave per spiegare l’equivoco: «Ci deve essere stato un riflesso condizionato che ha associato la retroattività del processo breve a quella del Lodo. Sono due cose diverse. Ed è solo nel primo caso che la retroattività è inaccettabile, tanto è vero che ci eravamo messi di traverso».

cale, compresa quella dipietrista. E giacché il voto dell’altro ieri riguardava solo l’emendamento Vizzini sulla retroattività ma sancia di fatto l’accordo complessivo nella maggioranza sul Lodo, quel clamore forse era comprensibile. La scena comunque cambia, con l’ex pm di Mani pulite che da suo blog lancia un estremo appello al presidente della Camera affinché «in aula dica ai suoi di non votare il ddl». E con Flavia Perina che dall’altra parte della barricata ricorda: «Ab-

In serata arriva l’annuncio del premier: «La riforma della giustizia è pronta. Adesso cercheremo di trovare un accordo con tutti in Parlamento»

A supporto della tesi solo in apparenza semplificata del capogruppo di Fli, si poronuncia Maurizio Saia, uomo chiave di tutta la vicenda: è lui infatti il rappresentante di Futuro e libertà nella commissione Affari costituzionali del Senato, dove è arrivato il sì all’emendamento del relatore – nonché presidente dell’organismo – Carlo Vizzini. E Saia rafforza così il concetto di Bocchino: «La mia sensazione è che i giornali martedì sera non avessero nulla da scrivere». Vero è che le posizioni ultralegalitarie del gruppo di Fini avevano suscitato aspettative abnormi nell’opposizione più radi-

biamo sempre detto che il Lodo era l’unica cosa sulla quale eravamo disposti a dire sì».

Ma la scena è diversa soprattutto per un altro motivo: perché da martedì Berlusconi ha un motivo in più – se non bastassero già gli agghiaccianti dati sulla perdita di consensi – per restare aggrappato alla legislatura. E soprattutto alla presidenza del Consiglio: perso il mandato, perderebbe anche lo scudo. Cambia la prospettiva di un Parlamento che ancora fino a poche ore fa la maggior parte dei leader dava per archiviato entro i primi mesi del 2011. La cosa innervosisce un po’ la Lega, che con l’Italia dei valori è la più ingolosita dallo scioglimento anticipato: il ministro e gran tessitore del federalismo Ro-

dell’inquilino del Quirinale? Tra le interpretazioni maliziose due in particolare circolano in queste ore. La prima è che coinvolgendo anche la presidenza della Repubblica si accredita il dato che non di una legge ad personam si tratti ma che appunto si abbia a che fare con un provvedimento teso a mettere al riparo le più importanti cariche istituzionali. La seconda interpretazione è che con il presente provvedimento si gettino le basi per ogni futura impunità dell’attuale premier, nell’ipotesi, a cui si starebbe già lavorando, di un’ascesa al Colle di Silvio Berlusconi. Ma si tratta di retropensieri appunto, di processi alle intenzioni. Basta attenersi ai fatti per esprimere un giudizio di inopportunità riguardo all’inserimento nel Lodo anche della presidenza della Repubblica, che resta estranea rispetto alla partita che descrivevamo poco fa. Si tratta di un equivoco come quello contenuto nel precedente Lodo che voleva garantire l’immunità anche ai presidenti di Camera e Senato così sollevandoli d’arbitrio e senza una ragionevole e plausibile argomentazione rispetto allo status degli altri parlamentari. Perché le acque non siano ulteriormente confuse dunque sarebbe bene che i piani istituzionali restassero separati. Come è bene che restino separati anche i piani di merito di questi provvedimenti in pista. Un conto infatti è il processo breve, un conto è il lodo per

berto Calderoli assicura da una parte che la riforma cara al Carroccio «dovrà essere pronta per febbraio» e dall’altra che «non cambia niente con il voto sul Lodo Alfano perché serve comunque un chiarimento tra i leader». Il partito di Bossi continua a temere il pantano, ossia lo scivolare della legislatura in una palude di accordi sempre in bilico, condizionati dagli equilibri tra Berlusconi e Fini sulla giustizia.

Ancora più di questo, forse la Lega teme proprio una «normalizzazione del clima» all’interno della maggioranza. Tanto più che una volta incassati tutti i decreti attuativi sul federalismo, i lumbàrd rischiano di apparire disarmati e svuotati di carica propagandistica. Certo è che adesso Berlusconi vuole accelerare anche sul corpo principale del dossier giustizia, quella riforma ordinamentale che il suo guardasigilli Alfano annuncia già nelle grandi linee: «Nessuna ritorsione verso la magistratura, di cui verrà rispettata l’autonomia e l’indipendenza, in un quadro di maggiore efficienza del sistema ed effettiva parità fra accusa e difesa». Nello specifico il ministro accenna a quell’Alta corte che dovrebbe assumere le competenze disciplinari del Csm, «un organo più indipendente e meno corporativo non legato ai giochi di corrente interni alla magistratura».

so Casini si aspetta: «C’è qualche segnale che si può seguire una strada diversa, di ragionevolezza, responsabilità e dialogo». Peraltro il leader dell’Udc continua a non dirsi entusiasta dell’intesa trovata nella maggioranza sul Lodo Alfano, ma aggiunge: «Va anche preso atto dell’anomalia italiana, per cui realisticamente bisogna riconoscere che la soluzione del Lodo comportava necessariamente questa fattispecie giuridica», cioè la retroattività. Da qui, dice Casini, «può venire un clima politico più sereno». E lo stesso Rutelli, che non accetta nemmeno di astenersi sul Lodo dando per scontato il suo no, si dichiara pronto a discutere. È appunto il segno di un’atmosfera diversa, che può risultare indigesta solo per chi già pregustava la corrida delle urne.

Nel pomeriggio Alfano si confronta a lungo con Berlusconi sul testo della riforma, e il Capo del governo esce dall’incontro con tono quasi entusiasta: «C’è già un articolato, andrà in Consiglio dei ministri la prossima settimana». Aggiunge che «è stato sottoposto a tutte le forze politiche presenti in Parlamento per trovare un accordo definitivo». È la svolta che lo stes-

l’immunità in cui la presidenza della Repubblica non entra per nulla. Distinzione utile visto che l’impressione è che esista un riflesso condizionato di considerare la retroattività sul Lodo Alfano come la norma retroattiva sul processo breve.

Terzo non sense. Si torna a dire anche in queste ore che quella italiana non sarebbe un’anomalia visto che anche in Francia vige un sistema di guarentigie teso a

po dello Stato sia dal nostro presidente del Consiglio. Insomma anche in questo caso si rischia di confondere i piani. Resta in parte vera l’obiezione che il sistema italiano presenta ormai una semielezione diretta del candidato premier con il nome in evidenza sotto il simbolo del partito. Ma sulla cosiddetta costituzione materiale resta pur sempre autoritativa la costituzione formale. In conclusione: è tenendosi fuori dalla logica del clamore e dello scandalo quotidiano, a cui spinge il cortocircuito permanente politico-mediatico, che è possibile trovare la strada per uscire dalla paralizzante guerra politico-giudiziaria in corso nel nostro Paese da più di tre lustri. Una strada di responsabilità e di dialogo, all’interno del quale da un lato sarebbe necessario non oltrepassare la frontiera invalicabile che segna il confine tra immunità e impunità e dall’altro si rinunci alla delegittimazione prepolitica dell’avversario, come se un premier eletto da oltre quindici milioni di elettori sia, per le sue vicende processuali, un’anomalia da eliminare per vie di giustizia ordinaria. Si tratta d’una via stretta, resa quasi invisibile dal fumo della polemica politico- mediatica e ostruita dalle macerie prodotte dalla libanizzazione dello scontro politico italiano. Ma a ben vedere è l’unica via che abbia un senso e un’uscita dal tunnel nel quale l’Italia rischia di non uscire.

Come tutti sanno, i francesi hanno un Presidente con compiti di governo: per questo, il suo «scudo» non è applicabile da noi né per il premier né per il Quirinale tutelare dalle azioni giudiziarie il presidente della Repubblica. È la stessa argomentazione che si sta usando per rendere compatibile con il buon senso e l’ordinaria legiferazione anche l’inserimento nel lodo del nostro presidente della Repubblica. Ma è una comparazione e un’accostamento improprio quello con la Francia. In primo luogo perché la Francia è una repubblica semipresidenziale mentre l’Italia è una repubblica parlamentare. In secondo luogo, e di conseguenza, perché il presidente della Repubblica francese ha competenze, funzioni e poteri diversi sia dal nostro ca-


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l’approfondimento

Giuristi a confronto: per il presidente emerito resta una norma «singolare» perché «giova al solo premier»

Lo spettro dell’immunità

Ripristinare la “difesa” parlamentare del vecchio articolo 68: sarebbe quella, dicono Capotosti e Pecorella, la via maestra. Ma secondo il deputato del Pdl «questo scudo non è comunque in conflitto con i supremi principi della Carta» di Francesco Capozza ed Errico Novi

ROMA.

Un provvedimento «singolare». Piero Alberto Capotosti, presidente emerito della Consulta, non ama utilizzare giri di parole per definire le cose e anche nel caso del Lodo Alfano costituzionale approvato ieri l’altro dalla prima commissione del Senato il suo giudizio è netto. «Quando parlo di singolarità intendo usare il significato più esatto del termine: questo provvedimento, in pratica, giova a una singola figura, il presidente del Consiglio dei ministri». Il testo del ddl costituzionale, che a molti appare una banale riedizione di quello già bocciato dalla Consulta stabilisce che possano essere sospesi i processi nei confronti del presidente del Consiglio e del presidente della Repubblica con effetto retroattivo. Ma per Capotosti, «questa norma risulta priva di necessità, almeno per quello che riguarda il presidente della Repubblica». Il presidente emerito ricorda infatti come «già l’articolo 90 della Costituzione prevede che il capo dello Stato non è responsabile degli atti compiuti nell’e-

sercizio delle sue funzioni, fatta eccezione per i casi in cui venga meno il divieto di alto tradimento o di attentato alla Costituzione». In pratica, è il ragionamento dell’illustre giurista, se uno scudo per la più alta carica dello Stato c’è già, questo provvedimento non fa altro che introdurre l’immunità per il capo del governo. «Singolare anche per un altro aspetto», prosegue poi Capotosti, «perché se si guarda alle esperienze degli altri Paesi l’immunità, laddove riconosciuta, “copre” solo il Ca-

«Perché coinvolgere il Capo dello Stato, già tutelato dall’articolo 90?»

po dello Stato e non quello del governo, che peraltro la nostra Costituzione assimila agli altri componenti del gabinetto ministeriale limitandosi a riconoscergli la qualifica sostanziale di “primus inter pares”».

La tesi del presidente Capotosti è, sotto altri aspetti, anche quella dei più accesi critici del Lodo Alfano. «Avrebbero fatto cosa migliore reintroducendo l’immunità parlamentare già prevista dalla Costituzione del 1948 e cancellata nel 1993», si lascia sfuggire il presidente emerito della suprema Corte. Perché? «L’immunità così come prevista dalla Costituzione copre tutti i membri del Parlamento e siccome per prassi consolidata il Capo del governo è anche componente di una delle due Camere, anch’egli godrebbe di uno “scudo” per tutta la durata in carica del mandato parlamentare». «Tra l’altro», aggiunge Capotosti, «quasi sicuramente non ci sarà la maggioranza dei due terzi che impedirebbe la presentazione di un referendum abro-

gativo. Proprio per questo io credo che di fronte al giudizio dei cittadini sarebbe stato senz’altro meglio insistere sulla necessità di un ritorno all’antico spirito della Costituzione, riportando in vita una tutela prevista dai padri della Repubblica». Capotosti è convinto anche che «difficilmente i giudici costituzionali accetteranno di mettere in dubbio una norma di rango costituzionale, fino ad oggi è accaduto pochissime volte, in specie per gli statuti delle Regioni speciali. Ma quella è un’altra storia».

Tra i costituzionalisti peraltro non è assente l’idea che lo scudo in discussione al Senato possa comunque confliggere con i «supremi principi» che sorreggono la Carta, e lo stesso Capotosti lascia intravedere questa perplessità. Una controdeduzione arriva da un giurista di prima linea nel Pdl, Gaetano Pecorella. Il quale, interpellato da liberal, avanza obiezioni di natura tecnico-costituzionale, da una parte, giacché «l’immunità parlamentare a lungo pre-

vista dal nostro ordinamento offriva garanzie in una forma anche più radicale rispetto al Lodo e nessuno si è mai sognato di sollevarne l’incompatibilità con i supremi principi della Carta». Dall’altra il presidente della commissione bicamerale sulle Ecomafie, che è anche uno degli avvocati del premier, fa notare che l’intesa sullo scudo costituzionale «consente di andare avanti con l’attuale legislatura», appellanosi dunque a elementi strettamente politici. Certo Pecorella stesso ammette che «le soluzioni migliori sono le soluzioni possibili» e che dunque anche questa del Lodo costituzionale non è da considerarsi perfetta.Tanto più che la legislatura, e quindi il mandato di Berlusconi, potrebbero comunque concludersi prima del previsto: «Ma cosa potrà venire dopo lo sa solo Dio. Adesso l’obiettivo era fare in modo che i processi si svolgessero dopo la fine della legislatura, e che dunque l’attuale Parlamento potesse andare avanti». Nessuna forzatura perché appunto nella Carta del 1948 c’era già l’immunità, scudo


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«Un salvacondotto sarebbe l’unico modo per scongiurare il processo breve»

«Lasciate stare il Quirinale: deve essere al di sopra delle parti» Il costituzionalista Michele Ainis polemizza con il nuovo Lodo Alfano: «Ma questo resta lo stratagemma più onesto pensato dalla maggioranza» di Francesco Lo Dico

ROMA. «Il lodo Alfano è preferibile al processo breve perché esprime in maniera molto più sincera le reali esigenze della maggioranza in merito alla questione giustizia. Ma visto che l’obiettivo è garantire al premier uno scudo protettivo contro i suoi processi, non si capisce bene allora perché il provvedimento debba essere esteso anche al presidente della Repubblica. È abbastanza impietoso, rispetto alla situazione attuale, il fatto che la Costituzione non previde nessuna tutela per il capo dello Stato. I padri costituenti confidarono che se l’inquilino del Quirinale avesse commesso reati comuni come un furto o un assassinio, questi si sarebbe dimesso senza cercare alcun appiglio che non fosse la sua dignità personale». Costituzionalista di vaglia ed editorialista del Sole24Ore, Michele Ainis ha di recente indicato nel lodo Alfano il male minore. Un male minore che, spinozianamente inteso, in quest’Italia dove l’illegalità viene tramutata passo dopo passo in legittimità, serve a scongiurarne uno maggiore: la fine della giustizia per migliaia di comuni cittadini. Professore, perché il lodo Alfano è preferibile al processo breve? Per affrontare l’anomalia in cui si dibatte l’Italia da anni, occorre essere pragmatici. Il lodo Alfano ha dalla sua il fatto di essere esplicito. Vuole garantire l’impunità al presidente del Consiglio senza nascondersi dietro mirabolanti pretese di assicurare maggiore giustizia a tutti i cittadini. Anche se si tratta di una misura ripugnante, lo scudo rappresenta il male minore perché è meno aberrante del processo breve: meglio salvarne soltanto uno, il solito, che ammazzarne cento con il processo breve. Dove “cento”sta per numero puramente metaforico, immagino. Allo stato attuale vanno in fumo 170mila processi l’anno grazie alla prescrizione. Il processo breve raddoppierebbe la cifra, e provocherebbe inoltre un altro grattacapo che rende una volta di più preferibile lo scudo. I milioni di euro che lo Stato dovrebbe versare per risarcire gli imputati? Non solo questo. Il lodo Alfano per via costituzionale porterebbe a un referendum senza quorum, e a quel punto finalmente tutti noi avremmo voce in capitolo su una questione che personalmente ritengo insopportabile. Semmai la legge sul processo breve fosse sottoposta a referendum abrogativo, invece, sarebbe necessario un numero minimo di firme. E tutti sappiamo com’è andata, dal 1997 in poi. Ma non c’è un male minore, minore di questo scudo retroattivo? Sarebbe possibile una terza via, in effetti. Potrebbe essere estesa a più di 18 mesi la durata del legittimo impedimento. Un suggerimento a Ghedini?

Duole moltissimo vedersi costretti a scegliere tra opzioni che offendono l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e l’orizzonte di senso entro cui si muove la giustizia. Ma questo è uno degli effetti perversi del berlusconismo. Bisogna rinunciare a condannare il colpevole per salvare le vittime. Garantire

«Lo scudo è il male minore. Salvarne uno è preferibile che “ammazzare” cento innocenti» l’impunità a Erode, per evitare la strage degli innocenti. Come valuterebbe il ricorso a questa terza via? Il vecchio articolo 68 prevedeva l’autorizzazione a procedere a ga-

ranzia di tutti i parlamentari. Una previsione che aveva ragioni di rango costituzionale, c’è da supporre: l’avevano prevista i padri della carta. Ragioni di equilibrio, innanzitutto. Da un lato l’indipendenza della magistratura, dall’altro l’impedimento volto a garantire il sereno svolgimento delle funzioni politiche. Viceversa, il lodo Alfano impedisce il sereno svolgimento dei processi in cui il premier è imputato. Per reati commessi per giunta da libero imprenditore. Non è troppo incostituzionale, come male minore? È moralmente opinabile, ma ci sono i margini perché la via costituzionale possa accogliere le istanze formali dello scudo, anche nella sua versione retroattiva. C’è qualcos’altro di moralmente opinabile. Visto che Giorgio Napolitano non risulta imputato per la corruzione di un testimone, frode fiscale e appropriazione indebita, che ragione c’è di associarlo alle urgenze giuridiche del Cavaliere? Il lodo Alfano è il più onesto degli stratagemmi messi in campo dalla maggioranza per fornire un salvacondotto al premier. E in ragione di questa stessa franchezza, abbinare lo scudo al presidente della Repubblica può essere in effetti inopportuno, oltreché superfluo. Non c’è il rischio di alloggiare il virus berlusconiano nell’alveo della Costituzione stessa? Potrebbe accadere ad esempio che un mafioso non ancora conclamato, potrebbe diventare presidente del Consiglio e godere dell’impunità una volta scoperta la sua attività criminale precedente. È un caso di scuola, ma credo che non si arriverebbe a una simila iattura. Hannah Arendt diceva che“chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male”. Non c’è il rischio di inoculare il virus berlusconiano nella nostra Carta? Mi rendo conto che l’argomento del “male minore” è scivoloso, e che lo scudo è detestabile senza dubbio. Ma il desiderio di punire il colpevole, deve piegarsi di fronte a migliaia di cittadini. Sono loro che pagherebbero i conti in sospeso del Cavaliere.

assai più consistente e «incisivo» rispetto alla norma in discussione al Senato: «Non confliggeva quella, con i supremi principi, figuriamoci il Lodo». La perfezione non è di questo mondo anche nel senso che una norma schiettamente riconducibile all’esclusiva vicenda del Cavaliere non è detto risolva i problemi di quest’ultimo in modo definitivo. Sulla compatibilità dei tempi del Lodo con quelli della sentenza Mills, per esempio, permangono margini d’incertezza. «Ma bisogna vedere cosa deciderà a questo punto la Corte costituzionale», osserva Pecorella, «chiamata a pronunciarsi sul legittimo impedimento a dicembre: con il Lodo che procede in modo spedito, la Consulta potrebbe anche privilegiare il nesso tra la norma costituzionale in via d’approvazione e quella ordinaria sull’impedimento a comparire. In passato, le norme transitorie che come questa fanno riferimento a successive leggi di rango superiore sono state giudicate ammissibili». Dunque l’incastro adesso potrebbe reggere meglio alla prova della dei giudici costituzionali.

Di fondo resta immutata un’antica convinzione dell’avvocato e parlamentare del Pdl: l’immunità parlamentare andrebbe ripristinata. È quella la via maestra, secondo Pecorella: «Se l’autonomia dei poteri comporta che il legislativo e l’esecutivo non debbano interferire con quello dei magistrati, deve esserci anche la possibilità per il Parlamento di difendersi da interferenze persecutorie».Tanto più che con la nuova formulazione dell’articolo 68, nota ancora il presidente della Ecomafie, «si presuppone che una richiesta d’arresto possa essere inquinata dal fumus persecutionis ma che questo non possa accadere per i processi, che invece spesso hanno effetti disastrosi sulla carriera politica. Nel ’48 l’intento era proprio quello di proteggere deputati e senatori da interferenze persecutorie». Dovrebbe prevalere peraltro, nell’analisi, il senso di un’urgenza della politica, dice Pecorella, convinto che con il Lodo la legislatura possa opportunamente stabilizzarsi: «C’è il bisogno di andare avanti e credo se ne rendano conto tutti. Ci sono sviluppi in diverse formazioni, con la rinascita di un’area di centro, e tutti credo colgano l’urgenza di alcune riforme». C’è una fisiologia dei processi politici a cui va lasciato il tempo di realizzarsi: «Non può ignorarlo la maggioranza, ma nemmeno la formazione di centro di cui si delineano le prime caratteristiche, e la stessa evoluzione del Pd ha bisogno di tempo per chiarirsi». Dal Lodo dovrebbe venire dunque un’aria nuova e più respirabile per tutti. Dovrebbe: perché a rimettere nuovi veleni in circolo non ci vorrebbe molto.


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pagina 6 • 21 ottobre 2010

Cantieri. Berlusconi e Tremonti aprono a Roma il tavolo per un nuovo sistema tributario. I dubbi delle parti sociali

Fisco, riforma a prezzo di saldo A breve la delega in Cdm. Marcegaglia: «Dove si prenderanno le risorse?» ROMA. Silvio Berlusconi ha promesso «una riforma fiscale di grande ambizione e di grande responsabilità». Ma di fronte all’annuncio di una legge delega al prossimo consiglio dei ministri, come ha sottolineato Emma Marcegaglia, resta ancora da «capire dove si prenderanno le risorse». Ieri pomeriggio il premier e Giulio Tremonti hanno aperto il tavolo dando modi e tempi del percorso che dovrebbe riformare il modello ideato 40 anni da Ezio Vanoni. «E la riforma passerà attraverso tre fasi: la raccolta di dati e la loro analisi; una legge delega in Parlamento che porterà a un nuovo codice tributario e infine una serie organica di decreti allegati». Nel 1994 e nel 2001 il centrodestra pensava che con un taglio secco delle aliquote si poteva ottenere una maggiore redistribuzione delle risorse, assestare un colpo decisivo all’evasione e dare una spinta alla produttività. Perché in un Paese dove si pagano meno tasse si investe e si lavora di più. A distanza di allora gli obiettivi restano gli stessi, ma le disponibilità di cassa impongono altre strade. Diventa più improbo il lavoro di Tremonti, costringendolo – se mai fosse possibile – a una riforma a costo zero. O a guardare alla leva della lotta all’evasione (pari a 140 miliardi secondo il premier), ben sapendo che è stato un grandissimo successo recuperare 9 miliardi come si è fatto nel 2009 con le armi spuntate a disposizione dell’Agenzia delle entrate.

di Francesco Pacifico

st’anno il gettito fiscale è calato di 5 miliardi: una riduzione sostenibile rispetto alle più tetre previsioni, ma pur sempre pesante per un Paese con una spesa pensante come il nostro. A onor del vero Tremonti ha sempre ragionato in una chiave diversa. E anche la scorsa settimana, dopo fatto aver approvare la Finanziaria tabellare dal Consiglio dei ministri, ha ripetuto che «il protocollo dell’Europa ha la stabilità come base dello sviluppo». Ma per fare lo sviluppo con la leva fiscale servono molte ri-

Il premier parla di misure di «grande ambizione». Ma il ministro non ha i soldi per introdurre il quoziente familiare e tagliare l’Irpef e l’Irap Così, è proprio guardando i numeri che nessuno in maggioranza spera che la leva fiscale possa liberare le energie e le risorse necessarie al Paese. Ieri il Fondo monetario ha stimato che a fine anno così come nel 2011 il Pil italiano crescerà dell’uno per cento, dopo i cinque punti persi in un solo colpo nel 2009. Se ad agosto il debito pubblico è arrivato alla cifra record di 1843 miliardi di euro, la corsa continuerà anche nel 2011 per sfiorare i 1900 miliardi. Da gennaio a settembre di que-

sorse. Al riguardo costosissimo è soprattutto il quoziente familiare ormai cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi. Se si si seguisse il modello francese (che pondera tutti i figli e dà un valore oltremodo rilevante all’inattività dei coniugi) il conto per l’Erario potrebbe essere di circa 8 miliardi. In camera caritatis Giulio Tremonti avrebbe spiegato che aiuta soprattutto le famiglie monoreddito con marito professionista e moglie casalinga, e negato l’utilità di questo strumento, al quale però va

Allarme Fmi: la ripresa italiana è lenta

Cresce l’industria ROMA. Gli ordinativi dell’industria ad agosto sono cresciuti del 32,4% (dato grezzo) rispetto allo stesso mese del 2009, e del 7,3% rispetto a luglio. La variazione tendenziale è la più alta dal 2001, ovvero dall’inizio delle serie storiche, comunica l’Istat. Tuttavia ancora il livello dell’indice rimane più basso di quello all’inizio della crisi, in particolare dall’agosto 2008. Per dati mensili destagionalizzati, il motore della ripresa resta il canale estero: +11,5%, molto più contenuta la dinamica della domanda domestica +4,7%. Stessa fotografia dai dati su base annuale: +50% dal canale estero, +21,3% dal canale domestico. Gli incrementi più marcati dell’indice grezzo degli ordinativi hanno riguardato la fabbricazione di apparecchiature elettriche e apparecchiature per uso domestico non elettriche (+77,3%). Viceversa, conti-

nua a soffrire il mercato dell’auto: ad agosto il fatturato è sceso del 6,2% rispetto allo stesso mese del 2009, mentre gli ordinativi hanno segnato un rialzo del 4,8%. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, che ha pubblicato il Rapporto Economico Regionale dedicato all’Europa, è in corso la ripresa dalla peggior recessione del dopoguerra e crescerà del 2,3% nel 2010 e del 2,2% nel 2011. A guidare il rimbalzo, che resta ”lento”, è la Germania il cui Pil salirà del 3,3% quest’anno e del 2% il prossimo. Tra i vagoni di coda invece l’Italia, con un aumento dell’1% in entrambi gli anni. Nel 2011 faranno peggio soltanto la Grecia, che vedra il suo prodotto scendere di un altro 2,6%, il Portogallo, destinato a rimanere fermo, e la Spagna, che crescerà dello 0,7%. malgrado ciò, l’Fmi vede «rischi significativi» sulla ripresa.

dato il merito di aver garantito Oltralpe un’altissima natalità. Il ministro ha confermato invece di voler “giocare” con le 242 esenzioni oggi previste dall’Irpef. «In questo modo», spiega l’assessore alle Finanze del comune di Roma, Maurizio Leo, «si possono recuperare più risorse, visto che togliendo oneri deducibili, detrazioni e crediti imposta e mettendo tutto in unico calderone, si vanno a toccare direttamente le aliquote». Dal Tesoro rimbalzano voci che così il governo potrebbe recuperare fino a un paio di miliardi da destinare alla famiglia. In ogni caso lontani dai 12 miliardi che nella delega del 2002 erano necessari per introdurre le due aliquote secche dell’Irpef. Ma questa cifra potrebbe essere sufficiente a finanziare uno strumento come il Naf, il nuovo assegno familiare ideato dalla Cisl. E che secondo il segretario confederale Maurizio Petriccioli «potrebbe premiare con una cifra fino a mille euro le famiglie degli incapienti e le classi di reddito familiare medio-basso, con un vantaggio anche ai percettori di reddito più alto». Nel fisco che verrà Tremonti darà alle Regioni la possibilità di garantire più detrazioni Irpef sull’acquisto di voucher o servizi socioassistenziali. E non è la sola misura con la quale il ministro vuole consentire agli enti locali di abbassare il carico fiscale.

Sempre nel decreto sull’autonomia impositiva è previsto che dal 2019, quando il nuovo modello sarà a regime, i governatori possano tagliare l’Irap, accollandosene tutto il costo. E parliamo di una tassa che da sola raccoglie sul territorio circa 60 miliardi di euro, che per la metà finiscono per sovvenzionare la sanità. Agli enti è poi garantita una maggiore compartecipazione all’Iva, grazie al nuovo calcolo presunto che non sarà più fatto attraverso le stime dell’Istat sui consumi ma sugli incassi delle vendite al dettaglio. Il problema però che Tremonti guarda al passaggio da un sistema incentrato sulle imposte dirette a uno basato su quelle indirette. Scelta in linea con l’Europa, ma che comporta prima di andare a regime minor gettito. Che si può però recuperare soltanto con l’aumento dell’Iva stessa.


diario

21 ottobre 2010 • pagina 7

Dopo il ritrovamento del bazooka a Reggio Calabria

Il Papa annuncia il Concistoro per il 20 novembre

’Ndrangheta, preso l’uomo degli attentati al tribunale

C’è anche Ravasi tra i 24 nuovi cardinali

REGGIO CALABRIA. È stato fermato dalla polizia al confine tra Italia e Slovenia Antonio Cortese, 48 anni, affiliato alla cosca Lo Giudice, indicato dal boss Antonino Lo Giudice quale esecutore materiale degli attentati contro i magistrati di Reggio Calabria. Cortese è indagato dalla Dda di Catanzaro per l’episodio del ritrovamento del bazooka davanti alla Dda di Reggio Calabria. Cortese è stato fermato su un autobus di linea proveniente da Iasi, Romania, alla frontiera italo-slovena di Fernetti, a pochi chilometri dal capoluogo giuliano, dagli uomini della Polizia di Frontiera e delle Squadre Mobili di Trieste e Reggio Calabria. L’operazione si è conclusa dopo 15 ore di verifiche e appostamenti ininterrotti lungo il confine da parte delle forze dell’ordine, a cui Cortese non ha opposto resistenza.

CITTÀ DEL VATICANO. Ci sono dieci italiani, tra cui otto elettori, tra i 24 nuovi cardinali che Benedetto XVI nominerà nel Concistoro da lui annunciato ieri per il 20 novembre prossimo. L’elenco dei venti nuovi cardinali elettori, quindi con diritto di voto in un eventuale Conclave, comprende Angelo Amato, prefetto delle Cause dei Santi, Fortunato Baldelli, penitenziere maggiore, l’americano Raymond Leo Burke, prefetto ella Segnatura Apostolica,Velasio De Paolis, presidente della Prefettura degli Affari economici, Francesco Monterisi, arciprete di San Paolo fuori le Mura, lo svizzero Kurt Koch, capo dicastero per l’Unita’ dei Cristiani, Gianfran-

Nei suoi confronti, la Dda di Catanzaro ha emesso un decreto di perquisizione e sequestro che è stato eseguito nella notte tra giovedì e venerdì scorsi a Reggio Calabria. In quell’occasione, il fermo non era stato eseguito perché l’uomo era risultato irreperibile. Ma nel corso della perquisizione sarebbe stato trovato del materiale interessante per la

Quei 15 milioni per «Brambilla web» Il governo rivela i costi del sito «www.italia.it» di Marco Palombi

ROMA. Magic Italy. Davvero. Il riferimento a slogan e logo disegnati da Silvio Berlusconi l’anno scorso per rilanciare il turismo italiano (quello spagnolo, per dire la differenza, se lo inventò nel 1983 Jean Mirò) non è casuale: solo in un paese magico un ministero che doveva costare all’ingrosso 650mila euro, quello del Turismo di Maria Vittoria Brambilla, può arrivare a spendere quindici milioni e mezzo. Le cifre, dopo la risposta del governo a una interrogazione alla Camera, sono ufficiali: si tratta delle sole spese per il funzionamento del ministero, che peraltro esisteva già come Dipartimento di palazzo Chigi finché non è stato necessario far ascendere la rossa dei Circoli della Libertà ad una carica più cospicua. La cosa più inquietante del rendiconto, però, è il fatto che la maggior parte di questi fondi siano riservati al sito istituzionale più costoso e meno visto del del mondo (184mila e dispari nel rank internazionale): quel www.italia.it su cui sono stati già buttati decine di milioni di euro e che è finito per diventare la plastica rappresentazione di tutto quel che non va in questo paese. Dilettantismo, incompetenza, incapacità di programmazione, spreco di denaro pubblico (spesso doloso), grandeur da magliari, nessuna visione del futuro. Tutto questo, online. Scrive, infatti, il governo che 10 milioni di euro di nuovi fondi sono arrivati alla Brambilla «trasferiti dal ministro della Pubblica amministrazione per la realizzazione e la gestione triennale del Portale Italia». Altri quattro e mezzo, invece, sono stati stanziati «per la Struttura di missione per il rilancio dell’immagine dell’Italia», una di quelle straordinarie trovate della ministra che ad oggi servono più che altro a far lavorare amici tipo Giorgio Medail, giornalista che portò la giovane Brambilla a Italia uno (1995) per dirigere anni dopo la «Tv delle Libertà».

2004, con una previsione di spesa faraonica da 170 milioni di euro, fu un’idea bislacca fin dall’inizio. Perché? Un anno prima il ministero delle Attività produttive, Claudio Scajola, aveva già cominciato a distribuire soldi alle Regioni (all’epoca dodici milioni e dispari, poi saliti a 15 e mezzo) per fare giusto un portale turistico interregionale, cosa peraltro in linea con la confusa riforma del Titolo V della Costituzione che assegnava, tra le altre cose, competenze sul turismo proprio alle Regioni.

Il progettone di Stanca è arrivato a costare negli anni 45 milioni di euro e non è mai servito a niente: alla storia di questa cattedrale informatica nel deserto è stato dedicato persino un dettagliatissimo sito,“scandalo italiano”, e sempre in rete è possibile trovare precise analisi e tutte le fonti riguardanti il mai nato portale interregionale. Che www.italia.it fosse inservibile, costosissimo, inutile era chiaro da anni: l’allora vicepremier Rutelli, dopo aver tentato di resuscitarlo con un’altra iniezione di soldi, lo chiuse nel gennaio 2008. Poco dopo, però, il redivivo governo Berlusconi decise invece di buttarci altro denaro: negli ultimi due anni, dicono fonti governative, il sito oggi realizzato da Aci s’è inghiottito oltre 8 milioni e mezzo di euro e continua ad essere una barzelletta. Basta andarci per controllare: contenuti ridicoli e servizi uguali a zero. Molto meglio il sito dell’Enit, l’ente per il turismo, che peraltro sponsorizza una campagna diversa da Magic Italy dal nome “Italia much more” (dotata anch’essa di autonomo portale web). Per quanto riguarda la bontà tecnica del “sito ufficiale del turismo in Italia” – ma lo sostiene anche quello dell’Enit – fa fede quello che afferma lui stesso nella sezione“Accessibilità”: «Il sito web, la home page e le altre pagine del sito sono in fase di sviluppo e hanno una funzione promozionale turistica. Pertanto è possibile che alcuni contenuti non siano totalmente conformi ai 22 requisiti tecnici contenuti nel decreto del Ministro per l’Innovazione dell’8 luglio 2005».

Il portale gestito dal ministro del Turismo è, secondo i valori internazionali, uno dei meno visitati e aggiornati

prosecuzione delle indagini che riguardano anche i due attentati compiuti il 3 gennaio alla Procura generale di Reggio e il 26 agosto all’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro. Nei prossimi giorni, il procuratore Lombardo sentirà direttamente Antonino Lo Giudice, il boss che si è attribuito la responsabilità degli attentati e delle intimidazioni ai magistrati reggini e che ha indicato in Cortese l’esecutore materiale. Definito dagli investigatori «esperto nel maneggio e nel confezionamento di esplosivi», Antonio Cortese è commerciante di frutta e verdura e titolare di una profumeria a Reggio Calabria.

È il sito, però, la chicca. E non solo per la larghezza di spesa, ma per la disonorevole e ormai lunga storia di quel portale. Lanciato dall’allora ministro per l’Innovazione Lucio Stanca, era il

co Ravasi, «ministro della cultura» della Santa Sede, Paolo Sardi, pro-patrono dell’Ordine di Malta, il guineano Robert Sarah, nuovo presidente di «Cor Unum», Mauro Piacenza, nuovo prefetto per il Clero. Quindi l’egiziano Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti, Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, il tedesco Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, il polacco Kazimierz Nycz, arcivescovo di Varsavia, l’altro americano Donald William Wuerl, arcivescovo di Washington, il congolese Laurent Monsengwo Pasinya, arcivescovo di Kinshasa, lo zambiano Medardo Joseph Mazombwe, arcivescovo emerito di Lusaka, il singalese Albert Malcom Ranjith Patanbendige Don, arcivescovo di Colombo, l’ecuadoregno Raul Eduardo Vela Chiriboga, arcivescovo di Quito, il brasiliano Raymundo Damasceno Assis, arcivescovo di Aparecida.

I quattro neo-porporati con più di 80 anni di età, quindi non votanti, sono Elio Sgreccia, presidente emerito ella Pontificia Accademia per la Vita, lo spagnolo José Manuel Estepa Llaurens, il tedesco Walter Brandmueller e Domenico Bartolucci.


politica

pagina 8 • 21 ottobre 2010

Recessione. Pensioni rivoluzionate, scure sul pubblico impego e nuovo welfare: arriva la finanziaria del dopo-labour

Rivoluzione Cameron Via libera ai tagli per 80 mld di sterline «Così creeremo nuovi posti di lavoro» di Alessandro D’Amato

ROMA. Proprio nel giorno in cui Margaret Thatcher, la Lady di ferro che di austerity se ne intende più di tutti in Gran Bretagna, viene ricoverata in ospedale per un’infezione, il governo conservatore di David Cameron presenta un piano di risparmi da oltre 80 miliardi di sterline con tagli alla spesa pubblica che porteranno alla perdita di quasi 500 mila posti di lavoro in quattro anni, un record dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma è un piano diverso da quelli presentati in altri Paesi come l’Italia: perché i tagli, annunciati ieri dal cancelliere dello Scacchiere George Osborne in un discorso alla Camera dei Comuni, prevedono una riduzione media del 25 per cento ai bilanci della maggior parte dei ministeri ma hanno non poche eccezioni giudicate di priorità nazionale come difesa, sanità, scuola, ricerca e aiuti all’estero. Tagli sì, quindi, ma anche investimenti e priorità allo sviluppo. L’esatto contrario dei tagli lineari di tremontiana memoria.

L’obiettivo di Osborne è di abbassare il deficit record britannico (111% del Pil, il più alto del G7) a circa il 102 per cento con una manovra da 113 miliardi di sterline, di cui un quarto verrà da aumenti fiscali. I tagli sono i più ambiziosi in 20 anni e il leader dell’opposizione, il segretario laburista Ed Miliband, li ha bocciati come «una scommessa irresponsabile» sull’occupazione e l’economia. «Il governo dovrebbe attaccare il deficit ma anche proteggere la crescita e i posti di lavoro di questo paese», ha detto Miliband recandosi ai Comuni: «Per questo ci sono alternative». L’austerity del governo Cameron prevede l’innalzamento dell’età pensionabile a 66 anni nel 2016, dieci anni prima di quanto previsto finora. Sono previsti tagli nelle spese per lo sport nelle scuole e ai sussidi per l’università. Ieri il governo ha annunciato un taglio dell’8% al bilancio della Difesa, meno del previsto, che dovrà essere compensato da risparmi altrove. Anche il bilancio della scienza è stato relativamente salvato, con un meno 9%, nella

Il presidente non cede alla piazza e punta sulle riforme

Se Sarkò vince la sfida delle pensioni di Luca Volontè a Francia era nel mirino, ne è uscita alla grande. Sarkozy ha dimostrato di avere carattere e, confidiamo, di saper sfidare la piazza. Le tensioni innescate dalla sinistra stanno soffiando sulla folla assiepata nelle strade francesi contro la riforma delle pensioni. Si è detto in questi giorni, da parte di più d’uno dei commentatori italiani, che tutto ciò appare paradossale, antistorico, irreale. Eppure, lo si è visto in Italia con la manifestazione di sabato scorso, il socialismo europeo pare aver smarrito il bandolo dei propri valori di fondo:lavoro, giustizia sociale, attenzione agli ultimi. Meglio, c’è una assenza formidabile di rielaborazione di questi valori storici e dunque ci si muove solo ed esclusivamente per riproporli come principi statici e ammuffiti. Sono manifestazioni paleolitiche proprio per la loro assurda irrealtà: difendere oggi il lavoro significa trovare nuove vie e nuove modalità contrattuali che uniscano corresponsabilità, produttività, flessibilità e garanzie. Promuovere oggi la giustizia sociale e le pensioni non può eludere il problema del tasso di natalità e di longevità della nazione in cui si vive. L’attenzione agli ultimi sotto il profilo sociale non può non considerare i valori delle future pensioni e la costruzione di nuovi sistemi di welfare society.

L

Dopo le manifestazioni violente di Atene, sarebbe necessaria molta più prudenza e attenzione: rinfocolare gli animi invece di governare i fenomeni, pur nelle legittime differenze, può riaprire stagioni che apparivano chiuse per sempre. In fondo

per cosa si protesta nelle vie di molte città francesi? Il vedere a braccetto giovani studenti e lavoratori attempati, ci dimostra che le ragioni per manifestare sono ben poco chiare. Gli uni e gli altri dovrebbero avere interessi opposti o concorrenti, infatti se non lavoreranno due anni in più i lavoratori di oggi, i giovani di domani dovranno lavorare ben più di due anni. La verità, purtroppo appare ben diversa, dopo aver tentato il colpo grosso di ammaccare la credibilità del Governo Sarkozy in Europa con il caso Rom, la sinistra francese getta benzina sul fuoco interno e spera di creare un clima a lei propizio per le prossime elezioni, nascondendo al contempo le proprie difficoltà politiche e la propria incertezza sul candidato da opporre all’attuale presidente francese. Questa situazione, con i distinguo del caso, ha una grande somiglianza con quella italiana, una sinistra alla rincorsa di Vendola e dei metalmeccanici Cgil. È un atteggiamento che danneggia tutti e tutta la società che, in un periodo di crisi economica e prospettica, trova facili antidoti al cambiamento necessario e obbligatorio. Dunque è bene che Sarkozy mantenga l’impegno di aumentare le pensioni, il bene comune e quello futuro della nazione ne trarranno molti vantaggi, ma ne trarrà anche benefici la sinistra che sarà costretta, prima o poi, a fare i conti con la realtà e ad aggiornare le proprie battaglie.

Il premier britannico David Cameron ha lanciato un duro piano di austerity. A sinistra, il presidente francese Sarkozy. A destra, Margaret Thatcher ai tempi del suo governo logica che la ricerca scientifica è vitale per la ripresa della crescita. Difficile non farsi venire in mente che in Italia invece per la riforma dell’Università non si trovano 800 milioni. Tra i ministeri più colpiti, quello della Giustizia e della Cultura, con riduzioni anticipate in media di circa il 30%. Un’altra area pesantemente a rischio è il welfare: Osborne ha già annunciato di voler risparmiare 13 miliardi di sterline. Ma la Gran Bretagna raddoppierà a 3,8 miliardi di sterline gli aiuti per paesi in guerra come l’Afghanistan, sollevando timori tra le organizzazioni umanitarie che le priorità della sicurezza nazionale stiano mettendo a rischio le spese per lo sviluppo in paesi poveri ma politicamente stabili nel Terzo Mondo. I tagli agli enti locali ammonteranno a circa il 7% del totale, mentre 900 milioni di sterline andranno a incentivare la lotta all’evasione fiscale, che costa al Paese un’evasione di sette miliardi l’anno.

«Questo è il giorno in cui la Gran Bretagna fa un passo indietro dall’abisso. Quando affrontiamo il conto di un de-

cennio di debito», ha detto Osborne nel discorso alla Camera dei Comuni. «È una strada difficile - ha aggiunto - ma ci porterà a un futuro migliore. Dobbiamo assicurare che non faremo pagare ai nostri figli gli interessi sugli interessi sugli interessi sui debiti che noi non siamo preparati a pagare». Osborne ha detto che la Gran Bretagna paga attualmente 43 miliardi di sterline in interessi sul debito pubblico. La manovra annunciata ieri - ha detto il capo del Tesoro britannico - si basa su tre principi nelle scelte di spesa: riforma, equità e crescita. Il cancelliere ha confermato l’esodo di 490mila statali - la cifra era stata anticipata dai media britannici per la gaffe del suo vice Danny Alexander, fotografato con in mano un dossier del Tesoro aperto alla pagina delle conseguenze sull’occupazione - e ha detto che i posti di lavoro saranno soppressi attraverso esodi concordati. La Bbc ha ricordato che ci saranno anche tagli nel budget della difesa: La Raf e la marina perderanno 5mila posti di lavoro ciascuno, l’E-


politica

21 ottobre 2010 • pagina 9

La nuova «rivoluzione» punta tutto sul modello «welfare-to-work»

Rigore per lo sviluppo, l’Italia impari da Londra

Se la Thatcher aveva privatizzato le aziende pubbliche, questa volta si punta a privatizzare i funzionari di Stato di Carlo Lottieri el Regno Unito sta succedendo qualcosa d’importante. Il governo guidato da David Cameron ha infatti annunciato un radicale ripensamento del bilancio statale che implica, di fatto, un’articolata riforma della stessa società inglese. Quello annunciato ieri è infatti un piano di austerity da 80 miliardi di sterline che prevede drastici tagli alla spesa pubblica. Chi da noi si lamenta per le (timide) sforbiciate di Giulio Tremonti, dovrebbe forse fare un viaggetto a Londra e chiarirsi un poco le idee. Basti sottolineare che – a giudizio di Cameron – il Regno Unito dovrà ridurre di circa 500 mila unità i dipendenti statali nell’arco dei prossimi quattro anni, così da abbassare di circa il 25% l’onere rappresentato dalla maggior parte dei ministeri (vengono salvati solo sanità, scuola, difesa e aiuti all’estero). Alcuni funzionari pubblici saranno pregati di andare in pensione e altri avranno un congelamento dello stipendio per un biennio, oltre che un aumento del prelievo contributivo. Se in Romania si è pensato di tagliare di un quarto i salari dei funzionari di Stato, a Londra si è invece avviato un graduale – ma nel complesso piuttosto rapido – trasferimento di lavoratori dal settore pubblico a quello privato.

N

sercito 7mila e il Ministero della Difesa 25mila tra il personale civile.

Equità significa creare un sistema di welfare che aiuti la gente a trovare lavoro, ha poi detto Osborne, aggiungendo anche che «chi ha le spalle più grosse deve portare il peso maggiore» dell’austerità, e ha poi annunciato un aumento dell’età pensionabile per uomini e donne nel settore pubblico a 66 anni entro il 2020 con un risparmio di 5 miliardi di sterline all’anno entro la fine del prossimo parlamento: «Fondi che potranno essere usati per dare una più generosa pensione di base in un momento di pressioni demografiche». La gente dovrà lavorare più a lungo

Reale diminuiscano del 14 per cento nel 2012/13. In più, resterà l’ingresso gratis nei musei nonostante i tagli alla cultura.

Osborne ha anche solleticato il sentimento anti-banche degli inglesi, annunciando un prelievo temporaneo sui bilanci bancari. Molti cittadini britannici, come gli americani, sono arrabbiati con i grandi istituti di credito, percepiti agli occhi dell’opinione pubblica come leader nel mondo solo per essere salvata dai contribuenti e ritornare poi ai bonus milionari. Osborne ha detto che il governo dovrebbe cercare di estrarre ”le tasse massime sostenibili” agli istituti finanziari. Il programma di austerità, scrive il NewYork Times, ha

Anche la Regina contribuirà ai risparmi: spese congelate per un anno e poi una riduzione del 14%: «Chi ha le spalle più grosse deve portare il peso maggiore della austerità», ha detto Osborne prima di cominciare a incassare la pensione, ha detto Osborne. L’anticipo di sei anni del nuovo target di età pensionabile sarà raggiunto attraverso un graduale aumento a partire dal 2018. E il governo ha anche strizzato l’occhio agli obiettivi solitamente più polemici della stampa inglese, annunciando che i tagli interesseranno anche la Regina Elisabetta II - che ha accettato un congelamento di un anno delle spese per il mantenimento dei palazzi e lo staff - e dopo il prossimo anno Sua Maestà ha concordato che le spese della Casa

già sollevato proteste simili a quelle francesi. Ma mentre un milione di cittadini dell’Exagone sono scesi in piazza per protestare contro il programma di aumentare l’età pensionabile a 6062 anni martedì scorso, finora soltanto circa 2mila membri del sindacato del lavoro si è iscritto a una marcia in Gran Bretagna nel giorno in cui sono arrivati gli annunci di Osborne. Tagli alla spesa sì, ma anche riforme e attenzione agli investimenti: Cameron ha tracciato una strada. Quella che Tremonti, finora, non ha mai voluto seguire.

beneficiario del sussidio rinuncia a un impiego che gli viene offerto.

Il nuovo governo britannico può piacere o non piacere, e così le scelte che sta mettendo in cantiere. Ma non c’è dubbio che in qualche modo stia facendo il proprio mestiere. In fondo, la destra inglese – pur tra qualche ambiguità – “fa la destra” e prova ad adattare alla situazione presente una serie di suoi temi classici. Probabilmente nulla di tutto questo si sarebbe visto se la Grecia non fosse sprofondata nel baratro e se altri Paesi non fossero vicini a un crollo di analoghe dimensioni. Ma quanto meno, dinanzi alle difficoltà, Cameron ha colto l’occasione per puntare su riforma di struttura. Da questo punto di vista, il confronto con l’Italia è desolante. Negli ultimi giorni si è tornato a parlare – e ciò è positivo – di privatizzazioni e liberalizzazioni: grazie soprattutto a Luca Ricolfi e Giuliano Ferrara. Anche qui si tratterebbe di operare una

Il nuovo governo liberal-conservatore si comporta come un «normale» esecutivo di destra. E dimostra di avere il coraggio giusto per farlo

Sembra di essere tornati agli anni di Margaret Thatcher, ma non è così. Allora si trattò di un processo riformatore motivato dall’imporsi di una nuova consapevolezza culturale, oltre che dalle difficoltà in cui versava il modello sociale britannico. Oggi non c’è più quel senso dell’avventura ideologica (la “rivoluzione conservatrice”), ma al suo posto vi è una seria presa d’atto del disastro in cui ci si trova. A causa della dissennata politica del governo di Gordon Brown, Londra deve fare i conti con un deficit dell’11% (il più alto del G7) e vuole assolutamente, come ha dichiarato il ministro George Osborne, «fare un passo indietro e allontanarsi dall’abisso». In qualche modo, si fa di necessità virtù. E in questa maniera si scommette sullo slancio che può derivare al Paese dalla liberazione di molte di quelle energie oggi impiegate in attività poco o per nulla produttive. Ovviamente il governo non pensa di abbandonare gli ex-dipendenti pubblici al loro destino, poiché l’idea è di favorire al più il loro reingresso nel mondo del lavoro. Lasciando lo Stato per il privato. Se la Thatcher aveva privatizzato le aziende pubbliche, ora Cameron punta a privatizzare i funzionari di Stato. La formula è quella del welfare-to-work, un aiuto monetario che è accompagnato da un processo di formazione e riqualificazione e che viene immediatamente eliminato se il

sorta di cambiamento genetico, liberando i contribuenti da quelle società periodicamente rifinanziate (vedi Tirrenia) e soprattutto affrancando la politica dalla piaga delle lottizzazioni e del clientelismo. Ma da Palazzo Chigi non risulta che vi siano state reazioni.

Chi come noi ha un debito pubblico intorno al 118% del Pil dovrebbe invece avere coraggio e, in questo senso, prestare attenzione al piano Cameron. Si tratta di scelte audaci, ma il Regno Unito ha solo da guadagnare da questa cura da cavallo, che va ad allargare gli spazi di iniziativa e concorrenza. La strategia adottata a Londra – meno funzionari pubblici, con l’obiettivo di avere un settore privato più esteso – mostra soprattutto che si può usare la crisi per operazioni non meramente difensive. Il ministro Osborne si mostra ancor più apprensivo del nostro Tremonti di fronte alla dura legge dei conti (e dinanzi allo sfascio ereditato). Le sue scelte sembrano però destinate a incidere in ben altro modo sulla realtà, promettendo concrete opportunità di sviluppo.


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panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Bravo Mastella, il «testimone» che non molla erte notti Clemente Mastella ha pensato di suicidarsi. Certi pensieri si fanno quando si cade nella trappola della depressione e dello sconforto eccessivo. Si vede tutto nero, non c’è alcuna speranza e l’unica via di uscita appare nell’atto estremo della uscita di scena per sempre. Mastella ha confessato al settimanale A di aver pensato a gente con Gardini e Cagliari e di aver capito la loro scelta di uccidersi. Mastella due anni e mezzo fa è stato travolto da un ciclone giudiziario che in pochi giorni gli arrestò la moglie, gli decimò il partito fino alla scomparsa, lo indusse alle dimissioni da via Arenula e gli fece cadere addosso il governo Prodi. Ce n’è quanto basta per sentirsi un po’ giù. Ma Mastella non ha mollato.

C

Più di una volta Mastella da Ceppaloni è stato definito l’ultimo democristiano. In realtà, i democristiani sono tanti e sapere chi possa essere l’ultimo non è facile. Diciamo allora che Mastella è il penultimo democristiano. Nel libro dello scorso anno, Non sarò Clemente (Rizzoli), confidava al giornalista Marco De Marco: «Ho vissuto nell’Italia del Sorpasso e dell’Idrolitina; dei mutui facili e delle bolle finanziarie; nell’Italia da bere e in quella da accudire. Ho attraversato la prima e la Seconda Repubblica e, avanzando dalle retrovie al fronte, ne ho conosciuto protagonisti e comprimari, comparse e passanti. Ho assistito a vicende importanti e qualcuna l’ho determinata io stesso. La mia storia personale può aiutare a leggerne in trasparenza un’altra più generale, quella di un’Italia in perenne transizione, in continuo assestamento». Quel libro raccoglie un po’ le memorie politiche e non solo politiche di quel Mastrella, come lo chiamava Fanfani, che partito dalla provincia sannita ben presto fece carriera e divenne, nella Seconda repubblica, il simbolo del trasformismo italiano e meridionale. Insomma, Mastella - questo “Carneade di provincia”, secondo la definizione ancora di Amintore Fanfani - è quel che si dice un uomo navigato e non possiamo credere che nello sconforto delle notti insonni abbia pensato di farla finita. Ancora nel suo libro Mastella si è paragonato a Mario Bros,“l’eroe paffuto del Nintendo a cui crollava in continuazione la terra sotto i piedi e che per forza di cose era costretto a saltare senza soluzione di continuità”. Non a caso il secondo nome di Mastella è proprio Mario. Clemente Mario Mastella Bros è l’inventore delle “truppe mastellate”. Mastella si è suicidato politicamente più volte ed è sempre tornato a galla o è rinato come l’araba fenice. Una volta perduta la casa madre della Dc ha fondato più di un partito: l’ultimo della serie, dopo l’affondamento dell’Udeur, è Popolari per il Sud. Clem non ha mai mollato in politica, ma ha pensato di mollare per sempre come fecero Raul Gardini e Gabriele Cagliari con un colpo di pistola il primo e soffocandosi con un sacchetto di plastica il secondo. Poi il sonno ha scacciato i cattivi pensieri. Ne siamo tutti contenti, Clem.

Il Mausoleo di Vendola (aspettando le primarie) Domani si apre il congresso di ”Sinistra ecologia e libertà” di Antonio Funiciello

ROMA. E meno male che Bersani aveva stretto con Vendola il patto di consultazione... Il congresso di Sinistra ecologia e libertà, che si apre venerdì Firenze, è difatti tutto incentrato su una critica radicale nei confronti di quello che dovrebbe essere il suo maggiore alleato. Nella parte principale del documento congressuale unitario, che sarà il viatico dell’elezione di Vendola a Presidente del partito, non si fa che parlare male del Pd. «L’operazione tentata con la formazione del Partito democratico - si legge - è fallita. Il Pd non è né maggioritario, né autosufficiente». Il Pd semplicemente non è. Da qui, dunque,Vendola e il suo partito intendono muovere per superare il Pd e ricostruire il campo politico della sinistra per lanciarlo contro il centrodestra alla prima occasione: «Siamo in campo perché possa rinascere nel cuore dell’Europa e dell’Italia una nuova grande speranza, una nuova grande sinistra». Prosit.

parrebbe proprio una cosa seria, ma i fatti dicono che Sinistra ecologia e libertà è un partito nato dalla sublimazione della più antica vocazione della sinistra italiana: la vocazione scissionista. Non aiuta a capire cosa il nuovo soggetto possa essere più di questo neppure il documento congressuale già citato, farcito dei soliti antiamericanismo e anticapitalismo, e poi di terzomondismo, ecologismo e pacifismo, con una spruzzata di antiproibizionismo ed elogi sperticati all’estinto movimento no global, travolto dalla deprecatissima globalizzazione. Non mancano gli attacchi ai «Predatori (con la ”P”maiuscola) di Wall Street», la critica al gradualismo del riformismo «diventata una strategia di puro adattamento» (in altre parole, la solita accusa di tradimento della causa proletaria). Non manca neanche la proposta di una assurda riforma del welfare state che estenda tutte le tutele dei tutelati ai precari, a dispetto del fatto che nessun sistema economico del mondo potrebbe mai sostenerla.

Il documento su cui si aprirà la discussione di Firenze è una critica dura e totale dell’operato del Pd di Bersani

A Firenze i “sellini” dovranno trasformare il cartello elettorale delle scorse elezioni europee e amministrative in un vero e proprio partito, con tanto di elezione plebiscitaria del suo capo. Tre giorni per mettere in moto una macchina organizzata che dovrà radicare in periferia il nuovo soggetto, partendo dai pochi eletti che pure conta in giro per l’Italia. Sui nastri di partenza c’è, al momento, poca roba. Sinistra ecologia e libertà è, oggi, la plastica sommatoria di quadri e militanti politici fuoriusciti da altri partiti di sinistra, dopo aver perso precedenti congressi. La componente principale è quella vendoliana: ovvero una parte (neppure tutti) di quelli che sostennero due anni fa Nichi Vendola come segretario di Rifondazione comunista contro l’attuale ledere Ferrero, Bertinotti in testa. Segue, in ordine di rilevanza, la componente ex-diessina di Fabio Mussi che perse il congresso anti-scioglimento dei Ds nel 2007, oggi guidata in Sel da Claudio Fava. Poi quel pezzo di Verdi che ha perso l’ultimo congresso nel quale è stato eletto segretario Angelo Bonelli. Per finire con una componente scissionista di quei Comunisti italiani guidati da Diliberto, ormai federati con Rifondazione comunista di Ferrero e una mini componente di fuoriusciti dai Ds capeggiati da Cesare Salvi. Raccontata così non

Ma la di là delle chiacchiere delle sedici pagine del documento, il congresso di Sel ha come obiettivo dichiarato la richiesta al Pd di primarie di coalizione in cui Vendola possa battere Bersani. Nel programma dei lavori congressuali, oltre all’unico nome presente tra i partecipanti (manco a dirlo, quello di Nik il Rosso), l’unica sessione con un titolo è quella dedicata alle primarie. Perché questo è, nella sostanza, Sinistra ecologia e libertà: il comitato elettorale di Nichi Vendola per le primarie del centrosinistra, per le quali Vendola ha strappato un sì proprio da Bersani nel giorno dell’accordo sul fatidico patto di consultazione. Il Pd, da par suo, subisce i colpi di Nik il Rosso e, come tutti i pugili in difficoltà, arretra nell’angolo. La preferenza riconosciuta da Bersani in favore di un asse con la sinistra, piuttosto che con Casini, risulta ancora meno comprensibile se poi, da sinistra, i tuoi alleati s’incaricano dichiaratamente di distruggerti. Intanto ieri l’Unità riportava l’annuncio di Bersani: «Tra un anno saremo al governo!», con tanto di dati elettrizzanti seguiti a un questionario interno al Pd, secondo il quale il consenso al segretario raggiunge oggi il 91%. Contento lui.


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Profondo rosso. Al di là delle sfide tra Masi e conduttori a somma di due opposte faziosità può assicurare l’imparzialità dell’informazione? Domanda retorica. Eppure questo è il paradosso che sembra caratterizzare sempre più la situazione italiana. E dilagare dalla televisione alla carta stampata. Una volta vigeva il principio dell’azionista di riferimento. I canali televisivi erano distribuiti tra i principali partiti della Prima Repubblica. Quasi una convenzione di carattere costituzionale che trovava un correttivo nella professionalità di chi ci lavorava. Al tempo stesso il sistema politico – si pensi alle accuse di “consociativismo” – spingeva verso la ricerca di intese più ampie nella speranza di un minimo comune denominatore. Nel bipolarismo muscolare che conosciamo, invece, quest’architrave è venuta meno e l’informazione non è divenuto altro che «la continuazione della politica con altri mezzi». Carl Phillip Gottlieb von Clausewitz insegna. La cosa più riprovevole è stata la diffusione, seppure parziale, di questo virus alla carta stampata. All’unico giornale-partito di una volta, com’è la Repubblica, si è unito, sul fronte opposto, Il Giornale: le “dieci domande” sulle escort e le inchieste su Montecarlo e dintorni. Una valenza ossessiva degna di miglior causa. Come se ne esce?

L

L’informazione è un bene pubblico. Se così non fosse non avrebbe rilievo costituzionale, come indica l’articolo 21 della nostra Carta fondamentale. Essa è tutelata perché al servizio del cittadino: non di questo o di quel potentato, nella pur legittima ricerca del necessario consenso politico. Dovrebbe, pertanto, rispondere a un etica traslata. Principi generali che negli altri Paesi trovano una maggiore applicazione. In Italia, invece, la situazione è degenerata. Indossata la casacca del supporter, giornalisti e conduttori televisivi fanno a gara per dimostrare non tanto la loro fede politica, quanto la loro partecipazione attiva ad una cam-

Privatizzare la Rai, prima che crolli 600 milioni di deficit nel 2012: la tv pubblica è a un passo dal fallimento di Gianfranco Polillo

Qui sopra, Mauro Masi, contestatissimo direttore generale della Rai e, sotto, Roberto Saviano: tra i due è in atto una polemica a distanza per la messa in onda di «Vieni via con me» vità imprenditoriale, seppure in un campo particolarmente delicato, in cui alla fine sceglie il lettore: acquistando questo o quel giornale. Fornendo cioè all’editore la materia prima per continuare. Certo non sempre si avrebbe la quadratura del cerchio. Vale a dire costi e ricavi in equilibrio. Come è avvenuto nella nostra storia

La «competizione oligopolista» con Mediaset ha prodotto il dissesto del mercato. E Sky continua a guadagnare posizioni pagna che non è di informazione, ma di puro e semplice radicamento di convinzioni preesistenti. Altro che primato del dubbio e quindi della ragione. Se l’informazione fosse un’attività libera, non vi sarebbero problemi. Come avviene nella carta stampata, ci troveremo di fronte ad un’atti-

nazionale, i giornali sono stati sempre sovvenzionati dalle finanze dell’azionista. Ma questo non ha impedito la necessità di una certa sobrietà. Si conosceva l’editore di riferimento – si pensi solo alla Stampa – ma il giornale stampato non poteva appiattirsi solo ed

Saviano e le polemiche su «Vieni via con me»

«Così non si va in onda» ROMA. Non si placano le polemiche intorno al debutto televisivo di Roberto Saviano, contestato nei giorni scorsi dal dg Rai Maruo Masi per via del compenso di Roberto Benigni, ospite della prima puntata di Vieni via con me: rispondendo al polverone alzato da Masi, Saviano ha detto che «non ci sono le condizioni per andare in onda». Sul caso è intervenuto anche Pier Ferdinando Casini: «In una democrazia liberale non si possono spegnere quelli con cui non si è d’accordo», ha detto ieri il leader Udc ospite di «28 minuti» su Radiodue. Casini ha fatto anche gli esempi di Report e Annozero: «La Gabanelli l’ho vista domenica scorsa, può stare simpatica o antipatica. Peraltro ha attaccato sempre il mio partito, però ha fatto un prodotto di qualità. Santoro non mi piace, mi ha invitato ma non ci sono andato perché ritengo faziosa la sua trasmissione» ma «in una democrazia liberale non si possono spegnere quelli con cui non si è d’accordo. In più io ho l’arma del telecomando, posso cambiare canale». Quindi Casini ha ricordato che «la Dc non ha mai ha avuto l’idea di spegnere chi prendeva in giro, ha consentito a tanti di vivere».

esclusivamente su quegli interessi, se non voleva perdere un pubblico più vasto.

Nella Rai, invece, tutto è inficiato dalla presenza di un canone a carico del cittadino. Risorse che dovevano sostenere i costi del cosiddetto servizio pubblico e che, invece, hanno solo contribuito a rendere più agguerrite le opposte tifoserie. Ricorso a strumenti sempre più spettacolari. Ingaggi milionari. Appannaggi da capogiro. Il tutto giustificato dalla necessità dello share, quale grande calamita per ulteriori introiti pubblicitari. E dall’esigenza di tagliare l’erba sotto i piedi del proprio competitor: non solo Mediaset, ma la stessa Sky di Murdoch di cui si discute poco, trascurando la sua progressiva ascesa sul mercato italiano. Un caso classico di competizione oligopolista, in cui, tuttavia, uno dei concorrenti parte avvantaggiato, avendo a disposizione risorse pubbliche fornite per compiti che la stessa competizione trascina nel baratro della pura spettacolarizzazione e appiattimento a favore dei contrapposti decisori politici. Può funzionare? La teoria ci spiega che questo è impossibile. Se la competizione oligopolista non è regolata, il suo sbocco più probabile è il fallimento di uno, o di tutti e due, i concorrenti. La Rai è sulla buona strada. Per il 2012 il suo deficit di bilancio sarà pari a circa 600 milioni, contro un capitale sociale di 550 miliardi. È la certificazione, stando alle regole del codice civile, di un suo prossimo fallimento. Finora si è cercato di intervenire con una serie di riforme, nella nomina del consiglio d’amministrazione e del top management, che hanno visto mobilitate le migliori menti giuridiche italiane. I risultati sono quelli descritti. L’informazione – quella vera e non partigiana – non è migliorata. I conti sono in rosso. La confusione regna sovrana. Occorre quindi cercare nuove vie. Ma non saranno altre alchimie giuridiche a fornire la soluzione. Il vero vincolo al quale ricorrere – la cosa può o meno piacere – non può che essere uno solo: il mercato. Saranno gli introiti della pubblicità, delle forme di abbonamento, degli acquisti dei prodotti specifici a certificare il successo di un’azienda ormai privatizzata o l’eventuale crisi nel caso in cui quei programmi non soddisferanno il gusto dei consumatori. Sarà anche un freno agli eccessi di partigianeria? Forse no, almeno nel breve periodo; ma almeno il cittadino potrà finalmente scegliere senza dover, continuamente, recriminare.


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è un libro che confesso quasi non sono riuscito a finire di leggere. Sconsiglio vivamente di leggerlo prima di andare a letto.Ti fa talmente vibrare di irritazione che finisci per perdere il sonno. Non è solo lo scempio della bellezza a far rabbrividire. A non potersi mandare giù è soprattutto la abissale stupidità di chi si fa male da solo contro i propri interessi. Roberto Ippolito - l’autore - è uno che sa mettere il dito nella piaga. Lui lo fa sperando di svegliare il paziente e spingerlo a curarsi. Ma a volte sembra che l’infezione sia così avanzata che il paziente preferisce continuare a far finta di niente. Il paziente è l’Italia, ed è un caso in cui talenti, ricchezze, potenzialità, sviluppo, sono gettati – letteralmente – alle ortiche. Le denunce di queste pagine mi colpiscono ancor più nel profondo di quanto possano aver fatto La Casta di Stella e Rizzo o Evasori, la precedente opera di Roberto Ippolito. Quei due libri toccavano portafogli, privilegi, onestà, giustizia: questioni profonde che mostrano la cancrena morale che ha attaccato il nostro Paese spingendolo su una spirale di degrado che va in profondità, non riguarda pochi soliti potenti approfittatori ma taglia trasversalmente tutta la società. Ma sì, ci può essere di peggio anche rispetto a queste cose. C’è qualcosa che colpisce ancor più nel profondo. Qualcosa che continua a riguardare portafogli e moralità, ma che riguarda anche identità e persino intelligenza. Il Bel paese maltrattato, «Viaggio tra le offese ai tesori d’Italia» (Bompiani, 308 pagine. ¤ 18,00) è un lungo e dr ammatico elenco di alcuni degli affronti che stiamo compiendo contro il nostro patrimonio culturale: degrado, abbandono, abusivismo, distruzione, tutto a scapito della nostra stessa identità, ma anche della possibilità di realizzare guadagni da quello stesso patrimonio. È questa la follia che fa toccare il fondo: non solo roviniamo o lasciamo andare in rovina i nostri beni più cari, più preziosi, quelli che ci dicono chi siamo, ma oltretutto lo facciamo andando persino contro ogni logica di interesse. Perché la scelta non è tra cultura e guadagno, ma tra cultura che fa guadagnare da un lato, e dall’altro rovina che porta miseria. E da che parte ci schieriamo noi? Roba da matti.

C’

Qualche dato ricordato da Ippolito per mostrare come non sia romanticismo parlare dei beni culturali. Il solo settore culturale in senso stretto vale in Italia il 2,6% del Pil, mentre cultura e turismo sommati valgono il 12,5% (ma in Spagna e Grecia è superiore al 16% del Pil). Ma alla cultura lo stato destina sempre meno, appena lo 0,21% del bilancio. Prima al mondo per il numero di siti inclusi nella lista dell’Unesco dei patrimoni dell’umanità, nel 1970 l’Italia era prima al mondo per numero di turisti stranieri accolti. Tra il 1990 e il 2000 risulta al quarto posto, nel 2005 al quinto come nel 2008, dietro Francia, Spagna, Stati Uniti e Cina, e per il 2020 le previsioni dell’Organizzazione mondiale del turismo la fanno retrocedere al settimo posto superata da Gran Bretagna e Hong Kong (!). Negli ultimi anni il numero di turisti stranieri appare in costante diminuzione (esempio i giapponesi, passati da 2,17 milioni nel 1997, a 1,5 nel 2007 a 1 milione nel 2009), nonostante il taglio dei prezzi. Persino gli italiani viaggiano di meno per l’Italia, preferendo l’estero. Il World Travel and

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Una lunga e documentata inchiesta di Roberto Ippolito punta l’indice s

L’Italia? Ormai è solo memoria Da anni si sa che il nostro è un Bel Paese ricco di arte ma povero di investimenti. Ora un libro ci dice che il livello di allarme è stato superato. E i turisti ci abbandonano di Osvaldo Baldacci Tourism Council rileva che sebbene tutto mostri le potenzialità perché il peso del turismo in Italia possa teoricamente crescere, in realtà le previsioni preannunciano la discesa dell’Italia nella classifica mondiale del Pil nel settore turistico dal settimo posto del 2009 al nono del 2019, e il crollo degli investimenti dal quinto posto del 2009 all’uscita dai dieci maggiori stati nel 2019. Il Country Brand che Index, misura l’immagi-

ne degli Stati, arretra l’Italia dal quinto al sesto posto nella capacità di attrazione internazionale e dal secondo al quinto per la seduzione esercitata dal patrimonio storico. Il sistema museale italiano, frammentato e trascurato, ma complessivamente infinitamente più ricco di qualunque altra realtà al mondo, fattura 104 milioni di euro a fronte degli 800 del solo Louvre. Il ritorno commerciale del patrimonio artistico degli Stati Uniti è circa 16 volte quello italiano, e il ritorno dei beni culturali della Francia e del Regno Unito è tra 4 e 7 volte quello italiano.

Il turismo poi è anche produttore di prestigio (se i turisti sono soddisfatti o persino ammaliati come dovrebbe essere) e quindi volàno del made in Italy, con ulteriori seri benefici economici al più ampio raggio. Non è quindi vero che non possiamo permetterci di tutelare il nostro patrimonio culturale, è semmai vero il contrario: non possiamo permetterci di non tutelarlo. Eppure lo stiamo gettando alle ortiche. Il campionario dei casi da far accapponare la pelle è infinito. «Non c’è un episodio che mi ha colpito più degli altri», ci confida l’autore, già giornalista della Stampa e poi direttore della comunicazione di Confindustria e delle relazioni esterne della Luiss. «Quello che più colpisce è la mancata comprensione della gravità di questi fatti. Come se ci fossimo assuefatti. Certo, potremmo individuare un’immagine simbolo con l’abusivismo sulla Regina Viarum, l’Appia Antica, assediata da case abusive a destra e sinistra a Giuliano alle porte di Napoli, senza dimenticare che ci sono duemila case abusive anche nel parco protetto dell’Appia antica a Roma, e persino un supermercato». L’abusivismo è una delle piaghe maggiori che affligge l’Italia. Nella ricerca di Ippolito compare continuamente, con un senso di impotenza che evidenzia come a fronte di continue nuove costruzioni senza alcuna regola (e per questo oltretutto molto pericolose) si riesce a volte a censirne una minima parte, ma se si tratta poi di abbattere o rimuovere gli abusi, allora le autorità sono pressoché im-


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su uno dei più odiosi scandali di casa nostra. Che ogni anno costa miliardi (in meno) di introiti neanche la crisi economica spinge l’Italia a valorizzare ogni possibile fonte di ricavo, se non riusciamo a capire che l’investimento nel patrimonio culturale non è una spesa ma un guadagno: «Parlare serve – garantisce l’autore - senza dubbio, serve denunciare, sperando di suscitare reazioni e scuotere coscienze. Persino sul dato economico sono pochissimi consapevoli di quanto il turismo sia andato indietro, di quanto ci costino i conti spropositati che ogni tanto qualche ristorante fa finire sui giornali, non siamo consapevoli che i giornali stranieri raccontano che in Italia il passato va in polvere, non ci rendiamo conto di quanto perdiamo. Io stesso avendo compiuto questa perlustrazione a così ampio raggio posso serenamente dire di essere cambiato».

potenti, quando non apertamente conniventi. Ischia è un caso disperante, e questo nonostante i lutti, con frane che hanno colpito qui come in tante altre parti, ad esempio a Messina. In Sicilia è stata registrata una domanda di sanatoria dell’abusivismo ogni 6,5 persone. Sulla costa calabrese è stato stimato un abuso ogni 134 metri. Il Centro di ricerche economiche, sociali e di mercato per l’edilizia e il territorio nel 2009 ha stimato che in quell’anno le abitazioni illegali sono una ogni dieci costruite: 27 mila su 281 mila. E poi i paradossi: la caserme dei carabinieri e persino della Guardia Forestale dichiarate illegali costruite dentro le aree protette che devono proteggere, e tante altre opere irregolari di proprietà pubblica.

Un altro dei drammi principali che affliggono il patrimonio culturale italiano è la mancanza di manutenzione, spesso diretta conseguenza della mancanza di fondi. Ippolito dedica interi capitoli ai diversi malanni che colpiscono giorno dopo giorno le ricchezze italiane, minacciate dall’acqua in tutte le sue forme (pioggia, umidità, alluvioni, allagamenti…), dalla vegetazione che si insinua e spacca i materiali più antichi come quelli più resistenti, persino dagli animali: i topi di biblioteca, ma topi veri come sottolinea l’autore elencando casi di preziosi archivi e depositi di quadri, di libri e di pellicole devastati da topi veri in zone dove non si è pensato a mette-

Sopra, il restauro del David di Michelangelo. Qui accanto, i dipinti della casa di Augusto a Roma e un’immagine di degrado a Trastevere, rione-simbolo della Capitale. Nella pagina a fianco, l’Accademia di Brera a Milano

è uno scrigno di meraviglie teoricamente molto ricercato anche dai turisti stranieri. Ma poi la realtà concreta e quotidiana è un’altra, e cioè è una eterna ed irrisolta disputa con l’Accademia di Belle Arti, disputa che nonostante i ripetuti annunci di soluzione non ha mai avuto fine. Il palazzo di Brera è diviso fra l’Accademia e la Pinacoteca, e il progetto decennale di realizzare una Grande Brera dando altri locali all’Accademia non è mai riuscito ad attuarsi. Nel frattempo le opere esposte sono ammassate in condizioni precarie, ma molte di più, e tutt’altro che prive di pregio, giacciono pericolosamente negli scantinati. E questo nel cuore di Milano.

re neanche un gatto. «Non c’è grande differenza tra nord, centro e sud» spiega Ippolito. «Certo, conta anche il contesto esterno, il degrado diffuso che circonda e assedia i beni culturali, e in questo il sud purtroppo è più indietro. Abbiamo tutti sotto gli occhi troppi esempi di meraviglie uniche al mondo trascurate e assediate, come Pompei o anche Paestum. Ma anche il nord ha i suoi orrori, a volte paradossali: penso a Brera, dove da 40 anni non si riesce a trovare una soluzione e tantissime opere di primo piano giacciono in cantina». Il caso di Brera è clamoroso: la pinacoteca resta tra i luoghi culturali più visitati d’Italia, ed

Di casi così ce ne sono a centinaia, e ogni italiano ha sotto gli occhi il suo pezzo di degrado. E in qualche modo ne è responsabile. Perché davvero sembra che non reagiamo più di fronte a questi scandali, e che ci siamo rassegnati a credere che ogni soldo speso per la cultura sia superfluo. Ma la cultura non è superflua. Può anzi essere produttiva. E comunque è la radice di roccia e di colore con cui è costruita la nostra identità. È la linfa che ci ha fatto essere come siamo. Se la lasciamo sbriciolare è come se facessimo scivolar via il sangue dalle nostre vene. Eppure… «Il nemico da combattere è l’assuefazione – afferma Ippolito - siamo troppo abituati a vedere che intorno a noi le cose possono tranquillamente andare male. Dobbiamo avere la capacità di indignarci e reagire». Mi chiedo cosa si possa fare, se

Mi sembra inspiegabile come gli italiani siano così incoscienti da trascurare il loro bene più prezioso, qualcosa che può anche essere redditizio. La spiegazione che ci illustra Ippolito è verosimile, e disarmante: «Sicuramente c’è innanzitutto una scarsa comprensione di quante ricchezze abbiamo. Siamo troppo abituati alle ricchezze di cui disponiamo. Ma quella ricchezza va anche conosciuta, amata, curata, rispettata, esaltata. Invece che imparare a fare questo si è al contrario andata diffondendo una cultura dell’incultura. Cui si sommano interessi economici di piccolo cabotaggio, la negligenza, scale di valori personali e locali che non hanno alcun senso in una visione più ampia eppure si affermano. E c’è il non percepire cosa può significare davvero il mettere a frutto questo patrimonio culturale, o al contrario cosa davvero significa il perderlo. Direi che il degrado esterno dei nostro patrimonio culturale è un po’ lo specchio di un nostro degrado come società: credo che abbiamo bisogno di dedicarci innanzitutto al nostro bagaglio interiore, alla sua ricostruzione, in modo da poter agire sul bagaglio fisico che punteggia il nostro Paese». Ma qualcosa di positivo, qualcosa da cui ripartire c’è? “Dobbiamo essere coscienti anche che ci sono moltitudini di gente che lavora, ci mette il cuore, attenzione, impegno per risultati a beneficio di tutti. Sono lavoratori e anche una valanga di volontari. Anche questa è una nostra ricchezza, ma i volontari non possono supplire al 100% all’impegno pubblico. È una vocazione bellissima ma che non giustifica la ritirata dello Stato”. Il privato può essere la soluzione? «Il privato ha un ruolo importantissimo, può attivare sviluppo di risorse attraverso un impegno serio, concordato, regolato. Ma anch’esso non basta. Anche perché dev’essere chiaro che i Beni culturali e paesaggistici non sono il fattore economico di per sé, ma nel territorio attorno possono davvero attivare uno sviluppo economico molto forte». Siccome vorrei riuscire a dormire nonostante i mal di pancia provocati da questa sfilza di crimini quotidiani, provo a chiedere: c’è ancora speranza? «La speranza ci deve essere sempre. Proprio il constatare quanto la bellezza è diventata bruttezza può farci aprire gli occhi. Per questo ho concluso chiamando l’ultimo capitolo “Volersi bene”. C’è però bisogno che ci impegniamo tutti e molto». Sottoscrivo. Cominciamo.


mondo

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Retroscena. I servizi segreti del Pakistan continueranno a sostenere gli “studiosi del Corano” fino al ritiro occidentale

Imbroglio pakistano La guerra di Kabul non può essere vinta Perché Islamabad non vuole perderla di S. P. Seth e versioni sul futuro dell’Afghanistan sono molte e mutevoli. Una dice che i talebani sono in ritirata, sconfitti dall’offensiva degli Stati Uniti e dei suoi alleati nella provincia di Kandahar. L’aumento di truppe americane, inoltre, starebbe iniziando a produrre i suoi frutti: i 30mila uomini in più ordinati dal governo Obama stanno cambiando il gioco, e non è il momento per le nazioni alleate di perdere le staffe. Un’altra versione sostiene che la shura di Quetta – l’alto comando talebano, guidato dal mullah Omar – non abbia più il comando totale della guerriglia. Gli estremisti islamici sarebbero indeboliti dalla morte di un gran numero di comandanti di campo, uccisi dai droni americani.

L

Il gruppo Haqqani, d’altra parte, si starebbe rafforzando: è questo gruppo che, con l’aiuto dei servizi segreti pakistani, avrebbe stretto un patto con il governo Karzai. Secondo una fonte autorevole, «la shura di Quetta è ancora importante ma non come due anni fa. Il suo prestigio e il suo impatto stan-

no divenendo sempre minori sul campo di battaglia. Ora la minaccia viene dagli Haqqani”. E il Pakistan ha un’enorme influenza su questi. Allo stesso tempo, come denunciano gli organi di stampa, gli Stati Uniti e gli alleati della Nato hanno “facilitato” i contatti fra gli alti gradi talebani e i maggiori consiglieri del governo afgano. Sono arrivati a garantire un passaggio sicuro per i leader estremisti in viaggio per Kabul per incontrare Karzai. I talebani, da parte loro, negano tutto: e questo basta per capire quanto siano contraddittori i messaggi

Herald Peter Hartcher scrive: «I potenti servizi di intelligence di Islamabad mandano i propri uomini a combattere in Afghanistan, e poi li riaccolgono al sicuro in casa». Secondo Greg Sheridan, «il Pakistan ha un ruolo malefico in questa guerra. Non è possibile portare avanti una strategia di controinsurgenza che abbia qualche risultato in Afghanistan, fino a che il Pakistan copre, aiuta e rifornisce i talebani». Questa è, più o meno, l’opinione di tutti i leader della coalizione internazionale impegnata nella guerra. Nel bel mezzo di tutto que-

I servizi di intelligence dell’area sono fatti da uomini con passaporti molto diversi fra loro, e non si tratta di documenti occidentali. Dietro le interferenze pakistane si sente l’accento russo che vengono da quel Paese. I servizi segreti pakistani sono ritenuti generalmente l’intermediario in tutti questi passaggi; ma il Pakistan non è visto come un attore positivo nella scacchiera dagli Usa. Nel suo editoriale “Una sola speranza per gli afgani e per noi”, il direttore del Sydney Morning

sto, il presidente afgano ha annunciato la creazione formale di un Consiglio della pace, con il compito di convincere i talebani a entrare nel suo governo. Ha anche detto di aver già preso contatti con gli estremisti islamici, che avrebbero ottenuto un qualche scopo. I talebani hanno sempre detto che un

contatto con il governo si sarebbe potuto realizzare soltanto dopo che gli americani se ne fossero andati dal Paese.

Di conseguenza, questo flusso di contatti presi da Karzai sempre un po’ esagerato. Si potrebbe pensare che i talebani, indeboliti come spiegato dall’offensiva su Kandahar e dalla morte dei loro comandanti, potrebbero oggi essere ridotti a più miti consigli. L’offensiva, si dice, sta funzionando: ma neanche l’americano più ottimista ha il coraggio di cantare

vittoria. Il punto è che è universalmente riconosciuto che gli americani hanno tutti i mezzi militari per sconfiggere i talebani, se si fosse su un campo di battaglia convenzionale. Questo lo sanno anche gli “studiosi del Corano”, che infatti evitano di ingaggiare un conflitto aperto con il nemico: tendono semplicemente a sparire quando vengono messi sotto troppa pressione. E hanno il vantaggio di sparire in mezzo ai civili. Allo stesso tempo molti afgani, se non la maggioranza fra loro, odiano l’occupazione militare

Il New York Times denuncia: «Uomini della coalizione impegnati a difendere i fondamentalisti islamici disposti a trattare»

E intanto la Nato scorta il nemico da Karzai di Antonio Picasso

MILANO. Ieri nella storia dell’Afghanistan è stata scritta una pagina dalle tinte chiaro scure. Da tempo si parlava della ineluttabilità di trattare con i talebani. Ma forse nessuno in Occidente si sarebbe mai immaginato che i negoziati si aprissero con i rappresentanti del nemico scortati dalle truppe Nato a Kabul. Un bilancio altrettanto sorprendente, in senso negativo, arriva dalla commissione elettorale. A un mese dal voto per il rinnovo del parlamento nazionale (Jirga), il responsabile degli scrutinatori, Fazil Ahmad Manawi, ha detto che «i votanti sono stati circa 5,6 milioni e i voti validi sono po-

co oltre i 4,2 milioni. Le schede annullate ammontano a 1,3 milioni». In termini statistici, si tratta del 20% delle preferenze che perdono immediatamente valore. Volendo essere puntuali, Kabul dovrebbe richiamare l’elettorato alle urne. Sappiamo che questo, da un punto di vista di sicurezza, spese e stabilità politica per Karzai – quella che resta – è praticamente impossibile. Prendendo atto di questo dato, senza considerare ancora il risultato delle schede valide, la conclusione è che il voto del 18 settembre è stato marcato da una serie di brogli a chiazza d’olio, accordi sottobanco in opposizione a Karzai e boicottaggi di ogni tipo. Non solo. Questo milione e passa di elettori afghani hanno disconosciuto le istituzioni di Kabul e con esse la Nato. Per quanto riguarda l’apertura dei negoziati, la scena che si è presentata ieri deve


mondo to” dagli Stati Uniti. L’intelligence di Islamabad ha in mezzo a sé uomini con passaporti molto diversi fra loro: Washington è considerata il nemico comune, e il nemico del mio nemico è mio amico.

Il problema è che, prima o poi, gli americani dovranno andarsene: non sono attori regionali, e la crisi finanziaria internazionale non permette lo stanziamento dei fondi necessari a mantenere un contingente permanente nell’area. A quel punto, la nazione tornerà in maniera inevitabile al suo vecchio schema tribale e religioso. E le nuove forze di sicurezza, addestrate e armate dall’Occidente, potrebbero divenire una futura “arma letale” in caso di guerra civile. Ma nello stesso tempo, pur con gli americani sul territorio, l’Afghanistan è di fatto un’anarchia. Il governo non ha credito presso la popolazione, ed è considerato un pupazzo di Washington. In altre parole, uno strumento come un

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altro delle forze di occupazione. In effetti, va detto anche che Kabul non ha fatto molto per ottenere la fiducia della popolazione. Questo ha una sua motivazione specifica: Hamid Karzai sa anche meglio dei talebani che gli Stati Uniti non potranno rimanere per sempre, ed ha deciso che deve sfruttare il tempo che gli resta prima dell’exit strategy di Obama per crearsene una propria. Per il momento ha schierato famiglia e amici, una piccola e pericolosa cricca di persone, nel campo dell’industria e dell’economia: il primo passo è quello di garantirsi per sempre un elevatissimo tenore di vita. E questo include le mani in pasta dentro affari come il commercio di droga, la vendita di poltrone e di materiale militare.

Il presidente Obama non vuole rimanere impigliato nella guerra in Afghanistan, e i suoi generali vogliono evitare gli stessi risultati disastrosi del “conflitto perenne”scatenato in

Vietnam. Sapendo tutto questo, Karzai si muove di conseguenza esattamente come sta facendo Asif Ali Zardari, presidente del Pakistan.

Che come il suo vicino di casa conosce i rischi connessi al ritiro della coalizione internazionale dall’Afghanistan. Soltanto che, per Zardari, costruire una strada di uscita prima che gli estremisti islamici tornino finalmente al potere è leggermente più complicato. All’interno dei servizi il dialetto più ascoltato è quello russo, non pakistano: e per quanto questa sia una figura retorica e non la verità accertata, si tratta di un dato di fatto che la leadership pakistana conosce e teme. È di ieri la notizia che l’Iran ha a disposizione 30 chili di uranio arricchito al 20 per cento, e su quei chili di materiale fissile c’è lo stampo del Cremlino. L’America prima o poi dovrà andarsene, ma l’Agfhanistan è da molti anni un sogno proibito dei russi;

Zardari e il suo vicino di casa sanno bene che gli americani se ne andranno, prima o poi. E nel tempo che rimane, prima di cedere del tutto ai talebani, si preparano una exit strategy dorata degli Stati Uniti. La resistenza talebana a questa forza straniera – che porta con sé una religione e una cultura generalmente ritenute “aberranti” – crea simpatia. Ma questo non vuol dire che gli afgani comuni non abbiano paura dei talebani. La questione è che l’elemento che potrebbe cambiare veramente la situazione non vuole intervenire: il Pakistan, santuario e rifugio dei combattenti, ha dietro di sé altre potenze (non occidentali) che hanno intenzione di stendere la propria mano sull’Afghanistan “libera-

che, questa volta, rischia di divenire una certezza. In questa situazione, non resta che sperare in un solo fattore potenzialmente destabilizzante per coloro che pensano di potersi spartire Kabul: si tratta dei gruppi etnici del nord, gli hazara e i tagiki, che hanno sempre contrastato invasioni straniere e impennate di fondamentalismo interno. Se l’Occidente ci tiene a sparigliare questo imbroglio, gestito fra Mosca e Islamabad, deve sostenere le genti del Nord e lasciare che siano loro - più afgani degli afgani - a fare giustizia.

Militari della forza saudita, inviati come “controllori” in Afghanistan. A destra, il presidente pakistano Zardari. Nella pagina a fianco, uomini Nato

aver fatto tremare i polsi ai falchi di Washington che, oggi in pensione oppure emarginati dall’agone politico, nove anni fa erano stati i primi a spingere per un intervento armato nel Paese. Dopo l’11 settembre 2001, l’Amministrazione Bush dichiarò guerra al terrorismo, ad al-Qaeda e a Osama bin Laden. E, dato che i talebani dell’Afghanistan, guidati dal mullah Omar, proteggevano quest’ultimo, il regime fondamentalista e oscurantista di Kabul fu automaticamente incluso nella lista dei nemici da sconfiggere. Chissà cosa devono aver detto Dick Cheney e Donald Rumsfeld ieri, nel leggere sulle pagine del New York Times l’indiscrezione per cui quattro leader talebani avrebbero lasciato i loro nascondigli al confine con il Pakistan per giungere a Kabul protetti da militari dell’Alleanza atlantica. Secondo le indiscrezioni dell’autorevole quotidiano statunitense, si tratterebbe di capi tribali che vantano un rapporto personale consolidato con il presidente afghani, Hamid Karzai, e con il suo clan. La loro scelta sarebbe determinata da questi precedenti. Altre fonti parlano però di un tentativo di coinvolgimento anche del clan Haqqani, famoso per la sua intransigenza. L’idea di avviare un confronto con le forze nemiche è oggetto di discussione ormai da un anno. In occasione delle elezioni presidenziali dell’estate 2009 – tornata dalla quale emerse una vittoria per Karzai, per quanto gravata da innumerevoli riserve – in seno alle istituzioni di Kabul, si cominciò a valutare se fosse possibile aprire un dialogo di pacificazione con

le forze più moderate e quindi non allineate al mullah Omar. Dopo molti tentennamenti, la proposta venne sposata anche dagli Stati Uniti. Barack Obama, in poco più di un anno e mezzo di presidenza, si è reso conto di aver ereditato un conflitto dal quale il Pentagono non sa come uscire. Dopo 9 anni di guerra, più di 300 miliardi di dollari spesi, e oltre 5 mila soldati uccisi, Washington è giunta alla conclusione che sia necessario chiudere il capitolo degli scontri a fuoco e passare alla risoluzione politica. Il problema è che né gli Stati Uniti né la Nato possono permettersi di smobilitare l’Afghanistan in fretta e furia, facendo passare la loro exit strategy come una ritirata e quindi una sconfitta. Da un punto di vista militare, Washington vorrebbe imitare la Gran Bretagna di Winston Churchill la quale, nel 1940, reimbarcò le sue truppe a Dunkerque di fronte alla blitzkrieg della Germania nazista. L’operazione allora passò come un grande successo strategico, non solo tattico. La Nato, con i talebani che dilagano in Afghanistan, sogna di fare altrettanto.

Con questo obiettivo, inizialmente si era pensato di demandare l’intero lavoro dei negoziati alla presidenza Karzai. In questo modo, l’Occidente vi avrebbe apposto il suo placet, restando però dietro le quinte ed evitando di compromettersi. Il fatto che ieri i quattro leader talebani siano arrivati a Kabul sotto scorta della Nato fa crollare questo bizantinismo che, comunque sulla carta avrebbe attribuito una parvenza di imma-

gine non compromessa all’Alleanza. La Nato ha dato il suo ok ai negoziati. Questo, come ha fatto notare il ministro degli esteri italiano, Franco Frattini, è un passaggio obbligato. Se si vuole chiudere una guerra, bisogna parlare con il nemico. Ciò che lascia perplessi è la modalità di questo agire: perché questa rappresentanza talebana ha bisogno della protezione Nato? È noto che i mujaheddin più radicali non siano per nulla disposti al dialogo.Tant’è vero che il mullah Omar – per quelle poche dichiarazioni a lui attribuite e diramate in questi ultimi dodici mesi – si è espresso sempre in modo schiettamente contrario ai negoziati. Nella sua visione, l’Afghanistan pacificato è un Afghanistan nelle mani dei talebani, una volta sgominati la Nato e i suoi alleati locali, Karzai in primis. Di qui la quasi certezza che chi tratta con il nemico non meriti altro che l’eliminazione. Non va esclusa, però, l’eventualità che nella stessa compagine filo governativa – che sappiamo essere composita e frammentata alla stregua delle forze avversarie – ci sia qualcuno che con i talebani non vuole trattare. In tal caso, la Nato si troverebbe in una situazione ancora più aggrovigliata. Non solo appare politicamente alla mercé di un presidente afghano parzialmente screditato dall’opinione pubblica nazionale, ma sta combattendo contro nemici di varia identità e, al tempo stesso, è affiancata da forze locali sulla cui affidabilità nessuno se la sente di scommettere.Visto così lo scenario, è difficile pensare a una Dunkerque dalle tinte centro asiatiche.


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Francia. L’Eliseo intenzionato a usare il pugno duro con i manifestanti arkozy non ascolta la piazza. Anzi la sgombera. Sempre che la polizia abbia benzina sufficiente per portare a termine le operazioni. Per capire la situazione basti pensare che, secondo Le Figaro, il governo francese ha esaminato attentamente nelle ultime ore la lista degli spostamenti in programma questa settimana per tutti i ministri ed ha chiesto agli interessati di limitare allo stretto necessario i viaggi fuori Parigi, sia per motivi di sicurezza sia per non dare l’impressione che in queste circostanze il governo si comporti con leggerezza.

S

È scontro frontale tra la Francia che protesta contro la riforma delle pensioni e il presidente Nicolas Sarkozy che intende andare avanti ad ogni costo, anche usando il pugno duro contro le manifestazioni più pesanti. Il primo ordine dell’Eliseo si è concentrato sul punto debole del sistema, cioè sui depositi di carburante. Picchettati da qualche giorno, i depositi occupati hanno portato sull’orlo del collasso il sistema dei trasporti francesi, a partire dagli aeroporti, che oltre tutto sono sotto assedio dei manifestanti e sono stati oggetto di uno sciopero specifico indetto dai sindacati. Alcune centinaia di dipendenti dell’Air France, degli Aeroporti di Parigi (Adp) e di aziende legate allo scalo hanno bloccato gli accessi per le auto e i pullman all’aeroporto di Roissy Charles-deGaulle, creando disagi alla circolazione dei veicoli, ma senza disturbare il traffico aereo. Anche gli accessi agli scali di Toulouse-Blagnac, Nantes, ClermontFerrand, hanno subito disagi nella mattinata di ieri.

Sarkozy-sindacati, è scontro frontale Tre milioni e mezzo di persone in piazza contro la riforma delle pensioni di Aldo Bacci

Se condo un sondaggio nifestanti ieri hanno preso di mira il porto di Le Havre, principale terminale nel Paese dello scambio di petrolio, fermando lo scarico di 10 petroliere.

Il ministro dell’Interno Hortefeux, ha avvertito che la polizia continuerà a liberare i depositi, il cui sblocco

La reazione del ministro Hortefeux: «Il diritto di sciopero non dà il diritto di impedire di andare a lavorare e circolare» Anche ieri sono stati annullati ad Orly un quarto dei voli; il principale deposito di autobus a Rennes è stato assediato da una cinquantina di persone che hanno impedito agli autobus di circolare in città, decine di dimostranti mobilitati dai sindacati hanno bloccato l’entrata di un importante deposito a Port-de-Bouc nella Bouches-du-Rhone, il deposito che alimenta gli aeroporti di Nizza, Marsiglia e Lione, oltre alle basi militari della regione. I ma-

e disposto interventi delle forze dell’ordine per forzare i blocchi imposti dagli operai nella maggior parte delle raffinerie del Paese. I sindacati dal canto loro non intendono cedere e per uno stabilimento che torna operativo, un altro viene nuovamente bloccato. Secondo i sindacati tre milioni e mezzo di persone sono scese in piazza in tutto il paese contro il provvedimento che prevede tra l’altro l’innalzamento dell’età pensionabile da 65 a 67 anni entro il 2018, e da 60 a 62 quella minima. In questo clima gli incidenti non sono mancati. Scene di guerriglia urbana si sono registrare a Nanterre, quartiere di Parigi, dove si sono verificati scontri tra agenti e manifestanti a volto coperto, e dove da lunedì il liceo locale è teatro di scontri tra giovani e polizia e sono stati danneggiati alcuni edifici, tra cui anche la sede del Consiglio generale del dipartimento dell’Hauts-deSeine, che fu presieduto da Nicolas Sarkozy fino al 2007. Nella notte, a Lione diverse auto sono state date alle fiamme e si hanno notizie di scontri e atti vandalici a Mulhouse e Montbeliard, nell’est della Francia. Il ministro dell’Interno ha condannato la violenza e definito “inaccettabile” che più di 60 agenti siano rimasti feriti.

avviato in parte venerdì ha consentito la consegna di milioni di litri di carburante, sebbene siano ancora circa 4000 le pompe di benzina dislocate in tutto il Paese in attesa di rifornimenti, circa un terzo dell’intera rete. C’è però da dire che alcuni dei depositi sbloccati dala polizia vengono poi rioccupati dai manifestanti, e altri si aggiungono all’elenco. Ieri Sarkozy ha ordinato in consiglio dei ministri di sbloccare la totalità dei depositi

Oggi Frattini in Commissione sul decesso

Svolta per Franceschi? Il ministro degli Esteri Franco Frattini dovrebbe rispondere oggi in commissione Giustizia della Camera all’interrogazione presentata dalla capogruppo Pd in commissione, Donatella Ferranti, sul caso dell’italiano morto nel carcere di Grasse, nel sud della Francia. Non sarà quindi il Guardasigilli Angelino Alfano, come annunciato in precedenza, a rispondere all’interrogazione. La deputata Pd chiede di fare luce sulla morte di Franceschi e quindi di conoscere le modalità di soccorso e le cause del decesso del giovane, il trattamento, i tempi e la conservazione della salma e quali provvedimenti sono stati assunti dal governo. A proposito della questione, il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner ha fatto sapere di

«essere in contatto regolare con il suo collega ed amico Franco Frattini su questo doloroso caso». Lo ha fatto sapere il Quai d’Orsay attraverso il suo portavoce, Bernard Valero, sottolineando che «a Parigi il caso viene seguito dal ministero della Giustizia». Proprio in virtù della stretta collaborazione fra la Francia e l’Italia, «il procuratore della Repubblica è stato investito ed ha nominato un giudice istruttore che ha ordinato un’autopsia immediata ed esami approfonditi per ricercare le cause della morte». Secondo la dichiarazione rilasciata dal portavoce, comunque, «per questi esami è necessario un lasso di tempo non abbreviabile». Scuse alla madre di Franceschi, trattenuta in galera alcuni giorni fa.

pubblicato dal quotidiano comunista Liberation il 65% dei francesi invita il capo dello Stato a riprendere il negoziato con i sindacati. Ma ciononostante Sarkozy punta sulla linea dura: il provvedimento domani sarà in Senato per l’approvazione definitiva. Il presidente ha ribadito che la riforma andrà in porto e ha messo in guardia dalle conseguenze degli scioperi sull’occupazione e l’attività economica: «Se non si passa il più rapidamente possibile agli sblocchi - ha dettoquesti disordini che cercano di creare la paralisi del Paese potrebbero avere ripercussioni in termini di occupazione e nel deterioramento della normale attività economica. Vorrei aggiungere che questi disturbi penalizzano i più vulnerabili dei francesi». Il ministro Hortefeux a sua volta aveva chiarito che «il diritto di sciopero non dà il diritto di impedire di andare a lavorare e circolare. Non lasceremo che il Paese si blocchi e garantiremo il funzionamento dei depositi».


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La conferma viene proprio dal negoziatore Salehi

Oltre 9mila studenti protestano contro l’influenza degli han

Teheran: «Prodotti 20 chili di uranio»

Tibet in marcia contro i cinesi “egemoni” nella provincia

TEHERAN. L’Iran ha annunciato di aver prodotto circa 30 chili di uranio arricchito al 20 per cento, malgrado numerose risoluzioni con cui l’Onu ha sanzionato Teheran per il suo programma nucleare controverso. ”«Abbiamo già prodotto circa 30 chili di uranio altamente arricchito», ha dichiarato il capo del programma nucleare iraniano, Ali Akbar Salehi, citato dall’agenzia stampa Isna. La produzione di uranio arricchita al 20 per cento dall’Iran sin da febbraio ha alimentato le tensioni con le grandi potenze, preoccupate per il programma di arricchimento di uranio lanciato da Teheran nel 2006, che si suppone abbia scopi militari malgrado le smentite. Nel frattempo, nel Paese continuano le analisi dell’attesa visita compiuta alcuni giorni fa da Ahmadinejad in Libano. Proprio prima di andare in Libano per la sua visita di due giorni (giovedì e venerdì 14 e 15 ottobre) il presidente iraniano aveva avuto cura di parlare al telefono con i re Abdallah di Arabia e Abdallah di Giordania. Secondo un esperto libanese, facendo questo il presidente iraniano aveva voluto associarsi al “patto di stabilità” che hanno cercato di stabilire l’estate scorso le visite a Beirut di Abdallah d’Arabia e il presidente siriano Bachir al-

LHASA. Tra i 7 e i 9mila studen-

Zapatero tenta il rimpasto anti-panico Un nuovo esecutivo per frenare il crollo nei sondaggi di Massimo Ciullo l Premier spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero corre ai ripari e vara un nuovo esecutivo per cercare di arginare il crollo verticale nei sondaggi del suo partito. Fino a pochi giorni fa, il Premier socialista si era affannato per smentire l’esistenza di una crisi all’interno della sua compagine governativa, ma le pressioni esercitate dalla leadership del Psoe preoccupata dal vistoso calo di consensi nei confronti dell’esecutivo di Zapatero, ha costretto il primo ministro a sacrificare alcune“vacche sacre” del suo entourage per far posto ad alcuni esponenti della rumorosa dissidenza interna. Dopo aver annunciato in un messaggio radio-televisivo il rimpasto di governo, Zapatero si è recato al Palazzo della Zarzuela, residenza dei Reali di Spagna, per comunicare a Juan Carlos la composizione della nuova squadra.

I

Le novità più eclatanti riguardano l’estromissione dal nuovo esecutivo di due figure di spicco della pattuglia che ha sempre accompagnato Zapatero fin dal suo primo insediamento alla Moncloa. Si tratta della vice-premier María Teresa Fernández de la Vega e del ministro degli Esteri, Miguel Ángel Moratinos. La loro sorte politica è ancora in dubbio: non si sa se Zapatero riuscirà a ricollocarli in una posizione degna della loro caratura politica, considerato che tutte le caselle più importanti sono state già occupate. Il rimpasto di ieri, è apparso a molti analisti spagnoli una sorta di resa dei conti finale delle faide intestine che stanno lacerando il Partito socialista. Il Psoe, finora tenuto con mano di ferro dal Premier, inizia a mostrare vistose crepe. Una settimana fa il segretario del partito a Madrid, José Gomez, che aveva rifiutato di farsi da parte e di cedere il posto alla candidata del premier, già ministro della Sanità (ora agli Esteri) Trinidad Jimenez, ha vinto le primarie per la designazione del capolista alle regionali di Madrid nel marzo 2011. Per la stampa spagnola è stata una sconfitta del Premier ad opera dell’«uomo che ha detto no a Zapatero», il primo nel Psoe. Venerdì scorso, il presidente socialista della Castilla-La Mancha, José Ma-

ria Barreda ha chiesto che Zapatero non si ripresenti nel 2012, per evitare un disastro elettorale. Poi ha fatto parzialmente marcia indietro, giurando appoggio e fedeltà al capo del governo. Ma secondo El Pais il «panico» si sta diffondendo nel Psoe davanti al crollo registrato nei sondaggi. L’ultimo, pubblicato dal quotidiano della sinistra Publico, assegna al Partido Popular di Mariano Rajoy un vantaggio di 13,5 punti sul Psoe, 42,8 per cento contro 29,4 per cento con i socialisti in calo di ben 14,2 punti rispetto alle politiche del 2008. Al momento, si può dire che dalle lotte interne, è uscito sicuro vincitore l’attuale ministro degli Interni, Alfredo Pérez Rubalcaba, nominato vice-premier al posto di Fernández de la Vega. Rubalcaba inoltre, è riuscito anche a conservare il suo attuale portafoglio. Al ministero degli Esteri, occupato da Moratinos, arriva Trinidad Jiménez, già segretaria di Stato per l’America Latina. La sua sostituta al ministero della Sanità, sarà Leire Pajín, numero tre del Psoe, che da tempo scalpitava per avere un incarico di governo. Il ministro del Lavoro, Celestino Corbacho, candidato alle regionali sarà catalane, rimpiazzato da Valeriano Gómez, ritenuto da Zapatero più abile nelle relazioni sindacali. La scelta dell’ex-sottosegretario per l’occupazione e dirigente storico del sindacato socialista, Ugt, rappresenta un messaggio distensivo alle organizzazioni sindacali.

Il partito popolare di Rajoy è al 42,8% contro il 29,4% dei socialisti, in calo di 14 punti rispetto al 2008

Assad, nel momento in cui la prossima chiamata in causa di Hezbollah nell’assassinio dell’ex Primo ministro Rafic Hariri pesa notevolmente sul clima politico libanese.

Il contrasto fra questi due gesti, l’uno ufficiale, l’altro popolare, riflette bene la doppia partita giocata dall’Iran in Libano. Nei fatti, in due giorni, il presidente iraniano ha compiuto due visite e non una in Libano: la prima allo Stato libanese, che l’aveva invitato; e la seconda a Hezbollah. Una contraddizione esplosa con i discorsi del leader sulla “linea blu”, il confine che separa il Libano meridionale da Israele.

Un paradosso per lo stesso Gómez, chiamato a gestire l’applicazione di una riforma del mercato del lavoro contro la quale aveva manifestato solo poche settimane fa. Infine, al posto di Elena Espinosa titolare del ministero dell’Ambiente, Zapatero ha scelto l’ex Sindaco di Cordoba, Rosa Aguilar, ex comunista di Izquierda Unida. Oltre a Moratinos e Fernandez de la Vega, scompaiono dalla compagine governativa, insieme ai loro ministeri, Bibiana Aido, titolare delle Pari Opportunità, che continuerà ed esercitare le proprie funzioni ma solo come sottosegretario e Beatriz Corredor, responsabile del soppresso ministero per la Casa, accorpato a quello per lo Sviluppo.

ti tibetani sono scesi in piazza ieri mattina alle 7, nella città di Rongwo, contea di Rebkong (in cinese: Tongren), nella prefettura di Malho (Huangnan) nel Qinghai, per protestare contro l’abolizione della lingua tibetana nell’insegnamento e nei loro testi scolastici, sostituita dal cinese. Gli studenti sono andati di scuola in scuola a Rebkong, raccogliendo sempre più manifestanti, cantando slogan e mostrando striscioni con scritto “Eguaglianza tra le nazionalità” e “Espandi l’uso della lingua tibetana”. Si sono uniti alla protesta i monaci del vicino monastero di Rebkong Rongpo. I manifestanti sono andati davanti al palazzo del governi

di Rebkong, dove hanno protestato fino alle ore 14 circa. La polizia ha osservato senza intervenire. La protesta è esplosa dopo che le autorità hanno deciso che nella zona il linguaggio delle lezioni e i libri di testo devono essere in cinese, a parte ovviamente le lezioni di lingue. Simili riforme sono state già applicate in altre zone tibetane, comprese le scuole elementari, e la lingua tibetana viene emarginata in modo sistematico.

Un insegnante di scuola media a Rebkong dice che «queste riforme mi ricordano la Rivoluzione Culturale. Questa riforma non solo minaccia la nostra lingua-madre, ma viola la Costituzione cinese che riconosce tutela ai nostri diritti [come minoranza]. Per i tibetani, non si applica la Costituzione cinese». Inoltre la riforma significa licenziamento e disoccupazione per molti insegnanti tibetani, sostituiti da altri di lingua cinese. Urgen Tenzin, direttore esecutivo del Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia, spiega ad AsiaNews che «la Cina ha 55 minoranze etniche, tra cui i tibetani. Ma non tutte le minoranze sono minacciate allo stesso modo. Oggi c’è una rigida discriminazione per il linguaggio».


cultura

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Mostre. Fino al prossimo 28 novembre, in più di un centinaio tra musei e gallerie private, è possibile assistere a ben 136 differenti esposizioni legate l’una all’altra

Scatti (e riscatti) storici Metropoli, moda, scienza, nuove tecniche e mondi pittorici: Berlino celebra l’arte della fotografia del XIX e XX secolo di Andrea D’Addio

BERLINO. “Tempi moderni, nuove immagini, fotografia e modernizzazione”, è questo il tema su cui ruota quest’anno la quarta edizione del mese della fotografia di Berlino. Dallo scorso 15 ottobre fino al prossimo 28 novembre, in più di un centinaio tra musei e gallerie private è infatti possibile assistere a ben 136 differenti mostre fotografiche legate l’una all’altra dall’idea che il media in questione abbia caratterizzato tanto il passato quanto, seguendo nuovi canali e applicazioni, caratterizzerà il futuro. «Il titolo è emblematico: si riferisce alla crescita della fotografia non solo nel XIX e XX secolo, ma anche alla sua trasformazione legata all’avvento della digitalizzazione» ha spiegato il sindaco di Berlino Klaus Vowereit. «Il passato e il presente della fotografia sono legati strettamente alla nostra città: poche metropoli al mondo possono vantare musei specifici sul mezzo altrettanto celebrati come l’Helmut Newton Musem, la Galerie C/O e la Berlinische Galerie. Se da qualche tempo si parla di rinascita della fotografia, Berlino ne è uno dei protagonisti».

Per non disperdere troppo l’attenzione dei vari visitatori, l’organizzazione le ha divise in sei blocchi principali e predisposto dei veri e propri tour (bus speciali con tanto di guide) per gruppi di persone. I sei pilastri tematici sono: la vita metropolitana, la fotografia di moda, fotografia e scienza, nuove tecniche e mondi pittorici, Educazione-Allenamento-Competizione e, in ultimo, una categoria dedicata semplicemente ai grandi nomi, personaggi in grado da soli di trainare un genere o un modo di vedere. All’interno di una manifestazione che vede l’uno accanto all’altro, uomini e donne che hanno fatto la storia della fotografia e giovani emergenti con poca esperienza alle spalle, ma capaci di portare avanti idee e progetti originali e, per questo, spesso anche più interessanti di tanti celebrati scatti “d’autore”, è rischioso citare alcuni nomi invece di altri in quanto più meritevoli. Di certo i riflettori e l’attenzio-

ne del pubblico saranno prima di tutto puntati sui lavori degli artisti conosciuti dal grande pubblico. Ecco allora la bella mostra ospitata dalla Willy Brandt Haus in collaborazione con l’Istituto Francese dedicata al leggendario Izis Bidermanas (di cui ricorre il centenario dalla nascita), ritrattista delle bande partigiane francesi durante la seconda guerra mondiale, prima di essere lui stesso catturato, in quanto ebreo, e torturato (non fino alla morte) dai nazisti. Fu lui uno dei più importanti esponenti di quella fo-

città e alla moltitudine dei suoi eccentrici abitanti che fin dagli anni ’70 ne hanno fatto una delle capitali della multiculturalità, stile e trasgressione.

Centro operativo del festival è invece la Berlinische Galerie. È lì che sono ospitati gli scatti di due tra i più autorevoli fotografi tedeschi dell’ultimo secolo: Marianne Breslauer e Arno Fischer. Se la prima è stata allieva di Man Ray a Parigi e ha ritratto la vita sociale tedesca prima (compresa la Repubblica di Weimer) e dopo l’avvento del nazismo, Fischer ha catturato come pochi altri la vita ad est del muro e di Berlino in genera-

uno dei più autorevoli fashion photographer degli ultimi cinquant’anni. È suo uno degli scatti scelti per le locandine della rassegna, una Milla Jovovich in primo piano ritratta nel 2000 per la copertina di Vogue Italia. Sui due piani della C/O, ha luogo un tripudio di bianchi e neri di modelle, donne e uomini dello spettacolo, poco truccati e con tagli di capelli semplici (prerogative imprescindibili per chiunque avesse voluto apparire davanti al suo obiettivo), esaltazione del fascino naturale di visi e corpi. Stimato da Wim Wenders, e co-artefice attraverso il suo lavoro, di quel fenomeno delle “supermodelle” che caratterizzò gli anni ’90 (Claudia Schiffer, Naomi Campbell, Linda Evangelista, Cindy Crawford, Carla Bruni e così via), Lindbergh è oggi giorno, assieme allo scomparso Helmut Newton, uno dei più importanti fotografi della storia della moda, tanto che per una recente lezione tenuta due settimane fa sempre alla C/o i biglietti sono terminati tre settimane prima.

A confronto ci saranno uomini e donne che hanno fatto la storia e giovani emergenti con poca esperienza alle spalle, ma con idee e progetti originali

tografia umanistica francese che, parallelamente a quella americana, caratterizzò gli anni ’50 e ’60, una visione della vita che i sui colleghi (ma di una generazione più giovane) Martin Parr e Gerry Badger, in un libro sulla storia della fotografia, definiranno “affettuosa, nostalgica e profondamente malinconica”. Sempre filologicamente importante è lo spazio dedicato al pioniere della street photopraphy, Garry Winogran, allestita presso la Camera del Lavoro berlinese. Sotto il titolo Le donne sono belle, sono esibiti una trentina di frammenti di vita quotidiana femminile dagli anni ’70 ad oggi. Sorrisi, passeggiate tra amiche mano nella mano mentre gli uomini seduti sulle panchine del parco si voltano tutte a guardare il loro passaggio, e donne al lavoro, sono al centro del suo lavoro. Sempre di street photography si parla alla Galerie Kicken dove è allestita Amsterdam, collezione degli scatti del duo Ed van der Elsken e Barbara Klemm, dedicati all’omonima

le, realizzando reportage per anni studiati e riprodotti in occidente come vetrina di un mondo spesso nascosto da una cortina di censure e divieti. I suoi paesaggi umani, foto che, anche quando lontane dalla Germania (come la preoccupata mano sulla fronte di un anziano affacciato sulla prua del traghetto per Staten Island a New York), cercano di entrare e ritrarre quel particolare rapporto ambiente-coscienza dell’uomo che da sempre regola ricordi, rimorsi e considerazioni, sono diventate anch’esse sottolineature di un modo di fotografare intenso, ricco, ma introspettivo che ha pochi emuli oggi giorno. Inaugurata già un paio di settimane prima dell’inizio ufficiale del mese della fotografia, ma comunque inserita all’interno del programma ufficiale della manifestazione, è la mostra di Lindbergh, Peter

I visi schiacciati sui vetri della metropolitana di Tokyo dei tanti cittadini che utilizzano i mezzi per andare e tornare dal lavoro, sono invece al centro

dell’osservazione di Micheal Wolff (presso la 25 Books). Uomini e donne stanche, sudate, spesso costretti, ad incastrarsi l’un altro per potere tornare a casa tra odori e un’umidità che non lascia spazio a nessun tipo di relax o riposo. Sempre dal mondo vengono gli scatti sui particolarissimi volti di uomini ed animali, in particolare peruviani, denominati Volti inimmaginabili. Una galleria di espressioni e lineamenti davvero degni dell’immaginazione di un film fantasy. Provengono invece dal sud dell’Irak, e dagli anni 1955-56, le foto di Heinz Westphal, panorami e persone di un paese che da allora ha cambiato drasticamente la propria identità. Dalla Sierra Nevada di Santa Maria, in Colombia, sono le immagini di un trio di artisti tedeschi, Bokma, Preuss e


cultura

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In queste pagine, alcune delle immagini esposte in Germania nell’ambito della IV edizione del mese della fotografia di Berlino: fino al prossimo 28 novembre, in più di un centinaio tra musei e gallerie private, è possibile assistere a ben 136 differenti esposizioni legate l’una all’altra

Schecker, capaci di catturare le secolari tradizioni e le moderne contraddizioni di alcuni villaggi rimasti a lungo lontani dalla modernizzazione.

Di grande impatto visivo è poi la mostra Watching You, Watching Me, allestita grazie alla collaborazione tra due importanti scuole di fotografie, una di Berlino e una di Addis Abeba. I differenti soggetti affrontati, ma l’analoga sensibilità utilizzata per l’approccio, rendono gli scatti ospitati presso la Meie Schule fuer Fotografie, un bel concentrato di sguardi giovanili e critica politica, con un’immagine a risaltare tra tutte le altre, quella di un ragazzino con la pistola in mano puntata sull’amico più grande che, sorridente, guarda dritto verso l’obiettivo, non a caso

scelta anch’essa per la promozione dell’intera manifestazione. Sicuramente più sperimentali, e quindi perfettamente in linea con l’obiettivo di guardare al futuro del mezzo sono le mostre dedicate alla microfotografia e agli scatti realizzati con i cellulari, immagini bene o male sempre più diffuse ed emblemi della diffusione e immediatezza con cui ormai la fotografia entra quotidianamente nelle vite di tutti noi. La retrospettiva di Manfred Klage, al Museo della Fotografia in cui l’ingigantimento di insetti e piccoli oggetti fa perdere di vista il legame con la realtà dei soggetti rendendoli quasi dei disegni di fantasia, apre una via “commerciale” ad un’applicazione di certi zoom normalmente esclusivamente utilizzati per ricerche scientifiche. Ma-

ria Vedder invece è la creatrice di Energieverlust, una raccolta di scatti in serie, a pochi secondi l’uno dall’altro, di soggetti ritratti con il cellulare in momenti x della vita quotidiana. Tanti sono poi i progetti visivi dedicati alla realtà berlinese. Con Attraverso la notte, Sebastian Klug cerca di offrire un panorama di luci al neon, vicoli di amanti e di ubriachi ed albe sulla Sprea, che più che mai colgono l’essenza di uno degli aspetti più caratteristici della capitale alla pari di quell’urban Art ritratta dal duo Evol & Just. Il rischioso arrampicamento sui tetti di palazzoni della Ddr per realizzare un murales, il lavoro notturno con le bombolette spray in luoghi nascosti o bui dove non passino poliziotti o pas-

santi che li possano chiamare prima che il tutto sia finito, la moda del tag, le bombolette spray, le vernici ed una vita da artista ai margini, ma non per questo poi meno apprezzata dal pubblico (quando si tratta di disegni, e non scritte che sporcano solamente, si può parlare tranquillamente di arte), sono il focus di questa mostra ospitata dalla Wilde Gallery e che, forse più di altre, attrarrà quel pubblico giovanile spesso anch’esso protagonista di azioni analoghe.

Berlino è però anche città del sesso (la prossima settimana ci sarà una fiera dedicata agli addetti del settore mentre a fine mese ci sarà l’annuale appuntamento con un festival del film porno), e così ecco la collettiva Corpi-Atti-Erotismo, in scena all’Arbeitkreis Kuenstlerische Aktfotografie, dedicata ai tanti club e eventi a tema che prendono vita durante le notti cittadina attirando tanto la gente del luogo quanto i turisti. In questo tripudio di idee e prospettive,

un piccolo angolo di attenzione è dedicato anche all’Italia. Si intitola Anna, Renzo e tutti gli altri e, grazie all’unione degli scatti di vari connazionali trasferitesi in Germania, cerca di riprendere uno spaccato della vita dei nostri emigranti a Berlino. Dalle rimpatriate per vedere le partite della nazionale, al lavoro quotidiano nel campo della gastronomia e dell’arte (tanti sono gli italiani -artisti trasferitisi qui), passando per la comunità di omosessuali che qui ha trovato una seconda casa. La sede d’esposizione? Logicamente il locale Istituto per la Cultura italiana. Ivan Marignoni è invece uno dei tre artisti autori di To loop, un progetto fotografico che tenta di riassumere il ripetitivo rapporto, secondo forme e tematiche ricorrenti, fra uomo, natura e ambiente urbano. Michela Morosini ha invece è invece ospitata con una personale presso lo studio Hannes Roether. I suoi scatti di moda, inseriti in contesti eterei, ma al contempo giocosi e colorati, sono riuniti dal titolo Geschichten-Storie.

Tante idee e spunti quindi per un mese che si appresta ad essere una vera e propria festa per gli amanti dell’arte e che il curatore della manifestazione Thomas Friedrich, ha così cercato di riassumere: «Più di un secolo fa l’arte dell’immagine prodotta della luce è diventato un media di massa. La forma stampata è diventato l’elemento fondante delle riviste illustrate: senza non sarebbero state realizzabili. Nel frattempo le città sono cambiate seguendo spesso modelli dettati dall’immaginario iconografico creato dalle fotografie. Si è trattato di un vero e proprio nuovo modo di vedere, che dagli anni ’20 in poi non ha più spesso di entrare nelle nostre vite e sempre più lo farà. Come infatti afferma la profezia di uno dei più importanti insegnanti del Bauhaus László Moholy-Nagy, l’analfabeta del futuro non sarà colui che non sa leggere, ma chi non saprà decifrare le immagini del nostro tempo».


spettacoli

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Teatro. All’Argentina di Roma va in scena “Il Misantropo” tradotto da Cesare Garboli e diretto da Massimo Castri

Aspettando Molière di Enrica Rosso

In questa pagina, alcune immagini della rappresentazione del “Misantropo” di Molière, in scena al teatro Argentina di Roma. A ci sarà Luigi De Filippo con “Il mio avaro”, mentre a febbraio arriverà “Il malato immaginario” di Gabriele Lavia

icordando Luigi Squarzina e la sua cifra stilistica si apre il sipario del Teatro Argentina. Da pochi giorni il regista toscano ci ha lasciati ed è doveroso, proprio in questo Teatro che lui ha diretto nelle stagioni dal ‘76 al ‘83, dedicargli un ultimo sentito applauso rimpiangendo oltre al regista, l’uomo: il suo entusiasmo, la sua intelligenza e curiosità, la sua voglia di confronto e condivisione che lo hanno spinto a fondare il Dams di Bologna e che hanno fatto di lui un pilastro del teatro italiano del Novecento. Una stagione che dedica ampio spazio ai classici e che presenta in prima assoluta l’ultima produzione del Teatro di Roma, che fa parte del più ampio progetto Codice Molière. Alla fine di dicembre, infatti, sarà di scena Luigi De Filippo con Il mio avaro, a febbraio Il malato immaginario nell’edizione di Gabriele Lavia. Il Misantropo è il testo sfaccettato e faceto che viene ora presentato nella superba traduzione di Cesare Garboli.

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La regia sensibile ed elegante lascia spazio assoluto al senso delle parole e porta la firma prestigiosa di Massimo Castri, che conferma la sua pluriennale collaborazione con lo Stabile di Roma. A impersonare il ruolo del titolo Massimo Populizio, pronto a replicare il successo di pubblico ottenuto nella passata stagione con il Cirano. Monsieur Molière, nato Jean- Baptiste Poquelin, precursore assoluto della commedia di costume (in seguito ampiamente sviluppata da Carlo Goldoni e Anton Cechov) molto si divertiva

A fine dicembre, sarà la volta di Luigi De Filippo con “Il mio avaro”, mentre a febbraio arriverà “Il malato immaginario” di Gabriele Lavia a ridicolizzare i concittadini senza troppo curarsi dei possibili strascichi. Gli fu data in dote un’infanzia difficile, sempre in prima linea, che lo forgiò a una ruvida schiettezza anche a rischio dell’incolumità personale. Cresciuto tra gli adulti, abituato alla teatralità di tutti i giorni, percepì subito che senza bisogno di cercare troppo lontano, la grande tavolozza della strada era il vero tesoro a cui attingere per la scrittura. Nel caso specifico si tramanda che per infondere vita al suo Alceste si fosse apertamente ispirato al duca di Montasieur, precettore del Delfino di Francia, che tanto si dispiacque da minacciare di togliergli la voglia

di scherzare uccidendolo a furia di bastonate, salvo poi cambiare idea visto l’ampio consenso popolare riservato alla pièce. La forza dell’opera tutta di Molière è proprio questa: aver saputo descrivere con arguta schiettezza l’animo umano senza aver paura di cadere nella banalità di un quotidiano che riserva all’attento osservatore, infinite sorprese. Ed ecco scaturire, come dal vaso di Pandora, i personaggi del suo teatro costellato di avari, gelosi, sciocche e pusillanimi, antieroi per eccellenza, riconoscibili e criticabili, risibili e immediatamente riconducibili alla vita di ogni giorno. Ogni personaggio tratteggiato con caratteri cosi nitidi da farlo divenire indimenticabile, diventa allora spunto per allargare lo sguardo, per far paragoni e condividerlo, riconoscendogli insomma una qualità universale. Il nostro Alceste, il misantropo del titolo, soffre di un eccesso di sincerità, un’incapacità assoluta a sopportare l’altrui codardia nel palesare ciò che si porta in cuore, indipendentemente dall’indice di gradimento di chi

l’ascolta. Questo tratto dell’animo fa di lui un reietto in pasto al pubblico ludibrio. Tanto più che l’oggetto del suo smodato amore, e una dichiarata alumeuse che, per contro, si fa beffe di n’importe qui. (E qui Molière prende spunto dalla sua stessa vita e mette in scena l’impietoso tira e molla cui lo sottoponeva la sua giovanissima sposa, Armande Béjart, più interessata al capocomico che all’uomo). Dopo essersi inutilmente esposto, «come faccio a odiarvi? A chi lo chiedo se il mio cuore vi ama? Chi me lo cambia il cuore?», invoca il pover’uomo in balia degli spasmi amorosi. Come è nel suo straordinario stile interpretativo, Populizio scolpisce con una possente energia fisica, oltre che con generosa empatia il ruolo affidatogli, estendendo il potenziale del suo personaggio a riempire ogni singola molecola dell’aria e quando non trova adeguata risposta la scena risulta troppo sbilanciata a suo favore, soprattutto nei duetti. Vero è che l’amore e cieco e che i contrari si attirano, ma davvero risulta difficile che una tal tempra possa perder tempo dietro alla bella e sciapa Célimène qui proposta. Mentre pregevoli e di spessore sono i ritratti del Filinto di Graziano Piazza e delle due dame Eliante e Arsinoè rispettivamente interpretate da Ilaria Genatiempo e Laura Pasetti. Castri ipotizza per quest’allestimento un unico luogo dell’azione di sontuosa bellezza, un’arena in grado di accogliere al suo interno tanto le intemperanze umorali del Misantropo, sempre ricon-

ducibili ad un’inalienabile pulizia interiore, quanto i divertissement da salotto della sua affettata amata, piuttosto che le schermaglie tra i due.

Maurizio Balò lo traduce installando infiniti specchi a saturare le pareti e rifrangere una realtà scenica che, a seconda di chi la esprime, muta senso e significato; evoca l’epoca originale della pièce citando candidi candelabri e obbliga chi si trova all’interno della gabbia di lastre a specchiare le proprie emozioni e spesso a confrontarsi con i propri pensieri prima di dargli voce, intessendo un labirinto di intenzioni. I sontuosi costumi, rigorosamente bianchi e neri come il resto della scena, contrappuntati dalle lucenti parrucche, fulve o dorate, comunque estrose, eccezion fatta per Alceste, che non si concede nulla di estremo se non la sua amarezza. La scelta cromatica di scenografia e costumi, ci offre un ulteriore spunto di riflessione: siamo tutti pedine di un grande insieme, chi non asseconda le regole o non fa gioco di squadra viene mangiato o resta isolato. Le luci di Gigi Saccomandi fanno vibrare lo spazio e lo rendono vivo. Le musiche di Arturo Annechino, tra un quadro e l’altro accompagnano l’andamento del racconto e lo strutturano.


spettacoli

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i sono succcessi che sono di forte impatto e hanno un immediato riscontro nelle vendite e tra i fan di un determinato genere. Altre volte ci vuole del tempo per avere sotto mano un disco, un brano, o conoscere un artista che da tempo non si vedeva sulla scena. Alle volte la soddisfazione viene proprio dal riscoprire e rivalutare certi lavori, anche non recenti, forse imperdonabilmente sfuggiti. Quando usciva American Dream, nel 2008, la statunitense Ashleigh Flynn riscuoteva il suo meritato successo il patria, il regno della musica per eccellenza: l’America.

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Ma in Italia, si sa, molte cose arrivano dopo, e non solo per la musica. Per fortuna oggi Ashleigh decide di fare del nostro Paese una delle tante tappe del suo tour europeo, dopo l’Inghilterra, risvegliando da Nord a Sud quella voglia di America e di country che forse molti conservano dentro. Ma che la frenesia della vita e la piattezza culturale musicale del nostro Paese ci porta a soffocare un po’. Il 13 ottobre a Milano, a del Bassano Grappa il 15, a Piacenza il 19, a Brescia domani, fino ad arrivare persino in Calabria, a Cittanova (Reggio) la sera del 24. Non fa discriminazioni tra Nord e Sud, dunque, la dolce e avvenente cantautrice americana che dalla Lombardia alla Calabria, una tra le regioni risaputamente meno attive culturalmente, decide di esibirsi con la sua chitarra country-folk in un concerto che lascerà il segno. Quello di Ashleigh è un gradito ritorno nel nostro Paese ma anche l’opportunità per molti di scoprire questo meraviglioso talento e di godere semplicemente di una bellissima voce e della performance brillante di un’artista che approccia la musica e i concerti con il motto: «Have fun, do songs you love!». Ad accompagnarla, come nei suoi precedenti tour, l’ottimo chitarrista milanese country & bluegrass Ruben Minuto e Luca Crippa (slide guitar & lap steel). Un’artista matura, completa. Un songwriting di gran classe, con cui affronta il genere Americana coniugando country, old time music, pop, rock e corroborando il tutto con grandi iniezioni di folk. Genere che con i vari Neil Young, Springsteen, Ryan Adams e Lucinda Williams, è il cuore pulsante della buona mu-

Musica. Con 5 tappe, riapproda in Italia la statunitense Ashleigh Flynn

Sorpresa: il cerbiatto di Portland è tornato di Valentina Gerace sica made in Usa. Con lei hanno collaborato importanti artisti della zona, su tutti Chris Funk (The Decemberists), Phil Baker (Pink Martini), oltre ad un manipolo di musicisti di valore pro-

cani, in una vita migliore. Non solo da un punto di vista materiale. Ma intesa come ricerca della felicità. (Proprio i valori per cui Willie Smith si batte e vuole comunicare al figlio, nel film capolavoro di Muccino La

Dopo il successo del precedente tour, l’artista ci porta una fresca ventata di country-folk con l’album “American Dream” venienti dal bluegrass. Il suo ultimo lavoro, American Dream, risale al 2008 e contiene 10 grandi hits, impregnati di ottimismo e forza. Proprio a elogiare quel “sogno americano” del titolo, a cui tutti possono aspirare, adulti e adolescenti. Quella speranza condivisa da tutti gli ameri-

ricerca della felicità, manifesto cinematografico dell’American Dream). Da Phoenix, Evangeline e Mystery che, se passati per radio, farebbero partire il passaparola tipico dei successi originati dal basso; un brano killer come Mystery, grazie alla freschezza di scrittura, ad un ritornello accattivante e una

In questa pagina, alcune immagini dell’artista statunitense Ashleigh Flynn, attualmente in Italia per un tour imperdibile

strumentazione arricchita da tromba ed organo, farebbe la gioia di qualsiasi deejay e del suo pubblico. Una Flynn ispirata come non mai. La sua voce è aperta e radiosa nella splendida The 7th sea, forse il brano più accattivante oppure nella delicata American Dream, carica di atmosfere un po’ fumose, color seppia. Piccoli gioielli sono Dressed & Ready, Hazard County e Isaac on 3rd and Burnside. C’è posto anche per il blues nella trascinante Last Chance Saloon, un pezzo che rileva le abilità vocali di Ashleigh e la qualità eccelsa degli strumentisti. Di evidenti origini irlandesi, nata in Texas, patria di grandi cantautori come Willie Nelson, cresciuta in Kentucky (la terra del bluegrass) e stabilitasi da qualche anno a Portland, Oregon Ashleigh Flynn porta con sé tutte le meravigliose influenze musicali e culturali di queste terre. Neil Young, Elton John, Patty Griffin, John Hiatt, Ryan Adams, Prince, Willie Nelson, Emmylou Harris, Dolly, Loretta, REM, Shawn Colvin, Hank Williams. Le cui eco si possono ascoltare anche nei suoi primi dischi, Chokecherry (2002) Ashleigh Flynn, (1999), oltre al Live in Mississippi del 2005.

La sua voce tutta pop e country sposa tanti generi dal pop al bluegrass. Ma è con l’anima che scrive ballate di spessore spaziando tra ballads notevoli, rock e bluegrass con una vena pop che potrebbe aprirle in tempi brevi anche le porte del grande pubblico italiano. Nell’ultimo anno, Ashleigh Flynn ha intensificato molto la sua attività live, suonando nei maggiori festival statunitensi (partecipa anche al Bonnaroo Music Festival nel concerto che segnò il ritorno sulle scene dei Police). Ultimamente condivide il palco con il grande cantautore rock dell’Oregon Todd Snider e Nancy Griffith (incluso il leggendario radio show Mountain Stage, che ha ospitato nello stesso periodo anche Ryan Adams). Per chi ha avuto la fortuna di incontrarla in qualche suo concerto, non sarà stato difficile innamorarsi del cerbiatto di Portland. Un nome su cui contare per il futuro, un disco caldamente consigliato, da porre sullo scaffale vicino ai lavori di Patty Griffin e Gillian Welch. E un grande appuntamento dal vivo per chi non vuole perdersi questa chicca a stelle e strisce.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Serve più controllo sull’informazione per proteggere i minori Il Comitato Media e Minori operante presso il Ministero dello Sviluppo Economico richiama con forza tutte le televisioni italiane ad un maggior controllo dell’informazione quando episodi di cronaca coinvolgano minori a seguito di violenze e assassinii. Il doveroso ed ineludibile diritto di cronaca non può e non deve travalicare il limite, non solo del comune buon senso, ma neppure - a maggior ragione - del doveroso rispetto della delicata fragilità emotiva legata alla fase di crescita cognitiva e critica dei minori. Occorre avviare una riflessione sullo spazio dedicato dalle televisioni italiane a notizie di criminalità, ben maggiore rispetto a quello riservato dagli altri principali telegiornali europei. L’amplificazione mediatica del crimine e la sua spettacolarizzazione, se sembra premiante per l’audience, provoca assuefazione e indifferenza al male con effetti pericolosi e anestetizzanti nel tessuto culturale e sociale del nostro Paese. Particolarmente il servizio pubblico deve sentirsi sollecitato a invertire questa tendenza e a costituire in tal senso un riferimento anche per le altre emittenti. Il rinnovo del contratto di servizio Rai può costituire una concreta possibilità per intraprendere questa strada.

Il Comitato Media e Minori

CONTRO LA VIOLENZA IN TUTTI GLI STADI Rispondere ai violenti e ai razzisti: questo è l’obiettivo dell’Uisp dopo i fatti di Genova Prende il via in Italia “Action week”, la campagna internazionale contro il razzismo e la discriminazione in Europa lanciata dalla Rete Fare (Calcio contro il razzismo in Europa) che si concluderà il 26 ottobre, con il coinvolgimento di 40 paesi europei Questa iniziativa è diventata la maggiore campagna sportiva contro la discriminazione nello sport in Europa grazie al sostegno dell’Uefa, che userà le proprie competizioni principali per amplificare il messaggio

Lettera firmata

CIVILE CONVIVENZA Gli schematismi ideologici sono spesso il paravento per lavarsi le mani rispetto alla necessità di calarsi nella realtà per far ri-

spettare a tutti le norme, nazionali ed europee. Il ministro Maroni ha giustamente portato alla ribalta un problema reale, nel segno di una politica che non vuole essere né punitiva né “razzista”, ma neppure miope o, peggio, cieca. La norma cui Maroni fa riferimento rischia di restare lettera morta se non prevede anche gli strumenti per essere concretamente applicata. Nello stesso tempo è anche una richiesta esplicita all’Unione europea perché si dia un contesto legislativo di riferimento uniforme che non lasci solo nessun Paese membro di fronte a un problema cruciale per la civile convivenza.

Ellezeta

DOVEROSO SPOSTARE A RIMINI IL MINISTERO DEL TURISMO Rimini è conosciuta da tutti per la sua intraprendenza imprenditoriale, la varietà,

Il cibo dell’artiglio più lesto Se avesse aspettato tranquillamente appollaiato su un ramo insieme ai suoi due fratellini, questo nibbio dalla coda bianca avrebbe dovuto spartire il pasto con la famiglia. Così il giovane rapace ha raggiunto in volo il padre, e lì, a 30 metri dal suolo, ha tentato di strappargli il bottino, un succulento topolino

la qualità e l’originalità dell’offerta turistica, per questo la Lega ritiene che sia la città con tutte le caratteristiche per diventare la nuova sede del ministero del Turismo di un Paese federale. La città ha un’organizzazione invidiabile e forgiata dalla lunga esperienza, non disgiunta da strutture e logistica, senza dimenticare la visibilità e la riconoscibilità, guadagnate nel tempo con eventi, proposte e formazione turistica. È inoltre conosciuta nel mon-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

do, tanto da far dire a noi romagnoli “vicino a Rimini”, per far capire all’estero la nostra provenienza. Per questo Rimini rappresenta una delle icone del settore fra le migliori d’Italia. In Romagna abbiamo una delle eccellenze del turismo globale, una città votata interamente a tale ambito, per la Lega è un obbligo proporla quale nuova ed eventuale sede per il ministero del Turismo.

Sarah Ostinelli

da ”Der Spiegel” del 20/10/10

Karl Rove e i soliti europei er Spiegel ha messo il microfono sotto il naso di Karl Rove, uno dei consulenti di spicco dell’amministrazione di George W. Bush. Ne è uscita un’intervista dove sono ben evidenti tutti i luoghi comuni che da sempre hanno contraddistinto un certo modo di pensare europeo. Primo fra tutti, l’eurocentrismo continentale. Lo si nota in maniera particolare nel modo in cui Hans Hoynig e Marc Hujer insistono molto sulla scarsa presentabilità del candidato repubblicano del Delaware per le elezioni di midterm. Parliamo di Christine O’Donnel, prodotto atipico del movimento dei Tea Party. Una conseguenza diretta della cultura libertaria che tende a reagire dal basso alla politica, quando questa non soddisfa più una parte dell’opinione pubblica americana. In Europa è vista col sopracciglio alzato. Rove cerca di spiegare quanto invece sia frutto della capacità del sistema politico americano di reagire ai cambiamenti d’umore della gente. Mentre in Europa esiste ancora il filtro dei partiti che produce liste di «nominati». Quindi «il candidato di cui non andare fieri», la O’Donnel per i cronisti tedeschi, diventa espressione del consenso democratico per Rove. «Il sistema dei partiti in Germania, soprattutto nell’area socialdemocratica, ha spesso prodotto leadership deboli», proprio perché troppo lontano dal vaglio popolare. Insomma, la primarie farebbero la differenza tra le due sponde atlantiche. E la mediazione dei “saggi” dei partiti non avrebbe mai garantito alcuna qualità nelle fila dei novelli candidati. Anzi, secondo Rove, alcuni sarebbero stati personaggi detestati dai tedeschi. Ma non fa nomi. In Italia salta su-

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bito in mente le ultime considerazioni di Pisanu sulla «impresentabilità» di alcune liste della Pdl. I giornalisti tedeschi sono allibiti dalla velocità con cui il fenomeno Sarah Palin è emerso e tende a dominare la scena nel Partito repubblicano. L’ex consigliere della Casa Bianca risponde stupito come questo fenomeno non sia una novità, sia per i repubblicani che per i democratici. «Entrambi i partiti hanno auto dei personaggi esordienti che sono emersi» e in più la Palin è stata governatore dell’Alaska. «Né Ronald Reagan e neanche Richard Nixon facevano parte dell’establishment del Partito repubblicano» chiosa l’americano. «Ma non ha alcuna esperienza» incalza Hujer, ormai con entrambe le sopracciglia alzate. «Pensavo fosse stato il capo dell’esecutivo di uno Stato della Federazione», risponde sornione l’intervistato. La Palin non era semplicemente un novello candidato al Senato dell’Illinois, senza alcune esperienza precedente.

«L’inesperienza» è il chiodo su cui Der Spiegel batte di continuo e spiega l’altra luogo comune che ha sempre avvelenato i giudizi degli europei nei confronti dei cugini americani. Poteva essere comprensibile nel XIX e XX secolo, dove la difficoltà delle comunicazioni rendevano difficile la comprensione fra i due Mondi. O si aveva la fortuna di Alexis de Toquevile e del suo collega Beaumont, oppure non restava che il sentito dire. Ma oggi dimostrare una così scarsa cono-

scenza della società americana non è più giustificabile. Se non con la presunzione condita da una sconfinata arroganza culturale. Obama sarebbe dunque per i tedeschi la dimostrazione di quanto «l’inesperienza» domini la politica Usa. E chiamano sul banco dei testimoni Hillary Clinton che aveva usato questo tema durante le primarie. Se voi europei guardate Obama a mezza strada dalla socialdemocrazia europea dovete pensare «che gli Usa non hanno mai avuto una cultura politica socialdemocratica».Rove riporta la discussione sui fatti. «C’è sempre stato un accordo bipartisan dal secondo dopoguerra per tenere la spesa del governo federale intorno al 20 per cento del pil. Obama è il primo ad aver superato drammaticamente questo limite». Anche il Tea Party verrà metabolizzato dai repubblicani, ma per i nostalgici della rivoluzione reganiana, Rove smorza gli entusiasmi: «niente a che vedere con quel periodo».


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LE VERITÀ NASCOSTE

Servizi telefonici “strani” e poco costosi TAMPA. Un giovane ventinovenne, di nome Joshua Basso, ha chiamato il numero di emergenza della polizia americana, il 911. La telefonata ha preso subito una piega insolita, quando l’operatrice del 911 si è trovata di fronte a domande come «Hai un bel seno?», o «Scommetto che hai un bel lato b!» o anche «Perché non ti tiri giù le mutandine?», anche se il linguaggio di Basso era un po’ più colorito. Al termine dell’ansimante chiamata, l’operatrice ha inviato una volante all’indirizzo dell’uomo, che però ha inizialmente negato con forza. È bastato che l’agente chiamasse il numero che aveva pochi minuti prima chiamato il 911 per sentire

squillare il cellulare di Basso, e ha messo fine alle sue scuse. La spiegazione di Joshua è stata che in realtà voleva chiamare un telefono erotico, solo che non aveva più credito sul cellulare, e pertanto poteva chiamare solo i numeri di emergenza. L’uomo è stato denunciato per uso improprio dei servizi di emergenza. In Svezia, invece, esiste un numero d’emergenza per le coppie rimaste senza preservativi. Le autorità sanitarie hanno deciso di intervenire per incentivare l’uso, molto basso, di preservativi. Ha messo a disposizione un servizio a

ACCADDE OGGI

LE FALSITÀ SUL NUCLEARE GIUSTIFICANO LA VIOLENZA La Regione Marche ha approvato all’unanimità una mozione con cui impegna la Giunta a mettere in atto tutte le iniziative per opporsi alla realizzazione di depositi di scorie radioattive. Questo tipo di iniziative demagogiche non hanno e non potranno avere alcuna conseguenza pratica, dato che la Corte Costituzionale ha già bocciato ogni velleità delle Regioni. Si rischia quindi di alimentare odio verso la fonte di energia che salverà l’economia dell’Italia. E si giustifica a priori chi, strumentalizzando la paura, scenderà in piazza a guidare le rivolte violente e la guerriglia quando verranno individuati i siti. Si parla di sindrome Nimby (Not in my back yard), per indicare un atteggiamento favorevole ad un’opera, purché lontana dal proprio territorio: è quel che è accaduto a Napoli per i termovalorizzatori, che tutti volevano, ma che ogni comunità locale rifiutava. Per costruire le centrali dovremo aspettarci la necessità dell’intervento dell’esercito?.

Alfonso Fimiani

SISTEMA PORTUALE SENZA FUTURO Senza un’autonomia finanziaria, il sistema portuale italiano farà ben pochi passi avanti. Il testo della riforma portuale, licenziato dal Consiglio dei ministri, è insoddisfacente ed è indispensabile procedere a una revisione radicale del testo. C’è bisogno di una norma strutturale che crei anche le basi per attivare forti investimenti privati nei porti, garantendo continuità di risorse per assicurare e finanziare la manutenzione ma anche lo sviluppo di nuove infrastrutture portuali e logistiche.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

21 ottobre 1879 Thomas Edison testa la prima lampadina funzionante in modo efficace (resterà accesa per 13 ore e mezza prima di bruciarsi) 1895 La Repubblica di Taiwan collassa sotto l’invasione delle forze giapponesi 1902 Negli Stati Uniti termina uno sciopero di cinque mesi organizzato dal sindacato dei minatori 1941 Seconda guerra mondiale: le truppe tedesche in Jugoslavia si scatenano uccidendo migliaia di civili 1945 In Francia le donne vanno a votare per la prima volta 1957 Debutto del film Jailhouse Rock, con protagonista Elvis Presley 1959 A New York apre al pubblico il Guggenheim Museum progettato da Frank Lloyd Wright 1967 Guerra del Vietnam: più di 100.000 dimostranti si radunano a Washington. Una manifestazione pacifica al Lincoln Memorial viene seguita da una marcia sul Pentagono e da scontri con i soldati e gli United States Marshal

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

chiamata per la consegna a domicilio dei profilattici, a qualsiasi ora del giorno e soprattutto della notte. E il costo è inferiore a quello della farmacia: 5 euro al pacchetto. Il servizio è rivolto soprattutto ai giovani: gli amanti rimasti senza preservativi potranno chiamare un numero che è già tutto un programma: 696969.

Altri interventi indispensabili sono il reintegro dei fondi per la manutenzione, la continuità dei programmi d’investimento infrastrutturale. E inoltre, a favore delle imprese, la parziale fiscalizzazione (5 punti) degli oneri sociali, una riduzione delle accise sui prodotti energetici, benefici fiscali per le navi di cabotaggio, la proroga degli incentivi al combinato terra-mare, il consolidamento delle indennità di mancato avviamento per i lavoratori portuali temporanei. Bisogna focalizzare l’attenzione sulla necessità di coordinare le norme in materia di sicurezza e non abbassare la guardia sulla collocazione armonica del sistema portuale sulle reti Ten e un coordinamento fra le varie modalità di trasporto che postula scelte sia in tema di trasporti ferroviari che di autotrasporto.

Barbara Gazzale

UNIRE LE FORZE PER CONTRASTARE LA CHIUSURA DEGLI OSPEDALI Abbiamo sia i nomi degli ospedali che il commissario ad acta alla sanità ha deciso di smantellare sia i numeri di questa operazione che qualcuno ancora chiama “riconversione”: 3.068 i posti letto che verranno cancellati, di cui 1.623 di lungadegenza e riabilitazione. È ora di unire tutte le forze che in questi mesi si sono attivate in difesa del sistema sanitario pubblico della nostra regione. Siamo pronti a sostenere tutte le iniziative e le mobilitazioni che nasceranno sui territori. Auspichiamo, però, che le varie voci di dissenso contro il piano ideato dalla presidente Polverini riescano a confluire in un unico blocco di protesta, compatto e più forte.

Ivano e Fabio

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

RINNOVARE LA CLASSE DIRIGENTE Parlare di politica ai giovani è sicuramente molto difficile. L’intero stivale ha bisogno di un rinnovamento della classe dirigente, ma solo alcuni partiti o associazioni culturali si preoccupano di promuovere scuole di alta formazione politica proprio come quelle a cui partecipavano i giovani come Aldo Moro e John Fitzgerald Kennedy. Proprio sulla linea di questi due grandi padri della politica, l’associazione politico culturale “Identità e Dialogo” in collaborazione con l’Unione di centro ha promosso un incontro dal tema molto significativo: “Un patto tra generazioni per una nuova Italia”, svoltosi nella splendida cornice di Santa Maria di Leuca. I giovani, spinti da un vero e profondo senso del dovere verso il Tricolore, hanno ascoltato con grande ammirazione e interesse gli illustri relatori: Rocco Buttiglione, Angelo Sanza, Paola Binetti, Salvatore Ruggeri, Salvatore Negro e Lorenzo Ria per l’Udc; Mario De Donatis, Angelo Grasso e Vincenzo Montagna per “Identità e Dialogo”. Gli onorevoli Binetti e Sanza, in particolare, hanno tenuto una lectio magistralis sulle figure di Moro e Kennedy, tracciando i primi passi della loro formazione politica, dando così l’imput per formare due gruppi di lavoro che hanno affrontato i temi principali per attuare una politica sana: democrazia per la partecipazione, istituzioni per il bene comune e sviluppo per il lavoro. «Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere» diceva Moro; mentre Kennedy affermava: «Non chiedetevi cosa può fare il vostro Paese per voi. Chiedetevi che cosa potete fare voi per il vostro Paese». E anche: «Non può esistere un piano di sviluppo se in partenza non c’è un’idea di progresso che porta le istituzioni e gli enti a pianificare in modo concertato il territorio e la società». Frasi celebri, queste, che sono rimaste impresse nella nostra memoria e nel nostro cuore. Da ciò si può capire quanto i giovani sentano le problematiche che attanagliano il Mezzogiorno d’Italia, che purtroppo oggi è costretto a vivere una situazione di stallo, caratterizzata dalla disoccupazione e dalla disperazione, non essendoci un piano di sviluppo economico. E da tali parole prendiamo spunto per cercare di realizzare le nostre idee e i nostri progetti, per poter essere la nuova classe dirigente del prossimo domani e a servire dignitosamente il nostro Paese. Francesco Dimaggio C I R C O L O LI B E R A L GR A V I N A I N PU G L I A ( BA ) REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


ULTIMAPAGINA Il caso. Quello che si è scatenato attorno al delitto di Sarah Scazzi è il peggiore circo mediatico mai visto prima

Cronache di una morte (male) ANNUNCIATA N di Roselina Salemi

eanche Jeffery Deaver, neanche John Connolly o Michael Connelly con le loro truci storie di segreti familiari e serial killer della porta accanto sarebbero riusciti a inventare un trama del genere. Contraddizioni, confessioni modificate, corrette e ritrattate, lacrime di coccodrillo e verità smentite da un giorno all’altro, da un’ora all’altra, al punto da lasciare paralizzati battaglioni di esperti, psicologi, psichiatri, criminologi, profiler, scrittori, commentatori di professione e giornalisti che nei giorni scorsi, ma anche prima, si sono variamente esercitati, con le ipotesi più bizzarre, sulla triste vicenda di Sarah Scazzi, quindici anni, sparita il 26 agosto mentre andava al mare, ad Avetrana. Assassinata, scaraventata in fondo un pozzo. Già morta, mentre partivano gli appelli a Chi l’ha visto?. Una vicenda nera, barocca, e nello stesso misera, moderna eppure arcaica per i sentimenti che mette in campo: odio, rabbia, invidia, desiderio di controllo. Se l’Orco, ovvero Michele Misseri, lo “zio assassino”, dormiva, mentre Sabrina strangolava la cuginetta Sarah, se il cerchio tribale di questa famiglia apparentemente normale, come apparentemente normali sono tutte, prima che qualcuno venga a scavare dentro i rancori e dentro i segreti, forse nessuno ha capito niente, a cominciare dai giornalisti.

Mentre Barbara Palombelli sul Tg5 chiede simbolicamente scusa a Sarah («Perdonaci, se puoi, noi che ti abbiamo mangiato come l’umidità di quel pozzo»), e i profiler ansiosi di visibilità fanno una rapida marcia indietro cercando uno schema di comportamento plausibile, e c’è la tesi di Paolo Crepet e quella di Raffaele Morelli, e c’è la lettura piscanalitica e quella analogica, tutti, visti alla moviola, sembrano le marionette di un teatrino grottesco. I protagonisti di una puntata riuscita male di CSI. Altro che giornalismo investigativo, altro che ricerca della verità. È stato sufficiente andare dietro alle sei-sette versioni di Michele Misseri (presto ce ne sarà un’altra, e l’Orco diventerà un poveraccio da compiangere, succu-

Esperti, profiler, criminologi, psichiatri, scrittori, commentatori e giornalisti, nei giorni scorsi ma anche prima, si sono variamente esercitati con le ipotesi più bizzarre be di un invisibile matriarcato), alle lacrime di Sabrina, oggi in carcere, alle loro perfettamente recitate indignazioni, e rileggere tutto ogni volta. Il linguaggio del corpo, il divismo, le dichiarazioni addolorate, i “pizzini” tra le donne della famiglia, i comportamenti anomali. I colpi di scena, vera manna per l’audience. Si va ad Avetrana, con gli occhi (e le telecamere) carichi di sospetto, come se questo paese sperso, senza discoteche, come vanta il parroco, fosse l’anticamera dell’inferno, la terra del peccato,

il luogo dell’oscurità. Come se Avetrana non fosse il compendio crudele di ciò che noi siamo oggi: una società dalle radici cristiane, ma senza etica, dallo scandalo facile, ma senza la capacità di condannarlo davvero, dal perdono ancora più facile, ma soltanto per pigrizia, dai saldi principi, ma con la disponibilità a sven-

L’intera vicenda sembra animata dai protagonisti di una puntata di CSI riuscita male. Altro che giornalismo investigativo, altro che pura ricerca della verità!

LA FAMIGLIA In alto: lo zio di Sarah Scazzi, Michele Misseri, e la piccola Sarah. In basso: la quindicenne insieme con sua cugina, Sabrina Misseri; la mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo; uno scatto dei funerali della ragazza di Avetrana

derli per quindici minuti di gloria televisiva, unico parametro, ormai, dell’esistere. Una società che crede (a parole) nella famiglia, ma ne accelera la disgregazione e lascia che ciascuna affronti da sola il proprio lato oscuro. L’unica cosa che conta è la soglia dell’attenzione: quando si abbassa, voltiamo pagina. Non si tratta di distribuire colpe, come qualcuno ha cercato di fare linciando Federica Sciarelli, “colpevole” di aver avuto un vantaggioso scoop in diretta (il ritrovamento del corpo di Sarah) né di elaborare carte etiche, codici che sono, spesso, soltanto pezzi di carta caricati di buone intenzioni. Il sistema è questo, il mondo è questo. Si tratta, semmai, di farsi delle domande, di non costruire fragili teoremi, e soprattutto giudizi definitivi, sulle verità consegnate da altri. Di rileggersi, anche in una sala d’aspetto, Sul giornalismo di Joseph Pulitzer (Bollati Boringhieri, per chi fosse interessato). Viviamo per comodità dentro gli stereotipi, gli schemi, i parenti-serpenti, il circo mediatico, il voluminoso dossier, l’orribile delitto (ma ci sono delitti “carini”?) la folla commossa, i fiumi d’inchiostro. Non abbiamo neanche il tempo di cercare frasi nuove.

Che ne sarà di tutte le inutili parole scritte, lette, ascoltate e digerite con la cena nelle ultime sere, senza avere il tempo di pensare? Il buono di tutto questo è che niente è scolpito nella pietra, e dimenticare e più semplice che sforzarsi di capire, perciò dimenticheremo. Il brutto, di tutto questo, è che nella fretta di catalogare ogni cosa per renderla più chiara, più consumabile, più masticabile, nella fretta di appiccicare le etichette, la Vittima, il Mostro, L’Amica, La Mamma Addolorata, e prendere posizione di conseguenza, abbiamo scritto una sceneggiatura, abbiamo superato il confine che un tempo divideva l’informazione dalla fiction, senza poter convocare un Mac Taylor o di un Horatio Caine per garantirci un finale consolatorio. Ma dietro le etichette ci sono persone vere, e ferite che sanguinano, e sanguineranno ancora, quando la nostra volubile attenzione si sarà trasferita su un’altra Mamma di Cogne, un altro Mostro, un’altra Vittima.


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