ISSN 1827-8817 01109
he di c a n o r c
Siamo tutti guerrieri nella
battaglia della vita, ma alcuni conducono e altri seguono
9 771827 881004
Khalil Gibran di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 9 NOVEMBRE 2010
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Al via la conferenza di Milano con un saluto «preoccupato» di Napolitano
Adesso tutti cercano famiglia Sacconi: rivedere il fisco. Giovanardi: no alle biotecnologie di Franco Insardà
Le parole di Benedetto XVI a Barcellona valgono anche per noi
ROMA. Dopo due anni e mezzo di silenzio, il governo scopre la famiglia. Per Sacconi «bisogna aiutare solo le coppie sposate con figli»; per Giovanardi invece «le biotecnologie riducono i diritti dei nascisturi». Insomma, dopo le polemiche dei giorni scorsi sul cattivo esempio del premier in materia di moralità, i ministri «gettano il cuore oltre l’ostacolo». Il problema è capire che ai (giusti) proclami seguiranno i fatti. È questo ciò che tutti si sono chiesti ieri alla Conferenza di Milano. a pagina 8
Ma siamo stanchi di promesse di Luigi Accattoli omenica da Barcellona Papa Benedetto alzava un grido a favore della famiglia, perché sia «decisamente sostenuta dallo Stato» e ieri a Milano ha
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avviato il suo lavoro la Conferenza nazionale della famiglia, una tre giorni su iniziativa del Governo che i cattolici seguono con speranza e insieme con disincanto. a pagina 9
Durante l’Assemblea di Assisi, il presidente della Cei propone anche un tavolo tra il governo e le parti sociali sul lavoro
Un altro siluro a Berlusconi Duro intervento del cardinal Bagnasco: «L’Italia non può galleggiare, il governo deve fare uno scatto in avanti». Nel Pdl cresce la paura di un sì di Bossi a un esecutivo Tremonti
UN “NIET” A PRESCINDERE
Perché mai la proposta di Fini sarebbe irricevibile? di Giancristiano Desiderio ianfranco Fini, come molti italiani di centrodestra, non crede più nel governo Berlusconi e ha chiesto pubblicamente al presidente del Consiglio di voler sottoscrivere, certo, un nuovo “patto di legislatura”, ma non prima che il premier si sia dimesso per rendere possibile la discussione della crisi di governo e l’allargamento della maggioranza ai cattolici liberali dell’Udc. L’iniziativa dell’ex presidente di An e ora leader di Futuro e Libertà si può condividere o no, ma non può essere definita - come faceva ieri Pierluigi Battista sul Corriere della Sera e come di fatto replicano vari deputati del Pdl - “irricevibile” e “anomala”. Per un motivo semplice e vero storicamente e politicamente: perché così funziona la repubblica parlamentare dove un governo che non funziona può essere sostituito. a pagina 2
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Un leader che non sa mediare
di Errico Novi
I due Stati entrano nell’area Schengen
ROMA. Dopo Fini, la Cei. Il cardinal Angelo Bagnasco, ieri, è intervenuto contro il governo: «Deve smetterla di galleggiare. La politica deve fare uno scatto in avanti». Proprio mentre Berlusconi sondava l’ultimo alleato che gli sia rimasto, Umberto Bossi, il presidente della Cei pronunciava parole destinate sicuramente a pesare sul futuro dell’esecutivo. Quanto ai leghisti, dopo il vertice di Arcore tra berlusconismo e federalismo, per il momento, hanno scelto il governo. a pagina 2
Albania e Bosnia, da dicembre l’Europa sarà senza frontiere
La ribellione del Veneto
Fenomenologia L’alluvione scatena del Cavalier No lo strappo leghista Prima con i centristi, poi con i finiani: Berlusconi ha negato ogni mediazione e si è ritrovato isolato. Aggrappandosi a Bossi
Amministratori e imprenditori attaccano: «Come mai l’Abruzzo e Napoli sì e noi no? Un miliardo subito, o per Roma saranno guai»
Riccardo Paradisi • pagina 4
Marco Palombi • pagina 5
seg1,00 ue a p agina 9CON EURO (10,00
I QUADERNI)
• ANNO XV •
NUMERO
217 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
di Antonio Picasso
ROMA. È polemica in Italia per la decisione presa ieri dll consiglio dei ministri degli Esteri Ue di abolire il sistema dei visti per i cittadini albanesi e bosniaci che desiderano entrare in Europa. La direttiva entrerà in vigore a metà dicembre. Da allora si potrà parlare di una libera circolazione, senza la necessità dei passaporti, anche nella regione balcanica. La scelta di Bruxelles fa seguito all’apertura concessa lo scorso anno a Macedonia, Montenegro e Serbia, anch’esse esentate dal regime dei visti da applicare sul passaporto. L’origine di questa politica di liberalizzazione nasce con l’ingresso della Romania nell’Unione.Va detto però che né l’Albania né la Bosnia fanno ancora parte dell’Ue. Immediate le reazioni scomposte in Italia da parte di chi teme un’aumento di immigrati pronti a delinquere. In particolare, il vicesindaco di Milano, il Psdl De Corato, ha denunciato la decisone Ue: «Creerà gravi problemi a Milano», ha detto. a pagina 11
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
la polemica
prima pagina
L’ennesimo no all’uso di dialettica politica
pagina 2 • 9 novembre 2010
Perché mai la proposta di Fini è irricevibile? di Giancristiano Desiderio ianfranco Fini, come molti italiani di centrodestra, non crede più nel governo Berlusconi e ha chiesto pubblicamente al presidente del Consiglio di voler sottoscrivere, certo, un nuovo “patto di legislatura”, ma non prima che il premier si sia dimesso per rendere possibile la discussione della crisi di governo e l’allargamento della maggioranza ai cattolici liberali dell’Udc. L’iniziativa dell’ex presidente di An e ora leader di Futuro e Libertà si può condividere o no, ma non può essere definita - come faceva ieri Pierluigi Battista sul Corriere della Sera e come di fatto replicano vari deputati del Pdl - “irricevibile” e “anomala”. Per un motivo semplice e vero storicamente e politicamente: perché così funziona la repubblica parlamentare. Un governo che non funziona, quale è indubbiamente quello presieduto da Silvio Berlusconi, può essere sostituito da un altro governo sulla base di una discussione e di un nuovo patto tra le forze politiche che non stravolgono il voto del corpo elettorale ma fanno funzionare, come è loro dovere, il corpo istituzionale. La vera anomalia irricevibile è l’idea che il governo sia inamovibile e che tutta l’Italia sia come inchiodata o impiccata a un esecutivo che va o preso o buttato ma non può essere modificato e migliorato cammin facendo. Il dogma dell’intoccabilità del governo è la corda che si sta stringendo intorno al collo dello sterile e isterico bipolarismo italiano. Gli esponenti più pensosi del Pdl, invece, se non fossero solo i difensori in servizio permanente effettivo del berlusconismo si renderebbero conto che la strada classica indicata da Fini è una “uscita di sicurezza”per la stesso fragile democrazia dell’alternanza che storto morto è stata tirata su.
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Proviamo, infatti, a dare per realizzata la proposta di Fini. Ebbene, qual è il risultato che ora abbiamo davanti agli occhi se non il ritorno di quella che un tempo fu chiamata la Casa delle libertà? E in quella “casa”Silvio Berlusconi non era semplicemente il padrone di casa - come vuole essere oggi con i risultati imbarazzanti che vediamo - ma era prima di tutto il federatore di quattro forze politiche: il suo movimento liberale di Forza Italia, la destra di Alleanza nazionale, i cattolici dell’Udc e la Lega. Queste quattro forze, al netto delle novità degli ultimi tempi, costituiscono ancora l’universo sociale, economico e politico della vasta area di centrodestra. L’idea del Pdl - di quello che venne chiamato con una brutta espressione il partito unico - sarebbe dovuta essere quella di fare sintesi ossia di “elevare” le tre forze principali - FI, An, Udc - in un partito unitario capace con la sua stessa presenza di dichiarare chiusa la stagione dell’avventura del centrodestra berlusconiano e inaugurare quella del centrodestra come istituzione. Il risultato, invece, è stato l’opposto: il Pdl non ha elevato un bel niente, semmai ha abbassato la ricchezza liberale di Forza Italia e la forza nazionale della destra rimettendosi alla volontà politica della Lega e agli interessi del premier. La proposta di Fini, dunque, è quanto di più naturale ci possa essere. In fondo, è comse se dicesse: abbiamo sbagliato - ho sbagliato - prendiamone atto e, recuperando il rapporto con l’Udc, rifondiamo la Casa delle libertà. Qual è l’ostacolo vero da superare? La Lega. Ma questo problema lo deve risolvere chi deve continuare a stare legittimamente a Palazzo Chigi: Berlusconi. In altre parole, il premier dovrebbe dedicarsi al suo lavoro di politico e far funzionare da un lato le istituzioni e dall’altro il centrodestra.Tutto è molto ricevibile.
il fatto Il presidente della Cei, durante l’assemblea, attacca l’immobilismo del governo
Anche i vescovi dicono amen
«L’Italia non può più galleggiare, la politica deve fare uno scatto in avanti»: l’affondo di Bagnasco mentre ad Arcore era in corso il vertice tra Berlusconi e i leghisti di Errico Novi e Valentina Sisti
ROMA. Sono le ore più difficili, per il Cavaliere. Mai così prossimo all’epilogo della sua vicenda politica. Mai così esposto al rischio di una caduta, da quando è tornato a Palazzo Chigi. Lo si coglie nelle scosse che seguono la rottura di Gianfranco Fini di domenica. Nell’attesa che stasera la delegazione di Fli al governo rassegni le dimissioni, uno dei falchi, Fabio Granata, chiede che vada a casa anche un ministro del Pdl, quel Sandro Bondi segnato dalla vergogna di Pompei. E contro il responsabile della Cultura il Pd ha già pronta una mozione di sfiducia. Ma il clima si riflette inevitabilmente anche nelle parole di Angelo Bagnasco, intervenuto ad Assisi per l’apertura dell’assemblea generale della Cei: «Non è più tempo di galleggiare, occorre fare tutti uno scatto in avanti concreto verso soluzioni utili al Paese e il più possibile condivise». Dal presidente dei vescovi l’appello perché la politica esca dalla palude, non si lasci asfissiare nel labirinto dei conflitti e ritorni all’interesse generale. Parole che in un momento del genere costituiscono sia un allarme che un monito severo.
E il governo, il suo vertice, sono in grado di raccogliere l’invito? In realtà mentre Bagnasco prende la parola, Berlusconi sembra soprattutto preoccupato di perdere l’ultima certezza che gli resta, l’appoggio della Lega. Dopo un vertice a via Bellerio, l’intrero stato maggiore del Carroccio si sposta in blocco ad Arcore. Si discute con il premier sulle scelte da assumere dopo lo strappo di Fini. Alla fine prevale l’orientamento fatto già proprio dai Berlusconi subito dopo il discorso di Bastia Umbra: si va avanti, vediamo se Fini se la sente lui di far venire meno la maggioranza. È un im-
pegno che non basta a rassicurare il presidente del Consiglio. Non basta nemmeno l’annuncio congiunto di Silvio e Umberto, che oggi saranno insieme in Veneto per assicurare lo stanziamento di aiuti per gli alluvionati. In realtà serpeggia nell’entourage di Berlusconi un vero e proprio incubo sulle mosse future del Carroccio. Spiega un fedelissimo del Cavaliere: «C’è molta paura, diciamo pure il terrore, per quello che potrebbe succedere se davvero la maggioranza si disintegrasse sotto i colpi di Fini. E il vero timore riguarda proprio gli amici della Lega, soprattutto l’atteggiamento che potrebbero assumere se a quel punto si profilasse l’ipotesi di un esecutivo Tremonti».
Ecco il vero vicolo cieco del Pdl: come potrebbe Bossi dire di no su un’ipotesi di incarico al ministro dell’Economia, sempre più considerato dai berlusconiani un lumàrd a tutti gli effetti? E di fronte al rischio di elezioni anticipate con conseguenze pesanti sulla stabilità dei conti, come potrebbe lo stesso Pdl sottrarsi a priori a tale possibilità? Nel Paese non c’è un clima favorevole a scelte distruttive.Vale sempre la pena di citare le parole di Bagnasco: «Si apra al più presto un tavolo con governo, forze politiche, sindacati e parti sociali per approntare un piano emergenziale sull’occupazione», dice il presidente dei vescovi. Altro che elezioni anticipate. E i cattolici partecipino alla «vita della società e alla politica per il dovere di servire, con autonomia di coscienza e senza cedere alle lusinghe, a costo di essere scomodi». Se insomma persistessero immobilismi nell’esecutivo, i cattolici dovrebbero accollarsi l’onere di imprimere un nuovo impulso al Paese, secondo Bagnasco, che non manca di assu-
l’intervista
«La Lega? Ormai è il partito delle poltrone» Cesare De Michelis: «Si è attaccata al potere come gli altri senza mantenere le promesse» di Francesco Capozza
ROMA. Fratello dell’ex ministro degli Esteri socialista Gianni, Cesare De Michelis insegna Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova, ha collaborato con varie testate giornalistiche e attualmente scrive sul Sole 24 Ore e sul Corriere del Veneto. Ma soprattutto animatore storico della casa editrice Marsilio, una delle più attente alle novità della politica italiana. In più, De Michelis è stato tra i primi a cogliere la novità della «questiuone nordista»; insomma, uno dei primi ad analizzare con attenzione il fenomeno della Lega Nord, di cui ancora oggi si dice «uno dei primi ad averne compreso le enormi potenzialità politiche che ha avuto negli ultimi quindici anni». Professor De Michelis, dopo l’intervento di Fini in Umbria sembra proprio che il centrodestra, come abbiamo imparato a conoscerlo, non ci sia davvero più. E la Lega? Vedrà tramontare per sempre il sogno federalista? Scusi, ma le pare che davvero la Lega stia al governo solo per il Federalismo? Forse non “solo” ma soprattutto, non crede? Non mi sembra proprio! Altrimenti l’avrebbero approvata molto prima! In fondo, mi perdoni, i leghisti bazzicano dalle parti dei palazzi del potere ormai da quindici anni. E allora perché non sono loro
a staccare la spina al governo, togliendo dall’imbarazzante “palleggio” Fini e Berlusconi? Ma è naturale! Perché stare al governo, con poltrone, presidenze e strapuntini vari piace a tutti. In tipico stile democristiano. Oddio, professore, la Lega è democristiana? No, la lega è attaccata al potere, esattamente come i democristiani di bella memoria. Così come lo è anche Fini, che in quella direzione
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A questo punto, è probabile che con il «berlusconismo» alla fine muoia anche il «bossismo»
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sta correndo a gamba tesa. Una volta si diceva «spero di non morire democristiano», adesso vogliono tutti quella fine. In quest’ottica, secondo lei, è stata la continua e pressante richiesta di potere da parte di Bossi a Berlusconi? Ovviamente. E Bossi c’è riuscito bene nella strategia della conquista del potere: adesso ha anche due presidenze di Regione. Un fatto storico. Ma attenzione: c’è un divario abissale tra la Lega di lotta e quella di potere. Che cosa intende? Il Carroccio è stata la vera novità
mere un «impegno solenne» per affrontare la questione pedofilia e di dichiarare «apprensione profonda» per il rischio che il Paese si divida tra Nord e Sud.
Rischio incarnato dalla sempre più chiara insofferenza del Carroccio per l’affanno della maggioranza. Aspetto generale a cui si aggiungono fatti più specifici, come la posizione di Maroni. Al vertice tenuto a inizio settimana scorsa a Palazzo Grazioli, l’assenza del ministro è stata notata eccome. Assenza eloquente, messa in relazione con le voci su un capo del Viminale fortemente risentito per il poco istituzionale comportamento del premier. «Almeno avrebbe dovuto avvertirmi, come minimo, prima di chiamare la questura», si è sfogato Maroni con interlocutori fidati che, come è comprensibile, preferiscono non essere citati. Un fatto circoscritto. Se non fosse che anche in quella circostanza Bossi ha pensato bene di valorizzare la stima che il ministro dell’Interno conserva in ampi settori della sinistra, e la sua indubbia e antica propensione a guardare proprio da quella parte, come la base di appoggio per una carta di riserva. È noto, sulla piazza varesina, sulla quale si giocano gran parte dei destini e delle decisioni del Carroccio, il rapporto non proprio idilliaco fra Maroni e l’astro nascente Marco Reguzzoni, attuale capogruppo alla Camera, ed ex – giovanissimo – presidente della Provincia. E così, nel più classico gioco bossiano delle parti, ecco Reguzzoni nel ruolo dell’alleato fedelissimo, che mai e poi mai abbandonerà il Cavaliere, anche a costo di precipitare verso il voto anticipato, ed ecco Maroni di-
politica degli ultimi decenni. La gente vota Lega perché ha l’impressione che sia l’unico movimento che sta vicino al popolo e che fa quello che dice. Invece? Invece, come tutti gli altri, con il potere in mano neanche la Lega ha saputo dare risposte alla sua gente. Qui in Veneto (il professore ci risponde al telefono dalla “sua” Venezia ndr), tanto per farle un esempio, ho parlato, poco prima delle Regionali dello scorso anno, con numerosi esponenti di primissimo piano del Carroccio. I progetti erano entusiasmanti: aiuti alle imprese, defiscalizzazione, investimenti sulla cultura. Adesso che stanno alla guida della Regione da un anno non solo non si è vista traccia di provvedimenti in tal senso, ma neppure se ne parla più. E lo stesso, a quanto ne so, sta accadendo in Piemonte. Professore le ammetto che fino ad oggi avevo sentito, anche da parte dei peggiori detrattori di questo governo, solo elogi per i ministri leghisti. Lei mi sta distruggendo anche quelli… Io guardo con gli occhi della realtà: nel panorama nazionale vedo solo partiti di poltrona e nessun partito di governo! Né di qua né di là si può sperare che le cose cambino. Comunque, per tornare alla Lega, secondo tutti i sondaggisti sarebbe l’unica forza politica a guadagnare, e non poco, da elezioni anticipate. Bella vittoria di Pirro! A che serve avere più seggi in Parlamento se
ventare invece punto di riferimento di quanti, nel Pd, considerano fondamentale la sponda leghista per disegnare nuovi scenari, da governo istituzionale o di responsabilità che dir si voglia.
Non da oggi, d’altronde, ambasciatori del Pd sono al lavoro per far arrivare alla Lega, e per essa proprio a Maroni, segnali di disponibilità. Risale a qualche settimana fa un incontro riservato fra emissari del ministro ed esponenti democratici, fra cui Roberta Pinotti. Abboccamenti, annusamenti, che diventa-
non stai più al governo? Perché la seria possibilità è questa. Io credo che, federalismo o no, anche Bossi detterà la linea del “tiriamo a campare”, come d’altronde sta facendo Berlusconi e come mi sembra vogliano tutti quanti anche a sinistra. Poco fa mi diceva che il Carroccio ha dato speranze ma non ha regalato risultati alla sua gente. Secondo lei anche il “fenomeno Lega” morirà con il berlusconismo? È più probabile che muoia con il “bossismo” che con il berlusconismo, ma a parte questo credo che sì, prima o poi potrebbe sgonfiarsi anche il leghismo. Ma perché ciò avvenga ci vorrebbe un’alternativa credibile e, francamente, all’orizzonte non ne vedo. E sulla questione morale, cosa pensa a suo avviso la Lega? Non gliene frega niente. Anche perché in Italia non c’è una questione morale. Magari! Siamo di fronte alla politica del vojerismo, quindi direi che bisognerebbe parlare di «questione immorale».
La Lega ha una sola religione, il federalismo, e il rispetto delle alleanze è un valore solo fin quando è funzionale all’obiettivo. «Se Berlusconi continua a ficcarsi nei guai e non ascolta nessuno, non è che possiamo finire nei guai con lui», ripetono in via Bellerio, e anche Bossi – si sa – non è che abbia gradito il comportamento del Cavaliere sul caso Ruby, che ha bypassato il ruolo detenuto dalla Lega al Viminale. Federalismo, federalismo, dunque, e ancora più federalismo. Il prossimo 20 novembre, con Bossi, si riunisce il Parlamento del Nord, a Vicenza, proprio per fare il tagliando alla riforma che sta più a cuore alla Lega e discuterne lo stato di avanzamento. Inutile tirar fuori una parola “eversiva”agli organizzatori. «Noi restiamo fedeli al patto elettorale», dice il senatore Gianvittore Vaccari, sindaco di Feltre, nel Bellunese. Ma gli strateghi del Carroccio tengono aperti anche altri scenari, e uno di questi ruota intorno al nome di Giuseppe Pisanu. Il gradimento di Pd, Udc e finiani per il presidente dell’Antimafia è noto, ma pochi sanno che, anche in nome del comune impegno contro la criminalità, anche Maroni – ancora una volta – conserva con lui un buon rapporto di stima ricambiata con lui. E così il ministro dell’Interno diventa sempre più il titolare della carta di riserva del Carroccio, quella che Bossi tiene coperta, ma potrebbe tirare fuori al momento opportuno. Magari per trascinare il Pd nella riforma federale, sì da evitare un possibile referendum abrogativo. E, alle brutte, se serve un nome nuovo per uscire dall’impasse, meglio un politico (come Pisanu, o come Gianni Letta) per il Carroccio, di un Draghi o di un Montezemolo.
Bossi promette ancora fedeltà ma tra i berlusconiani si diffonde l’incubo per un possibile sì lumbard a un esecutivo Tremonti: «Se salta il banco, come possono dire no a Giulio?» no qualcosa di più nella persona di Daniele Marantelli, deputato pd di Varese che di Maroni è amico personale e che anche con Bossi conserva un rapporto di stima. Ma ora la situazione rischia di precipitare ed è arrivata l’ora di osare, di tenere tutte le alternative aperte, perché poi il gran Capo possa decidere, senza ritrovarsi infilato in un vicolo cieco, lui e il Cavaliere, in una competizione elettorale che potrebbe trasformarsi anche in un bagno di sangue per entrambi. Non si diradano, per esempio, tra i democratici, i sospetti su un complotto Lega-Tremonti per accelerare la crisi dell’esecutivo Berlusconi. Li ha tenuti vivi il passo falso del governo in commissione Bilancio della settimana scorsa. E come detto, gli stessi berlusconiani continuano a coltivarli.
l’approfondimento
pagina 4 • 9 novembre 2010
È stato considerato a lungo il grande federatore ma la sindrome dell’autosufficienza ha espulso dal centrodestra i moderati
Il leader del Niet
L’incapacità di mediare (prima con i centristi e poi con i finiani) ha prodotto il progressivo isolamento del Cavaliere. Che ora rischia di vedere allontanarsi anche la Lega interessata al federalismo, più che alla difesa a oltranza di una leadership di Riccardo Paradisi ra Silvio Berlusconi rischia davvero d’essere chiuso all’angolo di quel ring in cui s’è trasformata e ridotta la politica italiana. Si, perché dei diversi scenari che potrebbero rappresentare l’esito dell’impasse in cui s’è infilata la maggioranza dopo l’ultimatum di Fini alla convention di Perugia non ce n’è uno che non preveda un depotenziamento considerevole del potere del premier.
O
Sia che Berlusconi rimetta il suo mandato alle Camere puntando alle elezioni anticipate; sia che incroci una guerra a distanza con Futuro e libertà all’interno della maggioranza (per tirare a campare fino alla prossima primavera superando i nodi-obiettivo dei decreti delegati sul federalismo e del parere della consulta sul nodo Alfano); sia infine che il premier accetti di fare un passo indietro come gli ha chiesto Fini per riproporre un nuove governo aperto all’Udc che abbia ancora il suo baricentro nel centro-
destra; sia quale sia tra tutte queste ipotesi in ogni caso il Cavaliere sarebbe comunque un leader azzoppato. Sarebbe stato difficile immaginare una parabola come questa solo fino a un anno fa quando Berlusconi, ancora all’indomani del terremoto dell’Aquila, era bene in sella, leader indiscusso d’una maggioranza percorsa da problemi e divisioni sotterranee ma tutto sommato compatta. Cosa è accaduto da allora ad oggi? Come è potuto avvenire questa impressionante escursione di tenuta e di saldezza della coalizione di governo? Certo i veri o presunti scandali a luci rosse, la crisi economica, la congiuntura negativa. Ma insomma la maggioranza preponderante in parlamento avrebbe retto i marosi, sarebbe comunque riuscita a navigare agevolmente. Il dato è che è stata la maggioranza stessa a saltare dal suo interno.
È stata la variabile Fini che messasi in moto ha generato la valanga che ha aperto una fa-
glia non ricomponibile nel governo. Una variabile quella di Fini che la maggioranza e in primo luogo Silvio Berlusconi ha gestito nella maniera peggiore. È stato il deferimento ai probiviri del presidente della Camera l’errore fatale del Pdl e dello stesso Cavaliere.
Un provvedimento maturato e consumato nell’idea che il dissenso interno che aveva aperto all’interno della maggioranza Fini potesse essere risolto con un tratto di penna,
La questione non è ”se” ma ”quando” e come si tornerà a votare
semplicemente stabilendo la sua incompatibilità con il partito. Che la cosa non sarebbe finita lì lo si era capito subito dalla conferenza stampa di Fini dopo la sua estromissione dal Pdl, un atto definito dal presidente della Camera “illiberale” e “autoritario”, degno “del peggior stalinismo”: «Non c’è stata alcuna fuoriuscita, alcuna scissione, alcun atteggiamento di demolizione del Pdl: c’è stata di fatto la mia estromissione dal partito che avevo contribuito a fondare. Un atto illiberale, au-
toritario – accusava Fini – che nulla ha a che spartire con quel pluralismo che rappresenta una delle condizioni per cui un partito sia davvero liberale di massa. Un atto ispirato in chi lo ha scritto forse da quel Libro nero del comunismo: soltanto nelle pagine del peggior stalinismo si può essere messo alla porta con motivazioni ridicole e senza alcun contradditorio», con un atto di «brutale repressione della dialettica interna». Non era solo uno sfogo. C’era già il progetto di una controffensiva politica che ha preso forza con il passare dei giorni e delle settimane.
La strategia di minimizzazione è continuata per mesi – all’insegna delle battute sull’inconsistenza della pattuglia finiana, sulla strumentalità delle sue posizioni, sul suo destino effimero – fino al botto di Perugia. Andato oltre ogni previsione con la richiesta di dimissioni di Fini a Berlusconi e con un governo ormai a termine. La questione infatti non è se ma quan-
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Oggi arrivano Bossi e Berlusconi, ma poi il governatore Zaia sarà nominato commissario
Lo strappo della “pancia” leghista comincia dal Veneto alluvionato Sindaci, amministratori e imprenditori in campo: «Se questo governo continuerà a metterci in lista d’attesa, prenderemo provvedimenti» di Marco Palombi
ROMA. «Se continueranno a metterci in lista d’attesa, prenderemo i dovuti e opportuni provvedimenti. Siamo pronti a intraprendere manifestazioni per riaffermare il diritto alla dignità del popolo veneto». Leonardo Muraro, leghista e presidente della provincia di Treviso, ha fatto recapitare ieri questa lettera a palazzo Chigi per chiedere – anche a nome di tutti i suoi colleghi veneti – un incontro urgente col governo e l’esonero degli enti locali dal Patto di stabilità (come avvenuto in Abruzzo nel 2009): «A chi ci attacca dicendo che stiamo strumentalizzando un evento drammatico, io rispondo che il nostro governatore sta lottando per portare a casa quanto è dovuto a tutti gli italiani in stato di emergenza. La differenza: in altri momenti e in altre parti d’Italia si è data un’immediatezza che ora, nel Veneto, latita». L’alluvione che ha messo in ginocchio la regione di Luca Zaia rischia, insieme al caso Ruby, di scavare un simbolico solco tra Silvio Berlusconi e i suoi alleati. È di ieri la notizia che - visto l’alto numero di commenti anti-Cavaliere scatenatisi dopo le notizie sugli incontri tra la giovane marocchina e il premier (con relativa telefonata in Questura) - il Carroccio ha deciso di sospendere e cancellare tutte le discussioni in corso sul forum online dei“giovani padani”. Gli inviti a rompere l’alleanza col Pdl cominciavano ad essere un po’troppi anche per un movimento che dà largo corso agli sfoghi verbali dei suoi militanti.Via libera, invece, agli attacchi al capo dello Stato: ieri ci ha pensato il capogruppo in Veneto Federico Caner: «Napolitano definisce vergognoso il crollo di Pompei, ma finora non ha speso una parola per la silenziosa tragedia del Veneto». Dopodomani, comunque, il presidente sarà a Padova e potranno forse discuterne di persona. Mentre oggi Bossi e Berlusconi, in coppia, cercheranno di tranquillizzare i veneti: andranno nel vicentino a promettere soldi e decreti.
È in Veneto, insomma, che il semplice malumore di una fetta di iscritti le-
ghisti nei confronti del Cavaliere potrebbe cementarsi in una ostilità assai più diffusa rispetto al tradizionale elettorato del Carroccio. Basti pensare alle parole amarissime di Massimiliano Barison, architetto, alpino e sindaco Pdl di Albignasego, Padova: «A Guido Bertolaso io non credo più», ha scandito dopo un incontro col sottosegretario inviato dal governo a far miracoli anche in Veneto: il fatto è che Albignasego è stata colpita da due trombe d’aria dal 2008 a
«Vogliamo subito un miliardo di euro. O, almeno, che sia sospeso il pagamento delle tasse» oggi e, dopo le solite promesse, al comune non è stato concesso nemmeno l’esonero dal Patto di Stabilità. Sarà anche per questo che quasi nessuno si fida delle promesse del governo. Il ministro veneto Sacconi, per dire, ha scandito che «le risorse per l’alluvione in Veneto ci sono e ci saranno tutte quelle che serviranno», mentre Stefania Prestigiacomo ha obliquamente detto sì alla richiesta della regione di sbloccare subito i fondi per il dissesto idrogeologico. Il problema è che la Lega, in testa Luca Zaia (prossimo alla nomina in Consiglio dei ministri a commissario per l’emergenza), ha deciso di cavalcare la legittima preoccupazione del territorio: teniamoci l’acconto Irpef qua, ha proposto. Stessa linea da campagna elettorale per uno dei pasdaran veneti del Carroccio, Giancarlo Gobbo: «Sono sicuro che il governo ci darà i soldi necessari, ma se non lo fa ce li andremo a prendere». Come?
«Trattenendo in regione le tasse. Insomma, potrebbe succedere che il Veneto per un paio d’anni non versi più le tasse allo Stato».
Il governo, ad ora, ha stanziato venti milioni per l’emergenza (che però non è solo in Veneto ma anche al Sud) e si sta procedendo a quantificare i danni. Per la Cgia di Mestre nel breve periodo ammontano più o meno a un miliardo di euro (una prima stima ufficiale dovrebbe essere pronta domani): niente protesta fiscale, dicono gli artigiani, ma «solidarietà di ritorno visto che il Veneto nel 2008 ha dato in aiuti al resto del Paese quasi 5 miliardi». Nessuno a Roma, ufficialmente, ammette problemi di liquidità: palazzo Chigi sa che questa può essere una linea di faglia tra l’esecutivo del fare e la gente del Nord, quindi difficilmente si comporterà come in Abruzzo o in Molise, dove lo sprint iniziale s’è rapidamente trasformato in inerzia. È l’intero Veneto, infatti, che fibrilla attorno al Carroccio: «O i soldi in un paio di mesi – ha chiarito il sindaco di Vicenza Achille Variati, già democristiano, oggi Pd – o, per quanto gravissimo, sono d’accordo con lo sciopero fiscale». Il fatto è che la pressione arriva in primo luogo dalle migliaia di piccole e medie imprese venete (all’ingrosso il 18% del Pil nazionale) già piegate dalla crisi e che oggi vedono vicino lo spettro della chiusura. «Il manifatturiero vicentino esporta più dell’intera Grecia - ha scandito ieri il vicepresidente degli industriali della provincia Luciano Vescovi - Il sostegno a noi è un sostegno per l’economia del paese. Se venendo qui lo Stato vedrà le strade ripulite dal fango e dirà “bravi, vi siete arrangiati”, ebbene noi ci arrangeremo con le tasse. Questa volta non passa». L’operoso nordest vuole risposte immediate: sui fondi nazionali, su quelli europei per le calamità e anche su procedure, tempi e finanziamenti per le infrastrutture di cui c’è bisogno dopo l’alluvione. Qualcuno gliele deve dare e, se non arrivano, la Lega già sa a chi dare la colpa: Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, capo del nuovo partito del Sud.
do e come si tornerà a votare. La strategia dei niet di Berlusconi a Fini non ha dunque pagato. Non è stato considerato, all’interno del Pdl, il potenziale politico inespresso nel dissenso imbrigliato fino al punto di rottura. Non è stata considerata la prospettiva di un inclusione delle differenti posizioni, è stata esclusa l’ottica della mediazione in politica - a differenza che in azienda – non è una concessione ma una prassi insita nella stessa azione politica.
Del resto è lo stesso schema che Berlusconi aveva applicato con l’Udc. Infastidito dalle questioni poste dai centristi durante la legislatura vissuta insieme al governo con Casini presidente della Camera, Berlusconi prima di mettere in atto il progetto del predellino per rifondare il centrodestra a sua immagine e somiglianza, pensò bene di escludere dal nuovo perimetro di coalizione Casini. Che del resto sul predellino non c’era proprio voluto salire tentando nell’interregno tra lo strappo finiano e il suo riavvicinamento a Berlusconi di costruire insieme all’allora leader di Alleanza nazionale un’alternativa moderata al berlusconsimo. Non erano ancora maturi i tempi evidentemente: Fini decideva di fondere il suo partito nel Pdl pensando di poter navigare all’interno del berlusconismo facendo valere delle posizioni. Ci ha ripensato, fino alla rottura definitiva di Perugia, spinto in questo anche dall’intransigenza dei teorici della leadership carismatica. Oggi quello schema si riaffaccia: «Se son rose fioriranno», dice il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini a chi gli chiede della questione del terzo polo «fondamentale però è che si crei una forza della nazione per superare questo clima di odio». A chi gli chiede se come veda, in questa chiave, una eventuale discesa in campo del presidente della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo, Casini replica che è positivo che ci sia un contributo da parte di gente che proviene dal mondo esterno dalla politica». in qualche modo le cose si stanno rimettendo in movimento dicono in queste ore gli osservatori, si sta scongelando la geografia politica come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Ora la domanda è questa: dopo l’Udc e la destra finiana anche la Lega lascerà il continente berlusconiano? La domanda potrebbe apparire prematura e forse lo è, ma certamente non è peregrina. Perché la Lega tra qualche tempo potrebbe essere costretta a decidere tra difesa a oltranza del berlusconismo e realizzazione del federalismo. E tra le due opzioni potrebbe decidere per la seconda. Del resto Bossi l’ha sempre detto che la stella polare della Lega, la sua mission, è il federalismo. Che per questo obiettivo sarebbe disposto ad allearsi con chiunque.
diario
pagina 6 • 9 novembre 2010
Docenti. Le difficoltà cinesi, la politica Usa, i successi italiani: lezione universitaria a trecentosessanta gradi per il ministro
Tremonti si auto-assolve
«Non solo rigore: questo governo ha anche evitato il caos sociale» ROMA. Dobbiamo concentrare le risorse sullo stato sociale. Anche la Cina è interessata alle regole globali. Ma soprattutto: la parola stimolo applicata all’economia fa ridere. È un Giulio Tremonti a tutto campo, più guru mondiale che tributarista, quello che si presenta alla lectio magistralis all’università Vita-Salute San Raffaele: il ministro dell’Economia non si risparmia e parla – come spesso gli capita di fare – di tutto e di più, spaziando dalla crisi economica al ruolo della Cina, per approdare alla critica delle mosse di Barack Obama e della Federal Reserve. E stupisce sempre più - quando ci si trova davanti un ministro economico così preparato ed onnisciente - di trovarsi poi in uno dei paesi industrializzati con la più bassa crescita del mondo. Forse i suoi colleghi di governo non lo ascoltano abbastanza...
un’utopia che ha cominciato a svilupparsi». Poi ha ricordato che dalla semplice e apparentemente provocatoria idea lanciata al G7 dell’Aquila, quello dei global legal standard è diventata un decalogo di principi dell’Ocse. «Credo ha affermato Tremonti - che l’anno prossimo ci sarà un global forum dell’Ocse su questi temi e c’è stata anche manifestazione di interesse da parte della Cina, che non fa parte dell’Ocse. È difficile compiere questo processo in tempi brevi, però è una prospettiva». Tremonti ha quindi ribadito che «abbiamo bisogno di regole. Un capitalismo senza regole non ha futuro se non nella preparazione della prossima crisi». Ma soprattutto, secondo il professor Giulio, «sulla proposta c’è l’interesse della Cina», che quindi potrebbe schierarsi con l’Italia, la quale ha sollevato per prima il problema, in occasione del prossimo Global Forum Ocse, dopo aver registrato l’interesse del G7 e del club di Parigi.
di Alessandro D’Amato
« D o b bi a m o c o nc e nt r a r c i sull’essenziale e sul fondamentale dello stato sociale le risorse che abbiamo e il deficit che possiamo fare», dice Tremonti. E poi sottolinea che occorre «ridisegnare le strutture sociali e politiche cercando di produrre meno negativi impatti sociali, tutti dobbiamo fare politiche di questo tipo: il sociale è fondamentale». Il ministro ha poi precisato che la struttura complessiva non deve essere costituita tutta solo dallo Stato, ma anche da altri corpi esterni, come persone, famiglia, comunità e volontariato. Parlando poi dell’Italia, Tremonti ha rilevato che «non solo c’è stata la tenuta dei con-
generazioni future, dobbiamo cambiare le politiche fatte nei decenni passati». E qui, di fronte a cotanta voglia e aspettativa riformista, viene da chiedersi se sia o meno colpa dei governi (e di chi ha ricoperto la carica di ministro dell’Economia), per caso, se i Paesi non crescono. Ma soprattutto: come mai delle riforme tutti, compreso il ministro, fanno presente la necessità, ma nessuno si adopera mai per farle una volta entrato nella stanza dei bottoni?
Parole sprezzanti per Obama e la sua strategia: «Parlare di stimolo a proposito dell’economia fa ridere. E vuol dire non aver capito nulla» ti pubblici», ma anche quella della «coesione sociale». In tale contesto, però, «non c’è stato solo rigore ma sono stati spesi soldi per gli ammortizzatori», e ora, «siamo al terzo autunno, doveva venire giù tutto e invece in nessun Paese europeo si è assistito a rotture sociali». Il responsabile del dicastero dell’Economia, nel suo lungo intervento ha poi ricordato che «l’Europa produce più debito che ricchezza, più deficit che pil. Non possiamo continuare così - ha argomentato - a girare cambiali sulle
Ma per il professor Tremonti è il momento di virare sull’economia globale. Ed eccolo allora discutere del ritorno al global standard, ovvero alla convertibilità in oro delle valute mondiali: «Quella di regole comuni a livello globale per governare i processi economici e finanziari è un’utopia che avanza», ha sottolineato. «L’Italia ha proposto di definire i global legal standard. È un processo che sfugge alla tempistica quotidiana. Non è facile scrivere una tabula mundi sul nuovo diritto globale, ma è
A settembre, male anche la Francia
Ocse: Italia a rischio PARIGI. L’economia occidentale è ancora sull’ottovolante di una crisi che sta avendo effetti diversi sui vari Paesi. Infatti, il superindice Ocse – l’organismo sovranazionale con sede a Parigi che calcola l’andamento delle economie occidentali evidenzia in settembre andamenti difformi delle maggiori economie mondiali: l’espansione prosegue in Germania, Giappone Russia e Usa, mentre si registra «un moderato rallentamento» in Canada, Francia, Italia e Gb. L’indicatore in settembre, tuttavia, è rimasto a 102,8 segnando il quinto mese consecutivo di crescita negativa o nulla per l’area. Su base annua l’indice è salito solo di 4,4 punti. Il trend ribassista continua deciso per Brasile e Cina, rimanendo sul bordo inferiore della tendenza a lungo termine, indicando che il livello della produzione industriale in questo due Paesi
sta per scendere sotto l’andamento a lungo termine. La peggior performance del mese di settembre spetta alla Cina col -0,7%, seguita da Italia, Brasile, India e Canada col -0,2%. La migliore performance è della Russia (+0,6%), seguita dal Giappone (+0,2%). Su scala annuale la peggior performance è sempre cinese (-4,0%), seguita da Francia (-0,5%), India (0,2%) e Italia (+0,5%). Questo vuol dire, in buona sostanza, che se Cina e India hanno seri problemi di assestamento dopo anni di boom, la Francia e l’Italia fanno gran fatica a uscire dalla recessione. D’altro canto, colpisce il dato della Russia che comincia la risalita dopo essere stata una delle economie in maggior difficoltà lo scorso anno a causa della crisi globale; malgrado la sordina imposta da Putin alle informazioni sulla vera situazione del Paese.
Infine, è arrivata la critica ad Obama (un sport popolarissimo, dopo le elezioni di Midterm). Salvo che il ministro dell’Economia non si è voluto sporcare le mani e non ha nemmeno nominato il presidente Usa: «La parola stimolo applicata all’economia fa ridere, dire che bisogna stimolare la domanda significa non capire i cambiamenti strutturali sottostanti», ha detto in un passaggio della lezione intitolata pomposamente «Cause ed effetti politici della prima crisi globale». Dopo di che ha sottolinato che «per troppo tempo c’è stato detto che occorreva applicare l’economia degli stimoli» mentre «l’idea di stimolare la domanda vuole dire pensare che non sei in un ciclo economico positivo. L’intensità dei fatti è molto più alta». E ha aggiunto che il significato della parola crisi è innanzitutto discontinuità e che quindi «per troppo tempo si è usata la parola ciclo, che è una variante e non una discontinuità». In effetti, è vero che se stimoli l’economia è perché ci sono problemi di crescita. Ma, a parte dire che questa soluzione non gli piace, Tremonti non ha spiegato cosa si dovrebbe fare invece di stimolare. Forse la perla di saggezza se la riserva per la prossima lectio magistralis.
diario
9 novembre 2010 • pagina 7
Da ieri a Ginevra va al massimo l’acceleratore di particelle
Avviso anche a Russo Iervolino per la crisi del 2008
Cern: parte l’esperimento per replicare il big bang
Rifiuti: indagati i sindaci colpevoli di «epidemia»
GINEVRA. Tutti i rivelatori degli esperimenti del Cern di Ginevra ieri sono stati accesi e un grande applauso ha festeggiato i primi fasci stabili di ioni di piombo che hanno cominciato a correre all’interno del Large Hadron Collider (Lhc), lasciando sugli schermi dei computer migliaia di tracce delle collisioni. «È un momento emozionante», ha detto il coordinatore delle misure sulle collisioni fra ioni pesanti, Federico Antinori, dell’esperimento Alice e della sezione di Padova dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). «Da 22 anni sto lavorando a questo progetto e adesso finalmente stiamo collezionando i dati», ha detto ancora Antinori. L’acceleratore di particelle più grande del mondo è partito per la nuova avventura che permette di riprodurre le temperature incredibili esistite milionesimi di secondi dopo il Big Bang e di studiare le caratteristiche della materia primitiva, una sorta di «zuppa» nella quale particelle come quark e gluoni erano libere anziché essere intrappolate nel nucleo come accade nella materia ordinaria. I fasci non stabilizzati ottenuti nei giorni scorsi sono stati appena il primo passo, importante ma che permette solo una raccolta parziale di dati; avere fasci stabili permette ora di
NAPOLI. Ancora uno strascico
Crollo di Pompei, Bondi nella bufera Mozione di sfiducia per il ministro dopo il disastro di Massimo Ciullo
ROMA. Il ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi, rischia di rimanere“sepolto”dalle polemiche seguite al crollo della Domus dei Gladiatori a Pompei. Le parole del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ha definito «una vergogna» quanto accaduto, lasciano intendere quanto profondo e irreparabile sia il vulnus inferto al patrimonio culturale italiano dai tagli dissennati operati dall’attuale esecutivo ai quali, i responsabili dei vari dicasteri hanno saputo opporre solo una flebile resistenza. A chiedere la testa di Bondi, oltre ai membri dell’opposizione di Pd e Idv, si è aggiunto anche il finiano Fabio Granata, membro della maggioranza e vicepresidente della commissione Antimafia.
L’esponente di Fli non ha usato giri di parole per sottolineare «l’inadeguatezza» di Bondi: «Si faccia nominare ministro della Propaganda e si dimetta». Per il deputato siciliano, le giustificazioni di Bondi, «dopo anni di commissariamento di Pompei», più che escludere le responsabilità del minihanno stro, rafforzato «negli italiani l’idea di una sua totale inadeguatezza nella gestione del più grande patrimonio culturale del mondo». Secondo Granata, l’unico ruolo in cui Bondi, finora si è distinto è stato quello di «ministro della Propaganda» del governo Berlusconi. «L’Italia e la sua cultura meritano ben altro» ha insistito il deputato di Fli. La richiesta di Granata è stata supportata da Ffwebmagazine, il quotidiano online delle Fondazione Farefuturo che ha posto a Bondi un aut-aut: o decide di fare il ministro dei Beni culturali o il coordinatore del Pdl. «È difficile mantenere contemporaneamente due ruoli così gravosi - osserva Ffweb coordinatore del principale partito italiano e ministro di un dicastero che dovrebbe essere considerato il più importante a livello italiano». Richiesta già inoltrata dal deputato dell’Udc e membro della commissione Cultura della Camera, Enzo Carra. «Bondi dovrebbe dimettersi da coordinatore del Pdl per fare meglio il ministro dei Beni culturali. Nella sua carriera di mi-
nistro ha tollerato e chinato il capo ai tagli di Tremonti. Non si può dire che il ministero dei Beni culturali abbia brillato per iniziative» ha dichiarato Carra. Quanto alla vicenda di Pompei, per l’esponente dell’Udc, si tratta della «metafora di una nazione e la carta d’identità di questo governo». Il Pd ha chiesto al governo di riferire urgentemente «in Aula sui vergognosi fatti di Pompei», ha annunciato Dario Franceschini. Sull’eventuale mozione di sfiducia nei confronti del ministro, Franceschini ha detto che dovrà essere valutata «insieme agli altri gruppi parlamentari». Bondi ha accolto la richiesta di chiarimenti e ha annunciato che domani interverrà a Montecitorio «per spiegare ciò che è accaduto a Pompei e quello che è necessario fare nel futuro, con serietà e senza scaricare la responsabilità su nessuno». Intanto la Procura di Torre Annunziata è al lavoro per cercare di chiarire le cause del crollo. L’inchiesta è coordinata dal procuratore Diego Marmo. Le indagini sono svolte dai carabinieri di Pompei, della compagnia di Torre Annunziata e del Nucleo tutela patrimonio culturale. Marmo ha spiegato che l’apertura del fascicolo «è un atto dovuto, che servirà ad accertare se ci sono state responsabilità sul crollo avvenuto a Pompei», precisando che si tratta del secondo fascicolo aperto dalla magistratura sugli scavi di Pompei. Due fascicoli che, spiega il magistrato, «al momento non hanno alcun collegamento l’uno con l’altro».
A chiedere la sua testa, oltre ai membri dell’opposizione di Pd e Idv, si è aggiunto anche il finiano di ferro, Fabio Granata
avere dati di qualità migliore, tutti i rivelatori possono essere accesi e il lavoro entra nella fase più intensa.
La velocità con la quale sono stati ottenuti fasci stabili di ioni pesanti «è un segno di maturità» dell’acceleratore, ha rilevato successivamente in una nota il direttore generale del Cern Rolf Heuer. «La macchina - ha aggiunto - sta funzionando alla perfezione».Tra dei quattro grandi esperimenti dell’Lhc, Alice, Atlas e Cms hanno cominciato a prendere dati e continueranno a farlo fino allo stop tecnico previsto per il 6 dicembre. Insomma, per ora tutto procede per il meglio.
giudiziario – e di che portata! – al caos rifiuti del 2008, quello su cui la stampa inscenò uno strepitoso can-can che condusse alla sconfitta del governo Prodi. Stavolta, numerosi sindaci di comuni della provincia di Napoli, tra cui il primo cittadino di Napoli, Rosa Iervolino Russo, stanno ricevendo in queste ore avvisi di chiusura indagine per epidemia colposa e omissione in atti di ufficio per l’emergenza rifiuti del 2008. Gli avvisi sono stati emessi dal pm Francesco Curcio, della sezione Reati contro la pubblica amministrazione, e notificati dai carabinieri del reparto operativo del comando provinciale di Napoli. Più nel dettaglio, l’accusa
L’obiettivo degli inquirenti sarà quello di capire se «una Domus di duemila anni è crollata e verificare se ci sia un collegamento tra il crollo e l’ultimo intervento strutturale fatto sulla stessa» ha detto il procuratore di Torre Annunziata. Una lancia a favore di Bondi è stata spezzata da Mario Resca, direttore generale per la Valorizzazione del patrimonio culturale del Mibac, che ha sottolineato come la mancanza di tutela e manutenzione degli scavi di Pompei, riguardi gli «ultimi 30-40 anni e non gli ultimi 6 mesi».
nei confronti dei sindaci destinatari degli avvisi di chiusura indagine è di non avere preso sufficienti provvedimenti per evitare il diffondersi di malattie in concomitanza con la presenza di cumuli di rifiuti nelle strade. Il pm Francesco Curcio si è avvalso anche della consulenza di un docente universitario che ha accertato l’aumento di malattie in quel momento storico legate evidentemente all’emergenza rifiuti.
Il tutto mentre non si placa la nuova crisi rifiuti in Campania, quella che il governo Berlusconi non ha saputo affrontare né risolvere. Sul tema, è intervenuto il governatore campano Stefano Caldoro, dicendo che «termivalorizzatori, impianti intermedi e anche discariche vanno realizzati nelle comunita, discutendo con i cittadini perché ognuno deve sapere che quello dei rifiuti è un problema che ha la comunità locale e deve riuscire a risolverlo». Qualche giorno fa, il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino aveva chiesto dove poter scaricare i rifiuti: «Questo significa che il problema c’è - ha risposto ora Caldoro - Occorre fare come i Comuni dell’area vesuviana che hanno detto: “Ai nostri rifiuti ci pensiamo noi”».
società
pagina 8 • 9 novembre 2010
Sostegni. Al via, tra le polemiche, la conferenza nazionale di Milano organizzata dalla presidenza del Consiglio dei ministri
Ora tutti tengono famiglia Sacconi: rivedere il fisco per aiutare chi fa figli. E Giovanardi: no alle biotecnologie di Franco Insardà
ROMA. Lui ha dato forfait, ma le polemiche non sono mancate alla Conferenza nazionale sulla famiglia di Milano. I ministri Sacconi e Giovanardi con le loro dichiarazioni sono diventati i protagonisti della giornata. Appuntamento aperto sull’onda delle parole che Benedetto XVI ha pronunciato ai fedeli riuniti di fronte alla Basilica della Sagrada Familia di Barcellona, al termine della messa con cui ha consacrato il capolavoro di Anton Gaudì: «matrimonio e famiglia valori primordiali dell’umanità». Il richiamo ai valori della famiglia è arrivato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che in un messaggio indirizzato al sottosegretario Carlo Giovanardi ha scritto: «la famiglia è una straordina-
L’arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, nel suo intervento ha detto che «non basta il semplice proclamare valori, impegni e mete. Serve un lavoro quotidiano sulle condizioni concrete perché i valori proclamati da tutti siano resi concreti nella rete delle famiglie». Tettamanzi ha sottolineato la necessità «di un coinvolgimento, di una grande alleanza tra le forze politiche, sociali, culturali e imprenditoriali, che possono impegnarsi sulla famiglie che devono essere messe “al centro”. I diritti delle famiglie deboli non sono diritti deboli. Tutt’altro. E in questo “tutt’altro” c’è la sfida della Conferenza della Famiglia».
L’appuntamento milanese cade in un momento particolare della vita politica italiana e
Il presidente Napolitano: «È una straordinaria risorsa per l’intera collettività, è fondamento insostituibile per lo sviluppo e il progresso di una società aperta e solidale» ria risorsa per l’intera collettività, è fondamento insostituibile per lo sviluppo e il progresso di una società aperta e solidale. Sostenere e salvaguardare il miglior svolgimento delle sue funzioni costituisce una doverosa attuazione dei principi sanciti al riguardo dalla Carta costituzionale».
N ap ol i t a n o h a o ss e r v a t o che «la complessità dei temi all’esame della Conferenza richiama tutti i soggetti istituzionali all’esigenza di affrontare con determinazione e lungimiranza i problemi principali che ostacolano il formarsi delle famiglie: la precarietà e l’instabilità dell’occupazione, la difficoltà di accesso ai servizi e sostegni pubblici e la loro disomogenea distribuzione sul territorio nazionale». Per il presidente della Repubblica, «un’assistenza particolare deve essere inoltre prestata a quei nuclei familiari che, anche a causa delle ulteriori difficoltà provocate dalla crisi economica, che si aggiungono ad antichi squilibri, sono più esposti al disagio e all’esclusione sociale».
l’assenza di Silvio Berlusconi si è notata. Un forfait dettato dalla convenienza per evitare di essere attaccato dopo le vicende nelle quali è stato coinvolto. Un atteggiamento condiviso dal leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini: «Ha fatto bene. Avrebbe finito per creare un supplemento di confusione. Non serve il feticismo. Se sta a casa sua e fa un provvedimento per le famiglie è meglio che andare lì e non fare niente». Un forfait, quello del premier, che ha infastidito il sottosegretario Carlo Giovanardi, da mesi al lavoro per preparare l’appuntamento milanese: «Contro Berlusconi ci sono piccole polemiche strumentali, leggo dei moralismi che mi fanno ridere. Ci sono pochi leader in Italia che hanno situazioni famigliari ortodosse». Sulla stessa linea Mara Carfagna, ministro delle Pari opportunità che si è detta dispiaciuta dell’assenza del premier «c’è qualcuno che utilizza qualunque tipo di situazione per strumentalizzare e per creare polemiche». Ma Giovanardi si è fatto portavoce del governo an-
nunciando un grande piano nazionale per la famiglia. «L’obiettivo - ha detto il sottosegretario - è quello di elaborare un quadro organico e di medio termine per le politiche rivolte alla famiglia. Finora invece hanno prevalso logiche di interventi frammentati e di breve periodo». Il sottosegretario nel suo intervento ha lanciato l’allarme: «Le statistiche dimostrano che c’è una seria crisi della natalità e del matrimonio. Nel 1972 i matrimoni sono stati 419 mila contro i 246.613 del 2008; il tasso di natalità è sceso a 1,42 figli per donna, tasso che sale al 2,3 per le donne straniere; negli ultimi anni sono aumentate le separazioni legali e i divorzi». Ma Giovanardi ha ribadito che la famiglia« è vitale e resta un riferimento essenziale in un momento di incertezza. Protegge i figli, gli anziani, i componenti più deboli. È centro di legami di solidarietà oltre che di affetti. Questa funzione della famiglia va sostenuta, certamente: non si può chiederle di supplire alle mancanze del sistema di welfare». Secondo il sottosegretario «scienza e biotecnologie possono togliere ai figli il diritto di nascere all’interno di una comunità d’amore con una identità certa paterna e materna”e ”la rottura della diga costituita dalla legge 40 aprirebbe la porta ad inquietanti scenari, tornando ad un vero e proprio Far West della provetta dove fin dal primo momento il concetto costituzionale di famiglia andrebbe irrimediabilmente perduto».
Un intervento che ha suscitato polemiche, aumentate dopo le parole del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi: «Non occorre avere la fede per capire che la politica pubblica si occupa della famiglia naturale fondata sul matrimonio e sui figli». Un posizione che è stata criticata da molti esponenti dell’opposizione e da alcuni di Futuro e Libertà, tanto che Sacconi è stato costretto a precisare: «Ho citato gli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione. Le politiche pubbliche si occupano della famiglia naturale basata sul matrimonio e della natalità più in generale, anche
di quella fuori dal matrimonio. Ho fatto la distinzione – ha spiegato – tra una dimensione pubblicistica e una privatistica per quanto riguarda altre relazioni affettive che devono avere rispetto in una dimensione privatistica. Un esempio classico è quello della pensione di reversibilità che non si applica agli omosessuali». La Carfagna ha, invece, sottolineato come è «assolutamente fondamentale intervenire sul fisco per potere aiutare le famiglie. Questo è il prossimo obiettivo ambizioso che si pone il
essa, attraverso politiche di sostegno anche di tipo fiscale, come ad esempio il quoziente familiare; soltanto così sarà possibile innescare un ciclo positivo che contribuisca alla ripresa. La crescita economica è strettamente legata all’aumento della natalità. Per questo oggi è fondamentale la divisione delle responsabilità genitoriali, da attuare valorizzando il ruolo delle donne all’interno della famiglia, così come è fondamentale che ci sia un impegno indirizzato a conciliare maternità e lavoro. Per farlo bisogna rad-
Berlusconi dà forfait. Casini: «Ha fatto bene. Avrebbe finito per creare un supplemento di confusione. Se sta a casa sua e fa un provvedimento è meglio che andare lì e non fare niente» governo. Abbiamo dovuto tenere i conti in ordine, ora le prime risorse che saranno disponibili dovranno essere indirizzate alle famiglie, attraverso interventi come quello del “quoziente familiare”. Aiutare le famiglie significa aiutare tutto il Paese».
Proprio sul quoziente familiare, cavallo di battaglia dell’Udc, è ritornata Dorina Bianchi, vicepresidente dei senatori centristi: «Oggi è indispensabile difendere la famiglia e incentivare la natalità all’interno di
doppiare il numero di asili nido sul territorio nazionale e agevolare il ricorso a forme contrattuali flessibili. Oggi la politica deve essere in grado di sostenere i cambiamenti, altrimenti tutto l’ingranaggio, e quindi l’unione stessa della famiglia sono in serio rischio».
Il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, ha lanciato una proposta: «È arrivato il momento che anche a livello nazionale tutte le forze politiche si orientino in questa
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9 novembre 2010 • pagina 9
Le parole del Papa a Bercellona si adattano benissimo alla situazione italiana
Ma i cattolici sono stanchi di promesse senza seguito
Proprio domenica Benedetto XVI in Spagna aveva anticipato le ansie della Chiesa sui grandi temi in discussione a Milano di Luigi Accattoli omenica da Barcellona Papa Benedetto alzava un grido a favore della famiglia, perché sia «decisamente sostenuta dallo Stato» e ieri a Milano ha avviato il suo lavoro la Conferenza nazionale della famiglia, una tre giorni su iniziativa del Governo che i cattolici seguono con speranza e insieme con disincanto. È giusto fare credito a chi affronta un tema urgente e importante, ma sono troppe le delusioni del passato perché a quel credito si possa accompagnare una sicura speranza. Il Papa ha parlato della famiglia durante il suggestivo rito di consacrazione di quel capolavoro sorprendente e amabile che è la Sagrada Familia di Antonio Gaudì. Per la seconda volta dopo il luglio del 2006 Benedetto XVI si è trovato nella Spagna del Governo Zapatero che ha introdotto il matrimonio omosessuale, il divorzio veloce e l’aborto per le minorenni anche in assenza del consenso dei genitori. Ambedue le volte il Papa era là per trattare della famiglia: quattro anni addietro per l’Incontro mondiale delle famiglie che si teneva a Valencia e ora appunto per la Sagrada Familia. C’era nell’aria il conflitto Chiesa-Stato tipico dell’era zapaterista e c’erano per Barcellona – lungo il percorso del corteo papale – alcune centinaia di gay e lesbiche che si sono baciati per cinque minuti in un segno di protesta simile a quello del motto inglese “No pope” che era risuonato in Gran Bretagna durante la visita compiuta da Benedetto a metà settembre. C’erano dunque alcuni elementi conflittuali propri della situazione spagnola e altri apparentati alla crescente intolleranza europea nei confronti delle Chiese storiche: le parole del Papa vanno lette su questo sfondo complesso, ma – una volta liberate da quelle specificità – si possono benissimo applicare anche alla situazione italiana, almeno per quello che riguarda la richiesta del sostegno statale alle famiglie.
D
direzione, mettendo la famiglia al centro delle politiche con grande decisione. L’utilizzo del quoziente familiare è la conseguenza di un riconoscimento culturale, la sfida è quella di riconoscere la famiglia sempre di più come perno del futuro e come protagonista della vita sociale ed economica del nostro Paese. Il quoziente familiare e’ un concetto che deve ispirare l’azione e le politiche di tutti i soggetti coinvolti, pubblici e privati. In Lombardia stiamo lavorando per rendere il quoziente familiare un principio trasversale a tutte le politiche e abbiamo iniziato ad applicarlo sperimentalmente all’interno della dote lavoro, riconoscendo cioè una differenziazione nella erogazione di ammortizzatori sociali in base al numero di componenti familiari.
Anche il presidente nazionale delle Acli, Andrea Olivero ha ribadito il concetto che «investire sulla famiglia significa investire sullo sviluppo del Paese. Ci auguriamo sia giunto finalmente per le famiglie il tempo della concretezza: non ci sono più alibi, nemmeno la crisi. Siamo stanchi di annunci e promesse. Il quadro delle proposte è sufficientemente chiaro. Sappiamo ormai cosa fare. Non resta che farlo».
Per Dorina Bianchi, vicepresidente dei senatori Udc: «Oggi è indispensabile difendere la famiglia e incentivare la natalità all’interno di essa, attraverso politiche di sostegno anche di tipo fiscale, come ad esempio il quoziente familiare; soltanto così sarà possibile innescare un ciclo positivo che contribuisca alla ripresa. La crescita economica è strettamente legata all’aumento della natalità
Benedetto ha posto «l’attenzione, la protezione e l’aiuto alla famiglia» tra gli elementi qualificanti di ogni progresso umano «poiché – ha detto – l’amore generoso e indissolubile di un uomo e una donna è il quadro efficace e il fondamento della vita umana nella sua gestazione, nella sua nascita, nella sua crescita e nel suo termine naturale». «Perciò – ha continuato – la Chiesa invoca adeguate misure economiche e sociali affinché la donna possa trovare la sua piena realizzazione in casa e nel lavoro, affinché l’uomo e la donna che si uniscono in matrimonio e formano una famiglia siano decisamente sostenuti dallo Stato, affinché si difenda come sacra e inviolabile la vita dei figli dal momento del loro concepimento, affinché la natalità sia stimata, valorizzata e sostenuta sul piano giuridico, sociale e legislativo». Sono in sostanza gli stessi temi che sta affrontando a Milano la Conferenza nazionale della famiglia che mira a mettere a punto un primo «piano nazionale della famiglia». Le aspettative dei cattolici erano state così affermate dal quotidiano Avvenire nell’edizione di domenica: «Occorre aprire alle famiglie la consultazione sulla riforma del sistema fiscale, senza riservare il confronto a sinda-
cati e imprese; ci sono da rivedere strumenti applicativi come l’Isee; è necessario puntare con decisione sulla sussidiarietà per migliorare l’offerta dei servizi di assistenza, cura ed educazione di bambini e anziani. Non si tratta di individuare qualche bonus o un paio di agevolazioni. Il drammatico calo demografico, la sfiducia nel futuro che segnala dicono che la famiglia deve diventare finalmente il perno di un’azione politica tesa al bene comune».
È ormai abituale – da parte della Conferenza episcopale – la richiesta di una «politica organica per la famiglia» che fino a oggi non è stata realizzata né dai governi di centrosinistra, né da quelli di centrodestra. Più volte i nostri vescovi hanno fatto riferimento, nei loro appelli, a quanto si è realizzato per le famiglie in altri Paesi e per esempio in Francia a sostegno della natalità, ottenendo buoni risultati. Il quoziente familiare o altra provvidenza fiscale a favore della famiglia sono ormai assolutamente urgenti, ma ci si può sperare in presenza di un Governo così ripiegato su di sé e così dedito ai tagli? Siamo partiti dalle parole del Papa venute dalla Spagna e possiamo concludere con un ritorno all’ottica europea, che ci dice come le preoccupazioni dei cat-
Il quoziente familiare o altra provvidenza a favore della famiglia sono ormai assolutamente urgenti: ci si può sperare, in presenza di un Governo ripiegato su di sé e così dedito ai tagli? tolici italiani in ordine alla famiglia siano le stesse dei cristiani di tutto il continente. Con una presa di posizione che risale allo scorso 28 settembre, il presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (CCEE), il cardinale ungherese Peter Erdo, annunciava l’impegno delle Chiese d’Europa a invitare i governi «a mettere in atto delle politiche adeguate ai reali bisogni della famiglia perché possa avere dei figli», avendo «ammonito da molto tempo l’Occidente» ad avvedersi del fatto che «dietro ad una bassa demografia si cela una grave catastrofe sociale e culturale». Sono parole che si addicono perfettamente al nostro Paese. www.luigiaccattoli.it
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panorama
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Il Grande Fratello sul viale del tramonto l Grande Fratello è in crisi e X Factor non se lo fila più nessuno. C’è chi si stupisce. Ma se è vero che in questo mondo tutto ha una fine allora non c’è da stupirsi se anche per il reality è arrivato il momento del tramonto. Sono passati più di dieci anni dalla prima edizione e il protagonista di quella edizione “storica” è qualche mese che non c’è più: Pietro Taricone, forse l’unico vero Grande Fratello, è scomparso cadendo dal cielo sulla terra e diventando un “mito” o un ragazzo sfortunato. Per ogni cosa arriva il momento della parola fine e per i reality la causa della crisi è nella stanchezza e nell’assenza di personaggi spontanei.
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La stanchezza è fin troppo evidente. Gli ascolti sono in calo. L’interesse viene progressivamente meno. Persino i più giovani, che rappresentano il pubblico più partecipe e coinvolto nella storia del Grande Fratello, persino i giovani cominciano a stancarsi e ad averne le scatole piene. Il reality dei reality sembrava non temere né la concorrenza né la mancanza di novità. Anche se ogni edizione aveva la sua novità e l’asticella dello scandalo a tutti i costi è stata spostata sempre più in alto alla fine il copione è sempre lo stesso e la storia ripetuta tante volte annoia. È probabile che ci saranno colpi di scena e si cercherà di recuperare un po’ di pubblico perso per strada e forse si riuscirà anche nell’intento; ma ciò che non si potrà più fare è fare una cosa completamente nuova. Il Grande Fratello cioè la novità del reality - è destinato a diventare un programma comune come tutti gli altri (che poi non si sa più quali siano dal momento che la televisione non produce più veri programmi televisivi ma sono tutti format copiati di qua e di là). Tutto questo è normale amministrazione. È fisiologia televisiva. L’altro aspetto, invece, è più interessante. I personaggi che oggi prendono parte al Grande Fratello - continuiamo a fare l’esempio del reality più noto per comodità - sono per forza di cose meno spontanei e genuini. Ogni concorrente recita una parte. Se nelle primissime edizioni il concorrente recitava se stesso - l’elemento della recita è ineliminabile davanti alla telecamera - adesso il concorrente recita una parte come se seguisse un copione prestabilito. Non ci si riferisce ai suggerimenti e ai consigli del Grande Fratello, a quanto decide la strategia degli autori che operano dietro le quinte, bensì proprio a quanto fanno automaticamente i concorrenti una volta che è stata assegnata loro una parte da rappresentare. Si verifica così una “realtà” davvero molto strana: il reality vorrebbe essere un programma fondato sulla realtà, ma è diventato in poco tempo il programma più distante che ci sia dalla quotidianità. I personaggi proprio perché recitano se stessi e la parte loro assegnata sono terribilmente grossolani, grotteschi e finti. In altre parole, non sono più dei personaggi e sono anonimi. Ricordate almeno un nome dei concorrenti del GF 11?
«Affaire Mastercard», l’Antitrust multa le banche Violate le regole della concorrenza secondo l’Authority di Alessandro D’Amato
ROMA. Se non ci fosse il Tar bisognerebbe davvero preoccuparsi. L’Autorità garante per la concorrenza e il mercato ha calato la scure sulle carte di credito, multando Mastercard e otto banche per un importo totale pari a sei milioni di euro. Secondo l’Autorità, i multati hanno attuato «intese restrittive della concorrenza». Lo ha comunicato la stessa Authority chiudendo l’istruttoria sulle carte di pagamento. Le multe sono così ripartite: MasterCard 2,7 milioni; Banca Monte dei Paschi di Siena 910mila; Banca Nazionale del Lavoro 240mila; Banca Sella Holding 360mila; Barclays Bank 50mila; Deutsche Bank 200mila; Intesa Sanpaolo 700mila; ICBPI 490mila e Unicredit 380.000. Adesso, dopo il provvedimento, Mastercard e le otto banche dovranno, entro 90 giorni, inviare all’Antitrust relazioni che dimostrino la cessazione dei comportamenti anticoncorrenziali.
zianti e come tale idonea a produrre effetti sui prezzi praticati ai consumatori.
Una sanzione pesante, ma che comunque potrà essere appellata presso il Tribunale Amministrativo Regionale. Che già in altre occasioni aveva funzionato da cassa di compensazione tra le multe delle authority e il corrispettivo poi effettivamente pagato: basta ritornare ai molti litigi nel mercato delle telecom, ma soprattutto – riguardo l’Antitrust – la famigerata multa multimilionaria appioppata dall’allora garante Giuseppe Tesauro, poi praticamente cancellata dal tribunale e dal Consiglio di Stato. Gli uomini di Catricalà, poi, da tempo avevano puntato le carte di credito: «Restano ancora elevati, anche se in linea con quelli degli altri strumenti di pagamento tradizionali come conti correnti e carte di credito, i costi delle carte prepagate offerte dal sistema bancario, con commissioni di ricarica che possono arrivare fino a 5 euro. Per favorire una loro riduzione occorre sfruttare le potenzialità legate ad un possibile ingresso, nel mercato dei pagamenti elettronici, degli operatori telefonici mobili che, con 80 milioni di carte, costituivano alla fine del 2007 la principale componente delle carte prepagate chiuse», diceva l’Antitrust qualche tempo fa.
Sanzioni salatissime per otto istituti (che ricorreranno al Tar): in totale dovranno versare sei milioni di euro
Mentre Mastercard, dovrà definire una nuova commissione interbancaria che abbia giustificazioni economiche e di efficienza mentre, da parte delle banche e del circuito, dovranno arrivare contratti di convenzione privi di limitazioni concorrenziali. Le banche sanzionate - ha spiegato l’Autorità - «hanno posto in essere intese restrittive della concorrenza finalizzate a mantenere alta la commissione interbancaria sui pagamenti attraverso le carte di credito e di debito emesse dal circuito Mastercard». Dall’istruttoria, che si è aperta il 15 luglio 2009, è emerso che Mastercard ha fissato una commissione interbancaria multilaterale specifica per l’Italia particolarmente alta: mediamente lo 0,90% su ogni transazione (superiore del 30-40% rispetto alla commissione applicata dal circuito Visa, principale concorrente e a fronte dello 0,30% applicato sulle operazioni transfrontaliere). La commissione veniva pagata dalla banca che convenziona gli esercenti alla banca che emetteva le carte di credito e, poi, trasferita sulle commissioni richieste ai negozianti convenzionati, con effetti sui prezzi praticati ai consumatori. A carico delle banche l’Antitrust ha riscontrato la definizione di specifici accordi a vantaggio del circuito Mastercard e degli stessi istituti. In sostanza attraverso i meccanismi di convenzionamento i singoli istituti di credito promuovevano la diffusione del circuito riversando la commissione interbancaria sulla commissione pagata dai nego-
La multa ha fatto esultare le associazioni dei consumatori: «Bene la sanzione, ora le banche restituiscano gli arretrati», dicono Adusbef e Federconsumatori. «Ancora una volta - si legge in una nota - è l’Antitrust, ad accertare intese restrittive della concorrenza finalizzate a mantenere alta la commissione interbancaria sui pagamenti attraverso le carte di credito. Le banche sanzionate sono quelle licenziatarie del circuito Mastercard in Italia, e quindi emettono le carte di credito e i bancomat con il marchio Maestro; inoltre, sono presenti nella governance dello stesso circuito. Per ogni 100 euro di transazioni, praticamente, il consumatore paga 90 centesimi in aggiunta: dovrebbero essere appena 30 centesimi invece, se fosse rispettata la tariffa standard. Nel ricorso al Tar, annunciato da Mastercard, Adusbef e Federconsumatori si costituiranno ad adiuvandum dell’Antitrust, anche per far recuperare ai titolari della carta gli arretrati della differenza tra i 60 ed i 90 centesimi pagati per ogni operazione».
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Cittadinanze. Da dicembre, niente più visto per chi arriva dall’Est eri, il consiglio dei ministri degli Esteri dei 27 Stati membri dell’Unione Europea ha votato all’unanimità l’abolizione del sistema dei visti per i cittadini albanesi e bosniaci che desiderano entrare in Europa. La direttiva entrerà in vigore a metà dicembre. Da allora si potrà parlare di una libera circolazione, senza la necessità dei passaporti, anche nella regione balcanica. La scelta di Bruxelles fa seguito all’apertura concessa lo scorso anno a Macedonia, Montenegro e Serbia, anch’esse esentate dal regime dei visti da applicare sul passaporto. L’origine di questa politica di liberalizzazione nasce con l’ingresso della Romania nell’Unione. Va detto però che né l’Albania né la Bosnia fanno ancora parte dell’Ue. Anzi, il loro cammino per il raggiungimento di questa meta, sembra essere ancora lungo, soprattutto per quanto riguarda i parametri economici e di sicurezza interna richiesti dalle istituzioni comunitarie. Il governo di Tirana e di Sarajevo sono stati facilitati da due elementi: la pressione effettuata dalla Germania e l’orientamento generale di tutti i Paesi membri per accelerare il processo di integrazione. Berlino ha fatto da capocordata a tutti coloro che vedono nella penisola balcanica un vicino Eldorado dove indirizzare gli investimenti delle proprie imprese. La Germania, nello specifico, resta il primo partner commerciale di tutti i governi locali. La segue a ruota l’Italia, i cui scambi commerciali con l’Albania e la Bosnia costituiscono rispettivamente il 35% e il 32%. D’altra parte, l’asse tedesco-balcanico appare molto più solido, rispetto alla nostra presenza in loco. La comune origine culturale di stampo mitteleuropeo gioca in favore delle aziende tedesche. In termini generali, però, è l’intera Ue che cerca di uscire dalle secche della crisi finanziaria aprendosi a nuovi mercati e chiamando a raccolta forze fresche, sia in termini di capitali sia di risorse umane.
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Alla fine del 2009, la Banca europea degli investimenti (Bei) ha stanziato ben 110 milioni di euro in favore della sola Bosnia. È facile pensare che, con la liberalizzazione delle frontiere, l’Ue speri di ricevere forze umane per creare nuovi posti di lavoro. In una prospettiva di maggior respiro, è evidente che Bruxelles abbia adottato una linea politica sostanzialmente omogenea. Aprendo le frontiere alla Romania, l’Ue aveva fatto capire che, pur essendo il Paese in una posizione di evidente arretratezza, sarebbe stato
Balcani, Europa (senza più frontiere) Bosnia e Albania entrano in Schengen. Polemiche in Italia: «Sicurezza a rischio» di Antonio Picasso
Qui sopra, il premier bosniaco Milorad Dodik che ha rivendicato il successo dell’adesione del suo Paese (e dell’Albania) al trattato di Schengen. Sotto, Roberto Maroni meglio averlo all’interno dei confini comunitari per assoggettarlo a un più efficace regime di controllo. Lo stesso ragionamento è stato fatto per la Turchia, il cui processo di integrazione ha sollevato un nugolo di polemiche. Anche in questo caso, a Bruxelles è stata espressamente indicata la pre-
sparenza imprenditoriale che risponda positivamente ai parametri comunitari. La corruzione, la presenza endemica della criminalità organizzata e l’impossibilità di definire i meccanismi di distribuzione delle risorse Ue, da parte dei governi nazionali in favore degli imprenditori privati, rap-
Il ministro Maroni ha disertato il voto. E intanto in Italia si moltiplicano le proteste dei leghisti e del Pdl contro la decisione ferenza: «Meglio dentro che fuori!» Detto ciò, i Paesi balcanici presentano una serie di rischi condivisi. Al di là della stabilità politica, che è stata raggiunta pressoché da tutti, preoccupa la fragilità dei singoli sistemi economici. La Bei, proprio nel devolvere l’ingente somma di Euro in favore di Sarajevo, non si è risparmiata dal sottolineare la necessità per la Bosnia di guadagnare un livello di tra-
presentano i punti deboli di un’intera economia regionale, quella balcanica, palesemente lontana da quella dell’Europa centro-occidentale. Tuttavia, è sul fronte della sicurezza che vengono avanzati i
maggiori dubbi. Secondo un recente rapporto dell’Europol, Albania e Bosnia restano i due maggiori centri di smistamento della droga proveniente dall’Asia centrale e dall’Afghanistan. Sono inoltre due passaggi importanti
per quanto riguarda il traffico di armi. Infine la presenza della mafia locale costituisce un problema che le polizie nazionali non sembrano intenzionate ad affrontare. Alla luce di queste osservazioni, quanto è giusta o invece affrettata la scelta di Bruxelles di liberalizzare la circolazione di uomini da e per i Balcani? Solo quest’estate, l’Europa è stata attraversata da un’ondata di polemiche legate alla manovra del governo francese per espellere i clandestini di etnia rom provenienti dalla Romania. E il Cancelliere tedesco, Angela Merkel, ha giudicato fallimentare la società multirazziale che ha tentato di insediarsi nel Vecchio continente. Sulla base di questi fatti, l’orientamento comunitario appare oltremodo contraddittorio. In particolare è così per Berlino.
Quel che si avverte è uno scollamento fra l’establishment Ue e l’opinione pubblica delle singole nazioni, per quanto riguarda l’interpretazione del concetto di sicurezza. Le istituzioni comunitarie sono concentrate quasi esclusivamente sull’economia e sperano di guadagnare in termini di bilancio da ogni direttiva emessa. La loro idea d’Europa è di carattere eurocentrico ed estensivo. L’allargamento dell’eurozona, o prima ancora l’abbattimento delle frontiere comporterebbero un maggior introito per le casse comunitarie. Tutto questo allarma i cittadini europei, i quali sono ispirati da un’interpretazione restrittiva dell’Ue. Nella loro ottica, sicurezza significa protezione, vale a dire una garanzia fornita da Bruxelles a beneficio esclusivo dei cittadini europei. Al contrario, questa politica di libera circolazione, priva com’è di una tabella di marcia temporale, rischia di sobillare i sentimenti più estremisti da parte delle società dell’Europa occidentale verso quelle balcaniche. Il fenomeno, però, ha valore anche in senso contrario. Così come molti francesi non vedono di buon occhio i rom, in Serbia, solo per fare un esempio, i sentimenti antiUe sono stati esplicitati in modo inequivocabile dalla tifoseria nazionale durante la partita Italia-Serbia il 12 ottobre scorso. Tutto questo, infine, mette ancor più in discussione il già precario rapporto fra i singoli Stati membri e le istituzioni centrali. Bruxelles è impegnata in un processo di integrazione che torna utile a qualcuno, per esempio la Germania, ma non è vantaggioso per tutti.
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Una grande biografia cambia la storia. Il principe barbaro, il «Flagel
Era colto e raffinato, che si riteneva erede di Noè e voleva riformare l’Impero romano ormai al tramonto. Il grande storico francese Michel Rouche ribalta il mito controverso del re degli Unni on somigliava affatto all’archetipo del barbaro ignorante interpretato in un film trash di quasi trent’anni fa da Diego Abatantuono. Quello che, nei panni raffazzonati di un selvaggio medievale, ripeteva la macchietta (e la lingua) di Eccezziunale veramente, affermando «Noi siamo babbari, uomini di inaudita viulenza, di inaudita ferocia; noi, dove passeremo, non crescerà più neanche un filo d’erba». Attila, quello vero, era un uomo colto. Il suo popolo gli attribuiva ascendenze da semidio, che andavano indietro nel tempo fino a uno dei tre figli di Noè dai quali, secondo la Bibbia, discenderebbero tutte le popolazioni del mondo. Quando morì suo padre Mundzuk, lo zio Rua (che voleva anche liberarsi di lui, considerandolo già da ragazzo un concorrente pericoloso) spedì Attila a Roma. S’usava così a quei tempi fra barbari e romani: una specie di progetto Erasmus con quindici secoli di anticipo. I figli dei re barbari federati con l’impero trascorrevano un periodo a Roma per assimilarne la cultura e le abitudini; in cambio, i figli dei notabili dell’impero venivano mandati far tirocinio nelle corti dei barbari. Ezio (che sarebbe stato il nemico più temibile di Attila) fu accolto alla corte di Rua proprio mentre il giovane principe unno si trovava alla corte di Onorio.
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I romani, molto abili nelle relazioni pubbliche, sapevano quanto fosse efficace ospitare i principi barbari a corte: nel paragone con le tende o i villaggi nei quali erano cresciuti, finivano fatalmente per subire l’influenza dell’impero, con la sua vita comoda e agiata, fatta di lusso e di divertimenti. S’imborghesivano,
apprestandosi a diventare alleati e difensori dell’impero. Attila, no. Si sentiva prigioniero: disprezzava le mollezze della corte e i suoi intrighi, avvertiva la nostalgia per la vita ruvida e avventurosa dei nomadi. Si guardava intorno per scoprire tutte le debolezze di un impero al tramonto: l’esercito allo sbando, la flotta in disarmo, la penuria di denaro. Roma era già ostaggio dei barbari con i quali era costretta ad allearsi per difendersi da altri barbari. Nel 410 Alarico aveva messo a sacco la città, dimostrando quanto fosse fragile l’impero. Fu allora che Attila maturò il progetto di dare la spallata decisiva a quell’organismo ormai prossimo alla decomposizione.
Tutte le fonti concordano: Attila era piccolo e brutto. La descrizione più attendibile, perché diretta, è quella di Prisco di Panion, che lo incontrò personalmente. «Stava seduto su uno sgabello di legno. Fui sorpreso nel vedere l’estrema semplicità dell’abito, mentre i capi unni erano vestiti di stoffe delicate e colorate, senza dubbio rubate ai cinesi e ai persiani, ricamate con uccelli e fiori, di meravigliosa fattura. Nella tenda c’erano pochi oggetti di valore. Notai soltanto alcune belle pellicce stese a terra, e seggiole di legno grezzo. Egli aveva accanto a sé un arco e un’ascia. Benché non l’abbia visto che seduto, m’è parso basso, ma vigorosissimo. Il suo volto è di un giallo scuro, imberbe e stranamente piatto, gli occhi obliqui, molto infossati». Una barbetta rada incorniciava il volto: aveva il collo taurino e gli zigomi sporgenti. Metteva paura
Attila? Un g di Massimo Tosti solo a vederlo, concordano gli storici. La sua voce e i suoi gesti erano imperiosi. Come tanti piccoli di statura, camminava impettito, per sottolineare la propria autorevolezza. Era orgoglioso e avaro, spartano nelle abitudini, convinto della grandezza del suo popolo, scaltro, paziente e crudele. Morigerato nelle abitudini alimentari, certamente smodato in quelle sessuali: era poligamo (e questo non può stupire), ma il suo harem contava 200 mogli (secondo Prisco), oltre 300 (secondo altri storici). Morì durante la sua ultima prima notte di nozze, con una ragazza
bellissima di nome Ildico. Lo trovarono la mattina in una pozza di sangue, con la moglie accanto che non si dava pace. I medici stabilirono che s’era trattato di un’emorragia, e il caso fu archiviato.
Attila è l’uomo, il re, il condottiero, che mise in ginocchio l’impero romano, cambiando il corso della Storia. Lo racconta – nella sua indiscutibile grandezza – Michel Rouche, professore emerito alla Sorbona di Parigi, esperto della tarda antichità e dell’Alto Medioevo in una biografia (Attila, Salerno editrice, 380 pagine, 27 euro) che lascia poco spazio alle leggende, preoccupandosi piuttosto di descrivere (attingendo a tutte le fonti disponibili) le sue gesta militari, ma anche le differenze culturali esistenti allora fra l’occidente (l’impero romano) e l’oriente del mondo, con le orde barbariche che conquistavano, pezzo per pezzo, l’antico regno di Augusto. Rouche rende conto anche del «mito Attila» che ha esercitato il suo fascino su un gran numero di artisti di primo piano, nell’arco dei secoli. «Vi è stato l’Attila dei cristiani scrive lo storico francese - ma è soprattutto quello dei pagani che ha riscosso una fortuna inaudita anche in pieno XX secolo». Nel ricor-
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ello di Dio», in realtà aveva un progetto per l’Europa. Molto moderno, per altro
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altre opere) sfrutta la storia che racconta per esprimere il proprio sentimento nazionale e suscitare emozioni forti nelle platee. Il generale Ezio gli chiede di risparmiare l’Italia: «Avrai tu l’universo, / Resti l’Italia a me».
Il merito principale di Michel Rouche è proprio quello di aver ripristinato la verità storica su un personaggio, divinizzato da alcuni (nel Canto dei Nibelunghi, per esempio), diffamato dagli altri: Attila fu un abile stratega, un fine politico, un oculato amministratore. Molte verità erano già state rivelate prima del libro di Rouche. I cronisti del tempo hanno tramandato spezzoni dei discorsi che Attila faceva al suo popolo. Usava parole semplici, proponeva concetti essenziali, offriva prospettive concrete. Parlava come i dittatori di ogni epoca: frasi brevi, voce tonante, per essere ascoltato anche da chi era più lontano, nel frastuono delle adunate all’aria aperto, con lo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli a far da sottofondo. Prometteva ai suoi uomini di diventare, insieme con lui, i dominatori del mondo. Puntava sull’orgoglio di appartenenza a un popolo predestinato. I cronisti hanno tramandato anche i suoi discorsi “politici”. Quando riceveva le delegazioni imperiali, ascoltava molto e parlava poco. Il suo latino era fluido e colto, retaggio del periodo d’istruzione trascorso a Roma. Aveva grande proprietà di linguaggio e conosceva tutte le astuzie della dialettica. Era un diplomatico scaltro, dotato di un carisma straordinario che, associato al terrore che sapeva incutere, era un’arma vincente quale che fosse l’interlocutore.
galantuomo do dei primi (i cristiani) il re degli Unni è l’uomo che fu fermato dal papa Leone Magno, secondo il racconto di Paolo Diacono, scritto nell’VIII secolo. Nell’affresco di Raffaello in Vaticano, Leone I è rappresentato con le sembianze di Leone X, il papa regnante quando il pittore di Urbino concluse l’opera (ma la fisionomia del pontefice fu cambiata dopo la morte del predecessore, Giulio II, che commissionò il dipinto e fu lusingato nel riconoscersi nella prima versione del volto del papa che dissuade il barbaro dall’attaccare Roma). Attila, vedendo apparire in cielo san Pietro e San Paolo, indietreggia, come impaurito. Il “flagello di Dio” che arretra di fronte ai due santi più cari alla tradizione romana. Quel soprannome, peraltro, fu affibbiato al re degli Unni dopo la sua morte. L’espressione “flagellum Dei” (letteralmente “frusta di Dio”) era stata inizialmente usata da Agostino al re visigoto Alarico, autore del sacco di Roma dell’Anno 410 (quarantadue anni prima dell’incontro di Attila con Leone Magno). Poi si fece strada l’idea che Attila fosse peggiore di Alarico, e il titolo fu trasferito dagli storici dal visigoto all’unno.
Un secolo dopo Raffaello, un altro pittore, Caravaggio, raffigurò Attila nel Martirio di Sant’Orsola. La leggenda racconta che la santa, figlia del re d’Inghilterra, si fosse recata a Roma in pel-
legrinaggio, in compagnia di undicimila vergini, sulla strada del ritorno, a Colonia (che le dedicò poi la cattedrale) Orsola e le sue compagne furono fatte prigoniere dagli Unni. Attila, respinto da Orsola, le avrebbe scoccato una freccia nel petto, uccidendola, mentre i cavalieri del re avrebbero massacrato l’intero seguito femminile della principessa. Caravaggio raffigura Orsola che, sorretta per le spalle da un soldato, contempla, quas senza capire, la freccia che le si è appena conficcata nel petto, mentre Attila, con ancora in pugno l’arco a doppia curvatura, la osserva con uno sguardo lugubre. Il volto del re è l’autoritratto di Caravaggio (che forse voleva così esprimere la sua richiesta di perdono per i delitti commessi). Norvegesi, tedeschi e magiari hanno rivendicato per secoli una discendenza diretta dal sovrano unno. Presentandolo come un eroe., ovviamente. Pierre Corneille, nel XVII secolo scrisse la tragedia Attila re degli Unni. Il suo eroe è orgoglioso e spietato: «Io sono crudele, barbaro. Non ho che la mia fierezza, il mio furore. Mi si teme, mi si odia, mi si chiama in ogni luogo il terrore dei mortali e flagello di Dio». Nel secolo successivo, Voltaire scrive che «Attila era un uomo unico nel suo valore, un condottiero del popolo degli Unni che costringe l’imperatore Teodosio a pagargli un tributo, che sa imporre la disciplina ai suoi soldati, reclutarli tra i nemici e
alimentare la guerra con la guerra, un uomo che marcia da vincitore di Costantinopoli fino alle porte di Roma e che nell’arco di un regno di dieci anni fu il terrore dell’Europa. Doveva possedere tanta capacità politica quanto coraggio, ed è un grande errore pensare che si possa essere conquistatori senza possedere sia abilità che valore». Montesquieu, in pieno illuminismo, non nascose la sua ammirazione: «Questo principe, signore di tutte le nazioni barbare e, in certo qual modo, di quasi tutte quelle civili, era uno dei maggiori monarchi di cui la storia
Aveva 65 figli, ma quando decise di conquistare il mondo aveva deciso come dividerlo fra loro abbia mai parlato». Il suo ritratto somiglia da vicino al profilo storico di Augusto: Attila, secondo Montesquieu, «era temuto dai suoi sudditi, ma non sembra che ne fosse odiato. Singolarmente fiero, eppure astuto, ardente nella collera, ma capace di perdonare, o di ritardare la punizione, a seconda che convenisse o meno ai suoi interessi; mai faceva la guerra quando la pace poteva dargli bastanti vantaggi; fedelmente servito pure dai re che erano alle sue dipendenze, aveva serbato per sé solo l’antica semplicità dei costumi degli Unni». Giuseppe Verdi, musicista patriota, nell’Attila (come in
Dopo la campagna d’Italia, Attila rientrò in Germania. Aveva quasi sessant’anni e qualche acciacco dovuto alla vita faticosa che aveva condotto fino ad allora. Voleva, forse, dedicare un po’ di tempo alla famiglia, che era piuttosto numerosa: gli si attribuivano due o trecento mogli. Aveva – si dice – sessantacinque figli, dei quali sei destinati a spartirsi l’impero. Quando si proponeva di conquistare il mondo aveva deciso come dividerlo fra loro: il Paese degli Unni sarebbe rimasto a Ellak, la Persia sarebbe andata a Ernak, la Cina a Dinghizik, la Gallia a Emnedzar, l’Italia a Uzindur, l’Africa a Geisen. Non era andata come previsto e ciascuno avrebbe dovuto ridimensionare le proprie ambizioni. Intanto, per non soffrire di solitudine, si scelse un’altra moglie: una giovinetta di nome Ildico. Per le nozze fu organizzata una grande festa e Attila, contravvenendo alle sue abitudini di sobrietà, mangiò e bevve quanto i suoi convitati. Morì durante la notte per un’emorragia. Nella sua tragedia, Corneille gli fa esclamare, alla fine del dramma: «S’il ne veut s’arrêter / on me payera ce qu’il m’en va coûter» («Se non vuole arrestarsi [il sangue] / mi pagherà quel che mi va a costare»). Il suo corpo fu composto in una bara d’oro, che fu chiusa dentro una bara d’argento, che fu inserita in una bara di ferro. Con le tre casse fu sepolto anche uno scrigno pieno di gioielli, perché il re non soffrisse la povertà neppure da morto. Il luogo dell’inumazione fu tenuto segreto e i becchini, che ne erano inevitabilmente al corrente, furono ammazzati. Due anni dopo il figlio maggiore, Ellak fu sconfitto e ucciso dai Gepidi. Ernak, il figlio minore, chiese asilo nell’Impero d’Oriente. Degli unni non si sentì più parlare.
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Usa. Mentre i Democrats pagano pegno per la débâcle di Midterm, un solo leader esce indenne dalla bufera: la Clinton
Hillary ci riprova Ha lasciato solo Obama nell’ora della sconfitta e ora guarda alle presidenziali del 2012 di Luisa Arezzo idterm: è vero, tradizione vuole che i segretari di stato restino fuori dalla mischia. Ma tra il restare dietro le quinte e sparire, non in senso figurato, ma proprio in senso fisico, ce ne passa. Se poi le elezioni erano - come tutti sapevano un insuccesso annunciato (da mesi) per il partito del presidente, ecco che l’assenza si trasforma in qualcosa di diverso. Un piano, nemmeno troppo diabolico, per evitare di legare la propria immagine al calo di consensi che ha colpito il comandante in capo della Casa Bianca. Soprattutto se all’orizzonte si profila la possibilità di prendere il suo posto nel giro di un paio d’anni. Stando agli ultimi sondaggi Gallup la popolarità del Segretario di stato è alle stelle: il 62% contro il 38% di Obama (non dimentichiamo che nel 2009, quando si insediò alla Casa Bianca, la popolarità del primo presidente afroamericano era al 78%,). Il dubbio è dunque le-
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cito: la distanza di Hillary Clinton dalle elezioni di Midterm è stata troppo evidente per considerarla un semplice “impegno di lavoro” organizzato da tempo. Ufficialmente è partita alla fine di ottobre per una lunga visita in Asia e Australia che la ha impegnata fino a ieri (è dunque tornata a casa ben sei giorni dopo le elezioni), ma il suo silenzio sulla débâcle che ha investito Barack Obama e i Democrats è un segnale preciso.
I giornalisti, è il loro lavoro, hanno tentato in tutti i modi di provocarla in questi giorni ad un commento, ma tutto quello che sono riusciti ad ottenere sono state due stilettate di circostanza, di quelle che vogliono sembrare simpatiche e invece ti affossano. La prima, da Kuala Lumpur, capitale della Malesia. È il 2 novembre, i pri-
mi exit pool lasciano poco spazio alle speranze e Hillary, scherzando con gli studenti e le autorità cittadine, sorride e spara: «Credo che Obama sia un po’ invidioso che io sia qui, oggi». La seconda, a ventiquattr’ore dalla batosta: «Gli elettori delusi che Barack Obama deve riconquistare? Sono come Riccioli d’oro», la bambina della favola mai soddisfatta della pappa apparecchiata sulla tavola degli orsi. Non una parola di solidarietà, nessun commento politico, nessuna “mano tesa” o un gesto di empatia per il suo Presidente. Eh sì che nel 1993, in una delle sue prime dichiarazioni da First Lady, quando si era già capito che non avrebbe interpretato il suo ruolo alla Casa Bianca restando dietro le quinte, aveva detto: «Qual è l’apporto femminile alla vita politica? Cervello, energia e ab-
Da mesi non cita praticamente mai il ”suo capo”, si fa vedere al suo fianco il meno possibile e non lo ha invitato nemmeno al matrimonio dell’anno: quello della figlia Chelsea negazione. Ma, ancora di più, la sensibilità e la compassione». Ecco, se delle prime tre qualità lei è campionessa, delle ultime due, lo dicono i fatti, no.
A far trapelare qualche pensierino “scorretto”per il 2012, ci è riuscito Bob Woodward, la penna d’oro del Washington Post autore di uno dei più grandi scoop della storia del giornalismo: il watergate. Suggerendo un ticket 2012 Obama-Clinton (quest’ultima al posto dell’invisibile Joe Biden), ha provocato la secca smentita di entrambi. Ma soprattutto di Hillary: «No, no e ancora no. Mi piace il lavoro che faccio», ha detto tagliando corto. Ma è ormai sotto gli occhi di tutti che lei non citi praticamente mai il suo presidente, che si faccia vedere al suo fianco il meno possibile e che non lo abbia invito nemmeno al matrimonio dell’anno: quello di sua figlia Chelsea con Marc Mezvinsky. «Hillary e Bill hanno voluto mantenere l’evento riservato» aveva diplomaticamente commentato l’attuale inquilino della Casa Bian-
ca poco prima delle nozze, ma a nessuno era sfuggita la lista di 500 invitati: da Oprah Winfrey a Barbra Streisand da Ted Turner a Steven Spielberg e consorte fino all’ex premier britannico John Major. Che il rapporto fra i due non fosse dei più facili e felici si era capito da subito, ma è possibile che Obama abbia sottovalutato il rischio mettendola alla guida della politica estera stelle&strisce. Così come è possibile che non avesse altra scelta. D’altronde il calcolo politico dietro alla sua nomina era abbastanza chiaro a tutti: meglio avere la “macchina” Clinton come alleata, piuttosto che averla come avversario fuori dall’Amministrazione. E questo al netto del fatto che avesse impostato la sua corsa alle primarie presentandosi agli elettori Democrats come alternativa ai metodi politici clintoniani. Sta di fatto che il gioco si sta rovesciando: così come Hillary aveva sottovalutato lui all’inizio della campagna presidenziale, quando lei era sulla bocca di tutti e nessuno rammentava il cognome del giovane senatore dell’Illinois, nel 2009 è stato Obama, forte del suo successo, a sottovalutare (almeno in parte, poi vedremo perché) lei. Altrimenti non spiega il motivo per cui l’abbia voluta resuscitare dalla
morte politica a cui la sconfitta l’avrebbe relegata. Fatto sta che fra due anni nessuno ricorderà più la legge del vincitore e del vinto, e se Obama non dovesse riprendersi dal cono d’ombra in cui sta calando, Hillary (che all’inizio forse pensava più al 2016 che al 2012), potrebbe decidere di sfidarlo. Basta anche dare un’occhiata alla sua agenda politica per capire che sta interpretando più il ruolo di una futura candidata che quello di un segretario di Stato nel pieno delle sue funzioni. Hillary Clinton adora stare sulle prime pagine dei giornali, è una decisionista nata, ma da un po’ di tempo non decide più nulla. O meglio: non scontenta più nessuno, se non con atti di basso profilo.
Insomma, tutto ci saremmo aspettati tranne che trovarci davanti a un Segretario di stato meno brillante di Madeleine Albright e Condoleezza Rice. Per capirlo basta passare in rassegna le sue dichiarazioni delle ultime 10 settimane: ha sostenuto i giovani gay su YouTube per battersi contro l’alta percentuale di suicidi sia negli States che all’estero; si è detta preoccupata per i tagli alla difesa inglesi, ha esortato il Kosovo e la Serbia a trovare un accordo (è andata sia a Belgrado
mondo chiesto maggiore collaborazione alla Russia. E via dicendo. Come dice il detto: tante chiacchere (molto presenzialismo) e poco arrosto. Soprattutto sui temi caldi. E questo non le si addice. A meno che non abbia altri piani che la costringano a mantenere un basso (ma autorevole) profilo o le siano stati messi dei bastoni fra le ruote.
Secondo alcuni Hillary non sarebbe felice. E la sua frustrazione avrebbe radici profonde. Per esempio dall’essere stata esautorata alcuni mesi fa dalla nomina degli ambasciatori: voleva Joseph Nye, l’inventore del soft power, a Tokyo, e l’ex giornalista del Washington Post, Bill Drosdiak, a Berlino. Glieli hanno bocciati, insieme ad altri, preferendo ricompensare i ricchi donatori della campagna elettorale.Voleva riavere a fianco l’ex consigliere politico Sidney Blumenthal. Ma la Casa Bianca le mise un veto avversandolo per essere stato l’ispiratore degli attacchi a Obama durante le primarie. E invece si è vista affiancare da un nugolo di pesi massimi (ma tutti inconcludenti, bisogna dirlo...) sui dossier più caldi: Holbrooke per l’Afghanistan, Mitchell per il Medioriente, Dennis Ross per l’Iran e il vicepresidente Biden per l’Iraq. Senza dimenticare che non è mai andata d’accordo col suo primo vice, Jim Steinberg, che pure lavorò per il marito e ora starebbe giocando una partita sua al diparti-
Tutto ci saremmo aspettati tranne che trovarci davanti a un Segretario di stato meno risoluto di Madeleine Albright e Condoleezza Rice. Ma forse il suo piano è proprio questo... che a Sarajevo, certo non la priorità della politica estera Usa in questo momento); si è scusata con il Guatemala per gli esperimenti negli anni Quaranta, ha chiamato Netanyahu per chiedere una proroga della moratoria e lo rivedrà la prossima settimana a Washington per tentare di evitare l’inevitabile; ha parlato con l’Anp dandogli ragione; ha esortato (ancora ieri) i leader iracheni a formare il nuovo governo; ha auspicato l’ingresso in scena di leader responsabili in Iran; ha parlato della guerra al narcotraffico come di una guerra civile; ha
mento di Stato. E poi c’è la vicenda del terremoto di Haiti: dove Obama ha mandato prima suo marito e poi lei. Entrambi hanno promesso fondi, il primo grazie alla sua Fondazione, la seconda in nome degli Stati Uniti. Peccato che del miliardo e passa di dollari promesso da Hillary nemmeno un centesimo sia stato ancora sbloccato a favore dell’isola. I maligni dicono perché dovrebbero essere amministrati proprio dalla Fondazione Clinton. Una certa ruggine è orami evidente anche fra l’ex presidente e Obama. Durante la campa-
gna del Midterm, all’assenza di Hillary ha fatto da contrappeso l’onnipresenza di Bill. Ma mai una parola a favore di Obama. Mai. Strano no? In fin dei conti è il “capo”di sua moglie. Secondo voci del Gop, sarebbe proprio lui la mente dietro alla candidatura anticipata della moglie. «Bill sperava di ottenere il Nobel della pace che è invece andato a Obama», affermano, «e non ha rinunciato a prendersi la rivincita, a rimettere cioè piede alla Casa Bianca sia pure solo come first gentleman». Gli brucerebbe insomma che Obama gli abbia soffiato due volte i premi a cui ambiva: la presidenza della moglie e il Nobel. E così avrebbe chiesto a Hillary di ripensarci nei prossimi due anni.
Secondo il più recente sondaggio Gallup, Hillary sarebbe anche meno sgradita di Obama al pubblico in genere, il 34% contro il 40% . E suscita meno ostilità tra i repubblicani, che la trovano meno “liberal” del presidente. Il sondaggio non è scolpito nella pietra, non esclude anzi che Obama si riprenda. Ma al momento, Hillary si giova del fatto che opera principalmente in politica estera, ed è al di fuori della battaglia sulle riforme interne. E questo le fa guadagnare consensi. E così, chi pensava di essersene sbarazzato per sempre quando la sociologa femminista Camille Paglia, già creatrice del mito di Madonna e lapidaria affossatrice di quello di Lady Gaga, aveva dichiarato conclusa l’epopea dell’ex signorina Rodham, ha dovuto ricredersi. E ammettere di aver sbagliato, naturalmente. Perché la fenice dell’Illinois, dopo essere rinata nel Duemila dalle sue ceneri, (seppellendo alle elezioni senatoriali di New York il bamboccetto Rick Lazio sotto una valanga di voti) ed essere diventata Segretario di stato, continua a pensare di poter arrivare al gradino più alto della scala: la Casa Bianca. E in veste di comandante. Di recente ha detto (alla faccia di chi sostiene che non è vero, non è poi così spocchiosa e competitiva…): «È complicato essere la donna più potente del mondo. Soprattutto se il vostro capo è l’uomo più potente e più popolare del mondo e se vostro marito, che lo fu a suo tempo, vi contende le luci della ribalta mondiale ogni qualvolta voi cerchiate di catturarle». Il segnale della sua ambizione sta tutto in quel «donna più potente del mondo». Forse aveva ragione l’ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite, John R. Bolton, nel suggerire in tempi non sospetti ad Obama che “assumendo” la Clinton avrebbe violato la regola d’oro di ogni capo d’azienda: “non assumere mai uno che non potrai licenziare.” Aggiungiamo noi: perché alla fine potresti essere licenziato tu.
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Gli States sul banco degli imputati al G20
Tutte le sconfitte del Presidente James K. Galbraith “processa” le manovre economiche Usa di Alessandro D’Amato spirandosi a quello che il Financial Times ha dipinto come «un impressionante rovesciamento dell’ortodossia degli ultimi decenni», molti politici nel mondo hanno iniziato ad ispirarsi alle raccomandazioni di James Kenneth Galbraith, l’economista Usa che ha fatto parte dello staff del Congresso degli Stati Uniti d’America, è docente all’Università di Austin e ha criticato di recente la visione monetarista e il free market consensus. Secondo Galbraith, infatti, una rigorosa politica economica keynesiana sarebbe la soluzione della crisi economicafinanziaria del 2007-2008, mentre le politiche monetariste peggiorerebbero la recessione. Non solo: scrivendo una considerazione generale su Barack Obama e le banche, ha analizzato e criticato tutte le mosse di politica economica che hanno portato il presidente a perdere le elezioni di Midterm, oltre che a costringere l’economia Usa alla robustissima iniezione di capitali decisa di recente dalla Fed. Un’iniezione che secondo l’economista avrebbe dovuto essere ancora più grande, come del resto ha fatto notare anche Krugman.
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Ma il vero problema del Presidente sono i suoi collaboratori «troppo amichetti delle banche»: «Il peccato originale della presidenza Obama è stato quello di assegnare la politica economica ad un circolo ristretto di economisti bank-friendly, ex collaboratori di Bush: Larry Summers, Timothy Geithner e Ben Bernanke. Uomini che non avevano nessuna convenienza a centrare l’obiettivo di un recupero precoce, nessuna partecipazione al partito Democratico, nessun interesse per il successo di Barack Obama. Il loro obiettivo
primario, invece, era e rimane quello di proteggere le proprie decisioni del passato e del loro futuro professionale». In un saggio di fuoco, Galbraith ripercorre i primi passi dell’Amministrazione americana al manifestarsi della crisi: «Fino a un certo punto, si possono difendere le decisioni prese tra settembre e ottobre 2008, motivandole con lo stress di un sistema in rapido collasso finanziario». Ma dal suo insediamento, fa notare Galbraith, le mosse di Obama sono andate sempre nel verso sbagliato. Ovvero, nella direzione di mettere le banche pericolose sotto l’ala protettiva della Fed. Assicurare i titolari dei depositi, sostituire il management ed i lobbisti, controllare i libri, perseguire le frodi, ristrutturare e ridi-
mensionare le istituzioni non è stato fatto, anche se così il sistema finanziario sarebbe stato ripulito. E i grandi banchieri sarebbero stati necessariamente strigliati dalla politica. Il team di Obama non ha fatto niente di tutto ciò. Ha invece organizzato discutibili stress test, con l’obiettivo di rassicurare il mercato e nascondere le vere condizioni delle banche. La politica ha spinto la Fed a chiudere un occhio sugli asset tossici degli istituti di credito, mentre i management che hanno sbagliato sono rimasti al loro posto. La banca centrale ha tagliato il costo del denaro a zero, per far ripartire il sistema del credito. E le banche hanno festeggiato. Incrementando profitti e bonus.
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Crisi. L’Occidente ha inviato due flotte e ora se ne lava le mani i pirati? Non ci sono più. Almeno sulle pagine dei giornali. Il fatto che sabato scorso sia stato pagato un riscatto record di 9 milioni di dollari per la liberazione della Golden Blessing, un cargo battente bandiera di Singapore sequestrato lo scorso giugno al largo della costa somala con 19 uomini a bordo, fa capolino solo su qualche agenzia. «I soldi sono stati lanciati da un elicottero e in questo momento i miei compagni se li stanno spartendo», ha informato via supersatellitare un pirata del porto di Hobyo. Nella loro ottica, i giornali fanno bene a non parlarne, visto che ormai si tratta di prassi comune, di evento routinario che non fa più notizia. L’Occidente ha volonterosamente inviato due flotte, si è liberato la coscienza e ora può permettersi tempi lunghi. In definitiva, la realtà è che ci siamo abituati, e ormai abbiamo accettato i pirati come normalità. Anche nello scorso mese di ottobre i mercantili non hanno avuto vita facile. Scorrendo le agenzie senza nemmeno troppo impegno, si può leggere che il giorno 24 il mercantile tedesco Beluga Fortune è stato sequestrato nell’Oceano Indiano dai pirati somali, che per la presenza delle flotte si spingono sempre più lontano, in una posizione che risulta circa 750 miglia ad est di Mogadiscio.
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La sera precedente avevano già sequestrato una petroliera battente bandiera di Singapore al largo della costa del Kenya, nel bacino somalo, in viaggio da Mombasa a Mahe, nelle Seychelles, con un equipaggio di 17 persone. Secondo un elicottero della marina turca che pattugliava la zona, accanto al cargo MV York, di oltre 5 mila tonnellate, si trovava il peschereccio Golden Wave, già catturato dai pirati nella prima decade del mese. Ciò dimostrerebbe l’utilizzazione del naviglio sequestrato per fungere da “nave madre” nelle operazioni piratesche a grande distanza dalle coste. Sempre nei primi giorni del mese scorso un’imbarcazione avrebbe attaccato un cargo nel Golfo di Aden, aprendo il fuoco. In questo caso, l’intervento
E i pirati sparirono (ma solo dai media) Continuano senza sosta gli assalti alle navi Ma neanche i riscatti record fanno più notizia di Mario Arpino
I bucanieri si sono spostati più a sud, e ora operano anche nelle acque del Kenya, Tanzania, Mozambico, Botswana e persino Sudafrica della forza navale dell’Ue, la Navfor, avrebbe convinto i pirati a desistere. Sempre negli stessi giorni, avrebbero catturato a 170 miglia a sud di Mogadiscio anche una nave giapponese con 20 marinai a bordo, nonostante il tempestivo invio nell’area di una nave militare danese. La missione europea, di cui fa parte anche la nostra Marina Militare che ne ha avuto il comando, attraverso Bruxelles mantiene un servizio di pubblica informazione che fornisce in continuazione dati aggiornati. Secondo questa fonte, la più attendibile, in questo momento i pirati sarebbero in possesso di 19 navi con 428 ostaggi, tra cui la coppia degli anziani cittadini britannici Paul e Rachel Chandler, catturata un anno fa. Nel tem-
po, in alcuni casi davvero dopo molto tempo, alcune navi sono state rilasciate assieme agli equipaggi, ma nessuna senza pagamento di riscatto.
La preoccupazione per questo stato di cose, che aumenta vertiginosamente i costi del più economico dei mezzi di trasporto e rende incerta la libertà del traffico che attraversa il canale di Suez per dirigersi verso l’Oceano Indiano o il Mediterraneo, ha originato numerose iniziative, ma sinora solo quelle della Nato e della Ue hanno avuto concretezza. Come spiega una nota di Libero Reporter, in un vertice ministeriale tenutosi alle isole Mauritius, i paesi dell’Oceano Indiano in accordo con la Ue hanno recentemente tracciato
una strategia regionale per la lotta contro la pirateria marittima. I punti cardine di questa linea operativa sarebbero tre: un piano d’azione a terra in Somalia per combattere le cause della pirateria; l’incoraggiamento ai paesi della regione perché perseguano penalmente i pirati catturati, offrendo a questo fine un sostegno tecnico-finanziario della comunità internazionale; il rafforzamento da parte dei paesi della regione della capacità di mettere in sicurezza la propria area marittima. È proprio in questo quadro che da aprile scorso la Ue con la missione “Atlanta” ha incrementato la propria efficacia con azioni preventive al largo della Somalia, bloccando e controllando ogni imbarcazione
in uscita e in entrata da e per i porti somali considerati base. L’azione è giuridicamente confortata da una pre-esistente risoluzione dell’Onu che consente il pattugliamento delle acque territoriali della Somalia. Fino all’anno scorso le acque predilette dai pirati per le azioni criminose erano quelle del Golfo di Aden, dove però il pattugliamento delle flotte si stima abbia ridotto gli attacchi di oltre il 60 per cento.
Questo è il motivo per cui, dotati dei mezzi oggi consentiti dagli ingenti introiti, i pirati somali si sono spostati più a sud, ed ora operano anche nelle acque al largo del Kenya, Mozambico, Tanzania, Botswana e persino Sudafrica. Secondo un rapporto della World Peace Foundation, soltanto nei mari prospicienti la costa orientale africana l’area a rischio è rapidamente passata da 205 mila a 2,5 milioni di miglia quadrate. Sempre per continuare con le stime, le gang del mare, che avrebbero al loro soldo circa 1.500 uomini disposti a tutto, avrebbero incrementato il loro business dai 55 milioni di dollari nel 2008 ai 100 milioni del 2009, con previsioni di ulteriore aumento a fine 2010. I pirati sono pazienti, e non restituiscono mai senza riscatto. Nel caso dei già citati coniugi inglesi, le trattative sono ferme da mesi, dopo la richiesta di 7 milioni di dollari. La situazione sta divenendo insostenibile, ed urgono provvedimenti che integrino il pur efficace e non sostituibile lavoro delle flotte militari. Su questo punto, molte nazioni hanno adottato provvedimenti di emergenza, come l’uso di guardie private specializzate a bordo o addirittura, come la Francia, la presenza di militari della Marina, specificatamente addestrati. Su tutte le misure citate in questo momento non vi è, tuttavia, piena e comune condivisione di vedute sulla legittimità giuridica. Anche l’Italia, che dispone di ottimi specialisti in materia, sta offrendo il proprio contributo. In ambito parlamentare sono in lento itinere alcuni disegni di legge, mentre in ambito militare il Capo di stato Maggiore della Marina ha affrontato il problema con proposte concrete, nel corso del “Regional Symposium” recentemente tenuto a Venezia tra 44 Marine militari che operano nei bacini del Mediterraneo e del Mar Nero.
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Amministrative ai socialisti, il 45% degli elettori non vota
La giunta parla di “moltissimo tempo” per la conta ufficiale
Grecia alle urne, vince il Pasok. Ma l’astensione preoccupa
Elezioni farsa in Birmania, i risultati “fra 2 mesi”
ATENE. Dopo mesi di scontri
RANGOON. Il trucco c’è e si ve-
violenti e scioperi, la Grecia va alle urne per rinnovare le amministrazioni locali. E il partito socialista greco (Pasok) le vince, anche se di poco, passando di fatto quelle che erano considerate un referendum nazionale sulla politica economica del governo. La formazione del premier George Papandreou si è aggiudicato sette delle 13 mega-regioni, un risultato che spazza via l’ipotesi di possibili elezioni anticipate, ventilata dallo stesso primo ministro. Dopo un anno di crisi e proteste per i tagli a salari e pensioni, l’elettorato ha confermato la propria fiducia nel Pasok. «Il popolo che ci portò al potere un anno fa ha confermato che vuole il cambiamento, e quindi proseguiremo subito per la nostra strada e i nostri obiettivi», ha commentato il primo ministro ribadendo che la priorità dell’esecutivo rimane «rimettere in sesto le finanze pubbliche, con l’abbattimento del deficit e il controllo del debito».
de. Il fatto che tutti i candidati del Partito dell’unione, della solidarietà e dello sviluppo – lo stesso che i primi risultati danno vincente alle elezioni in Birmania – siano ex militari non inganna: il Partito civetta, creato appositamente dalla giunta in vista del primo voto libero dopo 20 anni nel Paese, è composto dagli stessi uomini. Oltre a loro, l’altro partito che pensa di raccogliere molti consensi è il National Unity Party (Nup),. I risultati finali saranno pubblicati fra parecchi mesi, dato che i quasi 40mila seggi sono sparsi su un vasto territorio le cui vie di comunicazioni sono spesso difficili. Secondo le accuse dell’opposizione, molti vo-
Il premier ha tuttavia sottolineato come il tasso di astensione (circa il 45%, in un paese in cui il voto è in teoria obbligatorio) «dovrà porre un problema» alla classe politica ellenica. Ma l’opposizione sottolinea che la tornata amministrativa riduce
Un’altra fumata nera per il governo dell’Iraq Attentati e vittime a Najaf e Karbala di Osvaldo Baldacci ono serviti otto mesi ai politici iracheni per mettersi d’accordo sul fatto di dare vita a un governo di unità nazionale. Ma è l’unico accordo che hanno raggiunto, visto che il governo non si riece a comporre. Ieri l’incontro ad Erbil su questo tema non ha prodotto risultati. Mentre nel Paese la situazione è ancora critica, con il terrorismo che ha rialzato la testa. Nella città curda è iniziato il summit tra praticamente tutte le forze politiche irachene per sciogliere il nodo del nuovo governo. I risultati del voto del 7 marzo avevano infatti sancito la vittoria del Blocco Iracheno dell’ex premier Ayad Allawi - sciita, ma che accoglie personalità sunnite - con 91 seggi, contro gli 89 dell’Aed del Primo ministro uscente Nouri al Maliki e i 70 dell’Alleanza Nazionale Irachena (sciita religioso); i partiti curdi contano 43 deputati. Alla fine Allawi, capo del blocco Iraqiya, e al-Maliki, leader dell’Alleanza Nazionale, non estranee forse le pressioni internazionali, hanno accettato di mettere da parte le rivalità personali e hanno sottoscritto un accordo per governare insieme. Il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ha chiesto per l’Iraq un governo inclusivo che rifletta «gli interessi e le esigenze delle diverse fasce della popolazione». Primo ministro sarà confermato l’uscente al-Maliki, benché al voto abbia ottenuto due seggi in meno del concorrente, ma ora conta sul supporto di altri deputati sciiti. Allawi indicherà il Presidente del parlamento e porterà al governo anche rappresentanti sunniti della sua coalizione interconfessionale. Presidente della Repubblica sarà confermato il curdo Talabani. Ma oltre questo quadro non si è ancora andati. Da chiarire anche il ruolo di Moqtada al Sadr, che da leader miliziano estremista è diventato importante elemento politico, con l’avallo iraniano. Anche lui è presente alla conferenza di Erbil. Sadr, la cui forza è stimata in una quarantina di parlamentari, dopo le elezioni era sembrato fare il proprio ingresso nella coalizione di Allawi, ma alla fine scelse il
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raggruppamento che fa riferimento a Maliki. E ora è al tavolo con tutti e due. Secondo quanto riportano i media iracheni, la riunione è stata rinviata a oggi quando i capi dei principali partiti politici si incontreranno a Baghdad. La violenza che è riscoppiata nel Paese è uno degli elementi che spingono i politici iracheni a trovare una soluzione. Ieri autobombe hanno colpito fedeli sciti nelle città sante di Kerbala e Najaf. Tra le vittime anche diversi pellegrini provenienti dall’Iran.
A Kerbala, l’eplosione di un’autobomba ha fatto almeno 18 morti e 58 feriti. L’attentatore si era diretto con il veicolo esplosivo vicino ad un pullman che trasportava un gruppo di pellegrini iraniani. Un paio d’ore dopo, nella vicina Najaf un’altra autobomba è esplosa nei pressi di un terminal di pullman in arrivo dall’Iran. In questo caso, il bilancio è di almeno sette morti e una decina di feriti. Negli ultimi giorni le stragi si sono susseguite con bilanci persino più drammatici, che in molti casi hanno provocato più di cento morti al giorno, senza dimenticare l’assalto alla cattedrale cristiana. Stragi recenti che sembrano portare la firma di un ritorno sulla scena di un terrorismo di stampo qaedista, ma tutto da verificare. A fronte dell’incertezza politica, le forze interessate a rimestare nel caos e nella violenza per acquisire posizioni possono essere più di quelle che appaiono a prima vista. Un altro elemento determinante è ad esempio la capacità di influenza dell’Iran sull’Iraq, e dei mezzi che vengono usati dagli uni per consolidarla e dagli altri per contrastarla. In Iraq ad esempio oltre a una tragica questione cristiana esiste anche una questione sunnita. Una delle vittorie decisive della coalizione internazionale era stata quella di riuscire a coinvolgere di nuovo i sunniti nella vita politica irachena e nel separare le tribù sunnite dagli insorti più vicini ad al-Qaeda. Ma l’incertezza politica sta rimettendo a rischio le scelte della comunità.
Si cerca ad Arbil un accordo tra i leader dei maggiori partiti per sbloccare un’impasse che ormai dura da otto mesi
dal 10% delle politiche al 2,5% il vantaggio del Pasok nei confronti del secondo partito Nuova Democrazia (ND, centrodestra) e fa crescere sensibilmente il Partito comunista (Kke), che supera l’11% contro il 7,5% delle politiche. Questi numeri, uniti all’altissimo tasso di astensione, dimostrano secondo l’opposizione di destra e di sinsitra che «gli elettori hanno respinto la politica di austerità» varata dal governo insieme a Ue e Fmi. Il Pasok conquista in particolare la regione cruciale dell’Attica, il Peloponneso e Creta, ma perde a vantaggio del centrodestra nell’importante Macedonia centrale e nelle due città più importanti, Atene e Salonicco.
ti sono stati raccolti prima delle elezioni; in alcune aree i birmani hanno ricevuto minacce di votare per l’Usdp, altrimenti avrebbero perso il lavoro; ai partiti dell’opposizione è stato proibito di mandare rappresentanti ai seggi. Su 29 milioni di elettori, a oltre 1,5 milioni di gruppi etnici è stato proibito votare perché la situazione era “troppo pericolosa” a causa di tensioni con i militari della giunta. In ogni caso, secondo testimoni, non vi sono state né folle né code ai seggi.
In compenso i militari hanno presidiato le vie principali delle città per frenare possibili disordini. A osservatori indipendenti e giornalisti stranieri è stato proibito di seguire le elezioni.Telefoni e internet hanno subito interruzioni e oscuramenti. Va aggiunto che con qualunque risultato, il 25% dei seggi sarà riservato ai militari. Stati Uniti, Londra, Parigi, Unione europea e Australia hanno condannato lo scrutinio perché eseguito a un livello “non accettabile” secondo gli standard internazionali. La Lega nazionale per la democrazia (Nld), il partito di Aung San Suu Kyi, ha boicottato le elezioni giudicate solo una “farsa” per dare un volto accettabile e “laico”al dominio della giunta.
cultura
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Il personaggio. Negli anni Trenta, fotografò in modo esemplare la situazione dell’industria cinematografica statunitense prima dell’omologazione
Un italiano a Hollywood La grande avventura americana di Tito Spagnol, il giornalista e sceneggiatore che divenne maestro del giallo made in Italy di Orio Caldiron barcato negli Stati Uniti nell’autunno 1929 all’indomani del crollo di Wall Street, quando i banchieri rovinati si buttano giù dal trentesimo piano dei grattacieli, Tito A. Spagnol vi rimane fino alla fine del 1930, condividendo con altri innamorati del cinema la fame felice di chi spera di lavorare a Hollywood.
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del bluff, la spregiudicata capacità di autopromozione. Ma non è la cosa più importante. L’aspetto sorprendente del rito si celebra in sala, il miracolo avviene sullo schermo quando l’insipido melodramma dei due
Lo scrittore, eccentrico e giramondo, riuscì a raccontare ai lettori connazionali la «fabbrica dei sogni» degli anni d’oro
fratelli innamorati della stessa ragazza lascia il posto alle emozioni da cuore in gola della battaglia aerea. Lo spettacolo cinematografico si anima nel momento in cui dimostra di saper corrispondere alle attese del pubblico, suscitando l’immedesimazione degli spettatori che abbandonano la poltrona per partecipare alle fasi più decisive del conflitto, si muovono come se avessero tra le mani la cloche di un caccia e agitano gli indici per premere il grilletto della mitragliatrice. Quando la sera del 18 aprile 1931 i riflettori tornano a illuminare il cielo di Hollywood per l’anteprima di Dirigible, dove vengono applauditi il boss della Columbia, il regista e gli interpreti, Spagnol non c’è. Scaduto il permesso di soggiorno, è stato costretto a nascondersi per far perdere le tracce all’Immigration Bureau. Ormai si è rifugiato in un paesino del Messico, improvvisandosi senza molta fortuna pescatore, commerciante di verdure, cercatore d’oro. Spera di raggiungere l’Alaska, dove sono stati scoperti nuovi filoni auriferi. Sembra un film, ma il suo rien-
Il giornalista, che scrive sui settimanali degli emigrati e invia le sue corrispondenze alle riviste italiane, s’imbatte in David W.Griffith, Frank Borzage, Cecil B.DeMille, William S.Van Dyke II, e assiste agli sfoghi di Sergej M.Ejzenstejn, chiamato per progettare film che nessuno avrebbe mai realizzato. L’incontro più fortunato è quello con Frank Capra. Nonostante non sia ancora il grande innovatore della commedia che si affermerà di lì a poco, è già una delle figure ascoltate e promettenti dell’ambiente. Il lasciapassare non potrebbe essere più autorevole. Il regista italo-americano lo scrittura come assistant director per Dirigible, uno dei suoi primi film sonori, consentendogli di varcare i cancelli della Columbia con un regolare contratto di tre mesi a cento dollari la settimana. Il viaggio di Spagnol nel cinema americano sta tra due anteprime al Chinese Theatre, la celebre sala Tito A. Spagnol (1895-1979) nasce a Vittorio Veneto da dell’Hollywood Bouleun’agiata famiglia borghese. Studia a Bruxelles all’Évard. Il 27 maggio del cole des Hautes Etudes Economiques et Sociales. Par1930 viene presentato tecipa alla prima guerra mondiale come telegrafista Gli angeli dell’inferno, il presso il comando supremo a Udine e presso l’aviazione militare a Campoformido. Nel ’19 è inviato spefilm-scommessa con cui ciale de Il Nuovo Giornale di Firenze e nel ’20 viene il magnate dell’industria aereonautica Howard assunto al Tempo di Roma. Scrive sul settimanale Il Serenissimo, a cui si affianca il quotidiano Il Sereno: Hughes celebra le proma nel ’24, dopo il delitto Matteotti, le redazioni dei dezze aviatorie della giornali sono incendiate dai fascisti. Eludendo la poliGrande Guerra. Al giorzia fascista, emigra a Parigi, dove trova lavoro a Parisnalista italiano, confuso Presse, che nel ’29 lo manda a Hollywood come inviatra il pubblico, non sfugto. Il soggiorno dura oltre un anno, in cui fa il redattoge che la messinscena re de L’Italo-Americano, il settimanale di LA della codella serata, con la squamunità italiana e cerca di sfondare nel mondo del cidriglia di caccia che nema. Rientrato in Italia, dirige Tessili Nuovi, la rivista sembra precipitare tra la della Snia Viscosa e si stabilisce a Milano. Svolge folla mentre i grandi fari un’intensa attività giornalistica, collaborando tra l’alilluminano l’arrivo delle star, conferma il gusto
In queste pagine, le immagini di alcuni dei film tratti dalle sceneggiature del giornalista e scrittore italiano Tito Antonio Spagnol, e le copertine di tre dei suoi libri: “L’unghia del leone”, “La bambola insanguinata” e “Uno, due, tre”
cuore del sistema. Nella città delle ombre e delle finzioni si entra lasciandosi alle spalle le mitologie e le delusioni, fino al momento in cui sembra di cogliere in flagrante il segreto dello strano paese dove si fa il cinema, il clima di nevrosi colSe sono molti gli scrittori e i lettiva in cui si confondono giornalisti italiani, e non sol- realtà e fantasia, arte e artigiatanto italiani, che negli anni nato, passione e mestiere. SolTrenta attraversano il pianeta tanto lavorando negli studios si America, nessuno ha timbrato vedono all’opera la strategia il cartellino come Spagnol, nes- dell’industria cinematografica, sun altro è stato come lui sul il rigore maniacale dell’orgaset, spingendosi fin dentro il nizzazione, l’articolata duttilità del gruppo produttivo e del ciclo continuo. L’ingresso nella fabbrica dei sogni implica lo scontro con i percorsi obbligati, il confronto quotidiano con le regole, la trasmistro a L’Italiano e Omnibus di Longanesi, ma anche a sione di esperienze e di settimanali femminili e riviste popolari come Lei, Gratecniche, il tirocinio artizia, Novella, Cinema Illustrazione. I suoi scritti cinegianale incentrato sulla matografici sono stati raccolti nel volume Hollywood creatività della troupe. Boulevard, pubblicato recentemente da Aragno EditoSuperato il trauma del re. Scrive 6 romanzi polizieschi e un volume di racsonoro, il passaggio dalconti. La sua esperienza americana è rievocata nel rol’artigianato all’industria manzo Roma-Hollywood e ritorno, che con vari titoli è venuto modificando i appare a puntate su Lei (’34) e su Cinema Illustrazione meccanismi produttivi, (’38-’39), prima di essere pubblicato in volume da Rizmentre l’irrequieta vitazoli. Il romanzo di ambientazione veneta, Senz’ali non lità del cinema degli inizi si vola, appare su Grazia (’40) e poi in volume: con tre edizioni in tre mesi, è il suo maggior successo. Nel ’43 si è progressivamente si ritira a Vittorio Veneto. Nel dopoguerra dirige per olcomposta nelle strutture tre 20 anni il mensile L’Illustrazione del Medico. Ha organizzative delle smesso di scrivere, salvo per collaborare di quando in major come la Paraquando a Il Mondo di Pannunzio. Nel ’70 pubblica Memount, la Fox, la Metro moriette marziali e veneree, in cui raccoglie i più siGoldwin Mayer, la Wargnificativi scritti autobiografici ner, l’Universal, la Columbia, l’United Aitists, tro in Italia è mediato dalle guardie canadesi, che lo consegnano agli agenti dell’Fbi. Lo stanno cercando da tempo per comunicargli la morte del padre e la richiesta della madre di ritornare a casa.
La Aragno Editore manda in stampa i più significativi scritti hollywoodiani
Una vita da osservatore speciale
cultura
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delle grandi case subisce numerose scosse di assestamento. Se l’ironia gli impedisce di enfatizzare la propria esperienza, neppure Spagnol si sottrae al rischio di considerare definitivo il momento del processo che ha conosciuto direttamente. Nonostante il prezioso osservatorio di chi è stato sul posto sia sempre pronto a diventare una sorta di marchio indelebile se non di sviante paraocchi, nel corso del decennio nessuno più e meglio di lui ha riproposto con altrettanta energia la logica degli studios come passaggio obbligato per il rinnovamento del cinema italiano.
destinate a diventare altrettanti marchi di fabbrica del sistema hollywoodiano. La struttura omologante dello Studio System - per cui si produce con criteri di rigida programmazione, divisione gerarchica dei ruoli, codificazione dei generi, sfruttamento divistico del parco attori - conosce all’epoca il suo apogeo. La macchina raggiunge il massimo della popolarità e dell’influenza riuscendo a conquistare il pubblico americano e internazionale, imponendo miti consolatori e modelli di comportamento a mezzo mondo.
Il grande interesse della testimonianza di Tito A. Spagnol affidata agli scritti apparsi in Kines, Il Tevere, Cinema Illustrazione, Corriere della Sera, L’Italia Letteraria, L’Italiano, Omnibus, Il Secolo Illustrato, Il Secolo XX, Cinema - nasce dal
fatto che fotografa in modo esemplare la situazione del cinema americano prima dell’omologazione. Il processo formativo del modello di produzione di lì a poco prevalente è ancora in corso e si intreccia con le fertili tensioni di un’epoca contraddittoria, in cui il cinema registra i grandi cambiamenti del costume, ma sembra incapace di scegliere, riluttante a schierarsi. Il salotto vittoriano sopravvive accanto alle aggressive immagini del nuovo, la ricerca delle radici dell’epopea nazionale della frontiera non esclude il richiamo delle scandalose suggestioni europee, la singolare effica-
cia narrativa del cinema di genere non smentisce lo scavo appassionato degli autori più irrequieti. Negli anni immediatamente successivi, la società statunitense conosce il
clima di profondo rinnovamento del New Deal, si misura con le sfide radicali dell’epoca roosveltiana. Il sistema produttivo dell’inizio anni trenta si riorganizza, mentre l’establishment
Nei vari interventi - dedicati al problema del soggetto e all’importanza della sceneggiatura, al ruolo del produttore e alla necessità dell’organizzazione, alla ricerca degli attori e allo schedario dei tipi - si delinea come in un puzzle la carta di navigazione di un artigianato cinematografico estraneo alla dittatura del regista, aperto alle tecniche della scrittura e ai saperi dei generi, attento agli artifici del trucco e alle suggestioni del set. Se ha imparato così bene la lezione, perché non l’ha applicata? Perché non ha lasciato la macchina da scrivere per la macchina da presa? All’inizio degli anni Venti quando si avvia la sua carriera di inviato, non aveva esitato a sceneggiare e condirigere due film di un’attrice di spicco come Bianca Virginia Camagni, dalla fotogenia atipica e intensa. Ma nel decennio successivo, il giornalista e lo scrittore hanno decisamente il sopravvento. La fitta produzione di romanzi e racconti gli assicura all’epoca un posto di rilievo nel giallo italiano. Il primo è L’unghia del che leone, appare nel ’34 nella collana mondadoriana “I Libri Gialli”, ma era già uscito due anni prima in Francia da Gallimard. L’esperienza americana rivive nel romanzo, ambientato nel formicaio babelico di New York alla vigilia della Grande Depressione, tra speakeasies, bootleggers, racketeers, gunmens. «Fra tanti milioni di uomini, ammassati fra le alture del Bronx, l’ac-
qua dell’Hudson e le sabbie di Long Island come individuare i colpevoli?», si chiede l’arguto Alfred giornalista-detective Gusman. «Nel tumulto di gente dentro la ferrovia sotterranea, poi nella ressa sui marciapiedi brulicanti di Broadway, mai come quel giorno ebbi la sensazione di essere identico a una povera goccia di acqua perduta e confusa tra infinite altre gocce d’acqua nel torrente impetuoso di umanità che scendeva con me al lavoro verso la Città Bassa, fra le due rive vertiginose di grattacieli». Nella feroce giungla metropolitana si svolgono anche alcuni racconti - da Una sigaretta a Conoscerne uno - di Bassa marea (1941), una raccolta in cui il giallo classico cede all’hard-boiled con risultati straordinari. L’ambientazione losangelina di L’ombrellino viola (1938) attinge ancora più direttamente alla geografia hollywoodiana che lo scrittore ha verificato di persona, suggerendo una topografia ideale di strade, alberghi, caffetterie, ritrovi, modi di dire, riferimenti, strizzate d’occhi, che tra ricalco e affabulazione si segnala per la sua inconsueta attendibilità. La fama del giallista è affidata soprattutto a due romanzi, La bambola insanguinata (1935) e Uno, due, tre (1937), ambientati tra Formeniga e Cazzuolo, due paesi sulle pendici delle colline che circondano Vittorio Veneto, sua città natale. Il protagonista è il parroco don Poldo, insigne studioso di scienze naturali che se ne va in giro con il bastoncino in mano per snidare gli amati insetti. Il suo atteggiamento dimesso, la sua capacità di muoversi con leggerezza tra le anime e le bestiacce, la sua fede nella scienza temperata dalla scienza della fede ne fanno un investigatore irripetibile nel panorama italiano. Sullo sfondo della provincia addormentata di uno scenario veneto illuminato dai soprassalti della follia, l’indagine segue le forme armoniose del paesaggio naturale e recupera il rapporto con le tradizioni e i segreti di una terra singolare.
Sospesa tra spirito di avventura e tentazione mistica, tra attaccamento alla “roba”e dissennata prodigalità, tra pettegolezzo e sensualità, tra sagrestia e bordello, tra astratti furori e cupi scampanii. Tra Fogazzaro e Comisso, tra Bartolini e Piovene, tra Parise e Carlotto. Se Spagnol non si è mai nascosto le difficoltà del giallo italiano, ha capito però che l’imitazione, anche abilissima, non basta. Che la via italiana del poliziesco passa per il giallo di costume, per i vizi e le virtù, i tic e le manie, le frustrazioni e le attese della propria tribù, attraversata dal filo rosso del delitto. Forse il sospetto che i suoi gialli siano i suoi film, quelli che non ha fatto ma che avrebbe saputo come fare, non è infondato.
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spettacoli
Danza. Arriva stasera al Teatro Olimpico di Roma lo spettacolo degli Stomp, la famosa compagnia di ballo nata a Brighton nel ’91
A ritmo di... scope e bidoni! di Diana Del Monte
Alcune immagini del particolarissimo spettacolo portato in scena dagli Stomp, la famosa compagnia di Brighton. Stasera si esibiranno al Teatro Olimpico di Roma per poi proseguire al Verdi di Firenze (19-21), al Lyrick di Assisi (23-24), alla Fenice di Senigallia (26-28) per concludere a Torino, al Teatro Alfieri (30-5/12)
l ritmo come protagonista incontrastato di una dolosa istigazione al movimento messa in atto da otto performer dall’aspetto di simpatiche canaglie che si rivelano, invece, giocolieri del tempo musicale. Questo è lo spettacolo degli Stomp, un collaudato meccanismo scenico che ha portato il gruppo nato a Brighton nel ’91 all’enorme popolarità di cui gode oggi. Un fenomeno globale che non ha mancato di toccare anche il nostro paese e che, dopo il grande successo del 2009, torna in Italia per una serie di appuntamenti: si inizia stasera al Teatro Olimpico di Roma (9-17/11) e si prosegue al Teatro Verdi di Firenze (19-21), al Lyrick di Assisi (23-24), alla Fenice di Senigallia (26-28) per concludere a Torino, al Teatro Alfieri (30-5/12).
I
me, e di una serie di piccoli “prototipi” e “collaudi”da parte dei due autori. Come per molti altri gruppi teatrali, anche per gli Stomp il grande successo di pubblico passa attraverso Broadway, dove nel ’94 si esibiscono all’Orpheum Theatre; da quel momento, la crescita esponenziale delle richieste di partecipazione a festival e stagioni teatrali, unita a un costante sold out nel teatro newyorkese, ha trasformato quella che era nata come una compagnia di 7 persone, diventate 8 pochi mesi dopo la prima, in una multinazionale. Si avvia, così, un costante e continuo incremento del nucleo origina-
durata di due anni e mezzo. Oltre ai “cloni ufficiali”, il successo ha inevitabilmente regalato al gruppo anche numerosi epigoni; gli Stomp, infatti, anche grazie alle apparizioni tivù e alle campagne pubblicitarie, ha fatto nascere emuli dall’Australia alla Corea, passando per Israele. Un contributo fondamentale è arrivato dalla tv e dal cinema: del 1997 è Stomp Out Loud, uno spettacolo di 45 minuti pensato appositamente per la televisione che riceve quattro nomination agli Emmy Awards, diventando l’anno seguente un dvd distribuito su circuito internazionale; del 2000 è la collaborazione tra gli Stomp ed i Muppets di Jim Henson trasmessa in tutti gli Usa con
Sul palco ci sono tutti gli elementi della cultura pop: l’abbigliamento, i movimenti della street dance, gli atteggiamenti, i riti collettivi del contesto suburbano
Sarà perché colpiscono indisturbati quel nucleo ritmico ancestrale che sonnecchia nell’uomo urbanizzato e lo costringono a un risveglio immediato; sarà perché questa magia la compiono prevalentemente attraverso una sofisticatissima strumentazione fatta di sedie, bidoni, coperchi, sacchetti di plastica, giornali, scope, sturalavandini, lamiere, tubi e lavelli; sarà perché la loro musica, priva di parole e di una vera e propria melodia, può essere facilmente compresa da un pubblico vasto e vario, il fatto è che da anni gli spettatori fanno fatica a restare seduti durante le performance di questa compagnia e, caricati di un’energia semplice e diretta, ripagano il gruppo con una sempre crescente partecipazione. Ma Stomp si nasce, non si diventa; il debutto al Bloomsbury Theatre di Londra del ’91, infatti, fu il frutto di una decennale collaborazione fra Steve McNicholas e Luke Cresswel, co-fondatori della compagnia e ideatori dello spettacolo che ne condivide il no-
rio portato avanti negli anni da McNicholas e Cresswel attraverso una pianificata autoclonazione artistica; oggi, infatti, gli Stomp sono una piccola galassia composta da cinque diversi gruppi, ognuno di 8 membri, dei quali due risiedono nel Regno Unito e tre negli Usa. Al gruppo originario si è
affiancato, nel ’97, il primo cast americano, costantemente in tournée sin dalla sua fondazione, e poi gli altri tre, tra cui uno Stomp statunitense che si esibisce stabilmente oltreoceano e l’ultimo clone, risalente al 2000, che ha esordito sulle scene internazionali con una prima tournée della
gran clamore; del 2004 Pulse: A Stomp Odyssey, il primo lungometraggio ideato e prodotto da Stomp, vincitore del premio come miglior film al Giant Screen Theatre Association Conference di Montreal. A questi si aggiungono le campagne pubblicitarie internazionali, tra le quali, solo per citare le più importanti, quelle della Coca Cola, della Toyota e della Seat. Parte del loro successo, soprattutto fra i più giovani, è sicuramente affidato al loro aspetto: in scena, infatti, appaiono come un “piccolo” gruppo suburbano nel quale è facile rivedersi, “solo” 8 semplici ragazzi di un quartiere di periferia che giocano per la strada con quello che trovano. Sul palco ci sono tutti gli elementi della cultura pop: l’abbigliamento, i movimenti della street dance,
gli atteggiamenti, i riti collettivi del contesto suburbano, tutti piegati alle necessità ritmiche ed esibiti con naturalezza e leggerezza. Gli schemi della “cultura Mtv”sono fin troppo identificabili e, non a caso,“Cool” è l’aggettivo più utilizzato dai giovani fan per descrivere lo spettacolo - «A cool video of some cool guys making a cool rhytm», ci informa un internauta su Youtube. Eppure, il lavoro sul suono non è da sottovalutare: l’utilizzo dell’insolita materia prima, infatti, genera “voci” diverse e divertenti che vengono gestite da un rigoroso lavoro corale. Lo spettacolo, dunque, mescola il già noto in un divertente gioco metropolitano, un’attività ludica trascinante perfettamente scandita dalle insolite percussioni; il tutto funziona molto bene ed è forse questa la chiave utilizzata dal “piccolo”gruppo per entrare in maniera, quasi, indelebile nel sangue degli americani.
La febbre statunitense per gli Stomp, infatti, si è mantenuta alta per un lungo periodo, tanto che il sindaco Bloomberg nel 2004 ha annunciato che la 2nd Avendue e 8th Strada - indirizzo presso cui si trova l’Orpheum Theatre - sarebbe stata rinominata Stomp Avenue in onore dei dieci anni di attività dello spettacolo e nel marzo del 2006 la compagnia è stata ingaggiata per una campagna istituzionale volta a sensibilizzare i cittadini newyorkesi nei confronti dell’inquinamento: Stomp out litter - Keep NY City clean. E proprio mentre gli spettatori italiani assisteranno allo spettacolo sul palcoscenico capitolino, quelli oltreoceano saranno impegnati con la prima di Pandemonium, la nuova creazione di Luke Cresswell per gli Stomp che debutterà il 16 novembre alla Royce Hall dell’Ucla. Chissà che non si generi un nuovo clone riservato a quest’ultima impresa artistica.
spettacoli embra il personaggio della pubblicità del whiskey Jack Daniels. Robusto, barba incolta, giacca rigorosamente di pelle e anelli e bracciali in vista. Un cowboy venuto dall’Alabama. Così si definisce. Insieme ad altri nomi, Steve Earle,Toby Keith,Trace Adkins, Jake Owen, Eric Church, Jason Aldean, quello di Jamey Johnson è in prima pagina quando si parla di uscite country datate 2010. Attualmente la voce più autentica che bazzichi le strade lastricate d’oro della Nashville che conta. Un talento che alla country music mancava da diverso tempo ma che per fortuna si manifesta fresco e brillante, insieme a una manciata non piccola di giovani artisti statunitensi in voga in questi mesi, per ricordarci come la musica country non sia rimasta un linguaggio ancorato agli anni Quaranta. Anni in cui si era affermata come mezzo espressivo di una popolazione in subbuglio. Un’umanità ribelle, che voleva far sentire il malcontento, l’insoddisfazione in un’epoca e in un momento sociale delicato, tracciato da crisi economica, emigrazione e povertà dei raccolti. Era la musica della terra, emblema stesso degli Usa. Così forte e radicato da sopravvivere per secoli all’evoluzione della società civile.
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S
Una musica che forse in Europa definiremmo “di sinistra”, vero e proprio inno del movimento sindacale statunitense. Non è un caso se Woody Guthrie (un tizio che sulla chitarra portava la scritta “This Machine Kills Fascists”) viene letteralmente idolatrato e assalito da tutta una schiera di “nuovi folksinger” che andranno a rimpolpare le file della scena musicale degli anni Sessanta. E diventerà modello per mitici artisti da Phil Ochs, Kris Kristofferson, Joan Baez, a Johnny Cash, Bob Dylan e tutta la schiera del “folk revival” che va da John Sebastian a Eric Andersen passando per John Prine, Country Joe McDonalds, Tim Hardin, Jackson Browne, David Blue e tantissimi altri. E la musica country è la voce della vita “on the road”, quella che descrive Kerouac, della vita rurale, dei paesaggi semplici fatti di gente umile. Dei valori come la famiglia, l’amore, la nostalgia per la casa, la tanto cantata Home, allora Jamey Johnson si rifà fedelmente alla tradizione del genere. Pur creando un album estremamente originale, elegante, di classe. Si tratta di uno dei pochi personaggi in questi anni a essere riuscito a traghettare la tradizione degli outlaw dei ’70 verso la modernità senza perdere un briciolo
Musica. Jamey Johnson torna con il nuovo album “The Guitar Song”
Riecco il cowboy dell’Alabama di Valentina Gerace di credibilità, mantendosi dentro il mainstream (i precedenti The Dollar del 2006 e That Lonesome Song del 2008 hanno raggiunto una considerevole cifra di vendite e raccolto consensi di pubblico e critica) non scendendo minimente a compromessi. Un disco come The guitar song, doppio album in uscita dallo scorso settembre, infarcito dalla bellezza di 25 canzoni, è in fondo la conferma di questo. Carta bianca da parte dell’Universal per Johnson, che non si è fatto pregare e ha dato seguito alle ballate da fuorilegge del precedente album con una ciclo di canzoni ambizioso, dal taglio autobiografico, scritte principalmente in tour e registrate in diversi studi fra Los Angeles, Nashville e la Florida, dividendo idealmente il tutto in due capitoli intitolati Black e White Album. La prima parte assume tonalità più cupe,
sia nei testi sia nella musica, evidenziando un contrasto fra l’artista e il peso del successo, per crescere poi in brillantezza nella seconda “facciata”, fino ad abbracciare temi molto personali, spesso legati alla fede e alla redenzione. Il mood generale dell’album resta invariato per l’intera durata: country rock robusto, honky tonk, ballate strappalacrime e altri episodi dal sound più rurale.
Merito anche del team produttivo e dei musicisti, sostanzialmente gli stessi che hanno dato lustro al citato That Lonesome Song: tra i tanti vale la pena citare il piano di Jim “Moose” Brown, che si fa notare anche all’organo nella country song dai riflessi soul Heartache, le chitarre di Wayd Battle, presenti in abbondanza e con spirito da autentico “oulaw” in Lonely at the Top,
In questa pagina, alcune immagini dell’artista della country music statunitense Jamey Johnson e la copertina del suo nuovo album, composto da ben 25 tracce, “The Guitar Song”
Il mood generale è invariato per l’intera durata: country rock robusto, honky tonk, ballate strappalacrime e tracce dal sound rurale Playing the Part, Dog in the Yard, By the Seat of Your pants, e ancora la pedal steel stellare e il dobro di Cowboy Eddie Long, a offrire pennellate di classe nelle riprese di Mental Revenge (Mel Tillis), For the Good Times (Kris Kristofferson) e Set ’em Up Joe (Vern Gosdin). Proprio dalla scelta delle cover appena elencate si intuiscono le radici del musicista Johnson, che sa rendersi umile e farsi affiancare da numerosi collaboratori. Bobby Bare, Ja-
mes Otto e Bill Anderson (in duetto nella title track) fra gli altri co-firmano diversi episodi, dando l’impressione che Jamey Johnson sia una sorta di Waylon Jennings dei nostri giorni, in grado di attrarre intorno a sé un’intera scena di songwriter, amici e musicisti. Il confronto è ovviamente anche musicale, non si scappa: nello scorrere di California Riots, Macon (splendida ballad dagli orizzonti sudisti), Good Time Ain’t What They Used To Be (scatenato honky tonk con la steel che impazza), delle acustiche That’s Why I Write Songs, Thankful For The Rain e Front Porch Swing Afternoon si può sentire palpabile il terreno comune, che da Hank williams a George Jones, da Merle Haggard allo stesso Jennings infonde la voce baritonale di Johnson.
Oltre alla preziosa collaborazione di personaggi di livello, provenienza Nashville, Rivers Rutherford, Dean Miller, Buddy Cannon, Vicky McGehee, Chris DuBois, Ashley Gorley e David Lee Murphy, e alla talentuosa e storica band, i Kent Hardley Playboys, il disco è reso speciale dall’abilità espressiva di Jamey. Uno dei pochi artisti che, chitarra in mano e tradizione alle spalle, tocca con estrema onestà e naturalezza temi quali l’alcolismo, la droga, l’adulterio, il lavoro nei campi, l’amore per una donna e allo stesso tempo il dolore che segue all’amare. E ancora la scelta di vivere in campagna e il rigetto del caos metropolitano, la lotta con se stessi per trovare la propria via, in una vita che è un continuo scontrarsi con delusioni e sofferenze. E poi, al centro di tutto, la nostalgia di casa. Tematica sempre ricorrente nella musica country, poiché cantato quasi sempre da cowboy, senza dimora. O comunque girovaghi, avventurosi, sempre in cerca di un luogo da vivere. E poi, madre di tutti i valori, la fede. Ma non intesa in maniera religiosa. Bensì quella Fede laica, quel sentimento di fiducia nei confronti del futuro che tutti dovrebbero avere. E la conclusiva My Way to You ne è il manifesto: anche dopo momenti difficili si giunge a qualcosa di positivo. Un momento che rappresenta la catarsi dell’intero album. Una frase di devozione verso un generico You. Un potere superiore. Un’idea. O anche una persona speciale. Infine per chi pensa che la musica country non abbia nulla a che fare con il cinema hollywoodiano, pare che il grandissimo attor Matthew McConaughey che Jamey incontra a Las Vegas in occasione dell’Academy of Country Music Awards sia stato ingaggiato per girare il video del singolo Playing a part. Un connubbio decisamente interessante.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE
Pubblicità ingannevole: il gioco non porta ad essere felici Avete visto quello spot in cui una giovane donna dice: «Io gioco perché ho la necessità dell’ormone della felicità, la serotonina. Mi fa eccitare la vincita”. Secondo me tale pubblicità è ingannevole in quanto suscettibile di raggiungere un target giovanile, abusando della loro naturale credulità o mancanza di esperienza. La pubblicità induce ad assumere un comportamento che a lungo potrebbe andare a ledere l’utente, incidendo negativamente sul suo stile di vita. In questo caso è evidente che la sicurezza degli utenti è minacciata, in quanto, ponendo in risalto la necessita di giocare per produrre l’ormone della felicità, implicitamente induce l’utente a pensare che più si gioca più si è felici. L’Autorità garante nella sua comunicazione dichiara «che già ad un primo esame della campagna pubblicitaria si configura un comportamento scorretto in quanto gli spot contengono affermazioni e immagini che, per il loro contenuto oggettivo, la tecnica grafica utilizzata di sicuro impatto visivo, i toni e la musica che trasmettono allegria e promesse di felicità, potrebbero risultare idonee a influenzare alcune categorie di soggetti particolarmente vulnerabili in ragione dell’età o della dipendenza dal gioco e a metterne a rischio, anche indirettamente, la salute e la sicurezza».
Monia Napoletano
RIAPRIRE MACCHIA SOPRANA E ALTRE DISCARICHE Nel 2002 in Campania c’erano 44 discariche, appena 4 anni dopo erano appena 3, ne erano state chiuse 41 senza che fossero costruiti gli impianti necessari allo smaltimento. Oggi è necessario riaprire le discariche per tamponare la situazione attuale, compresa Macchia Soprana. Nel bilanciamento dei valori, di fronte all’emergenza, le aree naturali e il paesaggio devono purtroppo passare in secondo piano. È necessario responsabilizzare le popolazioni locali: nessun territorio può diventare la pattumiera degli altri, ma è necessario aprire siti in ogni zona.
Alfonso Fimiani
MACELLERIA CARCERARIA Dall’inizio dell’anno i suicidi in carcere sono 55… e nessuno ne parla. Molte persone al di
là del muro di cinta si domandano perché molti detenuti si tolgano la vita. Invece molti detenuti al di qua del muro si domandano quale motivo hanno per non togliersi la vita. La verità è che la morte in carcere è l’unica cosa che può portare un po’ di speranza, amore sociale e felicità, perché quando ti togli la vita hai il vantaggio di smettere di soffrire. Una volta il carcere era solo una discarica sociale, ora è diventato anche un cimitero sociale. E da un po’di anni a queste parte la cosa più difficile in carcere non è più morire, ma vivere. I detenuti in carcere vengono controllati, osservati, contati, eppure riescono a togliersi la vita. Diciamo la verità: i detenuti non sono amati e non importa a nessuno se si tolgono la vita. Questo accade perché la grandissima maggioranza della popolazione detenuta è costituita da individui disperati, poveri cristi, immigrati, tossi-
Usa la zucca La zucca, oltre a essere ricco di vitamine e povero di zuccheri, ha proprietà antidiabetiche e antipertensive. Uno studio universitario ha dimostrato che l’alta incidenza del diabete tra i nativi americani è legata a un brusco cambiamento nella dieta di queste popolazioni, un tempo basata su mais, fagioli e zucca
codipendenti, disoccupati e analfabeti. Persone di cui non importa a nessuno. Eppure di questa “gentaglia”, di questa “spazzatura umana”non andrebbe buttato via nulla, perché con lo slogan “Tutti dentro” e “Certezza della pena”i partiti più forcaioli vinceranno le prossime elezioni. Nella stragrande maggioranza dei casi la morte in carcere è la conseguenza di un comportamento passivo dello Stato, che scaraventa una persona in una cella, la chiude a chiave e se ne va.
Carmelo Musumeci, Carcere Spoleto
L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano avorava sotto copertura per la Dea (Drug enforcement administration) l’agenzia antidroga americana, ma era amico dei terroristi che hanno attaccato Mumbai nel 2008. Tra mille imbarazzi questo è stato uno degli argomenti che il presidente Usa, Barack Obama ha dovuto trattare col premier indiano Manmohan Singh, durante la sua visita nel subcontinente. Ancora una volta la cattiva comunicazione tra agenzie avrebbe giocato un brutto scherzo alla lotta al terrorismo. Si tratta di David C. Headley, un piccolo spacciatore che, subito dopo la tragedia dell’11 settembre 2001, sarebbe stato assoldato dalla Dea e inviato in Pakistan per svolgere il lavoro di informatore. Appena arrivato avrebbe cominciato subito il suo addestramento in un gruppo di terroristi islamici, poi coinvolti negli attacchi a Mumbai che provocarono 164 vittime. I sospetti sulle simpatie Headly nei confronti dei radicali musulmani erano note, grazie alle denunce di due ex moglie e una ex fidanzata. Le fonti potevano essere interessate a gettare discredito e non c’erano prove evidenti, per cui nell’ottobre del 2001 l’accusa venne archiviata. A leggerla così potrebbe essere la classica storia di un agente infiltrato che si è trovato in mezzo a un evento che non è riuscito a ”gestire”. Ma il New York Times legge diversamente la trama dell’intera vicenda. Si tratterebbe dell’ennesimo caso di cattiva comunicazione tra agenzie federali, anche se ufficialmente la risposta è sempre stata che le prove sulle simpatie islamiste di David fossero labili. Ma ci sarebbero riscontri che l’amministrazione Usa fosse a conoscenza dal 2003 del lavoro di infiltrato per la Dea di Headly. Addirittura che l’Fbi avesse affrontato il problema con il diretto interessato. Sarebbe emerse delle «affinità filosofiche» con alcuni gruppi radicali, ma niente di più. Le accuse di una ex fidanzata, forse ferita nell’amor proprio, non erano da prendere troppo sul serio. Così David ha continuato la sua
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LA VISITA CHE MANCA Berlusconi riunisce il governo per la questione rifiuti ma si guarda bene dal rimettere piede a Napoli; perché? Non credo sia timore di essere male accolto, ma l’evidente sensazione che venire dalle nostre parti, costituisca una sorta di trappola, un ginepraio di lame affilate pronte a sferzare l’attacco che produrrà gli ennesimi pettegolezzi e scandali da quattro soldi.
Bruna Rosso
dal ”New York Times” del 7/11/10
Doppio gioco a Mumbai Headly si era specializzato nei legami tra i trafficanti di droga pakistani e i loro terminali sulla East coast americana. Dopo i primi arresti, nel 1987 e nel 1993, aveva cominciato a collaborare pienamente con le autorità Usa.
strada nel jihad, secondo le tesi del Nyt. La preoccupazione del governo indiano è stata causata soprattutto dalla mancata vigilanza dell’amministrazione Usa sui rapporti tra Headly e i terroristi, solo perché quest’ultimo aveva rapporti con agenzie federali Usa e l’Inter service agency pakistana, la famigerata Isi. Bruce O. Riedel un ex agente della Cia, oggi ricercatore presso la Brookings institution, ha confermato le ragioni dei dubbi di New Dheli su tutta la faccenda. Il problema è che nessuna agenzia ammette che il cinquantenne figlio di una diplomatica pakistana abbia lavorato nei propri ranghi. Però off the record si rimbalzano le responsabilità.
Nel settembre del 1998, una corte federale che lo stava giudicando per aver venduto – reo confesso – 15 chilogrammi di eroina durante la sua carriera di trafficante, si vide recapitare una lettera dalla procura in cui si chiedeva il suo rilascio. Il motivo era il suo invio in Pakistan «per svolgere un lavoro di intelligence sul traffico di eroina». David era tanto coinvolto con la Dea da aver svolto il lavoro di traduzione di centinaia di intercettazioni telefonica di trafficanti pakistani e di addestramento per interrogatori in lingua urdu. Risulta che, tra il 2002 e il 2005, abbia partecipato ad almeno quattro sezioni d’addestramento con il gruppo terroristico Lashkar-e-Taiba. Nel 2007 avrebbe cominciato il delicato lavoro d’individuazione degli obiettivi per un attacco terroristico a Mumbai. Dopo quel periodo David rivolse le sue attenzione all’Europa.
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LE VERITÀ NASCOSTE
Nessuna responsabilità in caso di “incendio del palato” CHICAGO. Il Corner Tap, noto ristorante americano, ha inserito nel menu un nuovo piatto: ali di pollo ricoperte di peperoncino “Red Savinia”. Un piatto talmente piccante, che i proprietari hanno deciso che chi lo ordina, prima deve firmare un contratto in cui solleva il locale da responsabilità in caso di problemi fisici del cliente. Inoltre, a chi ordina il piatto viene consegnata anche una campanella per chiamare i camerieri in caso che le cose “sfuggano al controllo”, in modo che portino immediatamente del pane bianco o della crema agrodolce per contrastare l’effetto del peperoncino. Lo chef, Robin Rosenberg, da tempo pensava ad
un piatto con il Red Savinia, ma finora non era mai riuscito a metterne a punto uno. «Chiaramente non è un piatto per tutti», spiega, «ma per chi ama il “genere” sarà paradisiaco». L’attenzione del locale verso il peperoncino “Red Savinia” non è infondata: si tratta infatti di una varietà di peperoncino la cui “piccantezza” risulta nel Guinness dei primati (solo una varietà di origine indiana contende questo record, ma non è stata ancoracertificata. In Canada, invece, è stata presa un’altra singolare iniziativa da parte di un fa-
ACCADDE OGGI
SÌ A PEDAGGIO SU GRA, MA L’ITALIA ADOTTI IL SISTEMA SVIZZERO Roma è capitale, ma non può pensare di vivere in deroga rispetto alle leggi italiane. In merito alla introduzione del pedaggio sul Grande raccordo anulare e sulle altre tratte interessate, non possiamo che definire equo il provvedimento del governo: perché mai il pedaggio andrebbe pagato ovunque tranne che sul Gra? Bisogna implementare, migliorare ed incentivare il trasporto pubblico, il bike e il car sharing al fine di ridurre il traffico privato, ma altrettanto interessante è la proposta di adottare anche in Italia il sistema svizzero, ma migliorato: per andare incontro alle esigenze dei pendolari, a tutti i pendolari e non solo a quelli di Roma, sarebbe opportuno introdurre la possibilità di optare per una sorta di “abbonamento autostradale” che consenta il pagamento di una quota una tantum per un qualsivoglia numero di viaggi.
Lettera firmata
ESTREMISMO DA CONTRASTARE È curioso notare come, anzichè preoccuparsi del pericoloso estremismo delle religioni monoteiste istituzionalizzate (cristianesimo, islamismo, ebraismo), foriere di divisioni, guerre, genocidi, il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini, dimenticandosi persino delle sue origini socialiste liberali e del fondamento laico e liberale sul quale si fonda il nostro Stato democratico, nato dal Risorgimento cavouriano-mazziniano-garibaldino, scriva un articolo sull’Osservatore Romano nel quale straparla di «estremismo da contrastare» riferendosi «all’ateismo, al materialismo e
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
di Vincenzo Bacarani
9 novembre 1963 In Giappone, una esplosione in una miniera di carbone uccide 458 minatori e ne manda in ospedale altri 839 a causa dell’avvelenamento da monossido di carbonio 1965 Roger Allen LaPorte si da fuoco davanti al palazzo delle Nazioni Unite per protesta contro la Guerra del Vietnam 1970 La Corte Suprema degli Stati Uniti rifiuta di ascoltare un caso che permetterebbe al Massachusetts di promulgare una sua legge che garantisce ai residenti di rifiutare il servizio militare in una guerra non dichiarata 1974 Il terrorista della Raf, Holger Meins, muore in carcere in seguito ad uno sciopero della fame 1987 Secondo e ultimo giorno di votazioni nel referendum che vieterà la produzione di elettricità tramite l’energia nucleare 1989 Cade simbolicamente e fisicamente il Muro di Berlino che divideva in due la città dal 1961 2003 Eclissi totale di Luna, dalle ore 2,07 alle 2,29
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)
moso ristorante canadese, che ha deciso di multare i clienti quando non finiscono il cibo che hanno nel piatto. Le sanzioni variano a seconda delle portate, per gli avanzi di un primo piatto, si paga 1 euro e 20 centesimi.
al relativismo», invocando una sorta di alleanza fra cristiani, musulmani ed ebrei. Chi scrive non è un ateo né un agnostico, crede fermamente che la premessa per la pacifica convivenza civile fra gli individui sia fondata unicamente sulla laicità dello Stato, sulle libertà civili, economiche e individuali. E che quindi il problema non stia in chi è ateo o relativista, bensì in chi pretende di imporre un credo piuttosto che un altro. Una visione del mondo piuttosto che un’altra.
Luca Bagatin
MATERNITÀ E PATERNITÀ Per la prima volta nella legge italiana si è equiparata la paternità alla maternità. Sappiamo, infatti, come i congedi parentali siano poco utilizzati sia per questioni culturali, ma anche perché difficili da ottenere con tempistiche burocratiche che spesso non coincidono con i tempi naturali e in alcuni casi imprevedibili del parto e della gestione dei figli. Un emendamento nella legge sulla riforma forense, ha scritto nero su bianco che paternità e maternità possono essere entrambi buone motivazioni per interrompere il tirocinio e non venire sospesi dal registro dei praticanti avvocati. Mentre in Europa si va verso normative sempre più stringenti in questa direzione, mentre esempi pratici arrivano da Oltremanica con il primo ministro britannico Cameron prende un congedo di paternità, l’Italia ha fatto un piccolo atto di principio importante: i figli non hanno solo delle donne che si assentano dal lavoro quando divengono madri ma anche degli uomini che divengono padri.
Donatella
Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,
Direttore da Washington Michael Novak
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,
Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale
Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori
Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,
Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,
Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,
Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,
Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,
Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,
Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,
NOVECENTOMILA CINQUANTENNI DISOCCUPATI Si parla tanto, e giustamente, di disoccupazione giovanile. Questi ultimi tempi hanno evidenziato le grandi difficoltà del mondo economico e imprenditoriale ad assorbire neo-diplomati o neo-laureati. La sciagurata crisi finanziaria – provocata da pirati della finanza – ha ancora di più compromesso le possibilità di un primo ingresso nel mondo del lavoro. Ma la crisi ha colpito indifferentemente tutti, con precisione lineare: i già occupati che hanno visto aumentare le spese e contemporaneamente ridursi il potere d’acquisto degli stipendi, i pensionati, i piccoli e medi imprenditori che, abituati a investire e produrre attraverso finanziamenti, si sono visti chiudere i rubinetti del credito dalle banche. Una fetta consistente di tutti questi e altri soggetti di cui poco si parla è quella dei lavoratori dai 45 ai 64 anni che sono diventati disoccupati. Si tratta di novecentomila persone in Italia (fra uomini e donne) che hanno vissuto o stanno vivendo il dramma della perdita del posto di lavoro. Se ne è parlato recentemente in un seminario a Roma organizzato dall’Adapt, Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali. Secondo l’Adpat, che ha curato l’evento in collaborazione con l’Università di Modena e Reggio Emilia, il tasso di disoccupazione delle persone comprese nella fascia di età 45-64 anni è del 5 per cento per le donne e del 4,3 per cento per gli uomini. Al di là della percentuale – che peraltro è abbastanza allarmante – nel corso del seminario è stato sottolineato come la perdita del posto di lavoro rappresenta un dramma altamente stressante per i quarantacinquantenni. In un momento della vita in cui sarebbe ora di raccogliere i frutti delle fatiche e dei sacrifici affrontati precedentemente, si perde ogni certezza e si passa, inevitabilmente in alcuni casi, a uno stato di vera e propria povertà. Il cinquantenne si trova allora solo, senza più l’appoggio della famiglia d’origine e magari con un paio di figli ventenni che essi stessi hanno enormi difficoltà a trovare lavoro: insomma, un dramma nel dramma. Se fossimo in un quadro nazionale di vero e sincero welfare non demagogico, l’evento negativo potrebbe essere meno drammatico perchè il governo potrebbe intervenire con aiuti di vario genere (benefit, servizi, sostegni, corsi di formazione, credit-card, trasporti ecc. ecc.) Ma la realtà è un’altra e i drammi familiari si moltiplicano. E se anche ci fosse una ripresa dell’occupazione, la maggioranza delle imprese assumerebbe i giovani e lascerebbe i cinquantenni senza lavoro ad aspettare dieciquindici anni una pensione che probabilmente sarà pari al 30 per cento del loro ultimo stipendio, in attesa di una manovra, non contabile, ma di politica economica. bacarani@gmail.com
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ULTIMAPAGINA Esperimenti. I centri commerciali di Christchurch, in Nuova Zelanda, trasmettono le musiche di Mozart
Il ladro non ruba se ascolta di Luisa Arezzo n’arma segreta ha liberato dalla microcriminalità l’area pedonale nel centro di Christchurch, la seconda città della Nuova Zelanda: la musica di Mozart. La notizia, che sta facendo il giro del pianeta, è la prova del nove che mancava alla cosiddetta teoria “Effetto Mozart”, elaborata nel 1993 dai fisici Gordon Shaw e Frances Rauscher. Pubblicato da Nature, lo studio affermava che l’ascolto della sonata in re maggiore per due pianoforti (KV 448) del genio di Salisburgo, causava un temporaneo aumento delle abilità spaziali e una diminuzione dell’aggressività. E che, oltretutto, diminuiva considerevolmente gli attacchi di epilessia. A dargli credito scientifico, però, furono soltanto i musicoterapeuti. Per gli studiosi, infatti, non c’erano prove oggettive: in tanti avevano cercato di ricreare l’esperimento proposto dai due ricercatori, ma senza successo. La cosa, dopo anni di querelle, sembrava morta lì, se non fosse che in Nuova Zelanda (anche grazie a studi successivi) hanno deciso di testare “la teoria dal vivo”. E di provare a vedere se la musica di Wolfgang Amadeus Mozart, vera iniezione di endorfine per il nostro cervello, fosse in grado di placare gli istinti dei ladruncoli più comuni, quelli che rientrano nella categoria della microcriminalità.
U
A cominciare dalla città di Christchurch. Ebbene, l’introduzione di altoparlanti che suonano le sue melodie nel City Mall dal giugno 2008, hanno ridotto drasticamente i piccoli reati, e i comportamenti antisociali riportati dai vigili sono precipitati dai 77 a settimana (ottobre 2008) a due per settimana (ottobre scorso). Di più: il numero di incidenti legati a droga e alcool è crollato da 16 a settimana nel 2008 allo zero di quest’anno, mentre il numero di volte in cui i vigili hanno aiutato i negozianti a difendersi contro clienti considerati minacciosi è sceso da 35 a zero. «È noto che la musica classica ha un effetto calmante e riduce il comportamento antisociale» ha detto al New Zealand Herald il direttore dell’associazione commercianti del centro città, Paul Lonsdale, promotore dell’iniziativa. In un primo tempo, l’idea era di suonare musica strumentale tipo easy listening, insomma musica d’atmosfera, ma l’effetto calmante della musica classica si è rivelato superiore. Soprattutto quella composta da Mozart. «La gente si siede e si trattiene in quell’area perché si sente più al sicuro», ha aggiunto l’imprenditore. Dello stesso avviso anche il sergente di polizia Gordon Spite, responsabile dell’area. A suo giudizio le note di Mozart hanno aiutato a trasformare radicalmente l’atmosfera della zona: «La musica ha creato un ambiente che promuove il buon comportamento». John Jenkins,
AMADEUS professore all’Università della Florida e neurichirurgo di chiara fama, ha recentemenre fatto una revisione internazionale sulla musicoterapia concludendo che molto probabilmente anche altre musiche possono sortire il cosiddetto “effetto Mozart”. Ma studi in questa direzione devono ancora essere riconosciuti. Intanto però chiariamo il campo: con il termine di musicoterapia si intende l’utilizzo della musica e degli elementi musicali (armonia, melodia, ritmo, timbro) per favorire l’integrazione fisica, psicologica ed emotiva dell’individuo. La sua nascita si perde nella notte dei tempi, ma il riconoscimento come disciplina specifica ed efficace risale ai primi del secolo scorso.
Ascoltare musica sembra stimolare il rilascio delle endorfine, e ciò risulta particolarmente importante in relazione con gli atti terapeutici effettuati al suono della musica. La musica, inoltre, ha un importante ruolo nel favorire la comunicazione, la relazione, l’apprendimento, la motricità, l’espressione. Inoltre è in grado di sviluppare le funzioni potenziali e residue dell’individuo per realizzare l’integrazione sociale e quindi migliorare la qualità della vita. «L’effetto Mozart è in grado di far risaltare, migliorandolo, il carattere profondo dell’individuo», sostiene Jenkins. «Dobbiamo dunque prendere atto che, a prescindere dai gusti, la musica di Mozart rilassa, migliora la percezione spaziale e permette di esprimersi più chiaramente, comunicando sia col cuore che con la mente;
L’introduzione di altoparlanti all’interno del City Hall che diffondono le sonate del compositore, dal 2008 ad oggi hanno ridotto drasticamente i piccoli reati e i comportamenti antisociali inoltre le aree creative del cervello vengono stimolate dalla melodia e dal ritmo del grande compositore, diminuendo l’aggressività». Esattamente quello che deve aver pensato la giunta della cittadina neozelandese, che sull’onda di una proposta “privata” ha deciso di tentare la sperimentazione. E adesso si gode gli applausi.