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Gli infelici, non avendo nient’altro, solitamente si attaccano alla morale Marcel Proust

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 29 OTTOBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Al Senato è ancora scontro sulla «reiterabilità» della legge-Alfano. Ma l’attenzione generale si concentra su un nuovo scandalo

Donna di cuori, Lodo di picche Scoppia il «caso Ruby»,la minorenne delle feste ad Arcore.«Sono generoso con chi ha bisogno», dice il premier che però subisce un altro duro colpo: Pdl e Fli non trovano l’accordo sullo scudo ADDIO PREDELLINO

CATTIVI ESEMPI

Sta cominciando la grande fuga dal berlusconismo

Il Cavaliere, Ribery e le nuove Lolite

di Riccardo Paradisi

di Roselina Salemi

otrebbe essere questione di giorni o di settimane ma insomma dovrebbe essere vicino il momento in cui la pattuglia di pidiellini tentati dall’esodo azzarderà il passaggio verso Futuro e libertà. I nomi dei deputati Pdl con la valigia in mano ben esibita sono ormai noti: si tratta di Alessio Bonciani, Roberto Rosso e Daniele Toto. Giancarlo Mazzuca l’ex direttore del Resto del Carlino pur da tempo insofferente ha smentito la sua presenza nella lista dei transfughi. Gli altri però non smentiscono e pare che abbiano proprio tutte le intenzioni di volersene andare. Ognuno per motivi diversi ma sostanzialmente riconducibili a un motivo solo: l’assenza di spazio e agibilità politica nel partito. In particolare Alessio Bonciani deputato toscano del Pdl è ormai un nemico giurato di Denis Verdini.

ahia, Ruby, Alia e le altre. Ragazzine precoci, bombardate da messaggi di onnipotenza televisiva, mature all’apparenza perché hanno tutto quello che serve per obbedire alla legge del desiderio. Come quei pomodori bellissimi, coltivati in serra mentre fuori nevica, imbottiti di fertilizzanti e acceleranti per la crescita. L’importante è che siano buoni per il mercato. In questo caso, il mercato dei corpi. Chi sia il potente di turno (un politico, uno sceicco, il sultano del Brunei, un Grande Regista) non importa. Che l’obiettivo delle ragazze sia diventare una rockstar, una top model o semplicemente una escort di lusso, superpagata perché rischiosa, perché giovanissima, è irrilevante. Conta di più il meccanismo del sogno da un lato, e quello del possesso dall’altro.

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a pagina 2

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Nuovo vertice ad Acerra

Ri-promessa del premier: «Niente più rifiuti» Il termovalorizzatore, promosso a tempo record, non funziona: la Procura di Nola vuol vederci chiaro Errico Novi e Lucrezia Rossi • pagina 4

Gli “Orientamenti pastorali” della Cei per il prossimo decennio

Famiglie, scuole e cultura contro questo governo. Ecco il manifesto dei vescovi Per la Chiesa, la crisi italiana è anche morale: servono strumenti formativi inediti e nuovi dirigenti laici cristiani che siano competenti e rigorosi

segue a pagina 3

Il ministro ammette che la stima dell’11% fatta da Via Nazionale è corretta

Tremonti fa pace con Draghi «Sì, sui disoccupati, ha ragione la Banca d’Italia» di Francesco Pacifico

Stop alla riforma delle Fondazioni

ROMA. Alla Giornata mondiale del risparmio, botta e risposta tra gli eterni nemici: il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi e il ministro Giulio Tremonti. Ma stavolta non c’è stata lite, anzi, il titolare dell’Economia ha ammesso che i dati di Bankitalia sulla disoccupazione («In due anni persi 500mila posti di lavoro, siamo all’11%») sono corretti. Solo pochi giorni fa il governo li aveva stigmatizzati come «esoterici e fantasiosi». a pagina 8

Le banche vincono la sfida con la politica

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di Gianfranco Polillo ire che la crisi ha cambiato (in peggio) la vita delle grandi metropoli occidentali è quasi una banalità. Più difficile è capire quando profondo sia stato un sommovimento che, in pochi mesi, non solo ha messo in ginocchio le più forti economie del Pianeta, ma ha cambiato atteggiamenti politici e luoghi comuni consolidati. a pagina 10

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I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

211 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

di Gabriella Mecucci una vera e propria “discesa in campo” dei vescovi italiani, il documento della conferenza episcopale che contiene gli orientamenti pastorali per il prossimo decennio. I 56 capitoli firmati dal cardinale Angelo Bagnasco rappresentano un’elaborazione ricca, argomentata, coraggiosa e densa di critiche verso il ceto politi- Il testo co, verso le inadempienze firmato del governo e di altre istitu- da Angelo zioni. Per evidenziarle non Bagnasco viene scelta l’arma della polemica, ma piuttosto quella è molto duro della proposta. Nell’elencare col governo ciò che occorrerebbe fare, si rende ben evidente tutto ciò che non funziona e che non è stato realizzato da chi avrebbe dovuto farlo. La scelta di fondo è quella di impegnare la Chiesa nel prossimo decennio sul grande tema dell’educare. a pagina 12

È

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la polemica

prima pagina

Continua l’esodo dai gruppi del Pdl

pagina 2 • 29 ottobre 2010

La grande fuga: è già finito il berlusconismo? di Riccardo Paradisi otrebbe essere questione di giorni o di settimane ma insomma dovrebbe essere vicino il momento in cui la pattuglia di pidiellini tentati dall’esodo azzarderà il passaggio verso Futuro e libertà. I nomi dei deputati Pdl con la valigia in mano ben esibita sono ormai noti: si tratta di Alessio Bonciani, Roberto Rosso e Daniele Toto. Giancarlo Mazzuca l’ex direttore del Resto del Carlino pur da tempo insofferente ha smentito la sua presenza nella lista dei transfughi. Gli altri però non smentiscono e pare che abbiano proprio tutte le intenzioni di volersene andare. Ognuno per motivi diversi ma sostanzialmente riconducibili a un motivo solo: l’assenza di spazio e agibilità politica nel partito.

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In particolare Alessio Bonciani deputato toscano del Pdl è ormai un nemico giurato di Denis Verdini, il padre padrone del partito nella regione, per questo cerca altrove spazi che ormai sotto le bandiere azzurre gli sono preclusi. L’esito della sua fuga potrebbe essere Futuro e libertà anche se fonti interne alla Lega confermano che Bonciani potrebbe essere tentato anche dal Carroccio. Invece è proprio per uscire dalla tenaglia leghista-berlusconiana, che lo stringe nel suo Piemonte, che il forzista storico Roberto Rosso, antagonista del sottosegretario Crosetto e del governatore Cota, potrebbe saltare il cerchio di fuoco che separa il suo partito da Fli. Si sta stringendo il territorio infine anche a Toto, deputato abruzzese già dimessosi dal comitato provinciale la cui voglia d’emigrare sembra aver contagiato anche Maurizio Scelli. Erano loro dunque i deputati del popolo della libertà che i finiani dicevano pronti a passare con loro: «Ci sono molti tre o quattro parlamentari interessati a lasciare il Pdl per Futuro e Libertà – diceva Fabio Granata – ci stiamo lavorando io e Italo Bocchino e il passaggio avverrà certamente entro il meeting di Perugia». Ora il meeting di Perugia è fissato per i prossimi 5 e 6 novembre, sicché potrebbe essere la prossima settimana l’ufficializzazione della fuoriuscita. Granata parlava anche d’una slavina pronta a staccarsi dal Pdl al Senato, ma oggi smentiscono tutti i senatori individuati come potenziali transfughi verso il gruppo finiano o il gruppo misto solo perché avevano aderito alla corrente dell’ex An Andrea Augello, impegnato ad aprire un confronto interno per una maggiore democrazia interna. I senatori che ribadiscono la loro fedeltà a Berlusconi sono Paolo Amato,Valerio Carrara, Ombretta Colli, Romano Comincioli, Raffaele Fantetti, Mario Ferrara, Enzo Ghigo, Vanni Lenna, Franco Orsi, Elio Massimo Palmizio, Fedele Sanciu, Aldo Scarabosio, Giancarlo Serafini.«Sono inaccettabili i tentativi di strumentalizzazione di chi vuole far passare un documento volto a contribuire al rafforzamento del partito in un tentativo di adesione ad un altro gruppo parlamentare». Dalla Sicilia invece, che già molti dolori ha dato al Cavaliere, arriva invece la conferma d’un addio. Sono i dirigenti locali della Giovane Italia a salutare il Pdl con una lettera aperta inviata a Silvio Berlusconi e al ministro Giorgia Meloni, presidente dell’associazione giovanile: «Abbiamo creduto in Forza Italia, nel suo progetto e nella rivoluzione liberale tanto declamata dalla sua scesa in campo fino ad oggi. Purtroppo tutto ciò è rimasto soltanto nello spirito di quel progetto. Abbiamo confidato - prosegue la lettera - nella speranza che fosse possibile unire due movimenti giovanili molto diversi tra loro come Forza Italia Giovani e Azione Giovani, che sarebbe stato un vero movimento di giovani pronti a dare il loro contributo alla creazione del grande partito di centrodestra. Abbiamo investito tempo e denaro per seguirla; ma quello che leggiamo quotidianamente sui giornali e vediamo in tv non ci piace, è lontano da tutto quello che era nell’idea originale del movimento».

il fatto Ancora una volta la politica è preda delle cattive abitudini del premier

Non c’è scudo per gli scandali Sul Lodo Alfano l’accordo tra finiani e Pdl sembra ancora lontano. E intanto scoppia il caso della minorenne maghrebina. Fede conferma: «Sì, l’ho vista ad Arcore» di Marco Palombi a quantità di mitopoiesi che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi riversa nelle nostre vite è di certo superiore a quella di qualunque altro politico e, ahinoi, artista italiano contemporaneo. Da ieri, dopo altri innumerevoli regali che un giorno ricorderemo con nostalgia, è in corso anche la moda psico-antropologico-verbale del “Bunga Bunga” o, in modo filologicamente più corretto,“Unga Bunga”: ieri il sito Dagospia, con inevitabile erezione pop, ricordava la diffusione statunitense dell’espressione (e della relativa barzelletta), nonché un disco dei “Mummies”, gruppo garage-punk degli anni Ottanta, intitolato Death by Unga Bunga, ovvero morte sopravvenuta a causa di Unga Bunga. Ci si riferisce, evidentemente, alla nuova novella boccaccesca di cui il nostro premier è protagonista: aver invitato ad Arcore una minorenne di origini marocchine, la quale in una delle sue visite a Villa San Martino avrebbe assistito alla scena del “Bunga bunga”, in seguito descritta ai magistrati come una sorta di rito pagano di omaggio al fallo padronale, che più probabilmente sarà stata un’orgetta da cumenda brianzolo in vena di estetismi.

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La mitopoietica berlusconiana, peraltro, funziona sia che la giovane racconti la verità, sia che menta per ricatto o per bisogno d’attenzione: si pensi solo alla non smentita chiamata da palazzo Chigi che tenta di farla rilasciare dai poliziotti sostenendo che è «la nipote di Mubarak», con susseguente teoria di scarico telefonico del barile dal più alto al più basso funzionario milanese. Un grande, impagabile pezzo di teatro

comico. Insomma, il Bunga Bunga è ormai parte di noi, un po’ come il Lodo Alfano, Noemi e Papi, i termovalorizzatori pronti già ieri, il lettone di Putin, il ciarpame senza pudore, i miracoli abruzzesi, le fantomatiche intercettazioni pornosoft del premier, la riforma della giustizia, Tartaglia e il suo duomo in pietra e le decine d’altre simpatiche trovate che hanno allietato la vita del Paese in questi due anni e mezzo in cui purtroppo non ha avuto un governo.

La scena è francamente ridicola: eserciti di consiglieri, avvocati con parcelle milionarie, potere, soldi, il controllo del sistema radiotelevisivo eppure la coperta che si vuole stendere sul Cavaliere - il velo pietoso, forse - è sempre troppo corta. Mercoledì sera, per dire, mentre già scoppiava lo scandalo della giovane marocchina, in Senato tanti bravi parlamentari del Popolo della libertà esultavano per essere riusciti a ratificare la Convenzione di Lanzarote. Che? Dirà l’ignaro lettore. Trattasi di un testo promosso nel 2007 dal Consiglio d’Europa «per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale». Tra le altre cose il disegno di legge, che adesso arriverà alla Camera, inasprisce le pene per la prostituzione minorile anche per i clienti (dall’adescamento alla corruzione fino agli spettacoli pornografici che coinvolgano minori). Di più: il colpevole non potrà invocare a propria scusa «l’ignoranza dell’età» del minorenne coinvolto. Sembra fatta a bella posta per ricordare faccende di Bunga Bunga ed è solo l’ennesimo dei mille rivoli in cui si disperde la creatività narrativa di Silvio Berlusconi. Ieri il nostro non è stato al-


la riflessione

Ribery, il Cavaliere e le nuove Lolite Dietro alle baby-prostitute, un modello sociale che confonde benessere e immoralità di Roselina Salemi segue dalla prima Conta quella «sindrome di Lolita» definita così felicemente dalla piscologa Anna Oliverio Ferraris, una strana malattia che fa invecchiare le dodicenni, le trasforma in bambole erotizzate, in oggetti di consumo. L’età dell’accesso allo star system si abbassa: a quindicisedici anni si può diventare top model (alle sfilate, un mese fa, abbiano assistito alla consacrazione di Hannah Noble, sedicenne di Birmingham) e soltanto più tardi qualcuna, come Sophie Anderton, lanciata a quattordici, rivela il lato oscuro del gioco. «Facendo la modella, ho cominciato a considerare il mio corpo come una merce. Da lì a prostituirmi il passo è stato breve».

Certo, le escort minorenni sono un’altra cosa, non c’è il luccichio della moda, ma i confini tra un mondo e l’altro ormai sono lievi e il termine ragazza-immagine, usato dalle agenzie di casting, può significare tutto: una campagna pubblicitaria, un lavoro di testimonial, foto nude, cene conviviali o a luci rosse. Specialmente per chi ha una vita da inventarsi, e non ha altro che il corpo. Alcune hanno storie da realtà romanzesca, fughe, violenze, minacce, tutte sono provviste di una buona dose di cinismo. «Volevo una casa, una macchina, vestiti firmati. Con cinque uomini ho guadagnato quello che guadagna mio padre in un anno. Che c’è di male? Loro sono felici, io sono felice» ha detto Alia, ucraina diciassettenne che ha smesso di fare la manicure per il

più soddisfacente lavoro di escort e non ha capito perché il suo manager è finito in manette.

Così sembra quasi un nonsenso che una sedicenne possa guadagnare quanto un amministratore delegato e non essere ritenuta responsabile, che transiti da un letto all’altro, da una festa con i calciatori a un’altra con oligarchi russi o marziani, spendendo in una borsetta quello che guadagna un metalmeccanico e resti per la legge

Fece clamore il caso dei calciatori francesi che approfittarono di escort bambine messe a disposizione da un night nel limbo delle bambine. A questo nonsenso si sono appellati i calciatori finiti in un’inchiestaccia sulla prostituzione minorile. Franck Ribery del Bayern di Monaco, Karim Benzema (Real Madrid) Sidney Govou (Lione) Haten Ben Arfa (Marsiglia) avevano approfittato delle baby squillo messe a disposizione da un night degli Champs Elysees. Le ragazze avevano detto essere maggiorenni. E sembravano maggiorenni, a cominciare da Zahia Dehar, che ha confessato con noncuranza la sua bugia. Mentre i riflettori si accendono su di loro e sugli occasionali accompagnatori, mentre, nel caso di Ruby, la ragazza marocchina non ancora diciottenne e perennemente in fuga, estetista, camerie-

l’altezza della sua fama: a chi gli domandava della giovanissima marocchina, ha risposto che essendo «un uomo di cuore», aiuta sempre «chi ha bisogno». Una battuta che non fa ridere, non da lui.Tra qualche giorno però, quando sarà più in forma, regalerà al pubblico una delle sue uscite indimenticabili e tutto diventerà una barzelletta: ti ricordi quando fece le corna? ti ricordi di quando tentò di baciare l’operaia russa? e quando urlava “mister Obamaaaa”? e il Bunga bunga? Bei ricordi che tutti potranno accarezzare seduti a casa a contemplare i frutti della de-industrializzazione coatta a cui - proprio in questi stessi divertenti anni - è stato sottoposto il nostro Paese. E infatti in Parlamento, ieri, non si parlava di settore auto o di incentivi alle Pmi, non si analizzava il fenomeno dell’esodo di rilevanti pezzi della nostra eccellenza industriale in Svizzera, Austria o Slovenia, né di leva fiscale per venire incontro ai consumi. A palazzo Madama tutti attendevano eccitati gli emendamenti al Lodo Alfano, quella legge che serve perché Silvio Berlusconi possa disinteressarsi di rispettare la legge.

ra, cubista, danzatrice del ventre, che ha tirato in ballo l’arcinoto Lele Mora e vario notabilato, magari inventando un po’, si intuisce un’altra storia di festini e potenti, rimane invisibile il sottobosco di talent scout, agenti, reclutatori, benefattori, amici e consiglieri. Senza una rete, tutto questo non sarebbe possibile. E i giudici si trovano a indagare in un mondo vischioso, complicato, dove è difficile dimostrare i reati, dove non è sempre chiaro dove comincia lo sfruttamento e dove il ricatto, dove la miseria morale e intellettuale è protetta dalla privacy, e i nuovi vampiri che bevono sangue di lolita non sono perseguibili. Anzi, come molta narrativa contemporanea suggerisce, è la lolita a chiedere di essere vampirizzata.

la magica porta che si apre sulla bella vita. Soldi, Successo. E in cambio, un po’ di sesso. Poi vale quello che vale per tutti: una su mille ce la fa. Le altre continuano a scappare, ad andare alle feste, a sperare nell’incontro giusto, nel talent scout giusto. Qualche volta, arriva la polizia e cadono giù dalla nuvoletta che rende sopportabile l’idea di essere soltanto merce, con una scadenza scritta sulla pelle. Qualche volta invecchiano, e avanti un’altra.

Qualche volta, alle “Iene”, con la complicità delle telecamere nascoste è venuto fuori un mondo di ragazze inquiete e finti provini, impresari improbabili e set sistemati nelle camere da letto, promesse di film che non verranno mai girati e foto che non saranno mai scattate. Lo sanno già, le lolite, che il mondo non sta aspettando loro, che dovranno sgomitare per farsi largo. Ma si fanno coraggio, recitando le storie di chi, senza competenze e talenti, ha trovato una scorciatoia per Nicole Minetti, l’igienista dentale del premier che ieri ha confermato di conoscere la babyprostituta. Sotto, il senatore Carlo Vizzini

E allora si parli del ddl costituzionale che porta il nome del Guardasigilli e che, secondo Berlusconi, a lui non interessa e però è pure necessario visto che i pm lo perseguitano. Ieri il relatore Carlo Vizzini ha presentato un unico emendamento che riscrive la legge da capo: lo scudo giudiziario resta appannaggio del capo dello Stato e di quello del governo e sarà “automatico” e “rinunciabile”. In italiano vuol dire che non sarà necessario il voto delle Camere per attivarlo, ma esisterà già all’atto della nomina: col che si cancella il problema delle diverse maggioranze richieste dal Lodo Alfano per salvare Berlusconi e dalla Costituzione del

re si può, ma solo una volta: «Vogliamo solo mettere dei limiti per rendere più accettabile il provvedimento», ha spiegato la legale di Gianfranco Fini. Da questo orecchio, però, il Pdl - visto che a Berlusconi il Lodo non interessa, anche se è necessario - non ci sente: mettiamo che entri in vigore nel 2012, spiega Vizzini, Berlusconi lo usa e poi si va subito a votare e lo scudo non è reiterabile.

Questi, a Roma, si chiamano “i guadagni di Maria cazzetta”, espressione che sta ad indicare la stipula di un affare non molto vantaggioso per lo stipulante. Inutile comunque domandarsi come andrà a finire, sostiene Italo Bocchino: «Il Lodo finisce su un binario morto», ha spiegato ieri mattina facendo arrabbiare il suo omologo in Senato Pasquale Viespoli («io non sono capace a fare previsioni, mi occupo del giorno per giorno»). Dimenticandosi del Lodo come chiede Fli, allora, resta in campo la richiesta di dimissioni del governo avanzata dal segretario del Pd, Pierluigi Bersani: «Vorremmo riportare il paese con i piedi per terra, però so anch’io che siamo tutti i giorni impegnati dalle singolari esperienze esistenziali del presidente del Consiglio o dal Lodo Alfano. Vi rivolgo un appello: andate a casa». In assenza di risposte positive, e non volendo ascoltare i moniti di Di Pietro contro Fini (che, ormai, è suo competitor elettorale), non resta che la scomoda domanda rivolta via comunicato stampa ai finiani da Francesco Storace: «Quanto deve andare avanti questo strazio?».

Resta in campo la richiesta di dimissioni del governo avanzata dal segretario del Pd Bersani: «Riportiamo il Paese con i piedi per terra. Vi rivolgo un appello: andate a casa» 1948 per la messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica. Per “rinunciabile”, invece, s’intende che uno dei beneficiati può rinunciare allo scudo se proprio intende farsi processare. I finiani, però, non sono contenti: ce l’hanno sempre con la reiterabilità, cioè col fatto che uno non può continuare ad essere eletto portandosi sempre appresso questo scudo.

Così Berlusconi non lo processano mai, è il sottotesto. I futuristi, dunque, hanno presentato un emendamento preparato dalla Bongiorno e firmato pure dagli autonomisti di Mpa che stabilisce che «una volta usufruito dello scudo non se ne può più usufruire». Pecca-


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l’approfondimento

Conferenza stampa “rassicuratrice” del premier: sullo sfondo gli accordi con Impregilo, sanciti anche nella legge

La trappola di Acerra

«Puliremo Napoli in tre giorni», ha promesso Berlusconi. Ma resta l’incognita del termovalorizzatore promosso in tutta fretta dai collaudatori (però ora funziona male). Tanto che la Procura di Nola ha deciso di vederci chiaro di Errico Novi e Lucrezia Rossi

ROMA. Da Palazzo Reale ad Acerra: il linguaggio dei segni dice tutto sulle difficoltà del premier. Passato dal miracolo del 2008, celebrato con una memorabile conferenza stampa nella casa dei Borbone, all’ultima crisi di Terzigno e all’incontro di ieri con i cronisti, a cui più modestamente fa da sfondo la sede dell’impianto dove brucia l’immondizia. Il Cavaliere corre sui luoghi dell’ennesima emergenza per estinguere almeno tre diverse fonti di preoccupazione. Quella relativa alle discariche, innanzitutto. «In tre giorni Napoli sarà ripulita». Non solo. «Si provvederà a risolvere il problema dei miasmi provenienti da cava Sari», cioè dallo sversatoio già in funzione a Terzigno». Quindi «in dieci giorni sarà pronto l’accordo con i sindaci, e non dubito che riusciremo a ottenere il consenso di tutti». Come? Senza derogare «dal «piano organico per i rifiuti in Campania», che va avanti. Ma anche senza insistere sul secondo sito previsto tra Terzigno e Boscoreale, sempre

nel Parco del Vesuvio, quella cava Vitiello che ha innescato le proteste. Quella è «sospesa a tempo indeterminato».

Altre parole di conforto arrivano da Bertolaso e Caldoro, seduti di fianco al presidente del Consiglio. Il quale è mosso, come si diceva, da almeno un altro paio di urgenze: smentire le voci che lo danno per rassegnato e inerte («sto per volare a Bruxelles dove l’Italia otterrà importanti riconoscimenti sulla rilevanza della finanza privata rispetto al debito pubblico»); ma sbrogliare anche la complicata matassa del termovalorizzatore di Acerra. La sede della conferenza stampa dunque sarà pure un po’dimessa rispetto alla maestosità di piazza del Plebiscito, ma è utile a sancire simbolicamente la validità degli accordi con Impregilo, l’azienda che ha costruito l’impianto. Anche in vista dell’attivismo che pare registrarsi nella Procura di Nola, attratta dall’anomalia di un inceneritore promosso dai collaudatori ma

sembre bisognoso di rettifiche, e il cui costo, da corrispondere a Impregilo, è stato addirittura previsto nel testo di una legge, quella entrata in vigore due anni fa che sanciva la fine dell’emergenza.

Di inceneritori, comè noto, ne sono previsti altri tre. «Nel quarto smaltiremo le ecoballe», dice il premier. Anche se la Corte dei conti dice che andrebbero benissimo anche i cementifici. Già il termovalorizatore di Acerra, d’altronde, è al-

A luglio la commissione tecnica ha dato il via libera sull’impianto

l’origine di alcuni problemi. Un mese fa tutte le tre linee dell’impianto sono risultate, per un verso o per un altro, fuori uso nonostante il fatto che, a metà luglio, una commissione di collaudo avesse certificato come l’inceneritore fosse a posto per funzionalità, prestazioni e affidabilità. Il certificato di collaudo rappresenta uno snodo: la formalizzazione di questo atto dà diritto a Impregilo di ricevere un affitto mensile di 2,5 milioni di euro e di pretendere, nel momento in cui si de-

ciderà chi debba acquistarlo, i 355 milioni di euro pattuiti per legge. E proprio il certificato di collaudo, soprattutto dove si afferma che «la prova prestazionale in senso stretto non si è potuta affrettare», sarebbe sotto la lente di ingrandimento della procura di Nola.

La partita che si gioca attorno al termovalorizzatore di Acerra non è di poco conto. Specie per i rapporti tra il governo e Impregilo, la società che Berlusconi all’inaugurazione dell’impianto ha definito «eroica» per aver azzardato l’investimento in Campania. «L’impianto di termovalorizzazione di Acerra è oramai completamente ultimato, positivamente collaudato e pienamente funzionante e produttivo con i conseguenti benefici economici per le pubbliche amministrazioni competenti», si legge nella semestrale della società guidata da Massimo Ponzellini che si dice avere buone entrature con la Lega e con il ministro dell’Economia Tremonti. A saldare il conto per


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Parla Gaetano Pecorella, in missione in Germania con la Commissione sulle Ecomafie

«Berlino chiude gli inceneritori, noi siamo ancora alle discariche» «La nostra strategia con i rifiuti è superata: per il futuro si dovrà puntare sul riutilizzo dei materiali, sviluppando la fase del recupero» di Franco Insardà

ROMA. «Sono in Germania con la commissione. Qui i termovalorizzatori sono quasi superati e noi stiamo ancora a discutere di discariche». Esordisce così Gaetano Pecorella che, alla guida della commissione d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, è in missione proprio in Germania per «vedere se esistono infiltrazioni della criminalità organizzata o condotte di rilevanza penale, soprattutto in relazione ai trasferimenti dei rifiuti provenienti dalla Campania negli anni 2006 e 2007, per le quali si sono aperte delle inchieste». Presidente Pecorella, ci sono stati dei problemi in quegli anni? Ci sono state sicuramente delle irregolarità. Oggetto delle nostre inchieste è anche il trasporto transfrontaliero dei rifiuti che, almeno per un certo periodo, è stato d’interesse della criminalità organizzata. C’è anche la possibilità che ci possano essere nuovi trasferimenti di rifiuti dalla Campania? La Germania è sicuramente interessata, perché ha costruito un sistema industriale di termovalorizzatori che oggi non riescono più a funzionare a regime soltanto con i rifiuti locali. L’Olanda è il Paese che ne porta di più, mentre l’Italia in questo periodo non ne sta trasferendo. La Campania ha fatto una dichiarazione d’intenti, condizionata alla capacità o meno di risolvere autonomamente il problema dello smaltimento dei rifiuti. Altrimenti? C’è un grande interesse da parte delle industrie tedesche a importare rifiuti. Attualmente a prezzi molto bassi. Il presidente Berlusconi ha promesso un nuovo miracolo per risolvere l’emergenza. E poi? Intanto è importante risolvere l’emergenza ed è

un impegno importante. Penso che l’ipotesi formulata dal presidente Berlusconi sia collegata all’utilizzo della discarica di Terzigno e all’impianto di Acerra. Per il futuro il premier ha data rassicurazione sulla costruzione di un nuovo termovalorizzatore. Una soluzione che prima lei diceva ormai superata. Direi residuale, perché si dovrà puntare sul riutilizzo dei materiali, sviluppando la fase del recupero. È l’obiettivo, per esempio, che hanno in Germania è quello di arrivare al 90 per cento del riutilizzo. Il futuro è questo.

«Nelle audizioni sono stati esclusi collegamenti tra le proteste di Terzigno e la camorra» Qualche giorno fa il sindaco di Boscoreale ha detto che le discariche fanno comodo alla camorra. È d’accordo? Non è vero, perché le discariche controllate dal pubblico e vicino ai posti dove si producono i rifiuti non servono alla camorra. La criminalità organizzata ha interesse a gestire le sue discariche abusive e i trasporti lontani. Negli ultimi episodi di Terzigno che incidenza ha avuto

la criminalità organizzata? Dalle audizioni che abbiamo svolto magistrati e forze dell’ordine hanno escluso qualsiasi collegamento. Certamente l’aera attorno a Napoli è fortemente infiltrata di attività camorristiche. Al di là della motivata protesta popolare la chiusura di discariche controllate da enti pubblici o il trasferimento dei rifiuti in luoghi lontani deve prevedere soluzioni alternative. Da qualche parte, insomma, i rifiuti devono andare. In Campania c’è il grosso problema di gestire tutti i rifiuti stoccati in questi anni. Questo è un problema molto serio. Esistono delle montagne, non in senso simbolico, ma reale, di rifiuti stoccati che dovranno essere smaltiti. Per eliminare le ecoballe stoccate ci vorrebbero alcuni decenni con dei termovalorizzatori funzionanti a pieno regime. È necessario un progetto complessivo. La commissione che presiedo, senza eccezione di schieramento politico, è rimasta impressionata da tutte queste ecoballe che lentamente si romperanno facendo fuoriuscire il percolato in un territorio agricolo. Il problema non è soltanto italiano, credo che l’Europa debba farsene carico. Il corto circuito in Campania c’è stato nel momento in cui, finita l’emergenza, le competenze sono state trasferite agli enti locali. In altre zone della Campania le province e i comuni hanno risolto il problema. In Lombardia gli enti locali hanno costruito undici termovalorizzatori. Bisognerebbe abbandonare l’idea, presente in una parte dell’Italia, che tutto deve essere delegato allo Stato. E allora? Se i comuni facessero bene la raccolta differenziata già una parte dei problemi sarebbe risolta. Nel napoletano c’era stata la proposta di Bertolaso di commissariare una quindicina di comuni perché non avevano raggiunto il livello previsto dalla legge per la raccolta differenziata e ci fu anche allora una rivolta.

l’acquisto dell’impianto – recita sempre la legge che ha decretato la fine dell’emergenza rifiuti in Campania – potrebbero essere la presidenza del Consiglio sub specie dipartimento della Protezione civile, un privato, un ente pubblico non territoriale. In realtà la maggior indiziata del futuro acquisto (che dovrà avvenire entro la fine del 2011) è la regione Campania: la manovra approvata in estate autorizza l’amministrazione oggi guidata da Caldoro all’utilizzo per tal fine della quota regionale delle risorse del Fondo aree sottoutilizzate. Ma prima di questo passaggio che segnerà la definitiva uscita di scena di Impregilo in Campania, gli occhi saranno puntati sull’attività della magistratura e non solo campana.

Nonostante il Parlamento abbia riconosciuto al termovalorizzatore di Acerra un valore di 355 milioni, Impregilo si è rivolta al Tar Lazio, alla Corte di Strasburgo e alla Corte Costituzionale per la presunta lesione dei suoi diritti proprietari, lamentando l’affitto forzato dell’impianto e chiedendo l’inibitoria sugli atti di disposizione del termovalorizzatore, nonché sulle somme già incassate e da incassarsi ad opera del Dipartimento da parte del Gestore dei servizi elettrici (Gse) e derivanti dalla cessione di energia elettrica prodotta dallo stesso impianto, e che il provvedimento legislativo ha destinato ex-lege a favore della stessa Protezione civile.

Poi c’è il pregresso. Sempre ad ottobre la giustizia amministrativa sarà chiamata a decidere se le somme messe in conto per la gestione del servizio quasi decennale vantate da Fibe-Impregilo (e non riconosciute dalla gestione commissariale), siano dovute o meno. Dalla lettura della semestrale di Impregilo, si evince come ottobre sarà determinante anche per quel che riguarda il contenzioso penale che vede contrapposte la società e la Procura di Napoli: il Tribunale del Riesame dovrà valutare la richiesta della Procura che chiede di assoggettare a cautela reale 245 milioni di euro. Bruscolini se confrontati all’entità della lite, questa volta in sede civile, che vede contrapposta Fibe-Impregilo alla struttura dell’ex commissariato. Nel 2005 il commissariato per l’emergenza aveva presentato un’azione risarcitoria per 43 milioni di euro, elevata a 700 milioni all’indomani della richiesta di danni formulata da Impregilo per 650 (sempre milioni di euro). Ma il gioco al rilancio non finì in quella circostanza: l’esplosione dell’emergenza rifiuti ha evidentemente indotto la struttura di governo a chiedere i danni di immagine quantificati in un miliardo di euro. Una richiesta che non deve aver scosso particolarmente Fibe-Impregilo che di miliardi ne hanno chiesti, per lo stesso motivo, 1,5.


diario

pagina 6 • 29 ottobre 2010

Masi(chismi). Il consigliere di amministrazione denuncia: «Masi non ha attuato il Piano Industriale, il deficit cresce»

La Rai travolta dai debiti

Rodolfo De Laurentis: «Il dg ha sminuito la crisi, così si va al collasso» ROMA. La diagnosi che foto-

di Francesco Lo Dico

grafa meglio lo stato allucinogeno in cui è sprofondata la Rai berlusconica, l’ha azzeccata Carlo Verna. «La gestione Masi è un incubo nell’incubo», ha chiosato il segretario dell’Usigrai. Piano industriale approvato in maggio ma rinviato alle calende greche, 650 milioni di debiti, passivo annuale che supera di venti milioni il deficit preventivato, pluralismo azzoppato, editti bulgari seriali, dilettantismo allo stato brado, nomine inconsulte.

Il folle precipizio in cui la Rai è stata telecomandata da sua Emittenza, è una spietata mise en abyme della Penisola abbandonata a se stessa. La Rai è vicina al collasso, spiegano i tre consiglieri del cda Rai Nino Rizzo Nervo, Giorgio Van Straten e Rodolfo De Laurentiis (Udc).Tutto nero su bianco nella lettera che ieri hanno recapitato all’indirizzo del presidente della Commissione di Vigilanza, Sergio Zavoli. «Siamo molto preoccupati per lo stato di salute della Rai – scrivono i consiglieri – e la situazione è arrivata a un punto tale che non possiamo limitare solo alla nostra attività in consiglio di amministrazione l’azione di controllo, vigilanza e di denuncia. Il servizio pubblico è un patrimonio dell’intero paese e per difenderlo è venuto il tempo di rendere tutti consapevoli che rischia una crisi irreversibile». Insieme a Van Straten e Rizzo Nervo, Rodolfo De Laurentis denuncia «un’invadenza impropria» per condizionare AnnoZero, Report, Vieni via con me, e gli indicatori economici che mettono a rischio la continuità aziendale», Che tradotto significa perdite per oltre 650milioni di euro, e «un passivo in cre-

Il presidente della Rai, Paolo Garimberti e il direttore generale, Mauro Masi spiccioli in più nel dissestato forziere dell’azienda pubblica. Proprio come Vieni via con me, che invece rischiava, come abbiamo appreso dai testimoni della vicenda, di non partire affatto. «Viviamo in democrazia – osserva De Laurentis – e che piaccia o no Santoro ha i numeri dalla sua parte ed è una risorsa dell’azienda. La sanzione richiesta per il condutto-

sembrano intrecciati in un abbraccio reciproco e mortale, dunque, ma ciò che denunciano con grande vigore i consiglieri Rai è la mancata attuazione del Piano Industriale. «Masi l’ha presentato in mag-

«Basta ai programmi sotto scacco, chi non gradisce ha a disposizione un efficace strumento tipico delle democrazie: il telecomando» scita di 116 milioni, quest’anno sottostimato per almeno venti milioni», spiega a liberal il consigliere Rai in quota Udc. Cifre che danno il capogiro, non c’è dubbio. E che fiondano in un’ imperscrutabile parabola lynchiana, la tentata sospensione di Santoro (24 per cento di share, sei milioni di spettatori, pingue raccolta pubblicitaria) per due settimane. A conti fatti una bel po’ di

re di AnnoZero rientra nelle prerogative di Masi, ma penalizzare la Rai e i sei milioni di spettatori che seguono il programma è del tutto inopportuno. Si possono condividere oppure no, le posizioni assunte dal programma, ma chi non gradisce ha a disposizione un unico ed efficace strumento tipico delle democrazie: il telecomando». Contenuti e costi, nella Rai della gestione Masi,

gio – spiega Rodolfo De Laurentis – noi l’abbiamo approvato, ma ad oggi è rimasto lettera morta. Un ritardo che ha prodotto effetti negativi su un bilancio che avrebbe potuto es-

sere alleggerito». Perché tanti tentennamenti? «Per molto tempo Masi non ha reso partecipe il management delle difficoltà e delle decisioni adottate per superarle. Invece di aprire subito il dialogo con i sindacati ha sottaciuto a lungo la triste realtà, minimizzandola sempre nelle rare occasioni in cui ci ha incontrato» Molto attivo sul fronte delle smentite e delle querele, non ultima quella contro il Fatto Quotidiano colpevole di aver indicato nella sua compagna, Ingrid Muccitelli, la fresca conduttrice di un nuovo programma Rai, Masi ha invece indugiato nel dare corso al nuovo Piano Industriale. Perché? «Credo che il direttore generale abbiamo voluto rimandare gli effetti negativi di un piano rigoroso, lacrime e sangue, che provocherà grandi scontri tra le parti sociali – commenta il consigliere di amministrazione della Rai – Ma delle due l’una: o il dg lo applica senza esitazione, oppure deve lavorare ad altre formule di concerto con i sin-

dacati». Che in attesa delle lacrime e del sangue, non sono a corto di motivi d’indignazione. Su Masi, l’Usigrai ha indetto una sorta di referendum. Dal 9 all’11 novembre i giornalisti saranno chiamati ad esprimersi su un concetto inequivocabile: “Alla luce delle politiche aziendali fin qui perseguite, esprimi fiducia nel direttore generale, Mauro Masi?”. Ma al netto della smentita sulla conduzione del programma – che comunque è stato confermato dalla Endemol che lo produce – il nome della Muccitelli non è l’unico a destare i grattacapi del dg. Ad esempio, in tempo di crisi irreversibile, è abbastanza curioso cercare di capire l’insistenza con cui Masi sta cercando di portare Franco Ferraro, caporedattore di Skytg24 contiguo alla Lega, alla guida di RaiNews. «Una mossa fuori luogo, visto che la Rai può contare su 1700 giornalisti professionisti che potrebbero ben figurare al posto di Corradino Mineo», obietta De Laurentis. Nottole ad Atene, insomma. Come un altro berlusconiano alla guida del servizio pubblico: Susanna Petruni, che Masi vuole imporre alla guida di Rai2 al posto dell’ex An, Massimo Liofredi. Di queste nomine, si sarebbe dovuto discutere ieri. Non fosse che il cda è saltato, e che anche Paolo Garimberti ha voluto testimoniare solidarietà alle scelte di Masi con un gesto simbolico: ha minacciato le dimissioni. Il presidente della Rai, aveva accolto così la nomina di Liofredi: «Dico soltanto che erano state proposte candidature professionalmente assai più inadeguate». Anche il male minore ha confini ontologici precisi, insomma. «Ciò che serve alla Rai è una guida in grado di lavorare nell’interesse esclusivo dell’azienda e per rafforzare il suo ruolo di servizio pubblico», conclude Rodolfo De Laurentis.

Ma la denuncia dei conti Rai, ripresa da Bersani, non è affatto piaciuta a Gasparri, che parla di «minacce verso il servizio pubblico che nascono dalla concezione proprietaria della Rai tipica della sinistra». Notevole, visto che la procura di Trani ha indagato la concezione liberale tipica del premier per concussione». Vuoi vedere che questa Rai che tutti vogliono libera dai partiti affonderà lo stesso?


diario

29 ottobre 2010 • pagina 7

Al processo di Milano per il sequestro di Abu Omar

«Fuori dal Consiglio superiore il pm è una mina vagante»

L’accusa chiede 12 anni di reclusione per Pollari

Vietti boccia il doppio Csm, «niente muri» sulle carriere

MILANO. Il sostituto procurato-

ROMA. Netta frenata su doppio Csm e abolizione dell’obbligatorietà nell’azione penale. «Riflessione meditata», invece, sulla separazione delle carriere. Michele Vietti, da vicepresidente del Consiglio superiore, mette un po’ d’ordine tra le ipotesi di riforma dell’ordinamento giudiziario che il guardasigilli Alfano si accinge a presentare. E infligge una secca bocciatura a una delle ipotesi più accreditate dalla maggioranza (ma non da Futuro e libertà): quella di creare un “Csm autonomo” per la sola magistratura inquirente: «Anche attraverso l’unicità del Csm, il pm è ricondotto ad un ruolo di garante del rispetto della legge e della legalità che condivide con la magistratura giudicante», sostiene Vietti nel

re generale di Milano Piero De Petris al processo d’appello per il sequestro di Abu Omar, ha chiesto la condanna a 12 anni di reclusione per Nicolò Pollari, direttore del Sismi all’epoca del fatto, e a 10 anni per Marco Mancini, funzionario dello stesso servizio. L’accusa ha chiesto inoltre 12 anni di reclusione anche per Jeff Castelli, capo della Cia in Italia. In primo grado sia Pollari che Mancini erano stati prosciolti per il segreto di Stato. Per Castelli, in primo grado, era stato dichiarato il non doversi procedere per l’immunità diplomatica di cui gode. «Fu un fatto di estrema gravità che ferì la coscienza della comunità internazionale ha detto De Petris - non ci sono le condizioni per concedere le attenuanti generiche anche per l’elevatissima consapevolezza nell’agire degli imputati». Il legale di Nabila Hhali, moglie dell’ex imam, Luca Bauccio, prendendo le mosse da quanto

detto dal generale Gustavo Pignero, poi deceduto, nell’ambito dell’inchiesta («cose da Sudamerica», aveva detto), ha paragonato il comportamento dell’ex direttore del Sismi a quello «dei generali sudamericani che, con gli occhi di ghiaccio, dietro gli occhiali con le lenti scure, decidevano le sorti dei desaparecidos».

Per la difesa «la richiesta di condanna a 12 anni di reclusione per il generale Pollari non tiene conto delle risultanze processuali» ha dichiarato Nicola Madia, difensore dell’ex direttore del Sismi. «Intoltre il pg non riconosce che Pollari ha indicato 88 documenti dove c’è la prova della sua innocenza e che sono coperti da segreto di Stato» ha quindi concluso il legale. Il sostituto pg, inoltre, ha chiesto una condanna più alta, 10 anni di reclusione, per Robert Seldon Lady, ex agente Cia che in primo grado era stato condannato a otto anni.

Allarme carceri «Stanno scoppiando» “Antigone” denuncia: 68.527 detenuti per 44.612 posti di Serena Fiorletta

ROMA. A due anni dalla denucnia dell’emergenza da parte del ministro Alfano, le carceri italiane sono ancora fuori legge. È quanto emerge dall’ultimo dossier di «Antigone», associazione «per i diritti e le garanzie nel sistema penale», che ha presentato a Roma il suo settimo rapporto sulle condizioni di detenzione. La fotografia allarmante è quella di un sistema penitenziario al collasso per sovraffollamento. Molti degli istituti penitenziari, a causa dello spropositato numero di persone, sono appunto fuori legge dal punto di vista socio-sanitario. I detenuti presenti nei 206 istituti di pena visitati sono 68.527 per 44.612 posti letto regolamentari. I numeri presentati sono imbarazzanti, tanto che sono ben 1.300 le richieste di ricorso alla Corte Europea per i Diritti Umani contro le condizioni di vita degradanti. Nel dettaglio la situazione è la seguente: il 43,7% dei detenuti è imputato, 15.233 sono i detenuti in attesa di giudizio, record assoluto in Europa. Sono 28.154 quelli che hanno commesso violazioni della legge sulle droghe e 11.601 le persone che devono scontare una pena inferiore a un anno. Sono 5.726 i detenuti italiani imputati o condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso. Gli ergastolani italiani, invece, sono 1.437 mentre gli stranieri 54. I semiliberi sono 877, 7.800 i detenuti ammessi all’affidamento in prova mentre 4.692 le persone in detenzione domiciliare. . Le donne costituiscono il 4,35% del totale e 57 sono i bambini sotto i tre anni ospitati in carcere con la madre. Sono 7.311 i detenuti con meno di 25 anni e 463 gli ultrasettantenni. Gli analfabeti sono 930 e 2.342 i detenuti senza titolo di studio. Il costo medio giornaliero per un detenuto è di 113 euro; per pasti, igiene e trattamento rieducativo si spendono 7,36 euro.

mese; per il primo semestre 2010 la crescita è stata invece di 607 e nell’ultimo semestre di sole 89 unità al mese. E la diminuzione riguarda sia gli italiani che gli stranieri. Ma, se il numero delle detenzioni, rispetto all’anno precedente, è diminuito e la legge non è cambiata, ciò potrebbe significare, a detta di «Antigone», «che i poliziotti arrestano meno per il “tutto esaurito” nelle carceri».

Ovviamente queste non sono mere cifre, ma dati densi di contenuto. Il sovraffollamento è infatti parte in causa dell’alto numero di morti negli Istituti di detenzione. Quest’ultimo dato, fortemente denunciato negli anni dagli operatori del settore, è allarmante, in particolar modo nell’anniversario della morte di Stefano Cucchi e dei funerali di Daniele Franceschi. Sono state 113 le morti nel 2009 di cui 72 suicidi, 18 da causa ancora da accertare, 22 per malattia e 1 per omicidio. Secondo il rapporto chiamato appunto «Da Stefano Cucchi a tutti gli altri», nei primi nove mesi del 2010 i suicidi sono stati già 55. Ci sono poi i numeri che riguardano la popolazione detenuta straniera, che è di 25.164 persone. Appena dieci anni fa erano 14.057. In breve tempo i detenuti sono cresciuti di 11.107 unità. Si può dire quindi che i due terzi della crescita della popolazione carceraria è stata determinata dagli stranieri. Secondo gli addetti ai lavori, tra le cause le leggi che puniscono aspramente l’inottemperanza dell’obbligo di espulsione e prevedono aggravi di pena per i recidivi. In tutto questo marasma, se il sovraffollamento è uno dei problemi, l’altra grave concausa è la carenza di personale. I magistrati di sorveglianza sono 178, contro un organico previsto di 204. Le carenze riguardano inoltre le figure fondamentali, all’interno di un carcere, degli educatori e degli assistenti sociali, ne sono previsti rispettivamente 1.331 e 1.507 ma in servizio il primo settembre scorso erano 1.031 gli educatori e 1.105 gli assistenti sociali, un operatore ogni sessanta detenuti.

Il numero maggiore di reclusi è quello di chi ha fatto uso di droghe o deve scontare una pena di meno di un anno

In compenso il numero dei detenuti appare diminuito. Secondo i dati dell’Osservatorio dell’associazione, che dal 1998 periodicamente visita gli istituti di pena italiani, per tutto il 2009 i detenuti sono cresciuti di 555 unità al

suo intervento al convegno “Organizzare la giustizia”in corso a Bari, «fuori da questo circuito e senza un controllo esterno il pm rischierebbe di trasformarsi in una mina vagante». Di più: «L’appartenenza del pm alla magistratura e all’ordine giudiziario, con la conseguente condivisione di un unico Csm, è una garanzia per il cittadino».

Discorso diverso sulla separazione delle carriere: «La contrarietà» a una simile riforma «non deve essere un riflesso condizionato, deve esserci una riflessione meditata e laica». È giusto, secondo il vicepresidente del Csm, «evitare equivoche commistioni all’interno di una comunità che vive anche di esteriorità e di relazioni personali». Di certo però «la contiguità del pm al giudice è un argomento opinabile». E soprattutto, non si può porre in discussione «l’obbligatorietà dell’azione penale», su cui si basa tra l’altro «l’indipendenza del pubblico ministero». Il tema dei criteri della priorità delle indagini è delicato», ma appunto può e deve essere affrontato senza mettere in discussione l’obbligatorietà, come invece sarebbero pronti a fare il ministro della Giustizia e la maggioranza, pur sempre con l’opposizione dei finiani.


economia

pagina 8 • 29 ottobre 2010

Riallineamenti. Secondo il ministro «non si potrà più fare sviluppo a debito». Per via Nazionale «il Paese è indietreggiato grazie alla crisi di nove anni»

C’eravamo tanti odiati Tremonti fa pace con Draghi: «Sui disoccupati hai ragione tu». E il Governatore: «Italia peggio di Gran Bretagna e Germania» di Francesco Pacifico

ROMA. Giulio Tremonti non vive un bel momento.Trovare 7 miliardi di euro per il prossimo milleproroghe sta diventando un’impresa quasi titanica. I Comuni e le Regioni hanno ripreso a far fronte unico sul federalismo fiscale, con il risultato di rallentare l’approvazione degli ultimi decreti. Per non parlare di Angela Merkel che chiede a gran voce (non ottenendole) sanzioni politiche ai Paesi con i conti in rosso. Il che sarebbe insostenibile per un’Italia che viaggia verso i 1.900 miliardi di euro di debito pubblico. Se non fosse per l’appoggio che – obtorto collo – Silvio Berlusconi è costretto a dargli, il ministro dell’Economia non era mai apparso come oggi così accerchiato. Sarà per questo che, nella ricerca di sponde, ieri ha finito per riconoscere i meriti del suo maggior nemico. Ha offerto un segno di pace a quel Mario Draghi, che neppure una settimana fa ha aveva accusato di diffondere dati ansiogeni sull’occupazione, diversi dall’8,7 rilevato dall’Istat. Quei numeri il governatore di Bankitalia li ha ripetuti anche ieri alla Giornata mondiale del risparmio: il «tasso di disoccupazione reale», ha detto, «viaggia sopra l’11 per cento», inserendo nel dato anche i cassintegrati e i cosiddetti sfiduciati. Di più, ha anche aggiunto che agli attuali ritmi di crescita (Pil quest’anno e nel 2011 al +1 per cento) difficilmente si riassorbiranno i 500mila posti di lavoro persi dall’inizio della crisi, per lo più autonomi e neolaureati.

nato secondo cui in Italia esistono 400mila posti di lavoro che non vengono accettati. E se la tua prospettiva è il posto fisso in una fondazione bancaria, allora la chance di disoccupazione è molto alta». Ma poi è arrivata l’ammissione: «Ho sentito dal governatore i dati sull’occupazione e sul lavoro, c’è assoluta condivisione e questo ha rimosso gli equivoci». Quindi, non contento, ha persino riconosciuto che «il Financial stability board guidato da Mario Draghi ha fatto un lavoro straordinario per far uscire dalla crisi l’economia mondiale. L’attività di regolazione è centrale e strategica. E lo Stability ha fatto un lavoro per le cose scritte e gli impegni che dovranno prendere i governi e i Parlamenti in Europa». Allinearsi alle idee di Draghi rende più facile salvaguardare il rigore. Infatti sembrano altri, in questa fase, gli obiettivi di Giulio Tremonti. In primo luogo le economie che ancora legate alla finanze. Quindi gli enti locali e i suoi colleghi di governo che respingono i suoi tagli. A tutti loro ha spiegato che «non si può andare avanti con i Paesi che producono più debito che ricchezza, più deficit che Pil. È evidente, guardando la carta geografica, che in tutta Europa è stata messa in atto dai singoli paesi una politica di rigore: l’intensità dei provvedimenti è stata diversa da Paese a Paese, ma a tutti è chiaro che per affrontare le crisi future dell’economia non si potrà più ricorrere al debito pubblico, perché non c’è un prossimo debito pubblico».

Comuni e Regioni si alleano contro i tagli ma rallentano ancora il federalismo. Calderoli: troveremo risorse per il trasporto pubblico

A dirla tutta Draghi ha anche aggiunto che a fine del 2009 l’Italia è ritornata indietro «sui volumi di 9 anni fa», ha fatto peggio di Londra e Berlino. Un tempo Tremonti avrebbe respinto le analisi di chi, quando montavano speculazioni e bolle, faceva come «topi a guardia del formaggio». Ma siccome ieri era previsto un atto di umiltà, ecco il ministro riconoscere che sulla disoccupazione aveva ragione il governatore. Stefano Fassina, responsabile economia del Pd, dice che «nel tentativo di Tremonti fare il premier di un governo di transizione, ristabilire buoni rapporti con Draghi è un passaggio importante». Molti altri sottolineano che – con le chance di Weber di sostituire Trichet sempre più basse – il titolare di via XX settembre non sarebbe così folle da lasciar sfumare la possibilità che Draghi si trasferisca all’Eurotower. Certo, una postille delle sue il ministro l’ha fatta: «Una ricerca di Confartigia-

Purtroppo per il ministro non tutti la pensano come il presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, secondo il quale l’Italia non è stata travolta dalla crisi sia per l’azione di vigilanza di Bankitalia sia «per la linea del rigore e del contenimento della spesa pubblica» voluta dal ministro dell’Economia. Emblematico al riguardo l’uno due arrivato ieri dai sindaci e dai governatori sul federalismo fiscale. I primi hanno rimangiato l’assenso dato a luglio e rimandato per l’ennesima volta il parere sul decreto che introduce l’Imu, la nuova imposta comunale unica. Gli altri hanno ribadito che non daranno il loro assenso sui costi standard e sulla rimodulazione della fiscalità regionale, fino a quando Tremonti non si rimangerà parte dei tagli da 9,5 miliardi per il prossimo biennio inseriti nella manovra.

Se non fosse per l’approvazione sulle nuove linee delle liste d’attesa, il bilancio della Conferenza unificata Statoautonomie sarebbe a dir poco deludente. Roberto Calderoli ha provato a giocare con il bastone e la carota. Ai Comuni non ha concesso un rinvio. Perché, ha spiegato il ministro per la Semplificazione, «sarebbe il terzo, con il rischio di far slittare il decreto e di perdere il dividendo fiscale che i sindaci otterranno ottenendo l’accertamento e l’imposizione sugli oltre due milioni di immobili fantasmi. Ed è un danno per loro». Quindi è stato deciso di far andare avanti l’iter del decreto sull’autonomia fiscale, che dopo un passaggio nella Bicameralina guidata da Enrico La Loggia, dovrebbe tornare in Consiglio dei ministri per l’approvazione definitiva.

Anche se l’ex dentista bergamasco ha promesso all’Anci di tenere in considerazione le loro richieste di modifiche. Carota invece con le Regioni. Le quali hanno ottenuto uno slittamento di una settimana per il parere da dare sul passaggio dai costi storici a quelli standard e sulla nuova fiscalità regionale. Soprattutto i governatori hanno strappato una piccola apertura sulla manovra. Non soltanto Calderoli ha annunciato l’unificazione dei tavoli promessi a luglio da Berlusconi su trasporto pubblico locale e tagli della Finanziaria, ma ha dichiarato pubblicamente: «Stiamo cercando una soluzione sul Tpl».

Il ministro annuncia: «Entro il 2013, taglio 300mila posti»

La scure di Brunetta sulla Pa ROMA. Il ministro Renato strazione» nel suo complesso strazione, ad un anno dalla Brunetta, dopo mesi di astinenza, riconquista gli onori della cronaca con uno dei suoi soliti annunci shock, di quelli che creano scompiglio sui mass-media ma poi non producono alcunché di concreto: ricordate la telenovela dei “fannulloni”? è cambiato qualcosa, poi, nella pubblica amministrazione? Bene, fallita la guerra ai fannulloni, Brunetta passa direttamente a sparare sulla «pubblica ammini-

dove «per effetto delle misure in materia di blocco del turnover, contratti di lavoro flessibile e collocamento a riposo, complessivamente tra il 2008 e il 2013 si può prevedere una riduzione dell’occupazione nel pubblico impiego di oltre 300 mila unità, pari ad un calo dell’8,4%».

Questi dati trionfali sono stati presentati dal solerte titolare della Pubblica ammini-

riforma, ad un convegno nel quale è stato presentato anche il rapporto dell’Ocse sulla riforma della pubblica amministrazione in Italia. «Negli anni 2008 e 2009 - si legge nel documento presentato da Brunetta- il personale si è ridotto di circa 72 mila occupati scendendo a circa 3,5 milioni di unità». Le misure di contrasto all’assenteismo «hanno comportato una riduzione media delle assenze per ma-


economia

29 ottobre 2010 • pagina 9

Le proposte democratiche, tra incoerenza ma anche innovazione

E il Pd lancia il progetto “20-20-20” per il fisco

Richiama l’impegno europeo sul clima lo slogan di Bersani sul piano tributario, presentato ieri a Montecitorio di Antonio Funiciello o slogan del Partito democratico per la riforma fiscale richiama quello dell’Unione europea sul pacchetto clima-energia: 20/20/20. Per l’Europa equivale a 20 per cento in meno di emissioni, 20 per cento in più di risparmio energetico e 20 per cento in più di fonti rinnovabili. Per il Pd, in materia di fisco, vuol dire che l’aliquota del 20 per cento deve diventare quella di riferimento per la tassazione di tutti i redditi. Ieri, in una conferenza stampa a Montecitorio, Pier Luigi Bersani accompagnato da Dario Franceschini ha lanciato l’idea della riduzione al 20 per cento dell’aliquota sul primo scagliodell’innalzamento ne; della tassazione dei redditi da capitale dal 12,5 per cento al 20 per cento (esclusi i titoli di Stato); dell’utilizzo dell’aliquota del 20 per cento per il reddito d’impresa. 20-2020: per il Pd il fisco italiano deve porsi gli stessi obiettivi della politica climatica ed energetica di Strasburgo. Si dirà: uno slogan non molto originale. Ma, di questi tempi, tanto passa il convento e, in fondo, se le proposte del Partito democratico non riusciranno a trascinare le masse delle partite Iva, di sicuro non faranno neppure danno. La presentazione del piano fiscale del Pd è stata naturalmente condita della solita prosa surrealista di Bersani: intimazione a Giulio Tremonti di «non nascondersi dietro le vecchiette», accuse a Renato Brunetta che «taglia alla carlona», allusione alle «singolari abitudini» sessuali di Silvio Berlusconi, interpretazioni «esoteriche» intorno al lodo Alfano e di invocazione al milite ignoto a «staccare la spina» al governo.

L

Ora la palla passa a Tremonti, ma dice chi gli è vicino: «Fino a quando non avremo chiuso la lista della spesa del Milleproroghe sarà difficile trovare nuove risorse. Ma qualcosa si farà, altrimenti salta il tavolo del federalismo». Porte chiuse, invece, ai Comuni. Il presidente dell’Anci, il torinese Sergio Chiamparino, si lamenta che non ci sarebbe la copertura per l’Imu. In realtà sembrano svanite le promesse di Tremonti di un rimborso nella fase di transizione dovuto alle perdite per l’unificazione dei tributi e di un allegerimento sul patto di stabilità.

lattia pro capite dei dipendenti pubblici di circa il -35%», ha aggiunto Brunetta, per il quale «questo successo si traduce in 65 mila dipendenti in più ogni anno sul posto di lavoro, valore superiore a tutta la popolazione residente del comune di Viterbo. Anche in questo caso siamo riusciti a riallineare i valori tra settore pubblico e privato». Il contenimento dei numeri del pubblico impiego, assicura il ministro, viene raggiunto «senza pregiudicare volume e qualità dei beni e servizi pubblici offerti: dato il numero totale dei dipendenti della pubblica amministrazione al 2007 pari a 3,57 milioni di unità, la riduzione prospet-

Giulio Tremonti ha cambiato idea: ieri ha ammesso che i dati di Bankitalia sulla disoccupazione sono corretti. Pochi giorni fa li aveva ridicolizzati. Accanto, Pierluigi Bersani, che ha presenato il piano Pd sul fisco. Nella pagina a fianco, Renato Brunetta

tata (-8,4%) nel quinquennio implica un aumento medio di produttività annuo del 2% circa». La meraviglia di questi dati, naturalmente, non ha controindicazioni statistiche (è il ministero stesso a valutare la sua propria efficacia, i numeri non essendo raccolti e analizzati da autorità terze e possibilmente imparziali). Ma quel che conta è che nella percezione dei cittadini la crociata di Brunetta non ha portato alcun cambiamento né sostanziale né marginale nel rapporto fra cittadini medesimi e amministrazione pubblica. E questo a prescindere dalla magniloquenza dalle statistiche.

categorie. Un esercizio nel quale la collaborazione di tutte le forze parlamentari è estremamente utile». Messa così, sembrerebbe quasi che tra maggioranza e minoranza si potrebbe finalmente arrivare ad assistere ad una dialettica simile a quella, tanto per fare un esempio, che in Inghilterra vede in questi giorni protagonisti il Cancelliere Osborne e il suo corrispettivo ombra laburista Johnson. Aspra, ma tutta centrata sul merito delle questioni. Non andrà così; e le metafore di Bersani di ieri lo hanno lasciato intendere. Il Pd seguirà Repubblica nell’ennesimo attacco frontale al presidente del Consiglio, prestandosi alla doppia strategia d’autunno predisposta dal quotidiano di Ezio Mauro: da un lato l’intransigentismo sul lodo Alfano, dall’altro la crociata morale contro le «singolari abitudini» sessuali del premier. Poco importa che esse siano, al momento, solo presunte tali, o che interessino soltanto gli antiberlusconiani di professione. Se va giustificata la strategia della Santa Alleanza contro l’emergenza democratica, c’è bisogno del massimo grado di demonizzazione di Berlusconi. Una Santa Alleanza, evidentemente, si può fare solo contro un demonio.

L’idea: riduzione al 20% dell’aliquota sul primo scaglione; innalzamento della tassazione dei redditi da capitale dal 12,5% al 20%; utilizzo dell’aliquota del 20% per il reddito d’impresa

Peccato per questo comizietto che ha sviato l’attenzione dal merito delle proposte del Pd. Ma, si sa, Bersani delle sue metafore non può fare proprio a meno. L’iniziativa del Partito democratico sul fisco è, per altro, arrivata il giorno in cui il vice ministro dell’Economia Vegas, replicando in commissione Bilancio della Camera al dibattito sul ddl stabilità, ha sottolineato che «la riforma fiscale del governo postula la necessità di ripensare - cosa che non si fa da circa quarant’anni - come dev’essere collocato l’asse del prelievo tra le diverse

La bagarre antiberlusconiana andata in scena anche ieri, svilisce il tentativo di prendere sul serio le proposte del Partito democratico in materia fiscale. Le quali, considerate nella loro puntualità, mostrerebbero un atteggiamento positivo di intervento riformista: resta la giaculatoria anti-evasione, ma si aggiungono proposte che per lo meno provano a contestualizzarla e a motivarla diversamente dal passato “vischiano” della caccia ai vampiri evasori del Nord Est. Rimane, a conti fatti, l’incoerenza di un disegno di riorganizzazione della leva fiscale con la recente partecipazione del Pd alla manifestazione della Fiom, al netto degli imperscrutabili distinguo della serie “partecipiamo, ma non aderiamo”. Il Partito democratico pretende di tenere insieme quella minoranza di operai che ha votato no all’accordo di Pomigliano con le partite Iva del Nord Est. Altro che vocazione maggioritaria: quella del Pd di Pier Luigi Bersani è una vocazione maggioritarissima.


panorama

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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Toglieteci tutto, ma non Dante Alighieri i potrebbe utilizzare uno slogan di successo e adattarlo alla bisogna: “Toglietemi tutto, ma non i soldi alla Dante Alighieri”. Va bene tagliare sprechi nel grande mare della scuola; va bene tagliare nel settore dello spettacolo e del cinema; va bene riprendersi i soldi dati a premi e premiolini sparsi un po’ ovunque. Ma perché tagliare oltre il 50% dei fondi a una bella, buona e giusta istituzione quale è la Società Dante Alighieri voluta nientemeno che da Giosuè Carducci? Il nostro padre comune merita per davvero questo torto? Il Carducci, che per Dante avrebbe dato via almeno la metà delle sue Odi barbare, 131 anni fa s’inventò questa sua bella poesia che oggi opera in 77 paesi con oltre 205 mila soci.

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Il compito della Società è facile da intuire: la promozione della lingua e della cultura italiana nel mondo. Il ministero delle Finanze, però, ha tolto alla Alighieri finanziamenti per oltre la metà del suo risicato budget: il 53 per cento. E ha portato la cifra da spendere per tutto il 2011 sotto la soglia della sussistenza: 600 mila euro. Con questi pochi spiccioli si può fare davvero poco. In Europa, invece, le cose vanno in modo molto diverso. Il British Council si avvale di un finanziamento pubblico da 220 milioni di euro, il Goethe Institut promuove la cultura tedesca con 218 milioni, lo spagnolo Cervantes ha a disposizione 90 milioni, il portoghese Camoes 13 milioni e Alliance Française 10,6. Come si vede si è in un’altra dimensione. Perché? Un motivo è da ricercarsi nella tendenza italiana - molto di più di una tendenza - a utilizzare i “beni culturali” per altri scopi e bisogni. Troppo spesso i soldi dati alle associazioni culturali, alle fondazioni, agli istituti finiscono in luoghi strani non lontani dalle tasche private. Quando il ministro Tremonti mise mano ai suoi ormai famosi tagli uscì fuori una lista lunghissima di sodalizi, società e bocciofile che prendevano soldi in nome della valorizzazione del santo patrono o del carciofo affumicato. I tagli, dunque, sono giustificati e sacrosanti quando si tratta di sprechi e clientelismi. Ma la Società Dante Alighieri non rientra in questo girone infernale. Per la società dantesca e carducciana bisogna adottare semmai un criterio opposto: farla più grande, avere più attenzioni, avere grandi ambizioni, pretendere grandi risultati. Ma c’è un ma. Giuseppe Prezzolini definiva Dante il primo grande Antitaliano della storia d’Italia. Non sarà che nei tagli alla Società Dante Alighieri in realtà è in gioco una certa antipatia per il Sommo Poeta? Gli italiani sono tutti descritti nella Divina commedia con vizi e virtù loro. Una volta Marco Pannella disse, se non sbaglio, che si può fare a meno di leggere tante cose, importante invece è leggere almeno cinque volte la Divina commedia. Tra i vizi odierni degli italiani c’è anche l’ignoranza della terzina più famosa del mondo.

Le fondazioni bancarie salvate dalla crisi Da «anomalia da correggere», sono diventate intoccabili di Gianfranco Polillo ire che la crisi ha cambiato (in peggio) la vita delle grandi metropoli occidentali è quasi una banalità. Più difficile è capire quando profondo sia stato un sommovimento che, in pochi mesi, non solo ha messo in ginocchio le più forti economie del Pianeta, ma ha cambiato atteggiamenti politici e luoghi comuni consolidati. All’inizio del nuovo millennio, Giulio Tremonti, fresco di nomina in Via XX Settembre, aveva tentato di ridimensionare il peso delle Fondazioni bancarie. Aveva seguito il consiglio di Domenico Siniscalco, pronto a prendere il posto di Mario Draghi dopo il suo improvviso e repentino commiato da quello stesso Palazzo. A legittimare quella scelta aveva, inoltre, contribuito il precedente, per la verità meno nobile, di Vincenzo Visco. Ministro del tesoro, con un atto d’indirizzo che incideva direttamente sulle procedure di nomina ai vertici di quegli organismi, era intervenuto a gamba tesa su Monte dei Paschi di Siena, allora oggetto del desiderio tra due opposte fazioni del suo partito. Per Tremonti, invece, si trattava di riaffermare il primato della politica nei confronti di strutture del tutto autoreferenziali dove si era trincerato quel vecchio personale politico – soprattutto ex democristiano – ch’era scampato al crollo della Prima Repubblica.

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Giulio Tremonti è rimasto, almeno all’inizio, silente. Ha accolto con garbo i riconoscimenti che gli sono stati attribuiti sia da Guzzetti che da Giuseppe Mussari, presidente dell’Abi, per poi togliersi qualche sassolino dalle scarpe nei confronti dell’opposizione. «Dicono – ha detto dopo aver ringraziato per i riconoscimenti – che non abbiamo fatto nulla per difendere il Paese dalla crisi. La nostra non è stata solo una politica di rigore sui conti ma anche di coesione sociale». Del resto non si può mettere mano alle riforme, come quella fiscale, senza avere prima le risorse. Perché l’Europa non lo consente. Nonostante ciò, abbiamo fatto tre finanziarie e 13 provvedimenti economici. È stata realizzata «la più grande riforma delle pensioni in Europa senza un’ora di sciopero» e, sugli ammortizzatori sociali, la cassa integrazione guadagni in deroga «è già una riforma». Poi c’è la garanzia sui depositi bancari, gli strumenti ibridi sulla patrimonializzazione, il fondo di garanzia per le opere pubbliche e altri provvedimenti. Sul federalismo fiscale, infine, esiste un ampio consenso in Parlamento e tra i Comuni e le Regioni. Insomma: un bilancio più che positivo. Tutto bene, quindi? L’armonia regna sovrana?

Dal 2001 in poi, tutti i governi avevano tentato di ridimensionarle, ora invece ognuno le cerca come alleate

Non finì bene. Allora Giuseppe Guzzetti vinse, dopo un lungo braccio di ferro, la partita. Le Fondazioni bancarie rimanevano organismi ibridi: in grado, tuttavia, di resistere agli assalti governativi. Oggi lo stesso Guzzetti ci dice, in polemica con Giuliano Amato, che aveva suggerito un loro graduale ritiro dalle banche, che nulla deve cambiare. «L’Acri - ha affermato in occasione della 86° Giornata Mondiale del Risparmio - ritiene, in maniera ferma, serena e tranquilla, che non c’è necessità di porre mano alla legislazione che riguarda le Fondazioni, attualmente in vigore, mi riferisco alla legge Ciampi, tanto per quanto riguarda il loro ruolo di investitori istituzionali privati, tanto per quanto riguarda il loro ruolo di soggetti erogatori per il welfare». Mai parole furono più chiare in un atteggiamento quasi di sfida. Che ha trovato, tuttavia, orecchie attente. Con un endorsement immediato sia da parte di Mario Draghi che del responsabile economico del Pd.

La tesi di fondo delle Fondazioni è quella del salvataggio. Se il sistema finanziario italiano ha retto meglio di altri, questo si deve alla loro presenza come azionisti stabili nel capitale bancario. Se le banche italiane non sono state conquistate dai grandi gruppi internazionali, anche questo si deve alle Fondazioni. E pensare che Antonio Fazio, che pure teorizzava le stesse cose, ci ha rimesso, anche se per ragioni diverse, il posto! Ma non è tanto questo, quello che importa. Ciò che si intravede nel profondo è soprattutto lo scotto della crisi. Prima che esplodesse, il benchmark internazionale era il mondo anglosassone. Banche esposte alla concorrenza, istituti di credito scalabili per rimuovere un management inadeguato. In quel contesto, le Fondazioni bancarie erano una curiosa anomalia: più il riflesso di un burrascoso passato, che non la proiezione nel nuovo mondo imposto dalla globalizzazione. Poi il fallimento della Lehman Brothers ha mostrato quanto fragili fossero quelle teorie. E le Fondazioni sono tornate a nuova vita. Ma fino a quando?


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Dopo il congresso-happening di Firenze, sono molti nel Partito democratico a cominciare a temere la strategia di Nichi

L’opa (ostile) di Vendola sul Pd Il governatore pugliese vuole essere il «federatore» della sinistra per ingessare Bersani di Antonio Funiciello

ROMA. Quella di Vendola è la maggiore grana con cui Bersani è stato costretto a fare i conti nel suo primo anno da segretario del Pd. La marcatura a uomo che Vendola riesce a esercitare sull’ex ministro allo sviluppo economico, è di tale efficacia da bloccare ogni iniziativa di gioco dei democratici. Il successo della pressione politica che il governatore pugliese riesce a sviluppare a scapito del Nazareno si spiega senz’altro col consenso diffuso che al Nichi nazionale viene dai media di sinistra, ma anche in virtù delle numerose quinte colonne vendoliane presenti tra le fila dei democratici, sia a Roma che nel resto d’Italia. Vendola è il barbaro che da un anno stringe d’assedio la rocca del Nazareno, riuscendo in numerose incursioni interne perché i suoi amici dentro la rocca gli lasciano spesso le porte aperte all’insaputa del padrone di casa. In questo modo Vendola blocca il gioco di Bersani, gli ruba palla e riparte in contropiede, sfruttando le sue debolezze e ottimizzando al meglio le proprie doti di battitore libero. Nel Pd, tutti sostengono che il più grande limite di Vendola sia l’assenza di un partito che ne supporti la leadership: in realtà, la libertà di azione e l’assenza di vincoli partitici che derivano a Vendola dalla mancanza di un soggetto di riferimento, rappresentano il suo più grande vantaggio. Quella di Vendola è, per altro,

una grana in cui il Pd ha contribuito a cacciarsi da solo.

Appena un anno fa, il presidente pugliese era un leader politico in disgrazia. Dopo aver perso il congresso di Rifondazione comunista, se n’era andato dal partito portandosi dietro al metà di quelli che l’avevano sostenuto nello scontro che lo aveva visto contrapposto a Ferrero. A quella pesante sconfitta, era seguita la debacle delle

elezioni europee del 2009, nelle quali il nuovo soggetto vendoliano, Sinistra e libertà, era rimasto sotto l’abbandonata e vituperata Rifondazione comunista. Se a questo si aggiunge che la sua giunta regionale era stata falcidiata da un violento scandalo di mazzette ancora tutto da chiarire, si completa un quadretto poco edificante. Certo, Vendola era rimasto fuori dalle accuse che avevano portato alle dimissioni dell’assessore regionale alla sanità e all’arresto del suo vice presidente. Tuttavia l’idea che non si fosse accorto di nulla, mentre i suoi assessori trafficavano tra protesi sanitarie ed escort, non aveva ovviamente giovato alla sua immagine. Poi, il miracolo. Il Pd riesce a farne un martire delle primarie che, in occasione delle scorse regionali, non vuole concedere al presidente uscente. Per settimane dal Nazareno si fa di tutto per battere a tavolino Vendola, piuttosto che sfiduciarlo in una competizione aperta per la scelta del candidato alla presidenza regionale. Risultato: grazie alla bagarre confusionaria montata dal Pd, Vendola rinasce dalle sue ceneri come campione del popolo della sinistra contro i dioscuri romani. Umilia così alle primarie il candidato ufficiale dei democratici e, a seguito delle alle divisioni nel centrodestra, riesce addirittura a rivincere le elezioni. Vendola il miracolato ora c’ha preso

È stato lo stesso D’Alema, senza volerlo, a rilanciare la leadership del suo “nemico”

gusto e non intende fermarsi. Sa che quel terzo di italiani che vota pregiudizialmente a sinistra non si riconosce nella leadership di Bersani, né in quelle minoritarie di Di Pietro o Grillo. È uno spazio politico facilmente riconoscibile, rimasto lo stesso in termini numerici dal 34% dei Progressisti alle politiche del 1994, al 33% del Pd di Veltroni di due anni fa. Uno spazio che se Veltroni era riuscito a riunificare, dalla frammentazione della gioiosa macchina da guerra occhettina al Lingotto, oggi si ritrova nuovamente segmentato.

Vendola vuole essere il nuovo federatore ed è per questo che non riconosce come suo pari né Bersani, né alcun altro capo partito della fitta giungla della sinistra italiana. Quello di Firenze non è stato un congresso, ma un happening in cui lanciare con decisione l’opa vendoliana mentre gli altri sono impegnati a litigare fra loro. Contro Marchionne, mentre il Pd non sa se schierarsi a sostegno o a sfavore del modello Pomigliano; contro i governi tecnici, mentre il Pd costruisce le più ardimentose alchimie parlamentari; contro la privatizzazione dell’acqua impugnata dai referendum, mentre il Pd anima i comitati referendari del sì e del no; contro la guerra in Afghanistan, mentre il Pd continua a giocare con la sfaccettata retorica del peacekeeping. Eccetera, eccetera, eccetera.

Welfare alternativi. Intesa tra Unicredit e Confprofessioni per offrire servizi alla categoria: dai mutui alle polizze

Le tutele si comprano in banca di Francesco Pacifico

ROMA. In attesa che lo Statuto dei Lavori redistribuisca le tutele, i professionisti si accordano con le banche per recuperare parte di quel welfare che a loro è negato. È soprattutto in quest’ottica che va letto l’intesa stretta tra Confprofessioni e Unicredit, che hanno presentato ieri a Roma “Valore professioni”. Un plafond di servizi finanziari agevolati – e forte di una dotazione di 500 miliioni di euro – per facilitare gli investimenti, la tutela, la formazione e la previdenza della categoria. Gaetano Stella, presidente dell’associazione ammessa la scorsa settimana al Parlamentino del Cnel, sottolinea però che «i servizi del welfare sono gratuiti, mentre quelli erogati da Unicredit, anche se a prezzo calmierato, si pagano. Ma questa è l’unica strada per rispon-

dere alle esigenze dei professionisti, che, come dimostra il basso di numero di quanti hanno attivato gli ammortizzatori in deroga, hanno stretto la cinghia durante la crisi». Lo stesso Stella ha annunciato che a breve sarà lanciato un Confidi destinato al mondo delle professioni.

Gaetano Stella: «Questa l’unica strada per avere credito». Il banchiere Gabriele Piccini: «Il sistema non sa aiutare i giovani avvocati o ingegneri» Perché il problema principale resta sempre quello delle garanzie necessarie per l’accesso al credito.

Al riguardo Gabriele Piccini, country manager per l’Italia di Unicredit, ha spiegato: «Per aprire uno studio o lanciare un’attività i giova-

ni avvocati o ingegneri ormai non possono affidarsi neppure alla loro famiglia. Nessuno si occupa di loro. A noi, per aiutarli, basta l’iscrizione all’albo professionale. E offriamo servizi in ambiti come gli anticipi per le parcelle che le banche non vogliono toccare mai». Negli ultimi mesi i responsabili territoriali di Piazza Cordusio e i presidenti delle singole associazioni di categoria aderenti al Confprofessioni hanno lavorato per tratteggiare i servizi che meglio rispondessero alle esigenze dei professionisti. Ne è nata una partnership per mettere a disposizione fidi da 10mila euro disponibili in 48 ore,

conti correnti, polizze e offerte di leasing profilati, fino ad arrivare ad agevolazioni per il riscatto degli anni della laurea e il ricongiungimento degli oneri previdenziali. Se la clientela può ottenere condizioni migliori rispetto al mercato, un’intesa come Valore professioni permette a Unicredit di allargare il suo perimetro a una realtà dinamica come quella dei professionisti. Al riguardo una ricerca condotta da Ipr ha che un rilevato esponente su quattro di questo mondo è insoddisfatto del rapporto con le banche. Insostenibili spesso sono i costi indiretti e le lentezze decisionali.


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una vera e propria “discesa in campo” dei vescovi italiani, il documento della conferenza episcopale che contiene gli orientamenti pastorali per il prossimo decennio. I 56 capitoli firmati dal cardinale Angelo Bagnasco rappresentano un’elaborazione ricca, argomentata, coraggiosa e densa di critiche verso il ceto politico, verso le inadempienze del governo e di altre istituzioni. Per evidenziarle non viene scelta l’arma della polemica, ma piuttosto quella della proposta. Nell’elencare ciò che occorrerebbe fare, si rende ben evidente tutto ciò che non funziona e che non è stato realizzato da chi avrebbe dovuto farlo.

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La scelta di fondo è quella di impegnare la Chiesa nel prossimo decennio sul grande tema dell’educare. Una scelta quantomai opportuna e generosa, in una situazione in cui sia le famiglie che la scuola vivono evidenti difficoltà. Per non parlare poi dello spettacolo di basso profilo che sta dando una parte crescente del ceto politico: ora arrogante, ora incapace, ora corrotto. L’analisi del documento episcopale è preoccupata, tanto da parlare di «emergenza educativa» che nasce da molteplici cause: «l’eclissi di Dio e l’offuscarsi della dimensione dell’ interiorità, l’incerta formazione dell’identità personale in un contesto plurale e frammentato, le difficoltà di dialogo fra le generazioni, le separazioni fra intelligenza e affettività». Una situazione molto difficile, da ribaltare: «Gli attuali nodi critici debbono essere trasformati in altrettante opportunità educative». Un tentativo che non può “sottovalutare” le difficoltà con cui oggi si misura chi è chiamato a responsabilità educative: «Le persone fanno sempre più fatica a dare un senso profondo all’esistenza, ne sono sintomi il disorientamento, il ripiegamento,il narcisismo,il desiderio insaziabile di consumo, la ricerca del sesso slegato dall’affettività». I vescovi italiani appunto, scendono in campo. E come prima cosa decidono di sostenere «la crescita di una nuova generazione di laici cristiani, capaci di impegnarsi a livello politico con competenza e rigore morale». E lo faranno anche «rilanciando le scuole di formazione all’impegno sociale e politico». Già nel recente passato il Papa aveva parlato di «una leva di cattolici» che decida di «entrare» nella vita pubblica. Ora Bagnasco va oltre e indica la necessità di una «scuola» che prepari alla politica perchè appare oggi necessaria «una seria educazione alla socialità, mediante un’ampia diffusione dei principi della dottrina sociale della Chiesa». Davanti allo spettacolo poco commendevole che sta dando una parte sempre più numerosa del ceto politico nostrano, che la Chiesa decida di fare una sorta di “formazione quadri” indica come sia l’istituzione che meglio avverte i più impellenti bisogni del paese. Un comportamento che dimostra quanto sia sciocco e povero intellettualmente l’atteggiamento di chi vorrebbe relegare la religione – e in particolare il Cristianesimo – solo nella sfera privata, togliendole su quella pubblica il diritto di parola. Ben venga dunque la formazione di una leva politica di cattolici che diano il loro aiuto a fortificare intellettualmente e moralmente la politica oggi sempre meno in grado di ritrovare valori e di indicarli ai cittadini. Peccato,anzi, che altre istituzioni non ab-

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Nei cinquantasei capitoli presentati dal cardinale Angelo Bagnasco c’è un’ana

Negli «Orientamenti pastorali» della Cei per il prossimo decennio c’è un vero e proprio manifesto politico. La crisi di oggi è anche morale: per questo l’Italia deve ripartire dalla famiglia, dalla scuola e dalla cultura di Gabriella Mecucci

Se la Chiesa sce biano più l’ambizione di formare. Il vuoto culturale e di valori di una parte così ampia della classe dirigente richiederebbe un impegno analogo a molti altri.

Il documento dei vescovi è particolarmente efficace là dove indica i fondamenti dell’educazione politica e dell’educazione tout court nel tempo presente. Un segno della contemporaneità «è senza dubbio costituito dall’accresciuta sensibilità per la libertà in tutti gli ambiti dell’esistenza». «Il desiderio di libertà – prosegue – rappresenta un terreno d’incontro fra l’anelito dell’uomo e il messaggio cristiano. L’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà. La dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere». Se la prima parola chiave per il processo educativo è appunto la libertà, a seguire ci sono il «bisogno di significato» e «di felicità». I luoghi dell’educazione fondamentali sono,oltre alle parrocchia e ad altre istituzioni cristiane, la famiglia e la scuola. Infatti i vescovi, parlando della famiglia a cui assegnano il «primato educativo», forniscono una lunga “ricetta” delle cose da fare. In-

Come prima cosa, i vescovi decidono di sostenere con una scuola di formazione «la crescita di una nuova generazione di laici cristiani, capaci di impegnarsi a livello politico con competenza e rigore morale»

nanzitutto occorrono politiche fiscali adeguate. È qui visibile in trasparenza la critica al governo che poco ha fatto per cambiare l’attuale meccanismo di tassazione che «disincentiva la procreazione». I vescovi spiegano: «Si sente il bisogno di coppie cristiane che affrontino i temi sociali e politici che toccano l’istituto familiare, i figli e gli anziani. Sostenere la famiglia adeguatamente, con scelte politiche ed economiche appropriate, attente in particolare ai nuclei numerosi, diventa un servizio all’intera collettività». Se la mano pubblica fa poco o niente per rafforzare la famiglia, il dibattito e i comportamenti che si sono venuti affermando la rendono sempre più fragile. Non c’è solo il problema dell’aumento dei divorzi e delle convivenze di fatto, ma anche altro: «Non si possono trascurare fra i fattori destabilizzanti, il diffondersi di stili di vita che rifuggono dalla creazione di legami affettivi stabili e i tentativi di equiparare alla famiglia forme di convivenza fra persone dello stesso sesso». Se sulle politiche fiscali si poteva leggere in trasparenza la critica al governo, su queste ultime questioni è chiaro l’attacco all’opposizione laicista.


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alisi impietosa della società italiana. Ma anche molte soluzioni per “salvarla”

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mento – dell’eguaglianza fra le famiglie di fronte alla scuola impone non solo interventi di sostegno alla scuola cattolica, ma il pieno riconoscimento, anche sotto il profilo economico, dell’opportunità di scelta fra la scuola statale e quella paritaria. La scuola cattolica potrà così essere sempre più accessibile a tutti, in particolare a quanti versano in condizioni disagiate». La non raggiunta piena parità fra scuole statali e non, rappresenta una critica al governo, largamente inadempiente anche rispetto alle proprie promesse elettorali.

Una parte importante del documento, poi, è dedicata all’immigrazione e al rapporto fra gli immigrati e la scuola. I vescovi non si lasciano tentare da una polemica diretta con la Lega e con certe amministrazioni del Nord, ma tutto il loro argomentare suona come una pesante critica sia all’una che alle altre. Eccone uno stralcio molto incisivo: «All’accoglienza deve seguire la capacità di gestire la compresenza di culture, credenze ed espressioni religiose diverse. Purtroppo si registrano forme di intolleranza e di conflitto, che talora sfociano anche in manifestazioni violente. L’opera educativa deve tener conto di questa situazione ed aiutare a superare paure, pregiudizi e differenze, promuovendo la mutua conoscenza, il dialogo e la collaborazione». «La comunità cristiana - conclude - educa a riconoscere in ogni straniero una persona dotata di dignità, portatrice di una propria spiritualità e di un’umanità fatta di sogni, speranze progetti».

ende in campo «La forte domanda di conoscenze professionali e i rapidi cambiamenti economici inducono spesso a promuovere un sistema efficiente più nel dare istruzione sul “come fare” che sul “chi essere”»

La seconda grande agenzia educativa è rappresentata dalla scuola e dall’università di cui i vescovi temono la perdita di ruolo, il decadimento: «La forte domanda di conoscenze e di capacità professionali e i rapidi cambiamenti economici e produttivi inducono spesso a promuovere un sistema efficiente più nel dare istruzione sul “come fare” che sul senso delle scelte di vita e sul “chi essere”. Di conseguenza anche il maestro tende ad essere considerato non tanto un maestro di cultura e di vita, quanto un trasmettitore di nozioni e di competenze e un facilitatore dell’apprendimento; tutt’al più un divulgatore di comportamenti socialmente accettabili». Ma la scuola «deve anche abilitare all’ingresso competente nel mondo del lavoro e delle professioni, all’uso sapiente dei nuovi linguaggi (a questo proposito il documento riserva un capitolo ad internet e ai suoi pericoli), alla cittadinanza e ai valori che la sorreggono: la solidarietà, la gratuità,la legalità,il rispetto della diversità». Dalla formulazioni più generali si passa poi alle proposte più concrete. «Il principio – dice il docu-

Sin qui le parti più significative del documento episcopale che sceglie la strada dell’educazione e della formazione nel momento in cui la crisi e le scelte non sempre oculate di chi governa tendono a togliere fondi proprio al settore della scuola e dell’università. Se c’è una cosa criticabile delle scelte di Tremonti essa sta proprio nella mancata scommessa sul futuro. Il presente – è giusto riconoscerlo- è stato ed è gestito con efficacia, ma togliendo danaro all’educare non si scommette sul poi, sul nostro domani. In questo senso il documento episcopale, dal tono pacato e profondo, suona come un gesto non di opposizione, ma di distanza da quanto l’esecutivo Berlusconi sta facendo. I vescovi italiani – questo il loro messaggio – scommettono sul futuro: sulla crescita religiosa naturalmente, ma anche su quella culturale. Nello scegliere la via dell’educazione, ricordano la figura di Gesù come maestro. Clemente Alessandrino, un autore del secondo secolo – osserva il documento episcopale – gli attribuì il titolo di “pedagogo”. E la Chiesa non è altro che la “scuola” dove Gesù insegna. A partire da queste radici, la Chiesa ha sempre ritenuto di peculiare importanza il tema dell’educazione: del resto il messaggio evangelico non può essere imposto imposto, ma viene insegnato. Nel rivendicare ancora oggi la centralità dell’educazione, i vescovi italiani da una parte affermano senza infingimenti che di questa educazione fa parte anche la trasmissione della fede che non è «un’esigenza premoderna» destinata a dissolversi in un mondo globalizzato e tecnicizzato; dall’altra vogliono, far sì che analisi, proposte, preoccupazioni provenienti dalla Chiesa non si rivolgano solo ai credenti. Non costituiscano un’operazione confessionale, ma aiutino un confronto e un dialogo con tutti coloro che aspirano ad «un vita buona».


mondo

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Diplomazia. I 27 capi di Stato e di governo si riuniscono per decidere su economia e clima

La disfida europea Il Consiglio si interroga sulla limitazione dei trattati E Barroso spacca l’asse franco-tedesco sulle sanzioni di Antonio Picasso isbona non si tocca! Così il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, ha liquidato la proposta congiunta di Francia e Germania di sospendere il diritto di voto a quei Paesi membri che non rispettino i parametri del patto di stabilità, ridefiniti con gli accordi di Lisbona del 2007. Il leader comunitario si è dimostrato sintetico quanto esplicito, ieri pomeriggio, prima di avviare i lavori del Consiglio d’Europa, il vertice che riunisce i 27 capi di stato e di governo dell’Ue. «Le eventuali modifiche verranno adottate solo se saranno utili a prevenire o risolvere in modo collegiale le crisi interno alla comunità», ha spiegato l’ex premier portoghese. Il summit si concluderà nel pomeriggio di oggi, dopo aver affrontato una fitta agenda, che prevede una proposta comune da presentare l’11 novembre in occasione del G20 di Seul. D’altra parte, l’incontro di ieri è stato il più importante. Sembra che Barroso abbia intuito l’operazione dell’asse Berlino-Parigi. Per l’ennesima volta, le due locomodell’Europa tive continentale hanno cercato di far prevalere la propria forza economica, rispetto ai loro partner. Ad agosto, la Bce aveva sostenuto che Francia e Germania fossero uscite dalla zona rossa della recessione. Effettivamente entrambi stanno mantenendo una crescita trimestrale dello 0,3%. Bruxelles, però, non è caduta nella trappola. Rivedere il Trattato di Lisbona significherebbe ricalcolare, per l’ennesima volta, i parametri del patto di stabilità. Inoltre la proposta di congelare il diritto di voto per i Paesi non in regola rischia di provocare ripercussioni politiche all’interno di una Ue e di un eurozona in cui il pericolo di frammentazione è sempre dietro l’angolo. Il default della Grecia, quest’estate, deve aver insegnato qualcosa alla Commissione. Barroso non può permettersi di restare vincolato agli interessi unicamente di due nazioni, per quanto grandi

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L’allarme del Commissario Ue Thomas Hammarberg

Con la crisi finanziaria, aumenta anche il razzismo di Massimo Fazzi Europa, oltre ai gravissimi problemi di natura finanziaria ed economica, sembra avviata verso un’altra crisi, questa volta di tipo sociale. Lo sgretolamento della percezione e della difesa dei diritti umani, con riguardo particolare nei confronti delle minoranze islamiche, potrebbe far passare anche nel Vecchio Continente l’equazione secondo cui ogni musulmano è un terrorista. È la denuncia compiuta ieri dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, che ha pubblicato un commento sul tema della crescente islamofobia in Europa. Nel documento il Commissario evidenzia in particolare come «i leader politici abbiano nel complesso fallito nel combattere l’insorgere di stereotipi negativi sui musulmani». Hammarberg riconosce che dopo gli attacchi terroristici a New York, Madrid, Londra, Amsterdam, Beslan e Mosca «questo sia divenuto un compito più difficile», ma avverte anche che proprio le emozioni causate da questi terribili eventi rendevano necessari uno sforzo sistematico per evidenziare la differenza tra i terroristi e la maggioranza dei musulmani. Questo sforzo, scrive sempre ieri il Commissario, «è stato fatto solo raramente». Invece di discutere seriamente di queste questioni «il dibattito si è incentrato piuttosto sulle misure da adottare per penalizzare le donne che indossano il

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niqab o quelle per prevenire la costruzione di minareti». Il Commissario conferma così uno dei problemi che attanagliano l’Occidente nel nostro secolo: la difficile integrazione interreligiosa. E mentre in Gran Bretagna il nome più diffuso diventa Mohammed e il Sinodo vaticano per il Medio Oriente viene accusato di essere anti-israeliano, una nota di distensione viene dall’università islamica di al Azhar, il “Vaticano” dei musulmani.

Secondo il portavoce dell’ateneo Mohammed Rifai alTahtawi, che ha parlato con l’AdnKronos, «i cristiani in Medio Oriente sono una ricchezza culturale e civile per la nostra società. Noi siamo attenti a preservare il ruolo delle comunità cristiane nei Paesi musulmani, perché l’islam ci invita a rispettare l’altro e a osservare quanto di buono può portare lo scambio tra culture e civiltà diverse». Il religioso egiziano accoglie inoltre con favore la presa di posizione del sinodo riguardo l’occupazione israeliana dei territori palestinesi che a suo avviso «causa tante sofferenze anche ai cristiani di quelle terre». A proposito invece della richiesta di maggiore libertà religiosa in Medio Oriente ha aggiunto: «L’islam prevede la libertà di fede perché vieta ogni costrizione nell’ambito religioso». Riguardo quei vescovi che hanno accusato la religione islamica di essersi diffusa con la spada ha risposto: «Si tratta di una bugia, perchè ci sono Paesi come l’Indonesia o altri Stati africani dove la religione islamica si è diffusa pacificamente. Se così non fosse come mai la cognata dell’ex premier britannico, Tony Blair, ha deciso di diventare musulmana?».

e potenti esse siano. A fargli da eco è stato il primo ministro lussemburghese, Jean-Claude Juncker. «Il ritiro del diritto di voto non è una strada percorribile - ha detto - ed escludo qualsiasi modifica del trattato europeo su una questione simile». A suo giudizio, l’iniziativa congiunta non favorirebbe né la crescita né la stabilità dell’Unione. Il fatto che Berlino e Parigi siano padri fondatori dell’Ue non attribuisce loro un diritto di prelazione rispetto agli altri membri.

Al di là di questo, Sarkozy e la Merkel sono tornati a gestire una politica bilaterale simile a quella definita da Chirac e Schroeder cinque anni fa. Il fatto che il cancelliere tedesco abbia dichiarato recentemente fallita la società multirazziale, che si sognava di costruire in Europa, può essere interpretato come un implicito sostegno alle politiche anti-immigrazione promosse dall’Eliseo, a spese dei rom, tre mesi fa. Ora il campo di battaglia è tornato quello dell’economia, com’è sempre stato fin dai tempi della Comunità europea. Francia e Germania si sentono rinfrancate e rinvigorite dalle cifre della Banca centrale. Hanno paura che un’altra Grecia si ponga di traverso alla loro ritrovata forza produttiva e che siano costrette a pagare i danni provocabili dalla debolezza di qualsiasi altro partner. Per questo cercano di accelerare sui motori di Bruxelles. Il no di Barroso, questa volta, nasce dalla acquisita consapevolezza che, così facendo, si realizzerebbe quell’Europa a due velocità che nessuno vuole perché a nessuno torna utile. L’Ue è in difficoltà? Bene, per quanto possano correre due o tre nazioni, l’Ue non può permettersi di aumentare la potenza. Questa è la sostanza della risposta del presidente della commissione. A questo punto diventa chiaro che il problema non è di natura economica, bensì politica. In precedenza, alzando la voce in seno al Con-

siglio d’Europa, Berlino e Parigi hanno realizzato sempre i propri obiettivi. Tuttavia, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, dal primo dicembre

Berlino e Parigi si sentono rinfrancate e rinvigorite dalle cifre della Banca centrale. Ma hanno paura che un’altra Grecia si ponga di traverso alla loro forza produttiva 2009, l’ultima parola spetta alla terna presidenziale composta da Barroso, in nome della commissione, Herman van Rompuy, presidente del consiglio europeo, e José Luis Zapatero,


mondo

29 ottobre 2010 • pagina 15

Al vertice europeo di Bruxelles si decidono le nuove regole di bilancio

Il nuovo Patto strappa la fragile intesa dell’Ue

I piccoli protestano, ma Angela Merkel ribadisce: «Senza Francia e Germania non si potrà fare nulla» di Pierre Chiartano igore fiscale o rilancio della crescita? Staremo a vedere cosa uscirà dal consiglio europeo dei capi di Stato e di governo, che da ieri si sta tenendo a Bruxelles, che decide sulle modifiche al Patto di stabilità. Sullo sfondo di una Germania in piena rivoluzione culturale. Berlino è stata la prima a riemergere dalla crisi, abbandonando le vecchie rigidità del modello renano, puntando tutto su export e integrazione nel sistema della globalizzazione. Oggi, tenta anche di resistere alla deriva protezionistiche, pur rischiando di subire pericolosi takeover di gioielli di famiglia. Una rivoluzione che la renderà ancora più forte in futuro. Parigi ha tenuto duro sulle pensioni, ma Cameron ha dimostrato come quelli francesi non siano altro che ”pannicelli caldi” rispetto alla politica draconiana portata avanti da Londra, pur fuori dall’Ue. Nell’Europa istituzionale invece la tensione non è altro che lo specchio di questi scenari. Il Patto era già stato un parto difficile nell’attuale versione e non poteva più resistere al terremoto della crisi finanziaria del 2008. Ma soprattutto, dopo la crisi greca, tutti erano d’accordo a rimettere mano alle regole. Sì, ma come? Le posizioni riflettono, come al solito, gli interessi e lo stile nazionale. Formiche tedesche e cicale francesi, con molti Paesi carichi di debiti che benedicono il giorno in cui sono entrati nella Ue, ma non lo vogliono dire apertamente. Le proposte congiunte di Germania e Francia sono state ampiamente criticate dal primo ministro lussemburghese JeanClaude Juncker in quanto, secondo il numero uno dell’eurogruppo, non favorirebbero né la crescita né la stabilità e sono inaccettabili. «Il ritiro del diritto di voto non è una strada percorribile – ha affermato Junker – ed escludo qualsiasi modifica del trattato europeo su questo tema». Anche i piccoli si agitano. Si tratta in realtà del tentativo di creare una specie di Europa di serie A con diritto di voto e una di serie B fatta dagli ”spendaccioni”. E si deve anche scegliere con quali norme si debba passare da una serie all’altra. Ma le critiche vengono da tutti i fronti e se per alcuni il rigore è eccessivo, per altri sembra non essere sufficiente. La Bce infatti ritiene che le regole proposte non siano abbastanza rigorose e quindi non idonee a scongiurare nuove crisi finanziarie ed economiche come quella greca. La Merkel si è espressa a favore delle sanzioni automatiche per gli Stati che violano il Patto, anche con la privazione del diritto di voto sulle questioni europee

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Il presidente della Commissione europea Barroso e il presidente dell’Unione Herman Van Rompuy. A destra la Merkel. Nella pagina a fianco Hammarber primo ministro spagnolo e presidente di turno dell’unione stessa. Il meccanismo decisionale è indiscutibilmente complicato. Questo però esula dal fatto che le singole nazioni possano o meno cambiarne la rotta. Tanto più che, come deve essersi ricordato Barroso, il patto di stabilità era stato messo in discussione proprio da Francia e Germania, la cui inosservanza delle regole aveva portato a Lisbona. Ora i due Paesi vogliono tornare alla situazione pre-2007 e aggiungere un vincolo di censura politica agli stati disobbedienti. Il tentativo esageratamente furbesco è stato smascherato. Sulla stessa linea di Bruxelles si è trovato il governo finlandese, esso stesso sotto i riflettori mesi fa per le sue inadempienze di bilancio. Il ministro delle finanze di Helsinki, Jyrki Katainen, ha indicato la proposta franco-tedesca come un attacco ai paesi più piccoli. «Sono tre le questioni sul tavolo e tutte riguardano se e come ritoccare i trattati», ha spiegato. «Il primo punto è relativo alla necessità o meno di cambiare il trattato. Il secondo

è individuare quale parte debba essere eventualmente cambiata. Il terzo fa riferimento a chi dovrebbe cominciare a preparare le modifiche degli accordi, se la commissione e oppure il consiglio». Katainen è convinto che «il meccanismo di soluzione delle crisi dovrebbe essere scelto dal primo organo, in quanto l’Europa si sviluppa solo con una forte partnership tra i paesi. Io sono personalmente preoccupato dai metodi comunitari. In futuro come saranno trattati i paesi piccoli? Lo sviluppo dell’Ue non deve dipendere dagli organismi intergovernativi».

Concludendo: il primo incontro del consiglio è apparso più come un round in cui Francia e Germania hanno incassato, senza reagire, i colpi del cartello che si è formato in loro antitesi. Oggi la seconda parte del vertice prevede il confronto su tematiche ritenute, erroneamente, di seconda categoria: il G20 di Seul e il clima. Sulla bade di ieri, è difficile pensare che l’Ue si presenti nella capitale sudcoreana con un documento di proposta per far fronte alla crisi globale chi sia stato accettato da tutti i suoi membri.

per chi non è in regola con i conti pubblici. L’intesa ha l’obiettivo di modificare, fino al 2013, il Trattato di Lisbona e le norme per il salvataggio dei Paesi in difficoltà finanziaria. La vicepresidente della Commissione europea, Viviane Reding, ha attaccato direttamente la necessità di procedere a un cambiamento dei trattati. «Irresponsabile – ha affermato – sarebbe come aprire il vaso di Pandora», visto che l’ultima volta che si è fatto qualcosa di simile, sul trattato di Lisbona, ci sono voluti dieci anni. E con un percorso ad ostacoli sui referendum nazionali. Nel granducato proprio non digeriscono questa riforma. Ma la cancelliera tedesca ha usato i toni poco concilianti di chi ha altri problemi per la testa: «Senza accordi tra Francia e Germania, in Europa si fa ben poco». Esprimendo, per così dire, un giudizio «ponderale».

L’Italia teme in particolare un meccanismo: chi sfora il 60 per cento del debito rapportato al Pil dovrebbe ridurlo del 5 per cento l’anno

Il ministro dell’Economia italiano, Tremonti, costituisce invece una voce fuori dal coro. Ha infatti definito «un buon testo» l’accordo raggiunto sul nuovo Patto di stabilità. Durante il vertice in Lussemburgo sono state stabilite delle «formule flessibili, ragionevoli e assolutamente gestibili da parte del nostro governo», ha continuato il ministro italiano. L’accordo rappresenta un buon compromesso tra la posizione dei “rigoristi” e quella dei contrari all’eccessivo rigore delle sanzioni. In sostanza, sulla base della riforma le sanzioni non scatterebbero più in modo automatico a fronte di una procedura d’infrazione per debito eccessivo, ma dopo sei mesi, sulla base di un’autorizzazione del Consiglio, che si decide a maggioranza qualificata. Nel caso di persistenza delle violazioni allo scadere dei sei mesi, scatterebbe la ratifica automatica delle sanzioni, revocabili solo con una nuova votazione del Consiglio a maggioranza qualificata. Se la Germania ha ceduto sul versante dell’automaticità delle sanzioni, la Francia ha acconsentito alla richiesta di Berlino di modificare il Trattato di Lisbona fino al 2013. La revisione vorrebbe sospendere il diritto di voto in sede di Consiglio ai Paesi europei recidivi. Cioè in tempi di crisi decidono i “capiclasse”. L’Italia teme in particolare un meccanismo: chi sfora il 60 per cento del debito rapportato al Pil deve ridurlo il 5 per cento l’anno. Ciò potrebbe rallentare la ripresa di molte economie, anche quella italiana. La battaglia del nostro ministro dell’Economia, da tempo, è quella di far includere nel computo delle variabili analizzate dal Patto, anche il debito di famiglie e società non finanziarie. Così l’Italia potrebbe evitare le sanzioni previste dalla bozza del Patto uscita dall’Ecofin.


quadrante

pagina 16 • 29 ottobre 2010

Tsunami. Le autorità iniziano ad ammettere le proprie responsabilità ssume proporzioni sempre più drammatiche la catastrofe umanitaria che ha colpito l’Indonesia, a seguito della serie di terremoti, maremoti e dell’eruzione del vulcano Merapi, che stanno sconvolgendo l’arcipelago asiatico. Lo tsunami è stato causato da un terremoto di magnitudo 7,7 il cui epicentro è stato localizzato al largo dell’isola di Sumatra si è abbattuto lunedì scorso sulle isole Mentawi, sempre in Indonesia, che ha causato finora oltre 400 morti, secondo un bilancio, purtroppo ancora provvisorio. Le onde avrebbero sommerso i villaggi costieri appena dieci minuti dopo il sisma. Nel frattempo, molti si iniziano a chiedere perché il costoso sistema d’allarme installato al largo della costa di Sumatra dopo lo tsunami del 2004 abbia fallito a diffondere l’allerta. I sopravvissuti, infatti, hanno raccontato di non aver ricevuto alcun segnale prima di vedersi piombare addosso il muro d’acqua alto 3 metri. Le autorità hanno ammesso che, a causa dei costi elevati, non tutta la linea di costa era stata attrezzata con il sistema di segnalazione per avvisare del rischio tsunami. Nelle ultime ore sono stati trovati diversi cadaveri sulle spiagge delle isole Mentawai, la zona investita dal maremoto.

A

Il vulcano Merapi invece, è entrato in attività a poche ore di distanza dal maremoto. La montagna di 2968 metri dell’Isola di Giava, è il più attivo dei circa 130 vulcani indonesiani ed è anche uno dei più pericolosi al mondo. La sua attività vulcanica si era intensificata a partire dalla settimana scorsa: secondo quanto riferiscono alcune fonti internazionali, già lunedì le autorità avevano

Indonesia, la tragedia peggiora ogni giorno Erutta ancora il Merapi e la terra trema Mentre le vittime toccano quota 400 di Massimo Ciullo

no è «abbastanza calmo». Nonostante ciò, la raccomandazione degli esperti per le autorità indonesiane rimane quella di procedere alacremente verso l’evacuazione delle aree minacciate da altre possibili eruzioni. Il livello di allerta, per i vulcanologi, rimane al massimo. Gli esperti hanno avvertito che la minaccia non è anco-

Un aereo con 16 tonnellate di tende, medicine, cibo e vestiti ha toccato terra ieri pomeriggio nell’unica pista aeroportuale disponibile innalzato al massimo il livello di allerta. Ieri, si sono tenuti i funerali delle prime vittime del vulcano. Secondo quanto riferiscono le agenzie, 20 delle 32 vittime sono state sepolte in una fossa comune nel centro di Giava, mentre per le altre sono stati celebrate cerimonie private. I vulcanologi indonesiani che monitorano costantemente l’attività eruttiva del Merapi, nelle ultime ore hanno emesso comunicati tranquillizzanti, sostenendo che per il momento il vulca-

ra terminata e che i residenti della zona non possono ancora fare ritorno alle loro abitazioni. «Il vulcano è relativamente calmo. La sua attività ha subito un rallentamento dopo l’eruzione. Dobbiamo valutare la sua attività nei prossimi giorni», hanno spiegato. Più di 50mila persone si trovano ancora nei rifugi temporanei allestiti nei pressi di Yogyakarta, la capitale di Giava. Il vulcano avrebbe fatto anche una vittima illustre, il cui nome sta facendo il giro della stampa

Emergenza ancora più grave per i bambini

L’impegno dell’Unicef Il problema principale, in caso di disastro naturale, è la gestione dei minori. Soprattutto neonati e “under 6”, troppo piccoli per andare avanti. Lo sa bene l’Unicef (l’agenzia Onu per i bambini), che al fine di rispondere prontamente al doppio disastro naturale che ha colpito l’Indonesia in questi giorni sta lavorando in stretta collaborazione con i partner governativi per inviare aiuti ai bambini. Dopo una rapida valutazione nella zona di Merapi, l’Unicef sta mandando taniche per l’acqua e kit igienici per soddisfare le esigenze di 4.500 famiglie sfollate dalle proprie case a causa del vulcano; nell’area occidentale di Sumatra, l’agenzia Onu sta inviando 6.000 zanzariere per proteggere le famiglie dalla malaria, proprio

perché, nelle isole Mentawai, sono andate distrutte le abitazioni in un’area in cui la malaria è endemica. L’Unicef sta inoltre lavorando con il ministero della Salute indonesiano per garantire che le madri colpite dalla calamità che allattano siano aiutate a continuare la cura per i neonati. Inoltre, l’agenzia continua a lavorare affinché le donazioni di alimenti per lattanti o di altri alimenti complementari siano adeguatamente regolamentate per evitare rischi per la salute dei bambini. Gli investimenti realizzati dall’Unicef e da altre agenzie delle Nazioni Unite dopo lo tsunami del 2004 (che ha Aceh), hanno contribuito a rafforzare la capacità dell’Indonesia di gestire con efficacia improvvise crisi umanitarie.

internazionale.Tra le vittime ci sarebbe, infatti, anche un venerato anziano conosciuto come “Nonno Marijan”, custode del vulcano, incaricato dal sultano di Giacarta di vegliare sulla sacra “Montagna di Fuoco”e placare il suo spirito. L’anziano, 83 anni, avrebbe rifiutato di lasciare la propria casa alle pendici del monte, dove sarebbe stato ritrovato morto. Intanto, è scattata l’operazione di soccorso e la mobilitazione internazionale sta già facendo affluire i primi aiuti alle popolazioni colpite dagli eventi sismici dei giorni scorsi. Un aereo con 16 tonnellate di tende, medicine, cibo e vestiti ha toccato terra ieri pomeriggio, su una delle poche piste di atterraggio risparmiate dallo tsunami, hanno fatto sapere le autorità indonesiane. Anche una nave carica di cibo, acqua e medicinali è riuscita ad arrivare nella zona del disastro.

A Sikakap, villaggio dell’isola Pagai del Nord, da dove vengono coordinate le operazioni di soccorso, sono atterrati quattro elicotteri. «Alla fine le condizioni meteorologiche ci hanno dato tregua» ha dichiarato Ade Edwards, della locale protezione civile, che ha aggiornato il numero delle vittime. «Ora avremo la possibilità di cercare le oltre 400 persone ancora disperse» ha dichiarato, aggiungendo che le ricerche saranno eseguite con gli elicotteri. Con il passare delle ore però, aumenta il timore per le centinaia di persone che ancora risultano disperse dopo lo tsunami che ha sommerso una decina di villaggi. Il maltempo che ha flagellato le isole nei giorni scorsi, ha rallentato le ricerche. Il Presidente dell’Indonesia, Susilo Bambang Yudhoyono, ha interrotto una visita ufficiale in Vietnam e si è recato nelle zone sinistrate, dove ha incontrato i responsabili delle amministrazioni locali. Sul fronte degli aiuti internazionali, arrivano le prime risposte alle richieste di soccorso. La Commissione europea ha stanziato 1,5 milioni di euro di aiuti per le vittime dello tsunami. Gli aiuti serviranno a fornire acqua pulita, cibo, rifugi e assistenza sanitaria ai 65 mila sopravvissuti delle isole Mentawai e ai 22 mila abitanti diYogyakarta, nell’isola di Java. Anche la Ong Save the Children che da anni è attiva nell’arcipelago indonesiano, ha assicurato la propria disponibilità a mobilitarsi per aiutare soprattutto i bambini colpiti dal sisma.


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29 ottobre 2010 • pagina 17

Obama, yes we Can... ma non in una notte Midterm: il presidente va allo show tv di Jon Stewart di Luisa Arezzo a paura fa Novanta. E in questo caso fa andare Barack Obama in trasmissione da Jon Stewart, il comico americano (ma anche attore e scrittore) dal capello brizzolato, faccia da schiaffi, sguardo stralunato ma sempre tagliente e lingua puntuta (quanto è più di quella di David Letterman), che dal 1999 conduce il popolarissimo Daily Show su Comedy Central. Sulle sue poltrone sono passati in molti, ma mai un presidente. Ieri questo tabù è stato infranto, probabilmente proprio per l’emorragia di voti che Obama sta rischiando il 2 novembre alle elezioni di Midterm. Certo, il cortile è

L

in parte quello di casa visto che Stewart è stato uno sfacciato sostenitore del presidente durante la campagna elettorale del 2008. Ma da quell’istrionico conduttore che è, capace di restare in contatto con la pancia vera del popolo americano (soprattutto quella democrats), è da ormai molti mesi che ha distolto la propria attenzione satirica dai conservatori per puntarla su «Mr. yes we can». E senza rinnegare minimamente il suo passato e le sue convinzioni.

dell’insofferenza di molta sinistra “liberal” delusa dalle politiche del presidente, più impegnato a cercare compromessi con i repubblicani che a realizzare la propria ambiziosa agenda. Obama, ovviamente, tutto questo lo sapeva. Ma sapeva anche che se non avesse affrontato la tigre nell’arena (stiamo parlando di milioni di telespettatori), que-

E così, col passo felpato da gatto e il sorriso insolente, nei giorni scorsi ha così sintetizzato il suo affondo verso il capo della Casa Bianca: «Obama? Una campagna da visionario, una presidenza da funzionario», trasformandosi subito in portavoce

st’ultima lo avrebbe, non dico sbranato a colpi di parole, ma certamente ferito duramente. Più di quanto non stia facendo David Letterman (da cui comunque è già stato). «Il nuovo slogan, potrebbe essere “yes we can, but”, (sì pos-

siamo, ma)», attacca subito Jon Stewart dopo l’applauso di accoglienza. E Obama, impassibile ma come sempre charmant replica, completando la frase: «Sì, possiamo, ma non accadrà tutto nello spazio di una notte», come dire: non si può pretendere tutto e subito, serve pazienza. «Abbiamo fatto un sacco di cose - ha continuato Obama -. Io e la mia squadra abbiamo evitato un’altra Grande depressione, abbiamo rilanciato il settore privato, aiutato la ripresa dell’occupazione e approvato una storica riforma sanitaria». «Sarà...», ha sibilato Stewart, «ma che fine hanno fatto le tante promesse della campagna elettorale rimaste sinora sulla carta?». «Jon - ha replicato Obama - amo il tuo show, ma a volte non sono totalmente d’accordo con te». «È vero», ha risposto Stewart, ma a dispetto del suo sorriso e dell’aria scherzosa, a nessuno è sfuggito un Obama più in difesa che in attacco. Anche quando, parlando delle Midterm, ha consigliato agli americani di premiare i parlamentari democratici che negli ultimi due anni sono stati chiamati a fare delle scelte dure ma necessarie per il bene del Paese.

«Ho evitato un’altra Grande depressione», dice il Capo della Casa Bianca. E il comico: «Sì, ma le riforme?»


cultura

pagina 18 • 29 ottobre 2010

Mostre. Si è da poco concluso il progetto “Who Knows Tomorrow”, cinque grandi installazioni di altrettanti artisti africani, sparpagliate per la città

Nel continente nero... La protezione del Reich nel 1884 nel territorio della Namibia: Berlino riscopre (e celebra) il colonialismo tedesco in Africa di Andrea D’Addio

BERLINO. «Le colonie per noi tedeschi sarebbero come le pellicce di zibellino foderate di seta che possiedono quei nobili polacchi che però non hanno alcuna camicia da portarci sotto», disse nel 1871 il cancelliere Otto Von Bismarck rispondendo con un aforisma alle ambizioni della borghesia tedesca di dotarsi di un impero coloniale di prestigio, se non pari, quantomeno simbolico, a quello di Francia e Inghilterra. L’indipendenza tedesca era arrivata tardi e c’erano due alternative: sbrigarsi e correre ai ripari conquistando, grazie all’efficienza del proprio esercito, quei lembi di terra rimasti liberi dall’altra parte del Mediterraneo, o lasciare stare e concentrarsi su un processo di modernizzazione statale che confermasse il ruolo sempre più importante che la neonata Germania avrebbe dovuto assumere nel prossimo futuro. Si scelse per la seconda via, almeno fino al 1884 quando, poco prima della Conferenza di Berlino, detta dell’Africa Occidentale (si proponeva di regolare i possedimenti europei in Africa), fu promulgata la Reichsschutz, una legge che estendeva la protezione del Reich al Luederitz Land, un breve tratto di costa su cui venne fondata l’Africa Sud-Occidentale Tedesca (oggi Namibia). La ragione era prima di tutto politica: si voleva tirare dalla propria parte l’Inghilterra e contrastare assieme a lei l’espansionismo francese, e solo in un secondo momento legata alla voglia di grandezza e da ragioni economici, ma gli effetti furono più a lungo termine. Venivano così infatti gettate le basi di quello che si rivelò un fenomeno tanto breve (durò fino alla fine della prima guerra mondiale), quan-

to intenso e dai tanti significati politici e storici: il colonialismo tedesco in Africa. È da queste premesse storiche che, proprio a Berlino, ha avuto vita il progetto Who Knows Tomorrow. Da una parte cinque grandi in-

A fianco alle esposizioni, workshops e tavole rotonde hanno approfondito aspetti economici, geopolitici e artistici del continente stallazioni di altrettanti artisti africani, sparpagliate per la città, hanno sollecitato a riflettere sul futuro dell’Africa e sul suo rapporto con l’Europa, dall’altra una serie di conferenze, workshops e tavole rotonde hanno approfondito i vari aspetti economici, geopolitici e artistici del continente nero con un focus particolare sul ruolo che la Germania ha rivestito e riveste tuttora nelle sue ex colonie: Namibia, Togo, Camerun e Tanzania. In un anno in cui gli occhi di tutto il mondo si sono volti al mondiale di calcio africano, la scelta di ospitare un progetto così particolare è sembrata un’esigenza ancora prima che un’opportunità, tanto

che l’ex Presidente Federale Horst Köhler, poco prima di dimettersi dopo il putiferio scatenato dalle sue famose affermazioni sull’Afghanistan («una missione necessaria per proteggere i nostri interessi economici»), aveva voluto accompagnare la sua inaugurazione, lo scorso 4 giugno, con un lungo messaggio sulla visione con cui il vecchio continente si è approcciato, e si approccia tuttora, alle varie culture africane: «Per molto tempo noi europei siano stati incapaci di superare gli stereotipi riguardo le nostre percezioni dell’Africa. In accordo con le nostre comprensioni locali, nonostante la fine del colonialismo, il significato e il valore della cultura africana sono state principalmente soggette alla sovranità delle interpretazioni europee. Anche oggi, gli europei corrono il rischio di inventare la loro personale versione dell’arte africana e la cultura anziché guardare attentamente ed ascoltare». Sono stati così invitati cinque dei maggiori artisti contemporanei, tutti originari dell’Africa, ad esporre davanti o all’interno di quattro importanti luoghi d’attrazione berlinesi. Il nigeriano Yinka Schonibare MBE presso la chiesa Friedrichswerdersche, il ghanese El Anatsui all’Alte Nationalgallerie, il camerunense Pascale Marthine

In queste pagine, alcune immagini del progetto dedicato al colonialismo tedesco in Africa “Who Knows Tomorrow”: cinque grandi installazioni di altrettanti artisti africani, sparpagliate per la città di Berlino. I lavori si sono conclusi recentemente

Tayou alla Neue Nationalgallerie, e, con due differenti lavori, l’ugandese Zarina Bhimji e l’angolese Antònio Ole, rispettivamente all’esterno e all’interno della galleria d’arte contemporanea dell’Hamburger Bahnof. Nessun biglietto da pagare, l’idea della mostra si è basata sul concetto che le opere dovevano essere scoperte dal berlinese quanto dal turista, in maniera e luoghi del tutto inaspettati. A simboleggiare, più di altri luoghi, l’ambizione di essere “sorprendenti” è stata soprattutto la scelta di ospitare una delle opere nella Friedrichswerdersche Kirche, una delle più belle chiese della città, progettata da Karl Friedrich Schinkel ad inizio ‘800 e oggi luogo, oltre che di preghiera, anche di un piccolo museo a lui dedicato. In mezzo alla navata principale, a destra, quasi mimetizzato tra i bianchi busti in marmo di scultori neoclassici come Johann Gottfried Schadow e Christian Daniel Rauch, la figura di un

uomo senza testa, interamente vestito di stoffe batik, secondo i dettami della moda coloniale del primo ’900, ha in braccio un fucile puntato un po‘ più in alto rispetto l’altare. Nessuna blasfemia, non si punta la croce, se si alza un poco lo sguardo, ci si accorge infatti che proprio sulla sua traiettoria, in alto, legato da invisibili spaghi, c’è un uccello completamente dilaniato da una pallottola immaginaria. Sempre sulla stessa diagonale, accanto all’altare, una donna, anche lei senza testa, sembra guardare l’accaduto.

L’opera si chiama Il Colonello Tarleton e Mrs Oswald sparano, e rifacendosi alle battute di caccia in terra africana che i coloni inglesi, come molti altri nobili e militari europei, erano soliti organizzare, tenta un parallelo tra il fagiano e la sorte dell’Africa: essere semplicemente terra da prendere e piegare all’esigenze dello straniero economicamente più forte. L’opera, nella sua complessità e immediatezza, scuote chiunque entri in Chiesa aspettandosi un posto più che mai deputato ad altri tipi di riflessioni, di certo non storiche e geopolitiche. Al piano di sopra, Yinka Schonibare MBE ha invece voluto porre l’accento sulle problematiche prettamente interne del suo continente. Intorno ad un grande tavolo in legno,


cultura

dodici sculture di uomini, anche loro senza testa, come dei manichini spuntati, sono nel pieno di un’accesa discussione. C’è chi tiene il bavero del vicino per impedirgli di attraversare il tavolo e arrivare alle mani con uno degli altri presenti, c’è chi sembra ascoltare quietamente e chi con aria pensierosa incrocia le mani. L’opera si chiama Un tavolo per l’Africa ed è ispirata ad uno dei tanti incontri con cui alcuni leader africani si sono incontrati negli ultimi trent’anni per seguire politiche economiche di sviluppo comuni. Gli esiti non sono sempre stati dei migliori e prova ne è il reiterarsi dei medesimi problemi e temi di discussione a distanza di decenni. «I leader di queste conferenze decidono, litigano e si dividono, senza consultare gli unici che amano davvero il proprio territorio: gli africani» ha affermato MBE all’inaugurazione della mostra. Meno concettuale, ma più spettacolare è invece la grande installazione, la Colonial Erection che Pascale Martine Tayou ha creato per lo spiazzo antistante alla Neue Natio-

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nalgallerie. Le cinquantatré bandiere dei paesi aderenti all’Unione Africana, l’organismo sovrannazionale nato sulle ceneri dell’Organizzazione, sventolano davanti l’ingresso del museo, ognuna fissata su di un piccolo cilindro di cemento. Manca solo il Marocco (che ha un contenzioso con l’organizzazione a causa del riconoscimento del Sahara Occidentale come nazione a sé stante, indipendente da Rabat), ma nel colpo d’occhio d’insieme non si fa caso né alle assenze né alle presenze, ma ci si rende conto solo di quanto quasi tutte siano caratterizzate dai soliti tre colori panafricani: verde (fertilità), giallo (ricchezza del sole) e rosso (potere del popolo). Gli obiettivi dell’Unione Africana, stando almeno al suo statuto, sono soprattutto la tutela dei diritti umani e la cooperazione per evitare guerre interne nei vari paesi membri, ma Tayou ha uno sguardo critico sulla sua reale efficacia e così, accanto alle bandiere, ha posto una decina statue di uomini neri di circa due metri, vestiti come dei ricchi occidentali del primo ‘900. L’Africa rischia di perdere la propria identità, invece di cercare proprie, caratteristiche, ambizioni, si limita a rincorrere il mito della ricchezza occidentale. Così Tayou: «Questa installazione, come un puzzle colorato, è il ritratto in plastica dei miei sogni perduti. È un lavoro che simboleggia il nonsense dell’essere africani della nostra epoca, dopo il disastro della conferenza di Berlino fino allo strana strategia dell’Unione Africana». Un’enorme maglietta strappata e pieni di buchi dal titolo Il buco dell’ozono e Yam Mound(s), ricopre quasi l’intero colonnato del vestibolo dell’Alte Nationalgallerie. È stata creata utilizzando unicamente materiali di scarto.

Sopra di lei si intravede la scritta che da sempre caratterizza la facciata principale del ricco museo: “Per l’arte tedesca, 1881”: ciò che è rimasto del colonialismo europeo degli ultimi due secoli è ancora vivo, in Africa spesso ci si riduce a riciclare idee, come materiali, di un passato che altrove sarebbe solo spazzatura. L’opera è di El Anatsui, ghanese che vive in Nigeria, dove insegna all’università di Nssuka e che già nel 2007 aveva catturato l’attenzione internazionale alla Biennale di Venezia, con un’opera di soli tappi di bottiglie. Nel marzo del 2008 la Ger-

mania ha firmato un memorandum di intesa economica con la stessa Angola. L’idea è quella di investire nell’ambito nell’energia immobiliare, idroelettrica e oleodotti e di aprire una linea di credito, che almeno all’inizio, garantisca più di un miliardo di euro al paese africano. Sarà forse un caso, ma è proprio a Luanda che l’angolano Antonio Ole ha avuto l’idea per il suo The Entire World/Transitory Geometry, la grande installazione posta davanti all’Hamburger Bahnof. I lavori di Ole prendono spesso di mira il fallimento delle strategie economiche e della moderna ingegneria urbanistica in quei luoghi dove più di altrove ci si sforza, e al contempo, è necessario, costruire nuovi e più vivibili centri sociali: le metropoli africane.

Con la sua opera, Ole ha posto su quattro colonne affiancate, uno sull’altro, una ventina grossi container di latta, enormi scatole ricoperte di ruggine, che ricordano sia le bidonville sia i carichi commerciali delle navi che partono e arrivano giornalmente nei porti africani. L’impatto visivo, nella grandezza del suo squallore, lascia senza fiato. «I container sono una parte del nostro ambiente contemporaneo, qualcosa che ha allo stesso tempo una transitoria e permanente capacità di suggerire cambiamento e movimento, come l’Africa». In Kenya, Zarina Bhimji ha documentato le condizioni di lavoro con cui gli abitanti del luogo partecipano ai vari processi produttivi nelle fabbriche di corde, sacchi e tappeti. Situazioni agghiaccianti rese ancora più inconcepibili quando, pochi minuti dopo viene mostrato come anche un secolo prima i tedeschi utilizzassero gli stessi metodi per fare lavorare i kenioti. Il documentario si chiama Waiting èd l’unica opera di Who knows Tomorrow sia ad utilizzare la forma filmica sia ad essere all’interno di un museo, e non fuori. Ciò non toglie che sia il giusto epilogo di una mostra che, nella sua spettacolarità, ha puntato più che mai a suscitare l’interesse dello spettatore ad informarsi, se non contribuire di più, ad un insieme di problemi di cui non si riesce a vedere la via d’uscita. Se è vero che nessuno conosce il proprio domani, certo è che altrove le aspettative sono sempre più cupe che da noi, nonostante crisi economiche e problemi sociali. Seppur per ora solo da un punto di vista artistico (contemporaneamente a Who knows Tomorrow, anche altri musei cittadini si sono focalizzati sull’arte africana, come il Deutsche Guggenheim e la galleria Mikael Andersen), Berlino e la Germania sembrano vogliano proporsi come guida di questo rinnovato interesse per l’Africa. Sperando che non sia solo una moda.


spettacoli

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Passerelle. L’attesa era tutta per Keira Knightley e per il “suo” Last Night

Se a Roma sfila il «prêt-à-porter»

La quinta edizione della Mostra del cinema capitolina si apre povera di nomi altisonanti e di grandi proposte. L’unica manifestazione davvero degna di nota è stata la protesta dei «100 autori» contro i tagli alla cultura di Pietro Salvatori

ROMA. Sono molto particolari le coperture dell’Auditorium romano progettato da Renzo Piano. Uno dei motivi di indiscutibile fascino posseduto dal red carpet voluto da Veltroni e portato avanti con alterna convinzione da Alemanno. Un’edizione, quella di quest’anno, che si presenta particolarmente povera di nomi altisonanti e di grandi proposte. La speranza è quella di scovare qualche formidabile sorpresa, e affidarsi alla splendida poliedricità della sezione Extra, una lunga carrellata tra i sotterranei più inesplorati dell’audiovisivo, che dalla prima edizione è uno dei motivi principali di interesse dell’intera manifestazione. «Non so molto del cartellone, voglio vedere di volta in volta i singoli film.Vediamo che succede». La mette già così il presidente della giuria Sergio Castellitto, in quella che sembra una difesa d’ufficio. Una prima giornata strana, in una Roma battuta dal sole e da un vento pungente. Il pubblico ha accolto con la solita bonaria indolenza lo srotolarsi del red carpet, quest’anno firmato dall’artista del sol levante Shogo Kariyazaki, che ha allestito una suggestiva coreografia fatta di canne di bambù e orchidee rosse, rosa e bianche. Pochi i curiosi attirati nelle ore diurne, come da tradizione nei primi giorni della manifestazione romana, mentre nel corso della serata i corridoi dell’Auditorium si sono popolati, anche per via della protesta messa in scena dal movimento 100 autori contro i tagli alla cultura da parte del governo. L’attesa era tutta per Keira Knightley, una delle star hollywoodiane più attese. Nel 2007 era stata in concorso con

Seta, la pellicola ispirata all’omonimo romanzo di Baricco, ma aveva declinato l’invito degli organizzatori per impegni pregressi. Rondi e la Detassis, alla direzione da un paio d’anni, quest’anno si sono assicurati la sua presenza. L’attrice britannica, insieme alla splendida Eva Mendes, accompagna Last Night, film d’apertura della quinta edizione, diretto dalla semi-esordiente Massy Tadjedin che Medusa, che lo distribuisce, ha accompagnato con tutti gli onori del caso, facendolo scortare dall’elegantissimo Carlo Rossella. Siamo a New York. Nelle insidiose pieghe della Grande Mela una giovane coppia bella, ricca e innamorata, viene messa alla prova, nel corso di un’unica folle notte, da ogni forma di seduzione e tentazione: mentre Michael è in viaggio di lavoro con la sua nuova e affascinante collega Laura, sua moglie Joanna incontra per caso il primo grande amore della propria giovinezza, Alex. In sole trentasei ore, la loro vita rischia di cambiare (in peggio) per sempre.

stenziale o se piuttosto fare il verso seriamente metrosexual a Sex & the City. «Un film in cui è facile riconoscersi» lo definisce la Knightley, «estremamente moderno, perché provoca in chi lo vede una bella discussione».

Il sospetto che le poche cartucce a disposizione degli organizzatori (fatto salvo per l’attesissima anteprima di The Social Network), siano state giocate con poca accortezza è forte. In serata ci si risolleva un po’. Valerio Jalongo, che nella vita, oltre che il regista, fa il professore, presenta La scuola è finita, con Valeria Golino e Vincenzo Amato. «Mi considero un insegnante fuorilegge ha affermato il regista-professore - La scuola dove lavoro rischia di scomparire, perché il ministro ha deciso di cancellare l’indirizzo cine-tv. E la mia materia, linguaggio dell’audiovisivo, già non esiste più, ma io continuo a insegnarla lo stes-

in vista del red carpet romano, non lo sappiamo. Rimane il dato oggettivo di un film piacevole, nel quale Daria e Talarico, professori nell’Istituto Pestalozzi di Roma, fra difficoltà e ostacoli quotidiani, si ritrovano a cercare di aiutare Alex, un ragazzo estremamente problematico. Ma forse il film più sorprendente della prima giornata del festival è Quartier Lointain, del belga Sam Garbarski. Un

Un avvio interlocutorio. Mancano le faville, Tajedin dipinge un dramma che ha accenti sia del mélo che della commedia romantica, che guarda al grande amore classico della Hollywood che non c’è più come al più sensuale e brutale degli erotismi. Lui è il bravino Sam Worthington, lei, lo abbiamo capito, è la Knightley, l’altra è la Mendes. Un cast bene assortito, che svolge a dovere il compitino in un film che non sa bene se mettere in scena un dilemma esi-

so». Gli intenti sono polemici. Jalongo ha anche partecipato all’occupazione della Casa del cinema di Roma messa in scena alcuni giorni fa dai lavoratori del mondo dello spettacolo in forte dissenso rispetto ai tagli del comparto voluti dal governo. Se l’abbia fatto perché convinto, come sembra, della legittimità della protesta, o piuttosto per farsi un po’ di pubblicità

cast ben assemblato, privo di nomi di richiamo, zeppo di attori nord-europei dallo sguardo spigoloso e dalle mani incerte, la pellicola di Garbarski è un complesso viaggio a metà tra il giallo e l’indagine psicologica, tra il noir surreale, del quale assorbe atmosfere e, spesso, tempi scenici, e il confronto generazionale. Molti i difetti, primo fra tutti una certa difficoltà nel

registro narrativo, ma, tra le pellicole fin qui viste, forse è quella più suggestiva. Dopo la calda accoglienza tributatagli un paio d’anni fa, Iginio Straffi ritorna all’Auditorium per presentare Winx 3D, il secondo capitolo delle fatine nate dai suoi pastelli, che è anche il primo film d’animazione in 3D interamente prodotto in Italia, da oggi nei circuiti distributivi del Belpaese. Se la pellicola, messa a confronto con i competitor internazionali di Dreamworks e, soprattutto, Pixar, è risibile come qualità tecnica e, cosa non secondaria, intreccio narrativo, i numeri vantati dal prodotto di Straffi continuano a strabiliare: oltre 26 milioni di visitatori da tutto il mondo sul sito ufficiale delle Winx, una serie animata trasmessa in oltre 150 Paesi, un musical ispirato alla serie che ha venduto più di 150 mila biglietti in tutto il mondo e che dovrebbe sbarcare questo inverno anche dalle nostre parti.

Ma forse la vera notizia è che, in una giornata nella quale, con la simbolica occupazione del red carpet messa in scena dal movimento 100 autori («alla quale siamo favorevoli, pur nel rispetto della dignità del Festival» ha commentato Sergio Castellitto), hanno fatto capolino gli echi delle proteste per i tagli nel mondo dello spettacolo, un brand che ha


spettacoli

29 ottobre 2010 • pagina 21

L’uscita nelle sale cinematografiche è fissata per il prossimo 12 gennaio

E dal passato (virtuale) ritorna anche “Tron”

Proiettati ieri 20 minuti del sequel del film che nell’82 fece conoscere al mondo intero la “realtà parallela” ROMA. «Tu sei un ospite del Master Controll Program». Così fu risposto all’appena ridigitalizzato Jeff Bridges, quando si trovò dentro il computerone della sua ditta. Lo aveva colpito un laser mentre cercava delle informazioni che smascherassero gli imbrogli del suo capo, e invece si era ritrovato vittima di un trasferimento impensabile: dalla realtà alla realtà virtuale. Era il 1982 quando Tron fu distribuito nei cinema, il box office fu buono, ma nulla di eccezionale (17 milioni il budget, 33 i ricavi): già allora si faceva un po’ di difficoltà ad accettare una fantascienza così estrema: possiamo immaginarci un futuro di invasioni aliene, ma non un mondo antropomorfo dentro un driver e un monitor. A distanza di 28 anni da quella distribuzione, Tron si prepara a tornare nei cinema. Il sequel, Tron: Legacy, uscirà il 12 gennaio, ma ieri al Festival di Roma sono stati presentati 20 minuti di spezzoni, giusto per dare un’idea. Così come le sale strapiene di mercoledì per le proiezioni celebrative del venticinquennale di Ritorno al futuro, ci si aspetta che i fan possano regalare un successo commerciale al ritorno in sala di Jeff Bridges e del suo alter ego digitale. Stavolta c’è un personaggio in più, il figlio del programmatore da allora intrappolato tra i transitor: vuole scoprire che fine abbia fatto il padre e si ritrova anche lui dall’altra parte del monitor. Di qui una serie di battaglie tra motociclette e spade laser senza forza di gravità e regole fisiche precostituite. Il disco è rigido, ma fino a un certo punto.

un giro di affari pari a 2,5 miliardi di euro in tutto il mondo abbia goduto del riconoscimento del ministero dei Beni culturali quale opera culturalmente rilevante, e dunque meritevole di un finanziamento economico da parte dello Stato. Se è pur vero che quello che abbiamo visto nel primo giorno del Festival del cinema capitolino non ci ha convinto del tutto, è perché ci siamo limitati ai film di recente conio.

nica del film c’era poi un ragazzo di 24 anni che già si era fatto notare dalla Disney: Tim Burton. Come regista, all’epoca stava girando il suo primo, splendido cortometraggio, Vincent, ma nel frattempo poteva mettere a frutto le sue capacità tecniche con un progetto di primo piano, Tron per l’appunto.

Il sequel sarà un successo? Nel corso di questi anni, non solo sono cambiati gli effetti speciali e le conseguenti aspettative del pubblico (tutto deve essere fluido, non ci si accontenta più dell’artigianalità), ma anche il modo di intendere il computer. Se prima era uno strumento con cui non tutti avevano familiarità, e si poteva speculare su questo tanto da poter farlo apparire come il nemico da combattere suscitando il coinvolgimento dello spettatore (come del resto in 2001 Odissea nello Spazio), ora le cose sono un po’ diverse. L’uomo occidentale oggi vive anche fisicamente a continuo contatto con intelligenze artificiali. Se non è il computer, è il telefonino con le mille applicazioni collegate. Nel giro di 10 anni, quasi chiunque affiderà buona parte delle proprie domande a un qualsiasi strumento esterno che sia collegato cad internet o che possieda almeno programma giusto per aiutarci: la strada più veloce, l’indirizzo della festa, la traduzione di un testo, la risposta ad un quiz e così via. Il computer è nostro amico, e non solo in quanto nostro aiutante, ma anche perché è attraverso di lui che riusciamo mantenere relazioni di amicizia con persone che non abbiamo il tempo di vedere spesso. I tempi dei Terminator e dei Matrix, seppur non siano cronologicamente troppo lontani, appaiono un po’segnati: anche quando si lotta con le macchine, si utilizzano altre macchine: non ne possiamo fare a meno. Le paure del terzo millennio si focalizzano invece sull’eccessivo utilizzo che facciamo del computer ai danni della natura (tanto che, con ragionamenti astrusi, girano sul web pubblicità di motori di ricerca capaci a loro dire di inquinare meno - utilizzare meno energia - di quanto facciano i vari Google e Yahoo). Non è il pc che soffoca l’uomo, ma l’uomo e la macchina che assieme uccidono il mondo intorno. Ecco quindi i tanti film apocalittici del momento, i ghiacciai scongelati e così via. Sperando che anche qui nulla di ciò possa accadere e che un giorno non ci si debba ridurre a scegliere la pillola azzurra pur di non vedere cosa ne abbiamo fatto del nostro pianeta, (a.d’a.) con l’aiuto del computer.

Piccola curiosità: 28 anni fa, dietro alla parte creativa e tecnica della pellicola, c’era un ragazzo di soli 24 anni che già si era fatto notare dalla Disney: Tim Burton

Nel pomeriggio, infatti, in un’affollata sala Petrassi, è stato proiettato Rashomon, immortale capolavoro di Akira Kurosawa. Goffredo Fofi ha poi intervistato Teruyo Nogami, la storica segretaria di edizione, e Vittorio Dalle Ore, che fu aiuto regista del maestro. In sala, tra volti attenti e rapiti, si è intravisto qualche luccicone. A sinistra, Sam Garbarski, regista di “Quartier Lointain”, e le due attrici Keira Knightley ed Eva Mendes, protagoniste del film “Last Night” in concorso alla Mostra del cinema di Roma. Sopra, Valeria Golino, nel cast di “La scuola è finita”. A destra, la locandina di “Ttron: Legacy”. In alto, un disegno di Michelangelo Pace

All’epoca, “Tron” fu il primo lungometraggio a parlare di realtà virtuale, ora è uno dei molti esempi di come spesso il cinema anticipi il futuro. Jeff Bridges trasferiva se stesso in un universo parallelo: se ci pensate, sono gli stessi elementi narrativi alla base del più grande successo commerciale (lordo) della storia del cinema: Avatar. Ciò che Cameron ha realizzato in questi anni è una versione più grande di ciò che Steven Lisberger fece negli anni ’80, ma non è l’unico. Gli omaggi a Tron, nel corso degli anni, sono stati tantissimi. Dagli Strokes (che gli hanno dedicato il loro videclip 12:51) a Caparezza (Abiura di me), dai Simpson ai Griffin, passando per tanti videogiochi che, a volte anche solo con un dettaglio, si rifanno a quelle scenografie di linee perpendicolari blu fosforescenti su sfondo nero che caratterizzavano la parte animata del film. Dietro quella parte creativa e tec-


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Per garantire un servizio efficace e sicuro, contro i tagli di bilancio I vigili del fuoco di Genova delle Rdb\Usb protestano contro l’amministrazione provinciale, che da anni attua una politica irresponsabile tesa allo smantellamento del soccorso, operando tagli e riduzioni che avranno come conseguenza per la popolazione e per il nostro personale una drastica diminuzione del livello di sicurezza e di protezione. Di fatto in alcuni giorni vi sono meno di venti vigili ad operare nel centro città! Il ministro dell’Interno continua a sbandierare conferimenti di medaglie davanti ai media, ma in realtà non impegna nessuna risorsa economica per risollevare la condizione drammatica nella quale si trovano oggi i vigili del fuoco Il dirigente locale, in perfetta sintonia con il ministro e con l’amministrazione nazionale, sta mettendo in atto procedure che riducono i già minimi livelli di protezione alla cittadinanza e aumentano i rischi e carico di lavoro al personale operativo. Sono queste le motivazioni che stanno portando i “pompieri”genovesi verso lo sciopero: per difendere un servizio pubblico fondamentale per i cittadini e per rivendicare diritti e salario, che vengono quotidianamente ridotti in tutto il mondo del lavoro sottoposto ad un attacco senza precedenti da parte di una classe dirigente privilegiata, incapace ed antidemocratica.

I Vigili del Fuoco di Genova

L’AUMENTO TRIBUTARIO SU RENDITE FINANZIARIE NOMINALI Il risparmio è ricchezza sottratta all’immediato consumo e destinata a bisogni futuri. Significa oculatezza e rinuncia a spese eccessive o inconsulte. Il risparmio spontaneo è virtù. Le rendite finanziarie sono redditi di capitale, frutti di risparmio investito: dividendi e interessi di azioni, obbligazioni e titoli di Stato. La sinistra e i suoi alleati – fra cui il supertrasformista Gianfranco Fini – usano il termine “rendita”con implicita connotazione spregiativa (“rendita parassitaria”). Si suggerisce quasi l’idea del rentier, intento a tagliare cedole con forbici d’oro; per suscitare invidia, odio e ribellismo. Nella realtà, anche i ceti medi, popolani e operai impiegano risparmi in titoli di Stato e obbligazioni (agevolmente monetizzabili); eventualmente in azioni, fondi comuni

d’investimento e altro. I tassi d’interesse e dividendo - nominali lordi - sono normalmente bassi e tassati con l’aliquota del 12,50%, che colpisce pure i capital gain. Tali interessi e dividendi nominali corrispondono spesso, nel lungo andare, a rendite reali nulle o negative - data la cronica inflazione (imposta subdola, talvolta galoppante e ora strisciante, che avvantaggia lo Stato e i debitori in genere). L’indice di Piazza Affari dal 1928 a oggi è cresciuto del 6,8% annuo medio nominale, ma diminuito del 2,3% reale – tolta l’inflazione – con una perdita quasi totale del capitale. La proposta d’aumentare la tassazione delle rendite finanziarie nominali dal 12,50% al 25% risulta ideologica e demagogica: ulteriore confisca e vilipendio della virtù della parsimonia.Tasserebbe per lo più il patrimonio. Per ottenere la sottoscrizione dei nuovi titoli, lo Stato in-

Tra buchi finti e rischi reali Se pensate che questa ragazza abbia esagerato con i piercing non vi preoccupate: Lucy McRae è un’artista australiana e le spille da balia che vedete sono state semplicemente incollate al suo corpo in occasione di una performance al Museo dell’Immagine e del Suono di San Paolo in Brasile

debitato e sprecone dovrebbe innalzare i tassi nominali. Grave turbativa colpirebbe pure l’azionariato popolare e il finanziamento del capitale proprio d’impresa. Il bene comune risulterebbe compromesso. Il rimedio al pubblico dissesto sta nella riduzione degli sprechi. La tassazione dovrebbe gravare sul consumo (che sottrae risorse) non colpire il lavoro e il risparmio investito, che sono fattori della produzione, generatori di nuove risorse.

Gianfranco Nìbale

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

TERZIGNO GEMELLATA CON KABUL A Terzigno esiste ormai il gemellaggio visivo con Kabul, e la compattezza dei sindaci ha posto la maggioranza di fronte a un muro. Le cose però se si vogliono si risolvono, e la presenza del premier nella nostra città è fondamentale, perché con ascetismo e comunicazione si possono muovere le cose e capire gli errori: tra i tanti, perché si è cercato di imprimere l’essenziale cultura della differenziata senza eliminare i cassonetti Br della raccolta unica?

dall’ ”Indipendent” del 28/10/10

Non tradite i nostri segreti, please ella società della comunicazione totale il mondo dei segreti è a rischio. E chi lavora sulla segretezza vede il proprio lavoro in pericolo. Sir John Sawer, capo del famoso MI6, il servizio segreto estero di Sua Maestà britannica è dovuto scendere in campo – anche lui – per difendere le prerogative delle barbe finte inglesi. Nel suo primo intervento pubblico, ha dichiarato di ricevere quotidianamente rapporti su fanatici che vorrebbero «mutilare ed uccidere cittadini britannici». Per essere sicuri che l’attività di contrasto a queste minacce continui in modo positivo è necessario che gli operativi del controspionaggio e di altre agenzie d’intelligence abbiano la sicurezza che la propria attività sia protetta dal segreto.

giudiziario e quello spionistico, sembra ancora valida: l’Fbi, bin Laden lo vuole arrestare, la Cia lo vorrebbe arruolare. Ma siamo in Inghilterra e sulle rive del Tamigi l’intelligence è sempre stata un cosa seria. L’arruolamento è sempre avvenuto pescando dalla crema dei college, dall’intellighenzia più raffinata e dal mondo dell’economia più inaspettato.

N

«Segreto non è una parola sporca» ha sottolineato il baronetto Sawer «il segreto non serve – ha continuato – a coprire la verità». Insomma, non abbiate paura degli spioni e dei loro segreti indicibili, perchè ci sono solo per rendere il Paese più sicuro e far prosperare la democrazia. Il capo di Vauxhall Cross, sede del Secret intelligence service (Sis) – volgarmente noto come Mi6 solo perché era così chiamato durante la seconda guerra mondiale – ha parlato davanti a una platea selezionata di operatori della stampa e dei media, la Society of Editors di Londra. Gli agenti speciali britannici, molto lontani dal modello oleografico e cinematografico di Ian Flemming, sono oggi considerati dal loro direttore «persone integre» moralmente e totalmente estranee a

pratiche come la tortura, psicologica o fisica che siano. È un po’difficile da credere, viste anche le sfide da affrontare, dove il tempo – a volte i minuti – possono fare la differenza. Ma è vero che da tempo il lavoro d’intelligence sia profondamente cambiato, virando sempre più verso l’ibrido intelligencelaw enforcement.Vista la necessità per le democrazie occidentali di punire il terrorismo nelle aule giudiziarie e dimostrare di essere un modello di società funzionante e rispettoso dei propri valori, anche quando è sotto attacco. In breve, per vincere la guerra del soft power il pugno non deve essere solo avvolto nel guanto di velluto, ma deve rispettare certe regole. La vecchia battuta con cui si cerca di spiegare la differenza tra il lavoro investigativo

I segreti, quelli veri, sono sempre stati mantenuti per il tempo necessario. Oggi, certe griglie si sono allentate, i tagli al bilancio della Difesa hanno colpito un po’ tutti, internet ha reso la comunicazione un mezzo potentissimo di controllo democratico sulle attività dei governi. L’asse atlantico non è messo in discussione da Sawer, anzì ne viene ribadita la necessità sul piano della condivisione delle fonti. Washington ha sempre sofferto di una sorta di complesso d’inferiorità intellettuale nei confronti del pensiero strategico britannico, ma non stava più digerendo ciò che considerava una deriva “buonista” dei cugini d’Oltreatlantico. Oggi, c’è la commissione Gibson, voluta dal premier David Cameron che investigherà sul trattamento dei prigionieri detenuti all’estero dalle forze britanniche. «Le tecniche d’interrogatorio devono rimanere segrete per restare valide» si è precipitato a specificare Sawer, temendo un secondo scandalo waterboarding. E soprattutto a lanciato un messaggio a tutti i servizi alleati: «state tranquilli» non sarete sputtanati. Staremo a vedere.


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LE VERITÀ NASCOSTE

di Vincenzo Bacarani

Non dire «gatto!» se non ce l’hai nel sacco TASMANIA. Dramma familiare: Stephen Alexander Harper, 44enne, ha ucciso gli anziani genitori, Roderick di 88 anni e Helene di 77, a colpi di ascia. A rendere particolarmente incredibile il gesto, però, è il fatto che Harper è uno psicologo specializzato nel gestire i conflitti familiari. L’uomo ha giustificato il gesto con il fatto che i genitori lo avevano preso in giro per la morte del gatto, cui era molto affezionato. Sempre a proposito di felini, un gatto dell’Idaho ha scelto un pessimo posto per cercare di dormire al calduccio. Infatti, il micio si è infilato in una centrale di distribuzione elettrica, ed è saltato su un trasformatore attratto dal caldo. Ma in questo mo-

do, lo sfortunato gatto ha messo in cortocircuito il trasformatore rimanendo fulminato sul colpo, e “bruciando”ben nove linee di alta tensione, lasciando al buio oltre 12mile case e aziende, oltre a disattivare l’illuminazione delle strade e dei semafori. Sono state necessarie diverse ore per rimettere in funzione la centrale. Uno sciopero della fame, infine, vede come insolito protagonista un gatto tedesco, sei volte sovrappeso rispetto al normale, che portato alla protezione animali dal suo padrone, ha deciso di non nutrirsi più da quando è stata sospesa la sua consueta dose di cibo quotidiana. Mikesch, questo il nome dell’animale, pesa 18,5 kg e soffre di problemi di

ACCADDE OGGI

CECENIA MARTORIATA La Cecenia è una terra martoriata da sempre, insieme all’adiacente Caucaso del Nord, una regione che è sottesa all’influenza non solo delle egemonie russe che si muovono nell’ombra, ma anche delle mire fondamentaliste musulmane che sono alla base dell’ultimo attacco al Parlamento. La Russia zarista la rese un nulla, al punto tale che anche le importazioni di tappeti erano impossibili; la Russia sovietica la soggiogò a tal punto che la adoperava come terreno di esercizio perenne delle truppe militari con mire inequivocabilmente di conquista; il fondamentalismo adesso utilizza i suoi figli come la famosa vicenda delle “fidanzate di Allah” per attentati che sono arrivati fono alla metropolitana moscovita. Una democrazia fragile lascia il posto alle sfrenate egemonie e scrive l’ennesimo capitolo di strage: il Daghestan è diventato rinomato per il suo isolamento e per le incessanti attività belliche, e sembra orribilmente vera la notizia che molti ventenni vengono rapiti, torturati e fatti sparire per poi mostrarne i corpi come evidenza oggettiva di un successo nella lotta al terrorismo. Questa guerra, almeno dal punto di vista umano, non avrà mai vincitori e vinti, ma solo un popolo che vedrà periodicamente annullato il suo diritto alla libertà.

Bruna Rosso

LODO ALFANO: NESSUN PERICOLO Il Pd definisce scandaloso il comportamento del governo sul lodo Alfano, ma non ritiene che tale legge costituzionale rinforzata dall’approvazione dell’emendamento sui processi retroattivi, riguarda solo la possibi-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

29 ottobre 1985 Il general maggiore Samuel K. Doe viene annunciato come vincitore delle prime elezioni multipartitiche in Liberia 1988 In Giappone, il Sega Mega Drive viene messo in commercio 1991 La sonda Galileo compie il suo passaggio più ravvicinato a 951 Gaspra, diventando la prima sonda a visitare un asteroide 1994 Francisco Martin Duran spara oltre due dozzine di colpi sulla Casa Bianca 1998 Lo space shuttle Discovery decolla con a bordo il 77enne John Glenn, che diventa la persona più anziana ad essere andata nello spazio 2004 A Roma i 25 paesi membri dell’Ue firmano la Costituzione europea 2007 Storico referendum nei comuni ladini di Cortina d’Ampezzo, Livinallongo del Col di Lana e Colle Santa Lucia (BL) si tiene il referendum per l’aggregazione del proprio territorio alla regione Trentino-Alto Adige (BZ)

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

cuore. Il felino è così grasso che non riesce a fare quattro passi prima di fermarsi esausto e per lui anche pulirsi è ormai diventato un serio problema. Per questo gli esperti della protezione animali lo hanno sottoposto ad un rigido regime alimentare per riportare la bestiola su standard accettabili.

lità che il Parlamento emetta una delibera atta a sospendere il processo stesso. In sintesi non esprime la pericolosità e l’incostituzionalità che l’opposizione richiama da tempo.

Alessia

GLI ADDITIVI ALIMENTARI SONO CAUSA DI PATOLOGIE NEOPLASTICHE Il 60% delle malattie organiche contratte dall’essere umano dipendono da un’alimentazione scadente e tossica. L’industria alimentare, in buona parte in mano a società multinazionali senza scrupoli immette sul mercato cibi contenenti additivi tossici. La maggior parte dei cibi e delle bevande contenuti in confezioni di plastica sono ad altissimo rischio salute: infatti il rilascio di ftalati nel cibo e nelle bevande calde, ghiacciate, oleose e alcoliche che consumiamo, sono causa di malattie funzionali e degenerative; inoltre, in alcune bevande e in alcuni alimenti c’è la presenza di additivi tossici, tra i quali l’E102 (tartrazina) e l’E124 (rosso cocciniglia). Un’educazione alimentare che miri a eliminare gli additivi tossici e i contenitori di plastica per alimenti e a dare maggiore spazio a frutta e verdura di stagione, non modificata geneticamente, sono i primi passi da compiere per la prevenzione delle malattie funzionali e organiche. Smettiamola di giocare con la salute dei cittadini: stiamo sacrificando ai meri interessi del mercato e del profitto la qualità e la tutela della vita. Che gli organi di governo preposti al controllo e alla tutela della salute dei cittadini intervengano per l’eliminazione di tutti i contenitori di plastica per alimenti contenenti ftalati.

Domenico e Giuseppe

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

WELFARE AZIENDALE, IL FUTURO Che il mondo del lavoro stia cambiando se ne stanno accorgendo in molti, escluse alcune (poche per la verità) categorie sindacali. Non solo perché la tremenda crisi del 2008 - che sta ancora facendo sentire i suoi deleteri effetti ha provveduto a dare una spallata a determinate certezze, ma anche perché la mentalità e il sentire comune di imprenditori e dipendenti sta mutando. Nelle contrattazioni, soprattutto integrative, aziendali e territoriali, le questioni normative tendono a passare in secondo piano e le questioni economiche tendono sempre più a trasformarsi in tentativi di soluzioni di problemi pratici e, di conseguenza, anche economici. In un sondaggio svolto nei giorni scorsi dalla Robert Half International, società di ricerca di personale qualificato, emergono alcuni dati significativi in questo contesto. Cresce il numero delle aziende italiane che danno priorità ai bisogni personali dei lavoratori e al clima lavorativo. In base a questo sondaggio il 58 per cento delle imprese italiane ha adottato, o adotterà nei prossimi mesi, politiche specifiche per sviluppare la qualità dell’ambiente di lavoro. Le iniziative più efficaci per motivare i dipendenti riguardano la sfera dell’organizzazione personale come per esempio la flessibilità dell’orario di lavoro (48 per cento), il part-time per i lavoratori con figli e i piani di carriera personalizzati (entrambi al 40 per cento), i piani di formazione personalizzati (36 per cento), mentre scendono come gradimento gli incentivi economici (solo il 25 per cento) e i bonus (addirittura allo 0 per cento). Questo vuol dire che per un dipendente, di qualunque livello, è importante poter avere un orario di lavoro flessibile che consenta ad esempio alle giovani madri di organizzare la giornata, poter contare su un progetto di carriera interna, poter avere a disposizione una palestra, un asilo-nido, aree di relax e alcuni servizi che gli enti pubblici non sono più in grado di garantire come una volta. Su queste colonne, la scorsa settimana era stato citato il caso della Luxottica che, in accordo con i sindacati, stava attuando un accordo integrativo che prevedeva alcuni di questi punti: una sorta di welfare aziendale. Ci ha scritto il segretario provinciale della Uil di Belluno, Paolo Da Lan, specificando che alcuni progetti previsti nell’accordo non sono stati ancora compiutamente attuati e sottolineando come sia questa una strada giusta per migliorare la qualità della vitra dei lavoratori. «Vorrei - scrive Da Lan - che nel mio territorio si creasse un modello non solo aziendale di welfare, ma territoriale. L’ostacolo più grosso è rappresentato dalla mentalità. Sia le aziende che i sindacalisti fanno fatica a vedere le possibilità enormi che questo modello, se preso a sistema, può dare». bacarani@gmail.com

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