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Molte sono le cose terribili, ma nulla è più terribile dell’uomo

Sòfocle

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 5 NOVEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Cavaliere alla direzione del Pdl parla anche degli scandali: «È solo una vendetta della malavita, il fango non ci fermerà»

Berlusconi fa catenaccio

Un inedito premier sulla difensiva: ora chiede a Fini di non rompere perché ne ha bisogno. Ma lui: «È stato un discorso deludente e tardivo». E Silvio: «Per archiviarmi bisogna votare» di Errico Novi

L’ALIBI DEL PRESIDENTE

Basta parole, ora serve un governo che governi

ROMA. L’unico vero omaggio reso dalla nomenclatura berlusconiana al vecchio capo è un filmato consolatorio. Al Cavaliere viene concesso di essere preceduto, nell’intervento alla direzione del Pdl, da una mitragliata di filmati trionfali: le conclusioni dei suoi più importanti comizi, i boati della folla, intervallati dall’inno rituale «Meno male che Silvio c’è». Poi però nella grande sala dell’adunata della direzione Pdl si celebra la sofferta resa di Berlusconi. segue a pagina 3 a pagina 2

di Giancristiano Desiderio l governo del fare cammin facendo si è trasformato nel governo del parlare. Il presidente del Consiglio ieri ha ripetuto parole che già aveva pronunciato un mese fa e che già un mese fa risultavano vecchie di settimane e mesi giacché per tutta l’estate la maggioranza non ha fatto altro che ripetere come un mantra che «a settembre ci saranno il chiarimento e un nuovo patto». Le stesse parole di ieri: il capo del governo ha ancora ribadito la necessità di un “patto di legislatura” con Fini. Ormai il cosiddetto governo del fare fa una sola cosa: dice che cosa si accinge a fare e regolarmente non lo fa.

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Braccio di ferro in Commissione

La roadmap del Pdl

E sulla finanziaria nasce una nuova maggioranza

Election day con le amministrative: ecco il vero piano

In Commissione Udc, Mpa, Pd e Fli votano insieme contro la linea Tremonti sulla Legge di Stabilità. E sul federalismo è caos

Nel partito, d’accordo con Bossi, è iniziato il conto alla rovescia: incassato il legittimo impedimento, sarà crisi e voto anticipato

Francesco Pacifico • pagina 3

Riccardo Paradisi • pagina 5

I 600 miliardi di dollari investiti dalla Fed non sciolgono i dubbi sulla crisi

Allarme Fmi: la ripresa è lenta E Trichet: «Sull’Euro pesa il rischio debito pubblico» di Alessandro D’Amato

Il vero nodo è la guerra delle monete

ROMA. La (virtuosa) reazione a catena sperata dalla Fed non c’è stata. La decisione di investire 600 miliardi di dollari in titoli pubblici presa ieri da Bernanke non ha fugato i dubbi sulla crisi internazionale. «Non basta», ha commentato il Fondo monetario internazionale che ha rivisto al ribasso le stime di crescita mondiale per il 2010 e il 2011. Da Trichet, intanto, è arrivtao un altro allarme: «Il debito pubblico dei Paesi pesa troppo sull’Euro».

Ma Bernanke sbaglia ancora la strategia di Carlo Lottieri i fronte alla decisione di Ben Bernanke, governatore della Fed, di acquistare titoli di Stato americani per 600 milioni di dollari (più di quanti erano pronosticati da Wall Street), la prima considerazione è che il voto dell’altro giorno è stata una buona notizia, ma nella migliore delle ipotesi si tratta solo di un inizio. a pagina 14

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a pagina 14 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

215 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Il successo di un movimento che recupera i grandi valori dell’identità americana

Vi spiego perché il futuro è il Tea party, non più il Gop

In nome della libertà e contro il «modello europeo», le elezioni di Midterm sono state vinte da un «non partito» che riscopre i principi dei padri fondatori di Michael Novak on credo proprio che quello che martedì si è verificato negli Stati Uniti sia mai successo in Europa. A dirla tutta, è un fatto assolutamente straordinario anche per l’America. Solo dopo due anni di mandato, nessun Presidente nella storia statunitense era mai stato screditato dai suoi Ormai elettori in modo così clamoroso come quanto successo a l’obiettivo Barack Obama. Quando, nel di milioni 1994, il partito dell’allora pre- di elettori sidente Clinton perdette 52 è mandare seggi alla Camera, sembrò un via Obama dato sorprendentemente alto. E invece solo due giorni fa i Democrats hanno lasciato sul terreno qualcosa come 70 poltrone alla House of Representative (il braccio del nostro sistema parlamentare più vicino al popolo Usa) e almeno 6 al Senato.

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a pagina 8 IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 5 novembre 2010

la giornata Offerto un inutile «patto di legislatura». Ma davanti alla direzione del Pdl Silvio svela: «Vi leggo un testo imposto dal partito»

Aspettando domenica

Il premier chiede a Fli di non abbandonarlo ma Fini gli risponde: «Discorso deludente, tardivo e senza prospettive. Dopo Perugia cambia tutto» la polemica di Errico Novi

ROMA. L’unico vero omaggio reso dalla nomenclatura berlusconiana al vecchio capo è un filmato consolatorio, come in quel film di fantascienza in cui gli anziani sono accompagnati alla fine tra immagini di verdi pascoli. Ecco, al Cavaliere viene concesso di essere preceduto, nell’intervento alla direzione del Pdl, da una mitragliata di filmati trionfali: le conclusioni dei suoi più importanti comizi, i boati della folla, intervallati dall’inno rituale «Meno male che Silvio c’è». Poi però nella grande sala dell’adunata, al complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia, si celebra la sofferta resa di Berlusconi. Prende la parola con un po’ di ritardo, dopo una mattinata strana, trascorsa con il premier belga ma anche con Gianfranco Fini davanti all’Altare della Patria, dove i due nemici si scambiano fitte chiacchiere e insoliti sorrisi. Reduce dall’imprevedibile contatto ravvicinato col cofondatore (pare che Silvio parli della Minetti quando gli sussurra «è maggiorenne e incensurata») e da una lunga notte di limature al testo, il premier si presenta davanti ai dirigenti del partito così: «Avrei voluto parlarvi col cuore, ma mi è stato imposto di leggere un intervento scritto». Lo dice col sorriso sulle labbra, ma non scherza: nell’interminabile stillicidio di riunioni del giorno prima, Bonaiuti, i triumviri e i capigruppo lo hanno praticamente sequestrato. Cioè gli hanno effettivamente prescritto di non farsi trascinare dall’estro del momento, ma di recitare una lunga dichiarazione di resa a Fini. Tra i toni celebrativi di cui lo stesso Berlusconi coglie a un certo punto la stucchevolezza («scusate se ho abusato della vostra pazienza»), nella solita elencazione degli obiettivi già realizzati dal governo, a un certo punto il leader del Pdl sancisce la novità: «Con Futuro e libertà c’è una nuova articolazione della maggioranza, non esitiamo a riconoscerlo». Non solo. «Con questi parlamentari eletti dal Pdl che hanno scelto di formare un nuovo gruppo, e forse un partito, siamo pronti a sottoscrivere un patto di legislatura». Quello chiesto da Fini a Mirabello. Conta poco la clausola successiva: «Si dica subito se si vuole andare avanti con

Il Cavaliere continua a cercare un alibi per l’immobilismo della maggioranza

Basta parole, ora serve un governo che governi di Giancristiano Desiderio l governo del fare cammin facendo si è trasformato nel governo del parlare. Il presidente del Consiglio ieri al complesso di Santo Spirito parlando alla direzione nazionale del Pdl ha ripetuto parole che già aveva pronunciato un mese fa in Parlamento per il rilancio del governo e che già un mese fa risultavano vecchie di settimane e mesi giacché per tutta l’estate la maggioranza non ha fatto altro che ripetere come un mantra che «a settembre ci saranno il chiarimento e un nuovo patto». Le stesse parole si sono sentite ieri: il capo del governo ha ancora ribadito la necessità di un “patto di legislatura” con Fini e il suo gruppo e se quelli di Futuro e Libertà ritengono che nel loro prossimo futuro ci sia la libertà dal governo allora il premier sarebbe pronto ad andare subito al voto. Anche questa cosa del voto anticipato o, meglio, anche questa cosa della minaccia del voto anticipato è stata detta più volte ed è stata persino smentita più volte. Ormai è dalla primavera che il cosiddetto governo del fare fa una sola cosa: dice che cosa si accinge a fare e regolarmente non lo fa.

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forza per affrontare la riforma della Giustizia, ebbene, lo faccia; se ha la forza per realizzare il federalismo, ebbene, lo faccia. Ma ciò che non può continuare a fare è proprio dire che c’è bisogno di un nuovo patto di legislatura per portare avanti i cinque punti del programma concordato e accettato da tutti. Se invece il governo non ha la necessaria forza politica per tradurre in atto ciò che avrebbe in potenza è bene che il premier si faccia da parte senza appellarsi al popolo e rimettendo il mandato nelle mani del presidente della Repubblica. Anche il tempo dei populismi e della finta democrazia dell’alternanza è scaduto da tempo.

La verità è molto più semplice di quanto non sembri. Quando Berlusconi evoca ancora una volta una sospirata stabilità e, come se volesse costringere la Sfinge a parlare, cerca di chiudere in un angolo Fini, mostra la debolezza politica del governo. La leadership di Berlusconi non è più quella di una volta (diciamo quella di inizio legislatura) e non lo sarà più. La nascita di un nuovo partito parlamentare, qual è Fli, e il lavoro dei finiani per rifare regione per regione un altro partito nell’area di centrodestra, hanno come loro ragion politica proprio la fine del monopolio berlusconiano in quella vasta area che una volta vedeva insieme Forza Italia, An, Udc e Lega. Oggi il governo Berlusconi esiste non per sua virtù, ma perché così sta bene a Fini. L’iniziativa politica non è più nelle mani di Berlusconi e neanche di Bossi. Probabilmente non è neanche nelle mani di Fini, che si limita a giocare di rimessa, ma è proprio questa incertezza e assenza di guida a determinare la crisi di governo più lunga della storia italiana.

La leadership di capo del governo non è più quella di una volta e non lo sarà più

Silvio Berlusconi ieri ha anche dato una sua personale spiegazione delle difficoltà che stanno attraversando lui, il governo e la maggioranza: «È la vendetta della malavita». Che la criminalità organizzata sia pericolosa non c’è dubbio alcuno; che il lavoro del ministro Maroni sia stato ottimo è altrettanto certo, ma dire che la crisi in cui è precipitato da mesi e mesi il governo «è una vendetta della malavita» è un ragionamento che se avesse delle notizie vere andrebbe meglio argomentato e dimostrato. Il miglior modo per continuare a contrastare il crimine organizzato è il buon governo delle riforme. La verità è che ogni altro annuncio è fuor di luogo. Se l’esecutivo ha la forza per portare avanti la riforma universitaria, ebbene, lo faccia; se ha la

lealtà oppure se non c’è questa intenzione: nel caso, siamo pronti al voto». Perché certo – e questo è forse l’unico vero scatto d’orgoglio del premier – «non è con gli scandali che riusciranno ad archiviare Berlusconi: per farlo dovranno chiederlo al popolo, non possono farlo con una congiura di palazzo che gli italiani non permetterebbero». Ma lui stesso non auspica affatto lo scioglimento anticipato: dice che non è quello di cui l’Italia ha bisogno, casomai serve «stabilità», unica preoccupazione della comunità internazionale.

Andrebbe tutto bene, per la maggioranza. Se non fosse che Fini resta poco impressionato e fa intravedere comunque la rottura: «Quello di Berlusconi è un discorso deludente e tardivo, senza prospettiva». Bocchino amplifica liquidando subito l’offerta del Cavaliere come «un segno di debolezza» e aggiungendo che «da domenica nulla sarà più come prima». È un preavviso di appoggio esterno? Resta il dubbio. Un altro fedelissimo di Fini, Enzo Raisi, classifica l’ipotesi come «un arnese da Prima Repubblica». E non a caso lo stesso Bocchino nota compiaciuto che «c’è il riconoscimento della terza gamba». Tra l’altro il capogruppo di Fli alla Camera mette a segno un altro colpo: annuncia il passaggio di circa mille Circoli della libertà sotto le insegne di Fli. «Si tratta di quasi la metà delle sezioni create dalla Brambilla». Ed ecco che la battuta sulla «debolezza» va intesa sotto un particolare aspetto. Ai finiani non dev’essere sfuggito come la resa imposta a Berlusconi dai suoi colonnelli nasconda un’insidia per lo stesso Pdl. Nello stesso giorno in cui si offre a Fini il patto di legislatura, infatti, viene approvato dalla direzione nazionale del partito il nuovo statuto.Vi si prevede che ci sia sì un meccanismo di elezione, e non più di nomina, per i coordinatori locali, ma con una platea congressuale formata in pratica dai soli eletti, e con gli iscritti relegati in un ruolo marginale. È il lodo Verdini-La Russa, pienamente sottoscritto dal Cavaliere. Ma è anche la riaffermazione di un meccanismo oligarchico, verticistico. Con un Parlamento di nominati, quale deputato nazionale si permetterebbe di indicare sul territorio un coordinatore sgradi-


il fatto Ormai è in alto mare la Legge di Stabilità proposta dal ministro

Prove tecniche di nuova maggioranza In Commissione Udc, Mpa, Pd e Fli votano insieme contro la linea Tremonti. Sul federalismo è caos di Francesco Pacifico

Ieri Silvio Berlusconi ha introdotto i lavori della direzione del Pdl. A destra, il ministro Tremonti battuto in Commissione sulla Legge di stabilità. Nella pagina a fianco, la escort «salvata» dal premier to ai triumviri? Rischierebbe lui stesso di non essere ricandidato.

Proprio per questo quei malumori cresciuti con il tempo dentro il Pdl sono destinati a non essere sopiti. Anzio. Si solidifica un assetto rigido che non lascia spazio a una vera dialettica interna. Cosicché il potenziale attrattivo di Fli, per gli scontenti del Pdl, dopo la direzione di ieri viene addirittura accresciuto – e il caso dei Circoli è solo un segnale tra i tanti. Berlusconi viene dunque immobilizzato con una doppia mossa di karate dal suo stato maggiore: gli stessi che lo avevano indotto a cacciare Fini sono quelli che ora gli impongono il discorso conciliatorio verso l’alleato-rivale, introducendo però delle regole interne che favoriscono proprio l’emorragia verso Futuro e libertà. Non c’è da stupirsi che all’inizio dell’intervento Berlusconi dica: «Le dichiarazioni che seguono non sono frutto solo delle mie idee ma anche di quelle diffuse tra i dirigenti del partito». Il Cavaliere ventriloquo proprio non si era mai visto. Altro aspetto da non sottovalutare è il passaggio fin troppo vago sulla giustizia: Berlusconi parla dei «cinque punti», annuncia per l’imminente Consiglio dei ministri il pacchetto sicurezza di Maroni, plaude al negoziato di Tre-

monti sul fisco, ma quando si tratta della materia più delicata, quella giudiziaria appunto, si limita a registrare il lavoro già fatto («riforma del processo penale, stalking») e i punti non controversi da realizzare: separazione delle carriere e revisione del Csm. Anche lì fa il prudente. Se Bocchino maramaldeggia, Bersani lancia un allarme preventivo: prima ancora che il premier inizi a parlare, convoca i giornalisti per dare una specie di ultimatum a Fini: «Mettiamo un punto a questa situazione, Fli deve assumersi questa responsabilità: un nuovo governo con l’attuale legislatura non sarebbe un golpe». Rischia di apparire come il tentativo di guastare la festa di pace della maggioranza. In realtà a Bersani non sfugge che una tregua siglata da un Pdl così indebolito rischia di essere la premessa per nuovi avvitamenti del centrodestra, e di un protrarsi del caos. A parte un’iperbole vittimistica («dietro certi attacchi potrebbero anche nascondersi una vendetta del crimine organizzato a cui abbiamo inferto colpi tremendi») Berlusconi s’impenna solo quando ribalta il gioco della tutela imposta dai suoi e dice: «Smettiamola con i conflitti interni, restiamo coesi». E finora il Cavaliere non si era mai visto costretto a dare certi ordini in pubblico, pur di ottenere una disciplina sempre più improbabile.

ROMA. Prove tecniche di cambio di maggioranza ieri a Montecitorio. Non erano passate nemmeno due ore dal rilancio di Berlusconi sull’agenda di governo – e dalla sfida a Fini di far saltare il banco – che l’esecutivo è andato in minoranza in commissione Bilancio su un emendamento alla legge di stabilità presentato da Roberto Occhiuto (Udc) e Roberto Commercio (Mpa). Con gli uomini del presidente della Camera a votare con il Pd, i centristi e gli autonomisti contro il tentativo dell’esecutivo di far usare alle Regioni i fondi Fas per pagarsi il trasporto pubblico locale e l’edilizia sanitaria. Con Fli che ha fatto materializzare lo spettro tanto esorcizzato dalla direzione nazionale del Pdl: un nuovo governo. Tecnicamente, la commissione Bilancio ha cancellato la soluzione ideata da Giulio Tremonti – l’ennesimo ricorso ai Fas – per trovare le risorse ai capitoli di spesa più tagliati dalla Finanziaria. Un escamatoge che non era piaciuto ai governatori e che sempre ieri hanno dimostrato di poter rallentare – se non far saltare – l’approvazione del federalismo fiscale. Infatti non hanno dato il loro parere sui decreti sull’autonomia finanziaria regionale e sui costi standard. Simulazioni di nuove maggioranze, assalto a un caposaldo della politica del rigore tremontiano come la legge stabilità, ennesimo intoppo sulla via del federalismo, la giornata di ieri andrà inserita nei dies nefasti degli annali del berlusconismo.Non a caso il viceministro Giuseppe Vegas, ieri in commissione in rappresentanza del governo, ha prima provato ad allegerire la tensione con «qui stiamo votando la legge di stabilità anche se non sappiamo se c’è ancora una legge e una stabilità». Quindi, resosi conto di come sarebbe andata a finire, ha ricordato alla maggioranza che «questo provvedimento è come un tavolo di vetro che se si rompe una gamba, si rompe l’intera struttura. E se qualcuno vuole staccare la spina, se ne assuma le responsabilità. Perché oggi qualcuno ha spento la candela».

che la scelta di Antonino Lo Presti, capogruppo in commissione dei finiani, di presentare ieri mattina tre emendamenti per dare risorse su università, ricerca e emittenza locale. Di conseguenza, quando il governo è finito in minoranza, ha accusato il governo «di essere presuntuoso, pensano di poter snobbare il Parlamento».

Incassato il voto negativo il presidente della commissione, Giancarlo Giorgetti, ha aggiornato la seduta. Mentre Vegas, il relatore Marco Milanese e il capogruppo del Pdl alla Bilancio, Massimo Corsaro, si sono riuniti in tutta fretta per presentare una proposta alternativa ai finiani. Ma l’operazione risulta alquanto complessa e non soltanto perché è naufragato il primo tentativo di mediazione basato sulla concessione di fondi per l’edilizia sanitaria e su un emendamento per vincolare al Sud la quasi totalità dei Fas. I finiani di fatto hanno dato un calcio alla strategia del Cavaliere, che aveva promesso di inserire nel Milleproroghe parte delle risorse per lo sviluppo tagliate nell’ultimo biennio da Tremonti. Se dal direttivo del Pdl il premier aveva chiesto agli alleati un’apertura di credito, questa gli è stata respinta in malo modo poche ore dopo alla Camera. Vegas ha infatti annunciato che il governo intende «emanare un decreto entro il 16 di questo mese che conterrà una serie di questioni che stiamo trattando qui in commissione: il Piano per il Sud con l’utilizzo dei Fas, il finanziamento dell’università con l’intenzione di incentivare i fondi, la reintegrazione degli ammortizzatori sociali; i contratti di produttività e le risorse per il 5 per mille e per la cultura». Ma sembra che nessuno abbia voglia neppure di aspettare il piano nazionale delle riforme che sarà approvato oggi in Consiglio dei ministri. Sintentizza bene il clima Pierpaolo Baretta (Pd): «La legge di stabilità è da rifare e se il governo vuole reggere, inserisca subito nella Finanziaria le misure che vuole presentare nel Milleproroghe». Misure concrete le attengono anche i governatori, che, come annunciato ieri da Vasco Errani, non daranno «il loro parere sul federalismo fino a quando il governo non rimodulerà i tagli della manovra. E che riguardano il tema della garanzia dei servizi fondamentali ai cittadini». Incassato il nuovo rinvio, Roberto Calderoli diplomaticamente ha fatto sapere che «il governo vuole dare delle risposte». Ma fino a quando Tremonti non le troverà, sarebbe inutile l’ennesimo tavolo con gli enti locali.

«A questo punto l’esecutivo non ha più i numeri per governare», hanno commentato le opposizioni dopo il voto che boccia la ripartizione delle spese

Roberto Occhiuto rivendica che il suo emendamento, «identico a uno del Mpa, ha impedito al governo di utilizzare i Fas per finanziare la spesa corrente». Quindi si è soffermato sulla valenza politica: «Tremonti ha ripetuto in più salse l’inemendabilità di questa legge. Noi abbiamo dimostrato il contrario e la cosa non può che creare tensioni in Pdl e Lega, ai quali è stata impedito di fare cambiamenti». A riprova che l’incidente era nell’area, an-


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l’approfondimento

Alle celebrazioni per il Quattro novembre, a sorpresa, i due leader si sono parlati. E finalmente il premier si è sfogato...

La strana coppia

Ieri Berlusconi gli ha rivolto la parola dopo mesi di gelo, ma Fini ha fatto finta di niente. Storia di un rapporto enigmatico e tormentato: in fondo, dal 1993 a oggi le liti tra i due cofondatori hanno fatto spettacolo (e politica) di Marco Palombi

ROMA. «Basta con Fini che il sabato e la domenica sfiducia Berlusconi e poi, negli altri giorni, fa il fidanzatino del premier in Parlamento». Antonio Di Pietro, con quella sua aria da bianco e nero, è sempre facondo di immagini che starebbero bene accanto alla zuppa e al focolare o, al peggio, in una quartierino borghese con le buone cose di pessimo gusto. Oggi è toccato al “fidanzatino”e probabilmente non a caso: lo sfogo del Cavaliere col presidente della Camera davanti all’altare della Patria, col patriottico sottofondo dell’inno (lo vedete nella foto qui sopra), più che un atto di pacificazione politica o lo sgorgare alla bocca della disperazione del cuore, sembrava la sceneggiata d’un marito malandrino che si giustificasse di qualche scappatella (parte che, com’è noto, il premier recita a memoria). Negare, negare anche di fronte all’evidenza, scandisce la regola aurea del fedifrago. Berlusconi, però, dovrebbe stare più tranquillo: il suo con “Gianfranco”non è mai sta-

to un matrimonio d’amore, se stanno ancora insieme nonostante i continui litigi e una patologica avversione umana è perché conviene a tutti e due. È così dal novembre di 17 anni fa, da quella mattina in cui Silvio Berlusconi se ne andò a inaugurare un centro commerciale a Casalecchio di Reno: «Se fossi chiamato a scegliere il sindaco di Roma non avrei un attimo d’esitazione: sceglierei Fini, perché è l’esponente che raggruppa quell’area moderata che se unita può garantire uno sviluppo del Paese».

Comincia così la storia di Fini come fidanzatino del Cavaliere e comincia così pure la Seconda Repubblica. Di lì a poco, grazie alla videocassetta arrivata nelle redazioni di tutti i tg, il tycoon di Fininvest annuncia al popolo televisivo la sua “discesa in campo”. I primi anni quando l’attuale leader di Futuro e Libertà è ancora un postfascista guardato con sospetto in Italia e ancor più in Europa sono di felice convivenza: all’e-

poca, chi si comporta come un “ubriaco al bar” (parola del Cavaliere), è Umberto Bossi, che mette fine alla breve vita del primo governo Berlusconi e comincia a percorrere il nord spiegando alla gente che quel tizio di Arcore è un mafioso, trafficante di droga e altre amenità. Fini sta sempre accanto al suo Silvio: «Con Bossi non prenderò neanche più un caffè». Bei tempi? Mica tanto, sostiene Enzo Palmesano, giornalista e militante prima nel Msi (da “fascista di sinistra”),

Per Di Pietro, il leader di Fli è solo un «fidanzatino» del Cavaliere

poi in An: nella destra italiana ha scritto nel suo Gianfranco Fini. Sfida a Berlusconi - esiste da sempre «un diffuso sentimento di diffidenza, se non di ostilità, nei confronti del berlusconismo come categoria ideologica e antropologica. Certo, s’è trattato per più di tre lustri di un sentimento represso, celebrato di sottecchi, sovente dissimulato». Quanto a Fini, ha spiegato in un’intervista, «il suo antiberlusconismo nasce già nel 1993. Quando Berlusconi si candidò a guidare la coalizione dei moderati sbarrandogli la strada».

Come che sia, i due vanno d’amore e d’accordo fino al 1999, l’anno dell’Elefantino, cioè dell’alleanza elettorale per le europee tra Alleanza nazionale e il movimento di Mariotto Segni. È la prima vera rottura ed è anche la prima volta che l’attuale presidente della Camera comincia a manovrare per sostituirsi a Berlusconi. La cosa poteva funzionare. Elettoralmente Forza Italia pareva in

crisi: alle politiche del 1996 s’era fermata al 20,5%, An cinque punti più sotto, al 15,6%, e Fini aveva pensato che l’alleanza con un Segni rilanciato dalla campagna referendaria contro il proporzionale gli avrebbe portato i voti sufficienti a superare il Cavaliere. Si sa come andò a finire: l’Elefantino prese il 10 e dispari percento e il presidente di An dovette tornare a sedersi sotto Berlusconi. L’esperienza al governo tra il 2001 e il 2006 fu umanamente terrificante: Fini comincia a non sopportare più il suo ingombrante capataz, così volgare, così lontano dalle eleganti atmosfere giscardiane che aveva preso a frequentare da ministro degli Esteri e membro della Convenzione Ue. Resta agli atti il volto cereo del nostro mentre il premier, nell’aula dell’Europarlamento, proponeva una parte da “Kapò” al socialdemocratico Martin Schultz. Il Cavaliere, però si limitava a sfotterlo: «Ci sono tante possibilità di impegnarsi per il Paese, c’è gloria per tutti». Poi ci fu il duello sul-


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Pdl e Lega ”sopporteranno” i finiani fino a dicembre, poi il senatùr accenderà la miccia...

Ecco il piano B(erlusconi) per votare a primavera L’obiettivo è incassare legittimo impedimento e federalismo, poi aprire la crisi alla vigilia delle consultazioni amministrative di Riccardo Paradisi ormai due soli giorni dal discorso di Fini a Perugia non si vede un punto di sblocco dall’impasse nella maggioranza. Nel suo discorso alla direzione del partito Berlusconi ha concesso ai finiani delle aperture parziali alternate ad avvertimenti precisi: da un lato infatti, dopo aver riconosciuto ufficialmente l’esistenza della terza gamba, s’è detto disponibile a un patto di legislatura dall’altro ha chiaramente evocato il voto anticipato. «Se Futuro e libertà ritenesse esaurita l’esperienza di questo governo e non intendesse andare avanti lo deve dire con chiarezza e lo deve dire subito. Noi siamo pronti a raccogliere la sfida e andare subito alle urne».

si gradi – dall’appoggio esterno al governo tecnico – anche il Pdl e Berlusconi hanno un piano, una strategia precisa per rompere l’assedio e liberarsi della spina nel fianco futurista. Si tratta d’un percorso che i berlusconiani chiamano il piano B e che scatterebbe qualora non si riuscisse a stabilire un ubi consistam con i finiani. L’obiettivo del piano sono le elezioni anticipate nella primavera del prossimo anno, da celebrare in contemporaneità con le elezioni amministrative che si terranno nelle grandi città e in 500 comuni sopra i 5mila abitanti. Fino ad allora l’asse Pdl-

Secche le repliche dal fronte finiano dei duri: per Bocchino e Granata si tratta di un discorso «deludente, scontato e fuori tempo massimo: noi siamo già entrati in una fase nuova, stiamo costruendo un’alternativa per l’Italia. Da Perugia, dove terremmo l’assise di Fli, si aprirà una pagina nuova della politica italiana» promettono sibillini. Non si capisce bene cosa significhi, probabilmente niente, formulari per prendere tempo. Fonti interne a Futuro e libertà ritengono però improbabile che Fini stacchi la spina a Perugia, come Bersani lo ha nuovamente invitato a fare. Potrebbe invece – questo si – presentare le sue dimissioni da presidente della Camera. Una mossa che lascerebbe in piedi il governo, inalterato l’equilibrio della maggioranza, che consentirebbe al leader di Fli di dedicarsi alla costruzione del partito che ha ormai fondato ma che, soprattutto, getterebbe ulteriore scompiglio nella maggioranza a tutto vantaggio del fronte finiano. Si, perché a quel punto i voti finiani sarebbero determinanti per l’elezione di un nuovo presidente della Camera sul cui nome Berlusconi dovrebbe trattare proprio con Fini. La strategia finiana continua dunque a essere quella del logoramento interno del premier, dell’equilibrismo tattico. Equilibrismo che alcuni in Futuro e libertà vorrebbero curvare a sinistra – verso una rottura definitiva con questo centrodestra – mentre altri – l’ala moderata e l’ideologo di Farefuturo Alessandro Campi, vorrebbero mantenere nel perimetro del centrodestra, avendo Fini la funzione – secondo loro – di costruire un’alternativa a Berlusconi nell’area moderata e non in alternativa ad essa. Ma se i finiani, al di la dei formulari di circostanza e della retorica attendista, hanno un loro piano d’azione che comprende anche subordinate di diver-

Bossi non pagherebbe dazio elettorale per la fine anticipata della legislatura

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Lega ha un interesse vitale a durare e resistere: il dosso da raggiungere è il prossimo gennaio, dopo che il pettine della legislatura avrà superato sia il parere della consulta sul legittimo impedimento sia i decreti sul federalismo. Superata questa mèta la Lega avrebbe il mandato di far saltare il banco, di rovesciare il tavolo, come ha più volte detto di voler fare Umberto Bossi. E potrebbe essere proprio il leader leghista a staccare la spina al governo, strappando il cerino a Berlusconi e Fini – che se lo stanno passando di mano da mesi – per incendiare finalmente le polveri. A differenza di Berlusconi Bossi non pagherebbe dazio presso il suo elettorato per questo gesto, anzi i sondaggi lo danno in continua crescita e Berlusconi potrebbe prendere atto del fatto che l’alleato leghista non ha torto a denunciare la vita grama di un governo impossibilitato a governare dal continuo stillicidio dei franchi tiratori finiani. Certo, il Pdl perderebbe al nord dai venti ai venticinque seggi in favore della Lega, un’emorragia che ha fatto parlare di fughe di massa verso i lidi d’un governo tecnico che garantirebbe la sopravvivenza parlamentare a chi, in caso di elezioni, si vedrebbe il collegio soffiato da un leghista. Ma per loro, ecco la compensazione, sarebbero già pronti dei seggi rifugio al sud: il lavoro diplomatico di contenimento sulla tentazione transfughista di molti pidiellini consisterebbe proprio nel garantire loro dei seggi paracadute.

Tamponata l’eventuale emorragia sarebbe meno facile per Napolitano trovare le condizioni parlamentari per un governo tecnico o di transizione. Ma se anche i numeri ci fossero nella maggioranza si confida in due fattori importanti. Il primo è il contesto in cui dovrebbe verificarsi la crisi. Si sarebbe infatti già in un clima di campagna elettorale per le amministrative e sarebbe difficile celebrare delle elezioni di questa importanza – si vota in grandi città – mentre si lavora a un governo tecnico. A non voler poi considerare il fatto che le consultazioni politiche potrebbero essere celebrate assieme a quelle amministrative. Nel potere di dissuasione che di nuovo la Lega potrebbe esercitare sul Colle attraverso l’accentuazione della polemica contro un governo ribaltonista e illegittimo che il nord – con due regioni a guida esplicitamente leghista – potrebbe avere anche difficoltà a riconoscere. Se la chiave d’accensione di questo piano B. verrà girata dipende naturalmente da quello che avverrà in queste settimane se non in questi giorni. Ad oggi non sembra l’ipotesi più improbabile.

la «cabina di regia» e la momentanea giubilazione di Tremonti: «O io o lui», minacciò. Nel 2006, infine, insieme a Casini costringerà il premier ad andare alle elezioni con «l’attacco a tre punte», senza concedergli cioè un preventivo riconoscimento della leadership. E siamo praticamente all’oggi. Nel 2007 i rapporti tra i due sembrano al minimo storico. Berlusconi sogna una manovra di palazzo per disarcionare Prodi e si lamenta degli avversari: «La Cdl ormai è un’ectoplasma», dirà. Conseguentemente, a dicembre, il Cavaliere sale sul predellino e Fini s’incazza di brutto: «Questo non ha niente a che fare col teatrino della politica: significa essere alle comiche finali». Qualche mese dopo, come si sa, cambierà idea: «È cambiato il patto politico - spiegò - Tutto quello che stiamo costruendo fa parte di un progetto condiviso».

È il 2008 e l’ex capo di An sceglie per sé, dopo la vittoria elettorale, la presidenza della Camera: a chi gli chiede perché non sta al governo risponde «quello non lo voglio vedere più». Il nostro, però, non resiste al richiamo della politica attiva: comincia con qualche proposta minoritaria come il voto agli immigrati o difendendo il ruolo del Parlamento umiliato dal governo con “l’anomalo” numero di voti di fiducia. Poi il ritmo si fa serrato. A marzo 2009 parla di “rischio cesarismo” nel Pdl, critiche ribadite in maniera assai più morbida qualche settimana dopo, al congresso fondativo del partito. A maggio è Silvio ad assestare il colpo: «Fini? Cerca visibilità, il ruolo istituzionale gli sta stretto». A dicembre, Fini incappa in un fuorionda malandrino in cui conversa col procuratore di Pescara Trifuoggi: «Berlusconi confonde la leadership con la monarchia». Seguono le fortunate, per il centrodestra, elezioni regionali di marzo e la delusione del presidente della Camera, che aveva puntato tutto sulla sconfitta. Fini agisce in preda alla rabbia: «Mi sono pentito», scandisce in un colloquio col premier a Montecitorio, «penso di fare gruppi autonomi in Parlamento». Il 22 aprile è il giorno del grande spettacolo alla Direzione nazionale del Pdl: «Vuoi fare queste dichiarazioni? – scandisce dal palco Berlusconi - Falle da uomo politico nel partito e non da presidente della Camera». E quello, col dito alzato, dalla platea: «Perché? Che fai? Mi cacci?». Non proprio, ma quasi: a luglio la quasi purga staliniana si concretizza con il documento in cui si definiscono le posizioni di Fini «incompatibili» col Pdl. Siamo a Futuro e Libertà, ai due che si ignorano ostentatamente anche nelle occasioni ufficiali. Fino a ieri, quando finalmente il fidanzatino e Silvio si sono parlati di nuovo.


diario

pagina 6 • 5 novembre 2010

Oltre l’imbarazzo. Berlusconi alla Direzione del Pdl vanta le politiche familiari del suo governo e si prepara alla Conferenza di Milano

«Famiglie, scandalizzati dai tagli»

Il Forum del Terzo settore denuncia la consistente riduzione delle risorse ROMA. Senza imbarazzi Sil-

nel convegno organizzato dal Partito democratico dal titolo “Una politica oltre gli slogan”. Per Giuseppe Fioroni, responsabile del Forum Welfare, «chi utilizza i valori come specchietto per le allodole, affidandosi solo alle prediche e non alle pratiche, alla fine non può che essere incoerente anche nel suo ruolo pubblico. E infatti i numeri non mentono. C’è chi propone di continuo slogan a favore dalla famiglia e dei valori su cui si fonda, ma poi li smentisce nei fatti, nei comportamenti pubblici e in quelli privati che riguardano solo l’interessato». Andrea Olivero, portavoce del Forum del Terzo settore, è ancora più esplicito: «Il cattivo esempio imbarazza, ma aggiungo che il taglio del fondo della famiglia ci scandalizza. Chiediamo quindi al presidente del Consiglio e al governo un cambio netto di linea prima di lunedì, cioè prima dell’avvio della Conferenza nazionale sulla famiglia. Chiediamo alla politica di agire politicamente in maniera coerente, basta con le dichiarazioni d’intenti».

di Franco Insardà

vio Berlusconi ha spiegato ieri alla Direzione nazionale del Pdl che «la difesa della vita e della famiglia è al centro della nostra azione». E non contento ha aggiunto senza fare una piega «che al centro di tutto noi mettiamo la famiglia». Senza alcun tentennamento il premier ha poi rivendicato l’attenzione che il suo esecutivo pone alla bioetica, basata sulla «tutela della dignità persona, l’accoglienza della vita, il necessario collegamento tra scienza ed etica». Sottolineando anche come la riforma del fisco terrà conto del «sostegno alla natalità e della consistenza del nucleo familiare». Un Berlusconi proiettato sulla famiglia che, con un colpo di spugna, vorrebbe cancellare tutto quello che è successo nell’ultima settimana, proteso alla “Conferenza nazionale della famiglia: storia e futuro di tutti”che si svolgerà a Milano dall’8 al 10 novembre.

La partecipazione del premier all’appuntamento milanese, organizzato proprio dalla presidenza del Consiglio, terrà sicuramente banco nei prossimi giorni, ma sta già agitando le acque, anche nel Pdl. In molti il ricordo della grande manifestazione del Family day è ancora vivo, così come tutti i proclami fatti in campagna elettorale a sostegno delle famiglie. In privato molti parlamentari azzurri, infatti, non nascondono le loro perplessità e gli imbarazzi per le ultime performance del premier. Alcuni stanno seriamente progettando un’uscita dal partito per approdare prima nel gruppo misto e, poi, in compagini più tranquille e rassicuranti per le loro coscienze. Oltre al gossip pesano molto, al di là dei proclami ribaditi anche ieri alla Direzione del Pdl, le effettive azioni del governo che fino a oggi hanno penalizzato le famiglie e, come sottolineava recentemente anche il quotidiano della Cei Avvenire, ha tagliato i fondi alle scuole paritarie cattoliche con la Finanziaria 2010. Dal fronte berlusconiano il sottosegretario Carlo Giovanardi, intervenendo a “24 Mattino” su Radio 24, si è lasciato andare a un «da amico gli direi: tieni un atteggiamento diverso. Più sobrio. È sempre difficile dire a una persona di comportarsi in un certo modo

e vanno anche verificate tutte le voci di questi giorni, ma non ho difficoltà a dire che un atteggiamento meno esibito sicuramente servirebbe a lui, per sottolineare il fatto, vero, di impegni massacranti quotidiani: l’esibizione dei momenti in cui stacca fatta in questa maniera è controproducente». aggiungendo subito dopo: «La presenza del presidente del Consiglio è dovuta». Giovanardi condivide l’allarme lanciato dal presidente del Forum delle associazioni familiari, Francesco Belletti, secondo il quale la presenza di Berlusconi rischia di distogliere l’attenzione dai temi del convegno: «Sono d’accordo spero che prevalgano i problemi seri rispetto alle situazioni personali. Non discuto che le vicende del premier siano oggetto di polemica politica. Ma l’importanza dei temi discussi va al di là dell’attualità. La presenza del presidente del Consiglio è dovuta».

Il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, conferma la presenza di Berlusconi e aggiunge: «L’imbarazzo dichiarato dal Forum delle Associazioni dei familiari è stato mal interpretato. Credo infatti che abbiano parlato di

imbarazzo in senso generale per le vicende di questi giorni, non certo per la presenza del premier». Anche Maurizio Lupi, in un’intervista al Corriere della Sera, ritiene che «Berlusconi deve andare, la Conferenza di Milano è uno dei momenti più importanti dell’azione di governo. La sua presenza non è solo opportuna, è doverosa. La più alta autorità del governo deve dire come traduce in azioni concrete il sostegno al-

verno convochi la Conferenza Nazionale della Famiglia e al tempo spesso si accinga a effettuare nuovi consistenti tagli alle risorse destinate alle politiche sociali e quindi alle famiglie». Secondo il Forum del Terzo settore il Fondo politiche per la famiglia nel 2011 viene ridotto a meno di un quinto rispetto al 2008, passando dai 276 milioni di euro a soli 52 milioni e vengono drammaticamente ridotte anche le risorse per il Fondo na-

I berlusconiani assicurano la presenza del premier all’appuntamento. E Carlo Giovanardi gli consiglia: «Un atteggiamento più sobrio» le famiglie, uno dei cinque punti chiave». Per Lupi difendere la famiglia è «un dovere di qualunque politico, laico o credente, peccatore o non peccatore, sposato o divorziato. La famiglia non è un punto fondamentale in base alla propria coerenza, ma in base alla società. Chiunque è chiamato a governare deve sostenerla».

Di diverso tenore la posizione del coordinamento del Forum del Terzo settore: «Al di là di ogni altra considerazione ci sembra sconcertante che il go-

zionale delle politiche sociali, il Fondo per le attività sociali per le Regioni, il Fondo non autosufficienze, il Fondo per le politiche giovanili, il Fondo diritto al lavoro dei disabili, il Fondo inclusione dei Migranti. Non va meglio per altri settori: in caduta libera anche le risorse destinate al Servizio Civile Volontario (che passano dai 300 milioni del 2008 ai 170 milioni del 2010 e ai 113 milioni del 2011) così come quelle destinate alla Cooperazione allo Sviluppo (scese a 179 milioni). Dati confermati anche

Una posizione sostenuta anche dal settimanale Famiglia cristianache nell’editoriale dell’ultimo numero sostiene le posizioni del Forum delle Associazioni Familiari e in particolare il «Fattore Famiglia, ossia la proposta di detassazione dei redditi delle famiglie con figli, ma anche interventi a favore del lavoro dei giovani, politiche di integrazione per gli immigrati, sostegno alle donne e ai genitori nella conciliazione tra famiglia e lavoro, aiuti adeguati per le fatiche dei nuclei con disabili o anziani a carico». E questa mattina il comitato editoriale della rivista L’Ago e il Filo (Marco Follini, Stefano Graziano, Roberto Rao, Bruno Tabacci) presenterà i dati del sondaggio, realizzato in esclusiva da Ipr Marketing per il numero di novembre, proprio sulla famiglia. «Un sondaggio dal quale emerge», dice Antonio Noto, direttore del centro di ricerca, «che le giovani mamme italiane fanno i salti mortali soprattutto grazie all’aiuto fornito dalla rete di protezione familiare. Se non ci fossero i nonni, i fratelli, le sorelle, gli amici, sarebbe difficile conciliare lavoro e famiglia».


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5 novembre 2010 • pagina 7

Una ricerca dell’Istat sulla soddisfazione economica

La decisione dopo la bufera scatenata dall’annuncio di Morandi

Gli italiani continuano a «sentire» la crisi

Sanremo, no del cda Rai a “Bella Ciao” e “Giovinezza”

ROMA. Nei primi mesi del 2010,

ROMA. No dal cda Rai all’ese-

la percentuale di persone di 14 anni e più che si dichiara molto o abbastanza soddisfatta della propria situazione economica è pari al 48,4%, una quota però inferiore a quella di quanti si dichiarano per niente o poco soddisfatti (49,3%). Rispetto al 2009 cresce leggermente la quota di chi si dichiara abbastanza soddisfatto (dal 44,3% al 45,5%), mentre la percentuale di quanti riferiscono di essere molto soddisfatti resta sostanzialmente invariata (2,8%). Specularmente, si riduce il peso degli individui insoddisfatti. È quanto emerge dall’Indagine Multiscopo dell’Istat «Aspetti della vita quotidiana», condotta nel mese

cuzione di Bella ciao e Giovinezza sul palco del Teatro Ariston nella serata di Sanremo 2011, che dovrebbe celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia. Dopo le polemiche scatenate dall’annuncio fatto due giorni fa da Gianni Morandi, il consiglio di amministrazione Rai ieri ha fatto sapere in una nota che «sarebbe stato utile evitare di affrontare, in modo troppo superficiale, questioni così delicate che riguardano la storia del nostro Paese». «La ricerca del clamore rischia di causare un danno complessivo all’immagine dell’Azienda», osserva il cda, invitando il dg Mauro Masi a intervenire con il direttore di Rai 1, Mauro Mazza, «nell’ambito delle sue competenze affinché nell’organizzazione della serata dedicata ai 150 anni dell’unità d’Italia si proceda in modo serio e responsabile e quindi con criteri diversi».

Napolitano rilancia il giorno della vittoria «Unità nazionale più importante delle liti politiche» di Gabriella Mecucci

di febbraio 2010. Nel Nord la quota di residenti che sono soddisfatti della propria situazione economica è pari al 55%, mentre scende al 49,8% nel Centro e al 38,6% nel Mezzogiorno. La quota di individui insoddisfatti, invece, è pari al 42,6% nel Nord, al 47,5% nel Centro e al 59,5% nel Mezzogiorno. La percentuale di famiglie che giudicano la propria situazione economica sostanzialmente invariata rispetto all’anno precedente è significativamente più elevata di quella rilevata nel corrispondente periodo del 2009 (51,5% rispetto a 44,9%).

ROMA. Il Presidente della Repubblica ha fatto leva sulla grande forza evocativa del Quattro novembre per riproporre due concetti fondamentali. Il primo riguarda il valore supremo dello stato nazionale unitario che, «nato 150 anni fa, deve restare punto di riferimento e continuità per tutti i cittadini, aldilà di ogni tensione politica e di ogni fase critica, sulla base dei principi e delle istituzioni di cui la Costituzione ci ha offerto compiuto disegno». Il secondo è quello del grande valore dell’impegno del nostro esercito nelle missione di pace all’estero,a partire dall’Afghanistan. Il Presidente ha insomma toccato i due temi più importanti di politica interna (difesa dell’unità nazionale) e di politica estera (vittoria sul terrorismo,e pace giusta. La data per riproporre queste due grandi questioni è ben scelta. Il Quattro novembre rappresenta infatti prima di tutto il compimento dell’Unità nazionale con la conquista di Trento e Trieste. La prima guerra mondiale segnò l’ingresso nella storia delle grandi masse, quelle che prima ne erano fuori. Che gli stati liberali, che pure avevano consentito grandi progressi, tenevano alla porta. Il sacrificio di tanti, fece conquistare a coloro che sopravvissero il diritto ad esserci.

I riferimenti dunque di Giorgio Napolitano sono quanto mai opportuni. Frutto di un’attenta riflessione che parte dalle contraddizioni dell’oggi per riattualizzare il valore della ricorrenza del quattro novembre. Non è inutile ricordare che grazie al precedente Presidente della Repubblica, e cioè Carlo Azeglio Ciampi, è stato rilanciata dalla più alta carica dello stato l’idea di patria. E che le nostre Forze armate, proprio nelle missioni di pace all’estero, hanno onorato la patria con un comportamento coraggioso ma mai bellicista. Sempre improntato al dialogo con le popolazioni del luogo, all’aiuto, alla costruzione di una via d’uscita pacifica. Proprio per questo oggi il Presidente Giorgio Napolitano sa di poter contare in un riconquistato sentimento nazionale che è il più forte antidoto contro i deliri secessionisti. Dalla grande vittoria del Quattro novembre del 1918 nacquero cattive mitologie e spinte nazionalisticoaggressive. Il paese finì preda di intelligenti demagoghi e di ideologie totalitarie. Il fascismo, dopo,averlo tanto esaltato, in realtà fu responsabile della sepoltura dell’dea di patria. La sua fine lasciò sul terreno un’Italia sconfitta e spezzata. La battaglia per riunificarla allora venne vinta. Oggi, per fortuna, quei drammatici momenti sono lontani: non c’è più miseria, né scorre il sangue dei vinti. Ma i temi che evoca il Quattro novembre parlano anche ai contemporanei: gli indicano limiti ed errori da non compiere mai più.

Intanto, ieri mattina Morandi ha già risposto alle polemiche ai microfoni di Gr24: «Io e Mazzi rivendichiamo l’autonomia artistica nella scelta delle canzoni della serata del giovedì», ha detto il conduttore del Festival, che, nel “day after”, ha realizzato tutta una serie di interviste per chiarire il significato della proposta. Ai microfoni dell’Alfonso Signorini Show di RMC Morandi ha dichiarato: «Mi piacerebbe poter aprire la

«Le missioni militari sono un dovere contro la minaccia del terrorismo», dice celebrando il Quattro novembre

Questi risultati segnalano un consolidamento della tendenza già emersa nel 2009. Infatti: dopo l’incremento della percezione di peggioramento registrato nel 2008, la condizione soggettiva è rimasta stabile. Dal punto di vista territoriale, si può osservare come siano le famiglie residenti nel Centro a riportare una più frequente percezione di stabilità (il 53,7% afferma che la propria situazione economica è rimasta più o meno invariata, contro il 51% delle famiglie residenti nel Nord). Al contrario, la quota di famiglie che denunciano un peggioramento significativo della propria condizione è più elevata al Sud.

fronte al fenomeno da loro stesse innescato, la sinistra non comprende la portata del cambiamento che sarebbe necessario, e si lascia strappare dal nazionalismo e dal fascismo l’identificazione popolare ambivalente ma tuttavia forte con la guerra e con la vittoria. Questa doppia incapacità consentirà l’aprirsi di una profonda lacerazione che sta all’origine dell’avvento del fascismo. Il Quattro novembre, dunque, da una parte richiama il raggiungimento dell’unità nazionale, in anni recenti troppo spesso irrisa o addirittura minacciata, e dall’altra evoca anche tutto ciò per cui occorre adoperarsi affinchè dopo la guerra si prepari una pace vera, innervata nella democrazia.

Il Quattro novembre è per l’Italia una data che si colloca in un crinale: da una parte c’è la vittoria che consente la costruzione dell’Unità nazionale e dall’altra c’è l’apertura di una grande contraddizione. Lo Stato liberale non sa più contenere le masse che premono per contare di più, ora che sono diventate protagoniste riconosciute della storia. Le classi dirigenti, che pure avevano voluto la guerra non solo come compimento irredentista ma anche per fare dell’Italia una grande potenza, non sono in grado di gestire le speranze, le illusioni, le esasperazioni che la guerra alfine vittoriosa ha creato. I giovani del 1915 non sono gli stessi di quelli del dopo Vittorio Veneto. L’esperienza della ferocia in trincea, il lutto profondo per i compagni perduti hanno acceso un’ebbrezza nazionalista che diventa esplosiva proprio al momento della vittoria. A questo va aggiunto che, se le classi dirigenti liberali non sanno far

serata del giovedì con il Canto degli Italiani, che è il nostro inno, l’inno di Mameli». Mentre durante l’intervento al programma 105&Friends di Radio 105 il conduttore di Sanremo 2011 ha detto:’ «Porteremo due canzoni per artista, una nuova e una dei 150 anni d’Italia. Da lì è nata la polemica perché io ho citato Bella Ciao e Mazzi ha ribattuto Giovinezza. Ma, per dire, mi piacerebbero anche la Canzone del Piave o Addio Lugano Bella, che era la canzone degli anarchici. E non credo che canzoni di più cento anni fa dovrebbero farci paura».


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pagina 8 • 5 novembre 2010

Midterm. Ecco il “non partito” che ha stravinto. In nome della libertà e contro il modello europeo

Tea Party? Sì, grazie Vi spiego perché milioni di persone vogliono mandare via Obama di MIchael Novak

WASHINGTON. Non credo proprio che quello che martedì si è verificato negli Stati Uniti sia mai successo in Europa. A dirla tutta, è un fatto assolutamente straordinario anche per l’America. Solo dopo due anni di mandato, nessun Presidente nella storia statunitense era mai stato screditato dai suoi elettori in modo così clamoroso come quanto successo a Barack Obama. Quando, nel 1994, il partito dell’allora presidente Clinton perdette 52 seggi alla Camera, sembrò un dato sorprendentemente alto. E invece solo due giorni fa i Democrats hanno lasciato sul terreno qualcosa come 70 poltrone alla House of Representative (il braccio del nostro sistema parlamentare più vicino al popolo Usa), e almeno 6 al Senato. Potendo però confidare su alcuni Democratici di stampo conservatore al Senato, è possibile prevedere che il Gop possa contare su una maggioranza utile a far procedere i lavori, anche se non arriverà mai ai due terzi necessari per contrastare un veto. Dopo solo due anni, dunque, il Presidente ha persuaso molti milioni di americani di voler far assomigliare gli Stati Uniti ai Paesi europei e di voler traghettare gli Usa verso il welfare state. Un modello che il popolo americano odia, anche solo nel nome, e al quale, semplicemenete, si è ribellato. Ciò che più colpisce di questa tornata elettorale è la crescita di un enorme movimento popolare, che allo stato dell’arte non ha nemmeno un leader nazionale. Un movimento nato spontaneamente sull’onda di un rifiuto: quello di perdere il Paese che i nostri Padri fondatori (Washington, Adams, Jefferson e molti altri) hanno costruito solidamente basandolo su dei principi certi ed eterni.

dell’ala più a sinistra, ha portato Obama a riempirsi la bocca di paccottiglia e alla bene e meglio spostarsi verso un modello europeo. È solo che non ha potuto proseguire oltre questa sua corsa. Non avrebbe potuto in un Paese così profondamente whig. (In America whig indica il “partito della libertà”, il partito della libertà personale, dell’opportunità economica e della creatività della persona, il partito dichiaratamente esposto a difendere la libertà). La predisposizione whig in America è sempre stata sospettosa del governo, visto come la fonte della maggior parte degli abusi sui diritti umani, come inefficiente, come portavoce di un baratro di corruzione. I Whigs, confluiti dopo il 1858 nel nuovo partito Repubblicano, divennero il partito capace di abolire la schiavitù. È il partito dell’individuo, ma non in senso atomizzato: non parla dell’uomo solo, ma della sua capa-

La riscoperta dei principi dei Padri fondatori e la capacità di battersi contro il declino morale sono l’arma condivisa del movimento. Per questo non serve un leader

Principi sulla dignità e responsabilità davanti a Dio di ogni singola donna e di ogni singolo uomo, su un’economia libera dal controllo statale (ma non necessariamente da una regolamentazione centralizzata), e sul diritto universale di ogni cittadino di avere l’opportunità di realizzarsi a seconda del suo talento e della sua capacità di lavoro. Il presidente Obama ha giurato obbedienza a questi principi, ma il suo cuore non li sente. Piuttosto, egli crede nel governo, un governo nazionale, un governo centrale, nazionale e potente. Il resoconto di questi due anni alla Casa Bianca è repellente, e molti, moltissimi americani si sono semplicemente rifiutati di marciare in quella direzione. I Democratici hanno controllato ogni cosa in questi due anni e la loro leadership, rafforzata dall’entusiasmo

cità di cooperare liberamente con gli altri cittadini. Il Tea Party è un incredibile movimento cooperativo, una comunità amichevole di responsabilità civile. Il nome Tea Party è stato scelto pensando a quei liberi cittadini di Boston che il 16 settembre 1773 protestarono contro il governo britannico per aver aumentato le tasse sul the. La loro fu una ribellione drammatica e brillante, nella quale venne ribadito un concetto fondamentale: “niente tasse senza il consenso dei tassati”. Questo è il simbolo che ha infiammato l’immaginazione di milioni e milioni

di americani a partire dagli ultimi due anni. Nessun partito politico ha sponsorizzato questo movimento. Nessun leader nazionale lo ha incoraggiato o guidato.Tuttavia, al momento del voto del 2 novembre, più del quaranta per cento degli americani ha dichiarato di partecipare o sostenere il movimento. Ha raccolto milioni di dollari da milioni di persone che hanno versato meno di 100 dollari a testa. È stato abbastanza saggio da non dare vita ad un nuovo partito politico e da non unirsi al partito Repubbicano, piuttosto ha fatto il possibile per far uscire allo scoperto ogni politico, non importa quanto fosse trincerato, che sosteneva il tentativo del presidente Obama di abbandonare i fondamentali principi politici americani al fine di trasformare gli Stati Uniti in un’imitazione del sistema europeo. Questo tentativo ha

provocato l’indignazione di molti americani e li ha stimolati a ribellarsi ad esso. I milioni di elettori che hanno votato Obama nel 2008 sono diventati più “politicamente attivi” di quanto lo siano mai stati prima. Hanno lanciato il movimento del tea party da circoli locali, da semplici quartieri fino a livelli sempre più alti: città, stati e nazione.

Gli elettori che non si sentivano né Repubblicani né Democratici (i cosiddetti “indipendenti”), due anni fa avevano votato per Obama. Il 2 novembre almeno il 20 per cento lo ha abbandonato. Secondo l’ultimo sondaggio Gallup prima delle elezioni, il 55% degli intervistati votava per i Repubblicani, solo il 40% per i Democratici. È la più alta percentuale nell’intera storia dei sondaggi Gallup da generazioni. A sinistra, Sarah Palin durante un comizio dei Tea Party. Per Michael Novak, il movimento è il frutto di un incredibile scatto di reni del popolo Usa in nome della responsabilità civile. Secondo un sondaggio oltre il 40% dei cittadini lo appoggia e, in parte, lo finanzia


mondo

5 novembre 2010 • pagina 9

L’opinione di Larry Sabato, direttore del Centro Studi della Virginia University e guru di Crystalball

La politica americana da oggi è un grande ingorgo «Il Gop controlla la Camera, ma al Senato non gli faranno passare nemmeno una legge». Barack tende la mano, ma non fa sul serio di Martha Nunziata nche se non utilizza il volo degli uccelli come gli antichi auguri, Larry Joseph Sabato, 58enne direttore del Centro per gli Studi Politici dell’Università della Virginia, è uno che ha molta dimestichezza con le previsioni del futuro. Conosciuto anche come “il professore più citato d’America”, Sabato si è costruito la fama di veggente politico riuscendo a prevedere, negli ultimi dieci anni, oltre il 90% dei risultati elettorali. Il suo sito di analisi politica è in linea con le sue attitudini: si chiama “la sfera di cristallo” (www.centerforpolitics.org/crystalball), ed è un punto di riferimento assoluto per tutti gli analisti politici degli States, e non solo. Nel 2004 Sabato centrò 525 risultati su 530, tra Camera, Senato, Governatori e Presidente e nel 2008 assegnò ad Obama solo un voto in meno (364) di quelli effettivamente ricevuti dai grandi elettori. Le previsioni di quest’anno, ovviamente, non hanno fatto eccezione, con la sconfitta dei Democratici largamente prevista e analizzata nei minimi particolari (ha sbagliato di appena 5 seggi alla Camera), anche se, per sua stessa ammissione, le elezioni di Midterm sono sempre molto particolari «perchè il pendolo della politica oscilla sempre tra destra e sinistra, e ultimamente in America sembra farlo con più alternanza che altrove» (Pendulum swing è il suo ultimo libro, di prossima pubblicazione, ndr). Con il professor Sabato abbiamo analizzato il voto americano e le sue ripercussioni sulla presidenza Obama. Professore, qual è il suo commento sulle elezioni di Midterm? Quale sarà, adesso, lo scenario politico nel quale si muoverà il presidente Obama? Credo che i prossimi due anni della politica americana assomiglieranno ad un gigantesco ingorgo di traffico, con il partito repubblicano che controlla la Camera e i Democratici, al Senato, che non faranno passare nessuna delle loro iniziative. E con Obama alla Casa Bianca, ogni tentativo Repubblicano di perseguire un obiettivo di stampo conservatore andrà incontro al veto presidenziale, senza alcuna chance di essere a sua volta ribaltato. Questo è lo scenario col quale dovremo fare i conti per i prossimi ventiquattro mesi. Obama si è preso tutte le colpe della sconfitta e ha detto che cercherà il dialogo con i Repubblicani alla Camera: è un segno di debolezza o di buon senso? E i Repubblicani lo accoglieranno o faranno ostruzionismo? Con questo risultato elettorale, è politicamente necessario per il Presidente cercare il dialogo con i Repubblicani: anzi, è l’unica strada per cercare di portare a compimento qualche iniziativa nei prossimi due anni. E il fatto che entrambi i partiti abbiano perso, in questo turno elettorale, diversi rappresentanti moderati, sia alla Camera che al Senato, rende il compromesso assolutamente necessario: l’unico modo per evitare che ogni proposta si risolva in una controversia politica, con nessuna possibilità di essere approvata. Obama, perciò, dovrà scendere a patti con i Repubblicani, che però devono fare i conti con i Tea Party: il sistema americano, adesso, assomiglia di più a quello europeo? Il sistema americano ha sempre avuto, in realtà, diversi

A

Il più importante voto “oscillante” nella politica americana è quello dei cattolici: un bacino di 25 milioni di elettori. Gli elettori in bilico sono quelli che votano regolarmente, elezione dopo elezione, ma non sempre danno la loro maggioranza ad un partito, piuttosto di volta in volta “oscillano” leggermente da un voto ad un altro. Al contrario, la maggior parte dei protestanti è sempre stata repubblicana, la maggior parte degli ebrei ha sempre votato per i democratici. Secondo un rapporto quest’anno il 58% degli elettori cattolici ha votato per il partito della libertà, solo il 40% per il partito del governo. Invece solo due anni fa gli stessi si fecero incantare da Obama regalandogli 8 punti in più del loro voto rispetto a quanti ne avevano dati a McCain (il repubblicano). Negli ultimi anni mi sono chiesto quanto ancora Dio continuerà a“benedire l’America”, quel paese così a lungo favorito dalla Provvidenza. Perché la cultura dei mass media, i film, i giornali ostentati, i discorsi pubblici (anche nelle chiese) sembrano diventati sempre più decadenti, privi di moralità, relativisti. Questa “supercultura”dei media sovrasta la nazione come un miasma di smog morale. Al di sotto, grazie a Dio, ci sono ancora decine di milioni di persone che intendono resistervi. Questa è la speranza dell’America oggi. Sta venendo fuori dalle persone non ancora affette dal declino morale delle nostre élite. Le elezioni del 2010 hanno significato una rivoluzione morale, culturale molto più profonda di una rivoluzione politica.Vedremo quanto riesce a durare, a crescere e rafforzarsi. O vedremo se, come succede a molti movimenti, si autodistruggerà. Però, se non puoi più benedire l’intera nazione, per favore Dio, «benedici il movimento Tea Party».

punti di contatto con quello europeo, ma il modo di fare politica, negli Stati Uniti, è sempre stato distinto, e resterà comunque diverso da quella europeo, nonostante l’influenza del Tea Party. Un’influenza che sarà significativa quando il partito repubblicano dovrà formare una coalizione per permettere, ad esempio, l’approvazione di una legge, rendendo necessaria, e inevitabile, da parte dei loro leader, la ricerca di un compromesso con i rappresentanti del Tea Party regolarmente eletti. Ma il loro tentativo, coraggioso, di far recedere il Governo in tema di tasse, in definitiva, non avrà successo.

I Repubblicani si spenderanno per mantenere la loro maggioranza, ma non essendo riusciti a riconquistare l’altro ramo del Parlamento, si vedranno porre il veto su ogni tentativo di scavalcare i Democratici

Quanto incideranno queste elezioni sui processi di riforma avviati da Obama e sull’economia americana? In termini di agenda politica presidenziale già avviata negli scorsi due anni, non vedo molte possibilità di revoca per iniziative come la riforma sanitaria o lo “stimulus”finanziario. I Repubblicani saranno concentrati esclusivamente a mantenere la loro maggioranza di una ventina di seggi alla Camera, ma non essendo riusciti a riconquistare il Senato, si vedranno porre da Obama il veto su ogni tentativo di scavalcare i Democratici, e non avranno, semplicemente, i numeri per ribaltare questo veto. Professor Sabato, Obama ha sostenuto il rientro delle truppe dall’Afghanistan, ma i Repubblicani su questo punto sono in disaccordo: cosa succederà? La questione delle truppe americane in Afghanistan è stata spostata, dal punto di vista politico, almeno fino alla campagna per le elezioni presidenziali del 2012. Il presidente Obama, nonostante il suo desiderio di riportare a casa i nostri militari, ha preso un impegno con il governo afghano: per questo motivo la questione del ritiro americano dall’Afghanistan non tornerà d’attualità se non quando i Repubblicani avranno scelto il loro candidato alla presidenza, all’inizio del 2012.


panorama

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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Al Sud c’è solo la classe «digerente» e secessioni sono due. Quando parliamo di secessione pensiamo al Nord e alla Lega, ma ieri Angelo Panebianco nel fondo del Corriere della Sera si è soffermato su «l’altra secessione» che non riguarderebbe il Nord bensì il Sud. Anche nel Mezzogiorno si metterebbe in discussione l’Italia unita ma al Sud la secessione avrebbe solo un carattere culturale e, per assenza di un’autonoma forza economica, le farebbe difetto l’azione politica. Le classi dirigenti meridionali sarebbero le prime a divulgare da sempre una lettura acritica del processo di unificazione dell’Italia e su questa base a gestire una politica fatta di rivendicazioni e di risarcimenti per i danni subiti con Cavour, l’invasione di Garibaldi e l’annessione al Piemonte. La lettura di Panebianco, che sul tema in verità è intervenuto più volte, non è sbagliata e, anzi, è condivisibile. Semmai, ciò che non si trova nella tesi dell’editorialista, se non parzialmente, è la risposta alla domanda sul perché le classi dirigenti meridionali raccontano il Risorgimento e l’età postrisorgimentale come un inganno perpetrato dal Nord ai danni del Sud.

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L’ultima moda nel Pd? La vocazione harakiri La fronda di Renzi è l’ultimo di una lunga serie di veti incrociati di Antonio Funiciello

Si tende con naturalezza a manipolare il passato prossimo e il passato remoto della storia d’Italia perché la classe dirigente meridionale è una classe digerente. Ciò che è avvenuto al Nord, ossia un ricambio del ceto politico e amministrativo, nonché il bisogno di recuperare una buona gestione degli enti locali e offrire servizi più efficienti a cittadini e aziende, non è mai accaduto al Sud. Le classi dirigenti meridionali, sia quella politica sia quella amministrativa (che è la più importante), sia quella locale sia quella parlamentare, perpetuano se stesse attraverso successioni dinastiche. Non solo nelle professioni, ma anche in politica ai padri subentrano figli e nipoti. Insomma, il ricambio politico al Sud non è facile e, anzi, è quasi impossibile perché la stessa società civile concepisce, non senza convenienza, il ceto politico come una sorta di casta a cui è affidato il compito di occuparsi della politica che per definizione è fatta di “affari sporchi” dai quali le persone perbene stanno alla larga. Così le classi dirigenti digeriscono tutto: terremoti, bancarotte finanziarie, disservizi, collusioni, malasanità, rifiuti. Non c’è scandalo che non sia possibile mandare giù e digerire quando la classe dirigente si può concedere il lusso di essere irresponsabile perché sul piano locale è senza alternativa e sul piano nazionale confida nell’accomodamento e nella mediazione. Proprio qui, però, c’è il grande tallone d’Achille della classe digerente meridionale: per ragioni storiche e politiche - che si faccia o no il federalismo - la mediazione non è più possibile. È necessario essere virtuosi. La virtù, però, ha la sua fonte nella verità. La secessione culturale meridionale dall’Italia è un danno che il Sud infligge prima di tutto a se stesso perché la crescita civile del Mezzogiorno è storicamente e politicamente legata all’idea di Unità.

a che vuole Matteo Renzi? Bersani non riesce proprio a capirlo e, con lui, l’intero gruppo dirigente del Pd. A niente è servito il caffè dell’altro ieri e in soccorso a Bersani e all’ostilità del quartier generale del Pd contro Renzi è accorso addirittura Veltroni, sostenendo che «la sfida del cambiamento viene dai programmi e dalle scelte politiche», non dal mero ricambio generazionale. È una virtù indubbia di Renzi quella di riuscire a conciliare gli opposti: già all’epoca delle primarie fiorentine mise d’accordo, contro di lui,Veltroni e D’Alema. Il primo, contro Renzi, candidò alle primarie fiorentine Lapo Pistelli; il secondo, il suo fedelissimo Ventura. E Renzi ne fece piazza pulita. Cosa che s’incarica di fare, a partire da questo week end, anche con la vecchia classe politica del Pd durante la prima convention dei rottamatori. Dal Nazareno, a intervalli regolari, decolla la contraerea stalinista, che ha cominciato a raccontare dell’intenzione di Renzi, d’accordo con Fioroni, di sfidare Bersani alle primarie del centrosinistra per la scelta del leader della nuova alleanza anti-berlusconiana. Di questi tempi non c’è niente di peggio per gli ex Ds che egemonizzano il Pd di accusare qualcuno di essere amico di Fioroni. Così si sta provando a cucire addosso a Renzi, il trockista, l’abito sporco del disfattista, che in un momento di difficoltà per la famigerata ”ditta”(metafora industrialista del Pd assai cara a Bersani) soffia sul fuoco che brucia. Vecchia scuola comunista, si dirà. E, nei metodi, senz’altro si rivedono stalinismi di vecchia maniera. Come quello che ha convinto il vertice nazionale del partito a convocare negli stessi giorni della kermesse rottamatrice di Firenze, l’assemblea di tutti i coordinatori dei circoli del Pd a Roma. Che, a differenza dei rottamatori fiorentini, avranno ovviamente i biglietti per raggiungere la capitale e tornare a casa rimborsati dal partito.

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ni (Ipsos, Mannheimer) sul voto anticipato, secondo le quali il Pd di Bersani, se si andasse a votare a marzo, vedrebbe letteralmente dimezzati i suoi deputati del gruppo camerale. E tale gravoso sacrificio non verrebbe neppure compensato dalla vittoria della grande alleanza ipotizzata da Bersani, bloccata al centro da un terzo polo in grande spolvero, ma soprattutto sconfitta per l’ennesima volta da Pdl e Lega. Nonostante la crisi evidente della leadership berlusconiana. Bersani ha ormai intorno a sé una maggioranza amplissima nel partito: almeno 150 deputati del gruppo Pd alla Camera sono oggi sostenitori del segretario. Ebbene, la metà è destinata dire addio a Montecitorio, proprio grazie alla strategia del segretario democratico. E la metà eletta, a meno che il progetto rottamatore renziano non ottenga subito risultati, sarà composta dai soliti nottissimi nomi.

In un momento in cui il partito va a picco nei sondaggi, le sue iniziative dovrebbero essere il più possibile unitarie

Cui prodest? Difficile dirlo. In un momento in cui il Pd scende a picco nei sondaggi, il successo di tutte le sue iniziative dovrebbe essere unitariamente auspicato e favorito, se non da una fittizia concordia interna, per lo meno da una più cinica tregua. La zuffa, invece, continua. Non giovano a chetarla le simulazio-

È in questa ferita aperta sul corpo eterizzato del Pd che si situa l’offensiva renziana e, anche in virtù di tali realistiche e catastrofiche previsioni, è destinata ad avere successo. Renzi non ha al momento intorno a sé grosse fette di apparato di partito e questa è una delle sue carte migliori da giocare sul tavolo della convention fiorentina. Renzi in ciò somiglia parecchio a Vendola: non vuole le mani legate da strutture organizzate (un partito per Vendola, una corrente per Renzi) entro le quali dover mediare continuamente sulla linea politica. Al Pd credono che una simile libertà rappresenti per Renzi e Vendola un limite. In realtà questa amplissima autonomia d’azione è davvero il più importante vantaggio che entrambi godono su un Bersani immobilizzato dai continui distinguo e veti incrociati che si levano dal Nazareno. Il segretario democratico deve incessantemente affastellare sintesi diverse a seconda del problema che si pone e delle varie sensibilità interne su cui il problema insiste. Un lavoraccio che lo sfianca e non produce risultati spendibili. Ancor più dopo l’ingresso nella sua maggioranza interna di Franceschini e Fassino, che ha aumentato le istanze che Bersani è chiamato a rappresentare e affollato il numero di chi spera, in quota al segretario, di poter continuare a svolgere il proprio ruolo dagli scranni di Montecitorio anche dopo le prossime elezioni.


panorama

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Riflessioni. Sono passati oltre vent’anni dalla firma del documento arliamo dei diritti dei Fanciulli, ovvero, della Convenzione Internazionale sui diritti dell’Infanzia sancita dalle Nazioni Unite alla Assemblea Generale del 20 Novembre 1989. Tra gli Stati promotori di tale iniziativa bisogna ricordare lo Stato del Vaticano, parte attiva nella costruzione giuridica della convenzione: l’allora Nunzio Apostolico presso le Nazioni Unite, il Cardinale Renato Raffaele Martino, ne è stato uno degli illustri relatori. I 54 articoli che contraddistinguono il trattato costituiscono un essenziale baluardo preliminare in difesa dei diritti del Fanciullo che gli Stati membri si sono impegnati a far rispettare. Fondamentale appare l’introduzione preliminare presente nella convenzione: «Il Fanciullo, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha bisogno di una particolare protezione e di curespeciali compresa un’adeguata protezione giuridica, sia prima che dopo la nascita».

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Il rispetto di tale preliminare riflessione introdotta nel Trattato, sotto il profilo più elastico, suggerirebbe agli Stati membri una costante verifica di attuazione di tale originaria considerazione in relazione agli eventi che via via si succedono nella vita sociale ovvero, in ragione delle nuove scoperte scientifiche, che si succedono e delle modifiche sociali, politiche, economiche e/o ambientali. Ci permettiamo, per esempio, una attenta riflessione circa l’art. 6 comma 1 che sancisce “Gli Stati riconoscono che ogni fanciullo ha un diritto innato alla vita”: a questo riguardo, nel caso dell’Italia sarebbe opportuno un aggiornamento della legge 194 sull’interruzione di gravidanza, in particolare sul 2° comma, in ragione del fatto che l’utilizzo dell’esame ecografico nelle strutture sa-

Uno scudo mondiale salverà i bambini Serve una governance per aggiornare la Convenzione sui diritti dell’infanzia di Mimmo Sieni

dentemente innovativo (rispetto alla data di sottoscrizione) risulta l’art. 17 dove viene riconosciuta l’importanza dei mass media circa l’assicurazione che il Fanciullo abbia accesso a informazioni e programmi provenienti da diverse fonti nazionali e internazionali, in particolare che mirano a promuovere il suo benessere sociale

Il vero limite del testo è nell’assenza di un limite di età entro la quale il fanciullo resta tale e perciò ha il diritto di essere difeso nitarie è risultato successivo all’introduzione della legge e quindi – fermo restando la libertà decisionale dell’interruzione di gravidanza – sarebbe ragionevole riconsiderare la tempestività della (eventuale) richiesta di interruzione della gravidanza da prevedere soltanto “dopo” l’esame ecografico, ovvero, dopo che la parte interessata abbia avuto “reale” conoscenza visiva del Feto. Sorpren-

spirituale e morale nonché la sua salute mentale e fisica.

L’art. 29 richiama invece l’attenzione degli Stati membri a incentivare la promozione e lo sviluppo della personalità del Fanciullo dei suoi talenti e le sue attitudini mentali. L’art. 31, ancora, richiama gli Stati membri al rispetto del diritto allo svago e al divertimento nonché il dedicarsi ai giochi e alle attività ri-

in Iraq...) a tal riguardo sarebbe opportuno predisporre un apposito trattato - autonomo dalla Convenzione Internazionale di Ginevra - che preveda e disponga appositi Esercizi, Tutela e Privilegi riservati ai bambini.

Crediamo, inoltre, rilevante segnalare “un limite” individuato nella Convenzione dei diritti del Fanciullo. La stesura del trattato estremamente completa nell’individualizzazione di tutti i riflessi che ognuno degli Stato devono far rispettare nei confronti dei minori, difetta in un particolare insuperabile: l’applicazione delle norme in tutela del Fanciullo non tengono presente dei Timelimit nei quali gli Stati membri dovrebbero intervenire nei casi di violazione di uno dei 54 articoli del Trattato sottoscritto dai (quasi) 189 Paesi membri riconosciuti dalle Nazioni Unite. L’età 0-18 anni rappresenta un patrimonio per l’individuo in formazione non paragonabile a quella dell’età adulta motivo per il quale non possono essere considerate le normative in tutela dei minori con la staticità di applicazione con la quale vengono studiate le leggi e i trattati della società civile. Vogliamo dire che se viene violata una norma di un diritto da cui un fanciullo va protetto, qualora non si intervenga in “tempo reale” (o quasi), il danno è irreparabile per la crescita, la salute e l’equilibrio affettivo e mentale del soggetto. Sarebbe illuminante, quindi, apportare alla Convenzione dei diritti del Fanciullo sancita all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 un “Prontuario” entro il quale gli Stati Membri devono – obbligatoriamente – intervenire, ovvero pronunciarsi – con effetto esecutivo – nei casi previsti di violazione delle norme che regolano il Trattato. Possiamo assicurare

creative del Fanciullo. Di rilievo l’art. 32 che sancisce la protezione dei minori contro lo sfruttamento economico mentre l’art. 8 richiama gli Stati membri al diritto del Fanciullo alle proprie relazioni familiari – senza interferenze illegali – nei casi di separazione e/o divorzio dei genitori. Possiamo affermare che la Convenzione dei diritti del Fanciullo costituisce, quindi, una vera e propria “Ta-

sk-Force” dei diritti di Minori che gli stati membri debbono far rispettare. Ci pare opportuno evidenziare una lacuna che potrebbe essere sanata: è quella relativa alla condizione del Fanciullo in caso di stato di guerra nel Paese di appartenenza. È necessario un trattato ad “hoc” per i fanciulli che vivono in un paese in stato di guerra (al fine di scongiurare gli ultimi irripetibili casi sottostanti la guerra

che molto presto, al riguardo, sarà istituita una “Governance” composta da autorevoli personalità che provvederà alla stesura di una bozza del “Prontuario” da inoltrare al Segretario Generale delle Nazioni Unite, (depositario ai sensi dell’art. 54 del trattato della Convenzione dei diritti del Fanciullo): l’essenza della civiltà sta, oltre che nella ricerca delle “pax”, nella individuazione di quante più tutele e opportunità si possono mettere a disposizione per i Figli del “Futuro Prossimo”.


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Esce per Einaudi un impietoso reportage dello scrittore americano Jon

gni governo totalitario si veste con cattivo gusto. La dittatura, a parte gli orrori e le torture, è un cocktail ad alto tasso di kitsch. La Cecenia, islamista e violenta, pare lontanissima dall’Europa. E vuole rimanere lontana, strenuamente. Mosca chiude un occhio, basta che quella regione stia un po’ tranquilla. Il cattivo gusto parte dalle parole: il giovane leader ceceno Ramzan Kadyrov si fa chiamare “il più grande costruttore del mondo”. Viene in mente il peggior Stalin, l’enfatico Mao e i patetici leader della Corea del Nord. Gli alti funzionari del governo di Groznyj, la capitale, si fanno vedere con Rolex costosissimi, anelli con brillanti, indossano camicie rosa o viola pallido con cravatte assortite, completi di seta color panna, calzano scarpe appuntite di coccodrillo, come nei più volgari e ricchi club sportivi del Texas.

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È questa “la semiotica del potere”che lo scrittore americano Jonathan Littell, famoso per il romanzo Le benevole (2007, Einaudi), pone in risalto all’inizio del suo preciso e urticante reportage in Cecenia. Il suo è un libro da leggere d’un fiato per avere idee meno approssimative di un luogo a noi non proprio così prossimo. S’intitola Cecenia, anno III (Einaudi, 112

pagine, 18 euro). Altri papaveri del potere - che cerca di normalizzare un paese nel cui sottosuolo serpeggia la ribellione e questa si trasforma in atti di terrorismo - a volte indossano disinvoltamente jeans o giacche italiane. Questo vuol dire che il potere lo hanno e se lo tengono ben stretto. Non hanno l’ossessione di mostrare la divisa borghese dell’apparato. Littell è andato in Cecenia proprio per avere un colloquio con il “grande costruttore”. Non ci è riuscito. Poco male: ha interrogato centinaia di persone, ha guardato strade, case, locali pubblici, moschee, circoli religiosi. Ne è uscito un ritratto circostanziato e impietoso. Ed ecco quindi una Cecenia fortemente (o forzatamente) islamizzata, corrotta fino al midollo, impegnata nel “grande balzo” economico, pronta a sfruttare l’occasione delle Olimpiadi in Russia, molto attenta a nascondere le ferite della guerra interna, sveltissima a uccidere dissidenti, giornalisti e donne che non portano il velo e “fan-

no le europee”. Il leader parla anche quattro ore e mezza alla televisione e se il conduttore lo avverte che deve mandare in onda il notiziario, ribatte sprezzantemente che il notiziario può aspettare tanto più che in esso si parla soprattutto di lui. Fornisce consigli, che poi sono diktat. Assicura alla Russia di Putin una maggiore tranquillità sociale - salvo ovviamente certi scoppi di violenza come quelli accaduti pochi giorni fa - e in cambio pretende un potere di stampo brezneviano. In certi raduni avvia un grido: “Gloria a Putin”. Kadyrov, scrive Littell, «è un autentico animale da palcoscenico, adora le masse; alla televisione si vede solo lui, lo mostrano spesso mentre si ferma in un villaggio, in una scuola o in un ospedale per un bagno di folla e per dispensare consigli, ingiunzioni e banconote: è come se traesse la sua leggendaria energia direttamente dall’amore (sapientemente orchestrato) dei sudditi». Consegna medaglie dai nomi strani e inconsueti. «La semiotica cecena», assicura il narratore americano, «è quella sovietica, in una versione postmoderna rivisitata, che a volte sfiora il surrealismo spontaneo». In certi raduni vengono fatte venire le “girls’ band”di Mosca, complessini musicali con ragazze in minigonna e foulard, poco importa se poi alle donne viene ufficialmente “sconsigliato”di mostrare le gambe. Ama raccontare barzellette, fa il simpatico. Il fondamento della sua filosofia è questo: «Se il capo è bravo, allora sono bravi tutti, i colleghi, i subalterni». Nella foto grande, una donna cecena nella bufera. A sinistra, in alto, il dittatore Ramzan Kadyrov. Nella pagina a fianco, lo scrittore Jonathan Littell

Arcipelago Un feroce tiranno chiamato “il grande costruttore”, corruzione endemica e dissidenti che scompaiono nel nulla: cronache dalla Cecenia. Dove regnano i fantasmi del passato di Pier Mario Fasanotti Un esponente di “Memorial”, gruppo di informazioni che si batte per i diritti umani (e quindi costantemente minacciato) afferma che «la Cecenia è come il 1937, il 1938: si sta portando a termine un grande piano edilizio, si assegnano alloggi, ci sono parchi dove giocano i bambini, spettacoli, concerti, tutto sembra normale e… di notte la gente scompare». In dieci anni il numero delle persone uccise o scomparse (che è poi sovente la stessa cosa, purtroppo) sarebbe «proporzionalmente superiore a quello delle vittime delle grandi purghe staliniane». Secondo “Memorial” il paragone sta in piedi perché il regime di Groznyj «cerca soprattutto l’illusione della normalità per tutti coloro che non sono vittime del terrore». Econo-

micamente il paese sta meglio di prima, effettivamente. Il costo umano è altissimo. Quello pagato con polizia segreta, controllo sociale asfissiante, retorica a tutto volume, pur di evitare che certi bambini «siano uccisi da un cecchino annoiato o che le sachidki, le “vedove nere”, si suicidino con l’esplosivo portando con sé qualche russo, e lo hanno fatto negli anni scorsi non tanto per convinzione religiosa, ma per pura disperazione in quanto a loro non rimaneva nemmeno un uomo, uno solo, neppure un figlio». I ribelli oggi ci sono ancora, ma si cerca di tenerli confinati “nella foresta”. Secondo “Memorial” nel 2006 ha registrato 187 casi di rapimento, 11 dei quali conclusosi con la morte e ben 63 con la definitiva scomparsa (le altre vittime sono state liberate dopo dosi


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nathan Littell che descrive gli orrori quotidiani del regime di Kadyrov

tradizioni sembrano pericolose, la religione da questo punto di vista rimane «un nervo scoperto in un posto come la Cecenia». Un esperto della materia ha rivelato a Littell: «In Russia la questione del radicalismo islamico non si poneva, come in Europa, in termini religiosi: il dibattito verte sulla dimensione politica, non sul contenuto ideologico. I russi pensano sempre in termini di potere. Storicamente, dai tempi di Caterina la Grande, il potere russo ha sempre scelto i appoggiare i mullah fondamentalisti, ma leali, contro i modernizzatori potenzialmente sovversivi, per non dire anti-governativi». Rapporti delicati, controversi, sovente contradditori tra potere e religione. Pare comunque che in sintesi Mosca dica: credete in ciò che volete, ma obbedite.

o Groznyj massicce di tortura). Le cifre più recenti non confortano di certo. Il “grande costruttore” Ramzan «sta instaurando pratiche di punizione collettiva». Una delle armi vincenti in mano a Kadyrov è la punizione delle famiglie cui appartengono i figli ribelli. Si incendiano le loro case. Ha dichiarato il sindaco di una città: «In futuro dovrete trovare i vostri figli e riportarli a casa. Se fanno il male, la pagherete voi, i vostri familiari e persino i vostri discendenti». Secondo alcune fonti il governo ha una rete di “intelligence” così vasta che per un giovane è impossibile “andare nella foresta” senza che lo si venga a sapere rapidamente. Se qualche giornalista non si allinea gli capita il destino di Natal’ja Estemirova, una delle principali attiviste di “Memorial” a Groznyj, rapita e uccisa. Scrive amaramente Littell: «E chi sa qualcosa della realtà? La realtà sono due pallottole in testa».

Le donne vivono malissimo, anche se da secoli sono abituate alla sottomissione. Il potere di Groznyj sospetta di tutte quelle ragazze che nel cellulare hanno il numero della polizia. Dice il leader: «La donna deve apprezzare la protezione degli uomini e sapere qual è il suo posto. Ad esempio nella nostra famiglia nessuna donna ha mai lavorato e mai lavorerà». A due giornaliste russe vestite all’occidentale e palesemente belle ha dichiarato candidamente: «Ciò che è vietato com-

prende tutto ciò che fate voi per le vostre figlie e le vostre sorelle». E ha concluso con aria triste: «Voi siete merce avariata. Peccato». Quando attorno a Groznyj furono trovati i cadaveri di molte donne, il leader ceceno precisò che si trattava di delitti d’onore. Mosca fa finta di niente, liquida queste barbarie definendole “tradizioni locali”. Un’altra delle tradizioni ben radicate è la corruzione. In russo la “mazzetta” o “pizzo” si chiama “otkat”. Nel paese di Putin è comportamento diffuso per il 20 per cento dei casi, in Cecenia si arriva al 60. Anche i funzionari devono pagare “la decima”: più

Emerge il ritratto di un paese islamizzato, marcio fino al midollo, impegnato nel “grande balzo” economico, pronto a nascondere la verità e a uccidere chi la denuncia una carica è elevata più la si paga cara. Riferisce uno dei difensori dei diritti umani: «Tutto è marcio, marcio, marcio. La peggiore tragedia è che i giovani non conoscono altro. I genitori devono pagare per tutto ciò che fanno, a iniziare dagli studi. Vogliono un lavoro? I genitori pagano. Ma qui non è mai stato così, lo dicono tutti. Mai. Viviamo cose asiatiche».

Ma se l’impero economico del “costruttore” si espande - e sarà così anche con i Giochi olimpici in Cecenia dovrà prima o poi vedersela con la potentissima mafia di Rostov, «in gran parte cosacca e violentemente anticecena». Un giornalista profetizza: «Il prossimo grande conflitto in Caucaso sarà forse più mafioso che politico». E Mosca è un po’ preoccupata: «Se i russi sono stati disposti a uccidere circa duecentomila persone per eliminare il virus del separatismo, non era certo perché il loro uomo forte trasformasse tutta la regione in una specie di Messico settentrionale». Ma Ramzan Kadyrov è caratterialmente lontanissimo dall’idea di incontrare dei limiti. L’idea del limite, dice chi gli è vicino, lo fa ridere, solo ridere. Quanto alla religione, impera l’Islam ovviamente. Kadyrov si fa spesso vedere nelle moschee. Mentre l’imam legge la sua predica, lui parlotta con i suoi vicini, sottovoce. È il primo a uscire, ovviamente, circondato dai saluti, e lui sorride, sventola una mano. Riferisce Littell: «Solo quando la moschea comincia a svuotarsi scopro che c’è un intero piano sotterraneo dove le donne, nascoste, pregano separatamente». La religione in Cecenia ha una precisa strategia, quella di promuovere un Islam cosiddetto tradizionale, sufico, per contrastare l’ascesa del safalismo dei combattenti islamici, quelli che i russi chiamano “wahhabiti”. Storicamente, rammenta lo scrittore americano, la Cecenia è sempre stata sufica. Ora il “grande costruttore” cerca di rivitalizzare il sufismo. Per questo si mischia quasi ogni giorno con capi religiosi. E ufficializza il rifiuto del “jihad” contro la Russia. I leader religiosi, almeno quando appaiono in pubblico, gli danno sostegno. Alcune

C’è un notevole ritorno alla tradizione islamica. A farne le spese sono soprattutto le donne. Constatava la giornalista Estemirova che la dittatura che si va instaurando si fonda anche sull’umiliazione delle donne. Il velo è già obbligatorio in tutti gli edifici pubblici e all’università. Il leader e la sua cerchia predicano e molto praticano apertamente la poli-

gamia. E si insiste «sulla scarsità di uomini ceceni dopo la guerra e sull’obbligo, per le donne di “comportarsi bene”, con accompagnamento di minacce». Ha dichiarato Kadyrov a un periodico russo: «Per una donna è meglio essere una seconda o una terza moglie che venire uccisa». L’incaricato di Kadyrov per i diritti umani, Nurdi Nuchadziev, è tradizionalista fino all’eccesso. Ha recentemente dichiarato: «Da cosa è fatto il governo? Questa è una repubblica monoetnica. Chi sono i fratelli, i cognati, i mariti, i padri? Lavoriamo tutti insieme. Il Parlamento è composto di nostri rappresentanti. Non ci sono stranieri, qui, per così dire. Ma non si tratta di varare una legge, questo no. Quello che dice il presidente è una raccomandazione». Fastidiosamente stimolato a un contraddittorio, l’alto funzionario termina così l’esposizione del suo pensiero socialreligioso: «L’intelligenza di una donna è come la coda di una rana».


economia

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Recessione. La decisione rischia di incidere troppo sul mercato valutario: già ieri la sterlina ha toccato il massimo sul dollaro, che ha perso anche sull’euro

Bernanke colpisce ancora La Federal Reserve compra 600 miliardi di titoli di Stato, ma il Fondo Monetario boccia il piano: «Non servirà» di Alessandro D’Amato na mossa per affinare la ripresa, o quella della disperazione? La Federal Reserve di Ben Bernanke torna a giocare la carta del quantitative easing, mettendo questa volta sul piatto l’acquisto di 600 miliardi di dollari di titoli del Tesoro Usa entro la metà del 2011, dopo i 1.700 miliardi sborsati nei mesi scorsi per sostenere il sistema bancario all’acme della crisi. Da qui a giugno la Banca centrale americana drenerà 75 miliardi di treasury. Sempre entro giugno del prossimo anno, verranno reinvestiti anche 250-300 miliardi di proventi derivanti dal portafoglio di bond dell’istituto legati ai mutui. La decisione della Fed, maturata dopo due giorni di confronto e assunta non all’unanimità , apre la porta a un nuovo round, il secondo, di quantitative easing: alleggerimento monetario. La Fed spera di imprimere maggiore velocità alla ripresa dell’economia, che si conferma «lenta» così come quella del mercato del lavoro, dove il tasso di disoccupazione «è elevato». Proprio dall’esperienza giapponese del “decennio perso” gli Stati Uniti vogliono fuggire: Obama ha ventilato lo spettro del ’lost decade’ per l’economia americana che «non potrà avere successo se le aziende non avranno successo: la riuscita delle imprese è necessaria agli Stati Uniti per prosperare».

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Il programma di acquisti, atteso dal mercato, ha da subito suscitato perplessità, in quanto il QE1 (il primo piano di stimoli) era stato deciso in un momento di contrazione economica, mentre questa seconda ondata arriva con l’economia in crescita, anche se a tasso limitato. Il pil americano nel terzo trimestre è cresciuto del 2%, troppo poco per incidere significativamente sulla disoccupazione. Acquistando buoni del Tesoro americano, la Fed si augura di mantenere bassi i tassi di interesse di lungo termine, sperando così di incitare i consumatori e le aziende a spendere e quindi l’economia a fare progressi. La Fed procederà ad acquisti per circa 75 miliardi di

L’acquisto risponde a una deflazione inesistente

La Fed dà la risposta sbagliata a un problema che non c’è di Carlo Lottieri i fronte alla decisione di Ben Bernanke, governatore della Fed, di acquistare titoli di Stato americani per un totale di 600 miliardi di dollari (perfino di più di quanti erano pronosticati da Wall Street), la prima considerazione è che il voto dell’altro giorno è stata una buona notizia, ma nella migliore delle ipotesi si tratta solo di un inizio. L’establishment americano di scuola obamiano-bushiana continua a credere nella spesa pubblica, nell’espansione monetaria e nell’alta tassazione, ed è ancora al suo posto. I Tea Party dovranno allora fare molta strada per invertire la rotta, né è detto che siano ancora in tempo per impedire i guai maggiori. Il cosiddetto “quantitative easing”deciso ieri è in primo luogo una risposta sbagliata a un problema che non c’è. Contrariamente a quanto troppi ripetono e anche a quanto ha dichiarato la Fed (che ha giustificato la sua strategia parlando dell’esigenza di “promuovere una ripresa più forte e aiutare l’inflazione a restare in linea”), in America non c’è deflazione. Come ha sottolineato Allan Meltzer su The Wall Street Journal, i prezzi stanno ora avanzando al ritmo dell’1,2%, e nel corso dell’ultimo anno sono cresciuti tra l’1,5% e l’1,8%. Ma il segnale che la Fed ha inviato ai mercati è che si vuole e si persegue un’inflazione maggiore: magari al fine di “monetizzare il debito”(risolvere il debito togliendo valore alla divisa). L’espansione monetaria si propone dunque una nuova svalutazione del dollaro, con l’idea che sia possibile migliorare in maniera artificiosa la competitività dei prodotti statunitensi senza che questo crei contraccolpi. Il tutto, per giunta, ha luogo entro un quadro generale che vede una crescente tensione tra America e Cina. La decisione di Bernanke ricorda le “svalutazioni competitive” della nostra vecchia Bankitalia: un impoverimento dei risparmiatori e un trasferimento di risorse a quanti sono indebitati. Sono scorciatoie che forse possono dare benefici immediati a quanti esportano,

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ma che nei fatti producono conseguenze molto negative. Non è distruggendo una moneta che si salva un’economia; e non è continuando a tenere a zero i tassi di interesse che si può dare un futuro all’economia americana.

In questo senso c’è da sperare che dalla nostra parte dell’Atlantico la Bce non continui nella sua politica “imitativa”, che da tempo l’induce a copiare le strategie della banca centrale statunitense, nella convinzione che sia una cosa buona non distanziarsi troppo dai parametri adottati dal gestore di quella che è e resta, nonostante tutto, la prima valuta globale. Pensando al dissesto dei conti pubblici europei e ignorando le conseguenze a breve termine sul commercio internazionale (tanto più che un dollaro debole ci permette di acquisire meglio i prodotti statunitensi e tutto quanto è pagato in quella valuta), è necessario che le nostre autorità monetarie non si facciano attrarre dal keynesismo di Bernanke. È infatti folle l’idea di rimettere in moto l’economia continuando a pompare denaro, spingendo nella direzione di investimenti e consumi (convinti che aiuti a vincere la disoccupazione), e questo all’indomani di una crisi colossale che in larga misura è stata causata proprio dall’adozione di bassi tassi d’interesse, i quali hanno indotto a compiere investimenti sbagliati. A dire tutto questo, tra l’altro, non sono soltanto i soliti liberisti “austriaci”. Anche un intellettuale di sinistra come Joseph Stiglitz ritiene che la scelta della Fed sia ad alto rischio, perché può creare bolle, aggravare i conflitti monetari tra Usa e Asia, innescare di nuovo l’inflazione. Per usare una felice formula di Mark Calabria, del Cato Institute, siamo per giunta di fronte a uno“stimolo monetario”, che però rischia di innescarsi su realtà (le banche Usa) che hanno bisogno di mettere ordine nei loro conti e ripensarsi radicalmente, e che possono solo essere danneggiate da questi interventi. È tempo che il vento dei Tea Party inizi a soffiare anche in direzione della Fed.

Il provvedimento statunitense ricorda molto le “svalutazioni competitive” della vecchia Bankitalia. Ora l’Europa non lo imiti

dollari di Treasury al mese, ai quali vanno aggiunti circa altri 35 miliardi di dollari al mese che arrivano dai proventi dei titoli legati ai mutui e che saranno reinvestiti. L’operazione della Fed, quindi, è complessivamente pari a 850-900 miliardi di dollari: la Fed “continuerà a monitorare le prospettive dell’economia e gli sviluppi finanziari e utilizzerà gli strumenti di politica monetari a sua disposizione come necessario” per sostenere la ripresa.

Il meccanismo adottato da Bernanke è relativamente semplice. Si tratta di iniettare denaro all’interno dell’economia con l’acquisto dei titoli di Stato posseduti dalle banche, in attesa che il sistema finanziario faccia ripartire il credito e l’economia. Finora però i risultati non sono stati esaltanti. Secondo Rand Paul, un senatore del Kentucky eletto al Congresso che potrebbe essere un nuovo avversario per la Fed, Bernanke sta imponendo a tutti gli americani la più subdola delle tasse, l’inflazione. Secondo i repubblicani infatti, la banca centrale dovrebbe concentrarsi di più su problemi relativi a crescita ed occupazione, e fino a qui, nulla di male, ognuno è libero di manifestare le proprie idee e convinzioni; ma occorre ragionare sulle modalità necessarie di comunicazione tra la Fed ed il Governo, poiché andando avanti di questo passo, l’indipendenza dell’Istituto e dunque la sua efficacia, potrebbero diminuire sensibilmente. Il Congresso ha già approvato un compromesso che richiede l’indicazione dei dettagli dei


economia

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La Bce ha nuovamente confermato i tassi di interesse al minimo storico dell’1%

Mentre nell’Eurozona si sceglie il rigore Trichet torna a spronare i Paesi della moneta unica a procedere sul risanamento dei conti pubblici di Pierre Chiartano e in America si continuano stampare dollari che la Fed deve acquistare e poi rivendere come titoli di debito, in Europa si guarda ancora al bilancio domestico per far quadrare i conti. «Rigore, rigore, rigore» sembra essere la parola d’ordine di Eurotower. La Banca centrale europea e il suo presidente Jean-Claude Trichet tornano a spronare i Paesi dell’area euro a procedere sul risanamento dei conti pubblici, chiedendo in particolare «misure specifiche e credibili» sui bilanci del 2011 che facciano prevalentemente leva su riduzioni della spesa. «C’è una chiara necessità di rafforzare la fiducia del pubblico sulla capacità dei governi a tornare a finanze sostenibili, per rafforzare i premi di rischio e così sostenere una crescita sostenibile sul medio termine», ha affermato il presidente della Bce durante la conferenza stampa al termine della riunione del Consiglio direttivo di ieri. Che vuol dire anche che sul mercato ormai inflazionato dei titoli di debito, l’Europa deve restare credibile. Resta operativo il programma di acquisti di titoli di Stato della Bce, operazioni mirate che la banca centrale effettua per garantire il regolare funzionamento degli eventuali segmenti sotto pressione. Nei giorni scorsi si erano infatti ricreate tensioni sui bond di diversi Paesi dell’area, tra cui Irlanda, Portogallo e Grecia.

S

prestiti d’emergenza della Fed e delle azioni di politica monetaria durante la crisi finanziaria. Tali informazioni su prestiti bancari e su acquisti futuri di asset, dovranno essere rilasciate con un ritardo di due anni. Bernanke ha affermato, commentando questo provvedimento, che gli audit sulla politica monetaria potrebbero compromettere, come accennato, l’indipendenza stessa della banca

per i Paesi avanzati e fra il 6 e l’8 e anche di più per i Paesi emergenti. Sarà più o meno agli stessi livelli nel 2011, ha aggiunto Blanchard parlando dalla sede del Fmi a Washington. Nel suo rapporto semestrale sulle Prospettive economiche mondiali, il Fmi prevedeva ad inizio ottobre un 4,8% di crescita mondiale nel 2010 e un 4,2% nel 2011. Nello studio il Fondo rileva come «se la crescita minaccia di

Da qui a giugno la Banca centrale americana drenerà 75 miliardi di treasury. Sempre entro giugno, verranno reinvestiti anche 250-300 miliardi di proventi derivanti dal portafoglio di bond dei mutui centrale. Gli effetti della scelta di Bernanke sulla valuta non hanno tardato a farsi sentire: la sterlina ha toccato i massimi sul dollaro (anche perché la Bank of England ha tenuto fermi i tassi valutari), che ha perso tanto anche nei confronti dell’euro. Un concambio che però non farà piacere agli europei, e in particolare ai Paesi che esportano extra-Ue: è una scelta, quella della Fed, che mira comunque a incentivare il mercato interno e a scoraggiare il commercio estero. E intanto dal fronte della crescita arrivano notizie non buone. Il capo economista del Fondo monetario internazionale (Fmi), Olivier Blanchard, ha affermato che la crescita mondiale raggiungerà fra il 3 e il 4 per cento nel 2010 e “più o meno” lo stesso livello nel 2011, correggendo così al ribasso le previsioni mondiali del Fondo pubblicate a inizio ottobre. Con una asimmetria, dal momento che l’aumento sarà fra l’1 e il 2

rallentare più del previsto le economie avanzate che vantano un certo margine di manovra nel bilancio dovrebbero lasciare campo libero agli stabilizzatori automatici. L’Fmi riconosce così come la stretta sui conti messa in cantiere per il 20102011 è largamente adeguata, con un bilanciamento fra la correzione e un brusco ritiro del supporto anti crisi. Il 90% dei paesi del G20 più la Grecia, l’Irlanda, la Lituania, la Lettonia, il Portogallo e la Spagna hanno annunciato una graduale riduzione dei deficit sul medio termine. Sull’Italia il Fmi ha giudizi meno ottimistici del governo, prevedendo quest’anno un deficit pubblico pari al 5,1 per cento del Pil, che dovrebbe scendere nel 2011 al 4,3 per cento. Il Fondo auspica anche una riforma dell’Iva che porti il sistema a livelli di efficienza sulla media dei paesi del G20, potrebbe portare risorse aggiuntive pari a 2,5 punti di Pil.

Tuttavia nelle ultime settimane la Bce aveva riferito che la mole dei suoi acquisti di bond si era ridotta. Su eventuali cambiamenti alle misure non convenzionali approntate nei mesi scorsi per contrastare la crisi finanziaria, il capo della Bce rimanda tutto di un mese: «appuntamento a dicembre». Trichet ha precisato che gli interventi su questo fronte sono indipendenti dalle decisioni di politica monetaria tradizionale, quelle sui tassi di interesse. «Possiamo modificare i tassi indipendentemente da quello che facciamo sulle misure non standard – ha detto durante una conferenza stampa – comunque al momento riteniamo che i tassi risultano appropriati». Nella riunione di ieri il Consiglio direttivo ha nuovamente confermato i tassi di interesse al minimo storico dell’1 per cento. Il termine «appropriati» viene considerato dagli analisti come un segnale sull’orientamento a non modificarli nel breve periodo. Il presidente della Bce è anche convinto che Washington continui ad appoggiare una politica del dollaro forte, anche dopo la decisione della Fed di pompare altri 600 miliardi di dollari di liquidità. «Non ho nessuna indicazione – afferma – che incrini la mia fiducia nel fatto

che la Fed stia giocando una strategia del dollaro debole. È nell’interesse degli Usa avere un dollaro forte faccia a faccia con le altre valute». Trichet critica anche l’atteggiamento di molti istituti finanziari che si sono adagiati su di una gestione “sovvenzionata” delle proprie attività, in quanto non hanno più accesso al mercato della raccolta all’ingrosso dei liquidi, fondamentalmente perché le banche non si fidano più le une delle altre. Con la crisi economico-finanziaria siamo entrati «in tempi non normali, è vero che ci sono banche che dipendono totalmente dalla nostra liquidità. È un problema su cui stiamo riflettendo, ma non è stata presa ancora nessuna decisione». Insomma Eurotower sarebbe diventato la principale fonte di denaro in Europa, almeno per alcuni istituti. Nella conferenza stampa c’è

Il presidente della Bce è convinto che l’America continui la politica di sostegno al biglietto verde: «È nell’interesse degli Usa avere un dollaro forte, faccia a faccia con le altre valute» stato anche spazio per una polemica. «Noi abbiamo un solo portavoce. Non ho altri commenti da fare sul nostro modo di comunicare» la risposta piccata dell’eurogovernatore era diretta al presidente della Bundesbank, Axel Weber, sempre critico nei confronti di Eurotower, ma soprattutto nei confronti del presidente dell’eurogruppo, Claude Juncker. Non sono nemmeno mancati alcuni rilievi critici per le proposte di riforma del Patto di stabilità, in agenda la scorsa settimana. «Non vanno tanto avanti quanto chiedevamo» ha spiegato Trichet che ha poi aggiunto «il Consiglio direttivo è preoccupato del fatto che non ci sarebbe sufficiente automaticità» nelle sanzioni a carico di coloro che sgarrano sui parametri chiave, così come non sono previsti impegni chiari sulla riduzione dei debiti pubblici. Pieno appoggio invece alla riforma francese delle pensioni, che aveva innescatoforti proteste nelle passate settimane.


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Elezioni. Aumentano le pressioni contro i candidati democratici n potentissimo attacco informatico ha spento la Birmania. O, quanto meno, i suoi computer: dal 20 ottobre, infatti, una serie di problemi alla linea informatica hanno messo a rischio l’accesso a internet, che da ieri pare del tutto impossibile. Gli osservatori internazionali non hanno molti dubbi: l’attacco proviene dall’interno, e in particolar modo dalla giunta militare che cerca in questo modo di isolare del tutto il Paese in vista delle prossime elezioni. D’altra parte, oramai le notizie che provengono dal Myanmar sono tutte incentrate sulla chiamata alle urne, in programma dal 7 all’11 novembre. Quattro stazioni radio in lingua birmana - nello specifico Bbc, Voice of America (VoA), Radio Free Asia (Rfa) e Democratic Voice of Burma (Dvb) - e i blog raccontano quanto le fonti ufficiali come New Light of Myanmar e gli altri giornali interni al regime non possono o non vogliono raccontare o scrivere. Con l’approssimarsi del voto, si moltiplicano le voci di restrizioni, rafforzamento della sicurezza, più infrazioni alla legge, un picco nella compravendita dei voti da parte delle autorità ufficiali. Vi sono racconti e interviste circa proteste, rabbia, malcontento, imbrattatura di pannelli elettorali dello Union Solidarity Party (Usdp), il partito del regime militare destinato a vincere con le buone o con le cattive.

U

La campagna per il boicottaggio delle elezioni della Lega nazionale per la democrazia (Nld) continua e acquista sempre maggiore sostegno. In un articolo pubblicato lo scorso primo novembre da New Light of Myanmar emerge che se le elezioni non saranno un successo,

La giunta militare “spegne” la Birmania Un cyber-attacco rende impossibile l’accesso a internet a 2 giorni dal voto di Massimo Fazzi

la prima sezione del futuro Parlamento. Non può essere frutto del caso che la nuova bandiera sia identica a quella del governo birmano in esilio. Forse la scelta è stata fatta perché vi sia una guida come attraverso un medium. I racconti non ufficiali riferiscono anche di profonde divisioni fra gli alti livelli e le figure di primo piano della

Gli astrologi, che nel Paese sono più potenti del Parlamento, hanno ordinato di sventolare una nuova bandiera nazionale “portafortuna” il comando resterà nelle mani dell’esercito. Appare quindi probabile che la giunta sia sicura al 100 per cento di vincere le elezioni. Questo significa anche che l’esercito adotterà un piano B, che partirà dalle fondamenta. La nuova bandiera del Myanmar sventola dalle 3.33 del pomeriggio del 28 ottobre scorso. La decisione di esibirla è frutto delle direttive degli astrologi, che hanno maggior potere della Costituzione nazionale, che deve essere ancora approvata dal-

dittatura. Il Consiglio per la pace e lo sviluppo deve lavorare a fondo per negoziare fra gli alti ufficiali in uniforme e gli ex-militari, che ora indossano abiti civili.

Lo Usdp non è certo lo schieramento favorito in ogni componente dell’esercito e per questo deve ordire più trame di quante previste alla vigilia per assicurarsi un consenso. A tutti è chiaro che sono solo due i partiti a contendersi i voti nelle prossime elezioni: lo Usdp e il

I dissidenti accusano: pronto il rastrellamento

Ora si temono gli arresti Il rischio, ora, è che i militari decidano di sfogare la propria rabbia (in caso di elezioni contrastate) contro la già piegata dissidenza birmana. A denunciarlo è Tint Swe, portavoce all’estero della Lega nazionale per la democrazia, che spiega: «Il rilascio di Aung San Suu Kyi è soltanto una foglia di fico con cui la giunta si nasconde all’estero. Ma hanno già deciso che il colpo più forte, questa volta, sarà assestato contro la dissidenza intera». La “Signora della Birmania”, come viene dai chiamata suoi sostenitori, dovrebbe essere liberata dagli arresti domiciliari un paio di giorni dopo la chiusura delle urne, intorno al 13 novembre. Ma il suo appello a boicottare il voto, e la decisione del suo partito di non parteciparvi, hanno

già fatto inferocire i militari. Lo stesso generale Than Shwe, capo della giunta e uomo forte del Paese, ha dichiarato in televisione che boicottare il voto significa boicottare il tentativo di riconciliazione nazionale. Ma, spiega Tint, «il suo appello cadrà nel vuoto. Non avendo alcun partito di riferimento, i democratici non andranno a votare. Senza osservatori internazionali o garanzie di legalità sappiamo bene dove finiranno le nostre preferenze, e queste elezioni farsa non devono divenire un modo per consentire ai militari di dichiararsi democratici». Le maggiori Ong mondiali hanno criticato la scelta di non aprire il Paese agli osservatori. Ma il blocco di internet fa pensare che la situazione può solo peggiorare.

National Unity Party (Nup), formato dai fedelissimi dell’ex dittatore birmano - il generale Ne Win - e che ha mutuato il proprio nome dall’originario Burmese Socialist Program Party (Bspp). Tuttavia, pochi fortunati potrebbero emergere tra gli altri partiti e raccogliere qualche voto. Fra questi gli esponenti del National Democratic Forum (Ndf), nato dalla divisione fra la Nld e il Democrat Party (Burma), partito di riferimento dell’ultimo Primo ministro birmano eletto in modo democratico: U Nu, alle elezioni del 1990. Ma la possibilità di conquistare un seggio è legata alla disponibilità economica, all’uso del potere e alla capacità di ordire imbrogli. Bustarelle, spettacoli gratuiti, telefoni cellulari, voti in eccesso, carte di identità contraffatte e di dubbie nazionalità, denaro libero…

Tutti questi trucchi includono minacce, intimidazioni, coercizione fisica e via dicendo. In quella che viene sbandierata come la manifestazione della democrazia. La conta a mano dei voti, raccolti nelle commissioni allestite nelle diverse cittadine, verrà poi passato al vaglio da un comitato centrale, secondo una pratica diversa rispetto alle elezioni del 1990. Essa ricalcherà quanto fatto in occasione del referendum del 2008, il conteggio e la proclamazione saranno nelle mani del potere centrale in modo da perpetrare manipolazioni e brogli al riparo dall’opinione pubblica. Un gioco facile per la giunta, perché non vi saranno osservatori internazionali né giornalisti stranieri. I media interni al Myanmar e i giornalisti birmani che lavorano per giornali stranieri saranno prelevati da ponti aerei e indirizzati verso 18 cabine elettorali scelte con cura. Una scena simile alla distruzione di campi di papavero e al rogo di eroina inscenato di tutto punto per i giornalisti stranieri e i diplomatici. Internet ha subito rallentamenti, se non interruzioni. La rete potrebbe presto diventare inaccessibile, come accaduto nel 2007 in occasione delle proteste guidate dai monaci birmani. Tuttavia, i giornalisti ”liberi” sono furbi almeno quanto i membri della giunta. Articoli autentici e accurati riusciranno comunque ad emergere fra le maglie della censura; il punto è che, quando si parla di Myanmar, i media non sono potenti quanto le armi. Mentre il voto, sembra, non vale nulla.


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5 novembre 2010 • pagina 17

Al confine con il Messico: c’erano 30 tonnellate di droga

La Cina “chiede” ai governi Ue di non partecipare alla cerimonia

San Diego, distrutto un narco-tunnel e fossa comune

Pechino punta sui diplomatici per boicottare il Nobel 2010

SAN DIEGO. Un nuovo narco-

PECHINO. La Cina sta facendo pressione sui governi europei affinché non siano presenti alla cerimonia di consegna del premio Nobel all’attivista per i diritti umani Liu Xiaobo e di non fare dichiarazioni in suo appoggio. Secondo fonti diplomatiche, l’ambasciata cinese a Oslo ha inviato lettere ufficiali alle ambasciate accreditate nella capitale norvegese chiedendo di non partecipare alla cerimonia del 10 dicembre.Nella lettera la Cina ribadisce la sua posizione, secondo cui Liu è un criminale, per la sua attività a favore dei diritti umani, e considera l’attribuzione del Nobel un’ingerenza negli affari interni. La lettera chiede che le ambasciate non facciano dichiara-

tunnel, questa volta adibito al trasporto della marijuana, è stato scoperto alla frontiera tra Messico e California. La Border Patrol americana, in collaborazione con l’esercito messicano, lo ha scoperto a Otay Mesa, a sud di San Diego. Nella medesima operazione sono state sequestrate 30 tonnellate di marijuana. Fonti statunitensi hanno precisato che il tunnel era dotato di luce, ventilazione e di un rudimentale sistema di carrelli per facilitare il trasferimento della droga. Lungo circa 550 metri, situato ad una profondità di 6 metri, partiva dall’interno di un deposito dal lato messicano (Nueva Tijuana) e raggiungeva un’area industriale. Per le autorità del Paese centramericano l’imboccatura era piuttosto piccola.

I contrabbandieri avrebbero dovuto procedere a carponi. Nel settore di Otay Mesa, in passato, sono state scoperte molte di queste gallerie, l’unico modo per poter superare gli stretti controlli della Border Patrol. E lungo l’intero confine Usa-Messico ne hanno individuati, dagli anni 90, quasi 130. Con due punti «caldi»: San Diego e la città di Nogales (Arizona), considerata la capitale dei tunnel segreti. Al cunicolo si è arrivati grazie ad

Grecia in fiamme fra scioperi e bombe Non si ferma l’opposizione violenta dei contestatori di Massimo Ciullo on si arresta l’offensiva degli anarchici greci che continuano la loro campagna di spedizioni “esplosive” verso ambasciate e personalità politiche estere. Ieri, gli artificieri ellenici sono dovuti intervenire nuovamente per far brillare un pacco-bomba, indirizzato all’ambasciata francese. L’ordigno esplosivo era nascosto in un voluminoso libro ed è stato fatto detonare fuori dagli edifici del corriere nel sobborgo di Markopoulo alla periferia di Atene. Il pacco destinato alla sede diplomatica francese conteneva esplosivo dello stesso tipo degli altri plichi scoperti nei giorni scorsi. Quello di ieri, infatti è solo l’ultimo di una serie di dispositivi e pacchi sospetti scoperti da lunedì. I primi cinque ordigni erano diretti alle ambasciate di Messico, Olanda, Svizzera, Bulgaria e Russia. Gli inquirenti greci hanno dichiarato di essere ancora alle prese con altre ispezioni su una serie di plichi consegnati alla società di trasporti di Markopoulo. Il governo è stato costretto ad assumere la drastica decisione di sospendere gli invii all’estero di posta e pacchi per 48 ore, sperando di fermare i militanti anarchici che hanno già inviato una dozzina di pacchetti ad ambasciate e leader stranieri. Fonti dell’esecutivo di Atene hanno però riferito che il Paese non ha in programma di estendere la sospensione del trasporto all’estero.Tre giorni fa dei plichi bomba sono esplosi presso le rappresentanze diplomatiche di Svizzera e Russia, senza causare vittime. L’altro ieri, un aereo carico di posta partito da Atene è stato fatto atterrare a Bologna dopo la segnalazione di un pacco bomba diretto a Silvio Berlusconi. Il plico indirizzato al Premier italiano era stato inviato da un giovane attraverso una società di spedizioni del distretto di Perissos, ad Atene. La polizia ha detto che anche quello diretto al Presidente del Consiglio era un libro contenente esplosivo. Gli inquirenti greci, sulla base di una lista trovata su uno dei due giovani arrestati lunedì, indicano che potrebbe essere in circolazione ancora un pacchetto-bomba destinato ad un’ambasciata di

N

un Paese asiatico. La polizia è certa che dietro la spedizione delle plichi esplosivi vi sia un gruppetto di tre o quattro persone. Lunedì sono stati arrestati quattro giovani, due uomini e due donne, vicini ai gruppi dell’estrema sinistra. Gli agenti dell’anti-terrorismo hanno sottoposto ad interrogatorio i sospetti, senza riuscire ad ottenere notizie su ulteriori azioni.

Due dei giovani fermati, poco più che ventenni, avrebbero legami con l’organizzazione anarchica “Cospirazione delle cellule di fuoco”. Al momento dell’arresto, gli indiziati indossavano giubbetti anti-proiettile e nascondevano in una borsa due lettere esplosive. Durante la perquisizione poi, sono saltate fuori anche due pistole Glock da 9 mm. Gli esperti dell’anti-terrorismo hanno analizzato la composizione degli ordigni, confezionati con piccole quantità di polvere da sparo e batterie, assicurando che difficilmente avrebbero potuto avere effetti letali per chi avesse aperto le missive. I terroristi, per non insospettire i corrieri hanno usato, come mittenti, nomi di personaggi greci molto noti. Ad esempio, il mittente del pacco indirizzato a Sarkozy è risultato essere il vice-premier greco Theodoros Pangalos. Il plico destinato all’ambasciata belga invece, sarebbe stato “spedito” dal famoso criminologo Yiannis Panousis, già entrato nel mirino degli estremisti per avere criticato la legge che non permette alle forze dell’ordine di entrare all’interno dei campus universitari greci. Una tattica simile fu usata a giugno con una bomba che esplose all’interno del Ministero della Protezione civile, uccidendo l’aiutante dell’allora Ministro, Michalis Chrysochoidis. Il nome usato come mittente del pacchetto fu quello di Christos Karavellas, un personaggio chiave dello scandalo Siemens. Il Ministro degli Esteri greco Dimitris Droutsas ha escluso legami tra gli autori dei plichi esplosivi e il «terrorismo internazionale». Droutsas ha comunque assicurato che vi saranno consultazioni internazionali sulla sicurezza dei servizi dei corrieri postali.

Due dei giovani fermati avrebbero legami con l’organizzazione anarchica “Cospirazione delle cellule di fuoco”

una soffiata, forse da parte di un clan rivale. Mercoledì la polizia ha scoperto una narco-fossa: per ora sono stati recuperati 19 corpi ma potrebbero essere molti di più. Nelle vicinanze c’erano i cadaveri di due giovani torturati e giustiziati. La coppia era apparsa in un video su YouTube dove confessava il misterioso rapimento e l’omicidio di 20 persone: li avrebbero uccisi per vendetta contro La Familia Michoacana, cartello che sta cercando di estendere l’area di influenza. Impossibile dire se questa versione sia credibile. Il gruppo di probabili turisti, venuto dalla regione di Michoacan per una vacanza ad Acapulco, era sparito il 30 settembre.

zioni pubbliche in favore di Liu nel giorno della cerimonia. Liu sta scontando una pena di 11 anni a causa della sua partecipazione a “Carta 08”, un appello a riforme politiche radicali in Cina. Sua moglie è agli arresti domiciliari da ottobre, quando è stata annunciata la scelta del Comitato per il Nobel.

A Pechino nelle ultime due settimane diplomatici di parecchi Paesi sono stati invitati a incontri con funzionari cinesi, che hanno fatto richieste analoghe a quelle contenute nella lettera inviata alle ambasciate accreditate nellacapitale norvegese. «Siamo stati contatti discretamente – ha detto una fonte diplomatica – invitati a piccole riunioni e hanno fatto passare il messaggio in questo modo». L’esistenza della lettera è stata confermata da varie fonti indipendenti. La richiesta giunge in un momento delicato, in cui parecchie nazioni europee stanno dialogando con la Cina sul terreno economico. Hu Jintao è a Parigi questa settimana, e secondo alcune fonti è in ballo un accordo per la vendita a Pechino di Airbus. Il leader britannico Cameron sta per visitare Pechino nella speranza di rinforzare i legami economici con la Cina.


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spettacoli

Flop. Dopo “Boardwalk empire” di Scorsese, ieri è stato il turno di “Carlos” di Assayas e dell’italianissimo “Le cose che restano” di Tavarelli

La passerella delle fiction La kermesse di Roma si è trasformata da Mostra del Cinema a “sfilata” delle mini serie televisive di Pietro Salvatori

ROMA. Si trova agilmente posto ai tavolini del bar dell’Auditorium. Segnale che la gente si sta diradando è le proiezioni stanno diminuendo. Il giovedì del festival di Roma è la vera giornata conclusiva, che oggi chiuderà i battenti proponendo un incontro con Camilleri e la premiazione finale. Una giornata passata tranquilla, con la colonna sonora delle centinaia di ragazzi delle scuole, per i quali quello che ormai da due anni è diventato un festival è rimasta la Festa voluta dal duo Veltroni-Bettini (quest’ultimo ha fatto una timida apparizione un paio di giorni fa). La giunta Alemanno, dopo un momento d’incertezza iniziale, durante il quale le voci di un’imminente chiusura dell’evento si sono rincorse numerose, ha invece puntato decisamente sull’idea veltroniana. Ma la presidenza Rondi, che ha portato a termine la trasformazione della kermesse da festa dedicata al pubblico a vero e proprio festival, non sembra aver portato i frutti. Un dispiacere per il sindaco di Roma, che teneva particolarmente all’evento ottobrino, inquadrandolo nelle manifestazioni per i 140 anni di Roma capitale. Alemanno forse ne aveva sentore. Il giorno dell’inaugurazione, pur lodando il lavoro e l’impegno degli organizzatori, aveva dichiarato che «con la regione Lazio e la Camera di Commercio di Roma bisognerà fare un ragionamento molto approfondito per vedere il futuro dopo questa edizione». La decisione di puntare meno sulle star internazionali per favorire pellicole sconosciute, unita a un generale aumento dei biglietti destinati al pubblico, non ha funzionato, anche alla luce di un cartellone veneziano di fronte alla ricchezza del quale non c’è stata storia. La giornata di ieri si è fatta ricordare per il film di Eric Lartigau, L’homme qui

voulait vivre sa vie, del quale si parla diffusamente in queste pagine. Sempre per rimanere in terra francese, è stato finalmente il giorno della tormentatissima proiezione di Carlos, nuovo film di Olivier Assayas, regista e critico cinematografico parigino. La pellicola era stata inserita in cartellone come evento speciale l’altro ieri, salvo poi essere stata improvvisamente annullata. Dopo un paio d’ore di illazioni, la direzione del festival ha offerto una spiegazione che sa di rocambolesco. Il distributore francese avrebbe infatti fornito una copia del film illegibile, del tutto inadatta ad essere proiettata. Do-

po essere stato sollecitato, sarebbe arrivata a Roma un’altra copia.

Ma anche questa è risultata essere difettata, impedendone così definitivamente la proiezione prevista. Salvataggio in extremis dunque, per il film che racconta la storia di Ilich Ramirez Sanchez, in arte Carlos, per due decenni, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, tra i terroristi più ricercati del pianeta. Un ritratto scarno e essenziale, condito da una regia che strizza l’occhio al pop, senza finti costumi e rifacimenti, girato in piena luce, che si avvale dei personaggi realmente

esistiti per costruire la personalità del proprio protagonista, ovviamente romanzandone le gesta. Pensato come una miniserie televisiva - da qui l’imponente durata, oltre due ore e mezza - Carlos dimostra come ormai possa essere davvero labile il confine tra serie televisiva e cinema. Tra il 1974 e il 1994, anno del suo arresto avvenuto a Khartoum, Sanchez si è reso protagonista di una lunga serie di atti sanguinosi, a cavallo tra il medio oriente e l’est europeo. Per quanto il film di Assayas sia nel suo complesso piacevole e avvincente, il taglio che l’autore dà alla propria storia è discutibile. Carlos emerge come personaggio eclettico, un rivoluzionario pragmatico e un sognatore irriducibile, spinto dal desiderio di cambiare, in meglio, il mondo piuttosto che dalla sete di sangue e di violenza. Un taglio da thriller politico e meta-filosofico, che ben si adatta sulle spalle del protagonista, Edgar Ramirez, già visto in Domino di Tony Scott, oltre che in The Bourne ultimatum e nel Che di Soderberg. Il ponte con il mondo della fiction sembra poter configurarsi come la cifra descrittiva degli ultimi giorni di festival. Dopo Boardwalk empire, la serie televisiva targata Hbo e Martin Scorsese, della quale abbiamo parlato ieri, e Carlos, è stato il turno dell’Italia presentare un prodotto televisivo nelle sale dell’auditorium. Scritto dai quotatissimi Sandro Rulli e Stefano Petraglia, Le cose che restano è stata protagonista di una lunghissima maratona in sala Alitalia. Una manciata di stakanovisti ha assistito alla proiezione dell’intera serie, iniziata alle cinque del pomeriggio e andata avanti fino oltre la mezzanotte. Paola Cortellesi, Ennio Fantastichini e Claudio Santamaria, insieme agli altri componenti del cast e al regista Gianluca Maria Tavarelli, hanno scortato la propria creatura per la presentazione ufficiale. In programmazione sulla rete ammiraglia della Rai nel cuore dell’inverno, la fiction pone al centro dell’attenzione la vita, la storia e le abitudini di una famiglia dell’Italia contemporanea, con gli usi, i costumi e le difficoltà della vita italiana del XX secolo, lungo il corso di dieci lunghi anni. In questo arco di tempo tempo vengono messe in scena le vicende che quotidianamente cambiano la vita familiare dei protagonisti, e che mutano al contempo radicalmente la vita culturale del Paese intero. Le quattro

puntate previste, la loro storia, la cornice di un festival per la presentazione ufficiale, non possono non rimandare la mente alla fortunatissima La meglio gioventù, come si augura il produttore, Angelo Barbagallo.

«Amo le epopee che durano molto, che si sviluppano nel tempo, come Heimat e la stessa Meglio gioventù», ha spiegato Tavarelli. «L’ombra dell’opera di Giordana non mi infastidisce affatto - ha proseguito - anzi, sono orgoglioso di poter affermare che in qualche modo il mio film nasce proprio da una costola di quel grande successo». «Un film che racconta di tanti temi attuali», spiega la Cortellesi «anche scomodi e affatto facili da esprimere al cinema». «Sono estremamente affascinato da progetti pedagogici pensati per la televisione», conclude Fantastichini, «scritta tra l’altro divinamente. Dialoghi veramente perfetti». Televisione, dunque, ma anche cultura, per il giovedì del festival. In collaborazione con l’ambasciata statunitense in Italia, l’organizzazione ha infatti dato vita a un incontro, tenutosi


spettacoli

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Arrivò al successo con “L’appartamento spagnolo” di Cédric Klapisch

Tutte le strade portano a Romain

Al Festival capitolino con “L’uomo che voleva vivere la sua vita”, Duris è tra le star francesi più apprezzate ROMA. L’assenza di star internazionali di richiamo è certo un problema per il festival. A Roma si sono visti Aaron Eckhart, Due facce nel Batman di Nolan, e Michael Pitt, reso celebre dal The Dreamers di Bertolucci. Ma sono state soprattutto le attrici a catalizzare l’attenzione dei fan: Keira Knightley, Eva Mendes e Julianne Moore su tutte. Cinque attori di livello internazionale, ai quali occorre aggiungere Martin Scorsese, in 10 giorni di kermesse: al netto delle dimenticanze, i personaggi che si sono meritati l’assalto delle troupe nazionali e internazionali si contano sulle dita di una mano. Un problema dicevamo, ma in un certo senso anche una sfida. Bisogna così andare a scovare e valorizzare storie più laterali ma non per questo meno solide e avvincenti, che in altri contesti passerebbero ingiustamente inosservate. È questo il caso di Romain Duris, uno degli attori più importanti del cinema francese contemporaneo, diventato famoso con L’Appartamento spagnolo di Cédric Klapisch, e poi scelto da registi quali Patrice Chereau, Jaques Audiard, autore dell’acclamatissimo Il profeta, e tanti altri. Un viso insieme solare e tormentato, Duris sceglie per sé ruoli di una certa difficoltà e di un certo spessore. Niente blockbuster, nessuna partecipazione facile a pellicole di sicuro incasso. Il parigino si è costruito in patria la fama di uno duro, complicato, stimolato solo dalle sfide. Tanto da meritarsi dai fan l’accostamento con Leonardo Di Caprio. Al contrario della grande star americana, i tratti di Duris sono irregolari, spigolosi, la gestualità più nervosa e scattante. E per questo scelto per dare il volto sia a un giovane e guascone Molière sia a Arsenio Lupin, nel film tratto dal celebre libro di Maurice Leblanc, La contessa di Cagliostro.

ha lavorato nel corso della sua breve ma intensa carriera, che lo rendono l’attrazione principale dell’ultima giornata, prima di quella dedicata alle premiazioni, della quinta edizione del Festival del film di Roma. Dove accompagna L’homme qui voulait vivre sa vie, L’uomo che voleva vivere la sua vita, opera terza di Eric Lartigau.

È la storia di un uomo, Paul Exben, che vive una vita perfetta: ricco, associato a uno degli studi legali più affermati di Parigi, una bella casa, una moglie che tutti gli invidiano. Ma qualcosa non quadra: qualche piccola increspatura nelle abitudini di una vita innestata su binari perfetti lo insospettiscono. Scopre così che la consorte, alla quale presta volto e fisico una splendida Marina Foïs, lo tradisce col vicino di casa, un fotoreporter dal fascino antico, dalla vitanto avventurosa ta quanto scombinata. È la fine di un mondo che credeva di tenere sotto controllo, e l’inizio di un percorso disperato. La negazione di tutto ciò che era stato fino a quel momento, trascinato verso un cambio d’identità non voluto, ma anche verso la scoperta delle sue reali aspettative. Sfruttando la vena noir del proprio protagonista, Lartigau costruisce un dramma con venature thriller, che mantiene nella struttura narrativa i tratti della commedia. Occhi al finale, che lascia sinceramente spiazzati. L’uomo che voleva vivere la sua vita è l’ennesima buona prova di un cinema francese che, dopo due decenni di sostanziale involuzione, sta tornando alla ribalta. E ne ha dato buona prova lungo l’arco di tutto il Festival, come conferma Carlo Brunelli, che segue come inviato della stampa specializzata la manifestazione capitolina dalla sua seconda edizione: «Mai come quest’anno il cinema transalpino ha dato buona prova di sé. Fatto salvo per i due o tre film di richiamo, le pellicole francesi sono quelle che hanno messo in luce la migliore qualità complessiva». A partire da Quartier Lontain, apertura di Alice nella città, in coproduzione con Belgio e Lussemburgo, passando per Les petits mouchoirs di Guillame Canet, che si contende la vittoria, arrivando fino a Carlos, il tormentato film di Assayas di cui si parla in queste pagine, il risveglio dei nostri cugini d’Oltralpe è stata una delle piacevoli sorprese di una manifestazione sulla quale sta per calare il sipario. (p.s.)

Niente blockbuster, nessuna partecipazione facile a pellicole di sicuro incasso: per sé sceglie solo ruoli di una certa difficoltà

presso il Centro studi americano in Italia, in cui il cinema indipendente americano è stato messo a confronto con i video-artisti di nuova generazione. Alexandre Rockwell, regista autore di The soup, ha infatti dialogato a lungo con gli artisti di Post-Tv James Ferrario e Luke Wyatt, che stanno rivoluzionando con i loro esperimenti, in gran parte inediti nel nostro Paese, il linguaggio televisivo.

A sinistra, il cast della serie teleivsiva italiana “Le cose che restano” (regia di Gianluca Maria Tavarelli) e il regista francese Olivier Assayas, alla Mostra del Cinema di Roma con “Carlos”. A destra, l’attore parigino Romain Duris, protagonista del film “L’uomo che voleva vivere la sua vita”. In alto, un disegno di Michelangelo Pace

La madre era ingegnere, ma il giovane Romain ha seguito la vena artistica del padre architetto, dedicandosi prima alla pittura e poi alla musica, come membro del gruppo jazz-funk-rap dei Kingsize, dei quali era batterista. L’incontro con Klapisch lo spinge definitivamente sulla strada del cinema. Nel ’96 è la volta di Ognuno cerca il suo gatto, tre anni dopo Peut-etre, infine, nel 2002, L’appartamento spagnolo lo consacra di fronte al grande pubblico. Belmondo, Depardieu, Adjani, Deneuve, Malkovich. Sono solo alcune delle star con le quali


società

pagina 20 • 5 novembre 2010

Sono allarmanti i dati diffusi da un recente Rapporto Istat sulla situazione dei cosiddetti “bamboccioni” in Italia. Lo studio rileva soprattutto la nascita di un nuovo ibrido antropologico, il “Neet”: inquietante acronimo anglosassone con cui si designa una nuova popolazione di soggetti «Non in education, employment or training»

on è un Paese per vecchi. E tanto meno per giovani, potremmo dire, facendo il verso alla pellicola dei fratelli Cohen. A quanto pare l’eccellenza italiana non sempre spicca per genio e sregolatezza, arte e scienza, creatività e concretezza, ingegno e vitalità. Gli italici primati sono questa volta deprimenti. C’è crisi. È vero. Ma l’economia è non di rado un alibi o anche, soltanto, una variabile tra le altre. Incrociando i dati del Rapporto annuale dell’Istat con le percentuali del XIII Rapporto del Cisf, Centro internazionale Studi per la Famiglia, pubblicato nei mesi scorsi e riportato agli onori delle cronache dal cardinal Bagnasco, possiamo tranquillamente allarmarci: l’Italia sta andando verso il “suicidio demografico”. Non solo. Stiamo assistendo alla nascita di un nuovo ibrido antropologico: il “vecchio bamboccione”. In breve, la mancanza di una occupazione stabile e il grave problema della casa costringe sì i nostri giovani conterranei alla convivenza forzata con mamma e papà, ma a questo bisogna aggiungere un ulteriore elemento nel quale tutte le categorie sociali, anagrafiche e generazionali si confondono sino a dissolversi, quasi, in un unico sentimento collettivo: l’incertezza.

N

Il Rapporto Istat non va troppo per il sottile e parla di una nuova generazione “Neet”, inquietante acronimo anglosassone con cui si designa una nuova popolazione di soggetti “Non in education, employment or training”. In Italia questa particolare componente sociale annovera oltre due milioni di persone senza impiego e completamente inattive anche sul versante formativo. Di questi abbondanti due milioni il 21% apparterrebbe alla fascia

Lo studio. Il Rapporto annuale dell’Istat attesta la nascita di un ibrido antropologico

Vecchi bamboccioni crescono (in Italia) di Giulio Battioni d’età compresa fra i 15 e i 29 anni, in prevalenza maschi.

A questo collettivo si sarebbero aggiunte 126 mila unità in più nel 2009 di cui 85 mila al Nord, 27 mila al Centro, con oltre un milione del totale concentrato nel solo Mezzogiorno. Sarebbe facile gettare la croce addosso alla scuola e al siste-

re la propria emancipazione. Nell’ultimo anno sembra che i “bamboccioni”fra i 30 e i 34 anni si siano triplicati, e tra i 18 e i 34 anni quasi il 59% del totale vive ancora a casa dei genitori. La causa prevalente, circa il 40% dei casi, è legata alle “questioni economiche”, ma c’è un persistente 31% restio ad abbandonare il tetto paterno “per

Europa è il più vecchio dopo la Germania e le stime vogliono che da oggi al 2051 gli over 64 anni divengano 1 su 5. Il Welfare dovrà sopportare, per lo meno sulla carta, uno spaventoso invecchiamento della popolazione che non sembra neppure voler prevenire. Il rapporto del Cisf, la cui eco è stata prolungata dal presidente della Cei, in

I dati rilevano che nell’ultimo anno, le persone tra i i 30 e i 34 anni che non abbandonano il tetto familiare si siano triplicate. Nel 40% dei casi la causa è legata a “questioni economiche”, ma c’è un persistente 31% che rimane a casa per scelta ma educativo ma il 21% degli interessati è laureato e il 20% diplomato. La colpa ricadrebbe allora sulla crisi economica, l’impossibilità di trovare un lavoro vero, un livello salariale decente e, peggio che andar di notte, una casa dove completa-

scelta”. Nell’era in cui l’incertezza, la mobilità, la liquidità non sono soltanto congiuntura ma struttura vera e propria, sistema, condizione cronica dell’esistenza, per lo meno nell’aree più ricche del pianeta, l’Italia è tra i paesi più anziani. In

occasione della sua assemblea generale, denuncia lo stato di abbandono sociale in cui oggi versano le famiglie italiane. Nel Belpaese la media è di 1,71 figli per donna a fronte di un desiderio di maternità pari a 2,13 figli per donna. Il 53,4% delle famiglie anagrafiche non ha figli, mentre del restante 46,6% il 21,9% ha un solo figlio, il 19,5% due, il 4,4% tre e lo 0,7% più di tre figli. Se tra le cause di denatalità una grande quota spetta ai “motivi economici”, d’altra parte nel 58% dei casi, segnala il Cisf, non si hanno figli per “motivi psicologici”.

Motivi psicologici, incertezza, paura di scegliere. Oltre all’emergenza economica in Italia c’è un sentimento di paura più profondo. Come in tutto

l’Occidente post-industriale, i paesi della terza rivoluzione industriale “info-tecnologica”, in quella che, nonostante la crisi, è ancora la “società del benessere”, la famiglia è il luogo umano che più di ogni altro soffre desolazione e infelicità che derivano dal grande sconvolgimento antropologico oggi in corso. L’esasperazione individualistica dei desideri, la riduzione dei rapporti umani a semplice “democrazia delle emozioni” e l’illusione di poter dominare il mondo, la vita e la morte, attraverso il progresso scientifico e le sole capacità umane hanno portato le nuove come le vecchie generazioni a uno stato di disincanto e disimpegno assoluti. Se i bamboccioni delle nuove generazioni temono la vita, soffrono le difficoltà e i fallimenti cui il mondo sembra abbandonarli, i loro padri e le vecchie generazioni temono non di meno la “fine”, la grande prova della quale pure paventano l’infinita solitudine. In Italia però, più che altrove, l’individualismo moderno si salda con un’ancestrale cultura della famiglia.

Di fronte alla crisi, padri e figli sembrano stringere una strana solidarietà, un tacito accordo di mutua assistenza per il quale si tollerano, senza essere comprese, le ragioni degli uni e degli altri, e tutti si sostengono vicendevolmente, gli uni approfittando delle altrui conquiste di una intera vita, gli altri del minimo conforto nell’ultimo tratto di strada. La rimozione delle cause socio-economiche e culturali che oggi impediscono alla famiglia di rinnovarsi e guardare al futuro con fiducia deve essere obiettivo prioritario dell’agenda politica dell’Italia e di tutti quei paesi del “vecchio mondo”il cui patrimonio umano, storico e sociale è a rischio estinzione.


spettacoli

5 novembre 2010 • pagina 21

L’intervista. A tu per tu con Mavis Staples, di nuovo sotto i riflettori con l’album “You Are Not Alone” prodotto da Jeff Tweedy

La leonessa del soul torna a ruggire di Alfredo Marziano on è un disco da alta classifica, ma un bijou per intenditori: You Are Not Alone di Mavis Staples, c’è da scommetterci, volerà alto nei referendum di fine anno compilati da critici, fan e riviste specializzate. Perché mette d’accordo due categorie di pubblico dai gusti non sempre coincidenti, gli amanti della black music classica e i seguaci del rock “alternativo”. E perché celebra un connubio stuzzicante sulla carta, esplosivo alla prova dei fatti. Mavis e il suo produttore, Jeff Tweedy dei Wilco (la miglior rock band americana degli ultimi dieci anni?), abitano entrambi a Chicago, la “windy city” del presidente Barack Obama di cui la Staples è una fervente sostenitrice. Fino a un paio di anni fa, però, non si erano mai incrociati: generazioni diverse (Mavis ha 71 anni, Jeff 43), differenti frequentazioni.

N

Poi Tweedy, che da tempi insospettabili adora la musica degli Staple Singers, ha preso coraggio: presentandosi, una sera, nei camerini dell’Hideout Club dove la cantante stava registrando un disco dal vivo con la sua band. Un incontro affettuoso, amichevole, seguito da un invito a pranzo e da lunghe conversazioni. La scintilla è scattata, i due hanno sviluppato una forte empatia e a casa Tweedy Mavis è diventata una di famiglia, stringendo amicizia con la moglie del musicista, Sue, e “adottando” come nipotini i piccoli Spencer e Sammy. L’alchimia è proseguita in studio di registrazione (il Loft, quartier generale dei Wilco), dove Tweedy è arrivato con un pugno di canzoni autografe e una bella selezione di classici da proporre alla sua nuova musa: gospel di marca Staple Singers, che da tempo ronzavano nelle cuffiette del suo iPod, ma anche materiale più arcaico, il blues del Reverendo Gary Davis e il repertorio anni Trenta dei Golden Gate Jubilee Singers. E pezzi relativamente più recenti, a firma di Allen Toussaint (maestro del New Orleans Sound), di Randy Newman e di John Fogerty, il leader dei Creedence Clearwater Revival. «Canzoni così vecchie», spiega Mavis con quella sua risata calda e contagiosa, «che mi hanno fatto tornare di colpo ragazzina. Come diavolo facesse a conoscere i Jubilee Singers non lo so. Quelle erano le canzoni che ci cantava papà quando eravamo piccoli». Papà, l’adorato Roebuck “Pops” Staples, se n’è

La canzone che dà il titolo al disco è una delle cose più belle che abbia mai cantato. Quelle parole, «non sei solo», dicono una grande verità

In questa pagina, alcune immagini di Mavis Staples, anche in compagnia del produttore Jeff Tweedy, e la copertina del suo nuovo album “You are not alone”

andato appena prima del Natale del 2000, lasciando i figli canterini in un lungo stato di prostrazione e di disorientamento. Ma in questo disco la sua presenza si avverte forte: nel caratteristico vibrato di chitarra impiegato da Rick Holstrom, bandleader della Staples, e nella scelta del repertorio. Downward Road, Too Close To Heaven e Don’t Knock (quest’ultima ripresa anche da Tom Jones nel suo recente Praise And Blame) risalgono al primo periodo Staple Singers, quello ispirato alle sacre scritture e alla parola di Dio. Subito dopo vennero l’amicizia con Martin Luther King e le battaglie non violente, le marce per i diritti civili e gli inviti alla black people ad avere rispetto per se stessa (Respect Yourself), con i suoni elettrici ed eccitanti di Muscle Shoals e della Stax Records alle spalle. Nel 1972 I’ll Take You There salì al numero uno in classifica e gli Staples sfiorarono il Grammy Award.

Quando i giudici preferirono assegnarlo a un altro candidato, Mavis e le sue sorelle, Cleotha e Yvonne, ci rimasero male. «Ce ne stavamo lì a piangere, finché papà non ci prese da parte dicendoci di non prendercela per così poco. L’unica ricompensa che conta, ci spiegò, è quella divina». Stessa sorte è toccata l’anno scorso al suo disco dal vivo Live At The

Hideout, arrivato a un passo dal premio. «Ma da allora ho imparato la lezione. Non canto per agguantare un Grammy. Canto per portare un messaggio alla gente, per sollevarle il morale, per dare a chi mi ascolta la forza di alzarsi dal letto ogni mattina. Pops mi ha insegnato che per farlo non c’è bisogno di sgolarsi, di fare acrobazie: basta cantare con il cuore». La specialità della vecchia leonessa del soul, una voce che scuote le montagne e che ha stregato tanti nomi illustri: Robbie Robertson della Band, che volle gli Staple Singers sul palco a cantare la sua canzone più famosa, The Weight, in occasione dell’Ultimo valzer filmato da Martin Scorsese. O Prince, che negli anni Ottanta tentò invano di cucire addosso a Mavis un’immagine più “moderna” e un suono più hi-tech). Fino a Ry Cooder, che tre anni fa, con We’ll Never Turn Back, l’ha convinta a rivisitare i vecchi inni dei diritti civili e le

freedom songs degli anni Sessanta. Nessuno, però, sembra averla entusiasmata come Tweedy (che lei chiama sempre così, per cognome): «You Are Not Alone, la canzone che lui ha scritto per me e che intitola l’album, è una delle cose più belle che abbia mai cantato. Quelle parole,“non sei solo”, dicono una grande verità. Tutti i brani che abbiamo scelto hanno un messaggio positivo, interpretarli mi fa stare bene».

Tra chicagoani ci si intende, e già i due parlano di dare un seguito al progetto. E poi ora c’è Obama, a sventolare alta la bandiera dell’orgoglio cittadino. Anche se le elezioni di Midterm in realtà sono state una doccia fredda... «Beh, io continuo a essere orgogliosa di lui», sospira Mavis. «E mi spiace molto non aver potuto partecipare al concerto che la Casa Bianca ha organizzato per il Black History Month, lo scorso mese di febbraio. Mi trovavo a San Francisco per lavoro e non potevo proprio muovermi. Ora ci sono quei matti del Tea Party, con i loro cartelli, le loro maschere e i loro costumi... Vanno in giro a contestarlo dicendo di volere indietro il Paese. Ma io credo che Barack farà il bene del Paese. È un uomo intelligente, ha una bella famiglia e prego che venga rieletto. Anzi, sono sicura che andra così».


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Bilanci degli enti locali. È urgente renderli accessibili Come segnalato dall’Aduc (Associazione per i diritti degli utenti e consumatori), il ministero dell’Interno, lo scorso aprile ha sospeso la fornitura in modalità download dei dati relativi ai bilanci dei comuni e delle province italiani, disponibili in precedenza sull’Osservatorio della finanza locale nel sito del ministero. Attualmente, i dati possono ancora essere scaricati ma bisogna prendere i quadri di bilancio per ogni singolo comune o provincia e poi, se necessario, riaggregarli. Per chiunque voglia fare analisi comparate sulla finanza degli enti locali italiani (ricercatori, funzionari e politici locali, semplici cittadini), ciò determina uno spreco di tempo enorme e tale spesso da rendere il lavoro semplicemente impossibile. Nessuna spiegazione per l’interruzione del servizio è stata finora fornita dal ministero, e considerato che il primo passo per consentire la trasparenza è proprio l’accesso universale ai dati, senza i quali non c’è né monitoraggio né critica razionale possibile, mi chiedo quando renderanno nuovamente accessibili a tutti gli interessati i dati sui bilanci degli enti locali.

Donatella P.

IL MULTICULTURALISMO HA FALLITO Come sempre le parole del Papa sono parole sagge e lungimiranti. Chi decide di vivere sul nostro territorio deve anche conoscerne le leggi, i valori, la cultura, la lingua, la fede e rispettarli. Nascondere o mettere da parte la propria identità e la propria storia – come qualcuno vorrebbe – per dialogare con le comunità di immigrati nel nostro Paese servirebbe soltanto ad alimentare le ingiustizie e ad allontanare ogni possibilità di confronto. Il fallimento del multiculturalismo, come la pericolosità del relativismo sono sempre stati al centro dell’attenzione di Papa Benedetto XVI e sono un punto di partenza per guardare al futuro.

Ellezeta

CONSIGLIERI COMUNALI ASSENTEISTI

comunali, capita - non di rado - di leggere che non è cessata la pessima abitudine di alcuni, di abbandonare la seduta dopo aver fatto verbalizzare la loro presenza al fine di maturare il diritto al gettone di presenza. Poiché la presenza alle sedute viene pagata, poco o molto non ha importanza, non mi pare si possa affermare che detto comportamento sia lecito. In ogni caso rappresenta un pessimo esempio nei confronti dei dipendenti dell’ente sottoposti a controlli sulla presenza. Crea, inoltre, ulteriore discredito alla classe politica, che in questo periodo ha scarsi indici di gradimento. Anche in considerazione che il Paese sta attraversando un periodo di crisi economica e anche per dare l’esempio, non sarebbe opportuno attribuire il gettone intero solo a chi partecipa all’intera seduta?

Spulciando nelle cronache dei consigli

Luigi Celebre

Guardaroba “atomico” Un fungo nucleare, fortunatamente innocuo. L’esplosione che vedete è stata creata ad arte da Alain Guerra e Neraldo de la Paz, due artisti cubani, con materiale preso direttamente dal cestino della biancheria: vecchi calzini, costumi da bagno, abiti da giorno e da sera, per un totale di 50 capi d’abbigliamento

VALORIZZIAMO LE PROVINCE E LA RETE DELLE PRO LOCO Spero che gli interventi nel settore turistico siano fatti in modo omogeneo su tutto il territorio regionale. In tal modo il governo della Puglia potrebbe invertire l’attuale tendenza al baricentrismo, evitando di dare linfa a possibili spinte localistiche già in atto. L’Udc è favorevole alla figura di un direttore generale ma coadiuvato da sei esperti che devono essere indicati dalle singole province. Sono con-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

vinto che occorre coinvolgere le Province per valorizzarle e farle sentire protagoniste dello sviluppo del nostro territorio. Bisognerebbe anche che la legge utilizzasse la rete delle Pro loco, che si reggono esclusivamente sul volontariato, hanno un potenziale enorme nella politica di sviluppo del turismo, sia per la capillarità con cui sono presenti sul territorio sia per le competenze che hanno maturato negli anni.

Salvatore Negro

da ”Le Figaro” del 4/11/10

Dimmi dove sei, ti faccio lo sconto a geolocalizzazione è un concetto che dice poco ai più, ma molto ai pubblicitari. È un’idea legata ai social network, pensata per attirare il popolo degli Iphone e dei Blackberry e strutturata per diventare uno strumento pubblicitario di nuova generazione. Le campagne tradizionali, ad esempio quelle costosissime sui canali televisivi generalisti, ogni tanto, riservano brutte sorprese, così il settore sta, da anni, studiando nuovi mezzi di induzione di comportamenti collettivi. Leggi: come far spendere le persone.

tanto seguito negli Usa – copriva poco più dell’1 per cento degli utilizzatori del web – ma con l’arrivo di Facebook, i suoi 500 milioni di iscritti e i 200 milioni di contatti giornalieri, l’impatto sarà sicuramente differente. Mark Zuckerberg creatore del social network che si è guadagnato anche la consacrazione su di una pellicola hollywoodiana, ha però sottolineato anche un diverso utilizzo del sistema di geolocalizzazione applicato alla struttura della comunicazione in rete.

L

Four Square è stato fra i primi social a puntare sulla geolocalizzazione. In pratica chi si registra nella community traccia i propri spostamenti sul territorio, di una città ad esempio. I rivenditori della zona in cui si trova il membro del social possono proporre sconti e trattamenti particolari. Facebook si è buttato subito nel business, lanciando Facebook Place che in Francia si chiama «Lieux». Le offerte sono molto vantaggiose, ad esempio, si può mangiare messicano in due al prezzo di uno. Mercoledì, il progetto è stato presentato ai commercianti d’Oltralpe e potrà funzionare sugli Iphone e per gli utilizzatori di Android, il nuovo cellulare che sta mettendo in crisi il predominio della piattaforma di Apple e lo stesso Blackberry. I tecnici chiamano questa nuova frontiera della pubblicità, advertising di prossimità. Un meccanismo che potrebbe innescare delle dinami-

che interessanti in tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo. Se un cliente dovesse portarsi dietro degli amici per fare acquisti, il tornaconto potrebbe diventare veramente interessante. Il fatto che il social network più importante si sia buttato subito in questo settore la dice lunga sulle potenzialità che potrebbe esprimere. Ma non si tratta solo di promettere sconti e regali, ad esempio negli Stati Uniti, l’Universtà di Berkeley a chi si fa catturare nella rete della geolocalizzazione propone di incontrare le stelle della propria squadra di football americano. Un boccone da non perdere per tifosi e famiglie. Così conquista simpatie e promuove l’iscrizione alle facoltà. Chi ha aperto la nuova frontiera della promozione di prossimità è stato Four Square, non

Secondo il patron di Face il nuovo sistema tenderà a rivoluzionare la vita di chi già è diventato “schiavo” delle relazioni in rete. Però qualche allarme questa nuova piattaforma lo sta creando, soprattutto nel settore della difesa della privacy. In Francia, l’autorità che vigila sul rispetto delle leggi a tutela dei cittadini ha già lanciato l’allarme. Lieux richiede che vengano fornite informazioni continue su dove si trovi la persona, sugli spostamenti, sulle abitudini quotidiane. «Attenzione a non fornire troppi dati personali» ha ammonito il Cnil, l’agenzia che protegge la privacy dei francesi. L’autorità ha chiesto subito al social network di adeguare i parametri della piattaforma e il flusso d’informazioni verso una maggiore tutela della vita privata dei cittadini. Ma sarà una battaglia lunga, perché ormai la frontiera della privacy non rischia di essere superata, ma semplicemente di essere polverizzata.


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LE VERITÀ NASCOSTE

Mi hanno rubato la collezione di ecstasy AMSTERDAM. Un 46enne olandese aveva un hobby decisamente particolare: collezionare pasticche di ecstasy. Una collezione decisamente fornita, che aveva raggiunto le 2400 pillole, cui si era appassionato per la varietà di colori, forme e loghi, messa insieme in oltre 20 anni. Una collezione che però un bel giorno è scomparsa: l’uomo, dopo qualche riflessione, ha deciso di denunciare il furto alla polizia. Gli agenti sono rimasti decisamente stupiti quando hanno raccolto la denuncia dell’uomo, perché non si aspettavano certo che qualcuno chiedesse il loro aiuto per ritrovare della droga. In realtà, l’uomo ha spiegato di non aspettarsi di avere

indietro la sua collezione, il cui valore “su strada” è stimato intorno agli 11mila euro, ma si è detto preoccupato dall’uso (o consumo, dovremmo dire) che chi ha preso le pillole potrebbe farne, anche perché alcune sono probabilmente deteriorate, altre sarebbero state avvelenate o contaminate con agenti chimici, e quindi potrebbero avere effetti decisamente nocivi in caso di utilizzo. L’uomo ha spiegato di non fare uso di droga: «L’ho provata, ma non mi piaceva», ha però ammesso, e che la sua collezione era nata solamente per in-

ACCADDE OGGI

PROVINCE: NO ELIMINAZIONE, SÌ CITTÀ METROPOLITANE Bisogna riordinare le competenze degli enti locali, assicurando le necessarie istituzioni di snodo tra la regione e il comune. Con l’eliminazione indiscriminata delle province si creerebbe un vuoto istituzionale e funzionale tra territori rurali, piccoli-medi comuni e regione. Sono invece favorevole alla costituzione delle città metropolitane, che esigerà una semplificazione ma attentamente mirata e delimitata, rispetto al tema di stretta attualità che riguarda l’eliminazione delle province. Un dibattito che si è spesso sviluppato in maniera populista e pretestuosa, e che al contrario esigerebbe una riflessione più attenta e svincolata da logiche elettorali.

Emilio Verrengia

UN FEDERALISMO COSÌ, È COME UN LIBRO CON LE PAGINE BIANCHE Il federalismo si può fare solo se c’è una modifica della manovra, diversamente si darebbe corpo a un sistema di funzionamento dello Stato che non sta in piedi. Vogliamo un federalismo vero, con le regioni e gli enti locali chiamati a dare prova di buona amministrazione. Ma se tutti i trasferimenti e tutte le risorse sono semplicemente azzerate, non c’è nulla da amministrare, né bene né male. Bisogna intenderci sullo schema di decreto sul federalismo fiscale, ma senza approfondire temi come il trasporto pubblico locale o l’impatto della manovra, rischia di essere il titolo di un libro con le pagine bianche. E se questo va bene al governo non va bene alle regioni.

Vito De Filippo

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

di Vincenzo Bacarani

5 novembre 1987 Apartheid: in Sudafrica, Govan Mbeki viene rilasciato dopo aver passato 24 anni nella prigione di Robben Island 1989 Muore il grande pianista Vladimir Horowitz 1990 Il rabbino Meir Kahane, fondatore del movimento di estrema destra Kach, viene freddato dopo un discorso tenuto in un hotel di New York 1994 Il 45enne George Foreman diventa il più vecchio campione mondiale di pugilato nei pesi massimi, mandando k.o. Michael Moorer 1996 Nelle elezioni presidenziali statunitensi, il presidente uscente democratico Bill Clinton batte lo sfidante repubblicano Bob Dole 1999 Caso antitrust Microsoft: il giudice distrettuale Thomas Penfield Jackson sentenzia che Microsoft detiene un «potere monopolistico» 2001 Muore in carcere, dopo mesi di sciopero della fame, l’animalista Barry Horne, attivista dell’Animal Liberation Front

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

teresse estetico. La polizia sta valutando se denunciare l’uomo, ma l’accusa ipotizzabile – possesso di droga – non è sostenibile dato che le pasticche non sono più in possesso dell’uomo.

NO AL COLONIALISMO AGROALIMENTARE La conservazione degli habitat e delle specie vegetali, animali, microbiologiche è la vera sfida che il mondo ha oggi di fronte. Sono questi i fattori strategici per risolvere il problema dell’alimentazione delle popolazioni. La biodiversità è oggi messa ovunque in pericolo da una sorta di colonialismo agronomico e agroalimentare. In Italia, nell’ultimo mezzo secolo sono sparite centinaia di specie, vegetali e animali, in nome dell’utile del momento. In natura ciò che sparisce non torna più: l’agricoltura non è una fabbrica che si può fermare, abbandonare o convertire in quattro e quattr’otto. La pressione di un agribusiness che priva gli agricoltori dei loro principali strumenti di lavoro, il seme e le sementi, la terra dove piantarli, l’acqua per coltivarli rischia di impoverire tutti in nome di una economia alla quale non interessa guardare lontano, che non pensa di piantare alberi di cui fruiranno i nostri nipoti, ma guarda a quanto può guadagnare oggi. Agribusiness, Agropirateria, Agromafia: il vocabolario si arricchisce di termini preoccupanti che esprimono un nuovo “inquinamento” senza ritorno.

Franco Manzato

PRECISAZIONE Volevo semplicemente segnalare che Benedetto XVI non ha ricevuto in udienza privata il sig. Alessandro Maiorano. La foto relativa all’incontro con il S.S. Padre riguarda un’udienza pubblica del mercoledì: il sig. Maiorano si è avvicinato con il figlioletto al Papa per farlo benedire, insieme agli altri bambini presenti.

Alessandro Matoni

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

CERCARE IL POSTO CON UN CLIC Da pochi giorni è attivo un nuovo portale per le offerte e le domande di lavoro. Si chiama “Cliclavoro” ed è un servizio sperimentale promosso dal ministero del Lavoro in collaborazione con le Regioni e le Province autonome. Funziona in questo modo: le Regioni e le Province autonome inviano e ricevono candidature e offerte lavoro, il ministero svolge la funzione di coordinamento e offre informazioni per l’occupazione. L’indirizzo web è: www.cliclavoro.gov.it Il sito è presente anche nei principali social network (Facebook, Twitter e Linkedin). Un’inziativa lodevole, anche se molto tardiva perché di portali di ricerca e offerte lavoro la comunità mediatica ne è piena da diversi anni. Comunque, meglio tardi che mai. Cliclavoro consente di visionare tutte le opportunità di lavoro, visionare i curriculum inseriti da cittadini o intermediari, visionare i curriculum dei lavoratori licenziati, sospesi per cessazione attività, in mobilità e percettori di sostegno al reddito. Inoltre il portale del ministero del Lavoro consente di visionare tutti i concorsi cdella pubblica amministrazione per posti di lavoro in somministrazione, a tempo determinato, a tempo indeterminato, a consulenza. Le aziende potranno visionare i curriculum dei laureati delle università pubbliche e private, dei diplomati delle scuole superiori pubbliche e private. Inoltre è possibile usufruire di una specifica applicazione che consente la ricerca e la localizzazione sul territorio italiano dei centri per l’impiego, delle agenzie per il lavoro, degli sportelli Informagiovani e delle direzioni regionali e provinciali del lavoro. Potranno utilizzare questo portale i cittadini, le aziende, i centri per l’impiego, i consulenti del lavoro, gli enti bilaterali, le università, le scuole e le pubbliche amministrazioni. Per accedere a questi servizi è necessario registrarsi al sito, come avviene peraltro per tutti gli altri portali privati di ricerca e offerta lavoro, preparare un curriculum dettagliato che possa essere smistato alle offerte di lavoro più rispondenti alle proprie aspirazioni ed esigenze. Si potranno inviare e ricevere messaggi in riferimento alla ricerca o alla offerta di lavoro specifica. Questa iniziativa del nuovo portale è stata presentata nei giorni scorsi a Roma nel corso di una conferenza stampa. Si tratta di una iniziativa che agevola sensibilmente le persone che sono in cerca di occupazione e le aziende o gli enti che cercano lavoratori specifici, magari con alcune specializzazioni particolari. Questo nuovo portale, completo in tutti i suoi aspetti, garantirà inoltre a chi lo vorrà utilizzare il non ricevimento nella propria casella di posta elettronica di offerte di lavoro dubbie con ingannevoli promesse di guadagni eccezionali. bacarani@gmail.com

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


ULTIMAPAGINA Classifiche. Forbes incorona il leader cinese ma ne ignora l’erede

E Hu Jintao divenne il più potente di Vincenzo Faccioli Pintozzi uale crisi mondiale può risolversi senza l’aiuto della Cina? La crisi economica dipende in gran parte dalla posizione di Pechino, che non vuole assolutamente rivalutare la propria moneta interna lasciando gli Stati Uniti in una situazione di sudditanza. La questione del nucleare iraniano non esisterebbe neanche, se il materiale fissile e il know-how per costruire le centrali non fosse arrivato dall’Asia orientale al regime degli ayatollah. Stesso discorso per il problema nordcoreano, per la crisi umanitaria in Darfur, per la corsa alle risorse energetiche in giro per il mondo. Senza Pechino, non si va da nessuna parte. È quindi abbastanza scontata, anche se coraggiosa, la scelta della rivista Forbes di piazzare al primo posto della classifica degli uomini più potenti al mondo Hu Jintao. Subito dopo troviamo Barack Obama, limitato da quel brutto affare che è la democrazia, e in terza posizione il sovrano dell’Arabia Saudita Abdullah ben Abdel Aziz. Il presidente cinese – che detiene anche la carica di Segretario generale del Partito comunista e presidente della Commissione militare centrale – è di fatto la chiave di volta per scardinare e tranquillizzare il mondo. Peccato però che la Cina non abbia poi tanto interesse a cooperare. Il motivo di questa ritrosia è di duplice natura: da una parte c’è la naturale ritrosia dell’Impero di Mezzo a sentirsi parte della comunità internazionale, sentimento che nasce da quasi cinquemila anni di chiusura totale all’interno dei propri confini.

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mondo a est” e costrinsero l’Imperatore a firmare trattati umilianti e squilibrati.

Può sembrare una forzatura: d’altra parte, in questi decenni l’impero è caduto e una rivoluzione comunista ha cambiato radicalmente la faccia della nazione; ma non è così. Proprio Hu Jintao ne è forse la dimostrazione più

il più potente al mondo perché governa con pugno di ferro – e senza alcun limite politico – sulla popolazione più numerosa e produttiva del pianeta; stringe accordi con quelle dittature che l’Occidente non può e non deve frequentare; propone e revoca accordi commerciali in grado di salvare intere nazioni, al momento soprattutto africane. Tuttavia, anche lui ha un

del MONDO lampante: a differenza dei suoi tre predecessori – Mao Zedong, Deng Xiaoping e Jiang Zemin – l’uomo forte di Pechino riesce a trasmettere quel sentimento di distacco assoluto e di freddezza nei confronti dei problemi mondiali che accomuna i suoi 1,4 miliardi di compaesani. La sua carriera ha un che di incredibile. Nato nel dicembre del 1942 a Jixi, nella provincia

lato debole: in questo caso si chiama Xi Jinping, ed è il suo delfino ed erede dichiarato. Il 18 ottobre scorso, il Comitato centrale comuni-

Al secondo posto Barack Obama, limitato da quel brutto affare che è la democrazia, e al terzo il re saudita, custode della Mecca e del petrolio. Il presidente della Cina la spunta perché, senza di lui, non si risolvono le crisi

Dall’altra c’è il risentimento lungo un secolo che il Paese cova nei confronti delle potenze occidentali, che fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento del secolo scorso entrarono con la forza all’interno del “nuovo

dell’Anhui, Hu entra nel Partito comunista nell’aprile del 1964; un anno dopo (ottenuta una laurea in ingegneria) inizia a lavorare per il governo fino a divenire membro della Lega giovanile comunista e presidente della Federazione dei giovani cinesi. Dal 1985 inizia la scalata: diventa segretario prima della provincia di Guizhou e poi del Tibet dove, alcuni mesi prima del massacro di piazza Tiananmen,“anticipa”i suoi capi ordinando la repressione violenta della popolazione tibetana che chiedeva il ritorno del Dalai Lama. All’alba del 5 giugno del 1989, con i moti di piazza a Pechino affogati nel sangue, scrive un telegramma al presidente Deng per «congratularsi per la risolutezza con cui ha affrontato e sconfitto il problema». Riesce a evitare tutte le purghe del regime e arriva, dopo una spietata lotta interna contro la “cricca di Shanghai”, a farsi eleggere prima Segretario del Partito, poi leader militare e infine presidente del Paese. Il 15 marzo del 2003 mette il sigillo sulla vittoria, venendo acclamato all’unanimità dal Plenum comunista. Forbes, dunque, ha azzeccato cavallo: il presidente cinese è

sta ha deciso di elevarlo al ruolo di vice-presidente della Commissione militare centrale, spianando con ogni probabilità la sua strada a divenire il successore di Hu Jintao come Segretario generale e presidente dopo il 2012.

Xi si è contraddistinto nel 2007 per la lotta alla corruzione a Shanghai, andando a sostituire come segretario del Pcc Chen Liangyu, condannato a 18 anni di carcere per la sottrazione di miliardi di yuan di fondi pensionistici pubblici e per abuso di potere. Xi, figlio di Xi Zhongxun, grande amico di Deng Xiaoping, fa parte dei cosiddetti “principini”, cioè i figli dei grandi del Partito, la cui ascesa sociale dipende molto dal nepotismo. Egli dovrebbe essere il volto nuovo della quinta generazione della leadership, l’uomo che dovrebbe far sperare nella fine della corruzione all’interno del Pcc. Ma Forbes, forse con un poco di miopia, lo ha ignorato. Almeno fino al prossimo numero.


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