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Il ventre di un miserabile ha più bisogno d’illusioni che di pane

Georges Bernanos 9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 12 NOVEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

A vuoto l’ultima trattativa: l’esecutivo è appeso a un filo. E il vertice del Pdl lancia l’ultimatum: o questo governo o il voto

Bossi pilota, ma senza patente Il Senatúr incontra Fini e dice: «C’è spazio per una “crisi pilotata”, un Silvio-bis senza l’Udc». Ma il leader Fli lo gela: «La fa troppo semplice» e Berlusconi lo smentisce: «Non mi dimetto» Tremonti presenta il maxiemendamento

«La finanziaria non fa scelte»: nuovo affondo di Napolitano

di Errico Novi

La lettera-testimonianza dall’Iraq di un sacerdote

ROMA. È bastata un’ora di vertice tra Bossi e Fini per capire che il governo ha le ore contate. Se il leader del Carroccio ha intravisto degli «spiragli di trattativa», il leader di Fli ha spiegato che «le cose sono più complicate di come le vede Bossi». Ma poi, mentre il vertice Pdl diceva «O Berlusconi o il voto», direttamente dalla Corea del nord il premier ha gelato tutti: «Io non me ne vado. Se Fini vuole, mi voti contro». Insomma: il gioco del cerino continua.

«Io, prete a Baghdad, ora vivo nel terrore» di padre Jorge Cortes

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Il Quirinale contro un «testo troppo confuso». Anche le Regioni sul piede di guerra: «Misure del tutto insufficienti» Francesco Pacifico • pagina 6

Il viale del tramonto

Il torpedone del Carroccio

L’uscita di scena del premier rivelerà la sua vera statura

Caro Umberto, al mare ci porti il Cavaliere

di Enzo Carra

di Giancristiano Desiderio

Un vero protagonista si giudica per come abbandona il campo. Il premier, che si è sempre dimostrato (soprattutto) un ottimo uomo di spettacolo, dovrebbe conoscere bene questa legge. Che lo riguarda oggi più che mai

Improvvisamente, il leader leghista ha scoperto la politica dei distinguo, delle dilazioni continue, delle formule ambigue. In realtà, vagando tra un insulto e un’allusione, il governo sta solo cercando di prendere tempo

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ono arrivato a Baghdad 9 mesi fa. Al momento abito nel vescovato latino, vicino alla cattedrale siro-cattolica di Nostra Signora della Salvezza. La stessa dove, il 31 ottobre scorso, è stato perpetrato il sanguinoso attacco in cui sono morti sacerdoti e fedeli cristiani. I due coraggiosi preti morti durante l’attacco hanno difeso i fedeli e hanno cercato di salvarli offrendo la vita non appena i criminali sono entrati in chiesa. a pagina 14

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Dopo 8 mesi di stallo, formato il nuovo governo

Vince il ticket “di unità” fra al Maliki e Allawi

Al G20 di Seoul è subito scontro frontale tra l’Occidente e le economie emergenti

Hu Jintao, la voce del padrone «Non rivalutiamo lo yuan. E Obama ci spieghi la manovra Usa»

di Antonio Picasso di Vincenzo Faccioli Pintozzi

Sì del vertice alla lettera del governatore

e per Obama «il mondo è più forte se gli Stati Uniti sono più forti», per la sua controparte cinese è finito il tempo della retorica: «Non rivalutiamo lo yuan. E Washington deve spiegarci diverse cosette riguardo la manovra varata dalla Fed». Se non è la voce del padrone questa, poco ci manca. Era impensabile, fino a qualche anno fa, vedere un qualunque capo di Stato rivolgersi in un modo simile all’inquilino della Casa Bianca. a pagina 8

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seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

Ma i grandi approvano la riforma di Draghi di Gianfranco Polillo n un contesto internazionale tutt’altro che tranquillo, Mario Draghi ha inviato una lettera al G20 per richiamare l’attenzione sulle cose da fare per evitare di ripetere gli errori del passato. L’ha fatto perché è una di quelle eccellenze che il Paese può ancora vantare. a pagina 8

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I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

220 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

opo otto mesi, l’Iraq ha un nuovo governo. L’annuncio della formazione del secondo esecutivo presieduto da Nouri al-Maliki è stato seguito da una lunga serie di dichiarazioni ottimistiche e di soddisfazione, provenienti da tutte le rappresentanze politiche del Paese. Dopo una lunga resistenza all’idea di formare un governo di unità nazionale, il leader del Dawa si è convinto. a pagina 14

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la polemica

prima pagina

Il governo vuole solo guadagnare tempo

pagina 2 • 12 novembre 2010

Caro Senatùr, al mare ci porti il Cavaliere di Giancristiano Desiderio er uscire dalla fase di stallo nella quale da tempo è il governo conviene affidarsi al vecchio caro principio del terzo escluso: o crisi o elezioni. La terza via, quella dei pasticci tipo “crisi pilotata” o “dimissioni con garanzia di reincarico”, non è data. È vero che la politica è l’arte del possibile, tuttavia mai come in questo caso la cosa migliore da fare è imboccare una delle due vie maestre: il ritorno al giudizio degli elettori o la classica crisi di governo. Del resto, sarebbe davvero molto strano se proprio il presidente del Consiglio, che ha sempre proclamato ai quattro venti di volersi rimettere al voto popolare, si intestardisse nell’idea di mettere in scena una sorta di crisi senza dimissioni o di dimissioni senza crisi. La verità è che anche in questo momento il leader politico della maggioranza non è Berlusconi ma Bossi e il presidente del Consiglio usando l’alibi dell’“esilio” di Seoul sembra quasi assistere impotente agli ultimi giorni del suo governo. Di lui tutto ciò che si sa, oltre alle indiscrezioni - “sono in difficoltà” - è quanto riferisce proprio Bossi: «Berlusconi non si vuole dimettere». Se ne dovrà fare una ragione.

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L’incontro tra Bossi e Fini non ha avuto un esito positivo. Il fatto stesso che circolino due versioni del medesimo incontro, una negativa e una parzialmente positiva, fa capire che gli spazi per manovre spericolate sono strettissimi. Bossi si è sentito ripetere da Fini quanto già sapeva e quanto il presidente della Camera aveva detto a Bastia Umbra: la condizione senza la quale non si può dare vita a un nuovo patto di legislatura è la presentazione delle dimissioni di Berlusconi. Dopo il discorso di domenica di Fini il governo, che già era l’ombra di se stesso, è diventato l’ombra di un’ombra. La posizione politica di Fini basta da sola a realizzare la crisi di governo. La mediazione di Bossi non serve a far cambiare idea a Fini, ma a confrontarsi per capire dove si può andare a finire. Berlusconi si fida di Bossi, anche perché non può fare diversamente, e contemporaneamente resta sulle sue posizioni «non mi dimetto, mi sfiducino alla Camera» - nell’idea di guadagnare tempo e presentarsi poi al voto potendo dire: «Non mi hanno permesso di governare». Ma questa è ormai una favoletta alla quale non credono neanche i puffi. Anche l’arma più affilata che Berlusconi ha fin qui agitato - al voto, al voto - comincia ad essere spuntata. Non resta che l’altra strada: quella delle dimissioni, dell’apertura della crisi e della nascita di una nuova e più solida maggioranza per un nuovo e più concreto patto di legislatura. Può darsi che tutto questo comporti la fine dell’era berlusconiana. Può darsi. Ma se la Lega, che è ciò che resta della politica di ciò che fu un tempo andato il centrodestra, conserva un po’ di buon senso allora non ci vorrà molto a capire che la conclusione del berlusconismo non comporta necessariamente né la fine né l’isolamento della Lega. Ma questo Bossi, che sta “dietro al cespuglio”, lo ha già capito e sta lavorando di conseguenza. Dunque, non resta altro da fare che dire al premier che non si vuole dimettere che se ha ancora una carta da giocare per ritornare a Palazzo Chigi, ebbene, questa è proprio la carta delle dimissioni. Come potrebbe chiedere una nuova fiducia alle Camere se proprio il Parlamento lo mandasse a casa? In fondo, la crisi di governo non deve essere, come si dice, formalmente aperta, bensì formalmente chiusa perché nella sostanza questo governo è in crisi dalla primavera scorsa. Per chiudere la porta all’Udc, Bossi ha fatto un gesto con la manina (l’ennesimo) e l’ha invitata ad andare al mare: qualcun altro dovrebbe andare al mare. Prima che arrivi l’inverno.

il fatto Un’ora di equivoci: va a vuoto la mediazione tra Bossi e il leader di Fli

La crisi pilotata va fuori strada Dopo il vertice, balletto di dichiarazioni sul “reincarico”, finché dalla Corea del Sud il premier gela tutti: «Io non me ne vado. Se ha il coraggio, Fini deve votarmi contro» di Errico Novi

ROMA. Non è una bella giornata. A Seoul il premier lo dice in inglese al premier vietnamita: «In Italia ho qualche problema». Grazioso eufemismo da amabile intrattenitore quale il Cavaliere sa essere anche nei momenti peggiori. In Italia, per essere precisi, si consuma una specie di processo in contumacia. A suo carico, ovviamente. Si riuniscono tutti. Bossi con Fini. Poi ciascuno dei due con i propri stati maggiori. E contemporaneamente anche i colonnelli del Pdl: da Cicchitto a La Russa, da Bondi ad Alfano. Questi ultimi, i pretoriani del Cavaliere, attendono e via via commentano le notizie che arrivano dagli altri vertici. Commentano quindi tra di loro. Si chiedono se a questo punto non sia il caso che Berlusconi accetti di dimettersi e punti al reincarico, come prospetta persino il Senatùr. A loro pare una concessione ormai inevitabile, alla luce dell’ipotesi avanzata dal capo leghista. Lo stesso Bossi, interpellato dai cronisti all’uscita dalla riunione col suo gruppo, dichiara che Fini sarebbe «abbastanza» d’accordo sull’idea del Berlusconi bis. Poi però arriva la zampata del Cavaliere: «Io non mi dimetto. Fini mi voti la sfiducia». Solo allora, solo dopo aver recepito le volontà del contumace Silvio, lo stato maggiore del Pdl rompe le righe e si offre ai taccuini con tono artatamente fermo: «Si va avanti, ma solo con questo presidente del Consiglio e questo governo».

È questo il senso delle affermazioni fatte da Quagliariello, La Russa e gli altri. Sotto forme più riservate, però, emerge più di una subordinata. In forma ano-

nima alcuni dei partecipanti al summit pidiellino aggiungono che la situazione è bloccata sull’irremovibilità di Berlusconi «al momento». Cioè le cose potrebbero cambiare. E s’intende che loro stessi, i pretoriani, potrebbero non risparmiarsi dal sondare, con cautela, la effettiva disponibilità del premier a un passaggio sul Colle. Scene deprimenti. Dice un berlusconiano. «Non si può escludere che il presidente al ritorno dalla Corea accetti davvero di dimettersi per poi ricevere un nuovo mandato da Napolitano. Ma intanto dice che non vuole saperne. E lo fa anche per verificare l’affidabilità dei nostri. Vuole vedere chi lo sollecita di più, chi spinge di più per il passo indietro momentaneo. Anche per farsi un’idea sul futuro, per selezionare quelli sui quali potrà contare davvero».

Lettura molto plausibile. In queste ore che Gasparri definisce «convulse», al vecchio Berlusconi non dev’essere sfuggita l’opportunità di capire anche chi davvero si è messo attorno. Operazione che forse gli consentirebbe di comprendere meglio gli errori che lo hanno condotto nell’attuale stato. Cioè nella condizione di arrivare allo showdown con Fini per essersi incaponito nella difesa di Verdini, Scajola, Cosentino, Brancher. L’altro elemento che d’altronde il presidente del Consiglio può raccogliere dalla giornata di ieri è la disponibilità della stessa Lega al Berlusconi bis. È in fondo il fatto nuovo della giornata. In realtà Bossi ne aveva già parlato ad Arcore lunedì scorso: «Devi sfidare Fini, dimettiti e vediamo cosa fa». Ma già in quella occasione il premier


il retroscena

Ma la Lega vuole restare al governo C’è incertezza nel Carroccio: in nome del federalismo qualcuno vuole mollare Berlusconi di Marco Palombi

ROMA. È meglio una crisi pilotata che una al buio, ha spiegato Umberto Bossi per il quale, evidentemente, se il governo non fosse morto sarebbe ancora in vita. Il fatto però che il leader della Lega s’aggiri nei dintorni di monsieur de La Palice testimonia anche della particolare condizione in cui il nostro si trova in questo momento. Perché l’Umberto da Cassano Magnago non strepita più per andare al voto? Perché ha adottato quello che un ottimista delle buona maniere definirebbe un approccio diplomatico? Il fatto è che il federalismo fiscale, il mantra che in questa legislatura Bossi va ripetendo in ogni osteria padana, non è affatto al sicuro: entro dicembre lo portiamo a casa, ha detto il Senatùr. In realtà, cosa che Roberto Calderoli ha dovuto ammettere anche nella commissione bicamerale competente, i tempi non sono affatto questi e il Carroccio lo sa benissimo: andare a votare adesso (cioè all’inizio dell’anno prossimo) significa, con ogni probabilità, dire addio a questo federalismo per sempre. La faccenda è complessa, tecnica eppure squisitamente politica: all’impossibilità di approvare i decreti attuativi si somma infatti il lento declino di Silvio Berlusconi, che potrebbe non essere più in grado di garantire alla Lega anche nella prossima legislatura la quota di potere - fisico e simbolico - di cui un partito così novecentesco ha bisogno per rimanere in vita. È l’esca del federalismo fiscale che Gianfranco Fini sta sventolando davanti al senatur per indurlo a dare il via libera ad un governo Tremonti? Probabilmente si saprà solo la prossima settimana, ma la cautela di Bossi e qualche

mugugno avvertibile nel Pdl lascerebbero pensare che i lumbard siano meno granitici di quanto sembri nella difesa del Cavaliere.

Tornando alla questione tecnica, il punto all’ingrosso è questo. Per completare la missione affidata dal Parlamento al governo nella legge delega 42 sul federalismo fiscale - giusto uno schema preparato dal presidente della bicamerale La Loggia - mancano ancora dieci decreti attuativi. E non cosette di secondo piano: non sono ancora stati partoriti, per dire, il dlgs sulla fiscalità regionale e quello sulla fiscalità comunale (vale a dire quanti e quali soldi restano alle autonomie e quanti vanno a Roma), il decreto sui famigerati Lea, i livelli essenziali di assistenza che vengono riconosciuti a tutti i cittadini italiani in materia di sanità e istruzione, e una robetta particolarmente indigesta per la Lega come il secondo testo su Roma capitale. Secondo calcoli a spanne il governo, anche lavorando a ritmi forsennati, difficilmente riuscirà a partorire tutta questa legislazione entro l’anno: «Ne approveremo la stragrande maggioranza», ha infatti prudentemente spiegato Calderoli. Anche se fosse, questo non vorrebbe dire aver finito il lavoro: gli schemi di decreto vanno infatti per trenta giorni all’esame della Conferenza unificata e per altri due mesi alla commissione bicamerale. Solo dopo i “pareri” di questi due organismi, che l’esecutivo s’è impegnato a recepire nei vari decreti, il testo può tornare a palazzo Chigi per l’approvazione definitiva. Vuol dire che, anche a passo di carica, il tutto non sarà definitivo pri-

È praticamente impossibile approvare i dieci (delicatissimi) decreti attuativi entro la fine di marzo

aveva risposto picche all’alleato. Lo fa un’altra volta. Solo che in questo secondo caso il dissenso strategico con Umberto è pubblico. È reso pubblico dallo stesso leader leghista. E quindi l’idea di un indebolimento grave dell’alleanza tra i due emerge. Oltretutto il pressing di Bossi non sembra cambiare di molto le posizioni di Fini.

Nell’incontro tardo mattutino di Montecitorio, al quale con i due leader partecipano anche Calderoli e Maroni, il presidente della Camera dice molto chiaramente che «serve una svolta». Non esclude in maniera radicale la possibilità di sostenere un nuovo governo berlusconi. Pone però alcune questioni. Tra le altre, la necessità di aprire una nuova fase del centrodestra. Ma proprio sul punto nella sostanza, si registra il maggiore dissenso tra Lega e Fini. Perché la Terza carica dello Stato chiede che si allarghi la maggioranza anche all’Udc. Mentre su questo Bossi non vuole saperne: «In proposito avremmo dei problemi». Dopo l’incontro con Fini, concluso anche il summit con i suoi, il Senatùr si lascerà andare a espressioni più folcloristiche: «L’Udc? Via, al mare», accompagnando la sentenza dallo stesso scivolamento laterale del palmo della mano dedicato da D’Alema a Berlusconi. Dev’essere una moda. Fatto sta che il segretario dell’Udc Cesa suggerisce un piano vacanze diverso: «È Bossi che dovrebbe andarsene un po’ al mare, magari ad Antigua». Poi nel merito: «Al Paese servono un nuovo governo e un nuovo premier», chia-

ma della fine di marzo o l’inizio di aprile. Si potrebbe votare a maggio, potrebbe ipotizzare qualcuno.

Non servirebbe: con un’atmosfera di questo genere l’opposizione ha già fatto capire che non sarà più collaborativa, anzi ricorrerà a qualsiasi mezzo, dall’ostruzionismo all’abbandono della commissione, per bloccare i lavori. Ci potrebbe pensare il prossimo Parlamento, suggeriranno altri. È assai improbabile, però, che le Camere uscite da elezioni a breve saranno così granitiche sul tema, tanto da votare come primo provvedimento una estensione della delega (che scade il 21 maggio). Il tutto mentre il centrodestra, o quel che ne rimane, nella bicamerale è in una situazione diciamo particolare. L’ago della bilancia è infatti Mario Baldassarri, economista e professore universitario che tiene Giulio Tremonti in gran dispetto, da agosto senatore di Futuro e Libertà. Ecco, sul federalismo fiscale mercoledì Baldassarri ha fatto probabilmente il suo ultimo atto di fedeltà alla maggioranza di centrodestra. Sul decreto sui costi standard, infatti, per la prima volta sono stati prodotti due pareri, uno di maggioranza e uno d’opposizione: il professore era propenso a votare il secondo, ma Fini gli ha chiesto di non esagerare. Quello, allora, ha fatto sapere che li avrebbe votati tutti e due. A quel punto il presidente La Loggia, attraverso una piccola forzatura, ha messo subito in votazione il testo partorito dal PdL che, approvato, ha fatto decadere quello preparato dal Pd. Col clima seguito all’incontro Bossi-Fini, però, è difficile che Baldassarri sia costretto ad un nuovo autodafè. Intanto il nostro s’è portato avanti demolendo le “bandierine propagandistiche” di Bossi e l’intero lavoro sul federalismo di governo e Parlamento: «Il federalismo non

parte a dicembre – ha scandito – È una balla gigantesca perché in realtà i decreti attuativi sono privi della pietra d’angolo». Cioè? «I numeri. Se non ci sono i dati e i numeri è tutto inutile. Il federalismo fiscale è una cosa seria e si farà tra 3-5 anni», spiega. Tutta questa roba, sostiene Baldassarri, è “un escamotage”: «Facciamo una delega della delega, visto che il decreto attuativo rinvia a un decreto del presidente del Consiglio che dovrà tornare in Parlamento». Il prossimo.

rendo che il problema del bis è tutto interno alla ex coalizione di maggioranza.

Berlusconi» e quindi indisponibile ad alernative che non siano condivise dall’alleato.

A maggior ragione è il caso di definirlo un problema se si pensa appunto che sul reincarico, allo stato, la spaccatura non è tanto tra Bossi e Fini, ma tra Bossi e Berlusconi. Il presidente della Camera, ai suoi che lo incontrano dopo le dichiarazioni del ministro delle

Certo, andrebbe anche notato che nella discussione con la Terza carica dello Stato il nome di Tremonti quale possibile nuovo premier è saltato fuori. Ma senza che su di lui si registrasse una convergenza vera, seppure futuribile. È evidente invece che l’attivismo esplorativo di Bossi sia legato alle sorti del federalismo. Di fronte alla possibilità che Fli esca dal governo e faccia mancare i voti in Parlamento, la Lega teme di scontare qualche incidente sulla riforma proprio in dirittura d’arrivo. Bossi si sarebbe spinto oltre soprattutto per questo. Fini invece vuole aspettare il ritorno del premier da Seul: «È un appuntamento importante, vediamo come risponderà alle questioni da me poste in Umbria domenica scorsa». La risposta in realtà già ci sarebbe: non mi dimetto, stacca tu la spina. Basterà a provocare, questo è sicuro, il ritiro della delegazione finiana dall’esecutivo. Pur di scongiurare questa eventualità, Bossi si è «venduto» un’opzione di cui forse non può neppure disporre: «Sono pronto a chiedere l’uscita dal governo degli ex An che non ti hanno seguito, La Russa e Matteoli». È un cadeau classificabile nella rosa di proposte già ventilate a Fini da Gianni Letta. Proposte però già in partenza prive, almeno stando alle cose dette ieri, del timbro berlusconiano. Cicchitto lo ribadisce: «Le dimissioni del premier sono escluse». Bersani dice che un Berlusconi bis sarebbe un delirio. Di certo adesso sembra un’idea fantasiosa.

L’ipotesi di dimissioni del Cavaliere circola anche in un summit tra i colonnelli del Pdl. Solo dopo il rifiuto telefonico del premier tutti dicono: «Non se ne parla» Riforme, si limita a dire: «Le cose sono più complicate di come le mette Bossi». Il quale invece sostiene di vedere «ancora lo spazio per evitare una crisi al buio», e d’altronde «è molto meglio una crisi pilotata». A corroborare il suo punto di vista, il leader del Carroccio aggiunge un auspicio pacificatorio, «Fini non ce l’ha con Berlusconi». Mentre sulla disponibilità del premier alle dimissioni con ritorno, azzarda: «Altre volte è avvenuto così, il presidente del Consiglio è andato dal presidente della Repubblica per avere un nuovo incarico». È improbabile comunque che dalla contraddizione aperta ieri tra Cavaliere e Senatùr possa discendere un immediato deterioramento dei rapporti, tanto più che dai report del summit con Fini trapela anche che Bossi si sarebbe apertamente dichiarato «fedele a


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l’approfondimento

Mentre la quotidianità di Palazzo si accartoccia sulla crisi, è già tempo di bilanci per una stagione di grandi contraddizioni

L’autunno del patriarca

Che cosa è stato il berlusconismo: l’esito della crisi degli anni Novanta, una parentesi o addirittura la manifestazione più compiuta della politica postmoderna? Rispondono tre storici: Gibelli, Perfetti e Macaluso di Riccardo Paradisi ilvio Berlusconi è stato per quindici anni come la nazione secondo Renan: un plebiscito quotidiano, un referendum permanente di chi era con lui o di chi era contro di lui. La storia del Paese dell’ultimo ventennio – perché il Cavaliere è sulla scena politica dalla fine degli anni Ottanta come imprenditore vicino al leader delPsi Craxi – è anche e soprattutto la storia di Silvio Berlusconi, del diffondersi di due pulsioni antagoniste fondate nell’avversione o nella simpatia per lui ma imperniate per adesione o contrasto sulla sua persona.

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Un quindicennio particolare quello berlusconiano segnato da fasi alterne, da vittorie e sconfitte delle coalizioni politiche da lui guidate ma sempre dalla centralità della sua persona. Non a caso per parlare degli ultimi quindici anni di storia italiana uno storico contemporaneista come Antonio Gibelli nel suo recente Berlusconi passato alla storia, l’ Italia nell’ era della democrazia autoritaria usa la formula ”età berlusconiana”, allo stesso modo in cui si parla di «età crispina» o di «età giolittiana».

Silvio Berlusconi infatti può ragionevolmente pretendere ormai, secondo Gibelli, di «intestarsi un’epoca». In contrasto con l’apparente modestia della sua figura, il leader lombardo – secondo lo storico – ha portato al potere la destra proprio nel momento in cui essa sembrava più debole, scompaginata, priva di riferimenti.

Espressione di tendenze profonde della società italiana ma presenti nell’intero mondo occidentale al tempo della mondializzazione, ha tentato di plasmare lo Stato a sua immagine e a misura dei suoi interessi personali. Co-

sì facendo – sempre secondo Gibelli – è certamente riuscito a essere il capo vincente e indiscusso di una fazione; non altrettanto il leader capace di governare il Paese. Resta indeterminato se l’Italia sia ora finalmente arrivata al dosso discendente del berlusconismo. Quello che è sicuro è che il berlusconismo si configura già come un esperimento molto spinto di democrazia autoritaria. Perché il berlusconismo non è solo «l’ esito della crisi politica italiana degli anni Novanta» e neppure un’ infausta, ineffabile parentesi, ma addirittura «la manifestazione per ora più compiuta della

Perché il suo possibile addio viene vissuto come un dramma?

politica nell’ era postmoderna». Insomma ammesso che si sia alla fine della parabola berlusconiana non ci si deve illudere che dopo Berlusconi le anomalie più strutturali della sua cifra politica scompariranno come d’incanto, visto che Berlusconi incarna in qualche modo lo spirito del tempo.

Certo, è indubbio che Berlusconi, dice Gibelli «abbia dato un’ impronta omogenea e determinante a tutta un’epoca», che abbia personalizzato questo quindicennio che abbiamo alle spalle. Ma è anche vero che i suoi oppositori – che pure sono riusciti a batterlo nel 1996 e nel 2006 – non sono mai riusciti a contrastare la sua egemonia. Anche per la straordinaria sintonia prepolitica che il Cavaliere ha instaurato, spesso a prescindere dai risultati di governo effettivamente conseguiti, con una vastissima platea di seguaci e di elettori: qualcosa di diverso e di più che una semplice maggioranza. Sarà anche per questo, per una platea fidelizzata che l’eventuale fine dell’era berlusconiana viene vissuta come un dramma come dice Emanuele Macaluso, direttore delle Nuove ragioni del


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Berlusconi è arrivato al bivio tra grandezza e miseria

Ma com’è difficile uscire di scena

Un vero protagonista si giudica per come abbandona il campo. Ora tocca al premier di Enzo Carra igliacchi. Perché ci togliete quel sorriso smagliante di Silvio Berlusconi? I suoi denti di porcellana, la sua capigliatura che si intona così bene con l’incarnato del viso come in un quadro iperrealista? Chi ci restituirà mai un personaggio di Belli e Dannati che da Scott Fitzgerald passa con eccezionale disinvoltura all’interpretazione magistrale della Lolita di Nabokov? Insomma, quanto dovremo rimpiangere un’epoca ridondante, fastosa nella quale migliaia di giovani donne e maturi signori hanno avuto in sorte il loro quarto d’ora di celebrità in un sistema politico che era piuttosto uno show? Chi potrà convincere l’enorme pubblico di Berlusconi che la Broadway italiana era soltanto una fabbrica di sogni? Chi riuscirà a far sedere davanti alla tv milioni di persone che hanno ancora negli occhi il “contratto con gli italiani”per farli assistere ad un confronto tra normali capi partito e noiosi esperti sull’andamento dell’economia?

V

Il passaggio di stagione sarà durissimo. Gli autori del futuro palinsesto faranno salti mortali per non sprofondare in una crisi d’ascolti e non è detto che ci riescano. «The show must go on», però. Berlusconi ne è consapevole e se conserva un briciolo di generosità per il suo caro pubblico deve aiutarlo ora a superare lo shock. Un protagonista non si giudica tanto per la sua entrata in scena quanto per la sua uscita. È questo il momento decisivo. L’uomo che ha avuto nelle sue mani tre lustri della nostra storia deve scegliere quale ricordo affidare agli italiani. In fondo ora è più libero che nel passato. Si è disfatto via via di tutte le comparse e anche di qualche buon attore che lo avevano affiancato nell’ascesa e caduta della città di Mahagonny. È solo e da solo deve tornare avanti a quella telecamera, filtrata da una calza di nylon, che lo inquadrò il giorno della sua “discesa in campo”. Lo faccia da far suo, si dimetta come solo i grandi sanno fare. Quelle immagini decideranno della sua grandezza o della sua miseria. E rimarranno per sempre. Legate ad un’epoca che gli italiani di tutte le età e di tutte le idee porteranno con loro e rivedranno per anni. Con le inevitabili conseguenze dei ricordi storici. Con rivalutazioni e condanne postume. Con i rimpianti e le nostalgie di chi quell’epoca l’aveva vissuta male e combattuta e le rimozioni colpevoli dei molti che da essa avevano tratto solo benefici. Berlusconi sa che questo non è un momento qualunque. Non siamo in una qualunque crisi di governo. Da qui non si esce con un rimpastino o un rimpastone. Con una “crisi pilotata” (da chi ?) o con un qualsiasi artificio politico, di quelli che si potevano rinvenire nella prima repubblica. Perché di quella fase è stato proprio lui, Berlusconi, il più efficace sterminatore e là non può tornare. Alla sua fine di stagione non si addicono neanche i ricorsi ad altre storie nazionali. Non c’è in vista un 25 luglio perché questo non era, non è un regime. Soprattutto perché non ci sono congiurati né cospiratori.

Non c’è in vista alcun 25 luglio perché qui non ci sono congiurati né cospiratori

Chi oggi gli chiede di dimettersi dopo essere stato a lungo con lui, come Fini, non ha in programma la propria fucilazione. Tutt’al più pensa al prossimo giudizio delle urne. Questa è la novità, questa è la democrazia: passare da un governo ad un altro senza traumi ulteriori. I traumi di questi ultimi due anni e mezzo sono sufficienti a tener vivi il dolore e la rabbia per un bel pezzo. E Berlusconi lo sa.

socialismo: «Questo paese ha assistito al tramonto di molti cicli personali e politici. Ha visto il tramonto di Alcide De Gasperi, quello di Amintore Fanfani, quello di Bettino Craxi sostituito da Ciriaco De Mita. Solo il tramonto di Berlusconi assume i tratti di una tragedia. Insomma avviene in tutto il mondo, in tutti i Paesi democratici che delle leadership escano di scena solo nell’Italia di Berlusconi l’avvicendamento di un assetto politico suscita queste reazioni». Da cosa è dovuta questa anomalia? «Qui diventa un dramma – spiega il suo punto di vista Macaluso – forse perché più che all’avvicendamento d’una leadership stiamo assistendo alla caduta, morbida, d’un semi-regime». Regime,

malgrado il suffisso dimezzante ”semi” è parola forte che il sobrio Macaluso non ha mai usato in questi anni. Gliene chiediamo dunque spiegazione. «È vero, io sono sempre stato contrario all’uso della parola regime. Chi l’ha usata in questi anni m’è sempre apparso superficiale, roboante, incapace di valutare lo scarto tra le parole e la realtà. In Italia c’è una democrazia, ci sono i giornali, c’è il Parlamento. Il problema è che essendoci non un partito di governo ma un aggregato berlusconiano intorno al presidente del Consiglio con la sua fine viene sancita anche la fine di questo aggregato. Il timore è che se muore Sansone possano morire con lui tutti i filistei. Siamo insomma a un passaggio che sta mettendo in evidenza tutta un’anomalia vissuta in questi anni». Berlusconi in effetti è sempre stato considerato un’anomalia italiana. Ma questo basta a parlare di regime o di ”semiregime?”. «Il fatto è che l’aggregato berlusconiano teme che se muore Sansone muoiano tutti i filistei mentre dovremmo essere semplicemente di fronte a un mutamento di maggioranza, di fronte a un dato politico normale di una maggioranza che s’è spaccata, che fa un altro governo, si fanno le elezioni non si fa un dramma. Per questo parlo di fenomenologia e di morfologia di semiregime.

L’ultima fase del berlusconismo segna la metamorfosi di questo fenomeno politico. Bene o male prima c’era un personale politico oggi appare solo lui sulla scena. Una scena da cui non vuole andarsene». Non vuole andarsene forse perché, «Berlusconi come milioni di italiani che lo hanno votato e che continuerebbero a votarlo non è convinto che si sia arrivati all’epilogo del suo percorso», sostiene Francesco Perfetti, storico contemporaneista dell’università di Roma. Per Perfetti il quindicennio berlusconiano non è un pezzo di storia negativo e da buttare della nostra vicenda nazionale. «Il berlusconismo riesce, dopo la fine della guerra fredda, a cambiare di fatto il sistema politico. modernizzandolo con il berlusconismo, rimettendo nel gioco democratico la destra missina che fino agli anni Novanta da quel gioco era esclusa. Sono due fatti che hanno una valenza storica obiettiva». È anche per questo, ragiona ancora Perfetti, che Berlusconi «ha un livello di popolarità ancora molto alto. Perchè il timore è che dopo di lui si torni alla vecchia politica». In questo quadro c’è però anche un elemento negativo secondo Perfetti «Il Cavaliere ha imposto una sorta di comportamento che ha finito per mettere in discussione la sacralità delle istituzioni. E la democrazia trova la sua legittimazione politica nella sacralità delle istituzioni. Da questo peraltro sarà difficile tornare indietro. Lo dimostra anche il comportamento di Fini che si fa rimettere il mandato dai ministri del suo partito nelle sue mani».


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diario

Conti. Tra mille contestazioni incrociate, il governo presenta il maxiemendamento della legge di Stabilità

Il Quirinale taglia Tremonti «Questa Finanziaria non fa scelte»: nuovo affondo di Napolitano ROMA. Dall’osservatorio pri-

di Francesco Pacifico

vilegiato del Colle, Giorgio Napolitano vede sulla manovra «una grande confusione, un buio, un vuoto di confronto sulle scelte da compiere e sulle priorità alle quali destinare le risorse pubbliche». Nulla a che vedere quindi con le trattative – spesso levantine – che in commissione Bilancio della Camera la maggioranza e gli uomini di Fini stanno facendo sul maxiemendamento alla legge di stabilità.

A dirla tutta al capo dello Stato non è piaciuto neanche il balletto di cifre, con la riduzione in 24 ore del maxi emendamento per lo sviluppo da 7 a 5,2 miliardi di euro. Giulio Tremonti si è giustificato dando la colpa all’Europa. A Bruxelles, che da sempre vanta un altissimo potere di interdizione sulle sue manovre, gli avrebbero impedito di fare operazioni extradeficit. Fatto sta che il Presidente della Repubblica ieri ha sottolineato che è vero che «abbiamo un debito pesante sulle spalle e dobbiamo contenere la spesa pubblica. Ma non dobbiamo tagliare tutto». Per questo serve un confronto, bisogna «fare delle scelte». Avrà gradito queste parole Maristella Gelmini. Il ministro dell’Istruzione, che pure porta a casa un miliardo, ha mandato a dire al suo collega del Tesoro che «per l’università e per la ricerca quanto c’è in Finanziaria serve per far fronte alle spese ordinare di funzionamento, per dare soddisfazione ai ricercatori attraverso un piano di assunzioni triennale e per garantire il diritto allo studio. All’ordinaria amministrazione e al diritto allo studio». Non bastano certamente per finanziare la sua riforma dell’università. In allarme anche i finiani. Hanno dato un via libera di massima al maxiemendamento del governo, ma sono pronti a presentare una decina di subemendamenti, come quello che vuole stanziare 400 milioni per coprire il bonus energia del 55 per cento per le ristrutturazioni edilizie in chiave eco-sostenibile, o come quello da 300 milioni per ampliare il fondo da 100 milioni per la ricerca. I finiani chiedono anche 40

Gli enti presentano 15 emendamenti su costi standard e fiscalità

Il federalismo delle Regioni ROMA. Mancano i numeri, soprattutto dei pezzi di tasse da devolvere. Non si prendono in considerazione le prestazioni e i servizi che le Regioni devono erogare (e il federalismo fiscale sovvenzionare). E se la perequazione è un’incognita, sono assenti i premi per i più virtuosi e le sanzioni per gli spendaccioni. È lungo quindici emendamenti il cahier de doleances che le Regioni hanno inviato ieri al governo per modificare il decreto su costi standard e fiscalità locale. Anche ieri Vasco Errani ha ripetuto che «il federalismo fiscale lo vogliamo nei tempi più rapidi possibili». Ma ha fatto intendere che senza modifiche sarà negativo il parere.

Siccome non si comprende «l’equilibrio complessivo dell’assetto del federalismo fiscale», le Regioni chiedono di scrivere i costi standard non soltanto in base alle performance delle realtà con i conti della sanità a posto. Ma pretendono che nel calcolo rientrino anche le esigenze e le prestazioni di quegli enti che «hanno garantito l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza in condizione di equilibrio economico». Se con questo si considera anche «la composizione della popolazione» e l’appartenenza geografica ecco rientrare nei benchmark il Lazio e la Campania ripuliti dai draconiani piani di rientro appena approvati dal governo. Più in generale i risparmi fatti in sanità devono restare in loco. Mentre sulla parte fiscale le prime correzioni riguardano la possibilità di azzerare l’lrap. Siccome è con il balzello che

si paga il capitolo – e lo Stato non riborserà le mancate entrate – gli enti chiedono di poter fare anche meno onerose «deduzioni della base imponibile». Paletti anche alla soppressione dei trasferimenti statali, previsto dal 2011. Accanto alla sanità, i governatori hanno voluto blindare anche tutto quello che non riguarda «materie di competenza legislativa regionale», tenendo così fuori capitoli importanti come il trasporto pubblico o l’assistenza alle categorie più deboli. Quindi, si chiede un decreto per identificare gli ambiti da tagliare. Il governo poi deve «assicurare la copertura del minor gettito derivante dallo soppressione dei tributi». E garantire «una completa compensazione tramite modifica di aliquota o compensazione di altri tributi» se a livello centrale s’intende toccare basi imponibili e livelli dei tributi locali. Le Regioni poi vogliono sia «disciplinare come tributo proprio la tassa automobilistica regionale», dandosi loro il potere di devolverla, sia un pezzo di Ires.

Ampio il capitolo della lotta all’evasione, con i governatori che rivendicano un ruolo più ampio, magari con comitati d’indirizzo ad hoc nelle sedi regionali delle Agenzie per gestire la raccolta dei tributi e il contrasto al sommerso. Passo successivo mantenere sul territorio «l’intero gettito derivante dall’attività di recupero fiscale riferita a tributi propri e ad addizionali». In loco deve restare «una quota del gettito Iva» da calcolare però in base ai nuovi (f.p.) criteri di compartecipazione.

milioni di euro in più per l’editoria e altri 6 milioni per i collegi universitari. Così più dei provvedimenti in sé, la maggioranza fedele al ministro, i finiani e gli autonomisti siciliani, le opposizioni si sono interrogati sulle coperture presentate dal Tesoro per capire se è possibile implementare la leva dello sviluppo nei prossimi passaggi legislativi. Su 5,2 miliardi euro scovati da via XX settembre, l’asta delle frequenze digitali dovrebbe garantirne 2,4 miliardi. Poco più di mezzo miliardo sarà recuperato rimodulando i tributi in materia di leasing immobiliare per il prossimo triennio. Un altro mezzo miliardo dal capitolo giochi: come si evince dalla stima presente nella relazione tecnica del governo, tra i 227 e i 335 milioni saranno recuperati nel 2011 dal contrasto all’illegalità e all’evasione fiscale, 125 milioni dal piano straordinario di verifiche sugli apparecchi da intrattenimento, mentre altri 40 milioni arriveranno attraverso le modifiche sulle concessioni del gioco fisico. Dal capitolo lotta al sommerso, tra controlli fiscali più mirati e diminuzione del taglio delle sanzioni per chi si accorda con il fisco, si attendono 610 milioni.

Nel pacchetto di Tremonti quindi il miliardo per la ricerca e l’università, gli 800 milioni per il salario di produttività e 1,5 miliardi per gli ammortizzatori sociali. Allentato per una cifra pari a 400 milioni il patto di stabilità interno per i Comuni. Ma secondo l’Anci non è sufficiente. Disotterrano l’ascia di guerra anche i governatori: a fronte di 9,5 miliardi di tagli per il prossimo biennio ci sono “soltanto” 300 milioni, con il governo che prevede di fatto costringe gli enti ad aumentare il prezzo dei trasporti per i pendolari nella ripartizione del fondo da 465 milioni di euro. Guardando agli altri interventi, l’alta velocità della Torino-Lione si vede destinare 35,6 milioni di euro, mentre ne ottiene 12 il progetto definitivo per il tunnel esplorativo della Maddalena. Sono stati attribuiti sessanta milioni per l’editoria e 45 per l’emittenza locale.


diario

12 novembre 2010 • pagina 7

Il ministro Maroni è offeso e querela la pm dei minori

L’arciprete: «Siamo in crisi, troppa opulenza offende»

Caso Ruby, Fiorillo attacca: «Calpestata la verità»

Tiffany al Duomo. No della Curia di Milano

MILANO. Il pm del Tribunale dei minori di Milano Annamaria Fiorillo, alla quale è stato affidato il caso di Ruby la notte in cui venne accompagnata in questura, il giorno dopo il suo sfogo, conferma di essersi rivolta al Csm, ribadisce le accuse nei confronti del ministro dell’Interno e anzi usa parole ancora più pesanti: «Maroni è andato in Parlamento a calpestare la verità e questo non lo posso permettere». Da parte sua, Maroni l’ha querelata; e lei replica: «Mi diverte». Il Csm ha comunicato con una nota di aver già trasmesso al procuratore generale della Cassazione la lettera del pm Fiorillo, visto che questi ha «avviato accertamenti conoscitivi sulla vicenda». «Il Comitato - dice il comunicato - letta la nota inviata dalla dottoressa Annamaria Fiorillo in data 10 novembre 2010, considerato che il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione comunica di aver avviato, fin dal 2 novembre 2010, accertamenti conoscitivi sulla vicenda con richiesta al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano, delibera di trasmettere copia della citata nota al P.G. presso la Cassazione, riservandosi successive determinazioni».

MILANO. L’annuncio è arrivato dal Comune di Milano: «Una mega boutique da 200 metri quadrati, col marchio Tiffany, nel centro di piazza Duomo, sotto a un albero di Natale alto 48 metri e illuminato da centomila luci bianche». La risposta, durissima, è arrivata dalla Curia: «Sono sdegnato, è un’idea offensiva, quella di mettere una gioielleria al centro di piazza Duomo in un momento di grave crisi economica com’è quello che la città affronta», ha protesta monsignor Luigi Manganini, l’autorevole arciprete del Duomo. Non è la prima volta che la Curia ambrosiana parte lancia in resta contro Palazzo Marino per l’uso della piazza più importante della città. Ma questa volta si capisce che la

Come si ricorderà, nella lettera resa nota mercoledì scorso, Annamaria Fiorillo, che era il pm di turno al tribunale presso i minorenni la sera in cui Ruby

Morto il tassista pestato per un cane Gli aggressori adesso sono accusati di «crudeltà» di Gualtiero Lami

MILANO. Luca Massari, il 45enne tassista di Milano aggredito un mese fa per avere investito e ucciso un cane, è morto giovedì mattina all’ospedale Fatebenefratelli di Milano. Il tassista non era mai uscito dal coma. Due giorni fa era stato trasferito dal reparto di rianimazione in neurochirurgia, perché aveva ripreso a respirare da solo: tuttavia il quadro neurologico era rimasto invariato. Dopo la morte di Luca Massari il pm di Milano Tiziana Siciliano ha modificato l’imputazione per i tre aggressori, che sono detenuti in carcere. La loro posizione ora è molto grave, perché sono accusati di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dai futili motivi. «È successo alle undici e mezza. Stavamo salendo e il medico ha allargato le braccia». Il padre di Luca Massari è riuscito a dire soltanto queste parole prima di scoppiare in lacrime, in attesa di salire al terzo piano, nel reparto di neurologia, per raggiungere gli altri congiunti. Appresa la notizia del decesso nel corso di una conferenza stampa in municipio, il sindaco Letizia Moratti non è riuscita a trattenere la commozione. «Le mie condoglianze più sentite alla famiglia. In questi giorni sono stata in contatto con il padre: è un episodio che mi ha colpita, mi addolora e mi tocca nel profondo. Una giovane vita è stata spezzata in modo assurdo, per motivi assolutamente futili». Mercoledì Marco Massari, il fratello di Luca, aveva parlato della loro speranza: «Un segnale, visivo, vocale, qualsiasi segnale, che per ora non c’è stato. Per adesso ho la sensazione che Luca sia in coma profondo, non vedo sofferenza, non sembra percepire il suo stato. E questa è la cosa buona, ma pensa ad essere intrappolato in un corpo così...». Inconsolabile la fidanzata Patrizia, che gli è stata accanto giorno e notte e che già sognava di poterlo trasferire in una struttura di riabilitazione.

Dominioni a Milano, Luca Massari investiva inavvertitamente con il suo taxi un cocker scappato in strada. Il taxista era sceso dall’auto per prestare soccorso al cane, rimasto ucciso, e per scusarsi, ma venne pestato brutalmente da un gruppetto di tre persone. Gravissimi i danni subiti: un grande edema cerebrale e lesioni al viso, ai polmoni e alla milza. Massari entrò in coma e subì anche un arresto cardiaco.

Trasportato all’ospedale Fatebenefratelli, le sue condizioni apparvero subito disperate, tanto che i medici non garantirono ai familiari che avrebbe superato le 12 ore. Massari invece è sopravvissuto per un mese, fra tanti bassi - compreso un intervento al cervello per alleggerire la pressione esercitata dall’edema - e pochi alti. Non si è mai svegliato. Subito dopo il pestaggio venne arrestato Morris Michael Ciavarella, 31 anni, e un paio di giorni dopo i fratelli Citterio, Piero, 26 anni, incensurato e senza un lavoro stabile, e Stefania, commessa di 28 anni e fidanzata di Morris. I tre erano finora detenuti in carcere per tentato omicidio in concorso. Ora l’accusa è di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dai futili motivi. Le forze dell’ordine continuano anche le indagini sulle intimidazioni verificatesi nei giorni immediatamente successivi al pestaggio, con l’aggressione a un fotografo e l’incendio dell’automobile di uno dei testimoni del delitto. Stando alle indagini, sarebbe stata Stefania la prima a picchiare il tassista, dopo aver inveito a lungo contro di lui perché aveva investito con la sua auto il cane di una sua amica, la fidanzata di Piero. Poi sono intervenuti il fratello e il fidanzato Ciavarella. Piero Citterio ha ammesso in un interrogatorio di aver pestato con violenza il taxista, mentre Ciavarella avrebbe sferrato alla fine una ginocchiata contro la faccia di Massari, che è caduto a terra e ha battuto la nuca contro il marciapiede.

Il sindaco di Milano Letizia Moratti: «Un omicidio commesso per “futili motivi” è davvero una tragica assurdità»

fu portata in Questura per un furto, ha segnalato discrepanze tra la sua versione dei fatti e quanto invece riferito dal ministro Maroni e dal procuratore di Milano Bruti Liberati. «Non ricordo di aver autorizzato l’affidamento della minore El Mahrouk Karima a Minetti Nicole», scrive nella relazione inviata al Csm. Fiorillo sostiene di aver disposto di accompagnare la ragazza «presso una comunità protetta, eventualmente trattenendola durante la notte presso gli uffici finchè una tale struttura non fosse stata reperita».

Era esattamente un mese fa, il 10 ottobre, quando, poco dopo l’una, in Largo Caccia

pazienza dei prelati è arrivata agli sgoccioli. Lo dicono i toni furenti del monsignore, stretto collaboratore dell’arcivescovo Dionigi Tettamanzi: «Sono a dir poco sconcertato di fronte alla notizia dell’oreficeria autorizzata dal Comune davanti alla cattedrale. Non è un negozio per tutte le tasche, ma un simbolo dell’opulenza, a pochi metri dal sagrato, una vetrina che potranno permettersi di guardare pochissime persone.Trovo tutto questo di cattivo gusto e profondamente sbagliato».

Già in passato la Curia milanese si era indispettita per la piazza «trasformata in un suk», con gazebo e tendoni di plastica per vendite promozionali. Di fronte alle rimostranze del Duomo, il Comune aveva promesso maggiore cautela nelle autorizzazioni. Così ad aprile venne negato alla Apple il permesso di aprire in piazza Duomo un negozio, a forma di cubo trasparente, come quello della Quinta Avenue a NewYork. Ma, a maggio, ci fu una nuova rottura, dopo la rovinosa festa neroazzurra in Duomo per la vittoria di Champion League. L’arciprete si infuriò. Ma il sindaco Moratti non si fece da parte: «La piazza è dei milanesi».


mondo

pagina 8 • 12 novembre 2010

Summit. Il G20 prosegue in ordine sparso, tra polemiche regionali e accordi economici impossibili fra i partecipanti

La voce del padrone Hu Jintao sfida Obama: «Non rivalutiamo lo yuan. E voi dovete spiegare la manovra» di Vincenzo Faccioli Pintozzi e per Obama “il mondo è più forte se gli Stati Uniti sono più forti”, per la sua controparte cinese è finito il tempo della retorica: «Non rivalutiamo lo yuan. E Washington deve spiegarci diverse cosette riguardo la manovra varata dalla Fed». Se non è la voce del padrone questa, poco ci manca. Era impensabile, fino a qualche anno fa, vedere un qualunque capo di Stato rivolgersi in un modo simile all’inquilino della Casa Bianca. Eccezion fatta per i Paesi con cui l’America era in guerra, i summit internazionali erano occasioni in cui omaggiare e cercare l’aiuto della grande potenza occidentale.

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Ma in questo G20, con sullo sfondo le montagne della Corea e non quelle del Nevada o della Scozia, il declino occidentale si declina con il tono di Hu Jintao. Che ha ribadito oggi al presidente americano Barack Obama come Pechino «intenda proseguire nella riforma del

meccanismo di scambio dello yuan» ma ha aggiunto che questa «richiede un ambiente esterno solido» e che «può procedere solo in maniera graduale». Le parole di Hu sembrano far tramontare ogni speranza di un accordo di una qualche rilevanza al termine dei lavori

yuan, considerato che in quel momento l’economia del Paese appariva in fase di frenata».

Pechino è stata per mesi al centro delle polemiche di Washington; lo yuan, la moneta cinese, era stata vincolata al dollaro nel luglio 2008, quando la

Il dragone asiatico guarda con sospetto i 600 miliardi stanziati dalla Federal Reserve, e vuole che Washington dia le rassicurazioni necessarie per continuare a investire sul biglietto verde del G20. In questo senso vanno anche le parole di un membro della delegazione tedesca, secondo cui «è proprio Pechino l’ostacolo sulla strada del compromesso in merito ai temi ancora più dibattuti». Secondo l’emittente di Stato cinese, Hu «ha spiegato a Obama che la Cina è stata molto responsabile nella sua gestione della politica monetaria e che non è stato facile decidere a giugno di aumentare la flessibilità dello

crisi dei mutui subprime iniziava ad emergere in tutta la sua gravità. Nel giugno di quest’anno il governo cinese ha acconsentito a un lieve apprezzamento, che ha lasciato insoddisfatti gli americani. Secondo il Congresso americano la Cina manipola artificialmente la sua valuta, fissa un tasso di cambio tra il 20% e il 30% inferiore al valore reale della moneta, e così facendo ottiene un vantaggio sleale nei commerci con l’este-

ro, contribuendo a gonfiare a dismisura il deficit americano. Le pressioni esercitate per spingere la Cina a rivalutare lo yuan renminbi si sono infrante: «Un apprezzamento repentino provocherebbe disoccupazione, instabilità sociale e afflusso di capitali speculativi capaci di distorcere la nostra crescita economica» ha ripetuto in più occasioni il premier Wen Jiabao. Nelle ultime settimane Pechino ha anche avuto occasio-

ne di rispedire al mittente le accuse. Per gli economisti, i funzionari e i giornalisti cinesi la manovra di alleggerimento quantitativo varata dalla Fed la scorsa settimana «non è altro che una forma di manipolazione di valuta neanche troppo mascherata. Gli Stati Uniti ci devono qualche spiegazione».

Affermazione (sarebbe meglio dire imposizione) rivolta nuovamente, ieri, da Hu a Oba-

Il numero uno di Bankitalia presenta la riforma finanziaria con il plauso di tutti i capi di Stato presenti in Corea del Sud

La legge di Draghi per difendere le banche di Gianfranco Polillo n un contesto internazionale tutt’altro che tranquillo, Mario Draghi ha inviato una lettera al G20 per richiamare l’attenzione dei capi di governo sulle cose da fare per evitare di ripetere gli errori del passato. L’ha fatto nella sua qualità di presidente del Financial Stability Forum. Ma l’ha fatto soprattutto perché è Mario Draghi. Perché gode una stima internazionale consolidata, perché è una di quelle eccellenze che il Paese, nonostante tutto, può ancora vantare. Dovrebbe essere quindi motivo di orgoglio per le forze politiche e sociali italiane e per gli stessi cittadini. Non capita tutti i giorni che un nostro connazionale possa indirizzare ai potenti della Terra una lettera. E che questa sia presa in considerazione con il dovuto rispetto che si deve a una persona che ha saputo unire prestigio e competenza. Vedremo quali saranno le reazioni sia della stampa italiana che di quella internazionale. Per quanto ci ri-

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guarda, la nostra valutazione non si fonda solo sulle caratteristiche soggettive del personaggio.

Dietro Mario Draghi c’è innanzitutto la struttura di Banca d’Italia. Una delle grandi istituzioni del Paese. Negli anni passati quell’immagine fu appannata dagli atteggiamenti di Antonio Fazio.

principali istituti di credito italiano l’inglese non sarà la lingua dominante, ma certo è che il loro radicamento territoriale ha impedito errori come quelli commessi in Lehman Brothers o nei grandi gruppi internazionali che troppo spesso hanno scambiato la normale intermediazione finanziaria per una sorta di roulette russa, dove il banco era inevita-

Non escludere il fallimento in caso di cattiva conduzione aziendale; apparati istituzionali per evitare «il contagio»; più capitale per gli investimenti: ecco le regole del governatore Ma oggi, che tanta acqua è passata sotto i ponti, anche certe sue prese di posizioni vanno, forse, rivalutate. La difesa intransigente delle banche italiane dalle possibili scorrerie dei predatori esteri rimane un titolo di merito che certi episodi, pure censurabili, non hanno scalfito. E a valle di Banca d’Italia esiste la solidità del sistema bancario italiano. Nei

bilmente destinato a vincere. Passata la grande euforia, le loro perdite hanno gonfiato i debiti sovrani ed esposto i relativi paesi al rischio di default. Il caso più tipico è quello irlandese. Con un debito pubblico pari a poco più della metà di quello italiano – 77 per cento del Pil contro il 118 – l’Irlanda, a causa del dissesto del suo sistema bancario, deve pa-

gare un tasso d’interesse, per il rinnovo dei titoli in scadenza, 5 volte tanto quello italiano: 676 punti base contro 161.

Il grande parafulmine che ancora sta salvando – ma fino a quando? – il nostro Paese è stato una concezione dello sviluppo economico e sociale che solo fino a qualche anno fa sembrava essere il sinonimo di una visione passatista. Si parlava allora di «economia sociale di mercato», quando il modello anglosassone – debito, spregiudicatezza finanziaria e maggior tasso di crescita relativa – sembrava dovesse omologare l’intera comunità internazionale. Al punto che dalle relative distanze da quel modello nasceva il giudizio circa la modernità delle strutture economiche e sociali. Merito di Mario Draghi è stato anche quello di non aver ceduto alle mode, per riproporre, seppure in termini tutt’altro che apologetici, la necessità di continuare nel solco di una rinnovata tradi-


mondo

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Manifestanti riuniti a Seoul per protestare con il summit internazionale. A sinistra, l’intervento del Cancelliere tedesco Angela Merkel. In basso il Governatore Mario Draghi

il Fondo Monetario Internazionale. Sul tema della valute non appaiono esservi maggiori possibilità di un’improvvisa schiarita. Se gli Stati Uniti sono tornati ieri a premere sulla Cina nell’incontro bilaterale fra i due presidenti affinché prosegua con decisione il programma di sganciamento dello yuan dal tasso di scambio semifisso rispetto alle altre principali valu-

di rassicurazioni sul flusso di esportazioni verso gli Usa, mentre la Casa Bianca darà probabilmente le spiegazioni richieste dal leader cinese riguardo la manovra della Fed.

Questo perché Obama sa bene chi detiene la maggior parte del debito estero statunitense, e a ogni creditore che si rispetti vengono date le informazioni

Sulla guerra valutaria, l’incontro di Seoul non produrrà nulla di utile. L’impressione è che Casa Bianca e Zhongnanhai vogliano sbrigarsela da soli nell’incontro bilaterale del prossimo dicembre ma. Cala dunque il sipario sulla prima giornata di lavori del G20, e nulla al momento sembra legittimare la speranza di un epilogo positivo del vertice con accordi vincolanti sui temi principali: guerra valutaria, squilibri globali e requisiti di capitale per le banche di importanza sistemica le questioni principali. Gli sherpa si affannano a cercare un compromesso o quanto meno dei punti di intesa, ma a parte la riforma fi-

nanziaria presentata dallo Stability Board di Mario Draghi – l’unico italiano con un peso al summit – tutto lascia pensare che i Venti decideranno come al solito di non decidere.

Il governo di Pechino sarebbe - secondo una fonte interna alla delegazione tedesca - il vero ostacolo al raggiungimento di intese di compromesso in particolare sul tema degli squilibri commerciali oltre che su

zione. L’insieme di quei valori che sono il baricentro delle proposte elaborate all’interno del Financial Stability Board di cui la lettera, inviata ai grandi della Terra, fornisce la necessaria declinazione. Il suo tono è giustamente preoccupato. I germi della crisi – quella che ha fatto sprofondare l’economia internazionale nel ricordo del 1929 – non sono stati estirpati. Al contrario, in alcuni Paesi come gli Stati Uniti, si è continuato come se nulla fosse. Le correnti speculative – il cosiddetto hot money – imperversano sui quattro continenti, costringendo i singoli Paesi a nuove regolamentazioni amministrative. In Cina, in Brasile, in India si cerca di porre freno all’erraticità del “mordi e fuggi” con imposte che sterilizzano l’eccesso di liquidità. Si cerca, così, di combattere gli effetti collaterali – la rivalutazione monetaria – che questi movimenti producono. Nello stesso tempo la predilezione di tante banche per la pura attività di trading – dove si realizzano i maggiori profitti – comporta scarsità di credito per le attività direttamente produttive. È il dramma di tante banche centrali: a partire dalla Fed americana. Continuano ad immettere liquidità sul mercato, nella speranza di rimettere in moto i processi di investimenti. Ma è come spegnere l’incendio con un tubo bucato. L’acqua non

quello delle valute. Sul primo punto la Cina è contraria a forme di controllo internazionale sugli squilibri globali e spinge affinché il testo del comunicato finale rifletta la sua posizione e sia comunque il più vago possibile. Stati Uniti ed Europa spingono invece per un impegno almeno generico a qualche forma di monitoraggio internazionale sugli squilibri commerciali, magari nel contesto dello stesso G20 o di istituzioni come

si riversa sul fuoco, ma si disperde nei rivoli del mercato internazionale alla ricerca di occasioni immediate di profitto.

C’è poi il tema delle banche troppo grandi per fallire. Era una delle preoccupazioni del Board. La crisi, grazie al gioco del merger e delle acquisizioni, ha creato mostri ancora più grandi. In questo favorite da un management rapace,

te, Pechino non appare disposta a cedere terreno.

L’impressione è che Hu e Obama abbiano deciso di rimandare ogni confronto diretto alla loro bilaterale, prevista per dicembre a Washington, per lasciare fuori la comunità internazionale da ogni discussione in merito. Per quanto riguarda la valuta, Pechino si dirà probabilmente disposta a fare nuove concessioni soltanto in cambio

che vuol continuare a godere delle retribuzioni miliardarie che la maggiore dimensione aziendale gli consente di difendere con forza maggiore. Ecco allora il tema delle regole che devono presiedere agli emolumenti. Nessun dirigismo: ma parametrare quegli stipendi – fisso ed accessori – ad un tempo più lungo, necessario per valutare se quegli eventuali maggiori profitti sono il frutto

utili riguardo ai denari che ha investito. Probabilmente, dunque, più che di G20 si tornerà a parlare di G2. Mettendo da parte il declino dell’Occidente, di cui Washington sarà ancora per molto tempo la bandiera ufficiale quanto meno nei rapporti con l’Oriente. E sarà in quell’occasione che l’Europa frammentata in maniera vergognosa - deciderà da che parte stare su questo palcoscenico sempre più stretto.

della sapienza del banchiere. O il colpo fortunato di una speculazione occasionale. Il tutto accompagnato da interventi di carattere strutturali destinati a scongiurare quelle occasioni che fanno di ogni onesto un possibile ladro. Quattro le regole fondamentali. Non escludere l’eventualità del fallimento in caso di cattiva conduzione aziendale. Ciascuno Stato deve dotarsi di un apparato istituzionale che permetta la liquidazione del singolo istituto di credito – per quanto grande esso sia – senza determinare operazioni di contagio o penalizzazione per i depositanti. Più capitale nelle banche per ridurre la leva rispetto ai propri investimenti. È il tema di Basilea 3. L’obiettivo è quello di approntare una garanzia maggiore per gli eventuali creditori e ridurre l’esposizione al rischio. Potenziare l’attività di vigilanza in grado di prevenire eventuali eccessi di moral hazard. Standardizzare lo scambio dei prodotti derivati, per introdurre quella trasparenza che oggi manca. Quindi rompere il gioco e le possibili collusioni con le agenzie di rating e gli istituti di credito che, seppure in forme diversa, le controllano o le influenzano. Regole di semplice buon senso: si potrebbe dire. Ma forse proprio per questo Mario Draghi ha dovuto, con forza, richiamarle.


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panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Ormai siamo il Paese dove non può piovere iamo diventati il Paese dove non può più piovere. Se piove tutto si allaga, i fiumi s’ingrossano fino a straripare, le campagne si allagano, il fango invade strade, cantine, case. Bastano due giorni di pioggia per mettere una parte d’Italia a mollo. Il Veneto si è allagato e i padani non hanno risparmiato critiche al loro governo Berlusconi-Bossi. Quando il maltempo è passato da Nord a Sud ecco una nuova emergenza in Campania (ne parliamo qui accanto). Ci sono state abitazioni inondate e colture distrutte e oltre millecinquecento sfollati. Ormai ogni volta che il cielo si annuvola e comincia a piovere gli italiani, allarmati dalla televisione, sono in apprensione. La nuova emergenza è in agguato. Ma perché solo qualche anno fa tutto ciò non accadeva?

S

Sul sito della Regione Campania, nella sezione dedicata alla difesa del suolo, si può leggere quanto segue: «Ogni pioggia intensa o prolungata evidenzia l’estrema vulnerabilità del territorio campano e, a causa delle modificazioni intervenute sul suo assetto e sulla sua utilizzazione, le conseguenze di questi fenomeni assumono sempre più spesso il carattere di eventi calamitosi tragici, che provocano - con ormai intollerabile frequenza - la perdita di vite umane». Questo è un piccolo esempio della cosiddetta “emergenza idrogeologica” che non è causata dalla Natura di leopardiana memoria ma dalla incuria degli uomini che hanno abbandonato il lavoro dei campi e dei fiumi. Le amministrazioni, in particolar modo le Regioni, dovrebbero intervenire e curare il territorio, ma una volta fatti studi e analisi ci si limita a pubblicare i risultati e a riempire qualche pagina web. Così alle prime piogge autunnali i fiumi s’ingrossano, gli argini cedono, le campagne si allagano ed è tutto un mare di fango. Le scene di questi giorni le abbiamo già viste negli anni scorsi. Al posto delle immagini di oggi si potrebbero mandare in onda - scusate l’involontaria ironia del linguaggio - immagini di repertorio. In luogo delle dichiarazioni e lamentazioni odierne si potrebbero riprendere pari pari le dichiarazioni degli anni addietro. Lo ha fatto, ad esempio, il giornalista Angelo Lomonaco nello stendere il suo pezzo sul famoso fiume Sarno che nell’antichità era, appunto, celebre e celebrato come un dio e oggi è famigerato per la sua pericolosità. Quanto dichiarato sei anni fa dall’allora sindaco di Scafati va benissimo anche per l’emergenza di oggi: «La città è allagata, fango dappertutto, tutte le attività sono bloccate e io sono stanco di fare il sindaco in queste condizioni, da solo, mentre i parlamentari pensano solo a fare passerella. Se c’è qualcuno che riesce a risolvere i problemi si faccia avanti, gli cedo ben volentieri il posto. Altrimenti la prossima volta che piove chiudiamo la città e ce ne andiamo via». Siamo diventati il Paese dove non può più piovere. Siamo diventati il Paese dove la demagogica frase «piove, governo ladro» ha, purtroppo, più di un fondo di verità.

Emergenza maltempo, Salerno è senza acqua Interrotto l’acquedotto del Sele: la fornitura sarà razionata di Andrea Ottieri

SALERNO. Il maltempo non fa distinzioni geografiche: non si sono placate le polemiche per l’alluvione in Veneto (appena mercoledì il governo ha stabilito di assegnare alla Regione 300 milioni per fare fronte ai danni) e già si aggrava l’emergenza in Campania. Ieri in Prefettura a Salerno c’è stato un vertice per stabilire gli interventi da attuare al fine di garantire il ripristino dell’erogazione idrica nei 14 comuni serviti dall’acquedotto del Sele: un tratto della conduttura, infatti,si è rotto a causa dello straripamento del fiume. In particolare, si devono stabilire le modalità con cui rifornire di acqua potabile le 500mila persone colpite dall’avaria, residenti soprattutto nei comuni della piana del Sele, tra cui Eboli e Battipaglia, e poi Capaccio-Paestum, Sala Consilina e, a Salerno, nei quartieri Pastena e Torrione. A Nocera Inferiore sono 30 le persone che la notte scorsa non hanno dormito nelle proprie abitazioni. A Sala Consilina sono 90 le persone evacuate. Il prefetto di Salerno, Sabatino Marchione, si è complimentato con le comunità colpite dai nubifragi di questi giorni. «Bisogna complimentarsi con i comuni del territorio che sin dalle prime ore - ha detto il prefetto si sono rimboccati le maniche per far fronte alla grave emergenza. Soprattutto nei piccoli centri i sindaci hanno già dato disposizione per servire la popolazione con bottiglie di acqua minerale e con l’installazione di autobotti». Il sindaco di Salerno, Vezio De Luca, ha sottolineato che i circa otto milioni di euro necessari alla riparazione dei guasti saranno investiti dal Comune, «anche se la situazione dell’acquedotto è talmente compromessa che non c’è alcuna certezza che queste riparazioni siano sufficienti in futuro».

comuni di Atena Lucana e San Pietro al Tanagro, dal km 63,500 al km 67,250, chiuso mercoledì sera a causa dell’esondazione. Rimane lo stato di allerta e le squadre Anas presidiano la zona per monitorare eventuali superamenti dei livelli di guardia del fiume. Sulla stessa arteria stradale permane la chiusura, a causa di una frana verificatasi nelle prime ore di ieri mattina, del tratto compreso tra il km 44,700 e il km 50,000. Le deviazioni vengono segnalate in loco dal personale Anas presente sul posto con le squadre di pronto intervento. La situazione del Sele è invece in lento miglioramento a Capaccio-Paestum, dove il fiume, esondato in più punti nella notte tra martedì e mercoledì allagando colture e abitazioni e costringendo circa 300 persone ad abbandonare le case, sta gradualmente rientrando negli argini. Il sindaco aveva invitato la cittadinanza ad abbandonare le case, ma la stragrande maggioranza degli sfollati aveva preferito trascorrere la notte in auto per paura di possibili fenomeni di sciacallaggio.

Intanto Napolitano va in Veneto: «So che avete fatto degli sforzi straordinari, e adesso non dovete sentirvi soli»

La stessa area, in particolare le campagne di Sala Consilina nel Vallo di Diano, è interessata dall’esondazione di un altro fiume, il Tanagro. Qui non si contano i danni relativi soprattutto al bestiame disperso o annegato a causa dell’ondata fuoriuscita dagli argini del fiume. In località Barca, poi, si è provveduto all’assistenza di diverse famiglie che hanno visto le loro abitazioni al pian terreno invase dall’acqua. Di positivo c’è comunque la riapertura del tratto della strada statale 166 degli Alburni, tra i

Dalla parte opposta della Penisola, invece, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha incontrato presso la Prefettura di Padova i sindaci dei comuni veneti colpiti dal maltempo. Il capo dello Stato si è intrattenuto con loro per circa un’ora, presenti il sindaco di Padova, Flavio Zanonato, e il Governatore Veneto, Luica Zaia. «Io non posso sostituirmi a chi deve dare risposte avendo la competenza e la responsabilità», ha detto Napolitano dopo l’incontro con i sindaci. «Mi sono impegnato a rappresentare le situazioni e i problemi che i sindaci mi hanno esposto, dando prova di aver fatto sforzi straordinari davanti all’emergenza». Affrontando poi il tema della scarsa copertura mediatici dell’alluvione, Napolitano ha ricordato che «i sindaci che ho incontrato mi hanno detto di essersi sentiti soli perché, per alcuni giorni, la stampa nazionale non si è occupata di quello che accadeva qui. Se non si è rappresentati ci si sente soli. Certo, ci si sente soli anche se non si è assistiti e sorretti dalle istituzioni, ma anche se l’informazione non parla di quello che sta accadendo. Le responsabilità dell’informazione sono tante, e non sarò io ad elencarle, ma è molto importante lo stare sulle realtà e sui problemi della gente».


panorama

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Vaticano. Il Papa raccoglie le tematiche del Sinodo sulla Parola di Dio enedetto XVI ha chiosato le oltre duecento pagine dell’Esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini, con un invito a «riscoprire la centralità della Parola di Dio» nella vita personale e della Chiesa. Il documento - presentato ieri nella Sala Stampa vaticana raccoglie le riflessioni e le proposte emerse dal Sinodo dei Vescovi svoltosi in Vaticano nell’ottobre 2008 sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”. Il Pontefice dunque, ha lanciato un appello ai pastori, ai membri della vita consacrata e ai laici, per la riscoperta delle Sacre Scritture, sottolineando «l’urgenza e la bellezza» di annunciarle per la salvezza dell’umanità come «testimoni convinti e credibili del Risorto». L’invito di Benedetto XVI è quello di non dimenticare che «a fondamento di ogni autentica e viva spiritualità cristiana sta la Parola di Dio annunciata, accolta, celebrata e meditata nella Chiesa».

B

L’Esortazione apostolica è costellata da richiami importanti su tematiche diverse e di stretta attualità. Come, ad esempio, l’uso improprio della religione come strumento di sopraffazione e violenza. «Non si può usare la violenza in nome di Dio. Ogni religione dovrebbe spingere verso un uso corretto della ragione e promuovere valori etici che edificano la convivenza civile», scrive Benedetto XVI nella Verbum Domini, rammentando ai cattolici di tutto il mondo, con le parole di San Paolo, che «Cristo è la nostra pace, colui che abbatte i muri di divisione». Il Papa ha ricordato che durante il Sinodo del 2008, molteplici sono state le «testimonianze» che hanno documentato la persistenza di «gravi e sanguinosi conflitti e le tensioni presenti sul nostro pianeta». Talvolta, ha detto il Pontefice, si vuol far credere che all’origine di tali conflitti vi sia una componente interre-

L’“urgenza e la bellezza” delle Sacre Scritture La Verbum Domini è costellata da questioni di stringente attualità, famiglia al primo posto di Massimo Ciullo

Papa Benedetto XVI. A destra, particolare di un Codice miniato sulla Parola di Dio conservato nella Biblioteca apostolica di Città del Vaticano «tragico rumore della violenza e delle armi», quando le parole degli uomini «diventano impotenti». La pace è possibile, scrive ancora il Papa, e «dobbiamo essere noi strumenti di riconciliazione e di pace». In questo quadro, Benedetto XVI

L’Esortazione apostolica post-sinodale di Benedetto XVI richiama con forza al dialogo interreligioso ma ne sottolinea la reciprocità ligiosa. «Ancora una volta – ha riaffermato Ratzinger - desidero ribadire che la religione non può mai giustificare intolleranza o guerre». Compito dei cattolici di tutto il mondo e di «tutti gli uomini di buona volontà» è quello di farsi promotori di riconciliazione «per costruire una società giusta e pacifica». E ciò può avvenire solo attraverso la «forza profetica della Parola di Dio», l’unica in grado di sovrastare il

ha sottolineato l’importanza del dialogo con le altre religioni, a partire da ebrei e musulmani. «Desidero riaffermare ancora un volta quanto prezioso sia per la Chiesa il dialogo con gli ebrei», scrive Benedetto XVI, auspicando inoltre che «i rapporti di fiducia fra cristiani e musulmani si sviluppino in uno spirito di dialogo», includendo «reciprocità in tutti i campi». Un pensiero è stato rivolto dal Papa anche ai

«cristiani, in Asia e in Africa, che rischiano la vita o l’emarginazione sociale» a causa del diffondersi degli estremismi e dei fondamentalismi. L’Esortazione apostolica dedica un capitolo anche al problema degli immigrati, pur senza entrare nelle «questioni assai delicate riguardanti la sicurezza delle nazioni e l’accoglienza da offrire a quanti cercano rifugio, condizioni migliori di vita, salute e lavoro».

A queste persone che non conoscono la Buona Novella e giungono in Paesi di tradizione cristiana, deve essere garantito il diritto di ascoltare «l’annuncio della salvezza, che viene loro proposto, non imposto», afferma ancora il

Papa. «A tutti la Chiesa si sente debitrice di annunciare la Parola che salva», scrive il Pontefice. Tra i compiti della Chiesa rientra anche quello di «continuare profeticamente a difendere il diritto e la libertà delle persone di ascoltare la Parola di Dio, cercando i mezzi più efficaci per proclamarla, anche a rischio della persecuzione». Gli immigrati che invece condividono la stessa fede in Cristo, hanno bisogno di

«assistenza pastorale adeguata per rafforzare la fede ed essere essi stessi portatori dell’annuncio evangelico». In questi casi, devono essere le diocesi interessate a mobilitarsi affinché «i movimenti migratori siano colti anche come occasione per scoprire nuove modalità di presenza e di annuncio». Due altri temi che hanno avuto un’indiscussa centralità durante il Sinodo del 2008, matrimonio e famiglia, sono stati oggetto di alcune interessanti considerazioni del Papa teologo. «Gesù stesso ha voluto inserire il matrimonio tra le istituzioni del suo Regno elevando a sacramento quanto iscritto originariamente nella natura umana» ha scritto Benedetto XVI, ribadendo la sacralità del vincolo matrimoniale. Un’istituzione però, che «oggi è posta per molti aspetti sotto attacco dalla mentalità corrente».

I pericoli più gravi sono rappresentati dalla «banalizzazione del corpo umano» e dal «diffuso disordine degli affetti». La risposta della Chiesa del terzo millennio è contenuta ancora una volta nella Parola di Dio, che «riafferma la bontà originaria dell’uomo, creato come maschio e femmina e chiamato all’amore fedele, reciproco e fecondo». Dal matrimonio consacrato per Benedetto XVI, discende poi «una imprescindibile responsabilità dei genitori nei confronti dei loro figli». Padre e madre devono essere, attraverso la fedeltà e la testimonianza, «i primi annunciatori della Parola di Dio», all’interno della famiglia. In questo compito, i genitori devono essere supportati dalla «comunità ecclesiale». Ratzinger richiama dunque, «vescovi e sacerdoti» ad essere i primi «chiamati ad una esistenza afferrata dal servizio della Parola, ad annunciare il Vangelo, a celebrare i Sacramenti e a formare i fedeli alla conoscenza autentica delle Scritture». E i religiosi debbono continuare ad «assumersi esplicitamente il compito dell’annuncio e della predicazione della Parola di Dio», anche nelle «situazioni più difficili, con disponibilità anche alle nuove condizioni di evangelizzazione». L’auspicio del Papa è quello che «ogni casa abbia la sua Bibbia e la custodisca in modo dignitoso, così da poterla leggere e utilizzare per la preghiera».


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ultima è la Guerra di Google Maps. Un conflitto tra Nicaragua e Costa Rica, per via di una linea di frontiera che nelle carte del popolare servizio on line appariva a 2,7 km di distanza da dove la ponevano le mappe ufficiali costaricane: in una zona già bollente per via di un secolare litigio sui diritti di navigazione lungo il fiume San Juan. Dopo che già da un paio settimane le parti si scambiavano accuse, lunedì 1 novembre il governo di San José ha infine denunciato quello di Managua presso l’Organizzazione degli Stati Americani. «Sorvolando l’isola Calero», che sta appunto in mezzo al fiume disputato, «abbiamo determinato la presenza di truppe del Nicaragua in territorio costaricano», ha accusato il ministro della Sicurezza José María Tijerino. «Ci hanno piantato una bandiera del Nicaragua e tende militari». L’Osa ha allora convocato il suo Consiglio Permanente in sessione straordinaria, ma nel contempo Daniel Ortega ha a sua volta proclamato un ricorso alla Corte Internazionale dell’Aja. La cosa sembrerebbe perdere importanza, quando si ricorda che il Costa Rica dopo la rivoluzione del 1948 abolì l’esercito, e dispone solo di poliziotti. Per questo ha parlato il ministro della Sicurezza e non quello della Difesa, e la risposta “militare” è stata della presidentessa Laura Chinchilla è stata appunto quella di mandare a fronteggiare l’invasione 150 agenti. Attenzione, però! Il Nicaragua è anche in lite con la Colombia per quelle isole di San Andrés e Provídencia che dai tempi della colonia spagnola fanno riferimento a Bogotá anche se si trovano di fronte alla costa orientale nicaraguense (gli abitanti sono invece negri anglofoni di cultura non affine né ai colombiani e né ai nicaraguensi, ma piuttosto ai giamaicani).

L’

Ortega ha dunque accusato i colombiani di essere d’accordo col Costa Rica. La cosa potrebbe sembrare ancora più complicata dalla politica: il Nicaragua di Ortega è infatti nel blocco chavista, la Chinchilla è una moderata, e Santos ancorché appena riavvicinatosi allo stesso Chávez è anche lui nel contrapposto asse filo-Usa. Ma la realtà è che Nicaragua e Colombia litigavano per le due isole anche quando a Managua governava la destra, e il Costa Rica a suo tempo fece da santuario sia alla guerriglia sandinista contro il governo di Somoza, sia alla guerriglia dei Contras contro (scusate il bisticcio) il governo sandinista. Appunto all’epoca di queste guerriglie era di casa in Costa Rica Edén Pastora: il famoso Comandante Zero che dopo essere stato leader sandinista e leader dei Contras si è di recente riappacificato con Ortega. Ed è stato Pastora a dire ai giornalisti ticos,

All’America Centrale va il record di confronti fra eserciti per ragioni banali. Anc così in Centroamerica chiamano gli abitanti del Costa Rica, che l’esercito nicaraguense si era mosso seguendo le indicazioni di Google Maps. Febbrili consultazioni, e nel blog ufficiale di Google Maps è apparso il mea culpa del geografo Charles Hale. “Siamo stati informati di un conflitto che prendeva come punto di riferimento la frontiera come appariva in Google Maps. Abbiamo concluso che c’è stato in effetti un errore».Tutto risolto allora? Ma per niente! Da una parte, il governo di Managua ha mandato a Google l’intimazione a non toccare la mappa: «Il tracciato è assolutamente corretto». Dall’altra il governo di San José ha inviato nuovi poliziotti di rinforzo.

Per fortuna, non si è ancora sparato un colpo, e le aspettative generali sono quelle che il concerto panamericano riesca quanto meno a convincere i litigiosi vicini a non fare colpi di testa. Ma è vero che l’America Centrale è stata storicamente terra di conflitti bizzarri. Se il XXI secolo rischia infatti di iniziare con la “Guerra di Google Maps”, nel XIX secolo vi si com-

Guerre da pazzi di Maurizio Stefanini

batté la “Guerra della Fetta di Cocomero”, e nel XX la “Guerra del Calcio”. La più famosa è probabilmente la seconda: sia perché collegata con la quadriennale follia planetaria della Coppa del Mondo; sia perché ebbe un testimone e cronista d’eccezione, nella persona di Ryszard Kapu\\\u015Bci\\\u0144ski. Era il 1969, e la qualificazione d’ufficio del Messico come Paese organizzatore della fase finale della Coppa Rimet offriva a Honduras e El Savador una straordinaria occasione per conquistare l’unico posto allora riservato all’America Settentrionale, Centrale e Caraibica. E l’8 giugno si giocava Honduras – El Salvador aTegucigalpa. Ma la notte prima una folla di tifosi honduregni fece baccano di fronte all’albergo che ospitava i giocatori salvadoregni, impedendo loro di dormire. Pur rimbecilliti dal sonno, gli ospiti resistettero sullo zero a zero fino al novantesimo. Ma all’ultimo minuto il difensore honduregno Leonard Wells segnò il goal della vittoria. Nel Salvador Amelia Bolaños, 18 anni, si alzò allora dal suo posto davanti al

televisore, corse verso la scrivania dove il padre teneva una pistola, la prese e si sparò al cuore. L’intera capitale si recò ai funerali, trasmessi in diretta in tv. Picchetto d’onore dell’esercito con il vessillo in testa al corteo, bandiera nazionale sulla bara, presidente e ministri al seguito. E in coda gli undici calciatori della nazionale, ripartiti dopo un finale bagno di sputi e sberleffi all’aeroporto. Ovviamente, il 15 giugno a San Salvador furono invece i giocatori honduregni a non dormire. E pure la mattina dopo una folla di scalmanati che sventolava bandiere e foto giganti della ragazza suicida si assiepò lungo il percorso, costringendo i calciatori honduregni a recarsi allo stadio dentro ai carri armati della Prima divisione corazzata, mentre la Guardia Nazionale circondava lo stadio con i mitra spianati.

Dopo i fischi all’inno, uno straccio sporco e a brandelli venne issato al posto della bandiera honduregna, già data alle fiamme. “Fortuna che abbiamo perso”, commentò dopo la par-

Il conflitto più folle nasce dall’orecchio esibito alla Camera dei Comuni dal capitano di vascello mercantile Robert Jenkins: gli era stato mozzato dagli spagnoli perché veniva considerato un pericoloso contrabbandiere tita l’allenatore dell’Honduras Mario Griffin. Tre a zero. In assenza dei calciatori honduregni, riportati in carro armato direttamente all’aeroporto, la folla se la prese con i tifosi che avevano provato ad accompagnarli: due morti, decine di feriti, 150 auto bruciate. Ma con un sesto appena del territorio honduregno il sovrappopolato El Salvador aveva il doppio dei suoi abitanti, e gli emigranti salvadoregni in Honduras erano molti di più degli honduregni in El Salvador. Subito si scatenarono i pogrom anche dall’altra parte. Dopo qualche ora la frontiera fu chiusa. Spareggio il 27 giugno a Città del Messico. Uno a zero per l’El Salvador, poi uno a uno, due a uno, due a due, e definitivo tre a due nei tempi supplementari. Malgrado i 5000 agenti di polizia messicani mobilitati, seguirono

varie ore di battaglia tra i tifosi per le strade attorno allo Stadio Azteca. La sera stessa l’Honduras ruppe le relazioni diplomatiche e iniziò a espellere i cittadini salvadoregni.

Alle 18 del 14 luglio 1969 un aereo salvadoregno sganciò la prima bomba su Tegucigalpa. Quattro città vennero bombardate, mentre le truppe varcavano la frontiera. Ma se i salvadoregni soverchiavano gli honduregni come forze di terra, 8000 soldati contro 2600, gli honduregni avevano invece una netta superiorità in termini di piloti: 100 contro 25. Il martellamento dell’aviazione honduregna interruppe in breve le linee di rifornimento salvadoregne, e per di più il dittatore nicaraguense Somoza minacciò di schierarsi con Tegucigalpa. Dopo 100 ore di combattimenti, l’intervento de-

Il N n v


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che se Grecia e Bulgaria si spararono per un cane che aveva passato il confine... scontinentale non era stata ancora costruita, e chi voleva andare dalla East Coast Usa nel Far West e in California aveva solo tre alternative: un anno di viaggio in carovana; la circumnavigazione del Sud America attraverso Capo Horn o lo Stretto di Magellano; oppure andare in nave fino alla costa atlantica dell’Istmo di Panama, farsi a terra fino alla Costa Pacifica dove è oggi il Canale, e ripartire in nave. E poiché era quest’ultima

stile western, sparandogli una revolverata. E poi scappò alla stazione. I locali iniziarono a picchiare tutti gli stranieri che incontravano, questi scapparono a loro volta alla stazione, la polizia colombiana intervenne, gli americani asserragliati alla stazione le spararono addosso, la piccola guarnigione Usa consentita dal Trattato si schierò con i compatrioti, e la notizia provocò un violento pogrom anti-stranieri in un raggio di 90 Km. I tumulti durarono tre giorni, al termine dei quali si contarono 16 morti e 15 feriti tra gli stranieri; 13 feriti e 2 morti tra i

La più celebre è senza alcun dubbio la “battaglia del calcio”, combattuta da Honduras e El Salvador per la qualificazione alla Coppa Rimet del 1969. Venne raccontata persino da Kapuscinski: nata dal suicidio di una tifosa, durò circa due mesi

Nicaragua invade il Costa Rica per un errore nelle mappe di Google. Ma non è la prima volta che si va in battaglia per motivi futili ciso degli altri Paesi latino-americani costringe infine il 20 luglio i contendenti a fermarsi, e l’esercito salvadoregno a ripiegare entro le sue frontiere. La stessa notte, Neil Armstrong sbarcava sulla luna. Bilancio finale: 4000 morti; alcune decine di migliaia di feriti; 90.000 senza tetto. Dal punto di vista calcistico vinse l’El Salvador, che si imporrà poi a Haiti e andrà in Messico. Sia pure per essere fatto subito fuori al primo turno. Ma dal punto di vista politico sarà invece l’Honduras a espellere i 350.000 salvadoregni immigrati, ridistribuendo le loro terre ai propri contadini, e facendo una riforma agraria senza toccare la grande proprietà. Infatti, negli anni ’70 e ’80 l’Honduras sarà uno dei due soli Paesi centroamericani a evitare una guerra civile, assieme alla prospera Costa Rica. In El Salvador la pressione dei rimpatriati a forza dall’Honduras scatenerà invece uno dei conflitti più crudeli e sanguinosi. Meno nota all’estero, la Guerra della Fetta di Cocomero è però salutata dal nazionalismo panamense come una sorta di atto fondante. Era l’epoca della corsa all’oro in California, la Grande Ferrovia Tran-

l’alternativa più rapida la zona, allora sotto sovranità colombiana, era costantemente piena di gringos, garantiti da un apposito Trattato del 1846. E anzi dal 1850 gli americani avevano iniziato a costruire una ferrovia, per velocizzare il passaggio. Va da sé che le incomprensioni e le risse erano all’ordine del giorno, anche perché il caldo spingeva gli statunitensi a esagerare con la birra e il rum. E il 15 aprile del 1856 fu appunto uno statunitense ubriaco di nome Jack Oliver a comprare dall’ambulante José Manuel Luna una fetta di cocomero e a mangiarla, senza però pagare. Alle proteste del panamense Oliver rispose in pretto

Il “Soldato che dorme”, dipinto pre-americano che ricorda un incidente diplomatico avvenuto fra l’attuale Stato di Washington e i colonizzatori britannici

locali. Spiegano i nazionalisti, «la prima insurrezione dei panamensi contro gli statunitensi, e l’unica in cui vinsero». Va detto che benché ci fosse almeno un francese tra i linciati il console di Parigi diede ragione ai locali, come pure quelli britannico e ecuadoriano. Ma il 19 settembre, per rappresaglia, Washington mandò 160 marines, che occuparono la zona. Se ne andarono dopo tre giorni, ma l’anno dopo il governo di Bogotá accettò di pagare un’indennità.

Il bello è che però questa guerra non è stata inclusa nella lista delle 10 guerre più folli della storia Usa recentemente compilata dalla rivista Foreign Policy. Il primato è stato invece dato alla “Guerra dell’Orecchio di Jenkins”: conflitto in realtà prestatunitense, e combattuto tra 1739 e 1742 nei Caraibi tra Inghilterra e Spagna, dopo che il capitano di vascello mercantile Robert Jenkins aveva esibito alla Camera dei Comuni l’orecchio, conservato in un fiasco, che gli spagnoli gli avevano mozzato come contrabbandiere. Solo sesta è la“Guerra dei Porci” del 1859: litigio sulla frontiera tra gli attuali Stato Usa di Washington e provincia canadese della Colombia Britannica, per il maiale di un suddito britannico che aveva fatto man bassa nel campo di patate di un cittadino statunitense in una zona non ben delimitata. Gli americani mandarono a lavare l’onta 66 soldati, gli inglesi risposero con tre navi, i soldati Usa salirono a 461 e le navi inglesi a cinque. Non fu sparato un colpo, a differenza della Guerra del Cane Scappato del 1925, quando un soldato greco fu ucciso dalle guardie di frontiera bulgare per aver varcato la frontiera correndo dietro al cane. E un’altra cinquantina di persone cadde, prima che la Società delle Nazioni riuscisse a imporsi.


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Politica. L’intesa tende alla creazione di una guida di unità nazionale. Secondo gli Stati Uniti «è un grosso passo in avanti»

Fumata (bianca) in Iraq Trovato dopo 8 mesi l’accordo sul governo Al Maliki resta premier, Allawi presidente di Antonio Picasso opo otto mesi, l’Iraq ha un nuovo governo. L’annuncio della formazione del secondo esecutivo presieduto da Nouri al-Maliki è stato seguito da una lunga serie di dichiarazioni ottimistiche e di soddisfazione, provenienti da tutte le rappresentanze politiche del Paese. Dopo una lunga resistenza all’idea di formare un governo di unità nazionale, che comprendesse anche i sunniti, il leader del Dawa (Stato di diritto) si è fatto convincere e ha aperto alla fazione opposta guidata da Iyad Allawi. In termini di incarichi al vertice, lo scenario politico di Baghdad non viene modificato in modo sensibile. Così come al-Maliki resta primo ministro, è quasi certo che la presidenza della repubblica resterà al kurdo Jalal Talabani. Del resto la carta costituzionale, impostata sull’esempio di quella libanese, impone una rigida distribuzione degli incarichi, nel rispetto delle divisioni etnico religiose. Il capo dello Stato si prevede che sia un kurdo, il premier uno sciita, infine la guida dell’Assemblea nazionale dovrebbe spettare a un sunnita. Fin qui nulla da segnalare.Tuttavia, il fatto che il capo del governo provinciale del Kurdistan, Massoud Barzani, abbia parlato di una vittoria di tutto l’Iraq stride con il risultato ottenuto da Paese.

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Le elezioni si erano tenute all’inizio di marzo. Da allora, il parlamento è stato capace di riunirsi solo tre volte. Di queste, le prime due sedute si sono miseramente concluse con un rinvio dei lavori a data da destinarsi. L’iniziale risultato delle urne, che aveva attribuito una netta vittoria per la coalizione sunnita dell’Iraqi National Movement (Inm), era stato messo in discussione dalla commissione elettorale. Questa, pilotata dal governo uscente, si era assunta la responsabilità del riconteggio delle schede. Tuttavia, effettuato il secondo controllo, non ha potuto far altro che confermare lo spoglio precedente. Stando a questo, l’Inm ha ottenuto una maggioranza relativa in parlamento rispetto al Dawa di soli due seggi. Lo scarto è apparso sufficiente per far can-

Un sacerdote ci scrive: «In questo momento pregate per noi»

«Io, prete a Baghdad, ora vivo nel terrore» di padre Jorge Cortes ono arrivato a Baghdad 9 mesi fa. Al momento abito nel vescovado latino, molto vicino alla cattedrale sirocattolica di Nostra Signora della Salvezza. La stessa dove, il 31 ottobre scorso, è stato perpetrato il sanguinoso attacco in cui sono morti sacerdoti e fedeli cristiani. I due coraggiosi preti morti hanno difeso i fedeli e hanno cercato di salvarli offrendo la loro vita non appena i criminali hanno messo piede in chiesa: gli assassini hanno ucciso tanta gente, tra loro una bimba di quattro mesi e una giovane che nel giorno della sua morte aveva ricevuto la notizia più bella per una donna. E cioè che era incinta: per questo era andata in chiesa a ringraziare il Signore per questo dono. Abbiamo perso due sacerdoti e tanti amici. Ora la situazione è molto delicata e pericolosa: i cristiani vivono nel terrore, essendo tornati nuovamente

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nel mirino. Hanno molta paura e molti di loro vogliono abbandonare il Paese. Solo ieri sera [due giorni fa per chi legge] tre case appartenenti a cristiani sono state prese di mira da attentati dinamitardi, e questa mattina [ieri] è stata peggiore: in due ore (tra le 6 e le 8 del mattino) due colpi di mortaio e dodici ordigni artigianali hanno colpito le abitazioni di cristiani in differenti quartiere, alcuni molto vicini. Questa mattina una casa di cristiani in un quartiere molto vicino è stata distrutta: qualcuno ha suonato alla porta e chi ha aperto si è trovato davanti un uomo mascherato che ha gettato una bomba in casa. Fortunatamente tutta la famiglia è riuscita a rifugiarsi nel retro mentre una chiesa è rimasta danneggiata. I cristiani hanno molta paura e molti di loro vogliono abbandonare il Paese: in sette anni, infatti, i cittadini cristiani sono diminuiti dai 450mila iniziali ai150mila attuali. Oggi [sempre ieri] il patriarca caldeo cattolico, Emmanuel III Delly, ha detto: «A Baghdad stanno dando la caccia ai cristiani quartiere per quartiere. Non possiamo fare nulla per fermarli, salvo pregare Dio di fermare questi crimini». Io vi chiedo di pregare. Pregate per questo popolo e pregate per noi, pastori, sacerdoti e religiosi affinché possiamo rimanere fedeli alla nostra missione in questi tempi di tribolazione e difficoltà.

tare vittoria da parte di Allawi e per pretendere di entrare nel nuovo esecutivo. L’eventualità, tuttavia, non è stata accolta positivamente da al-Maliki, il quale nell’arco di questi otto mesi ha effettuato una snervante operazione di ostruzionismo contro la formazione del nuovo esecutivo. Questa ha bloccato tutta l’attività politica del Paese e ha permesso un sensibile incremento degli attentati nelle strade di Baghdad e di molte altre città. Questo periodo di tempo è apparso come un devastante spreco di risorse e di opportunità per tutto l’Iraq. Maliki, convinto di avere l’appoggio del vicino Iran - da sempre sensibile alle sue necessità politiche, data la comune identità culturale - non si è fatto scrupolo di tenere il Paese sotto scacco. Nel frattempo le truppe Usa, come da accordi, si sono ritirate dal Paese. Obama, con un atteggiamento per certi aspetti frettoloso, ha preferito evacuare dal fronte iracheno, senza interessarsi delle ripercussioni che questa decisione - per quanto adottata ormai da tempo avrebbe avuto in questi mesi tanto delicati. Dal gioco delle irresponsabilità non sono rimasti estranei i sunniti. Allawi, per quanto fosse in pieno diritto di chiedere il riconoscimento delle preferenze di voto ottenute, solo dopo tanti mesi ha deciso di aprire a un compromesso con al-Maliki. Infine, la fronda kurda ha preferito restare a osservare, cercando di mantenere la propria regione autonoma all’interno di un cordone, per proteggerla dalle ondate di violenza che nel frattempo sono tornate a colpire il Paese. Il vuoto di potere a Baghdad, infatti, ha esacerbato gli animi. Le tribù sunnite, quelle che si erano dichiarate dispo-

nibili al dialogo con le istituzioni nazionali, hanno fatto dietro front. Al-Qaeda, a sua volta, di cui si era inneggiata la sconfitta per metro della surge di Petraues, ha saputo ricomporre le vecchie cellule, formarne altre e sfruttare l’occasione degli spazi offerti dalla smobilitazione degli statunitensi.

Di questo disastro, i primi a farne le spese sono stati i cristiani. La loro comunità è caduta vittima di una persecuzione etnicoreligiosa che, nelle ultime settimane, è incrementata in modo considerevole. Ancora ieri, è giunta in contemporanea la condanna sia da parte dell’Onu, sia da parte della Cei. La comunità internazionale ha stigmatizzato le stragi continue a cui sono soggette le chiese irachene.Tuttavia, bisogna riconoscere che, al di là delle dichiarazioni, non si può rilevare alcuna iniziativa concreta per fermare il massacro. Detto ciò, non si può negare che la nascita del nuovo governo possa inoltrare Baghdad verso una nuova fase. L’auspicio è che questa sia di pacificazione del territorio e normalizzazione politica. La conferma di al-Maliki, per quanto finora non abbia dimostrato grandi doti di una leadership riconosciuta in maniera trasversale, può significare continuità. Elemento, questo, assolutamente prioritario per le istituzioni di Baghdad. Ad Allawi, peraltro, è stata affidata la presidenza della commissione per la sicurezza nazionale: organo del tutto nuovo, ma ritenuto necessario per l’avvio di un dialogo tra tutte le forze politiche e in armi. In realtà, la scelta di dirottare il leader sunnita verso questo incarico può apparire come un’opzione accettabile, on-


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L’ortodossia musulmana prende le distanze dal fondamentalismo

E al Azhar si schiera a difesa dei cristiani

Il “Vaticano dell’islam” condanna gli attacchi alle chiese «in tutti i Paesi, anche quelli islamici» di Massimo Fazzi opo le ovvie dichiarazioni contenute nell’Esortazione apostolica di Benedetto XVI, la solidarietà verso i cristiani perseguitati arriva da al Azhar, la prestigiosa istituzione che rappresenta l’islam ortodosso con sede al Cairo. «Confermiamo la nostra solidarietà con gli arabi cristiani e la più ferma condanna degli attacchi alle chiese, in Iraq e altrove» ha detto all’Adnkronos il consigliere dello sheykh di al Azhar per il dialogo interreligioso, Mahmoud Azab. Il riferimento del consigliere è ovviamente alla recente ondata di violenze che sta colpendo la comunità cristiana irachena. «Quando l’islam ha conquistato i Paesi arabi, 14 secoli fa, vi ha trovato i cristiani e li ha trattati bene, come aveva fatto il profeta Maometto coi cristiani di Najran e come aveva promesso il califfo Omar quando conquistò Gerusalemme. Questi aveva assicurato che non avrebbe toccato le loro chiese e tutelato il loro culto». Azab ha poi sottolineato che «i più grandi filosofi e il clero a Baghdad hanno dato un grande contributo alla civiltà islamica attraverso le traduzioni delle opere antiche, tanto che la loro lingua, il siriaco, divenne il mezzo di trasmissione delle conoscenze». In tal senso «il cristianesimo arabo è tutelato», ha aggiunto l’esponente di al Azhar. «Dall’11 settembre 2001 [data degli attentati contro le Torri Gemelle di New York rivendicati da al Qaeda] si assiste a un caos mediatico e le informazioni arrivano distorte, tanto che non si sa con certezza chi commette questi atti». Che ha voluto poi precisato come «a prescindere che si tratti di al Qaeda, di altri gruppi estremisti o di elementi esterni, l’obiettivo è chiaro: dividere l’Oriente tra musulmani e cristiani, soprattutto in Egitto».

D

Le risorse di idrocarburi sono un’opportunità da sfruttare e alla quale nessuna major intende rinunciare. Le ultime stime parlano di riserve pari a 110 miliardi di barili di petrolio

la sua Training Mission, operativa per l’addestramento delle nuove forze armate e della polizia nazionale. Ma di questa non si può parlare di occupazione. In sostanza, Al-Maliki ha saputo conservare il potere ed evitare eventuali fratture con la Casa Bianca, e con l’Iran. Questo vuol dire che la sua credibilità a livello internazionale, sebbene non di alto livello, non è stata scalfita dalle sue spregiudicate tattiche di conservazione del potere durante questi otto mesi.

de evitare nuovi attriti ai vertici del potere. Del resto, con la nascita di un soggetto collegiale responsabile prettamente della sicurezza, al governo viene sottratta la gestione di un importante settore delle sue attività. A questo punto si possono prevedere nuovi problemi per quanto riguarda la gestione delle risorse e la strategia da assumere. Al-Maliki potrebbe rivendicare la sua autonomia decisionale in materia. Allawi invece, con la sua commissione, potrebbe bloccarlo. Al di là di questi rischi - che comunque non possono essere sottovalutati - c’è da dire che adesso l’Iraq ha il suo nuovo governo. Questo significa che non sussistono più le attenuanti per procrastinare una politica di ricostruzione del Paese. Come richiesto da al-Maliki, le truppe Usa hanno abbandonato il campo nei tempi indicati. Ora anche coloro che, all’interno delle istituzioni parlavano di invasione da parte di Washington, non possono recriminare più nulla. Il capitolo della presenza di un esercito straniero può dirsi sostanzialmente concluso. Certo, resta la Nato con

La conclusione merita di essere dedicata alla situazione economica. Le risorse di idrocarburi continuano a essere un’opportunità da sfruttare alla quale nessuna major del petrolio intende rinunciare. Le ultime stime parlano di riserve pari a 110 miliardi di barili di petrolio e di 317 trilioni di metri cubi di gas, entrambi estraibili. Le grandi multinazionali di tutto il modo sono pronte a tutto, mettendo magari a repentaglio la vita dei propri tecnici, pur di metter mano ai pozzi di Kirkuk, Mosul e del sud del Paese. Soprattutto in questo momento in cui le sanzioni al regime di Teheran stanno spingendo a una smobilitazione generale dai giacimenti iraniani. Del resto, è stato proprio grazie al petrolio che almeno il Kurdistan ha raggiunto l’agognata stabilità politica e un nuovo benessere economico. La comunità internazionale potrebbe far pesare proprio questa prospettiva al nuovo governo alMaliki. Continuità in cambio di investimenti a cascata. Così era successo con il clan kurdo dei Barzani. Perché allora non estendere la stessa strategia al resto dell’Iraq?

Secondo Azab, lo scopo di tutto questo è «indebolire tutta la regione, cosa che noi rifiutiamo e per questo facciamo appello all’unità della comunità, in quanto il musulmano non vuole che la nazione si divida». Quanto ai rapporti tra cristiani e musulmani in Oriente, Azab si è detto convinto che «se nella regione c’è tensione, il motivo è da attribuire fondamentalmente alla reazione nei confronti dell’occupazione dell’Iraq, poiché chi fa appello alla libertà va poi ad occupare gli altri Paesi, e alla questione palestinese, per risolvere la quale l’Europa non ha fatto nulla». Secondo il consigliere di al Azhar, «l’occupazione dell’Iraq ha indebolito questo Paese e ha creato delle tensioni». In questo quadro, «gli Stati Uniti come forza d’occupazione dovrebbero garantire la sicurezza del Paese occupato»,

che ha concluso il suo intervento esortando «alla giustizia, alla pace e al rispetto dei diritti umani in tutto il mondo».

Per quanto confortanti, le parole del portavoce dell’ateneo non sono nuove. Già in passato, infatti, al Azhar si era espressa a favore del dialogo, chiedendo alle comunità islamiche mondiali di intervenire per isolare e poi emarginare le cellule fondamentaliste. Ma questo non è mai accaduto, complice anche il fatto che - per una questione strutturale e teologica dell’islam - non esiste una struttura mono-cefala. Al contrario, ogni moschea è un mondo praticamente singolo: quindi l’influen-

Il consigliere per il dialogo interreligioso del luogo di culto spiega: «La tolleranza e il rispetto per le altre fedi ci sono state insegnate da Maometto in persona» za di al Azhar è più che altro derivante dall’anzianità della sua fondazione e dal prestigio degli imam che vi insegnano. Più efficace sarebbe stato un intervento da parte del Custode dei Luoghi santi della religione islamica, il sovrano saudita Abdullah. Mantenendo con generose donazioni le moschee e le scuole coraniche di buona parte del mondo arabo, infatti, il re di Riyadh è estremamente ascoltato dalle comunità locali. Tuttavia, nonostante un impegno di facciata nella lotta al terrorismo e una fortissima partnership commerciale con l’Occidente, il custode della Mecca non si è mai espresso pubblicamente in tal senso. Forse perché sa che la sua popolarità nel mondo musulmano dipende non soltanto dal foraggiamento con cui sostiene le moschee, ma anche dall’idea che possa essere lui il prossimo Califfo, in grado di unificare Oriente e Occidente sotto la mezzaluna. Forse, anche con l’uso della scimitarra di cui parla il Corano in diverse sure.


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Usa. Con il nuovo Senato è incerta la maggioranza necessaria. Pressing del Gop l fallimento dei Democratici alle elezioni di Midterm solleva dei seri problemi sia al presidente Obama che al Congresso. Gli elettori Usa premono affinché il governo si avvicini sempre più alla visione indicata dai promotori nella Costituzione e la prima prova in tal senso potrebbe aversi con il difettoso Trattato Start 2 sugli armamenti nucleari firmato dal presidente Obama e dal presidente russo Dmitri Medvedev la scorsa primavera, e ancora in attesa di ratifica. I sostenitori dell’accordo, dopo mesi di stallo, cercano adesso di accelerare l’iter al Senato Usa per evitare di trovarsi nei guai a gennaio, quando arriveranno i 6 nuovi senatori del Gop che potrebbero precludergli i due terzi della maggioranza. Numero minimo utile per la ratifica del Trattato. Ma è indubbio che il Senato, oggi stesso, dovrebbe prestare attenzione alla volontà degli elettori e decidere se annullare il Trattato o emendarlo affinché non indebolisca la difesa degli Stati Uniti. E prestare poca attenzione alla cosiddetta “risoluzione di ratifica” che lo staff del presidente ha approvato per tranquillizzare il Congresso: venduta come l’impegno a una modernizzazione dell’aresenale nucleare, è in realtà un cavallo di Troia.

I

Gli errori del New Start sono molteplici. I bassi limiti che porrebbe alle testate nucleari non considerano le enormi disparità fra le responsabilità globali americane e russe e l’importanza dell’“ombrello nucleare” dell’America nel mantenimento della sicurezza internazionale. I vincoli del Trattato sulle piattaforme di lancio impedirebbero a Washington di usare testate conven-

Disarmo nucleare? Non è detto A rischio la ratifica del New Start sulla riduzione degli armamenti voluta da Obama e Medvedev di John R. Bolton

mi difensivi. Politicamente, pur non seguendo un linguaggio da trattato, i russi ottengono quello che vogliono: nessun significativo impegno degli Stati Uniti sulla difesa missilistica.

L’amministrazione Obama spera di vendere questo pericoloso affare in cambio di un pacchetto di promesse

I trattati ristabiliscono l’equilibrio del potere a favore del presidente. Carter, Reagan e Bush si ritirarono dagli accordi in modo unilaterale zionali anche in conflitti lontani da qualsiasi responsabilità o interesse di Mosca. Esistono molte altre mancanze: fra queste, l’inadeguata verifica dell’eventuale smantellamento delle estese capacità nucleari tattiche della Russia. Il New Start riflette anche la mancanza di serietà dell’amministrazione Obama rispetto alla difesa missilistica nazionale. Visto che nelle sue premesse accetta una non specificata “interrelazione” tra le armi nucleari e i siste-

di carta. La risoluzione sostenuta dall’Amministrazione e recentemente firmata include al riguardo non specificate “condizioni”, “interpretazioni” e “dichiarazioni” secondo cui il New Start non “impone alcun limite allo spiegamento delle difese missilistiche” né attenua l’aspirazione del Congresso a difendere il paese da attacchi missilistici. Una seconda interpretazione della stessa, però, esclude i sistemi convenzionali di armamenti con raggio mondiale. Una terza,

Il gruppo 5+1 non vuole alcuna intesa

L’anatema dell’Iran A pochi giorni dalla ripresa dei negoziati sul programma nucleare iraniano, fissati per il prossimo 15 novembre, il presidente Mahmoud Ahmadinejad ha rivolto nuovo accuse contro il Gruppo 5+1 (Stati Russia, Uniti, Gran Francia, Bretagna, Cina e Germania), che a suo dire non avrebbe alcuna intenzione di trovare una soluzione definitiva alla crisi. «Tra qualche giorno riprenderanno i colloqui, ma l’esperienza ci mostra che (il gruppo 5+1) non vuole trovare una soluzione. Per quanto ci riguarda, il problema non esiste e noi proseguiremo le nostre attività nucleari pacifiche», ha dichiarato Ahmadinejad. I paesi occidentali, secondo il leader di Teheran, «non hanno altra scelta che

cooperare con la nazione iraniana, che non permetterà a nessuno di violare i suoi diritti» in materia di nucleare.

La Comunità internazionale sospetta che l’Iran stia cercando di dotarsi dell’arma atomica sotto la copertura di un programma nucleare civile. L’Onu ha approvato numerose risoluzioni, sostenute da una serie di durissime sanzioni, ulteriormente rafforzate la scorsa estate, con le quali è stato chiesto a Teheran di sospendere definitivamente l’arricchimento del suo uranio e di trovare una soluzione negoziata al dossier nucleare. Ma i colloqui con il Gruppo 5+1 si sono interrotti nell’ottobre 2009 dopo il rifiuto dell’Iran a un’offerta di scambio di combustibile nucleare.

infine, afferma l’impegno del Congresso alla sicurezza e all’affidabilità dell’arsenale nucleare del paese. Incognite da chiarire, evidentemente. E che comunque lasciano il tempo che trovano visto che non fanno parte del testo del Trattato.

Per come la vede Eugene Rostow, ex sottosegretario di Stato, queste riserve e interpretazioni hanno «lo stesso effetto legale di una lettera di mia madre». Non sono altro che dichiarazioni politiche che cercano di influenzare la futura interpretazione del Trattato. Non hanno la forza di una legge; non obbligano né il presidente né il Congresso. Diversamente dagli atti del Congresso, i Trattati ristabiliscono l’equilibrio del potere a favore del presidente. Per capirlo, basta ricordare le posizioni di Ronald Reagan nel dibattito degli anni Ottanta sul significato del Trattato sui missili antibalistici. Il presidente può, inoltre, ritirarsi completamente da un trattato in maniera unilaterale: il presidente George W. Bush concluse il trattato sui missili antibalistici nel 2002 e il Presidente Jimmy Carter chiuse il trattato di difesa reciproca di Taiwan nel 1980, entrambi senza il consenso del Senato. Per evitare che il New Start indebolisca seriamente le capacità nucleari dell’America, il Senato deve ignorare la risoluzione di ratifica e chiedere emendamenti al Trattato stesso. Rientra nei suoi poteri.Quando nel 1790 il Sento approvò il Trattato di Jay, che risolveva importanti dispute con la Gran Bretagna, acconsentì solo a condizione che il presidente George Washington cancellasse un provvedimento sul commercio. Washington e l’Inghilterra furono concordi sull’emendamento e il Trattato entrò in vigore. Nel 1978 il Senato chiese di cambiare il testo dei trattati sul Canale di Panama come prezzo del loro assenso. Mentre la Costituzione affida al presidente il ruolo primario nel processo di negoziazione, il Senato ha l’ultima parola. Se i 34 senatori rifiutano il Trattato, nessun presidente può scavalcarli. Ecco perché ora dovrebbero usare questo potere per far prevalere l’interesse nazionale arrestando il New Start o chiedendo che venga cambiato. Il significato base della Costituzione, così apprezzato dagli elettori nelle elezioni della scorsa settimana, non chiede altro.


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12 novembre 2010 • pagina 17

L’epidemia non si ferma: oltre 11mila i contagiati

Turchia: era stato nominato nel 2003 dall’ultra laico Sezer

Haiti, i morti per colera salgono a 724

Erdogan licenzia Bardakoglu, il Gran Muftì

PORT-AU-PRINCE. Sale ancora

ISTANBUL. La Turchia di ieri cede man mano il passo alla Turchia di domani e per alcuni nel Paese questa non è una buona notizia. Ali Bardakoglu, noto anche per le sue posizioni più morbide di quelle dell’esecutivo islamicomoderato sulla questione del velo, non è più a capo della Diyanet, la Direzione per gli affari religiosi turca, le cui nomine sono decise dal governo. Il ministro di Stato per la religione, Faruk Celik ha spiegato al quotidiano Hurriyet: «Ci saranno cambiamenti radicali nella struttura della Diyanet. Bardakoglu è stato sostituito proprio in ragione di questi cambiamenti». Bardakoglu, che deteneva anche la carica di Gran Muftì, ricopriva il ruolo di capo della Diyanet ormai dal 2003. Ieri il religioso ha fatto una conferenza stampa, nella quale

il numero dei morti per colera ad Haiti: dopo 80 nuovi decessi, di cui tre nella capitale Port-auPrince, il totale è arrivato a 724. Il numero dei contagiati supera gli 11mila, in aumento di oltre mille rispetto ai dati forniti mercoledì dal ministero della Sanità haitiano. L’epidemia è partita dalla valle dell’Artibonite a metà ottobre e inizialmente sembrava potesse essere arginata, ma negli ultimi giorni il numero delle vittime è salito ed il morbo è arrivato nella capitale Port-Au-Prince. La maggior parte del milione e trecentomila haitiani sfollati per il terremoto di gennaio vive in precarie condizioni igieniche ed è esposto al contagio.

All’origine dell’epidemia di colera potrebbero esserci gli escrementi di una unità di peacekeeper nepalesi arrivata a metà ottobre nel Paese caraibico. Il personale delle Nazioni Unite ha infatti raccolto dei campioni dagli scarichi situati dietro la base nepalese per effettuare dei test per il colera. Si tratta della prima ammissione pubblica da parte dell’Onu. «Il batterio che sta causando questa epidemia è molto diverso da quello che di solito si trova ad Haiti e nei Caraibi, mentre è molto caratteristico della regione da cui pro-

Romania: la Ue dà la “tessera del pane” 80mila persone vivono con meno di 100 euro al mese di Luisa Arezzo a crisi morde con ferocia la Romania. Da giorni a Costanza, il porto sul mar Nero, centinaia di persone si sono messe in fila per ottenere gli aiuti alimentari accordati dall’Unione europea. I beneficiari sono le circa 73mila persone che, secondo il governo di Bucarest, guadagnano meno di 100 euro al mese. Casi limite, ma non troppo in un paese in cui il salario medio raggiunge a malapena i 320 euro. E, a peggiorare le cose, ci si è messa anche la politica d’austerità che il governo di Emil Boc ha dovuto mettere in campo su input del Fondo monetario internazionale, capofila d’un maxi-prestito anti-crisi da 20 miliardi di euro. I provvedimenti, benché necessari, non sono certo volti ad alleviare le pene di una popolazione già messa male. Il governo ha dovuto tagliare gli stipendi dei dipendenti pubblici del 25 per cento, (oltre che tagliare 140mila posti di lavoro statali - a fronte però di una massa abnorme di 1.400.000 dipendenti della pubblica amministrazione, su 22.000.000 di abitanti, più di uno su dieci in età lavorativa), ha cercato di riformare le pensioni (tagliandole del 15%), ha aumentato l’imposta di valore aggiunto dal 19 al 24 per cento. Mosse che hanno ricevuto il plauso del Fmi (e soprattutto sbloccato la prima tranche di 900 milioni di euro stanziati dal Fondo Monetario assieme alla Banca europea), ma che hanno portato in piazza per protesta durante l’estate decine di migliaia di persone. La “sindrome greca”è peggiorata dal fatto che la Romania non fa parte della zona Euro e che la sua moneta, il nuovo Leu si deve difendere da sola sui mercati internazionali. Bogdan Hossu, il leader della confederazione sindacale Cartel, sostiene che l’insieme dei provvedimenti economici del governo comporterà la perdita del lavoro per circa il 35% dei dipendenti a basso reddito. Ma l’incisività delle crisi non lascia margini di trattativa tra governo e sindacati, nel 2009 infatti il Pil rumeno ha segnato un sonoro meno 7.2%, là dove le misure imposte

L

dal Fmi si limiterebbero a contenere il rapporto tra deficit e Pil al 6.8% per il 2010. Il rigore in atto, tuttavia, per stessa ammissione del governo, sembra ostacolare la ripresa dell’economia romena, che quest’anno dovrebbe contrarsi ancora del due per cento circa dopo il pauroso meno 7,1% del 2009. I segnali che arrivano dalla società sono preoccupanti. Secondo un dato della Banca centrale romena, ripreso da Balkan Insight, dei 973.660 romeni che hanno acceso mutui, a settembre non sono riusciti a pagare la rata almeno in 240mila. I rimborsi in ritardo sui prestiti oltre i 4.700 euro, poi, sono praticamente raddoppiati.

Dopo il taglio sul salario, secondo alcune stime, sono entrati in un’area a ridosso della povertà categorie professionali come quelle degli insegnanti e dei medici. In media, il loro salario arriva a scendere sotto i 1.000 Leu, ovvero 240 euro. I dipendenti comunali, gli impiegati della pubblica amministrazione, dal canto loro, facilmente arrivano a salari sotto i 200 euro, il che vuol dire che sono a malapena sufficienti per pagare mutui e affitti. E nient’altro di più. Gli effetti dell’austerità, in realtà, colpiscono direttamente o indirettamente tutti: lavoratori pubblici, ma anche lavoratori privati. Il governo, per esempio, ha modificato il sistema dei sussidi per i farmaci, accordando sempre solo il rimborso minimo, andando così a pesare sulle tasche dei pazienti. Il tutto mentre è in atto una vera e propria fuga delle professionalità che, piuttosto di vivere con stipendi da fame in Romania, preferiscono emigrare. E in molti nel Paese sperano solo che l’inverno non sia troppo duro. Il governo infatti ha anche eliminato i sussidi per il riscaldamento e l’acqua calda. In alcune parti della Romania la temperatura in inverno arriva a scendere a 20 gradi sotto zero e avere una qualche forma di riscaldamento non è un lusso, ma una necessità vitale.

Medici e insegnanti arrivano a stento a 240 euro. Dipendenti comunali e impiegati non arrivano nemmeno ai 200

vengono quei soldati», ha detto ad Associated Press John Mekalanos, esperto di colera dell’Università di Harvard. E Paul Farmer, esperto di medicina e povertà per le Nazioni Unite, ha aggiunto che le autorità dovrebbero indagare a fondo questa possibilità, perché conoscere la fonte della malattia potrebbe essere fondamentale per arrestare il contagio. Dal 2004 circa dodicimila soldati delle Nazioni Unite sono stati inviati ad Haiti per vigilare sulla sicurezza del paese. Ma molti abitanti di Haiti si oppongono da tempo alla presenza delle forze internazionali e ora stanno approfittando di questi sospetti per chiedere il ritiro delle forze dell’Onu.

ha dichiarato di aver chiesto di sua sponte di andarsene, sgombrando solo in parte il campo dalle polemiche. Bardakoglu era l’ultima persona, insieme con alcuni fra i vertici della magistratura, ad essere stata scelta dall’ultralaico presidente della Repubblica Ahmet Necdet Sezer, che con l’attuale premier Recep Tayyip Erdogan andava poco d’accordo e di cui non apprezzava la politica, poco rispettosa delle matrici dello Stato laico fondato da Mustafa Kemal Ataturk.

Gli occhi ora sono puntati sui cambiamenti della Diyanet alla cui guida va il vice di Bardakoglu, Mehemet Gormez. Dopo quanto trapelato sui giornali nei giorni scorsi circa la riforma dell’istruzione, nella quale lo studio della religione islamica potrebbe avere un ruolo preponderante, in molti temono che anche la la Direzione per gli Affari religiosi possa avere una svolta conservatrice. I giornali vicini al premier hanno sottolineato come l’ex Gran Muftì fosse contrario ad aperture democratiche nei confronti dei curdi e degli aleviti. Ma Bardakoglu era anche molto scettico sulla liberalizzazione del velo islamico, diventata un cavallo di battaglia del governo Erdogan.


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Il personaggio. Vero nome Agostino, è stato tra i più grandi produttori di alcuni dei più celebri titoli nazionali e internazionali. Da “La grande guerra” a “Hannibal”

Il re Mida del cinema È scomparso ieri a 91 anni Dino De Laurentiis, il genio che seppe legare il proprio nome a una stagione del grande schermo che segnò la storia di Pietro Salvatori amore canta. Eccome se canta, se ha il cipiglio buffo e insieme un po’severo di un uomo innamorato della vita, delle donne, dell’amore. Ma soprattutto del cinema. L’amore canta. Eccome se canta, se è il titolo di una pellicola di Ferdinando Maria Poggioli. Siamo nel lontanissimo 1941. C’è il duce, c’è la guerra, ci sono tante storie da raccontare. E c’è qualcuno che ha voglia di farlo, anzi, di farlo fare. Si chiama Agostino, ma tutti lo chiamano Dino, un nomignolo che si porterà dietro per sempre. Con quattro soldi in tasca e un’esperienza al Centro sperimentale di cinematografia, decide di imbarcarsi nell’avventura di un film insieme a Poggioli, un tipo strano, innamorato del teatro, che prima che gli Alleati potessero mettere la parola fine al conflitto morì suicida, ma solo dopo aver abbandonato la macchina da presa per dedicarsi all’antiquariato. Due menti eclettiche, un successo, il primo grande successo per il ragazzino (quasi) napoletano. Nascerà così il brand Dino De Laurentiis, protagonista indiscusso di oltre sessant’anni di cinematografia italiana. Un brand che è scomparso ieri a 91 anni in quel di Los Angeles.

L’

Una lunghissima parabola, partita da quel di Torre Annunziata. Era un torrido agosto del 1919, quando venne alla luce quello che sarebbe diventato uno dei più grandi manager dell’industria dello spettacolo italiana. Nato con il sogno di sfondare sullo schermo, di entrarci per parlare al pubblico italiano, quando ancora il cinema era un evento, una cerimonia, e per celebrarla degnamente si rimaneva nelle sale per ore e ore, guardando scorrere sulla magica tela per due, tre, anche quattro volte le stesse immagini, fino alla noia, fino all’ultima sigaretta del pacchetto. Ma non era destino che il grugno di Dino venisse inserito

in cartellone sotto il titolo del film. No, il suo posto era lì in alto, a dominare, da sotto lo svolazzo di quella «s» finale che graficamente tanto gli piaceva, tutto quel che accadeva. Appeso al chiodo il sogno di farsi amare dalle ragazzine come un

sformava in oro. E se la gente non lo vedeva sullo schermo, impararono tutti a riconoscere il marchio De Laurentiis, che precedeva i titoli di testa di metà delle pellicole che uscivano in sala, che campeggiava, quando arrivarono, sul dorso di

James Dean ante-litteram, Dino non molla la grande industria dello spettacolo. Scavalca la macchina da presa, e inizia a impadronirsi del mestiere del dietro le quinte. Un caratteraccio, che lo porterà, più avanti con gli anni, a rompere con il fratello Luigi. «Tu rimani qua» gli disse, «fai come ti pare, io me ne vado in America». Ma che gli servirà anche per dominare il dietro le quinte del set. Un microcosmo dal coefficiente di difficoltà elevatissimo, popolato da prime donne, capricci, vertenze sindacali, cestini del pranzo in sotto numero. Tutte cose con le quali Dino fa amicizia, le addomestica, le plasma. Diventando un fuoriclasse

una sfilza di vhs nelle videoteche degli appassionati. Iniziò con Piero Ballerini, fascistissimo regista degli anni Quaranta. Ma più che alla tessera nel taschino, Dino guardò al talento. Gli piacque Freccia d’oro, opera prima di Ballerini, per altro smontata dal Popolo d’Italia come pellicola «frammentaria e inesperta», e decise di lanciarsi nell’avventura de L’ultimo combattimento. Il film piacque al regime, come il regime piacque sempre di più a Ballerini, che nel 1943 fu tra i pochissimi registi ad aderire alla Rsi. Di-

del set. Non il bomber d’area di rigore, quello che ti segna la rete decisiva. De Laurentiis non gonfiava la rete, ma era quello di comprarlo, coccolarlo, schierarlo in campo al momento giusto. Una sorta di Mourinho del mondo dell’audiovisivo. Dove metteva le mani, tutto si tra-

no non lo seguì, a lui interessava il cinema, e a Salò di cinema se ne faceva pochino. Finita la guerra, intuì le potenzialità di alcuni autori che decisero di mettere da parte la retorica e l’epica narrativa per raccontare la realtà, nuda e cruda. Dino intercettò la svolta della vita. Entrato nella Lux Video (dopo il colloquio, l’addetto al personale disse di lui che «forse non sempre troverà la soluzione più economica ai problemi, ma è certo che è un ragazzo che non si fermerà mai»), legò il suo nome a gente del calibro di Alberto Lattuada, Marco Camerini, Mario Monicelli, Steno, Mario Soldati, Luigi Comencini.

Una delle svolte della sua carriera fu probabilmente Europa51, di Roberto Rossellini, come anche, qualche anno dopo, La grande guerra, che portò a vincere il Leone d’oro a Venezia. Oltre che in Italia, Dino si aggiudicò premi anche all’estero. E cosette non di poco conto. La strada e Le notti di Cabiria, girate da un certo Federico Fellini, porteranno a casa due Oscar come miglior film straniero. De Laurentiis ebbe il genio e la fortuna di legare il proprio nome a una stagione del

cinema italiano che segnò la storia. Proprio per questo, nel 1966, riconoscendogli «acume imprenditoriale» e prendendo atto di una «titanica carriera», fu nominato Cavaliere del lavoro. «Lungimirante sostenitore della internazionalità del cinema allarga la sua sfera operativa al più agguerrito mercato cinematografico mondiale, quello americano, dove trionfa con un alternarsi di successi critici e

commerciali», si leggeva nelle motivazioni. Solo sei anni dopo, la legge sul cinema cambia: solo i film al 100% finanziati da capitali nostrani vengono aiutati dallo Stato attraverso i sussidi. Un compromesso inaccettabile per uno che ha sempre guardato al mondo.Tolto


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Moltissimi suoi film, anche se non proprio “nostri”, hanno dato lustro al Paese

La «faccia onesta» dell’Italia hollywoodiana di Alessandro Boschi na delle ultime volte che abbiamo incontrato Dino De Laurentiis è stata per la presentazione di un libro, Dino. De Laurentiis, la vita e i film (Alessandra Levantesi,Tullio Kezich). Ci trovavamo in un grande albergo della capitale e De Laurentiis ci ricevette, il sottoscritto e una piccola troupe televisiva, dietro una magnifica scrivania, enorme e massiccia. Egli, che non era né enorme né massiccio, dava l’impressione di dominare tutto, dall’alto del suo metro e sessanta o poco più. Ciò che colpiva sempre nel grande produttore era la sicurezza assoluta di ogni suo atto, in ogni sua parola, anche la più improbabile. Che però non poteva che essere la verità, perché era lui a pronunciarla. Come quando iniziò a raccontare del suo primo tentativo di produrre un film. «Un giorno mi trovai a dover convincere il direttore di una banca a finanziare il mio primo film. Mi sentii chiedere, del tutto legittimamente, delle garanzie. Lui faceva il suo lavoro, e lo faceva bene. Ma anch’io me la cavavo e volevo dimostrarglielo. L’unica garanzia che posso darle, gli risposi, è la mia faccia, la faccia di una persona onesta. Il colloquio finì lì. Ci penserò signor De Laurentiis, mi disse. Me ne andai, piuttosto sfiduciato in verità. Mi chiedevo: Dino, ma come puoi pensare che una banca si assuma un rischio del genere? Figuratevi la mia sorpresa quando, oltre un mese dopo quel colloquio, alzai il telefono e sentii dall’altra parte del film la voce del direttore dire: signor De Laurentiis, abbiamo deciso di fidarci della sua faccia. Quel giorno la mia vita cambio». Ora, a prescindere dal fatto che la faccia di De Laurentiis così rassicurante non ci sembrava, va aggiunto che probabilmente cambiò anche la storia del cinema. Non è esagerato affermarlo, perché Dino De Laurentiis ha prodotto alcuni tra i film più importanti del cinema italiano e mondiale. E se non ci fosse stata la Legge Corona molti altri film nostrani, anche se non nostrani al cento per cento, avrebbero visto la luce (non sappiamo quanto questa metafora possa essere propizia). Nel 1972 infatti la legge italiana sul cinema cambia: i sussidi vengono riservati solo ai film con il 100 per cento di produzione italiana (fino ad allora bastava il 50 per cento), e De Laurentiis decide di trasferirsi negli Usa, dove fonderà la De Laurentiis Entertainment Group.

U

colare, epico, e l’avventura contribuì a rilanciarne il nome, a rafforzarne il mito. Nel 2003 torna in Italia. Non per un giro di piacere, ma a ritirare il Leone alla carriera. Davanti all’azzimata platea veneziana, la dichiarazione che probabilmente lo renderà immortale, che ogni buon produttore che si rispetti si dovrebbe incorniciare in ufficio: «Il problema dei registi italiani è che vogliono fare i film con un occhio alla critica. Noi però siamo show-man e dobbiamo fare film solo per il pubblico. Voglio dimostrare al cinema italiano che ci sono grandi storie da raccontare». Dopodiché ha girato i tacchi, e se n’è tornato Oltreoceano. Nel Paese dei divi.

Per capire che tipo fosse Dino De Laurentiis, oltre al già citato libro di Tullio Kezich e Alessandra Levantesi, è fondamentale un racconto di Luciano Vincenzoni, formidabile affabulatore e quasi altrettanto formidabile sceneggiatore, nel senso che i suoi racconti “orali” sono impareggiabili. Vincenzoni, che per De Laurentiis scrisse il capolavoro La grande guerra diretto da Mario Monicelli, racconta che dopo il successo de Il ferroviere (Pietro Germi) navigava in bruttissime acque. Con gli ultimi soldi rimasti doveva decidere se tentare la fortuna e prendere un taxi per raggiungere gli uffici del produttore o comprarsi una mozzarella. Nota a margine: altre versioni del racconto invece che di mozzarella parlano di uova al tegamino, altre di panino con il prosciutto. Cambiano i dettagli, sempre, ma mai la sostanza. Di fatto, dopo avere superato la ritrosia di una inflessibile segretaria (e dopo avere lasciato il tassista fuori ad attenderlo), Vincenzoni, anche grazie all’intervento di Carlo Lizzani che si trovava in quel momento dal produttore, riuscì a farsi ricevere: «Vincenzoni, le do cinque minuti, non di più». Furono sufficienti. Al termine di quei cinque minuti, che durarono alcune ore durante le quali lo sceneggiatore raccontò il soggetto di film quali La grande guerra, Il buono il brutto e il cattivo, I due nemici e altre quisquilie del genere,Vincenzoni ricevette un anticipo di un paio di milioni e vide, anche lui, la propria vita cambiare. De Laurentiis faceva parte insieme a Vincenzoni e pochi altri superstiti, di un mondo che è andato piano piano disgregandosi, un mondo di sogni ancora possibili, soprattutto, di bei film, e di belle storie intorno ad essi. Questo, naturalmente, al di là dei risvolti umani di un’esistenza vissuta non senza contraddizioni lancinanti e dolorose. La notizia della morte di Dino De Laurentiis ci ha raggiunto ieri mattina, durante la conferenza stampa della 28esima edizione del Torino Film Festival, diretto da Gianni Amelio. Durante il festival, tra le tante belle cose che forse riusciranno a farci dimenticare gli strazi del festival di Roma appena terminato, anche una retrospettiva su John Huston. Proprio per Dino De Laurentiis, Huston diresse uno dei suoi film meno riusciti, La Bibbia. La leggenda vuole che Huston diresse il film per saldare un vecchio debito di gioco con il produttore di Torre Annunziata. In realtà il film avrebbe dovuto solo essere un parte di un ambiziosissimo progetto che avrebbe dovuto avere come scopo la realizzazione cinematografica della Bibbia intera e non dei primi libri della Genesi che il film di Huston racconta. Un progetto enorme, per un uomo piccolo che ha lasciato un vuoto grande.

Né enorme né massiccio, dava l’idea di dominare tutto, dall’alto del suo metro e sessanta o poco più

il disturbo, Dino ricomincia dagli Stati Uniti. E sono altri successi: Serpico, I tre giorni del condor, Il giustiziere della notte. Passando per il flop mostruoso di Dune, l’ambiziosissimo fantasy di David Lynch, che fu un disastro completo.

Ma anche nel flop fu spetta-

re un buon film era necessario ricorrere ad aiuti “esterni”non c’era da scandalizzarsi. La qualità viene prima di tutto. Moltissimi suoi film realizzati a Hollywood, anche se non “italiani”, hanno comunque dato lustro al nostro Paese. Di certo molto più di alcune italianissime ciofeche realizzate da registi snob e conventicolari.

In queste pagine, alcuni scatti del grande produttore cinematografico italiano Dino De Laurentiis. A sinistra, anche con la sua seconda moglie Martha Schumacher; con i figli Raffaella e Federico; insieme con la sua prima moglie Silvana Mangano

A questo proposito affermava: «Il nostro cinema ha iniziato la sua parabola discendente quando è passata la legge Corona che cambiava le regole per accedere ai finanziamenti pubblici. Per definire un film “italiano”, e candidarlo quindi a ricevere finanziamenti pubblici, devono essere italiani il regista, la metà degli sceneggiatori tre quarti degli attori e dei tecnici. Una limitazione che ha tarpato le ali alle produzioni, alla creatività, alla libertà. Il problema, quindi, non sono i finanziamenti dello Stato, ma l’eccesso di norme per accedervi». Ma sarebbe sbagliato definire De Laurentiis poco cinematograficamente patriottico. La verità è che lui rispettava la legge di mercato, e se per realizza-


cultura

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è una linea sottile che congiunge l’uomo al suo doppio cinematografico. E un punto preciso a partire dal quale le eterne parallele che dipanavano reale e immaginario in strade a se stanti, si contorsero ed esplosero d’un colpo nel laboratorio del dottor Frankestein. La nascita dell’ominide atroce gestato nel grembo di Mary Shelley ruppe le acque nere dell’incubo.Torbide e vischiose, esse si insinuarono nella carne viva del monstrum.

C’

Fu così che la vertigine onirica si addensò d’improvviso lungo il canale che dal romanzo alla fotografia, sfociò alla fine nel cinema. Nella sala approdarono dunque i golem e gli dei, i fantasmi e gli eroi modellati per secoli senza vita. Il cinema fu per il fantastico il soffio adamitico. Uno spiraglio da cui circolò la congenita oscenità del nostro doppio, animato per via di un maleficio tutto umano. Nell’accezione baziniana, si può dunque ritenere ogni genere di film, ogni singola scheggia di vita risuscitata dal cine-

Arti. A Roma “Il laboratorio dell’ossessione”, mostra dedicata agli effettisti del cinema

Camellini, la piccola bottega degli orrori di Francesco Lo Dico Galleria Mandeep di San Lorenzo, Il laboratorio dell’ossessione. Strappate allo spaziotempo deleuziano, dal talento fotografico di Massimiliano Camellini, le opere solide riaffidate alla doppia dimensione

ma, intimamente frankesteiniana, e cioè mostruosa. Un prodigio, dunque, che sarebbe ingenuo delegare al puro meccanicismo della tecnologia. E che vive, piuttosto, nel compimento dell’equazione dei ventiquattro fotogrammi al secondo, la più grande magia di ogni tempo, di immani e più invisibili dettagli costruiti ogni giorno da mani sapienti. Particolarmente evidenti nei film in costume, e in quelli orrorifici, quelle italiche sono da decenni a ogni latitudine le più ricercate per fare cinema. E spesso hanno prodotto delle vere e proprie opere d’arte, che pasolinianamente, possono dirsi drammatiche, in quanto opere d’arte che nascono per diventare altro da se stesse. Di questo rovello, è possibile farsi un’idea nel visitare la mostra allestita a Roma presso la

umano affiorano da queste foto suggestive in una fisicità ricavata fuori dal corpo nella materia stessa, in un continuo gioco di rimandi che rende labile il confine tra ciò che esiste e ciò che è potenzialmente vivo per-

nel vernissage del 3 novembre, dopo l’anteprima del 7 luglio a Torino. La mostra in corso alla Galleria Mandeep, che si protrarrà fino al 4 dicembre (dal martedì al sabato dalle 16 alle 21), non si segnala però soltanto come un innovativa ostensione fotografica di opere artigianali concepite per il cinema, ma anche come un momento di confronto con artisti tanto singolari. È il caso di Danilo Del Monte, uno dei più interessanti fucinatori di mostruosità presenti alla Mandeep, che il 3 dicembre, alle 19, incontrerà il pubblico per raccontare la sua carriera di effettista speciale Cresciuto a pane a Dario Argento, da più di vent’anni inorridisce il pubblico con opere d’ingegno realizzate per grandi firme del cinema horror nostrano come Michele Soavi, Lamberto Bava e lo stesso Argento. Un’occasione per autentici indagatori dell’incubo, e amanti del cinema (ma c’è davvero differenza?) che potranno così esaudire curiosità e domande

quando esse scorrono nel flusso esistenziale del fotogramma. Ma al Laboratorio dell’ossessione, che già ha affascinato la platea festivaliera all’ultima kermesse cinematografica internazionale di Roma (dove ha

Occhi, arti, frattaglie di umano affiorano da questi scatti suggestivi in una fisicità ricavata fuori dal corpo nella materia stessa, in un continuo gioco di rimandi che rende labile il confine tra ciò che esiste e ciò che è fantasmatico non testimoniano più della loro eterogenesi dei fini, e tornano a mostrarsi per quello che (non) sono: squisite creazioni artigianali che gareggiano con il mastro sogno nella lividezza dei dettagli che fece grande le botteghe fiorentine del Rinascimento. Occhi, arti, frattaglie di

ché presente nello spazio. Quelle cristallizzate da Camellini, sono immagini istoriate nella luce, grazie all’ago e il filo delle ombre. La fotografia ridona alle opere di questi piccoli artigiani della paura, il loro intrinseco alone immaginifico, nascosto paradossalmente

Nella foto grande, il manichino ideato da Danilo Del Monte per “Anime” Ai lati, due scatti de “Il laboratorio dell’ossessione” da opere dello stesso artista

figurato nell’ambito dell’interessante circuito di Risonanze), è legato anche l’omonimo volume pubblicato da 5 Continents Editions, con la partecipazione dell’editore di Rifrazioni, dal Cinema all’Oltre, Jonny Costantino, che proprio al Festival del Cinema è stato presentato

che vertono sul perno creativo dell’opera cinematografica. Mostra utile, questo Laboratorio dell’ossessione, nonché significativa, perché in grado di metterci sulle tracce della paura, ripercorrendole all’indietro. Non più come effetti definitivi raggrumati nello spavento, ma come improvvisi balenii che decifrano le ossessioni di chi l’ha costituita, mischiando scienza ad arte.

L’oscenità del cinema, in queste opere, perde la radice quadrata. Si arresta il cortocircuito, il lampo non squarcia ancora il cielo, l’avello è ancora incolume non ancora finito a pezzi. Ecco nuda la fotografia che fissa l’incubo negli occhi, un attimo prima che si risvegli.


spettacoli

12 novembre 2010 • pagina 21

Fiction. Dal 18 novembre su Sky, la nuova stagione della miniserie “Romanzo criminale”: un salto dagli anni Settanta agli Ottanta

Riecco la banda della Magliana di Domenico Palesse

ROMA. La pioggia cade insistente sul corpo esanime di un uomo, steso accanto alla sua Porsche blu. Sotto le gocce di una cupa notte romana, al di là delle transenne della polizia, restano immobili i suoi amici: Freddo, Dandi, Scrocchiazeppi, Fierolocchio, Bufalo e i fratelli Buffoni. La seconda stagione di Romanzo Criminale riparte da qui, dall’omicidio del Libanese, che lascerà nella banda della Magliana un vuoto incolmabile. Dal 18 novembre Sky (Cinema 1 e Cinema HD) manderà in onda i nuovi 10 episodi della fiction tutta italiana divenuta ormai un cult non solo in Italia. Sono oltre 40 i Paesi in cui Romanzo Criminale è stato distribuito ricevendo gli apprezzamenti di pubblico e critica. Tra questi ci sono anche gli Usa, dove i diritti sono stati acquistati dalla regina delle serie di successo, la Hbo. Nella seconda serie, il regista Stefano Sollima racconta la parabola discendente della banda in un momento storico di grande cambiamento, quello tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. «Alle spalle ci lasciamo i cupi anni del terrorismo e dello scontro sociale - dice in conferenza stampa -, della paura e dell’immobilismo. L’Italia ha voglia di voltare pagina, vuole tornare a ballare e a divertirsi. Il Paese corre a grandi passi verso il laicismo,la modernità, la ricchezza». Tanti anche gli eventi di cronaca riportarti

diversi, le loro tipologie. Questo non vuol dire che uno è migliore dell’altro. Il Dandi e il Freddo hanno due anime completamente diverse. L’unica cosa che le accomuna è il mondo criminale, per il resto hanno anche una sensibilità molto diversa, un modo di vivere la vita completamente diverso. Il tuo personaggio come si evolve? Freddo: Cercherà in tutti i modi di assomigliare al personaggio di Libano e cercherà in tutti i modi di prendere il suo posto. Proverà a tenere unita la banda, cercherà di vendicarlo e chissà se ci riuscirà... Dandi: Il Dandi ha un’evoluzione costante dalla prima puntata della prima serie fino all’ultima della seconda. Il personaggio prende coscienza delle sue capacità, del suo talento, per dire così, accetta determinate dinamiche che gli vengono incontro. Riesce a prendere in sta seconda serie - dice De Cataldo in conferenza - dovrebbe vederla soprattutto chi è stato molto critico con noi. Chi ci ha accusato di voler esaltare il Male. Il finale di questa storia farà ricredere tutti». Durante l’anteprima della serie, allestita in grande stile come fosse l’uscita di un film per il cinema, liberal ha avuto modo di intervistare i due principali protagonisti della seconda stagione, Vinicio Marchioni (Freddo) e Alessandro Roja (Dandi). La seconda stagione comincia da dove era finita la prima. Il Libanese è morto, e ora? Freddo: Ripartiamo da qualche ora dopo l’omicidio. Il primo episodio della seconda serie comincia praticamente dalla mattina dopo. Cerchiamo di capire chi ha ucciso il Libano. Dandi: Pioveva e io ero sotto l’ombrello davanti al cadavere di Libano. Ora la pioggia è finita e c’è da saldare un conto con chi lo ha ucciso. Cosa succederà nella seconda serie? Freddo: Succederanno moltissime cose. La banda a un certo punto si divide, poi si riunisce, poi si ridivide. Inizieranno a crescere molti sospetti all’interno di ognuno di noi, perché chiaramente è un ambiente in cui non ci si può fidare nemmeno dei migliori amici. Tra te ed il Dandi, chi dei due riuscirà a emergere per prendere l’eredità lasciata dal Libano? Freddo: Nessuno può prendere quell’eredità lì. È una mancanza talmente grande che nessuno dei due, pur con personalità molto forti, riuscirà a riempire il vuoto lasciato dal loro leader. Dandi: Saranno gli eventi a stabilire chi dei due emergerà maggiormente. Si avvicinano, poi si allontanano fino a quando ci sarà un momento in cui si sarà da fare i conti. Verranno fuori i due caratteri

Protagonisti assoluti, adesso, sono gli amici del Libanese: il Freddo e il Dandi. Che ci dicono: «Il finale stupirà i detrattori» sullo schermo. Alcuni già presenti nel libro, come il caso di Emanuela Orlandi, e altri aggiunti in fase di sceneggiatura. I protagonisti assoluti di quello che Giancarlo De Cataldo (autore del romanzo e del soggetto) chiama «il secondo tempo di un film cominciato con la prima serie» sono il Freddo ed il Dandi. Sono gli eredi morali del Libanese, ma la loro personalità e i loro caratteri finiranno in breve tempo per scontrarsi. Nella seconda serie c’è anche una new entry, la bionda Donatella, interpretata da Giovanna Di Rauso. È la prima donna ad avere accesso al “ristrettissimo” club della banda della Magliana. Il Freddo la prende dalla strada, ne intravede il talento e decide di integrarla nel gruppo. Il suo unico scopo è quello di arrivare in cima, disposta a vendere cara la pelle pur di riuscirci. Non mancherà neppure il Libanese (Francesco Montanari) che tornerà come “fantasmino-coscienza” di uno dei protagonisti. «Que-

In questa pagina, la locandina e alcuni fotogrammi della nuova stagione della miniserie “Romanzo criminale”, dal 18 novembre in onda su Sky. La storia della banda della Magliana si sposta adesso dalla Roma degli anni Settanta a quella degli anni Ottanta

mano il suo reale cammino, la sua reale strada. Che idea ti sei fatto della banda reale? Freddo: L’idea che mi sono fatto è quella che si è fatta chiunque, leggendo i fatti di cronaca. La banda era un’organizzazione criminale spietata che ha mietuto moltissime vittime e forse quello che noi sappiamo è solo una parte della realtà. Ma credo anche che il mondo politico di allora abbia in qualche modo “sfruttato” la banda, utilizzandola spesso come capro espiatorio di crimini che la banda non commetteva. Era un po’ la “monnezza”della politica, dove il Palazzo buttava tutto ciò di cui non riusciva a venire a capo. Dandi: È molto lontana da noi. Noi l’abbiamo studiata, l’abbiamo metabolizzata, ma poi sappiamo che abbiamo raccontato tutt’altro, dove la cronaca è un elemento correlante e coadiuvante del nostro Romanzo, appunto. Credo che la serie sia impregnata da tante storie diverse che vengono dalla cronaca, ma anche dalla storia del cinema. La banda reale e quella della fiction vivono su binari completamente diversi.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

La disuguaglianza stimola a crescere, lottare per avanzare Nella Russia sovietica vigeva il capitalismo di Stato: poche persone “producevano”, tutti gli altri “controllavano”. Una pletorica burocrazia pubblica doveva essere mantenuta dai produttori, controllati e mal pagati. L’economia dirigista dei Paesi comunisti è spesso fallimentare, perché genera miseria, grigiore, totalitarismo, sfruttamento dei lavoratori e negazione dei diritti umani. Lo Stato sociale – welfare state, tutore dalla culla alla bara – è in crisi. Lo Stato mamma o padre padrone - alimentato dall’invidia per chi ha più mezzi e maggior successo - risulta burocratico e sprecone. Lo Stato assistenziale deresponsabilizza il cittadino; ne limita la creatività, l’iniziativa, le libere scelte e le realizzazioni; provoca dipendenza, ristagno e finanza allegra. L’individuo trova la miglior fonte di sostentamento nel proprio lavoro. L’economia di mercato concorrenziale è la più efficiente produttrice di benessere. La proprietà privata è presidio basilare d’indipendenza e libertà personale. Eppure l’utopia marxista livellatrice ha imperato e impera nelle scuole, università, giornali e libri. La sinistra ignora che la disuguaglianza può essere un’opportunità: stimola – specie chi ha meno – a crescere, lottare per avanzare, esercitare le capacità personali. L’eguaglianza coatta è ingiusta: punisce il merito.

Gianfranco Nìbale

LE PROMESSE DEL PREMIER NON MANTENUTE IMBARAZZANO A suscitare perplessità sono le promesse mai mantenute - di Berlusconi alle famiglie. Non vorrei che le sue più recenti dichiarazioni, che ognuno può giudicare come meglio crede, spostassero l’attenzione dall’importanza che riveste questo appuntamento. Il governo ha la possibilità di dimostrare la volontà effettiva di garantire alle famiglie giustizia fiscale, sussidiarietà e investimenti, purché non lo faccia solo a parole, ma declinando tutto ciò in questa legislatura. Mi auguro che qualcuno non scambi questa occasione preziosa per la solita passerella.

L. C.

UN PROCESSO NATURALE La migrazione di parlamentari dal Pdl a Fli non può essere un fenomeno da non rimar-

care con straordinaria epicità, perché il secondo rischia di diventare l’unico punto di riferimento della destra moderna e vincente. In tale ambito occorre sottolineare che l’Italia non è fatta per le coalizioni o gli arcobaleni in politica, ma richiede un partito nella sua forma classica che sappia governare. Se una struttura perde i pezzi a favore di un’altra non è cosa da poco, e non è tanto il berlusconismo il fenomeno da superare ma l’esistenza della destra di governo come partito, compatto e formato, che deve essere una realtà per il futuro. Attualmente è ineluttabile che Fli risponde maggiormente ai requisiti richiesti, fermo restando che non deve essere la condanna di uno stile di vita, ma un processo naturale di avvicendamento politico che troverà il modo in futuro, di essere approvato dalla gente.

Bruna Rosso

Luna in trappola Prima di fotografare il loro soggetto hanno dovuto aspettare che si posizionasse proprio in mezzo alle due torri dell’Abbazia di Ottobeuren, in Baviera. Solo a quel punto Timm Kasper e Robert Blasius hanno potuto scattare questa foto-cartolina

ESIBIZIONISMO E CRUDELTÀ Angelina Germanotta, più nota come Lady Gaga, clone mal riuscito di Madonna, non avendo molte doti come cantante, cerca di far parlare di sé con le azioni più stupide e assurde. L’ultima, che non eccelle per intelligenza, è stato il presentarsi “vestita”con fette di carne di animale. Il suo “costume”è stato lanciato, e già emulatori idioti e imprenditori carogne si sono gettati alla grande a imitarla. A parte l’assoluta mancanza di buon

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

gusto, nessuno ha spiegato a Lady Germanotta che le bistecche sono pezzi del corpo di animali, cioè di esseri viventi capaci di capire e soffrire, animali assassinati e squartati per essere utilizzati in queste stupide speculazioni? Eppure, tempo fa, aveva bruciato una pelliccia, ma ciò dimostra come queste “star” in realtà siano delle “nullità“, a cui i manager fanno fare e dire quello che vogliono. Dentro la testa nulla.

Centopercentoanimalisti

dal ”New Yorker” del 10/11/10

Ombre cinesi sulla cerimonia del Nobel a Cina dalle minacce passa ai fatti. Come prevedibile ha inviato messaggi minacciosi per la nomina del dissidente incarcerato Liu Xiaobo e adesso ha dispiegato la propria diplomazia per essere sicura che la cerimonia di consegna del premio Nobel vada deserta. In Germania, l’Università di Gottinga ha voluto studiare quanto vadano prese sul serio le minacce di Pechino. Due ricercatori tedeschi, Andreas Fuchs e Nils-Hendrik Klann, hanno elaborato un documento «L’effetto Dalai Lama sul commercio internazionale», per capire meglio il fenomeno cinese. Se il viceministro degli Esteri di Pechino ha inviato a tutte le ambasciate europee di Oslo una missiva – mettendole in guardia dal dare legittimità alla cerimonia della consegna del premio all’oppositore del regime comunista – c’è da immaginare che questo atteggiamento non si fermi soltanto alle scrivanie delle feluche. «Chi non è con noi e contro di noi», non sembra dunque solo un esercizio di retorica politica. E gli esperti di Gottinga, per la prima volta, hanno messo nero su bianco i numeri delle ritorsioni cinesi sul commercio con Paesi rei di non aver “ubbidito” agli ordini perentori di Pechino. Il metodo usato è empirico, come ammettono i due studiosi, e l’effetto è stato studiato sul flusso commerciale di quegli Stati che hanno ricevuto il Dalai Lama al più alto livello di rappresentanza politica. Insomma, se inviti il sant’uomo tibetano preparati a vedere ridotti gli scambi commerciali con il Chung Kuò. Ma quali so-

d’analisi mai indagato in precedenza. Ora ci si domanda se anche l’approccio alla vicenda del Nobel a Xiaobo seguirà lo stesso binario. Gli esperti affermano di sì. Basterebbe leggere tutto ciò che è stato pubblicato sui quotidiani cinesi, voce del regime, per capire che su questa vicenda il governo si sta giocando un pezzo della propria credibilità interna. Il nome del Dalai Lama e di Xiaobo vengono sempre associati per descrivere il complotto internazionale per screditare la Cina, come spiega il corrispondente da Pechino del New Yorker, Evan Osnos. Mettendo da parte le ovvie considerazioni sul metodo di boicottaggio, sarebbe interessante vedere quanto sia efficace per gli interessi cinesi.

L

no i numeri della ritorsione? Si parla di circa l’8,1 per cento di diminuzione delle esportazioni verso la Cina. La ricerca sottolinea come l’effetto sia stato riscontrato soprattutto nell’era Hu Jintao. Però serve ricordare che Pechino non andava per il sottile neanche sulla vicenda Taiwan, ancora oggi riconosciuta solo da una micropattuglia di Stati. E il metodo di far andare deserte certe iniziative è nella storica tradizione della diplomazia con gli occhi a mandorla. La retaliation cinese si concentrerebbe sui macchinari e sugli equipaggiamenti nel settore trasporti, tanto per essere precisi. Di solito le restrizioni durano un paio d’anni prima che si torni alla normalità dei rapporti, secondo gli autori dello studio che hanno indubbiamente centrato un filone

A guardare l’agenda degli incontri del capo religioso tibetano dal 2005 sembrerebbe che funzioni. Fino al 2008 aveva incontrato ben 21 capi di Stato e di governo, nel 2009 soltanto due. In più molti altri avevano declinato l’invito e tra questi i premier australiano, olandese e neozelandese. Ma forti di questi risultati le autorità cinesi hanno commesso un errore. Annullare un incontro non ha un grande ritorno mediatico e spesso la gente non sa neanche chi sia il Dalai Lama. La consegna dei premi Nobel è altra faccenda. È una tradizione dell’Occidente, dove l’attenzione internazionale e dei media è altissima e dove ogni diplomatico starà bene attento a non darsi per malato e impegnato altrove per non essere messo nell’elenco degli “affidabili”del governo di Pechino.


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LE VERITÀ NASCOSTE

di Vincenzo Bacarani

Siamo tutti killer, basta chiedere nel modo giusto SAINT THOMPSON.Vi siete offerti per partecipare ad un test scientifico, nel corso del quale vi viene chiesto di uccidere una persona innocente. Lo fate? Una ricerca ha cercato di scoprirlo (lo scopo era capire meglio la mentalità dei soldati nei campi di concentramento nazisti), trovando che molte persone si trasformano in killer, se la richiesta è fatta nel modo giusto. Il dottor Stanley Milgram ha simulato un esperimento in cui le inconsapevoli “cavie”credevano di partecipare ad un esperimento sugli effetti del dolore nell’apprendimento, dove alla finta cavia – in realtà un attore – venivano fatte delle domande e venivano date delle (finte, in realtà) scosse elettri-

che quando sbagliava, sempre più forti. L’attore fingeva alcuni errori, iniziando ad urlare di dolore. I volontari solo in qualche caso si sono fermati a domandare al ricercatore se fosse il caso di andare avanti (nel qual caso, la risposta era un calmo «L’esperimento richiede che tu continui». Con sorpresa di Milgram, anche nei casi in cui le cavie sentivano chiaramente urla di dolore e l’agonia del finto volontario, in ben due

ACCADDE OGGI

FESTIVAL SANREMO. PAGARE PER COSA? DALL’ASSURDO AL RIDICOLO Sventata la possibilità che in apertura del festival della canzone italiana fossero diffuse le note e le parole di Bella ciao e Giovinezza, Gianni Morandi ci fa sapere che l’apertura sarà resa solenne dall’Inno di Mameli. Non sono fan di questo festival e della sua presunta capacità di creare e comunicare arte e musica. Il mio interesse è solo economico, cioè come vengono utilizzati i soldi dei contribuenti che, da diverse parti e per diversi motivi, piovono a fiumi in un evento del genere. Soldi su cui è doveroso “fare le bucce” perché, per gli amanti del genere, si tratta anche di trasmissione Rai che occuperà diversi giorni in prima e seconda serata. Il tentativo futurista di aprire con Giovinezza e Bella ciao era assurdo, ma sicuramente una proposta artistica che sparigliava schemi tradizionali, pur andando ad ammarare in una pacificazione nazionale di cui nessuno sente necessità. O c’è qualcuno che crede che in termini culturali esista ancora una contrapposizione tra fascisti e antifascisti? Ebbene, al serioso richiamo da parte del Cda della Rai ecco che arriva Mameli. Festival di Sanremo come un congresso del Pd o del Pdl, o come la commemorazione dei caduti in guerra o i funerali dei vari caduti italiani nelle missioni internazionali. Vediamo già milioni di italiani che, a casa loro, in piedi davanti alla tv, con la mano sul petto rendono onore all’apertura del festival della canzone italiana, e col cuore gonfio, deglutendo mentre trattengono il magone si siedono accanto all’intera famiglia per deliziarsi delle grazie di una musica che, dopo una settimana,

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

12 novembre 1970 La Oregon Highway Division tenta di distruggere la carcassa di una balena arenata usando dell’esplosivo, portando al tristemente noto episodio della balena esplosa 1979 In risposta alla situazione degli ostaggi a Teheran, il presidente statunitense Jimmy Carter ordina il blocco di tutte le importazioni di petrolio dall’Iran agli Usa 1980 La sonda spaziale Voyager I della Nasa compie il suo passaggio più ravvicinato a Saturno 1982 In Unione Sovietica, Yuri Andropov viene scelto per diventare segretario generale del Partito comunista sovietico 1990 Il principe ereditario Akihito viene formalmente incoronato come Imperatore Akihito del Giappone, diventando il 125esimo monarca giapponese 1991 Massacro di Dili, la polizia apre il fuoco su una folla di dimostranti di colore in Timor Est 2003 In un attentato a Nassiriya muoiono 23 persone, tra loro 19 sono italiani

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

terzi dei casi sono andati avanti a premere il bottone delle scosse elettriche. E soprattutto, quando il volontario si fingeva prossimo alla morte, la percentuale degli obbedienti saliva vicino al 100 per cento.

nessuno ricorderà più, e che non udiranno mai nei fischietti del mitico panettiere che in bicicletta consegna la sua merce e che ha reso celebri i brani cantati dai vari Domenico Modugno, Claudio Villa, Gianni Morandi, etc. Dopo che mi sono divertito a presentare il quadretto della famiglia italiana che gli organizzatori del festival credono sia quella reale (ma dove vivono?), torno al motivo che mi sta facendo pigiare i tasti del computer: è questo il modo di usare i soldi degli italiani? È questa la cultura che ci vogliono trasmettere? È questa l’arte che dovrebbe renderci la vita più bella, serena e felice? Io non credo di vivere in un’altra Italia, per cui il problema credo che sia l’altra Italia in cui vivono e ci prendono in giro coloro che sono demandati all’uso della cosa pubblica. E poi si lamentano che gli italiani, sempre di più, non vogliono pagare il cosiddetto canone della Rai: se tanto mi dà tanto conviene essere evasori fiscali che non complici di questa schifezza.

Vincenzo Donvito

NON SOLO PAROLE Spero che il monito del Papa, secondo cui nelle anime albera la stessa spazzatura che sta nelle strade di Napoli e del mondo, sia sufficiente affinché ognuno di noi, senza guardare all’altro per partire, riversi la goccia che comporrà nel tempo il mare. Forse non è solo una questione di differenziata o di discariche, ma della necessità di depurare internamente quei risentimenti che impediscono di fare il proprio dovere civile, che riguarda soprattutto ciascuno di noi.

Br

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

SE I SINDACALISTI VIVONO NEL PASSATO Il mondo del lavoro sta cambiando rapidamente. Cambiano le figure professionali, cambiano i rapporti tra dipendente e datore di lavoro. Cambia, sostanzialmente, tutto. Le ragioni? Le ragioni erano nell’aria da diversi anni, ma non c’era a disposizione degli addetti al settore una motivazione vera, accertabile o quantomeno giustificabile. La grave crisi finanziaria del 2008-2009, provocata da un folto gruppo di spregiudicati speculatori, ha paradossalmente accelerato questo cambiamento e lo ha – di fatto – reso necessario e indispensabile. Il posto di lavoro precario, i contratti ad personam, l’impiego in somministrazione, le agenzie di lavoro interinale sono stati antecedenti alla grave crisi finanziaria mondiale. Ma oggi rappresentano, proprio a causa di questa grave crisi, gli unici appigli per consentire a chi è in cerca di un reddito di ottenerlo. Sono crollati i miti del posto fisso a vita, della sicurezza al di là di tutto, della salvaguardia di diritti conquistati in lunghi e faticosi anni di battaglie. In tutto questo scenario c’è stato, e purtroppo c’è ancora, un grande assente: il sindacato. Un sindacato, inteso in senso generale, che ha continuato e continua a tutelare soprattutto chi un posto ce l’ha già. Un sindacato che dimentica la massa enorme di persone che si sta avvicinando – tra mille difficoltà – all’esperienza lavorativa. La categoria degli esclusi da tutto si sta infoltendo, ma non c’è nessuno che la aiuti, che in qualche maniera la tuteli. Le vie d’uscita a questa situazione proposte da studiosi e da alcuni sindacalisti illuminati, ma isolati, vengono giudicate negative a prescindere, con motivazioni che sono sostanzialmente ideologiche. In gran parte dei Paesi occidentali accade l’esatto contrario, con il risultato che gli operai di Francia, Stati Uniti, Germania (tanto per fare degli esempi) guadagnano più di quelli italiani e partecipano concretamente alle scelte strategiche dell’azienda a cui appartengono. In Italia, invece, l’operaio o il dipendente in genere viene considerato ancora un individuo che ha bisogno di qualcuno che gli dica che cosa deve pensare. Di questo passo la classe operaia in paradiso non ci andrà di sicuro. Finchè alcuni sindacati continueranno a considerare i propri iscritti come persone senza capacità di intendere e di volere, non ci sarà soluzione al problema. Emblematico, a questo proposito, il caso Fiat. A fronte di un aumento di responsabilità, di autonomia e di salario, fatti salvi i diritti acquisiti, ci sono organizzazioni sindacali che vogliono tornare al rapporto padrone-dipendente. Un rapporto in cui il padrone è per definizione un tiranno e il dipendente è per definizione uno schiavo. Una situazione molto comoda da gestire per certi sindacalisti. bacarani@gmail.com

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ULTIMAPAGINA Storie. Nick Rizzuto, capo della famiglia mafiosa canadese, è stato ucciso ieri notte

Così è finito il padrino di di Francesco Lo Dico ltimo giro di bevute, il bar sta chiudendo. Il sole se ne va. Colazione non troppo lontano. Lui rantola, le accerezza la testa: «Che nottata... Sono stanco, amore». Poi muore. Titoli di coda. Immaginare la morte di un boss, significa usurpare schegge di eventi mai avvenuti, che pure la nostra memoria sa mettere in fila con l’inequivoca esattezza di un sudoku. Ma ora che Nick Rizzuto, patriarca della mafia di Montreal, è morto, l’unica certezza è che servono vite inventate come quelle di Carlito Brigante perché l’enigma possa darsi avvincente.

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La fredda cronaca, il misero appiglio cui si aggrappa come un ragno la favola nera, è tutta nel verbale dell’agente Daniel Lacoursière: «Nick Rizzuto è deceduto in seguito a un colpo di fuoco mentre si trovava nella sua abitazione». Abitava in rue Antoine-Berthelet, nel lussuoso quartiere di Carterville cinto di ville tronfie in odore di malavita. Probabilmente si trovava in cucina, il vecchio padrino. In piedi, affaccendate a sparecchiare, due donne. Forse Nicola stringe nel palmo uno dei suoi amati mandarini, e poi prende a spicchiarlo con le mani callose. La buccia che scivola e diventa umida, la lama di un coltello che scorre solenne sui rimasugli. Poi un botto, il vetro in frantumi. Nick sobbalza, il mandarino che scivola via dalla mano. È a questo punto, che ritorna la cronaca. Le due donne gridano, chiamano il 911, arriva l’ambulanza, la corsa disperata. Niente da fare, il cuore di Rizzuto smette di battere lungo il percorso. A tenergli la mano, prima di essere ricoverata anche a lei, c’è Libertina Manno, 83 anni, sua moglie. Aveva 86 anni, Nick Rizzuto, eppure non sono bastati per morire di vecchiaia. Un colpo in testa nella pelata canuta. La vendetta non ha età, non discrimina nessuno. Tanto meno se non hai neppure diritto alla social card. L’uccisione del padrino canadese è forse l’ultimo atto

di una tirannide criminale durata trent’anni. Ma l’impero era già in crisi: nel 2004 Vito Rizzuto, figlio di Nicola, era stato arrestato in Canada ed estradato negli Stati Uniti. Oggi sconta la pena in Colorado per estorsione e omicidio. Nel dicembre scorso era stato il turno di suo figlio, Nick Rizzuto jr. e nipote del patriarca. Ucciso dalla canna di una pistola nel pieno centro di Montreal. Eredi azzerati. Eliminati prim’ancora di attuare la vendetta delle vendette. La testa del vecchio boss. Chissà se il vecchio gaglioffo

completamente diverso. Ci era nato nel 1924, e presto aveva preso a lavorare a jurnata. Bracciante a gettone, intollerabile. Lui voleva “comandare le terre”. Era entrato in una squadra di banditi al soldo del barone Agnello, acri e acri dell’agrigentino tutti nelle sue mani, che presto aveva cominciato a proteggere calpestando i contadini. Non è un socialista, Rizzuto, a lui frega soltanto di comandare. E la figlia di Nino Manno, Libertina, che sposa il 18 marzo 1945. Quella che gli tiene la mano ieri notte, mentre muore. Il giovane campiere Nicolò, tiene lontani i contadini dalla terra che i vogliono in affitto grazie ai decreti Gullo. Ma tra la legge e il diritto, c’è lui. Il bandito in ascesa. Se non che ci sono troppi morti, e poi don Cola è troppo ambizioso per accontentarsi di un villino in mezzo agli ulivi. Nel 1954 fa armi e bagagli ed emigra in Canada. Si mette agli ordini del boss calabrese Vic Cotroni, det-

MONTREAL to “the egg”. Prima obbediente, Niccolò si ribella. L’erede designato da “the Egg” non gli piace. Vuole essere lui il grande capo. E ci riesce. Soldi e affari fino agli anni 70. Poi la fuga in Venezuela, dove Nick apre un ristorante. Lo chiama “Il padrino”. Ma a Rizzuto fare il cuoco non interessa e nel 1978 si riprende Montreal, per poi consegnarla al figlio Vito. Il giovane allarga l’orizzonte criminale: contatto con il narcotraffico colombiano, gli Hell’s Angels, la West est gang irlandese. La polvere bianca piove sui tetti di Montreal, affari e sangue schizzano alle stelle con la stessa traiettoria vertiginosa. L’evoluzione della famiglia è evidente in Vito: parla cinque lingue, gioca a golf e guida una Ferrari. Ma alla fine, va in galera anche lui, più o meno per sempre.

Nel 1954 Don Cola emigra in Canada, agli ordini del boss Vic Cotroni, detto “the egg”. Prima obbediente, Niccolò si ribella. Vuole essere lui il capo. E ci riesce. Soldi e affari fino agli anni 70. Poi il regno consegnato al figlio Vito, e la fine... aveva fiutato la caccia grossa. Se mangiava tranquillo. Se quando stringeva in pugno un mandarino, sognava un ritorno impossibile dove tutto era cominciato. A Cattolica Eraclea, provincia di Agrigento. Dove lui, un tempo, si chiamava Don Cola. E viveva in un mondo In alto, a destra, la bara d’oro di Nick Rizzuto, omonimo nipote del boss italiano assassinato a Montreal. Qui sopra, uno scatto del capomafia. Accanto, “The sixth family”, saggio sul clan Rizzuto

Figlio in galera, nipote morto ammazzato. Chissà se deve averci pensato, prima che un proiettile rendesse poco agevole l’amarcord, Don Cola. Chissà se Don Cola il patriarca, ha provato dolore. O se il colpo di pistola alla nuca, ha reso tutto più rapido o liberatorio, più indifferente o più giusto. Di nuovo il sudoku, il cinema, vita che sfugge ma dobbiamo raccontarci per sognare d’inseguirla in ogni anfratto. La favola nera è servita. Eppure sappiamo soltanto che ieri, Nicola Rizzuto, è morto.


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