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Lo schiavo che obbedisce, spesso sceglie di obbedire

Simone De Beauvoir 9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 11 NOVEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Oggi il vertice tra Bossi e Fini: i ministri di Fli si dicono pronti a dare le dimissioni

Governo, il requiem di Letta Il sottosegretario: «L’esecutivo ha tempi ristretti»

Sandro Bondi schiva la sfiducia per il disastro di Pompei mentre Bersani raccoglie firme contro Berlusconi. Ma nell’occhio del ciclone c’è Maroni. La pm dei minori del caso Ruby attacca: «Il ministro non ha detto la verità» Errico Novi • pagina 6

I Beni Culturali sono il simbolo del Paese

Serve un progetto per restaurare l’Italia di Carlo Ripa di Meana sbagliato e demagogico chiedere le dimissioni del ministro Bondi per il crollo di Pompei. Dietro quel drammatico episodio ci sono responsabilità di decine e decine di ministri. La Domus dei Gladiatori è caduta sotto piogge battenti e per un restauro maldestro, fatto in pesante cemento.

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Da oggi a Seoul il vertice che dovrebbe affrontare le emergenze economiche, ma finirà con un nulla di fatto

Cambia tutto, comanda l’Asia Fallisce prima di cominciare il G20. E l’Europa conta sempre meno Riforma valutaria, accordi commerciali, banche: nessuna intesa tra i grandi. Così, Cameron, Sarkozy (e lo stesso Obama) puntano ora a ingraziarsi Cina e India, nuovi padroni del mondo MERCATO SENZA REGOLE

di V. Faccioli Pintozzi

Vincono anche perché calpestano i diritti

arkozy ha illuminato di rosso la Torre Eiffel, Berlusconi ha fatto lo stesso con il Colosseo, Cameron evita di parlare di diritti umani e definisce la Cina «leader mondiale». Sono tanti gli onori tributati dai maggiorenti occidentali all’uomo forte di Pechino, Hu Jintao, che, prima del G20 che si apre oggi a Seoul, ha incontrato praticamente tutti i protagonisti del summit. a pagina 2

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di Mario Arpino osì, tra lettere di programma dei leader mondiali, schiamazzi e lacrimogeni, è iniziato anche il G20 di Seoul. Nulla di nuovo sui temi il cui filone principale, quello economico, si articola sulle nuove regole per la finanza, la politica monetaria e gli squilibri economici tra i Paesi che “consumano troppo” e quelli che giocoforza “risparmiano”. Mentre la curiosità dei media internazionali potrebbe derivare da una improbabile lista delle venti banche maggiormente a rischio, il resto sarà corollario, cose già dette. D’altro canto, queste sarebbero difficili comunque.

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Strategie europee/1

Il governo stanzia 300 milioni per il Veneto

Bertolaso, addio tra fango e polemiche

Strategie europee/2

Ma noi siamo solo Parigi si promuove un vaso di coccio grande mediatrice di Giancarlo Galli

di Enrico Singer

Il nostro Paese non ha più alcun ruolo sulla scena mondiale. L’Ue frammentata e senza una politica estera unitaria ci ha messo ai margini: tutte le manovre internazionali che mettono in mora il Vecchio Continente, per noi diventano vere e proprie ultime spiagge

Da domani, la presidenza del «club dei grandi» passerà dalla Corea del Sud alla Francia: l’Eliseo spera di cogliere l’occasione per rimettersi al centro della scena e riconquistare qualche punto anche in Patria, in vista delle elezioni del 2013

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a pagina 2 seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

219 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

di Franco Insardà

ROMA. L’alluvione in Veneto – per l’uomo che le emergenze le risolveva ai quattro angoli del mondo – è un epilogo beffardo per la sua parabola. Questa mattina Guido Bertolaso va in pensione, abbandona lo scomodo ruolo di capo del dipartimento della Protezione civile, e con esso anche la carica di sottosegretario alla presidenza del Consiglio. a pagina 10 IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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il fatto Obama a Delhi parla di “partnership del XXI secolo”, mentre Cameron dice a Hu Jintao: «Pechino è ormai un leader»

In ginocchio da te

Prima dell’apertura del G20 di Seoul, i leader occidentali si sono divisi tra Cina e India. Cercando di ingraziarsi i nuovi padroni del mondo il commento di Vincenzo Faccioli Pintozzi

arkozy ha illuminato di rosso laTorre Eiffel, Berlusconi ha avuto la stessa idea ma per il Colosseo, Cameron evita di parlare di diritti umani e definisce la Cina «leader mondiale». Sono tanti gli onori tributati dai maggiorenti occidentali all’uomo forte di Pechino, Hu Jintao, che fra visite di Stato ricevute ed effettuate ha incontrato prima del G20 che si apre oggi a Seoul praticamente tutti i protagonisti del summit. L’idea che si ricava dalle varie cronache è che l’Europa, ovviamente in ordine sparso, abbia cercato di ingraziarsi la Cina prima dell’incontro che – pur destinato al fallimento – dovrà discutere della riforma valutaria che può dare o negare al dragone asiatico la definitiva predominanza sui mercati. L’ultimo in ordine di tempo ad aver omaggiato Hu Jintato è stato David Cameron, il primo leader europeo a incontrare personalmente a Pechino i leader comunisti dopo l’assegnazione del Premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo. Alla guida di una della più grandi missioni di sistema britannica - che ha portato, tra l’altro, all’accordo di compravendita che impegna la Chinese Eastern Airlines a sborsare 1,2 miliardi di dollari per l’acquisto di motori necessari a 16 Airbus A330 - Cameron non ha perso di vista i diritti umani. Sulla spinta dalle frasi dell’artista cinese dissidente Ai Weiwei, le cui opere sono oggi alla Tate Gallery, ha sollecitato i capi dei Paesi occidentali in visita in Cina a «insistere sul tema dei diritti umani». Tuttavia non ha ecceduto; parlando agli studenti dell’Università di Pechino, Cameron ha auspicato «aperture politiche più grandi» per un Paese la cui economia è in crescita e ha suggerito un paragone con la Gran Bretagna, dove, ha detto, «lo Stato di diritto e la libertà di stampa rendono migliore il nostro governo e più forte la nostra nazione».

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A un mese esatto dal conferimento del Nobel a Liu, e mentre sono in corso le pressioni cinesi su diverse ambasciate per il boicottaggio della cerimonia, il silenzio di Cameron sul tema dei diritti umani sarebbe apparso sospetto. Ma il fatto di avere al seguito 700 imprenditori ha imposto un incontro segnato dall’equilibrio tra affari e politica, e in una corni-

Dal 2004, è diminuita drasticamente l’influenza e la capacità economica del G8

Ricchi e dinamici, ma vincono perché calpestano i diritti di Mario Arpino osì, tra lettere di programma dei leader mondiali, schiamazzi e lacrimogeni, è iniziato anche il G20 di Seoul. Nulla di nuovo sui temi il cui filone principale, quello economico, si articola sulle nuove regole per la finanza, la politica monetaria e gli squilibri economici tra i Paesi che “consumano troppo” e quelli che giocoforza “risparmiano”. Mentre la curiosità potrebbe derivare da una improbabile lista delle venti banche maggiormente a rischio, il resto sarà corollario, cose già dette. D’altro canto, in questo genere di incontri, che non sono di tipo decisionale ma di orientamento alle decisioni, queste sarebbero difficili comunque. Lo erano in otto, figuriamoci in venti. Ma non è su questo che vorrei incentrare il commento. Il riflesso collaterale a lunga scadenza del G20 sembrerebbe di natura esistenziale piuttosto che economica. Assieme alla globalizzazione, al discorso sulla riforma dell’Onu e l’ampliamento del Consiglio di Sicurezza, anche il G20 ha nel mirino un solo vero obiettivo, forse involontario, ma reale: l’Occidente. Non che sia giusto o sbagliato, qui non si discute di questo. In fondo, il formato è nato proprio dalla scarsa credibilità del G8, espressione occidentale cui era stata “aggiunta” la Russia.

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si vada riequilibrando su proporzioni diverse - l’Occidente “prevale”da alcune migliaia di anni - non è solo tale: è ciò che sta accadendo. Guarda caso, il G20 si tiene a Seoul, che è in Corea, ma sopra tutto è in Asia. L’idea è che, a meno di crisi di carattere strutturale, ideologico o sociale, i Paesi asiatici siano destinati a superarci per ricchezza, demografia, sviluppo e forse anche cultura, intesa come collante di un tipo di civiltà. Altra riprova.

Qual è stato l’argomento più dibattuto nella fase preparatoria dell’evento? La distribuzione dei 20 posti attorno al tavolo in termini ponderali di reale rappresentatività. L’Olanda, ad esempio, è stata esclusa, e la Spagna si è salvata di stretta misura. «Alla fine», ha detto il vicepresidente coreano del Comitato, «tutti abbiamo dovuto riconoscere che nella passata edizione una certa regione del mondo era sovrarappresentata». Alludeva certo all’Europa Occidentale, che aveva quattro membri fissi – Francia, Germania, Italia e Regno Unito – e l’unico caso di membro “non-Stato”, l’Unione europea. Se si considera che erano state invitate anche la Svezia e la Repubblica Ceca, attorno al tavolo c’erano 8 europei su 20.Troppi, secondo gli asiatici. L’Occidente sembrerebbe aver davvero iniziato la parte discendente della sua millenaria parabola. La sua cultura, che comprende anche la religione, è in pericolo. L’America si avvia a non essere più la bandiera dell’Ovest, ma una nazione come le altre. L’Assemblea dell’Onu è formata da una maggioranza che non ci è certo amica. Ora, con l’ultima proposta di Obama, inaspettatamente subito raccolta dalla Cina, anche il Consiglio di Sicurezza è destinato a cambiare a nostro sfavore. Tanti auguri, Occidente!

Problemi persino per i posti a sedere intorno al tavolo: troppi occidentali per le sedie

Se nel 2004, infatti, le economie G8 rappresentavano ancora il 65 per cento di quella globale, nel giro di un pochi anni la loro somma era già scesa a poco più del 50 per cento, spingendo gli 8 verso una minoranza che nel 2010 - vuoi per la crisi, vuoi per la rapidissima crescita di Cina e India - rappresenta ormai un sensibile squilibro tra influenza (desiderata) e peso specifico (reale). L’impressione che il mondo

ce, ha sottolineato il premier britannico, «del dialogo costruttivo e dello spirito di tolleranza e mutuo rispetto tra due Paesi che hanno forti relazioni». Alla vigilia del G20, che per di più si svolge in Asia, l’accenno al ruolo “globale” di Pechino, che è divenuto “un leader”era obbligatorio: «La Cina ha sempre evitato di impegnarsi nel groviglio dei problemi internazionali, ma con il suo peso non può più permetterlo». Riconoscere un peso del genere a un cinese significa consegnarli le chiavi di casa.

Stessa sorte per la visita di Stato del presidente Hu Jintao a Parigi: al di là delle oramai scontate commesse commerciali con cui il leader di Zhongnanhai (il quartiere blindato nei pressi della Città Proibita dove il gotha della politica cinese vive e lavora) si presenta praticamente ovunque, l’accoglienza che gli hanno riservato Sarkozy e il suo governo non ha eguali. La Torre Eiffel illuminata di rosso – il colore tradizionale e portafortuna per la Cina – e il capo dell’Eliseo con la moglie che aspettano l’ospite alla fine della scaletta in aeroporto sono segnali che farebbero capire anche a un analista sprovveduto quanto si tiene in considerazione il leader cinese. Discorso diverso per il presidente americano Barack Obama, che ha scelto l’altro gigante d’Asia per preparare il proprio G20. Sapendo di non poter tirare troppo la corda con la Cina, e non potendo umiliarsi in maniera eccessiva con Hu Jintao, è stata l’India la sede da cui Obama ha scelto di dichiarare al mondo che «il XXI secolo appartiene all’Est». La dichiarazione con cui il leader americano ha parlato della partnership con Delhi, la proposta di far entrare l’Unione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e l’idea di unificare i sistemi di sicurezza sono esche succulente. E una dichiarazione d’amore non da poco. Obama ha scelto l’India anche perché sarà lui a doversi scontrare più duramente con il dragone nella sede coreana: dallo yuan dipende strettamente la sopravvivenza della supremazia del dollaro nei mercati valutari e buona parte della ripresa economica degli Stati Uniti. E poi non scordiamo che, a dicembre, sarà Hu Jintao ad andare a Washington per colloqui più diretti e meno raggiungibili per le orecchie di tanti illustri convitati. C’è poi da dire


l’intervista Parla l’esperto di economia internazionale Luigi Paganetto

«Ma Pechino non vale (ancora) Washington»

Fino a che non ripartono le economie di Usa e Ue, i mercati mondiali sono senza un vero traino di Pierre Chiartano a Cina non è ancora l’America. Non sarà un G20 da ricordare quello che inizia oggi in Corea del Sud e il presidente Obama ha ragione quando afferma che un economia Usa forte sia un bene per tutti. È d’accordo con queste affermazione Luigi Paganetto, esperto di finanza internazionale e preside della facoltà di Economia dell’Università Tor Vergata di Roma che ha risposto alle domande di liberal. «Se gli Usa riprendono a marciare è un bene per tutti, per due motivi sostanziali. Il primo è che gli Usa sono sempre stati degli importatori netti, che significa la possibilità di sbocchi sul mercato americano per i prodotti degli altri Paesi». E in effetti gli Usa sono stati sempre il polmone dei mercati dove tutte le economie mondiali in affanno andavano ad ossigenarsi. Negli anni Novanta l’ipertrofia della West coast riuscì ad assorbire molto del surplus cinese che le crisi di allora avevano provocato. Ed è stato così anche per il Giappone del secondo dopoguerra, fortemente sostenuto da Washington e dalle sue politiche economiche. Oggi, il gigante americano sta tirando il fiato. «Hanno ridotto la loro capacità d’importazione per l’esigenza di mettere un freno al saldo negativo nella bilancia dei pagamenti. Un fatto che, per un verso, fa calare il valore del dollaro. Ciò aiuta l’esportazione, ma limita l’import». L’America dall’economia a sei cilindri ha bisogno di tempo per ridisegnare un modello di sviluppo “compatibile” con ambiente e risorse limitate e tornare ad essere locomotiva mondiale. «Da un punto di vista degli equilibri internazionali diventa uno svantaggio per tutti. In più gli Usa devono finanziare il deficit pubblico con la sottoscrizione di titoli da parte dei mercati internazionali, in particolare della Cina. Questo è un altro elemento di oggettiva difficoltà nel creare condizioni equilibrate nei mercati finanziari». Obama per finanziare le grandi riforme non ha voluto aumentare le tasse, sta quindi stampando dollari e titoli di debito. «Il deficit pubblico e quello commerciale Usa creano una sostanziale situazione di squilibrio. È difficile immaginare che in occasione del vertice di Seul la realtà cambi. Le forze in campo non sono sotto il controllo di chi si siede al tavolo del G20». Ma fino a quando la locomotiva made in Usa non riprenderà a marciare non ci saranno buone notizie per nessuno. «Non ci sarà quell’equilibrio necessario per tutti. Non credo assolutamente all’idea che la Cina possa sostituire, in nessun modo, l’economia americana come importatore delle merci mondiali e come traino dell’economia internazionale. La dimensione dell’economia di Pechino, se pure importante, è ben lontana da quella di Washington, anche pensando a un

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La Torre Eiffel illuminata di rosso. A destra Luigi Paganetto. Nella pagina a fianco, Hu Jintao ne di tipo culturale e sociale, perché sarebbe buona norma conoscere le abitudini di chi si ospita.

che l’India offre maggiori garanzie da un punto di vista di diritti e valori e quelle nazioni occidentali che vi si volessero alleare.

Lo scotto da pagare è in termini di tempo, dato che l’economia indiana ha meno brio di quella cinese e quindi - pur sempre con cifre da capogiro - fa attendere qualcosina in più. In ogni caso, vedendo queste scene da parte di leader di nazioni che - un tempo non avrebbero rinunciato neanche al primo passo da cedere sul tappeto rosso viene da pensare. Anche e soprattutto a una questio-

E quindi, se si volesse trattare da un livello di parità con Hu Jintao, bisognerebbe evitare di onorarlo troppo, di essere servili e di accendere troppe lampadine rosse. Perché i cinesi capiscono quando l’avversario è debole, e per loro nessuna debolezza è peggiore di quella di un uomo che perde la faccia. Per trattare alla pari con un leader cinese serve fermezza, che non è scortesia, e bisogna avere chiara percezione di cosa si vuole ottenere e perché. Mendicare alla rinfusa e dimostrarsi accomodanti sono vizi che i cinesi non perdonano. Sono segnali di un interlocutore che ha perso la faccia, e che può essere considerato inferiore. E trattato come tale, sia in un tavolo di ristorante che in un tavolo di riforma valutaria. L’Occidente deve rialzare la schiena dall’inchino a Pechino, se vuole tornare a pesare sullo scacchiere mondiale. La Cina apprezzerà.

aumento dei consumi interni della Cina». Qualche giorno fa Pechino ha reso più difficile l’ingresso di capitali stranieri nel proprio mercato, con regole più stringenti. Sembrerebbe un segnale difensivo piuttosto che l’azione di un Paese che si candida a una leadership economica. «Indubbiamente c’è una forma di discrasia tra il comportamento delle autorità cinesi e quelle statunitensi. Qualcuno suggeriva che anche Usa ed Europa potessero introdurre lo stesso tipo di restrizioni» ha affermato Paganetto citando il rispetto di una regola di reciprocità dei mercati.

«È il tema sullo sfondo del vertice di Seul, perché un’economia che funzioni in un modo libero dovrebbe presupporre regole uguali per tutti. La decisione spetta agli Usa, ma non è facile, perché nel caso dovesse introdurre restrizioni ai capitali cinesi ci sarebbe una contrapposizione aperta». Sarebbe un danno, perché rallenterebbe la già difficile ripersa globale. Nicolas Sarkozy è partito lancia in resta sulle riforme, sfruttando la prossima presidenza francese del G20. Aspettiamo di vedere se sarà la solita politica di Parigi di proposte da fare con i soldi altrui, oppure se potrebbe avere successo. «Sono convinto che Sarkozy abbia propositi giustamente ambiziosi e che ci sia molto da fare per riformare la governance dell’economia internazionale. il problema è che Europa e Stati Uniti faticano, mentre alcuni Paesi asiatici e del Bric hanno ripreso a produrre. Così si crea, di fatto, una situazione di squilibrio delle bilance dei pagamenti», con Paesi debitori e Paesi creditori. L’unica eccezione in Europa è la Germania. «È una realtà che non cambia, perché qualcuno lo decide. Un famoso economista diceva che possiamo far muovere o la testa o la coda del cane. Se agisco sul tasso di cambio, attraverso forme di svalutazione o di guerra di valute, è chiaro che agisco sulla “coda”». Cioè si agisce su di una parte del sistema che non è responsabile dello stallo della crescita economica. «Dovrei agire sulla “testa”, cioè aumentare la produttività di Usa ed Europa». Ora, suggerisce l’economista, si sta ragionando «solo sulla coda del cane». Se l’Occidente non si risveglia c’è poco da fare. E le ricette sono sempre le stesse da anni. Puntare su settori che creino un alto valore aggiunto sul prodotto, in modo da mettere a valore un costo mano d’opera più alto che nei Paesi emergenti. «Soprattutto serve la capacità degli Usa di tornare ad investire in questi settori. Non credo che ci siano soluzioni negli accordi su tassi di cambio, perché non modificano la realtà di fondo».

Al vertice coreano si potrà decidere ben poco, non servono regole sui tassi di cambio per modificare la realtà. Gli States devono tornare ad investire


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l’approfondimento

Lo yuan e il dollaro i veri protagonisti del summit, che si avvia verso un clamoroso e prevedibile fallimento

La guerra delle monete

All’incontro di Seoul sono gli emergenti a dettare legge: l’Occidente è infatti diviso fra un’Europa frammentata e gli Stati Uniti in cerca disperata di stabilità finanziaria. Mentre l’Italia rischia di finire schiacciata da tutti di Giancarlo Galli tando alle profezie di economisti e analisti, in quel di Seoul sta per esplodere una guerra. Fortunatamente non cruenta, ma per certi versi egualmente tremenda e senza quartiere. Quella delle valute, cioè dei soldi che circolano, sempre più vorticosamente, nell’intero pianeta. In realtà, le ostilità sono iniziate da tempo, in maniera subdola, con la strisciante svalutazione del dollaro attuata dalla Fed di Ben Bernanke, in evidente sintonia con la Casa Bianca. Manovre monetarie con sullo sfondo speculazioni politiche, dunque. È fondamentale, per il futuro del pianeta, cercare di comprendere l’entità della posta in gioco. In primis, la determinazione di Re Dollaro a conservare la sua posizione egemonica, costi quel che costi, a spese del “Resto del mondo”. Appena due anni fa, il trionfo elettorale di Obama venne celebrato quale inizio di una Nuova Era: il “riscatto” di un’America dove la preoccupazione dominante è l’economia. Promesse chiare: dopo i disa-

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stri attribuiti al repubblicano George W. Bush (fallimenti di banche e industrie schiacciate dal ciclone dei mutui subprime), un rilancio in grande stile. Imperniato su robuste iniezioni di liquidità e conseguenti prestiti a tassi prossimi allo zero, onde finanziare la ripresa. I risultati sono stati ultramodesti, se è vero, inconfutabili statistiche alla mano, che il tasso di disoccupazione in Usa ha superato il 10 per cento della forza-lavoro.

Quindi il ticket Obama-Bernanke ha ritenuto di giocare altre carte, a cominciare dalla svalutazione del dollaro. Elementare spiegazione: un dollaro debole favorisce le esportazioni e penalizza le importazioni. Una misura, dunque, destinata a dare respiro alle industrie Usa, alleggerendo la bilancia dei pagamenti paurosamente deficitaria. Inutili al riguardo le reazioni del principale partner commerciale Usa, la Cina, alla quale è stato richiesto di rivalutare lo yuan. Proposta rispedita al mittente, ac-

compagnata da un sottile ricatto. Poiché Pechino è sì il principale esportatore verso gli Usa, ma pure il maggiore detentore di dollari nelle sue riserve, avrebbe anche potuto cominciare a vendere biglietti verdi. Tregua provvisoria. Vengono a questo punto alla mente le parole pronunciate negli anni Settanta da John Connally, segretario al Tesoro di Richard Nixon, nel momento in cui il presidente americano decise l’inconvertibilità dei dollari in oro. Rivolto agli europei allarmati: «Il dollaro è la nostra mo-

Le manovre della Fed preoccupano il Vecchio Continente

neta e il vostro problema». Attualizzando, si può dire: «La Riserva federale è la nostra banca e il vostro problema». Già. Sarà interessante capire in che modo a Seoul il governatore della Fed, Ben Bernanke, vorrà spiegare l’ultima sua mossa. Non ripagato dalla svalutazione del dollaro, il 3 novembre, ad urne ancora calde, ha annunciato il piano QE2. Traduzione: l’autorizzazione della Fed alla messa in circolazione di 600 miliardi di dollari freschi d stampa. Uno tsunami di biglietti. Gli americani non hanno battuto ciglio.

Con l’eccezione dell’economista di Harvard, Martin Feldstein, che paventa una reazione inflazionistica; e del neodeputato repubblicano del Texas, Ron Paul, andato oltre: accuse alla Fed e alla Casa Bianca di avere, negli ultimissimi tempi, per “fare cassa”, venduto una parte dell’oro conservato nel mitico Fort Knox, nella base militare del Kentucky. Invocando immediata richiesta.

Al di là delle polemiche, la sostanza: un’America che agita (al ribasso) la leva del dollaro per risolvere i suoi problemi. Fra i quali vi sono gli indici di Borsa, l’andamento di Wall Street. La crescita della circolazione monetaria è, per secolare e collaudata logica dei vasi comunicanti, anticipatrice di inflazione. L’inflazione ha per effetto un declassamento dei debiti (in termini reali), e un’esaltazione degli investimenti in titoli azionari, a scapito di quelli obbligazionari. Infatti Wall Street vede i suoi indicatori prossimi ai massimi storici. Puntuale nell’analisi, Le


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Il compromesso sulla riforma dei mercati, dopo la fase acuta della crisi, è sempre più difficile

E Sarkozy spera di diventare il grande mediatore

La presidenza del G20 passerà domani dalla Corea del Sud alla Francia, che insegue un asse con la Cina al prossimo summit in Costa Azzurra di Enrico Singer uello di Seoul è un tale fiasco annunciato che i Grandi già lo considerano archiviato e pensano al loro prossimo vertice che si terrà tra un anno sulla Costa Azzurra, a Cannes, perché da domani la presidenza del forum delle maggiori potenze economiche passerà dalla Corea del Sud alla Francia che avrà dodici mesi per tentare una missione che, fin qui, si è rivelata impossibile. Riequilibrare l’economia mondiale con una riforma del sistema finanziario che metta ordine anche nel marasma valutario alimentato da svalutazioni (di fatto) pilotate dalla Cina piuttosto che dagli Stati Uniti per favorire le loro esportazioni che - in un mondo globalizzato e alla ricerca di sempre nuovi mercati - sono il principale, se non l’unico, motore della produzione e del commercio. E, quindi, dell’occupazione, del benessere, della stabilità interna. Impresa ardua sulla quale, con una spregiudicatezza tutta francese, Nicolas Sarkozy ha già messo il cappello dichiarando che proprio la riforma del sistema monetario e finanziario internazionale sarà l’obiettivo della sua presidenza del G20 «comunque vada il summit coreano», con un esplicito riferimento al previsto flop della riunione di oggi e domani. Per Sarkozy, anzi, un fallimento sostanziale del vertice di Seoul è quasi un punto a favore perché gli consentirà di giocare il ruolo del grande mediatore che cerca di rimettere insieme i cocci della tanto inseguita governance economica mondiale che, in realtà, è una formula ancora vuota che lascia spazio a guerre commerciali e valutarie di ogni tipo. Il presidente francese ha un obiettivo massimo: raggiungere davvero un compromesso accettabile da tutti i Grandi, vecchi e nuovi. E un obiettivo minimo: dimostrare almeno di avercela messa tutta, di avere recuperato quel protagonismo che aveva incantato, se non altro, i suoi elettori che, via via, gli hanno voltato le spalle e che, nella primavera del 2012, dovranno decidere se tenerlo ancora all’Eliseo, oppure mandarlo a casa e cambiare cavallo.

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Le mire interne di Nicolas Sarkozy sono, naturalmente, legittime. Ma la posta in gioco va ben oltre una riconferma presidenziale. La spaccatura che si è prodotta nel G20 tra Occidente e Asia - o meglio, tra i Paesi storicamente più forti e quelli che li stanno spodestando - è l’effetto di interessi oggettivamente divergenti che anche la buona volontà politica - quando c’è non riesce a conciliare. È vero che, nel pieno della tempesta finanziaria di due anni fa, il G20 era riuscito a trovare delle intese

su misure d’emergenza che avevano dato l’illusione di un primo, concreto passo nella direzione di un nuovo ordine economico mondiale. Ma nel pieno di una crisi è sempre più facile trovare l’accordo su un piano che eviti la catastrofe generale. Adesso è molto più difficile perché i Paesi-guida dei due fronti

Ma Barack Obama avverte: «Solo un’economia forte negli Usa può essere garanzia di ripresa globale» contrapposti - Stati Uniti e Cina - tendono a imporre i loro interessi. In pratica, ognuno vorrebbe esportare di più, ma non si capisce chi dovrebbe importare. E il risentimento americano, pur smussato da Barack Obama che non è davvero pro-

tezionista quanto lo era George Bush, è giustificato da un’evidenza innegabile: tra il ricco mercato interno degli Usa e quello - smisurato, ma ancora povero della Cina c’è una tale sproporzione che è prevedibile una pressione a senso unico delle esportazioni cinesi verso l’America e non solo. Perché anche l’Europa è da tempo nel mirino di Pechino.

I dati del surplus della bilancia commerciale cinese - diffusi proprio ieri - ci dicono che, nel mese di settembre, Pechino ha guadagnato altri 25 miliardi di dollari dalle sue esportazioni rispetto alle sue importazioni. Questo significa che, alla fine dell’anno, la Cina si ritroverà in cassa circa 200 miliardi di dollari da investire. Potenziando il suo apparato produttivo, o acquistando sul mercato finanziario internazionale nuove dosi del debito pubblico di altri Paesi che si tratti di quello americano, oppure greco, spagnolo e portoghese come ha fatto negli ultimi mesi - aumentando, così, la sua potenza. Non è un caso che, sempre ieri, il Fondo monetario internazionale ha riconosciuto formalmente che la Cina è il terzo Paese nella sua gerarchia interna. Il balzo in avanti di Pechino - che finora era al sesto posto - è il risultato del trasferimento del 6 per cento dei diritti di voto dalle economie industriali a quelle dinamiche che ha modificato gli equilibri del Fmi che, dal 2007, è guidato dal francese Dominique Strauss-Kahn. La nuova lunga marcia cinese, insomma, sembra inarrestabile. Anche se Barack Obama, nella lettera che ha inviato a tutti i partecipanti al vertice del G20, ha messo in chiaro che gli Stati Uniti non vogliono abdicare al loro tradizionale primato: «Un’economia forte e che crea occupazione negli Stati Uniti rappresenta il contributo più importante che Washington può dare alla ripresa globale», ha scritto il presidente americano. Come dire che sbaglia chi immagina assi tra Europa e Cina in funzione antiamericana. È un messaggio, nemmeno tanto criptato, rivolto allo stesso Sarkozy ed anche alla cancelliera tedesca, Angela Merkel, che tra gli europei è stata la più critica nei confronti della Fed che ha immesso nuova liquidità per sostenere il debito pubblico americano e si è trovata, così, in sintonia con Pechino. Ma a Seoul gli schieramenti contrapposti non avranno la forza di imporre la loro linea. Forse si troverà qualche intesa su temi più tecnici: per esempio una nuova classificazione delle banche internazionali. E la palla passerà a Sarkozy.

Monde titolava a nove colonne l’8 novembre “Euforia borsistica e inquietudine dopo il piano della Fed”. Mettendo in luce un dato poco conosciuto: quasi cento milioni di cittadini statunitensi, direttamente o attraverso i fondi pensioni, investono in Borsa. Quindi il più efficace strumento di consensi è Wall Street. Obama, forse, è tentato di cavalcare il destriero. Che contrappongono, gli “altri”, all’interessato e cinico protagonismo monetario Usa? Nell’attesa dell’“accadrà a Seoul”, paiono muoversi in ordine sparso. La Cina, principale interlocutore di Washington per l’interscambio, ritenendo di avere il coltello dalla parte del manico sta alla finestra. Al massimo concedendo che in un futuro prossimo venturo cercherà di ridurre l’export privilegiando l’immenso mercato interno. Il Giappone, ancora condizionato dalla presenza militare Usa, tace. Subendo una rivalutazione dello yendollaro. Reagiscono invece i Paesi sudamericani, guidati dal Brasile, che non intendono subire senza batter ciglio una svalutazione del dollaro penalizzatrice del loro export.

E l’Europa dell’euro? In assenza di una concertazione, che pur sarebbe doverosa, ci si trastulla in un crocevia di interessi e interpretazioni divaricanti. L’euro, arrivato a un cambio di 1,40 contro il dollaro (+ 15 per cento rispetto a inizio d’anno), si dice, penalizza sì l’export “extra zona euro”, però ha reso meno pesante la fattura petrolifera. Il che è vero, soprattutto per l’Italia. Vi è però la Francia di Nicolas Sarkozy, assai poco disposta ad accettare che siano gli Usa (mai amati) a dettare legge sui mercati valutari. Sarkò ha cercato sostegno presso Angela Merkel, cancelliera a Berlino. Mediocre sintonia: i teutonici vantano un’economia fortissima, in virtù della ineguagliata tecnologia. In più, proprio per le loro “virtù”esportano soprattutto nell’Est europeo e nella Russia di Putin, infischiandosene del dollaro. In sopramercato sono dell’idea che si dovrebbe rivedere l’intero meccanismo che presiede ad Eurolandia. Affinché i “migliori” non debbano portare il fardello di Paesi “al traino”, al pari della Grecia. In bilico, infatti, Portogallo e Spagna. E l’Italia? Non è dato conoscere con quali carte si presenteranno “i nostri”a Seoul. Le convulsioni politiche sicuramente non aiutano. Con una crisi dietro l’angolo, le possibilità del governatore della Banca d’Italia Mario Draghi di farsi sentire, di avanzare proposte, paiono assai limitate. Italia vaso di coccio? Auguriamoci il contrario, però… Quanto siamo lontani dai tempi in cui l’Italia aveva voce in capitolo in Europa e nel mondo!


politica

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Ultimi giorni. Dal pm attacco a Maroni e Bruti Liberati sul caso Ruby. Oggi l’incontro tra Bossi e Fini: «Lo ha chiesto lui», spiegano i lumbàrd

Il requiem di Letta «I tempi del governo si restringono», dice. E il Pd raccoglie le firme contro Berlusconi di Errico Novi

ROMA. Qual è la voce ufficiale del governo? Uno come Giorgio La Malfa, a suo tempo ministro di Berlusconi, risponde così: «Gianni Letta non è solo la voce, è anche il governo stesso. Il Cavaliere non ha mai governato niente, ha sempre fatto tutto il suo braccio destro». Ecco, e ieri il braccio destro alias premier ombra, Gianni Letta appunto, fa la comunicazione ufficiale: «La prospettiva dell’esecutivo sembra restringersi». Davanti non ci sono anni, dice il sottosegretario a un convegno Ericsson sul piano “Europa 2020”, certo non quelli che l’Unione si è data per riassestare la sua economia. «Questo governo che rappresento pro tempore ha prospettive molto più brevi, e in queste ultime ore sembrano restringersi non ad anni ma a periodi e misure di tempo più contenuti». È come se Palazzo Chigi parlasse per la prima volta seriamente della crisi in cui è sprofondato. Non lo fa per voce del presidente del Consiglio. Ma si è mai visto Silvio Berlusconi smentire Gianni Letta? Non succederà nemmeno stavolta. Il velo si è squarciato. E anzi il fatto che a calare il sipario non sia il Cavaliere aggrava la situazione. Restituisce ancora più netta l’immagine di un Berlusconi di fatto già sbalzato dalla sella. Alimenterà di certo, la battuta di Letta, anche il vasto repertorio di dietrologie fiorite da oltre un anno intorno a Palazzo Chigi e allo stesso sottosegretario. Descritto da alcuni retroscena del Riformista, per esempio, come il fulcro di una «Ditta» messa su all’ombra del Cavaliere, pronta a gestirne la deposizione.Teorie di cui non c’è alcun bisogno. Perché tutt’attorno al capo del governo si produce una sorta di indefinita slavina: ovunque Berlusconi provi ad appoggiare i piedi gli scivola il terreno. Solo nella giornata di ieri la collezione si arricchisce di altre tre batoste: innanzitutto l’irruzione del pm dei minori Annamaria Fiorillo, che smentisce la ricostruzione del caso Ruby fatta dal ministro Maroni poche ore prima alla Camera («le sue parole non corrispondono alla mia conoscenza del caso», cioè della notte in questura e della telefonata fatta dal

premier per “liberare” la giovane); l’altra bordata arriva da Marchionne, che si accorda ai toni allarmistici di Emma Marcegaglia («è l’incertezza a creare più danni, la stabilità è essenziale per tutto, per gestire le aziende», e sbatte in faccia a Sacconi la porta del negoziato con le parti sociali); quindi Bersani inizia la raccolta di firme per sfiduciare Berlusconi.

Difficile trovare chi si sottragga dall’intonare il de profundis del governo. È Renato Schifani uno degli ultimi a tentare l’estrema difesa: «La stabilità serve anche a proteggere le istituzioni da poteri non democratici», dice, aggiungendo che «l’approvazione della Finanziaria è un impegno inderogabile». Precisazione che in qualche modo evoca una resistenza solo “a tempo”. Ne è riscontro la mossa di Quagliariello e dei berlusconiani del Senato, pronti a depositare una proposta unitaria di riforma della legge elettorale. Un modo per sottrarre il principale argomento alla teoria dell’esecutivo tecnico e puntare dritti al voto in primavera. Che il borsino della legislatura precipiti con ritmo ormai inarrestabile è evidente a tutti, d’altronde. Granata conferma che Futuro e libertà attende solo l’incontro tra Bossi e Fini di oggi per ritirare la propria delegazione dal governo. Circostanza che si tenta di impedire con un gesto disperato, un incontro tra Gianni Letta e Fini rimasto in forse fino al tardo pomeriggio, con il premier già in volo per Seul. Iniziativa, quella del sottosegretario, che spiega meglio anche la frase sul governo «che rappresento pro tempore» pronunciata al convegno di Ericsson. Non manca nulla. Non bastano gli scandali personali, né le spalle voltate dagli industriali: nell’aria volteggia anche lo spettro del caso Bondi. Nonostante le iniziali rassicurazioni, sembra possibile che Fli decida di pronunciarsi per il sì alla sfiducia del ministro dopo il passaggio di quest’ultimo a Palazzo Madama. È chiaro che un colpo messo a segno contro di lui spingerebbe violentemente verso le dimissioni lo stesso premier. Sia per la gravità dell’oggetto, il crollo di

D’Alema insiste: «Venga al Copasir» ROMA. Massimo D’Alema insiste nel voler punzecchiare il premier dalla sua poltrona di presidente del Copasir. Ieri, il comitato di controllo sui servizi segreti ha tenuto la sua prevista riunione sul tema della sicurezza di Silvio Berlusconi, collegata ai risvolti recenti delle festicciole nelle residenze del premier, dopo di che D’Alema «ha inviato – come si legge in una nota ufficiale – una lettera al presidente del Consiglio rinnovando l’invito alla sua audizione, come previsto dall’art. 31, comma 1, della legge 124 del 2007». Si tratta comunque, di una iniziativa che era già stata preannunciata «la scorsa settimana all’Autorità delegata, dott. Gianni Letta» e sulla quale già molti avevano espresso commenti di vario genere. La lettera, comunque, ha subito scatenato una tempesta in un bicchiere. «Il presidente D’Alema ha perso l’ennesima occasione per aderire a quella leale collaborazione istituzionale cui la nuova legge sui Servizi segreti è ispirata. L’iniziativa è invece la prova evidente del tentativo di piegare il Copasir ad arma impropria di lotta politica». Così ha tuonato l’ultrà berlusconiano Gaetano Quagliariello, per altro componente del Copasir, quindi particolarmente indignato dall’eventualità di essere usato come «arma impropria».

Pompei, sia per la vicinanza di Bondi al Cavaliere. Contro il quale peraltro sembra davvero congiurare tutto. Qual era il trofeo più importante messo in bacheca da Berlusconi, la soluzione dell’emergenza rifiuti? Ed ecco che l’emergenza riesplode. Cosa mancava in un momento del genere, un disastro idrogeologico in una regione ricca e insofferente? Arriva l’alluvione in Veneto. Maroni si presenta a Montecitorio, come avvenuto in mattinata, con una versione rasserenante sul caso Ruby? C’è il pm dei minori Annamaria Fiorillo che non si fa scrupolo di sconfessare non solo il ministro, ma anche lo stesso capo della Procura milanese Edmondo Bruti Liberati: «Mi rivolgerò al Csm, le parole del ministro che sembrano in accordo con quelle del Procuratore non corrispondono alla mia diretta e personale conoscenza del caso». Il capo del Viminale non aveva fatto altro che confermare la regolartità delle procedure di identificazione, fo-

tosegnalazione e affidamento della minorenne al consigliere regionale Nicole Minetti. Di fatto la validazione della tesi già sostenuta da Bruti Liberati. In più Maroni aggiunge il dettaglio chiave, ossia che il via libera alla messa in libertà di Ruby arrivò dopo aver constatato l’indisponibilità di posti nelle case famiglia. Ma la Fiorillo fa saltare tutto: «Non dico più niente, parlerò dopo che il Csm sarà intervenuto, ma penso sia importante soprattutto il rispetto delle istituzioni e della legalità, a cui ho dedicato la mia vita. Quando vedo calpestate libertà e giustizia io parlo, altrimenti non potrei più guardarmi allo specchio».

Non arriveranno buone notizie dall’incontro fra Bossi e Fini previsto per oggi. Sulla trattativa spunta oltretutto un retroscena decisivo: «Non siamo stati noi a spingere per l’apertura del negoziato con il presidente della Camera», spiegano a liberal fonti di via Bellerio, «casomai domenica sera, dopo il discorso in Umbria, è stato Andrea Ronchi a cercare Umberto. Non ci ha parlato direttamente ma si è confrontato con Calderoli, poi con Maroni. Semplicemente Bossi ha proposto a Berlusconi di occuparsi personalmente del confronto con Fini perché c’era


politica

11 novembre 2010 • pagina 7

Il Pd prepara la mozione. Udc e Fli: «Decideremo insieme la nostra posizione»

Bondi schiva la sfiducia, l’«incidente» è rimandato Il ministro si difende: «Sono sempre stato bravissimo». Ma sul suo futuro il governo si gioca la propria tenuta di Marco Palombi

stata questa apertura di credito. Ma certo non per convincere l’ex leader di An a siglare un patto di legislatura».

E allora qual è il senso della missione leghista a Montecitorio? Semplice, spiegano dal Carroccio, si tratta solo di «raggiungere una minima intesa su questi ultimi mesi di legislatura: si chiederà a Fini di consentire in commissione il buon esito dei decreti attuativi sul federalismo, punto. Poi si andrà alle elezioni in primavera». Altro che rilancio e nuovo patto di maggioranza. Bossi si candida a fare il liquidatore della legislatura, e forse di Berlusconi. «Noi restiamo suoi alleati, anche a marzo. A meno che non accada qualcosa di strano. Ma se al Senato dopo il voto non ci fosse la maggioranza», prevedono i leghisti, «e se il Cavaliere fosse costretto a un passo indietro, non potremmo farci nulla». Il tramonto di Berlusconi, convengono i lumbàrd, non ha bisogno di riti propiziatori o trame di complemento. È scritto nelle cose. E non sarà certo la Lega a immolarsi per invertire il corso della storia.

«Non abbiamo davanti anni ma tempi più limitati», è l’amara battuta di Gianni Letta sulla crisi del governo, fatta mentre Berlusconi si imbarcava per Seul. In arrivo oggi le dimissioni dei finiani dall’esecutivo

ROMA. Alla fine della sua difficile mattinata, Sandro Bondi è uscito dall’aula della Camera, dove aveva passato un’oretta abbondante a difendersi per il crollo della Domus dei Gladiatori a Pompei, e in Transatlantico s’è subito messo a fare una lunga telefonata con tanto di mano davanti alla bocca, alla Cassano, in modo che nessuno potesse intuire il labiale. La conversazione deve essere stata un balsamo per il nostro perché, una volta riattaccato, il ministro dei Beni culturali s’era dimenticato di tutto quanto successo fino ad allora: «Non vedo perché dovrei dimettermi - ha spiegato ai giornalisti - il dibattito è stato molto civile, non ho ascoltato richieste di dimissioni così perentorie, né da parte di Fli né da parte dell’Udc. Solo il Pd lo ha fatto, ma l’intervento di Veltroni è stato molto civile».Tecnicamente è quasi vero, ma Bondi pecca decisamente di ottimismo se pensa che la sua autodifesa abbia fatto breccia nel cuore delle opposizioni esterne ed interne al centrodestra: «Se avessi delle responsabilità nel crollo – ha scandito davanti ai deputati – mi sarei dimesso. È comodo addossare responsabilità a me o al governo per i pochi investimenti: dobbiamo avere tutti il senso della misura ed evitare strumentalizzazioni politiche». Insomma, s’è lamentato il ministro, «chiedere le mie dimissioni non sarebbe politicamente e moralmente giusto, non lo merito, sarebbe un segno di incattivimento della lotta politica in Italia». Certo, «se devo saltare su una mina per far esplodere il governo è un altro discorso, non è un problema che riguarda il patrimonio culturale». Effettivamente Bondi sembra aver individuato un punto che gioca decisamente a suo svantaggio, anche se la sua difesa, tecnicamente abbastanza corretta, pecca nel momento in cui rifiuta di assumersi qualunque forma di responsabilità politica per quanto accaduto durante il suo interregno. Il crollo di Pompei è simbolico di una gestione inefficiente dei Beni culturali ed è capitato proprio mentre lui poneva pubblicamente il tema degli scarsi fondi riservati dal Tesoro al suo dicastero. Peggio, il ministro ha tentato di buttarla in caciara, addirittura di elogiarsi: «Il crollo di un edificio, per quanto grave sia, non può cancellare i risultati ottenuti», ha sostenuto elencando una serie di cifre investite e spazi aperti al pubblico fuori da ogni contestualizzazione (abbiamo speso 79 milioni di euro, riaperto 13 edifici e 12 ville) per poi passare ad ammettere che «nuovi crolli non si possono escludere». Dove? Chissà. Una mappatura del rischio non è a disposizione né per Pompei né d’altronde per decine di altri famosissimi siti archeologici. Per il collasso della Domus dei Gladiatori, comunque, il nostro ha incolpato «la pressione

sulle murature del terrapieno», non certo «la mancanza di risorse». I soldi ci sono, dice Bondi, «il problema è la loro gestione» o malagestione ormai decennale. Soluzione: «Il ministero sta predisponendo le linee guida per una Fondazione per Pompei: sovrintendenti e manager dei beni culturali devono lavorare insieme». Ovviamente, con al comando l’ennesimo commissario di nomina governativa.

In aula gli ha risposto Walter Veltroni: «Non è vero, come dice lei, che le classi dirigenti hanno sempre sottovalutato la cultura: i governi di centrosinistra hanno sempre investito risorse. Il crollo era annunciato, la

verità è che non si è fatto tutto quello che si doveva per il restauro. Lei oggi ci ha detto che va tutto bene, salvo poi dirci che sono previsti altri crolli. Noi le chiediamo le dimissioni non per un fatto specifico ma per lo stato di abbandono della cultura italiana. Si è chiuso un ciclo. Si dice che bisogna spegnere la luce, ma è già spenta». Le mosse del Pd le ha annunciate a seguire il capogruppo Dario Franceschini: «Dimissioni o mozione di sfiducia». In linea, alla sua maniera, Italia dei Valori: «Bondi ha fatto più danni del Vesuvio, per questo se ne deve andare a casa», ha scandito il deputato Antonio Palagiano. Il problema, per Bondi, è che anche il finiano Fabio Granata gli ha sostanzialmente chiesto di dimettersi o meglio «di assumersi le sue pesantissime responsabilità politiche», che possono essere rintracciate a partire dalla scelta di «anni di commissariamento» del sito, «certificazione oggettiva di diretta responsabilità politica». Già che lo chiede Fli, ha fatto eco Renzo Lusetti per l’Udc, «come forza di opposizione non possiamo che associarci alla richiesta di assunzione di responsabilità». Se alla fine Bondi salterà sulla mina lo sapremo nelle prossime settimane: lo spettacolo si replica oggi in Senato e se il ministro non si dimette – cosa che non ha intenzione di fare – il Pd presenterà la sua mozione di sfiducia. Pier Ferdinando Casini ha fatto sapere che l’Udc deciderà quando sarà il momento, posizione condivisa da Futuro e Libertà che però, si dice in Transatlantico, avrebbe già deciso di appoggiarla. E si farebbe subito sera, o notte, per il ministro poeta.


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Conti e sconti. Dopo un vertice di maggioranza, Tremonti dice sì alle linee dettate dai finiani, ma le risorse diminuiscono

Lo sviluppo perde 2 miliardi

Approvata la manovra: soltanto 5,5 mld per rilanciare l’economia ROMA. I sette miliardi neces-

di Francesco Pacifico

sari non sono stati ancora trovati. Per il maximendamento nel quale inserire le misure per lo sviluppo ci sono soltanto a disposizione 5,5 miliardi, con il rischio di dover rinunciare ad alcune promesse fatte da Berlusconi nei cinque punti di rilancio del governo o dover rinunciare a sgravi molti apprezzati come il bonus energia per le ristrutturazioni edilizie e l’esenzione Iva sugli immobili invenduti.

Occupato a Seoul per il G20, Giulio Tremonti ha dato il compito al viceministro Giuseppe Vegas e al suo plenipotenziario alla Camera Marco Milanese di far metabolizzare la cosa alla maggioranza.Ma non è detto che questa sia la cifra definitiva, visto che accanto ai 3 miliardi che verranno dalle aste delle frequenze tv, al Tesoro studiano come trovare risorse dalla lotta all’evasione, dal Fondo Letta, dai residui della Pubblica amministrazione o dai giochi. Difficile chiedere più in questa fase per rafforzare una ripresa che (come dimostra il 2,1 per cento della produzione industriale a settembre) langue. Intanto Tremonti incassa un primo avallo dai finiani e ottiene da Paolo Romani (ma in cambio di soldi per la banda larga) di poter utilizzare parte dell’incasso dato dall’asta per le frequenze. Per non parlare del via libera della Copaff ai decreti del federalismo fiscale comunale. Viste le scadenze del presente e le ambizioni del futuro, incassare un sì alla manovra

domani dell’approvazione della legge di stabilità si impone un chiarimento, la crisi deve essere parlamentarizzata». Ieri pomeriggio Vegas e Milanese hanno presentato ai capigruppo di maggioranza il maximendamento. Accanto alla conferma del rifinanziamento degli ammortizzatori sociali, al miliardo per l’università, all’alleggerimento dei tagli per gli enti locali o agli stanziamenti per salari di produttività e 5 per mille, provvedimenti che Fli può vantare come un riconoscimento della

Come chiesto da Umberto Bossi, il Tesoro sconta di un 1 miliardo i tagli per gli enti locali. Intanto, cala la produzione industriale (-2,1%) che contiene il decreto sviluppo è un buon risultato per il ministro dell’Economia. Non fosse altro per gli spazi di manovra che si possono aprire. Emblematico del clima, infatti, il tentativo sempre più palese dei finiani di trovare risorse andando a recuperarle dai ministri ex An come Ignazio La Russa (Difesa), Altero Matteoli (Infrastrutture) o Giorgia Meloni (Gioventù). Massimo D’Alema, uno che di crisi di governo se ne intende, ieri spiegava ai microfoni di SkyTg24: «È chiaro che all’in-

sua azione. Sfogliando le pagine del provvedimento, è stato subito chiaro a tutti che Tremonti ha dato il via libera alla stragrande maggioranza delle richieste arrivate dai finiani come un rimpinguamento del fondo per gli alluvionati, quello per il credito d’imposta per gli investimenti e l’attività di chi fa ricerca, le sovvenzioni alle tv locali ai piccoli quotidiani. Ma il passo avanti fatto ieri potrebbe non bastare agli uomini di Gianfranco Fini. Il senatore ed economista Mario

Accordo tra Telecom e i maggiori attori delle Tlc

Società per la banda larga ROMA.

Sul modello del club degli investimenti francese, è nata ieri la società che dovrà realizzare le infrastrutture per lo sviluppo delle reti di nuova generazione a banda larga. Un consorzio, che ha visto il via con la firma di un protocollo al ministero dello Sviluppo, al quale parteciperanno Telecom, Vodafone, Wind, Fastweb, Tiscali, 3 e BT Italia.

L’accordo prevede la costituzione di un comitato esecutivo, presieduto dal ministero e composto da un rappresentante per ciascun operatore, che dovrà entro 3 mesi mettere a punto un piano esecutivo del nuovo veicolo societario, il modello di governance e il business plan. Mission della società intervenire nella realizzazione delle infrastrutture dove queste non siano già state realizzate dagli operatori esistenti. All’autorità delle comunica-

zioni il compito di definire un quadro regolamentare di accesso alle infrastrutture che dovranno essere aperte a tutte le realtà industriali presenti nel Paese. Franco Bernabé ha dichiarato che «l’accordo per la realizzazione di una società per le reti di nuova generazione è un segnale importante di rilancio per il Paese, un segno eccellente di rilancio tecnologico e rispetta le iniziative private, poiché basato sul principio di sussidiarietà».

Inoltre L’amministratore delegato di Telecom Italia ha aggiunto che di essere «molto soddisfatto dell’esito del lavoro, perché adesso verrà avviata la definizione degli aspetti economico-finanziario dell’iniziativa e della governance, nonché della verifica delle condizioni di finanziamento. Ripeto quest’accordo è un volano per i privati, non frena le loro iniziative».

Baldassarri è pronto a disotterrare l’ascia di guerra nel passato della legge di stabilità al Senato. Forte di un pacchetto per lo sviluppo di due punti di Pil presentato già nello scorso biennio, il presidente della commissione Bilancio di Palazzo Madama, ieri ha spiegato che «controllare i conti pubblici, tagliando la spesa, è un atto d’ufficio dovuto, ma Fli continua a chiedere una manovra per lo sviluppo e Tremonti si è impegnato su questo in Parlamento». Quindi, «è positivo mettere un miliardo per l’università ma questo non ha niente a che vedere con l’altra gamba, con lo sviluppo: con 4-5 miliardi Tremonti prende in giro se stesso e gli italiani, con lo 0,2 per cento del Pil non si fa niente neanche se scende Gesù in terra». Proprio l’attenzione verso i finiani ha rischiato di far incrinare i rapporti tra il potente ministro dell’Economia e la Lega. Proprio per evitare questo,Tremonti ha dato mandato ai suoi tecnici di allargare quanto più possibile lo sconto promesso da Umberto Bossi agli enti locali sul patto di stabilità interno. Nel maxiemendamento ci saranno per questa voce 1,270 miliardi. Il capogruppo della Lega a Montecitorio, Marco Reguzzoni, ha spiegato che «400 milioni saranno destinati al miglioramento dei saldi del patto di stabilità interno dei Comuni, 600 milioni al trasporto pubblico locale delle Regioni e 270 milioni per il rimborso Ici». Su proposta del Carroccio dovrebbe essere costituito presso la Cassa depositi e prestiti un fondo per velocizzare i pagamenti pregressi della Pubblica amministrazione alle imprese.

Saranno contente le Regioni, che questo pomeriggio vedono il governo per dare il parere sui decreti sull’autonomia finanziaria e sui costi standard, da sempre vincolati a un alleggerimento dei tagli della manovra di luglio. Attendono novità anche i sindaci. Non a caso Sergio Chiamparino, parlando all’assemblea dell’Anci in corso a Padova, ieri ricordava che serve «un cambiamento del patto di stabilità, che vuol dire dare possibilità ai comuni che hanno risorse di spenderle e obbligare invece quelli che sono in disavanzo ad andare in pareggio».


diario

11 novembre 2010 • pagina 9

Oggi a Roma un incontro con Ennio Morricone

Negata dal gip la perizia psichiatrica sullo zio della piccola Sarah

Con Ravasi il Vaticano studia i nuovi media

Delitto Scazzi, il giudice interrogherà Misseri il 19

ROMA. «Cultura della comunicazione e nuovi linguaggi» è il tema scelto per l’Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, presieduta dal neo eletto cardinal Gianfranco Ravasi, che si svolgerà presso la sede del dicastero vaticano fino a sabato prossimo. Nell’ambito degli appuntamenti di studio dell’Assemblea Plenaria, Dario Edoardo Viganò è stato chiamato a partecipare alla tavola rotonda «In dialogo con un artista», insieme al compositore premio Oscar Ennio Morricone e al regista inglese Roland Joffé, autore del film Mission (1986), incontro che si terrà oggi alle ore 15.00, sempre presso la sede del Pontificio Consiglio della Cultura. Non

ROMA. È stata fissata per ve-

Nasce la famiglia a trazione femminile L’Istat: «Tutto il peso è sulle spalle delle donne» di Alessandro D’Amato

poteva fare scelta migliore il cardinal Ravasi, invitando il Premio Oscar Morricone. Difficile infatti aggiungere qualcosa alle molte riflessioni e studi sulla musica da film del maestro. Più interessante è leggere la forza con cui le sue musiche invadono in maniera crossmediale la rete. Le sue colonne sonore sono certamente legate ai film in maniera indelebile ma al tempo stesso si sono emancipate divenendo autonome e creandosi uno spazio mediale più ampio, più esteso.

Dopo l’Oscar, delle musiche di Morricone sono state eseguite cover interpretate da cantanti pop come Cèline Dion. Il famoso gruppo Metallica si è esibito ne L’estasi dell’Oro nel concerto del 2009 a Copenaghen, usando la stessa musica come sigla di apertura del concerto Live per Canal Plus a Nime. Insomma, le musiche di Morricone hanno saputo conquistare pubblici diversi da quelli cinematografici e generazioni anche distanti tra loro. È questa la grandezza straordinaria del compositore: perfette colonne sonore le sue, ma insieme musiche libere dalle immagini, con una propria vita, in grado di significare nei contesti più differenti.

ROMA. Benvenuti (o bentornati) negli anni Cinquanta del Novecento. Lo certifica l’Istat, nell’indagine statistica intitolata «La divisione dei ruoli nelle coppie», nella quale si analizza il grado di condivisione dei carichi di lavoro familiare nella coppia. l’Istituto nazionale di Statistica è ricorso al cosiddetto ’indice di asimmetria’ che misura nel caso particolare preso in esame quanta parte del tempo dedicato da entrambi partner al lavoro domestico, alla cura dei figli e all’acquisto di beni e servizi viene svolto dalla donna. E i risultati dipingono un’Italia che sembra ferma a sessant’anni fa. Dove le donne sembrano ancorate ad attività che erano tipiche degli anni Cinquanta: è come se tanti anni di emancipazione fossero passati inutilmente. Il primo dato è che le donne non possono esimersi dal cucinare: in un giorno medio tali attività sono svolte dal 90,5% delle occupate e dal 97,8% delle non occupate. L’impegno degli uomini in casa invece è più selettivo. Anche le attività di pulizia della casa - rende noto l’Istat - impegnano l’82% delle occupate per arrivare al 94,8% tra le non occupate. Le attività di apparecchiare o sparecchiare e lavare i piatti sono svolte rispettivamente dal 66,3% e dal 76,3%; il 35% delle occupate poi in un giorno medio della settimana lava o stira, quota che sale al 49,2% per le non occupate. Degli uomini sposati donne occupate, invece, in un giorno medio il 41,7% cucina, il 31,4% partecipa alle pulizie di casa, il 29,9% fa la spesa, il 26,6% apparecchia e riordina la cucina mentre quasi nessuno lava e stira i panni. Le attività svolte prevalentemente dagli uomini sono quelle della manutenzione della casa e dei veicoli (solo il 5,1% delle ore è svolto dalle donne) e della cura delle piante ed animali (il 70,3% delle ore è svolto dagli uomini). Invece, rispetto ai figli (fino a 13 anni), l’asimmetria fra donne e uomini è più contenuta: se la donna lavora resta a suo carico il 65,8% del lavoro di cura, contro il 75,6% della madre

che non lavora. L’85,9% delle madri e il 57,8% dei padri con almeno un figlio fino a 13 anni svolge in un lavoro medio un’attività di cura dei figli; tra i genitori, le madri vi dedicano mediamente 2 ore 13 minuti e i padri un ora 23 minuti. In genere le madri si dedicano a lavori di cura fisica (mangiare, vestire, sorveglianza) mentre i padri si occupano delle attività ludiche. La mamma che lavora dedica al gioco il 18,3% del tempo dedicato ai figli, il papà il 44,2%; se la mamma non lavora il 17,6% contro il 52,4% dei padri.

Una ricostruzione che però non è piaciuta alle casalinghe. Che l’hanno definito «un dato grossolano, statico e probabilmente non analizzato a fondo», come ha detto Federica Rossi Gasparrini, presidente di Federcasalinghe. «È una percentuale che mi lascia molto perplessa - ha detto -. Parlando con donne adulte e il cui marito è andato in pensione, risulta che quest’ultimo occupa il tempo lavorando all’interno della casa, oppure nell’orto: le sue attività, la sua collaborazione con la moglie, completano la giornata e vengono compiute con grande piacere. Nelle coppie giovani, i neo papà sono molto disponibili e attivi - ha continuato la Gasparrini - la pappa, la passeggiata, il gioco o anche le lettura insieme ai figli non mancano: l’atteggiamento dei giovani papà è di grande attività, di aiuto nei lavori domestici e disponibilità nei confronti della moglie, con grande attenzione nei confronti delle necessità della consorte. È poi necessario suddividere le fasce geografiche: al centro nord a farla da padrone l’atteggiamento costruttivo e di aiuto dell’uomo mentre questo si registra molto meno al sud, dove il contesto familiare è più ampio, cioè oltre alla mamma ci sono sorelle, zie e parenti pronti ad aiutare. Secondo me i dati del rapporto Istat sono mutati troppo poco negli anni - ha concluso la presidente di Federcasalinghe - il Paese in sette-otto anni è cambiato, sono cambiate le necessità ed è quindi aumentata la collaborazione nelle famiglie».

nerdì 19 novembre dal gip del Tribunale di Taranto, Rosati, la data dell’incidente probatorio con interrogatorio di Michele Misseri. E il gip si è pronunciato anche contro la richiesta di una perizia psichiatrica sull’uomo accusato dell’omicidio della nipote, Sarah Scazzi. Contro la perizia psichiatrica si era espressa la Procura della Repubblica. Misseri aveva prima confessato di essere l’autore dell’omicidio di Sarah, avvenuto lo scorso 26 agosto ad Avetrana, per poi ritrattatare e accusare del delitto la figlia Sabrina, mentre lui si sarebbe incaricato dell’occultamento del cadavere.

L’interrogatorio si terrà nella tarda mattinata: il giudice ha scelto di effettuare l’incidente probatorio che cristallizza l’interrogatorio in vista del processo per la pressione psicologica che grava su Misseri. Questa mattina è prevista invece la nuova udienza del Tribunale del Riesame che dovrà decidere sull’istanza di scarcerazione presentata dai legali di Sabrina. Da fonti investigative si apprende che Cosima, la zia di Sarah, si lamenta con gli inquirenti del fatto che al marito Michele siano somministrati in carcere tranquillanti e che que-

Tra vita in cucina e fatiche con i figli, sembra proprio di vedere un’Italia rimasta ferma agli anni Cinquanta

sto condizionerebbe le deposizioni. Secondo quanto si apprende, a Misseri sarebbe stato somministrato un tranquillante che si ritiene non sia in grado di confondere il ricordo. Intanto si starebbe delineando un movente più consistente per l’omicidio della ragazza: non solo la gelosia ma anche la fiducia tradita. Di gelosia si era parlato con riferimento al rapporto tra Ivano Russo, amico delle due ragazze, e Sarah. A questo si aggiungerebbe una confidenza che Sabrina avrebbe fatto a Sarah relativa a un approccio tentato e fallito con Ivano e che quest’ultima potrebbe aver rivelato ad altre persone.


politica

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Al chiodo. Dieci anni passati alla guida della Protezione civile tra emergenze, grandi eventi e inchieste giudiziarie

Dai miracoli al fango

Bertolaso dà l’addio tra le polemiche per l’alluvione in Veneto. E il governo stanzia «solo» 300 milioni per affrontare l’emergenza di Franco Insardà

ROMA. L’alluvione in Veneto – per l’uomo che le emergenze le risolveva ai quattro angoli del mondo – è un epilogo beffardo per la sua parabola. Questa mattina Guido Bertolaso va in pensione, abbandona lo scomodo ruolo di capo del dipartimento della Protezione civile, e con esso anche la carica di sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Ieri relazionando alla Camera sull’alluvione veneta ha compiuto il suo ultimo atto ufficiale. Lui, come invece gli aveva promesso il suo amico Silvio Berlusconi, che sarebbe dovuto essere nominato ministro ha detto: «Torno semplice cittadino, non un uomo libero, perché quello lo sono sempre stato - fedele solo al giuramento di Ippocrate che ho formulato 37 anni fa».

Ma i fasti di un tempo non sono neanche un ricordo. Accanto a quello che ha seppellito il Nordest e che sta creando notevolissimi problemi anche in Campania, c’è il fango alzato dalle inchieste sulla “cricca”relative alla preparazione del vertice del G8 alla Maddalena, che ipotizzano un coinvolgimento anche di Bertolaso. E, come se non bastasse, ci sono da registrare i cumuli di spazzatura riapparsi per le strade di Napoli e le proteste degli aquilani. La rabbia degli alluvionati, placata in parte dalle mezze promesse del premier e dalle assicu-

Abbiamo competenze per guidare il restauro mondiale, ma il ministero è senza strategia

Poveri tesori italiani, abbandonati a loro stessi di Carlo Ripa di Meana sbagliato e demagogico chiedere le dimissioni del ministro Bondi per il crollo di Pompei. Dietro quel drammatico episodio ci sono responsabilità di decine e decine di ministri. La Domus dei Gladiatori è caduta sotto piogge battenti e grazie a un restauro maldestro, fatto in pesante cemento e piazzato nella parte alta dell’edificio. Quell’intervento degli anni Cinquanta, ne ha indubitabilmente favorito lo sbriciolamento.

È

Anziché andare alla ricerca del capro espiatorio, dovremmo approfittare di questa occasione per mettere a fuoco una strategia di intervento a protezione dei nostri beni culturali. Se Bondi ha una responsabilità specifica, essa riguarda il modo in cui ha riorganizzato il suo ministero, unificando le direzioni generali. Una decisione in contrasto logico e amministrativo col lavoro del suo più incisivo predecessore di centrodestra, Giuliano Urbani, che dette vita al codice dei beni culturali e del paesaggio, un’utile frontiera in materia di tutela. Quello strumento funzionava bene con un dicastero organizzato in tre grandi settori: i beni artistici e architettonici, l’antichità e l’archeologia e, infine, il paesaggio. A questi tre settori corrispondevano tre direzioni generali. Purtroppo Bondi le ha unificate in una sola direzione generale. E questo ha messo in grande sofferenza le sovrintendenze, che devono correre dietro a tutto senza avere punti di riferimento nazionali ben strutturati. Una poltiglia di competenze che non ha certo favorito il rapido intervento nella domus dei gladiatori di Pompei. La prima cosa da chiedere al ministro è quindi di ripristinare le tre vecchie direzioni generali. Se si vuole però affrontare alla radice la grande questione dei beni culturali, non possiamo non chiamare in causa l’Europa. Dopo la stagione dei fondi a pioggia, dobbiamo chiedere che l’Unione investa in Italia in modo considerevole e mirato sui beni culturali. Le nostre scuole di restauro, a partire dall’Icr, sono le migliori del mondo, e le nostre sovrintendenze hanno grandi tradizioni. Se l’Europa ci inviasse un forte pacchetto di finanziamenti, noi potremmo impegnarci a restituire un servizio di altissimo livello nella manutenzione e nel restauro dei be-

ni culturali. In Italia c’è qualità e storia per riuscire a dar vita ad una sorta di Ena in questo settore. Un grande centro di ricerca e di formazione che si occupi ad altissimo livello dei beni culturali dell’Unione europea. La seconda proposta che mi sento di fare per salvare monumenti e paesaggi è di riprendere una istituzione francese che si chiama «il demanio del litorale». Quando si avverte un’eccessiva pressione turistica sulle marine, si interviene rendendo pubblici chilometri e chilometri di coste, interi golfi, isole. Un simile strumento è stato molto usato in Bretagna e in Normandia. E, chiunque frequenti queste regioni, sa che sono state mantenute in un buon stato di conservazione. Così facendo è nato un nuovo tipo di demanio, molto diverso naturalmente da quello militare. Un demanio che ha consentito di evitare la cementificazione a scopo turistico di una parte importante del paesaggio costiero francese. In Italia, i nostri litorali sono invece quasi totalmente occupati da villaggi, alberghi, villette a schiera. Ma lo schema francese può essere usato non solo per le marine: si potrebbe, ad esempio, studiare una sua applicazione nei pressi dei fiumi evitando così quella cementificazione che è una delle cause principali del disastro veneto.

Una terza proposta che avanzo è quella di prendere esempio dalle politiche di acquisizione di grandi tenute, di manieri, di importanti monumenti portata avanti dal Fai. Si tratta di quelli di proprietà di antiche famiglie che non hanno più i soldi per sostenere le enormi spese di manutenzione e che il Fondo per l’ambiente li acquista per cifre molto inferiori ai valori di mercato, li restaura e li restituisce al godimento della collettività. Se da una parte occorre restaurare e valorizzare, dall’altra è indispensabile impedire che si facciano nuovi scempi. A questo proposito chiedo al ministro de Beni culturali che prenda una posizione forte e chiara contro la costruzione di un gigantesco impianto eolico nei pressi di una delle più belle aree archeologiche del Sud: Saepinum, un magnifico sito molisano. Per ben tre volte un giudice ha sentenziato che in quel caso debba prevalere sulla bellezza e il valore storico del monumento, l’interesse a favorire iniziative produttive: un orientamento opposto a quello della Corte Costituzione. Sandro Bondi si muova subito. Dica un no fermo. Si batta per salvare Saepinum, ne acquisirà grande merito.

razioni di Umberto Bossi, è di nuovo esplosa dopo il vertice romano tra il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti e il governatore veneto Luca Zaia. Quel miliardo di euro richiesto si è ridotto a soli trecento milioni, con la promessa di ulteriori interventi da parte del governo e dell’Europa. Secondo lo stesso Bertolaso, nella relazione fatta alla Camera, «sarebbero 500 i milioni di euro da destinare al Veneto per i danni causati dal maltempo, in base a una prima stima sommaria, eseguita dalle strutture della Regione e pervenuta al Dipartimento. Ha anche aggiunto di temere «altre alluvioni, perché il territorio italiano è un malato cronico per il quale dopo ogni crisi si adottano scelte non adatte».

Forse il paragone potrà sembrare irriverente, ma più passano i giorni, più si riguarda fotogramma dopo fotogramma la visita del nostro a Padova al fianco di Silvio Berlusconi e più la mente corre al Napoleone manzoniano passato dagli altari alla polvere. L’uomo delle emergenze va via proprio mentre l’Italia è in ginocchio e nel momento in cui il governo e il suo premier stanno subendo un calo di popolarità senza precedenti. I destini di Guido Bertolaso e Silvio Berlusconi corrono paralleli e se fino a qualche tempo fa erano in prima linea a gestire l’emergenza rifiuti e a ricevere gli applausi dei napoletani, a soccorrere i terremotati aquilani e a consegnare loro le case, oggi sono accolti dai fischi dei veneti arrabbiati per un governo che sentono lontano. E che soltanto martedì scorso, dopo giorni di colpevole assenza giustificati nei modi più disparati dal Cavaliere e dal Senatur, ha fatto la sua apparizione. Nel «grazie Guido», pronunciato da Silvio Berlusconi in conferenza stampa, annunciando il pensionamento del capo della Protezione civile c’era una vena malinconica per un capitolo del berlusconismo che si chiude. Bertolaso fu chiamato a dirigere la Protezione civile nel 2001 proprio da Berlusconi, ma ha cominciato a frequentare le stanze dei Palazzi già nel 1990, quando l’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti lo nominò direttore generale. Lui figlio del generale dell’Aeronautica Giorgio Bertolaso, primo collaudatore del cacciabombardiere l’F104, nato a Roma nel


politica

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Fiumi straripati e paesi isolati nel salernitano

Il maltempo ora fa danni in Campania di Gualtiero Lami

ROMA. Il maltempo non è federalista e non dà

SALERNO 2010 1950, dopo una laurea con lode in medicina e una specializzazione in malattie tropicali partì per l’Africa. Dopo qualche anno è in Thailandia, in un ospedale della cooperazione italiana per profughi cambogiani, prima di ritornare a Roma alla Farnesina.

NAPOLI - 2010

L’AQUILA - 2009

LA MADDALENA - 2009

IL G8 - 2009

Da quel momento inizia la sua carriera bipartisan. Particolare che ha sempre vantato: «Ho diretto la Protezione civile sia con Berlusconi, sia con Prodi». Nel 1996 Francesco Rutelli, sindaco di Roma, lo incaricò dell’apertura dell’ospedale Spallanzani, e subito dopo Romano Prodì lo chiama per la prima volta a dirigere la Protezione civile nel biennio 1996-1997. Nel 1998 il premier Massimo D’Alema lo mette a capo del Servizio civile. Nel 2000 è la volta del Giubileo e il 7 febbraio 2001 l’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato lo porta alla guida della Protezione civile, ruolo nel quale viene confermato da Silvio Berlusconi e che oggi lascia. In questi anni è stato sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega all’emergenza rifiuti in Campania, commissario straordinario per il terremoto de L’Aquila, i vulcani delle Eolie, le aree marittime di Lampedusa, la bonifica del relitto della Haven il rischio bionucleare, i mondiali di ciclismo, la presidenza del G8 del 2009, l’area archeologica ro-

mana. E ancora ha gestito una serie di “grandi eventi”.

Sempre in prima linea e senza mai dismettere la sua felpa blu, spesso ostentata anche in cerimonie ufficiali, è diventata un simbolo del personaggio alla stregua del pullover blu dell’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne. Un personaggio a volte scomodo e poco “politico”che ha a volte è arrivato a presentare le dimissioni come nel 2007 da commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania, in contrasto con l’allora ministro per l’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, respinte da Prodi. Un’azione ripetuta quest’anno dopo aver ricevuto un avviso di garanzia per corruzione nell’ambito di un’inchiesta sui lavori del G8 alla Maddalena. E anche in questo caso respinte, questa volta da Berlusconi. Senza dimenticare l’incidente diplomatico con gli Usa per le sue critiche all’organizzazione degli aiuti dopo il terremoto di Haiti. Da oggi la felpa blu di Bertolaso è attaccata al chiodo. Berlusconi gli ha promesso di trovare «una forma di collaborazione che ci consentirà di utilizzare la sua esperienza, le sue capacità decisionali e organizzative». Ma c’è chi nel suo futuro vede l’India, in una struttura sanitaria, alla ricerca di se stesso. Dall’alto: l’alluvione di ieri in Campania; cumuli di rifiuti a Napoli; il sisma che ha colpito L’Aquila; il centro congressi della Maddalena, simbolo dello scandalo che ha colpito il clan Bertolaso; la foto ufficiale del G8 all’Aquila

tregua all’Italia al Nord come al Sud. Ieri, le piogge torrenziali si sono spostate nel Salernitano. I fiumi Teglio, Tanagro, Sarno e Solofrana sono straripati allagando ampie zone della piana tra Eboli e Borgocariglia. Già nella mattina di ieri c’erano stati centinaia di interventi dei vigili del fuoco, che hanno soccorso molte persone con l’utilizzo di mezzi anfibi. Inviate in supporto anche squadre da Napoli e Caserta. Gli altri Comuni colpiti sono San Rufo, Sala Consilina, Polla, Sant’Arsenio Padula, Buonabitacolo e Laviano dove sono state evacuate circa 300 persone da edifici a rischio. In tutto il territorio sono caduti in media nelle ultime 72 ore circa 200 millimetri di pioggia, ma nella Piana del Sele sono stati raggiunti i 250300 millimetri. In particolare, tre persone sono state salvate dai pompieri dopo che erano stati travolti dalla furia delle acque del Sele. I tre allevatori avevano messo in salvo una bufala a Ponte Barizzo di Capaccio (Salerno), nei pressi della statale 18, ma il mezzo di fortuna con il quale avevano salvato l’animale si è capovolto. I due sono stati ritrovati aggrappati ai canneti che costeggiano il fiume Sele. L’animale, invece, è stato inghiottita dalle acque. Annegato anche un intero gregge di pecore. Secondo le prime stime della Coldiretti, sono almeno 3 mila gli ettari allagati nella Piana del Sele dove si stimano già danni per decine di milioni di euro. Molti disagi alla circolazione per la chiusura di alcune strade. Forti piogge ci sono state anche nel Beneventano. A Foiano di Valfortore una donna è rimasta bloccata dentro la sua abitazione ed è stata messa in salvo dall’immediato intervento dei carabinieri. A San Bartolomeo in Galdo il fango che ha invaso una strada ha bloccato una trentina di auto e un autobus di linea carico di studenti, per cui si è reso necessario l’intervento di alcune ruspe per sgomberare il fondo stradale. A San Marco dei Cavoti e a Reino il fango ha bloccato tre famiglie, che solo dopo molti sforzi per rimuovere un muro di fango e detriti sono state liberate dalle loro abitazioni.

Intanto continuano le polemiche per l’alluvione in Veneto. Negli stessi momenti in cui era in corso il vertice tra il governatore del Veneto Luca Zaia, i presidenti delle province venete, il capo della Protezione civile Guido Bertolaso e il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli, il ministro per le Politiche agricole ed ex governatore del Veneto, Giancarlo Galan, ha criticato i suoi concittadini veneti accusandoli di «eccessivo piagnisteo: non sono soli e non lo sono mai stati. Occorre procedere senza isterismi, valutare i danni senza dire cose che non hanno senso», riferendosi al minacciato sciopero fiscale se non arriveranno i fondi per l’alluvione. A questo proposito c’è da chiedersi se i trecentomilioni promessi ieri dal governo basteranno a tacitare le proteste dei veneti. Infatti, contro il miliardo chiesto ai quattro venti dal governatore Zaia, il vertice governativo ha dato via libera «solo» a trecento milioni di euro, benché il premier abbia spiegato che per le popolazioni alluvionate «ci sarà la sospensione dei rate dei mutui mentre l’Abi ha deciso lo stanziamento di 700 milioni di euro attraverso prestiti alle famiglie e alle imprese».


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n un paese come il Giappone che domina tecnologicamente nel mondo e rappresenta il simbolo del progresso scientifico e sociale, è inevitabile che in un modo o nell’altro si continui a proteggere e nutrire quel poco di tradizionale che è rimasto e che non è stato intaccato dal colonialismo americano; icone romanzesche come i samurai e le geishe, il sumo e i ciliegi in fiore, e non ultima la scrittura, chiamata kanji. Ma è veramente così?

I

I kanji sono i caratteri di origine cinese, usati nella scrittura giapponese. Basati su più antichi ideogrammi, vengono impiegati in congiunzione con i sillabari hiragana e katakana (che costituiscono la scrittura autoctona fonetica, detta kana). Una volta introdotti in Giappone apportarono decisi mutamenti alla lingua, sino a quel momento sostanzialmente semplice. Sembra che nell’antichità, non esistessero libri o scritture di elevato contenuto culturale, per cui gli unici scritti a cui potevano avere accesso i più dotti erano scritti cinesi. Si decise poco alla volta, quindi, di introdurre i caratteri cinesi per ampliare il parco culturale della famiglia Reale, ma con la differenza che questi venivano adattati alla già esistente pronuncia del vocabolario. Per cui gli stessi kanji li ritroviamo anche nel molto più vasto vocabolario cinese e con significati approssimativamente simili ma con pronuncia completamente differente (la pronuncia giapponese è sillabica e per molti versi più simile all’italiano). Inoltre, la scrittura in kanji era appannaggio unico degli uomini, mentre alle donne fu concesso di scrivere solamente in hiragana e katakana. Ovviamente questo portò ad abbinare il concetto di conoscenza e cultura a chi si poteva permettere di imparare la scrittura. È evidente che, a quei tempi, solo le famiglie ricche e della stirpe dell’Imperatore potevano giovarsene; di conseguenza, la scrittura divenne un metodo per riconoscere il ceto sociale di un giapponese. Il numero totale di kanji esistenti dovrebbe essere compreso all’incirca tra i 45000 e i

Un tempo, la qualità della calligrafia veniva usata dagli uomini per scegliere la donna da sposare nei matrimoni combinati. Anche senza essersi mai incontrati... 50000, ma di questi solo i 1945 kanji di uso comune e i 293 per i nomi propri, possono essere utilizzati per la stampa. Nel caso si utilizzi un kanji tradizionale non presente fra questi, si è soliti suggerirne la pronuncia con dei piccoli hiragana, chiamati furigana. Il fatto che esista un numero preciso di kanji utilizzabili per la stampa dimostra l’intenzione, in passato, di cancellare gradualmente l’uso degli stessi, sostituendoli con i kana (alfabeti sillabici). Dopo la Seconda guerra mondiale, infatti, si tentò di occidentalizzare il Giappone anche sotto questo aspetto: la lista dei kanji per la stampa partiva originariamente da soli 1850 caratteri, i toyo kanji approvati nel 1946. L’uso degli ideogrammi, però, resistette, per via delle peculiarità stesse della lingua giapponese e dell’insistenza del governo che vedeva in questo il rischio di cancellare completamente le radici culturali del paese. Non solo, ma la ricchezza di omofoni della lingua avrebbe reso la comprensione dello

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È stato il sistema di scrittura adottato dall’antico Giappone, ma l’occidentalizz

Se l’ideogramm

Non è semplicemente un suono, ma una vera e propria ideologia che ha il compito di veicolare le emozioni

di Igor Sciarrino scritto molto più ostica rispetto a quanto lo sia con il sistema attualmente in uso. Per ciò venne concesso di usare la sillabazione in caratteri romani dei kana, per aiutare i giovani a imparare la scrittura con più facilità. Attualmente è il sistema utilizzato per la scrittura con i computer. Per cui la scrittura è uno dei pochi legami tangibili e immodificabili con la storia di questo popolo e oltre a un utilizzo espressivo mantiene un fascino artistico, un legame con le tradizioni e la religione estremamente eterogenea del paese. Il Kanji non rappresenta solamente un suono, ma un’ideologia che permette con pochi ideogrammi di comunicare intere emozioni. Un ideogramma può proteggerti dai demoni o portarti fortuna a un esame (amuleto chiamato o-mamori).

Un tempo, la qualità della calligrafia veniva utilizzata dagli uomini per selezionare la donna da sposare, nei matrimoni combinati, anche senza essersi mai incontrati. E non era raro che uomini ricchi e di bell’aspetto che sposavano una donna solo per la sua bella calligrafia, scoprivano troppo tardi che era in realtà una donna bruttissima. Nelle favole come nei racconti del terrore, un kanji dipinto su un pezzo di tela ed affisso a una porta di casa, difende le vittime dai demoni o permette a stregoni di combattersi a colpi di scritture magiche. La scrittura influenza gran parte della vita dei giapponesi, anche in campi che noi occidentali non possiamo immaginare o apprezzare a fondo, per via del nostro alfabeto limitato. Ad esempio nei fumetti, le onomatopee non rappresentano solo un suono, ma fanno parte integrante del disegno e connettono tra loro le vignette. E

lo Shodo ne rappresenta il lato creativo ed artistico. Lo Shodo, l’arte giapponese della calligrafia, è basato su cinque stili principali e ha ispirato altre forme d’arte giapponesi, come ad esempio il sumi-e, uno stile di pittura che impiega, come la scrittura, l’inchiostro di china e che rappresenterebbe l’antenato dell’attuale tecnica del fumetto giapponese.

Una frase, una poesia che con alcuni tocchi ragionati di pennello ci offre l’emozione di un paesaggio vibrante. I tratti prendono vita seguendo il racconto, che può essere felice o triste, comico o drammatico. A volte le scritte prendono la forma dei personaggi delle storie narrate seguendo un cerchio chiuso che porta inevitabilmente a percepire l’opera come un dipinto. Lo Shodo è molto importante per la fine dell’anno: un artista, durante una cerimonia ufficiale, scrive su una grande tela il Kanji scelto dal governo a rappresentare l’anno venturo, come atto di impegno e porta fortuna. Inoltre è usanza inviare una cartolina di auguri differente per ogni conoscente o familiare, e un tempo si Nella foto grande, alcune insegne per le strade di Tokio, con alcuni “kanji” in evidenza. Qui sopra,l’artista Koka Yamanishi, mentre prapara un’opera per una mostra di Shodo (in alto, e in basso, nella pagina a fianco)


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zazione del Paese ne ha impoverito la ricchezza creativa. Oggi è quasi estinto

ma fa harakiri

I giovani nipponici scrivono per lo più sms e mail piene di ”faccine”: la bella grafia ormai non serve più

Dopo la Seconda guerra mondiale si tentò di occidentalizzare anche l’alfabeto: la lista dei tipi per la stampa era di soli 1850 elementi, i “toyo kanji”del 1946 usava scriverle a mano una per una. Questa tradizione ha resistito fino ai giorni d’oggi, anche se modificata nella forma (adesso si usano i pc), ma è una delle motivazioni per cui alcuni hanno incominciato a studiare seriamente lo Shodo, come ci conferma l’artista giapponese Koka Yamanishi, allieva del maestro Taigen Mochizuki. «Scrivere una cartolina di fine anno, è un modo molto personale e diretto per inviare i propri auguri, e scriverla a mano dimostra interesse ed affetto, creando un legame con la persona che la riceve. Ovviamente non manca un pizzico di vanità, esibendo la bellezza della propria calligrafia, perché questa raffigura il grado culturale e le doti personali dello scrittore: in pratica l’abito fa il monaco». «Il piacere nello scrivere bene», continua Yamanishi, «porta spesso al voler misurarsi anche in stili e forme più complesse, e magari presentare i propri lavori a concorsi ed esposizioni. Poi si incomincia a vincere qualche premio e il semplice interesse diviene arte e professione».

Ma un occidentale come noi si potrebbe chiedere quale sia il nesso fra pennellata e significato del kanji, o quale sia più importante tra le due, ma non c’è una netta separazione tra questi. «Il significato è collegato alla forma, e si equilibrano tra di loro. Le basi della calligrafia si fondano

sul contrasto del bianco e nero, sullo spessore della linea e sulla pressione esercitata dal pennello, che include il modo con cui si inizia e si conclude il tratto». Per cui linee leggere per parole delicate, e linee forti per frasi dure. O ad esempio, l’ideogramma della tigre tenderà ad avere una forma felina. Ma un grande pregio dello Shodo, e lo stesso che ha dato anche a Yamanishi la voglia di proseguire con

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questa forma d’arte, è che «quando scrivi, la testa si libera da tutt’altro, e ti concentri su quello che è di fronte. Questa concentrazione ed equilibrio mentale li porti con te anche in altre mansioni giornaliere della propria vita». Il Giappone si trova nel fulcro di cambiamenti epocali in campo socio-economico, e le mode si susseguono a colpi di spazzola mentre i nipponici nonostante il portafoglio vuoto, non si tolgono le loro piccole e costose abitudini ed hobby, senza rendersi conto che dal periodo delle così dette bolle degli anni 90, non ne sono ancora usciti. In questo mondo in continua espansione, alcuni costumi restano invariati e trovano posto perfino tra i giovani; revival di mode del passato come lo Shodo Performance Koshien, un’esibizione di calligrafia di gruppo, in cui delle giovani studentesse scrivono danzando testi di canzoni famose, con enormi pennelli su un pavimento di carta lungo diversi metri, e il tutto accompagnato da musica J-Pop (musica popolare giapponese) e di fronte a un folto pubblico. È una moda iniziata dieci anni fa, adesso di portata nazionale tanto da ispirare un fumetto e un film.

Tutto questo è fortemente in contrasto con l’ignoranza dilagante del giovane popolo nipponico, che ha smesso di leggere e scrivere, e preferisce digitare pochi messaggi confusi sulle tastiere dei computer e dei telefonini. E sono proprio quest’ultimi una delle cause della generale ignoranza giovanile, poiché l’alta tecnologia in essi contenuta aiuta fin troppo l’utente. Basta scrivere una parola in alfabeto ed ecco che il telefonino trova subito il giusto kanji al posto nostro, e non solo; non c’è più bisogno di utilizzare i kanji, grazie al grande utilizzo degli e-moji, piccole icone colorate e animate che rappresentano una moltitudine di messaggi ed emozioni. Per cui uso, ad esempio, una nuvoletta per dire che sono triste, o una faccina sorridente per dire che sono felice. Nei telefonini giapponesi di queste icone ce ne sono a migliaia, e non è cosa rara vedersi arrivare un messaggio con solo due parole e venti faccine. Insomma ancora una volta la tecnologia aiuta fin troppo l’utente, rendendolo schiavo persino dei propri giocattoli. Un altro sintomo si manifesta nel cinema. La maggior parte dei film vengono proiettati in lingua originale con sottotitoli in giapponese. Eppure negli ultimi anni è avvenuto un profondo degrado nella qualità delle traduzioni dei sottotitoli. La gran parte delle persone non era in grado di leggere i kanji scritti, per cui si è lentamente arrivati ad avere sottotitoli con traduzioni completamente differenti rispetto all’originale, portando spesso a una comprensione errata del film. Proprio per questo ci si sta avvicinando sempre di più al doppiaggio totale di film recenti, soprattutto se destinati a un pubblico giovane. Nonostante questo c’è qualcuno che difende quest’onda telematica, arrivando persino ad ipotizzare che come l’introduzione dell’alfabeto romano nel dopoguerra, anche emoji, icone ed avatar rappresentino una nuova forma di linguaggio, un’evoluzione degli ideogrammi giapponesi, alla stessa stregua di come lo furono i primi ideogrammi centinaia di anni fa, quando ancora i giapponesi disegnavano sui muri. Eppure mi fa paura l’idea che se un giorno tutti i telefonini del Giappone smettessero di funzionare, ai giovani impiegati toccherà andare a prendere lezioni di pittura per poter dire alla propria moglie che tornano a casa tardi per cena.


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mondo

Eccidi. Ennesimo attacco ieri contro i caldei: al Qaeda uccide sei cattolici con tecniche da guerriglia. A Lahore una donna condannata a morte per blasfemia

Il silenzio sugli innocenti Dall’Iraq al Pakistan, continua la strage dei cristiani Nella quasi totale indifferenza della comunità mondiale di Osvaldo Baldacci e organizzazioni internazionali hanno recentemente riconfermato che il 75 per cento delle vittime di persecuzioni nel mondo sono cristiane. E l’attualità non fa che consolidare quotidianamente questo tragico dato. Quello che più sconvolge però è l’indifferenza in cui questo avviene. La mancanza di reazioni ferme e costanti, che vadano al di là di qualche raffazzonata dichiarazione in prossimità degli eventi che hanno fatto più audience. Per spengere poi la tv e dimenticare tutto. Dall’Iraq al Pakistan all’India e così via. Sono passati pochi giorni dalla strage di cristiani nella cattedrale di Baghdad, e già non ci si pensa più, ma intanto da quel giorno le cose non sono certo migliorate, anzi.

L

Sì, formalmente il governo iracheno ha messo delle guardie alle chiese durante le funzioni. Ma da allora un comunicato ufficiale di al Qaeda ha dichiarato i cristiani bersagli legittimi di ogni attacco, e nel mondo arabo-islamico che certo non condivide questa impostazione le voci di indignazione sono però state molto flebili. Alle parole i terroristi hanno subito fatto seguire i fatti, con una serie di attentati compiuti addirittura casa per casa tra martedì e mercoledì. Almeno tredici bombe artigianali e due colpi di mortaio sono esplosi contro abitazioni di cristiani in varie zone di Baghdad, provocando la morte di almeno 6 persone e il ferimento di decine

Viaggio nel cuore dell’India, teatro del peggior pogrom dell’ultimo decennio

E in Orissa la persecuzione colpisce anche i disabili di Nirmala Carvalho

DELHI. Cristiani perseguitati, cacciati persino dai negozi, lasciati soli a morire se hanno bisogno di essere portati in auto in ospedale. È la realtà “quotidiana”nel Kandhamal, regione ormai senza legge e insicura, descritta nel rapporto pubblicato l’8 novembre da un gruppo di attivisti. Ma le autorità dello Stato dell’Orissa ripetono che ora tutto è “normale”, dopo le violente persecuzioni degli ultimi anni che hanno ucciso numerosi cristiani e costretto decine di migliaia a fuggire da casa. Il Gruppo per l’Accertamento dei Fatti - che ha stilato il rapporto - è composto da 4 eminenti attivisti per i diritti umani: il leader tribale e avvocato Nicholas Barla, l’avvocato fratello Marcus, l’attivista dalit Jugal Kishore Ranjit e l’attivista Ajay Kumar Singh. Il 5 novembre hanno visitato 4 villaggi del distretto del Kandhamal, ognuno dei quali ha una stazione di polizia, per verificare se è vero che i cristiani subiscono un boicottaggio sociale ed economico.Nel villaggio di Gadaguda (giurisdizione della stazione di polizia di G.Udayagiri, città di Tikabali) nell’agosto 2008 sono esplose le violenze anticristiane durate circa 2 mesi, una anziana coppia è stata bruciata viva e numerosi cristiani feriti e le loro abitazioni devastate. Alcuni ancora vivono in tende. Al Gruppo è stato riferito che nel villaggio Dakanaju ai cristiani è proibito prendere l’acqua dal pozzo pubblico. Il Sarpanch (capo eletto) di Gadaguda, Sachindra Pradhan, ha loro risposto che “non era a conoscenza”del problema e ha promesso di informarsi e riferire. Gadaguda è un piccolo centro, dove abitano poche centinaia di famiglie. Nel villaggio di Bodimunda, poli

zia di Tikabali, ci sono ancora edifici e case distrutte, segno evidente delle violenze anticristiane. Prima del villaggio hanno incontrato la casa di un pastore cristiano, rimasta intatta in mezzo ad altre distrutte. Il pastore – il cui nome non è stato qui riportato per sua tutela – li ha ricevuti con cortesia ma con evidente preoccupazione e ha raccontato di essere stato costretto a diventare indù per salvare l’anziana madre, che per l’età non poteva fuggire via durante le violenze di piazza.

Dopo pochi minuti, sono arrivati i membri del Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), gruppo nazionalista indù collegato con i violenti fondamentalisti del Sangh Parivar. Costoro hanno chiesto al Gruppo chi fossero e il pastore ha subito risposto che erano funzionari di banca conoscenti di un suo parente che lavora in banca. Subito dopo, il Gruppo ha lasciato la casa.Bamadev Pradhan, cristiano tribale, vive nella sua casa dal pavimento di terra, è stato colpito da una paralisi e non può camminare. I familiari hanno raccontato che quando ha avuto una grave febbre, hanno cercato un veicolo per portarlo all’ospedale di Tikabali, distante circa 8 km. Ma nessuno era disponibile e hanno quasi dovuto costringere un cristiano, che aveva un’auto e l’affittava, a portare il paralitico. Al ritorno, l’auto è stata fermata e portata via da seguaci del Rss. Il proprietario ha potuto riaverla solo pagando una multa di 1.051 rupie e promettendo che non avrebbe più trasportato cristiani. Il proprietario del veicolo lo ha poi confermato e ha aggiunto che ha dovuto pagare la “multa” nonostante si fosse rivolto alla polizia per avere aiuto. Dopo pochi minuti dall’arrivo del Gruppo, è entrato Jesaya Nayak, un residente, che ha chiesto loro di andare via perché la situazione era “volatile”. Da informazioni assunte, risulta che nel villaggio seguaci del Rss hanno proibito a chiunque ha un veicolo di portare cristiani, anche se malati.Presso un’altra abitazione era riunito un gruppo di cristiani, che hanno raccontato di essere «in una situazione di ansia. Chi poteva ha lasciato il villaggio, noi poveri siamo dovuti rimanere. Siamo preoccupati perché amministrazione e polizia sono collegati con l’Rss».

di cristiani. Gli attentati hanno preso di mira anche una chiesa, che è rimasta danneggiata. È del tutto evidente come un attacco di questo tipo, sparso sul territorio con la capacità di individuare una specie di liste di proscrizione, è persino più preoccupante di un’azione spettacolare contro una chiesa. Certo, proprio martedì il premier iracheno uscente e probabilmente rientrante, Nuri al Maliki, aveva esortato i suoi connazionali cristiani a non abbandonare il Paese, parlando nel corso di un discorso alla chiesa siro-cattolica di Sayidat al-Najat (Nostra Signora della Salvezza in arabo), teatro del massacro compiuto da al Qaeda: «Chiediamo che non ci sia un’emigrazione (dei cristiani) e che non torni a ripetersi: faremo il possibile perché rimanga completo e unito il ramo di fiori delle comunità irachene».

Ma grida dolore e diffidenza monsignor Atanase Matti Shaba Matoka, arcivescovo sirocattolico di Baghdad. Il presule denuncia che «nonostante i proclami, il governo non fa nulla per fermare quest’ondata di violenza che ci travolge». L’appello è sempre lo stesso: possibile che la comunità internazionale non faccia nulla? Sulla stessa linea il cardinale Emmanuel Delly III, la più alta autorità cristiana in Iraq: «A Baghdad stanno dando la caccia ai cristiani quartiere per quartiere». Stando ai dati della ong tedesca The Society for Threatened Peoples, più di tre quarti degli originari 400mila cristiani di Baghdad hanno lasciato la capitale irachena dal 2003. Molti di coloro che sono rimasti evitano di frequentare la messa o di mandare i loro figli nelle scuole cristiane. Dieci


mondo

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Più di 6500 indonesiani riuniti per ascoltare il discorso del leader americano

Mentre Obama chiede pace ai musulmani

Parlando nella più grande moschea del sud-est asiatico, il presidente nega che gli Usa siano in guerra con l’islam di Antonio Picasso asta con l’idea che gli Usa siano in guerra contro l’islam!» Il presidente Usa, Barack Obama, aveva bisogno di tornare nel Paese della sua adolescenza per ritrovare l’energia retorica che lo ha sempre contraddistinto; arma con cui ha conquistato la Casa Bianca. Dopo la batosta delle midterm election, Obama era alla ricerca di un rilancio di immagine, almeno sul piano internazionale e nella trattazione di quelle grandi tematiche sulle quale ha impostato il proprio appeal. I presupposti politici sono apparsi fin da subito del resto in suo favore. A Jakarta, è come se Obama avesse giocato in casa, o comunque su un campo di gioco a lui nettamente favorevole. La folla era quelle della grandi occasioni: 6.500 persone venute ad ascoltare quel presidente Usa che gli indonesiani considerano un loro concittadino. L’Indonesia non si è dimenticata di averlo accolto quand’era ragazzo. Oggi, questa nazione dai mille volti, è il Paese islamico più popoloso del mondo (250 milioni di abitanti, di cui l’86% è musulmano) e sta affrontando la crisi finanziaria nel modo più virtuoso possibile, se paragonato alle difficoltà che caratterizzano il contesto regionale. Agli occhi di Washington, il governo di Jakarta deve rappresentare un esempio di produttività economica, democrazia e tolleranza religiosa, di fronte a tutti i suoi partner musulmani e non. Il motto del governo di Jakarta è “Uniti nelle diversità”e, ispirato da questo adagio di tolleranza, fuori dal comune per i parametri dell’Asia, ha saputo costruirsi una propria identità democratica e di libertà. Il presidente Usa ha preferito, tuttavia, concentrare le sue carte di retorica sulla questione religiosa. Ha pronunciato il suo discorso nell’università di Jakarta, proprio di fronte alla moschea più grande di tutto il sud est asiatico. Qui ha spazzato via con un colpo solo la questione del clash of civilization, elemento di ispirazione del suo predecessore alla guida del Paese. Ed è curioso che, proprio in questi giorni, esca nelle librerie Decision points, la prima biografia dell’ex presidente George W. Bush jr. Non si può escludere che Obama abbia risposto per le rime a quest’ultimo. Perché se Bush perseguiva una lotta senza frontiere contro il terrorismo di al Qaeda, oggi l’amministrazione democratica è portata a un franco ed esplicito dialogo con tutte le realtà musulmane. «Il terrorismo jihadista è il frutto di una non religione», ha comunque sottolineato Obama. «Gli Usa, però, per sconfiggere questo nemico hanno bisogno dell’aiuto di tutti i Paesi musulmani». Sulla base di queste dichiarazione, il discorso di ieri è stato paragonato a quello tenuto da Obama all’università islamica di al-Azhar del Cairo, ormai un anno e mezzo fa. Effettivamente i punti in comune ci sono. Anzi, per alcuni aspetti le parole di ieri possono rappre-

«B

giorni fa la cattedrale siro-cattolica di Baghdad era stata presa d’assalto durante la messa domenicale da un commando di terroristi, che aveva poi causato la morte di 46 civili, tra cui tre preti, e di sette membri delle forze di sicurezza.

Ma i cristiani non sono perseguitati solo dai terroristi e non solo in Iraq. Nel Punjab pakistano una donna cristiana è stata condannata a morte per blasfemia. Operaia agricola di 37 anni e madre di due bambini, la donna è stata giudicata dal tribunale colpevole di bla-

meno 964 persone sono state incriminate per aver profanato il Corano o diffamato il profeta Maometto. Fra questi 479 erano musulmani, 119 cristiani, 340 ahmadi, 14 indù e altri 10 di altre religioni. Per queste condanne è spesso sufficiente il sospetto, o il non ossequio, o comunque la denuncia. La legge sulla blasfemia costituisce anche un pretesto per attacchi, vendette personali o omicidi extra-giudiziali: 33 in tutto, compiuti da singoli o folle inferocite. Intanto due soldati in Congo hanno “giustiziato” un parroco cattoli-

La maggior parte della comunità è scappata: dall’inizio della guerra, sono rimaste poche migliaia di persone a fronte degli oltre 400mila cattolici che vivevano nel Paese. E il governo non interviene sfemia, commessa di fronte ad alcuni colleghi di lavoro. Alcune delle donne che lavoravano con lei cercavano di convincerla a rinunciare al cristianesimo e a convertirsi all’islam, o secondo un’altra versione l’hanno offesa dicendo che l’acqua di una cristiana è sporca. Durante la discussione, riferisce AsiaNews, lei ha risposto mettendo a confronto cristianesimo ed islam. Le musulmane si sono offese, e dopo averla picchiata l’hanno chiusa in una stanza, e infine denunciata per blasfemia su istigazione dei leader musulmani locali. È una sentenza choc, contornata da una multa equivalente a due anni e mezzo del suo stipendio. Un’altra donna cristiana è sotto processo per blasfemia a Lahore. Secondo i dati della Commissione nazionale di giustizia e pace della Chiesa cattolica, dal 1986 all’agosto del 2009 al-

co, mentre in India la Rashtriya Swayamsevak Sangh insieme al partito nazionalista Bjp vogliono proporre al governo di Jharkhand una legge per impedire ogni conversione dall’induismo, legge già in vigore in altri sette Stati. Mentre in Orissa (che ha cambiato il nome in Odisha) le ong denunciano che le persecuzioni anticristiane restano una realtà quotidiana: conversioni forzate, divieto di comprare merci nei negozi, esclusione dall’uso dei pozzi pubblici, fedeli costretti a vivere in case semidistrutte, altri lasciati soli a morire se hanno bisogno di essere portati in auto in ospedale. Proprio martedì il Vaticano all’Assemblea Generale dell’Interpol ha voluto ribadire esplicitamente che anche «le numerose forme di violenza cui sono sottoposte le comunità cristiane sono crimini da combattere».

sentare il terzo step della svolta compiuta da Washington per quanto riguarda i rapporti con l’Islam. Il primo passaggio si ebbe nel gennaio 2009, in occasione dell’insediamento di Obama alla presidenza. Già allora fu percepito un nuovo approccio al problema. Poi venne l’appuntamento del Cairo. Infine il discorso di Jakarta.

L’elemento nuovo è da rintracciare sul fronte politico. Obama non si è limitato a delineare grandi scenari, come avvenne nella capitale egiziana, per quanto riguarda il progetto della grande pace in Medio Oriente. Il presidente Usa ha toccato i nervi scoperti della

Il terrorismo jihadista «è il frutto di una non religione. Noi però, per sconfiggere questo nemico, abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti i Paesi islamici» politica di tutti i giorni. Elevando l’Indonesia a Paese esemplare per tutta l’Asia, si è rivolto ai governi di Pakistan e Afghanistan, dopo averlo già spiazzati con l’appoggio espresso in favore dell’India per l’ingresso di quest’ultima tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Parlare di democrazia in Asia può voler dire anche mandare un input ben chiaro alla Cina. E questo esula dal tema religioso che ha fatto da cardine all’intervento presidenziale in moschea. Del resto, era necessario lanciare un sasso nello stagno andando oltre il capitolo oslam. Oggi si apre a Seoul il G20. Obama è chiamato a confrontarsi con un governo di Pechino che non ha ancora elaborato l’attribuzione del Premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo, uno dei suoi migliori dissidenti. C’è da chiedersi se, dopo le coraggiose dichiarazioni di Jakarta, Obama Nobel per la pace anche lui, nel 2009 - sia capace di affrontare il regime cinese così come sta affrontando il problema musulmano.


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Politica. A due anni dalla crisi, il Paese abbatte il numero di disoccupati ngela Merkel governa ormai da oltre cinque anni la Germania e, grazie ai confortanti dati sulla crescita economica, ha più volte rivendicato il successo della propria iniziativa politica. Ha anche ricordato che appena due anni fa falliva la Banca americana Lehman Brothers e che in quei giorni aveva promesso che la Germania sarebbe uscita dalla crisi più forte di come ci era entrata. Sembrava essere una perversa sintesi di utopia, propaganda ed incoscienza, ma i dati, alla fine, le hanno dato ragione. Ha ereditato nel 2005, dopo sette anni di governo di socialdemocratici e verdi, ben cinque milioni di disoccupati - oggi sono tre milioni. La Germania vive, in conclusione, il miglior periodo di crescita economica dall’unificazione ad oggi. Nonostante tutto la Cancelliera tedesca continua a dover mediare tra i contrasti interni alla propria maggioranza, con sondaggi non sempre confortanti per il proprio governo e per il suo partito. A tutto questo si aggiungono le critiche dell’ala più conservatrice del centro-destra tedesco che, soprattutto sui temi dell’integrazione, ha letteralmente messo alle strette l’asse più moderato rappresentato dalla Merkel e dal Presidente della Repubblica Christian Wulff. La Cancelliera ha, infatti, sempre affermato che l’Unione deve proporsi come un partito moderno, aperto ed internazionale. L’attuale Presidente della Repubblica Christian Wulff, l’inverno scorso, quando era ancora Ministro-Presidente della Bassa Sassonia, nominò, tra i suoi ministri, una turca-tedesca di religione musulmana. L’ala conservatrice, rappresentata principalmente dal Presidente del Land della Baviera Horst Seehofer, non ha mai condiviso questa linea e non ha mai rinunciato ad agire di conseguenza come nel caso dell’elezione del Presidente Wulff, avvenuta soltanto alla terza

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La Germania cresce ma la Cdu si spacca

della Cdu-Csu, nella quale sono previste dure critiche alla Merkel ed alla sua guida considerata troppo poco sicura. Politica energetica, politica fiscale ed immigrazione saranno i temi caldi sui quali la Cancelliera dovrà difendere il suo governo e la sua leadership all’interno del partito.

In subbuglio l’ala conservatrice del partito, che chiede risposte su integrazione e islam

Tuttavia la vera resa dei conti avverrà nei prossimi mesi. In primavera ci saranno le elezioni regionali nel Baden-Württemberg, dove, da mesi, nella città di Stoccarda i cittadini manifestano contro la costruzione di una nuova stazione ferroviaria. Nonostante l’impopolarità del progetto, il governo nazionale continua a sostenerlo e stando ai sondaggi attuali, il centro destra rischia così di perdere un Land che è il terzo della Germania per popolazione ed estensione oltre che essere roccaforte storica del centro-destra. In autunno poi si voterà anche nel Land di Berlino. È qui che l’ala conservatrice aspetta al varco Angela Merkel. Al momento è impensabile che possa nascere un nuovo partito conservatore a destra della Cdu. La discussione resterà limitata all’interno del partito, ma è indubbio che anche in Germania cresce la voglia di una politica conservatrice che, soprattutto sull’immigrazione, si faccia interprete delle esigenze, e forse anche delle paure, di una parte della popolazione. Non è un caso che Roland Koch, già Presidente del Land dell’Assia ed ora Direttore Generale del gruppo industriale tedesco Bilfinger Berger, abbia scritto recentemente un libro dal titolo ineKonservativ. quivocabile: Con il sottotitolo: “Senza valori e principi non si costruisce uno Stato”. Un manifesto conservatore che vuole essere uno stimolo per la classe politica del centro-destra ed una proposta per la Cdu del futuro. In questo senso chi avrà sicuramente un ruolo fondamentale è l’attuale Ministro della Difesa Karl Theodor zu Guttenberg, vero astro nascente dei conservatori tedeschi. Del resto è uno dei pochi del governo Merkel che sin dall’inizio ha goduto di altissima popolarità e stima. Inoltre, sembra quasi avere anche l’“appoggio”, se così si può dire, della Faz, che ha recentemente pubblicato il suo discorso tenuto il 2 ottobre nell’ambito delle celebrazioni per la riunificazione e che è stato presentato come una sorta di contro-discorso a quello, discusso e criticato, di Christian Wulff. Insomma, la partita sul fronte conservatore tedesco è solo all’inizio.

di Ubaldo Villani-Lubelli

“caldo”dopo la pubblicazione del controverso libro dell’economista Thilo Sarrazin La Germania si autodistrugge, in cui l’autore ha lanciato il suo grido di allarme ad una società che a causa del crescente numero di immigrati musulmani, tra qualche decennio avrà quasi del tutto perso i suoi connotati tradizionali. Da parte sua Angela

La parte del leone la fa il ministro degli Esteri, 39 anni, considerato il vero astro nascente nella “destra” dei cristiano-democratici votazione, quando c’erano i numeri per poterlo eleggere già alla prima. Il momento di maggior conflitto è stato raggiunto il 3 ottobre scorso, nel giorno della festa della riunificazione della Germania. In quell’occasione il Presidente della Repubblica, affermando che «anche l’islam è parte della cultura tedesca», ha infiammato un dibattito già

Merkel, seppur criticando duramente le tesi di Sarrazin, è andata incontro all’ala conservatrice ed in occasione dell’ultimo incontro con i giovani della Cdu ha annunciato il fallimento del multiculturalismo e la necessità di nuove politiche per l’integrazione. Il prossimo scontro probabilmente avverrà alla fine di novembre con la Conferenza

La nuova formazione è di stampo nazionalista

Intanto nasce “la Libertà” Il tema dell’integrazione divide non solo il centro-destra tedesco, ma, possiamo dire, l’intera Germania – da destra a sinistra. Il caso Thilo Sarrazin ne è la dimostrazione. Un economista di sinistra che ha scritto un libro “contro”gli immigrati musulmani. Tuttavia è a destra che si avvertono maggiormente gli effetti dirompenti del dibattito. In piena polemica politica sull’integrazione, infatti, qualche giorno dopo l’uscita del libroscandalo dell’economista tedesco, il politico della Cdu René Stadtkewitz ha invitato a Berlino il discusso leader olandese di estrema destra Geert Wilders. In questo modo ha certamente ottenuto molto visibilità, ma anche l’espulsione immediata dal suo partito, la Cdu. René Stadtkewitz ha deciso così di

mettersi in proprio e, prima, a settembre, ha annunciato in una conferenza stampa la nascita del suo partito ed a fine ottobre ha organizzato, insieme ad altri cinquanta membri, il congresso fondativo del nuovo partito: “Die Freiheit/La Libertà”. Si tratta di un nuovo partito nazionalista, contro l’islamismo e l’islamizzazione della società tedesca. Die Freiheit vuole una radicale svolta nella politica di integrazione ed intende lottare contro l’ideologia islamista.

Si schiera dalla parte di Israele ed è contrario all’entrata nell’Unione Europea della Turchia. Il partito, a quanto sostiene René Stadtkewitz è già pronto a competere per le prossime elezioni nel Land di Berlino il prossimo 18 settembre 2011.


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11 novembre 2010 • pagina 17

Oltre 20mila persone richiamate, erano fuggite dopo le elezioni

I giovani in rivolta contro il nuovo sistema educativo

Birmania, rientrati dalla Thailandia tutti i profughi

Caos a Londra, gli studenti assaltano le sedi tories

RANGOON. Le autorità thailan-

LONDRA. La più grande mani-

desi dicono che tutti i ventimila profughi birmani riversatisi oltre il confine durante gli scontri nei giorni scorsi sarebbero tornati a casa. «La situazione è stata calma, senza nuovi scontri. Non ci sono più persone del Myanmar in Thailandia, dopo che gli ultimi settecento sono tornati a casa questa mattina» ha detto Samard Loyfar, governatore della provincia di Tak. Circa 20mila persone sono fuggite in Thailandia l’8 novembre scorso dopo scontri armati fra l’esercito birmano el’esercito democratico buddista Karen, in alcune aree prossime al confine vicine a Myawaddy. Nella zona sono presenti più di 30 gruppi armati a base etnica che rifiutano l’oppressione della giunta militare, che ha privato alcune aree anche del diritto di voto alle elezioni farsa del 7 novembre. Sporadici colpi d’arma da fuoco sono stati uditi anche più a sud, nella provincia di Kanchanaburi, hanno detto alcuni responsabili delle forze di sicurezza thailandesi. Circa 3500 profughi sono tornati in Myanmar da quest’area.

festazione studentesca in oltre un decennio nelle vie della capitale britannica provoca scontri con la polizia, disordini, violenze e arresti. Oltre 25 mila studenti e ricercatori hanno marciato nel centro di Londra per protestare contro il drastico aumento delle rette universitarie varato dal governo conservator-liberale guidato da David Cameron. Le rette, che erano intorno a 1000 sterline l’anno fino a dieci anni orsono e che Tony Blair portò a 3 mila, sono state aumentate fino a 9 mila sterline (quasi 11 mila euro) dall’attuale coalizione tra conservatori e liberaldemocratici, citando l’esigenza di tagliare i fondi pubblici all’istruzione

Nella zona di Mae Sot, sul confine, lavora dal 1989 la dottoressa Cynthia Maung, di etnia Karen. Ha lasciato il Myanmar in quell’anno, e da allora dirige

Mosca attacca l’atomica coreana Medvedev a Seoul: «Basta esperimenti nel Nord» di Massimo Ciullo l Presidente sudcoreano Lee Myung-bak e il suo omologo russo Dmitry Medvedev hanno raggiunto un accordo per un ulteriore sviluppo di una «cooperazione strategica» tra i due Paesi, che abbia come obiettivo principale quello di contenere le minacce alla sicurezza regionale, con particolare attenzione al programma nucleare della Corea del Nord. I due leader si sono anche accordati per «realizzazioni sostanziali» in diverse aree: commercio, investimenti, energia, risorse, infrastrutture e tecnologia d’avanguardia. Lee ha confermato pure che Seoul e Mosca adotteranno una linea comune per affrontare efficacemente le sfide globali come il cambiamento climatico, il terrorismo internazionale, il traffico di stupefacenti, la pirateria e i crimini informatici. Il Presidente sudcoreano ha sottolineato il considerevole sviluppo delle relazioni tra i due Paesi da quando, nel 1990, sono state ristabilite le relazioni diplomatiche. Il leader di Seul ha detto che la pietra miliare dei rapporti tra Corea del Sud e Russia è rappresentato dal trattato del 2008 che ha permesso un salto di qualità nelle relazioni bilaterali verso una partnership strategica. «Ci siamo accordati per cooperare strettamente per creare le condizioni di una ripresa dei colloqui con il sestetto», ha detto Lee in conferenza stampa, riferendosi ai negoziati con la Corea del Nord che impegnano i due Paesi della penisola, insieme a Usa, Russia, Cina e Giappone. Le trattative per il programma nucleare di Pyongyang si sono arenate da circa due anni, durante i quali il regime nordcoreano ha fatto di tutto per innalzare la tensione nell’area, continuando i suoi test missilistici e riattivando la centrale nucleare di Yan bon. L’escalation è continuata con le solite schermaglie tra le forze navali dei due Paesi, che ha portato all’affondamento di una nave sudcoreana il 26 marzo scorso, presumibilmente colpita da un sottomarino nordcoreano. Medvedev è arrivato a Seoul, dove oggi si apre il summit del G20, con tre giorni di anticipo, per una visita ufficiale. Il Presidente russo ha sotto-

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lineato l’importanza di un canale multilaterale sulla sicurezza, affermando che «la possibilità di un conflitto nel Nord Est asiatico e nella regione Asia-Pacifico» è ancora molto concreta. L’inquilino del Cremlino, al suo arrivo nella capitale sudcoreana, aveva lanciato un allarme proprio sul programma di armamenti nucleari messo in atto da Pyongyang.

In un’intervista, Medveved ha dichiarato che i progetti nucleari del regime del Nord «rappresentano una sfida sistematica al regime internazionale di non-proliferazione nucleare». E si è detto particolarmente preoccupato per le attività nucleari messe in atto dalla Corea del Nord nelle vicinanze dei confini russi: «È naturale che le ambizioni nucleari della Corea del Nord costituiscano per noi un campanello d’allarme. Non bisogna dimenticare che gli esperimenti nucleari della Corea del Nord avvengono a non più di 100 km dal nostro territorio». Come nel passato, Medvedev ha ribadito che lo stallo dei negoziati deve assolutamente essere superato solo per via diplomatica, escludendo per ora qualsiasi iniziativa di altra natura. Il Presidente russo ha sottolineato poi la diversità di trattamento, anche solo a livello di attenzione da parte della comunità internazionale, tra l’Iran e la Corea del Nord. Nonostante il regime iraniano sia «spesso oggetto di particolari attenzioni», ha detto Medvedev, «non posso non notare che Teheran a differenza di Pyongyang, non si è mai dichiarata una potenza nucleare, non ha mai testato missili nucleari, né ha mai minacciato di usarli». Le dichiarazioni del Presidente russo hanno anticipato le conclusioni di un rapporto delle Nazioni Unite dove si mette in evidenza la possibilità che la Corea del Nord abbia fornito tecnologia nucleare vietata alla Siria, all’Iran e a Myanmar. Il report sarà pubblicato solo nei prossimi giorni a causa della strenua opposizione della Cina, che ha cercato in tutti i modi di tutelare Paesi, suoi alleati, oggetto dell’indagine.

Le trattative per il programma nucleare di Pyongyang si sono arenate da circa due anni, e non sembrano voler ripartire

la clinina Mae Tao che si occupa di rifugiati, migranti e orfani insieme a 100 fra dottori, membri del personale paramedico e insegnanti. Accoglie persone di ogni etnia e religione . Fino a questo momento la clinica ha curato 150mila pazienti in questa zona di confine. Secondo Cynthia Maung, attualmente a Mae Sot «ci sono varie organizzazioni non governative che si occupano dei migranti, il cui numero varia da duemila fino a 40mila a seconda dei momenti. I birmani vorrebbero tornare a casa, ma ci sono confusione e ansia per quel che riguarda la sicurezza. Molti si chiedono quale potrebbe essere la loro vita, tornando a casa».

nell’ambito della controversa manovra per ridurre il deficit. Ciò significa che uno studente potrebbe accumulare un debito di circa 50mila euro per arrivare alla laurea. Il governo ha stabilito un programma per ottenere prestiti e restituire il denaro, con gli interessi, in proporzione al reddito che i laureati conseguono negli anni successivi al diploma.

Ma il sistema ha ricevuto ampie critiche da parte dei rappresentanti degli studenti e, in parlamento, da parte dell’opposizione laburista. Quella di oggi è la prima, grande dimostrazione di protesta. Decine di migliaia di partecipanti sono sfilati per ore pacificamente nel cuore di Londra, agitando cartelli con slogan contro l’aumento delle ”tuition fee”, come si chiamano qui le rette universitarie. Ma quando il corteo si è avvicinato al parlamento di Westminster, svariate centinaia di dimostranti, con passamontagna o fazzoletto sul volto, hanno cominciato a rompere vetrine e a danneggiare veicoli. Questo gruppo di dimostranti ha successivamente occupato l’ingresso e il tetto di Millbank Tower, un grattacielo di 120 piani in riva al Tamigi che ospitava il quartier generale dei Tories.


cultura

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Mostre. Alle Scuderie del Quirinale, fino al prossimo 16 gennaio, l’esposizione “I pittori del Risorgimento”: personaggi, battaglie e quotidianità dell’Unificazione

L’altro lato dell’Unità Non solo gloria o eroismo, ma affetti e palpitazioni delle guerre: Roma celebra la vita privata degli uomini e delle donne che fecero l’impresa di Massimo Tosti lecito domandarsi se fra un anno – quando le celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia volgeranno al termine – gli italiani avranno capito qualcosa di più di quel che è stato il Risorgimento, nel bene e nel male, nelle pagine di gloria cristallizzate nei libri di testo scolastici, e nelle zone d’ombra, tenute volutamente nascoste per un secolo e mezzo. La grande mostra – I pittori del Risorgimento – che le Scuderie del Quirinale ospiteranno fino al 16 gennaio prossimo può essere un buon viatico (soprattutto per chi ne sa poco o nulla) per comprendere alcuni aspetti di quegli anni (o decenni) decisivi, e per essere invogliato ad approfondire gli studi sul nostro passato, sulle radici e i primi passi dell’Unità d’Italia, che i leghisti demonizzano, e gruppi sparuti di neo-borbonici (con il massiccio appoggio dei disubbidienti civili: quelli di Terzigno e della saga monnezzara in Campania, per intenderci) respingono come “occupazione militare”e “colonizzazione” del Mezzogiorno.

È

Ecco perché, in queste pagine, al racconto della mostra alle Scuderie affianchiamo la recensione di due libri (usciti in questi giorni) che aiutano a capire, da angolazioni diverse, quel che accadde in quegli anni. Sono opera di due storici che sono anche giornalisti, garantendo così al lettore un racconto godibile, non appannato dagli accademismi e dal linguaggio iniziatico dei trattati ad uso e consumo dei soli addetti ai lavori. La mostra ha gli stessi pregi. Non è retorica, non è pompieristica (aggettivazione dell’art pompier della Francia della seconda metà dell’Ottocento, accademica e ufficiale, gradita al potere, falsa e vuota come è inevitabile per chi dipinge, o scrive, badando soprattutto a genuflettersi di fronte a chi detta le regole del gioco), e non è neppure noiosa. I dipinti espo-

sti non sono moltissimi (i curatori hanno dovuto fare i conti con l’inamovibilità, per varie ragioni, di molte opere che avrebbero meritato di essere incluse nel percorso), ma offrono un quadro esauriente dei

La trepida attesa delle notizie, gli annunci delle vittorie e delle sconfitte, le mogli ritratte mentre cuciono i tricolori, le sepolture dei caduti...

motivi che ispirarono gli artisti del tempo. Racconta le grandi battaglie (Solferino, la Cernaia, Palestro, Magenta, Varese, le Cinque giornate di Milano e le Diec di Brescia, la presa di Porta Pia) ma anche i grandi personaggi (con il celebre Garibaldi di Silvestro Lega, e l’imbarco dei Mille a Quarto di Gerolamo Induno). E racconta (soprattutto, vien voglia di dire) la dimensione “domestica” delle guerre, con la trepida attesa delle notizie, gli annunci delle vittorie e delle sconfitte, le donne ritratte mentre cuciono i tricolori, le sepolture dei caduti, le preghiere delle donne. Nel catalogo della Mostra, il presidente della Commissione Scientifica delle Scuderie, Antonio Paolucci (direttore dei Musei Vaticani, già ministro dei Beni Culturali e Sovrintendente per il Polo museale di Firenze) elogia i curatori della mostra, Fernando Mazzocca e Carlo Sisi, proprio per queste ragioni. «Avrebbero potuto riempire la rassegna di cariche di cavalleria, di assalti all’arma bianca, di belle morti. Avrebbero potuto offrirci l’idea della guerra come gioco e come festa,

come eroismo e come gloria. Hanno preferito toccare altre corde, muoversi su altri piani; affettivi, sentimentali, popolari. Certo non mancano, non potevano mancare le rappresentazioni degli episodi militari che hanno fatto il nostro Risorgimento», ma «i curatori sanno, tutti noi sappiamo, che in guerra di solito si muore in maniera stupida».

Non ha nulla di eroico un capolavoro (appena ritrovato, e quindi sconosciuto) che narra un aspetto molto particolare della resistenza (e della sofferenza) dei romani nella Repubblica del 1849. Si intitola Trasteverina uccisa da una bomba (proprietà della Galleria d’Arte Moderna di Roma). L’autore è Gerolamo Induno, testimone diretto di quel tempo. La scena non ha nulla di epico: il soggetto è una povera ragazza colpita da una bomba francese mentre si trova in casa. Raffigurata sdraiata, ricorda nella postura la Santa Cecilia del Maderno (conservata nella chiesa omonima in Trastevere). Una vittima innocente della guerra, come la santa (romana) del II secolo, martire delle persecuzioni contro i cristiani. Sono molte – ed è anche questo un aspetto molto interessante della mostra – le donne protagoniste dei dipinti

«Il sangue del Sud» di Guerri Giordano Bruno Guerri ha voluto celebrare i 150 anni dell’Unità con una “antistoria del Risorgimento e del brigantaggio” (Il sangue del Sud, Mondadori). Racconta i massacri consumati contro la gente del Sud, che rifiutava di adattarsi al dominio dei piemontesi. «Una parte del nuovo Stato», scrive Guerri ricordando quel che accadde a partire dal 1861, «era già “italiana”, l’altra non lo era affatto. Occorreva dunque educarla a essere diversa da sé, a costo di snaturarla. Ai primi segni di insofferenza del Sud, nacque subito una contrapposizione rancorosa: “noi”contro “loro”». Le pagine sulla ribellione di Pontelandolfo meriterebbero di entrare nei libri scolastici. Si era a metà agosto del 1861. Fu il generale Cialdini (lo stesso dello scontro di Aspromonte nel quale fu ferito Garibaldi) a ordinare il massacro, dopo che i“briganti”avevano ucciso un buon numero di soldati piemontesi: «Che di Pontelandolfo e Casal-

duni non rimanga pietra su pietra». I morti furono parecchie centinaia. «Un eccidio paragonabile a quelli dei nazisti nell’Appennino tosco-emiliano nel ’44: case rase al suolo, chiese spogliate degli oggetti sacri, donne violentate e uccise, insieme con i vecchi e i bambini. Con il criterio della decimazione, lo stesso che applicarono Kappler o Reder dopo l’8 settembre e prima della vittoria degli Alleati. Ai briganti non spetta l’onore delle armi. Gli sconfitti sono scomparsi nella zona d’ombra in cui li ha relegati la cattiva coscienza dei padri della patria. Una guerra in-civile come quella andava dimenticata, rimossa o almeno ridimensionata alla stregua di una semplice, per quanto sanguinaria, operazione di polizia». Il libro colma una lacuna. E aiuta a (m.t.) riflettere sulle condizioni del Sud.

esposti. Ed è giusto che sia così: perché alle donne spettava un compito ingrato e oscuro nei giorni in cui si faceva la storia. Gerolamo Induno racconta quelle che consolano e sorreggono i reduci feriti (Il ritorno del marinaio), o ne ascoltano le testimonianze (Il racconto del ferito) o ne leggono la corrispondenza dal fronte (La lettera dal campo), o affollano uno spiazzo (La partenza dei coscritti nel 1866) o le suore che soccorrono i feriti (La battaglia della Cernaia).

E poi ci sono quelle che pregano (Mosè Bianchi: I fratelli sono al campo), quelle con i bambini in braccio che salutano i garibaldini (Umberto Coromaldi: Camicie rosse), quelle che piangono i caduti (Filippo Liardo: Sepoltura garibaldina), quelle intente a cucire un tricolore (Odoardo Borrani: Il 26 aprile 1859). E infine quelle scelte come simbolo della Patria: Francesco Hayez, La meditazione (l’Italia nel 1848); Andrea Appiani, Venezia che spera. È opportuno – a questo punto – ricordare i tanti pittori (anche quelli non


cultura

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In queste pagine: alcuni dei dipinti esposti fino al prossimo 16 gennaio alle Scuderie del Quirinale nell’ambito della mostra “I pittori del Risorgimento”; un’illustrazione di Giuseppe Garibaldi; le copertine dei libri “Il sangue del Sud” di Giordano Bruno Guerri e “O Roma o morte” di Arrigo Petacco

presenti nella rassegna delle Scuderie) che ci hanno lasciato le istantanee (molte di stile fotografico) delle giornate che contribuirono a costruire l’Unità: Michele Cammarano, Carlo Bossoli, Carlo Ademollo, Domenico Induno (fratel-

lo di Gerolamo), Giovanni Fattori,Vincenzo Giacomelli, Amos Cassioli, Telemaco Signorini Saverio Altamura, Pietro Aldi (che affrescò la Sala del Risorgimento nel Palazzo Pubblico di Siena), Silvestro Lega, Federico Faruffini, Serafino De Tivoli, Nino Costa, Antonio Fontanesi, Tranquillo Cremona, Giuseppe Canella, Giacinto Gigante, Gioacchino Toma, Federico Palizzi, Angelo Inganni.

Provenivano da diverse scuole artistiche: molti erano pittori romantici; altri erano macchiaioli. Molti di loro avevano

partecipato di persona alle guerre, come combattenti. Tutti si resero conto che il momento storico imponeva di narrare quel che stava accadendo. Furono agevolati anche dalla sensibilità del re Vittorio Emanuele II, di alcuni politici del tempo che commissionarono molte opere da ospitare negli edifici pubblici. Giovanni Fattori in un libro autobiografico sottolineò questo aspetto: «Dopo la guerra del 1859, reggeva il governo della Toscana Bettino Ricasoli. Un pensiero sublime venne al fiero barone: d’incoraggiare l’arte toscana. Decretò un con-

corso de maggiori episodi delle battaglie in Lombardia, come per esempio Magenta, Solferino, ecc. questo concorso mi preoccupò molto, e vi pensavo ma non avevo il coraggio di decidermi. Fu Nino Costa, lo ricordo sempre, sulla piazza del Duomo, che mi disse con quel suo accento romanesco: “Concorri per Cristo, e vinci”. Fino da quel giorno cominciò la mia vita veramente artistica, e devo tutto al povero “vero”amico Costa. Quel mio quadro, il primo di soggetto militare, è nella Regia Gal-

«O Roma o morte» di Petacco «I nemici dei Savoia sono miei amici», ripeteva spesso la regina Maria Sofia di Borbone (appena scalzata dal trono di Napoli insieme con il suo abulico e fatalista consorte Francesco II, l’ultimo re delle Due Sicilie), a chi le faceva visita nel suo dorato esilio romano (ospite prima nel palazzo del Quirinale e poi a Palazzo Farnese). Maria Sofia non si arrese mai alla sconfitta. E nei primi mesi dopo la proclamazione del regno d’Italia era lei il punto di riferimento di tutti i nostalgici borbonici, dei patrioti partenopei e, persino, dei briganti. Lo racconta Arrigo Petacco nel libro O Roma o morte (sottotitolo: “1861-1870: la tormentata conquista dell’unità d’Italia, Mondadori). «Progettava di raggruppare intorno alla bandiera gigliata tutti i malcontenti, compresi i fuorilegge e persino i mazziniani». La regina era popolare quanto Garibaldi: lui era l’indiscusso eroe del Risorgi-

mento; lei l’indiscussa eroina di chi a quel Risorgimento si opponeva. Il libro di Petacco non si occupa soltanto di «sorta di guerra civile» che insanguinò per anni il Paese. Getta lo sguardo anche sull’inefficienza del governo piemontese, privato (con la morte di Cavour) di una guida lucida, sullo scontro religioso (che avrebbe potuto tenere insieme gli italiani) provocato dalla «stolta politica temporale» di Pio IX, sull’incapacità della casta militare che (nella Terza guerra d’indipendenza) subì le indecorose sconfitte di Custoza e di Lissa. Alla fine, conclude Petacco, l’Italia fu fatta. E (citando implicitamente D’Azeglio) tira le somme con il pessimismo che probabilmente si proietta anche sul presente: «Restavano (m.t.) da fare gli italiani».

leria di Arte Moderna in Firenze; dopo ne vennero altri». Parecchi altri: Fattori divenne, con il suo pennello, uno dei cronisti più assidui e puntuali dell’epopea risorgimentale.

Sarebbe giusto sottolineare che il Risorgimento (movimento elitario, al quale gran parte degli italiani rimase estranea) raggiunse la coscienza popolare, per merito anche degli artisti. Che seppero, persino, interpretare i dolori (e le delusioni) che accompagnarono la nascita dell’Italia finalmente unita. Lo ricorda Antonio Paolucci: «Come ci ha insegnato tanta storiografia, come gli stessi artisti hanno presto intuito e rappresentato, gli ideali del Risorgimento sono stati in tutto o in parte traditi. Con la guerra al brigantaggio, con l’emigrazione in massa nelle Americhe, con la rapida ricomposizione di antichi e ingiusti assetti economici e sociali». Queste frasi – che concludono la presentazione della mostra delle Scuderie – potrebbero degnamente costituire la prefazione di uno dei due libri (quello di Giordano Bruno Guerri) di cui parliamo in queste pagine.


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cultura

Crisi. e-book, e-reader e i-Pad: la digitalizzazione dei libri e i tagli alla cultura stanno mettendo in ginocchio intere biblioteche

Invito alla lettura (con delitto) di Marco Ferrari

Si aggrava sempre di più la crisi che ha colpito la cultura e, nello specifico, che sta mettendo in ginocchio le biblioteche d’Italia. Tutta colpa, a quanto pare, della digitalizzazione dei libri. Oggetti come e-book, e-reader o i-Pad stanno infatti rivoluzionando anche figure professionali, come ad esempio quella di bibliotecario

a grave crisi in cui si dibattono la biblioteche italiane ha un nome e un futuro: l’e-book. Il libro digitale ha infatti compiuto il suo ingresso in alcune biblioteche, non soltanto come oggetto della modernità, ma come mezzo attraverso cui leggere i libri. Utile su un punto lo è certamente: il prestito. Una parte rilevante del lavoro dei bibliotecari è infatti governare il prestito di libri cioè cercare un volume, farlo uscire, registrarne i dati, il giorno di partenza e quindi il rientro, normalmente un determinato periodo, due settimane o un mese. Ora basta cartaceo.

L

Alcune biblioteche, in particolare in Toscana e Lombardia, hanno cominciato a prestare un ereader, una tavoletta elettronica per la lettura, con il catalogo annesso. Si tratta, per ora, di testi svincolati dal diritto d’autore cioè risalente a più di settanta anni dalla scomparsa dell’autore, come Dante, Alfieri,Verga. Ma altri titoli di narrativa contemporanea vanno ad ingrassare le memorie del computer. A farne un uso corrente sono i frequentatori tipici delle biblioteche: gli anziani e i giovani. Il prossimo passo di questo nuovo sistema sarà il prestito on line. Le biblioteche non presteranno più e-reader, Kindle o i-Pad, ma si limiteranno a far scaricare agli abbonati i testi del catalogo elettronico. Non c’è il rischio di diffusione illimitata del prodotto poiché il file si consumerà e diventerà illeggibile al termine del periodo di prestito. In quel lasso di tempo sarà possibile per l’utente scrivere note a margine, sottoli-

nearne pezzi o aggiungere appunti, ma poi tutto verrà eliminato. Per una gioventù che cresce con tutti i supporti tecnologici – dalla play station ai più sofisticati cellulari, da internet a Facebook – ecco un nuovo metodo per avvicinarsi alla lettura. «È come passare dell’era del cavallo a quella delle automobili: qualche motore si incepperà, ma è indubbio che il futuro della lettura prevede anche il digitale» ha sostenuto Mauro Guerrini, presidente dell’Aib, l’Associazione italiana delle biblioteche che con i suoi 4 mila iscritti rappresenta circa il 20 per cento dei professionisti del settore, nel congresso nazionale tenuto a Firenze e dedicato al tema “Accesso aperto alla conoscenza. Accesso libero

no i sistemi bibliotecari urbani. La testimonianza viene dal persistente declino delle 46 grandi biblioteche statali (comprese le Nazionali di Roma e Firenze). Gli investimenti pubblici in questi “monumenti” della cultura italiana negli ultimi cinque anni sono stati dimezzati, passando da 30 a 17 milioni di euro l’anno e i tagli più consistenti riguardano il capitolato degli acquisti dei libri, sceso da 8 a 3 milioni di euro.

Un giorno del nostro prossimo futuro qualcuno non riuscirà a capire come mai nelle biblioteche ci saranno tanti vuoti con annate quasi interamente soppresse. Per l’acquisto di prodotti digitalizzati non esiste poi un progetto nazionale, ma ogni singola regione o singolo comune o addirittura biblioteca deve arrangiarsi da sola. L’unico passo concreto, di grande importanza, è l’accordo tra Google e il ministero per i Beni e le Attività Culturali tramite cui nei prossimi due anni verranno catalogati e digitalizzati circa un milione di libri non coperti da copyright e conservati nelle Biblioteche Nazionali di Roma e Firenze. Un’operazione che consentirà a chiunque nel mondo di accedere alle opere dei più grandi intellettuali, scrittori e scienziati italiani: il tutto a titolo gratuito e senza esclusive, tanto che i testi saranno disponibili anche sui siti web delle biblioteche stesse e su altre piattaforme, come ad esempio quella del progetto Europeana. Una novità che non blocca le proteste dei bibliotecari. Alla Biblioteca Nazionale di Firenze si sono anche esibiti l’Orchestra

Gli investimenti negli ultimi 5 anni sono stati dimezzati, passando da 30 a 17 mln di euro l’anno e i tagli più consistenti colpiscono il capitolato degli acquisti di libri, da 8 a 3 mln di euro alla biblioteca”. Cambia anche il lavoro del bibliotecario, non più con cappa scura, su e giù per le scale a cercare libri ma invece a scovare titoli in rete, catalogarli e incamerarli nel sistema. Ciò si potrà fare anche per le riviste storiche. Due sistemi bibliotecari sono all’avanguardia in queste settore, Siena e La Spezia, che stanno completamento la digitalizzazione delle testate giornaliste da metà Ottocento ad oggi.

In una Europa tecnologica il destino delle biblioteche italiane sarebbe segnato dai sempre maggiori tagli alla cultura che, partendo dal ministero dei Beni Culturali, via via si ripercuote nelle Regioni, Province e Comuni che gestisco-

e il Coro del Maggio Musicale Fiorentino per solidarietà con gli operatori. La mancanza di fondi rischia infatti di compromettere gravemente i servizi elementari della struttura. Qui sino a pochi anni fa erano impiegate 500 persone, ora sono rimasti in 150, un terzo di quelli previsti dalla legge.

Nel laboratorio di restauro di Sant’Ambrogio invece degli abituali 200 specialisti ne sono rimasti al lavoro solo 7. Per loro è impossibile gestire l’ingente patrimonio di volumi custoditi. Oltre a preziosissimi libri che vanno dall’anno mille sino al XIX secolo, la Biblioteca Nazionale possiede centinaia di migliaia di volumi che aspettano di essere catalogati. I libri editi nel 2008 non sono stati catalogati per mancanza di personale e si è dovuti passare direttamente alla catalogazione dei libri dell’anno 2009. Per la normale apertura della struttura occorre un milione di euro l’anno, ma mancano i fondi per altri lavori: se non si interverrà con urgenza tra poco alla Biblioteca Nazionale di Firenze «pioverà sui manoscritti».


cultura entre in tutto il mondo non si fa altro che celebrare l’open-source e il libero accesso alla cultura mediante il web, uno dei 100 uomini più influenti secondo il Time decide di stigmatizzare il trend dell’open-content come qualcosa di pericoloso, etichettandolo come «Maoismo digitale». Stiamo parlando di Jaron Lanier, conclamato guru del mondo informatico e pioniere della realtà virtuale negli anni ’80. Il suo Tu non sei un gadget, libro arrivato da poco in Italia grazie a Mondadori, è un vero e proprio manifesto contro la svalutazione dei contenuti (e degli uomini stessi) ad opera della Rete. Il web è pieno di violenza verbale e tira fuori il peggio di noi. Grazie non soltanto all’anonimato (che per altro è spesso un’illusione dell’utente) ma sopratutto per la velocità di fruizione, di reazione. È inutile negarlo. Il teorico americano non ha tutti i torti. In pochi secondi si legge un parere o una notizia e si “posta” il proprio commento (sui blog o sui social network) senza quella dose di distacco e riflessione che veniva imposta dalla maggiore lentezza dei vecchi media.

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e oscuro della propria personalità. L’anonimato che la Rete garantisce, tramite diversi canali, consente a milioni di persone di sfogare senza filtro tutto “il nero” che hanno dentro, inquinando di fatto quello che dovrebbe essere una piazza straodinariamente ampia dove scambiarsi opinioni e costruire idee. Un romantico, un idealista, un eretico? O come preferisce definirsi lui stesso, un neo umanista? Una cosa è certa: Lanier sostiene che ogni individuo è una cosa speciale. Non una «forma di computer».

M

È questa una delle tesi con cui Jaron Lanier porta avanti le sue teorie nel suo libro. Filosofia condivisa anche dal giornalista americano Lee Siegel, critico culturale del New York Times e autore del saggio Against the Machine e da tanti altri studiosi italiani. Lanier è proprio come appare nelle foto. «Dreadlocks», i boccoli alla Bob Marley a cascata, e sulla mano il guanto della Virtual Reality, la realtà virtuale di cui la sua azienda era pioniera. Con la sua visione e il suo guanto Jaron mutava lo schermo davanti a sé e entrava in una diversa realtà, volando su un bosco, duellando con un Cavaliere Templare, operando un paziente al cervello. Le sue simulazioni hanno poi dato vita a videogiochi, programmi di addestramento per l’aviazione, sistemi di training per ingegneri e medici. Oggi però Lanier, guru di internet e dei new media, celebre firma della rivista Wired scrive le sue perplessità. L’estrema facilità con cui è possibile reperire informazioni tramite Google o Wikipedia. O la rapidità di comunicazione con i social network sta appiattendo i contentuti e la stessa capacità di socializzare. I contenuti (filosofia, letteratura, storia) rischiano di essere importati continuamente, senza alcuna selezione e subendo tra

Tra gli scaffali. Il libro-manifesto contro l’uso improprio del web di Jaron Lanier

Attacco reale alla realtà virtuale di Valentina Gerace

Nel volume “Tu non sei un gadget”, l’autore denuncia una sempre maggiore svalutazione dell’uomo ad opera della rete un “copia e incolla” un impoverimento notevole. Mentre per quanto riguarda i rapporti umani, ormai anche solo una manciata di amici in più su Facebook o una faccetta sorridente su Twitter possono dare soddisfazione a chi è caduto nella trappola del web. Una distru-

zione delle idee, argomenta Lanier, del dibattito e della critica, che sta portando a non aver più bisogno di aprire un libro o un’enciclopedia per ricercare un’informazione, un documento. L’utilizzo di conoscenze “gratuite”alla base di tutto questo. Una comodità senz’altro. Ma anche l’annientamento della creatività, in un mondo di “non persone” disposte ad annullarsi dietro a uno schermo e a non pensare più perché c’è qualcun altro che fa per loro.

Credere nel web è una forma di estremismo paragonabile al fascismo, al comunismo, al fanatismo religioso. Estremismi, appunto, sempre e comunque

A destra, un’immagine del “padre” della realtà virtuale Jaron Lanier. A sinistra, la copertina del suo recente libro “Tu non sei un gadget”, pubblicato in Italia da Mondadori. In alto, un disegno di Michelangelo Pace

dannosi. Perché portano a dimenticare i veri problemi di ognuno. Questioni pratiche, vere, come la dispoccupazione, i rapporti interpersonali perdono di importanza fino a essere offuscati da una forma di realtà virtuale dietro cui ci nascondiamo per mostrare solo un lato di noi. Senza parlare del danno fatto dalla persuasione politica e culturale. Pubblicità e slogan restano impresse come tatuaggi nella mente della gente, favorendo forme di pensiero standardizzate, omologate per tutti, a discapito dell’interazione critica e attiva tra le persone. Secondo Lanier il rischio è che internet possa permettere di sguinzagliare il lato più sadico

I computer sono pericolosi perché creano una nuova forma di vita, una nuova dimensione che sostituirà presto noi stessi. Una visione forse un po’ estremista del web quella di Lanier. Infondo i social network come Facebook o Twitter permettono ai giovani di entrare in scena attivamente, di creare il loro profilo personale, inserire i propri gusti musicali o culturali e condividerli con gli altri. Consente di accorciare le distanze e mantenere attivi rapporti che altrimenti scomparirebbero. Il web può essere anche un mezzo di realizzazione personale, un microcosmo in cui si condividono simboli, parole, fotografie. Un linguaggio del tutto personale e quindi perché no, creativo. Forse funziona anche come una specie di mondo intermedio, che permette di liberarsi dai legami familiari, ma di sentirsi lo stesso a casa. Forse oggi i giovani preferiscono legami sociali fluidi, senza obblighi formali.Vogliono dosare essi stessi il coinvolgimento nelle relazioni interpersonali e prendere l’iniziativa in maniera spontanea. L’essere lasciati a se stessi rafforza in loro il bisogno di scambi e di identificazione negli altri, nella speranza di riaquistare quella sicurezza che il rivolgimento sociale ha sottratto loro. Il web è anche gioco, battute, stuzia, ironia. E l’umorismo allegerisce le cose pesanti. Una battuta, un sorriso, allentano disagi e conflitti. Tu non sei un gadget tuttavia non è una catastrofica preconizzazione di un futuro privo di contenuti forti, bensì il manifesto per un totale ripensamento della Rete, a beneficio delle idee e della loro imperfetta, sporca, umanità. Un invito dunque a riportare sulla rete quei canoni di serenità, autorevolezza, vivacità, impegno, buona volontà, dibattito, critica che sono da sempre trade mark della libertà, dell’onestà, della ragione. Senza perderne la ricchezza, la spontaneità, l’uguaglianza.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Emergenza rifiuti in Campania: allarme rischi sanitari Il pericolo di una crisi sanitaria a causa della nuova emergenza rifiuti in Campania è dietro l’angolo se non si interviene subito: per prima cosa è necessario ripulire e disinfettare le strade. Poi, bisogna permettere ai camion di sversare normalmente nelle discariche aperte e funzionanti. Dopo 17 anni di emergenza e oltre 12 miliardi spesi per correre dietro ai sacchetti della spazzatura, i rischi ambientali e sanitari hanno esasperato le persone. Bisogna intervenire subito: costruire il termovalorizzatore di Napoli est è una necessità anche per prevenire rischi sanitari. Insieme con il termovalorizzatore di Acerra potranno bruciare 700-800 mila tonnellate all’anno e tentare di sollevare una parte del dramma che adesso ricopre la Regione che in ogni caso deve ridurre la produzione totale di rifiuti oggi intorno ai 3 milioni di tonnellate. Una gestione integrata del ciclo dei rifiuti non può prescindere da una soglia minima del 50% di raccolta differenziata, sotto la quale andrebbero commissariati i comuni inadempienti. A Napoli c’è il problema sporcizia che in ogni caso rimane evidente, basta camminare per le strade della città. E poi il capoluogo, in quanto a differenziata, si ferma al 19 per cento, con un crollo ulteriore se si guarda alla provincia che sfiora il 10 per cento.

Alfonso Fimiani

BERLUSCONI SI RASSEGNI Berlusconi si rassegni: è finito il tempo del partito-azienda. Occorre il partito-partito. Se il Pdl non diventerà un partito di base, gli elettori si stancheranno e lo abbandoneranno, anche se non passeranno al Fli di Fini (che ha già perso gli ex-Msi e gli exAn). O, il Pdl costruisce qualcosa di “stabile”, oppure crollerà. Inoltre, è urgente “orientare” iscritti ed elettori… come faceva giornalmente il glorioso Pci con i compagni per mezzo del quotidiano L’Unità. Berlusconi “orienti” il suo elettorato con servizi televisivi “mirati”e continuativi – di attacco, ma pure di comunicazione sull’operato della maggioranza. Prima di cadere come Sansone, Berlusconi ammazzi tutti i Filistei, nemici e “amici”. Non continui, soprattutto, ad ammazzarsi, ammazzando nel contempo pure il suo elettorato.

Anche perché, chi lo ha votato e ha perso il posto, o non ce l’ha, o non ha i soldi per vivere, o la sua ditta sta per chiudere, se ne frega del “bunga bunga”. L’elettorato non crede più a chi da troppo tempo sta gridando “alla escort, alla escort”. Interessa, invece, che Berlusconi risolva concretamente i problemi reali. Cosa farà, ad esempio, per gli artigiani e i piccoli industriali, che qui nel maceratese a gennaio chiuderanno o diminuiranno del 50 per cento il personale? Chi ha detto che la crisi sta passando? C’è già molta paura e afflizione tra la gente comune. Non resisteranno a lungo in questa situazione mentale e si scateneranno su collera e odio per andare su di tono. La democrazia è in pericolo. Stanno lavorando per instaurare una confusione generale i “fabbricanti di menzogne”e i “mercanti del caos”. La gen-

Caccia grossa Quando la si cita in qualche discorso, di solito non è per esaltarne le doti venatorie. Eppure la puzzola, nota soprattutto per le sue secrezioni particolarmente “odorose”, è anche una cacciatrice temibile. Di sera, esce dalla sua tana a caccia di conigli e piccoli roditori

te, invece, vuole stabilità, sicurezza e fiducia nel futuro. Non a chiacchiere, battute di spirito - da una parte, o richiesta assurda di dimissioni - dall’altra.

Giorgio Rapanelli

REGIONE LAZIO. SANITÀ, QUANDO SI RIDURRANNO LE ASL? Il numero delle Asl verrà ridotto da 12 a 8 (con l’obiettivo finale di giungere a 6 entro la fine della legislatura. Una per Roma città, una per la provincia e una ciascuna per le altre quattro province). È quanto

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

promesso dall’allora candidata alla presidenza della regione Lazio, Renata Polverini. La riduzione delle Asl sarà il vero test per capire se la presidente e assessore alla Salute, Polverini, intende avviare «una forte razionalizzazione delle strutture», come promesso, o sarà artefice e vittima dell’ennesima lottizzazione partitica. Le mani dei partiti sulla sanità, insomma. Le prossime settimane ci diranno in quale direzione la presidente Polverini intende muoversi.

Primo Mastrantoni

da ”Spiegel online” del 10/11/10

Anche Guttemberg inciampa sulla Wehrmacht a Germania ci ricasca. Il ministro della difesa Karl-Theodor Guttemberg ha appena dichiarato che il Paese deve essere pronto a utilizzare le forze armate per difendere i propri interessi economici. Un commento molto simile era costato la poltrona di presidente della Repubblica a Horst Kohler, all’inizio del 2010. L’allora capo dello Stato tedesco aveva dichiarato che l’utilizzo dei propri militari era necessario per difendere gli interessi economici tedeschi. Si era scatenato una tempesta di critiche che si era placata solo con le dimissioni di Kohler. Il presidente si era lasciato sfuggire il commento durante una visita alle truppe di Berlino in Afghanistan. Oggi, Guttemberg sembra aver voluto fare eco a quelle parole, a dimostrazione che la verità non si può negare per sempre e che la Germania, ormai lontana dal sicuro e protettivo modello renano e aperta alla globalizzazione, soffre perché si sente fragile di fronte alle nuove sfide. I takeover alla borsa di Francoforte, come le materie prime che giungono dall’estero, diventano la nuova scena dell’insicurezza di Berlino. Intervenendo martedì ad una conferenza in materia di sicurezza, il ministro della Difesa aveva affermato come la Germania avrebbe dovuto rendere più sicure le rotte commerciali contro la pirateria. «In Germania dobbiamo fare qualcosa per spiegare i legami tra la sicurezza regionale egli interessi economici, senza infilarci sempre in un vicolo cieco» aveva spiegato. Una dichiarazione quasi banale,

«molto seriamente». Nel suo intervento Guttemberg ha affrontato anche un altro snodo strategico per l’economia tedesca. La grande richiesta di materie prime che oggi viaggiano dai Paesi produttori verso l’Occidente sviluppato, utilizzano delle rotte che non sembrano più tanto tranquille. Insomma, la sicurezza di questa linfa vitale per le economie avanzate deve essere vista anche da una prospettiva «militare e strategica». Ma il Paese è ancora estremamente sensibile al ruolo giocato dai militari nella Germania nazista e tutto si complica.

L

non fosse che in Germania l’argomento è tabù. Le forze armate sono ancora il simbolo di un Reich che nessuno vuole vedere rinascere. E chi si avventura su questo terreno minato dalla storia e da un Olocausto rischia grosso. Ma Guttemberg sembra voler rilanciare anche sulla vicenda Kohler: «quel giorno mi sono chiesto che cosa ci fosse di tanto azzardato nei suoi commenti». La pirateria a largo delle acque che bagnano il Corno d’Africa sta causando seri problemi ai commerci di molti Paesi, compresa la Germania. Una situazione che il ministro non considera solo una «nota a margine», ma come un fenomeno che è in grado di incidere in maniera fortemente negativa sulle dinamiche economiche di Berlino. Un argomento da prendere in considerazione

E il modello scelto dalla Merkel, un Paese tutto votato all’export, dipende in maniera esagerata dai rifornimenti di materie prime. Un sistema che sta permettendo alla Germania di uscire dalla crisi prima di altri Paesi, ma che pone anche dei problemi che i tedeschi non sembrano ancora pronti ad affrontare. Lo Spiegel sottolinea come l’opposizione non perda occasione per attaccare il governo su questa materia e lo abbia fatto anche in quest’occasione. Ad esempio il socialdemocratico Thomas Opperman ha avvertito Guttemberg dallo stravolgere il mandato costituzionale di un «esercito difensivo». L’intervento auspicato dal ministro assomiglia tanto, secondo Opperman, a «un intervento offensivo in difesa d’interessi economici». La costituzione tedesca non permette guerre economiche. La Germania dovrebbe dunque rimanere alla finestraa guardare i propri interessi sfumare.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LE VERITÀ NASCOSTE

A scuola di cucina dalle suocere ROMA. È tra i fiori all’occhiello dell’i-

come rosticcerie o pizzerie o a saziarsi solamente con cibi freddi tipo salumi e formaggi. La soluzione? Rimandare la moglie a scuola di fornelli dalla suocera o, in alternativa, iscriverla ad un corso ad hoc. Il 32%, infine, è addirittura disposto a mettersi al suo fianco in cucina pur di far scattare la scintilla tra le stoviglie, i cibi e la propria amata. E se non porterà alla rottura matrimoniale, la scomparsa della dieta mediterranea dalla tavola delle giovani coppie preoccupa per il troppo dispendio economico, per i possi-

talianità ed è candidata a divenire patrimonio dell’intera umanità dopo il parere favorevole dell’Unesco. Eppure, dopo il suo boom a livello mondiale durante gli anni ’90, oggi la dieta mediterranea è a rischio estinzione. A suonare l’allarme sono gli uomini tra i 25 e i 35 anni che bocciano le abilità culinarie delle giovani mogli. Sebbene quasi la totalità ritenga di avere un buon rapporto di coppia e affermi di dare moltissima importanza alla tavola, solo due su 10 ammettono di avere al proprio fianco una dolce metà che si sbizzarrisce ogni giorno ai fornelli. Sempre più spesso, infatti, si è costretti a mangiare fuori, ad ordinare a casa il cibo da “take away”

ACCADDE OGGI

NUOVA LEGGE SUGLI AFFITTI: IN AUMENTO I CONTATTI PER LE LOCAZIONI La nuova norma piace a inquilini e locatari. Ma non solo. La “cedolare secca”, la legge che introduce la tassazione unica sui contratti di locazione, aiuterà la «ripresa del mercato immobiliare». Ne sono certi gli addetti ai lavori che, a due mesi dall’entrata in vigore della legge 42/09 (primo gennaio 2011) avvertono un interessante fermento nel mercato immobiliare. In attesa di verificare quanto e come il mercato immobiliare cambierà con la nuova legge, un elemento è certo: attorno al mondo degli affitti si sta avvertendo un determinato cambio di rotta. È ancora presto per dire se effettivamente la cedolare servirà allo scopo di far emergere il nero e di garantire più flessibilità nella stipula di contratti d’affitto, ma non si può nemmeno sottovalutare il forte interesse che sta dimostrando. Un dato su tutti: circa il 7% delle case sfitte in Italia è di proprietà di pensionati, che non mettono a reddito il proprio immobile perché andrebbe a inficiare la loro dichiarazione dei redditi: è un dato davvero importante che viene colpevolmente ignorato. Ma stiamo parlando di una fetta di mercato davvero ampia che porterebbe giovamento sia al mercato sia alle casse statali. Perché, di fatto, i pensionati italiani che hanno una casa da affittare e, dunque, da mettere a reddito o non lo fanno o la cedono ai propri figli in attesa di momenti economici migliori che permettano loro di potersi permettere un’abitazione di proprietà. Una situazione di questo genere non permette al mercato di decollare come si vorrebbe. Stando ai dati della Cisl,

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

11 novembre 1972 Guerra del Vietnam: l’Esercito statunitense cede il controllo della base di Long Binh al Vietnam del Sud 1975 Approvata la legge n. 584 “Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi di trasporto pubblico” 1986 Sperry Rand e Burroughs si fondono e formano la Unisys, che diventa la seconda azienda di informatica del mondo 1989 Viene fondata l’Iniziativa Quadrilaterale 1992 La Chiesa d’Inghilterra vota per permettere alle donne di diventare sacerdoti 2000 Disastro al Kitzsteinhorn in Austria 2006 Lanciata la PlayStation 3 in Giappone. 2007 Chiusura dei lavori della costituente del movimento politico La Destra di Francesco Storace; vengono votati statuto, membri del direttivo nazionale, documento programmatico. Nasce ufficialmente La Destra.

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

bili danni alla salute e per l’incapacità futura di insegnare ai figli i dettami di una corretta alimentazione. Un rapporto di coppia passa anche dalla tavola, il momento principale della convivialità tra mariti e mogli. E se quasi la totalità dei giovani italiani valuta la propria vita coniugale positivamente, ben il 45% reputa, infatti, fondamentale il ruolo dell’alimentazione e della cucina nel rapporto.

in Italia ci sono circa 5 milioni di case sfitte. Con la nuova legge possiamo facilmente affermare che il giro d’affari quadruplicherebbe, con vantaggi evidenti per tutti: proprietari, affittuari, mercato, casse statali. L’incognita, dunque, sta tutta nell’attuazione del federalismo fiscale che, come è ben noto, dipenderà dagli enti locali (Regioni, Province e Comuni). Una situazione non propriamente ottimale perché in alcune zone d’Italia potrebbe portare dei grandi vantaggi, dall’altro potrebbe essere addirittura negativa. La nuova legge avrà un effetto immediato sull’emersione del nero. È stata voluta soprattutto per evitare spiacevoli e continui raggiri della legge che, nel breve tempo, porterà chi è titolare di un’abitazione a intuire che è meglio dichiarare che non farlo. Si tratta di un primo passo importante che aiuterà un mercato con immense potenzialità non sfruttate appieno. Staremo a vedere.

Angeletti, De Angelis e Righi

PIÙ ATTENZIONE AL DRAMMA DEL VENETO A tutti quelli che fanno tanto sventolare il tricolore e il tema dell’unità nazionale, dico che questa è l’occasione per dimostrare che un Paese degno di questo nome deve e sa dare una risposta al Veneto ferito. Non si può essere ignorati in questa maniera dai media. Ho l’impressione che l’unico termine sia proprio scandaloso dal momento che abbiamo pagine riempite dal caso Ruby e dalla spazzatura di Napoli che ormai ci sta davvero rompendo le scatole da una decina di giorni, e quasi ci si dimentica del Veneto così duramente colpito dal maltempo.

Alessandro Pavan

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

GOVERNO TECNICO E SOVRANITÀ POPOLARE: STORIA DI UN FALSO CONTRASTO Da ormai diversi mesi uno dei principali argomenti di discussione riguarda la possibilità, politica, prima ancora che pratico-numerica, di superare l’attuale fase di stasi attraverso una crisi di governo, e il conferimento successivo di un incarico di natura tecnica, sostenuta in Parlamento da una maggioranza differente, almeno in parte, da quella attuale. Il principale argomento dei detrattori di questa ipotesi, Pdl e Lega, si basa sul fatto che in questo modo si finirebbe per consentire a chi ha perso le elezioni di governare a discapito di chi le ha vinte, con il sovvertimento della volontà e sovranità popolare. In breve sarebbe da considerarsi alla stregua di un vero e proprio colpo di Stato legalizzato. È piu o meno questo lo stato del dibattito attuale, con una coalizione, quella di governo, che, non potendo gridare l’illegalità della cosa, opta per farla passare per un’eventualità comunque politicamente inaccettabile di fatto. In questa commedia è ora di introdurre un personaggio in più: il famigerato premio di maggioranza. Come è noto la legge elettorale attribuisce, per la Camera, alla coalizione con maggioranza relativa, una maggioranza assoluta di seggi in ragione del 55%. Al Senato, invece, i premi di maggioranza sono attribuiti alle coalizioni vincitrici in ogni regione. È anche vero che la coalizione di governo che si richiama ai profondi valori della Sovranità popolare governa con il 46% circa dei voti popolari validi a favore e, quindi, con il 54% contro. Il premio di maggiornaza attribuitole ha la funzione unica di aiutare la governabilità e non ha valore sul piano della volontà delegativa popolare. Tutto questo per evidenziare come, anche laddove un eventuale governo tecnico venisse formato senza il contributo di nessuna delle forze apparteneti alla coalizione vincente, sarebbe comunque rappresentativo del 54% dei voti validi espressi. Chi grida allo scandalo lo fa servendosi di una finzione giuridica sulla cui utilità si può discutere, ma a cui è sbagliato attribuire un valore politico. Alberto Evangelisti C O O R D I N A T O R E PR O V I N C I A L E CI R C O L I LI B E R A L AR E Z Z O

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

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ULTIMAPAGINA Sport. Le donne della scherma stanno ottenendo grandi successi ai Mondiali di Parigi. Ma nessuno ne parla

Ecco l’unica Italia che di Martha Nunziata o sfondo è quello della baia di San Diego, in California, nella notte tra domenica e lunedì scorso. L’Italia del tennis femminile ha appena conquistato la terza Fed Cup (l’equivalente femminile della Davis, ndr) in cinque anni, la seconda consecutiva, ancora contro gli Stati Uniti, stavolta a casa loro. Flavia Pennetta, protagonista del punto decisivo, esprime un pensiero ad alta voce: «... se tre Coppe Davis in cinque anni le avessero vinte i maschi, apriti cielo: di certo avrebbero avuto più attenzione. Ma credo che questo, in Italia, sia uno stereotipo impossibile da abbattere». La considerazione della Pennetta ha riaperto una polemica antica almeno quanto lo stesso sport. Le donne che primeggiano, tra le corsie, in piscina, con in mano una racchetta da tennis, una pagaia o un fioretto, vivono sempre la sgradevole sensazione di essere sportive di seconda classe, figlie di un dio minore, in un mondo, quello sportivo, consacrato ad una (quasi) unica divinità, il maschio-centrico calcio, motore economico di un movimento sportivo che però, nelle attenzioni mediatiche, va a due velocità. Un contrasto stridente, che diventa irridente, per i maschi, quando leggi risultati, inversamente proporzionali alla notorietà. Il 2010 delle sportive italiane è stato straordinario. Vittorie ovunque, in qualunque specialità sportiva: e tanti saluti alle quote rosa.

L

VINCE Nel tennis, oltre alla Fed Cup, Francesca Schiavone ha trionfato al Roland Garros, sulla terra rossa di Parigi, lì dove nessuna italiana era mai riuscita ad arrivare nemmeno in finale (Silvana Lazzarini, nel 1954, si era fermata alla semifinale), e, giusto dieci giorni fa, aveva conquistato il titolo di doppio, con l’amica argentina Gisela Dulko, chiudendo l’anno al numero uno del mondo, nella classifica di specialità, esplorando, anche lei, territori finora sconosciuti alle racchette italiane. Le sportive italiche scendono dai tacchi, indossano l’azzurro e vincono, a qualsiasi latitudine. Federica Pellegrini, icona planetaria del nuoto, a luglio, a Budapest, si è presa l’oro europeo

Nel nuoto, nel fioretto, nel tennis e perfino nel ciclismo: da Flavia Pennetta a Francesca Schiavone, da Federica Pellegrini a Giorgia Bronzini, le atlete scendono dai tacchi e danno una lezione ai maschietti nei 200 metri stile libero, la sua piscina personale: e visto che, dall’Olimpiade in giù, ha vinto tutto quello che si poteva su quella distanza, ha deciso di cercarsi altri traguardi, sui 100 e sugli 800 metri.

Tanto, gli ingredienti sono sempre gli stessi: un filo di rimmel e la fatica. Quella che da sempre fa compagnia a Giorgia Bronzini, che a inizio ottobre, a Melbourne, ha conquistato la medaglia d’oro nella prova in linea del mondiale di ciclismo, che già l’anno scorso aveva parlato italiano, con Tatiana Guderzo. Una settimana prima, a Mosca, le “farfalle azzurre” della ginnastica ritQui accanto, Flavia Pennetta, campionissima di tennis arrivata ai quarti degli Us Open: è la prima italiana ad essere entrata nella classifica top ten mondiale. Sopra, Valentina Vezzali: volto-simbolo non solo della scherma vincente ma anche di tutto lo sport italiano

mica avevano doppiato l’oro mondiale, dopo il trionfo giapponese di dodici mesi fa. A Parigi, in questi giorni, sono in corso i mondiali di scherma: le fiorettiste hanno riempito il podio, riscrivendo la storia della specialità, perché Valentina Vezzali, la tigre di Jesi, l’asso pigliatutto, tre medaglie d’oro olimpiche consecutive, si è dovuta accontentare del bronzo, spodestata dalla concittadina Elisa Di Francisca e da Arianna Errigo, oro e argento. E Nathalie Moellhausen, milanese trapianta alla Sorbonne, dove studia filosofia, metà artista e metà schermitrice, si è preso il bronzo della spada dopo aver curato la regia della cerimonia inaugurale. E i maschi?

L’argento nella sciabola a squadre sa di maledizione: l’oro manca dal ’95, e Aldo Montano sospira un po’ divertito: «Noi non vinciamo più, le ragazze non smettono di farlo: forse hanno più fame di noi». Può darsi. O magari sono geneticamente programmate per gestire una doppia vita, quella di donna e quella di “donna sportiva”. O, forse, sono semplicemente, più forti. Nonostante le (poche) attenzioni.


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