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ISSN 1827-8817 01118

La giustizia è l’insieme delle norme che perpetuano un tipo umano in una civiltà

he di cronac

Antoine De Saint-Exupéry

9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 18 NOVEMBRE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il presidente Napolitano invoca «responsabilità» e Casini lancia un appello: «Subito un patto nazionale per salvare l’Italia»

La fiction di Berlusconi

Dice «o stabilità politica o urne»: ma pensa solo alle elezioni,perché se anche ottenesse la fiducia per un voto,il suo governo sarebbe comunque finito.Ma l’Italia può perdere altri cinque mesi? PREMIER & SUPERMARKET

di Franco Insardà

L’ultimo inganno del Cavaliere

lusconi appare illuso che accanto alla crisi economica, lontana dalla fine, si possano fermare le lancette di quella politica. Fa finta di perseguire l’obiettivo della stabilità, non ascolta i dubbi di qualche esponente più illuminato del Pdl e non si accorge che il sistema economico guarda già oltre. a pagina 2

di Enzo Carra entiremo parlare ancora di Pompei. Il voto sulla sfiducia a Bondi lunedì 29 finirà per anticipare quello sulla mozione di sfiducia al governo del 14 dicembre. Per Berlusconi è una corsa contro il tempo. Deve ritrovare in poco più di una settimana i quindici voti che, conti alla mano, gli mancano per avere la maggioranza alla Camera. Ma è chiaro che se dovesse riuscire in un modo o nell’altro - tra voti tornati all’ovile e assenze in aula - il “colpo grosso” del presidente del Consiglio, piuttosto che ad una qualche stabilità di governo condurrebbe comunque alle elezioni anticipate. Perché una maggioranza ormai risicatissima ripresa per i capelli in quello che si definirà il classico «mercato delle vacche» non potrà garantire un’azione di governo resa ancora più complessa e difficile dalla crisi economica europea.

L’appello del pontefice all’Udienza : «Prego per lei e per tutti i pakistani»

ROMA. Più che fiducioso Ber-

S

Anche il Papa chiede «liberate Bibi»

Decisa la data del voto sul ministro dopo il crollo di Pompei

Sfiducia il 29 novembre L’esecutivo appeso a Bondi Nel Pdl è già cominciata la corsa agli acquisti dell’ultima ora, sperando di raggiungere la maggioranza alla Camera. Mentre lo stato maggiore del partito attacca sulla data «troppo ravvicinata» Riccardo Paradisi • pagina 3

Parla il leader dei repubblicani Giorgio La Malfa

«Sarebbe folle andare a votare mentre l’Europa sta crollando» «L’Ue non ha una politica; la Germania sta lavorando per cambiare l’Euro; l’instabilità è la nostra condizione perenne da anni, e il premier pensa solo alle urne... Ecco perché serve subito un altro governo»

Si moltiplicano nel mondo le adesioni alla campagna per chiedere la liberazione della cristiana condannata a morte per blasfemia Faccioli Pintozzi • pagina 14

Gabriella Mecucci • pagina 4

a pagina 2

Il ministro annuncia: «Querelo Saviano e vado in tv vestito da Sandokan»

Dia: allarme criminalità al Nord L’Antimafia smentisce Maroni. Poi cattura un boss dei Casalesi

Il boss dei Casalesi, Antonio Iovine, dopo l’arresto

ROMA. Due tegole, una positiva e una

di Pietro Salvatori

negativa, cadono sulla polemica innescata da Maroni contro lo scrittore Roberto Saviano («Andrò in tv vestito da Sandoklan» ha detto ieri il ministro alludendo al soprannome del camorrista che ha chiesto la vita di Saviano). Proprio ieri, nel primo pomeriggio, la Dia, Direzione investigativa antimafia, ha presentato al Parlamento il suo rapporto sul primo semestre del 2010 nel quale viene descritta l’entità della pe-

netrazione delle mafie al Nord e in particolare della ’ndrangheta nella Lombaria, e poi viene lanciato un allarme per le possibili collusioni di vaste aree politiche con la criminalità organizzata che ottiene sempre più spesso appalti pubblici in tutto il Settentrione del Paese. Insomma, il massimo organismo antimafia ha confermato le parole spese in tv da Saviano durante

seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

224 •

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• CHIUSO

la puntata di lunedì di Vieni via con me. D’altro canto sempre ieri, nel seocndo pomeriggio, è stata annunciata la cattura di uno dei boss dei casalesi, Antonio Iovine, latitante da 14 anni. Condannato all’ergastolo nel 2008 nel maxi processo Spartacus, Iovine era inserito nell’elenco dei 30 più pericolosi latitanti d’Italia. Maroni, dopo essere stato smentito dalla Dia, ha paludito al successo della Dia medesima.

IN REDAZIONE ALLE ORE

a pagina 6

19.30


prima pagina

pagina 2 • 18 novembre 2010

il fatto Nuovo appello del presidente Napolitano: «Dopo la Finanziaria, servirà un grande senso di responsabilità»

Il premier fa finta di niente «La fiducia significa stabilità», dice Berlusconi ignorando la crisi. E Casini: «Serve un patto di unità nazionale per salvare l’Italia» la polemica di Franco Insardà

ROMA. Giorgio Napolitano ribadisce il suo giudizio positivo per la scelta di dare priorità all’approvazione della Finanziaria e aggiunge: «avremo bisogno di altri segni di questo senso di responsabilità anche nei tempi a venire». Ma Umberto Bossi ha fissato la data: «duriamo fino al 27 marzo», mentre Silvio Berlusconi, nel ruolo di presidente-pescatore, si è preso la briga di motivare gli elettori in prospettiva delle urne: «O fiducia o voto, aprire la crisi è irresponsabile. Non credo si possa arrivare ad un governo-bis, ne abbiamo bisogno di uno solido». Cercando anche di dare una parvenza di normalità con la nomina, dopo mesi, del nuovo presidente della Consob, che dovrebbe essere Giuseppe Vegas. E a un Napolitano che mette in guardia dalle «turbolenze finanziarie, che persistono, che investono l’eurozona e dalle quali sappiamo che possono derivare incognite per un Paese come il nostro gravato da un pesantissimo debito pubblico. Abbiamo il dovere di fare fronte al costo del debito». Il premier replica: «Sopporto tutto, io guardo sempre al problema della stabilità italiana, al problema dei titoli di Stato che dobbiamo vendere ogni giorno». Ma più che fiducioso il premier appare illuso che accanto alla crisi economica, lontana dal volgere al termine, si possano fermare le lancette di quella politica. Fa finta di perseguire l’obiettivo della stabilità, non ascolta i dubbi di un pezzo importartante del Pdl – la corrente Liberamente che fa capo ai ministri Frattini e Gelmini – che chiede un armistizio con Fli e l’ingresso dell’Udc in maggioranza e non si accorge che, buon ultimo Marchionne, il sistema economico saluta già l’arrivo di nuovi governanti. Alla vigilia dell’assemblea nazionale di Milano del 20 e 21 con lo slogan: “Meno promesse, più Nord per far ripartire l’Italia”, Pier Ferdinando Casini ritiene che Berlusconi «pone una finta alternativa agli italiani: se gli danno la fiducia chiede il voto, ma se no gliela danno chiede lo stesso di andare alle urne. Nessuno può dire dopo di me il diluvio, muoia Sansone con tutti i filistei». Per il leader dell’Udc «serve un patto di responsabilità nazionale, perché andare al voto anticipato è un atto

Tenta l’ennesimo «colpo grosso» della sua vita a spese degli italiani

L’ultimo inganno del Cavaliere di Enzo Carra entiremo parlare ancora di Pompei. Il voto sulla sfiducia a Bondi lunedì 29 finirà per anticipare quello sulla mozione di sfiducia al governo del 14 dicembre. Per Berlusconi è una corsa contro il tempo. Deve ritrovare in poco più di una settimana i quindici voti che, conti alla mano, gli mancano per avere la maggioranza alla Camera. Il recupero del deputato italo argentino passato ai futuristi e ripassato ai berlusconiani è il chiaro sintomo dell’operazione in corso. È altrettanto chiaro che se dovesse riuscire in un modo o nell’altro - tra voti tornati all’ovile e assenze in aula - il “colpo grosso”del presidente del Consiglio, piuttosto che ad una qualche stabilità di governo condurrebbe comunque alle elezioni anticipate. Questo perché una maggioranza ormai risicatissima ripresa per i capelli in quello che si definirà il classico «mercato delle vacche» non potrà garantire un’azione di governo resa ancora più complessa e difficile dalla crisi economica europea.

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rianimazione del governo si parlerà di «classica vittoria di Pirro», ecc… eppure, dato che «superato il colmo non c’è più limite», come direbbero Bouvard e Pécuchet, dato insomma che l’irrazionale si è saldamente impadronito della scena politica, nulla vieta di pensare che anche questa del governo in vita artificiale sia un’ipotesi realizzabile. Il voto sfavorevole a Bondi, invece, oltrepassando di molto i confini di un giudizio sull’operato del ministro toccherebbe direttamente uno dei tre coordinatori Berlusconi e quel che resta del suo partito. Con quel che segue. Il che in circostanze come quella che stiamo vivendo porterebbe un presidente del consiglio a trarne le conseguenze già nella serata del 29 novembre. A rintracciare un qualche filo logico, ma non è assolutamente detto che ci si riesca, con le sue dimissioni Berlusconi si garantirebbe un esito assai meno disastroso per lui.

Si rischia uno scontro istituzionale i cui danni sarebbero enormi: il premier dovrebbe saperlo

Con uno o due voti di maggioranza non soltanto non si governa ma non si può neanche tirare a campare, al massimo si tirano le cuoia. Non c’è neanche da scomodare Prodi con il suo furibondo e, infine, vano ricorso ai noti, si fa per dire, Rossi e Turigliatto per capire cosa succederebbe da allora in poi. E poi che Berlusconi pensi già alla campagna elettorale è fin troppo evidente ed è questa, del resto, la cosa che gli riesce meglio. Non vede l’ora di cominciare. In caso dunque di

Certo per chi è abituato a scommettere il tutto per tutto deve essere arduo, se non impossibile, tenere la destra piuttosto di invadere di continuo l’altra corsia sulla quale viaggia, seguendo la Costituzione, il capo dello Stato. Arriverà il momento in cui il presidente del Consiglio dovrà rimettersi rapidamente in carreggiata. Se non lo facesse non si eviterebbe uno scontro - istituzionale - i cui danni sarebbero enormi, soprattutto per chi ne fosse riconosciuto responsabile. Per come vanno le cose c’è da giurare che il responsabile sarebbe Silvio Berlusconi.

di irresponsabilità. Serve un armistizio e va fatto con tutte le persone responsabili che vogliono salvare l’Italia». Il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, intervenendo insieme con Casini alla presentazione del libro di Giorgio Merlo dal titolo “Il centro e il Pd”, ha auspicato di poter costruire un rapporto con l’Udc in vista di un governo di responsabilità nazionale. Bersani ha ribadito la necessità di «aprire un percorso per un governo che chiamo di transizione, o di responsabilità nazionale che metta in sicurezza la democrazia e poi si andrà a votare con progetti nuovi. In questo auspico che sia possibile un rapporto di vicinanza con l’Udc».I l segretario del Pd ha ribadito la disponibilità del Pd a creare le condizioni per un governo di responsabilità nazionale sottolineando che «non so se questa strada può portare frutti politici al mio partito ma penso che siamo ad un punto in cui ciascuno deve prendersi le sue responsabilità». Bersani ha denunciato che il centrodestra continua a «fare melina, ora si prendono uno, due, tre mesi, non si produce niente per il Paese poi si fa una bella campagna elettorale con la legge che abbiamo e che ci porta di nuovo ad un confronto su Berlusconi sì, Berlusconi no, e così arriviamo all’estate prossima ad avere forse un governo. Chi si prende la responsabilità di tenere un Paese in questa situazione? Noi di certo no».

Sull’ipotesi che si possa votare il 27 marzo Casini ha poi osservato: «Questa non è la “repubblica delle banane”. C’è un presidente della Repubblica che ha il compito di sciogliere le Camere. Questo toto-voto è da irresponsabili. Mentre tutti governi europei si occupano della crisi noi facciamo il toto-elezioni: siamo sulla Luna. Chiedo a Berlusconi di dire ai suoi ministri di occuparsi dei problemi del Paese altrimenti sembrano dei fantasmi che non si accorgono di quello che sta accadendo. E poi c’è una contraddizione palese tra loro e Berlusconi. Il premier dice o la fiducia o le urne, mentre i suoi ministri hanno già scelto con chiarezza: vogliono il voto e basta. Berlusconi cerca di andare allo scioglimento del Parlamento, ma di fronte a questo gioco ormai scoperto gli altri non possono fare i soprammobili». Per il leader del’Udc «sarebbe al-


il retroscena Fissata il 29 novembre la mozione contro il ministro dei Beni culturali

La sfiducia a Bondi rovina il mercato del Pdl Il partito del premier inizia il lavorìo sotterraneo per «comprare» deputati a Fli in vista del voto di Riccardo Paradisi rovinare i piani della maggioranza che aveva immaginato un percorso liscio fino al voto di fiducia il 14 dicembre è arrivata la mozione di sfiducia dell’opposizione a Sandro Bondi. Un fulmine che certo non arriva a ciel sereno ma che prende in contropiede il centrodestra. L’Aula della Camera esaminerà il prossimo 29 novembre la mozione di sfiducia nei confronti del ministro dei Beni culturali avanzata dopo il crollo della Domus dei Gladiatori nel parco archeologico di Pompei.

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Ieri Berlusconi ha spiegato che il sì alla fiducia al suo governo «darebbe stabilità al Paese». Ma prima la Camera si esprimerà sulla sorte del ministro Bondi. A sinistra, Gianfranco Fini

tamente consigliabile non concedere la fiducia al governo, perché solo così facendo ci sarebbero più possibilità di non andare al voto. Siamo un partito di opposizione e confermiamo la nostra sfiducia verso questo governo, ma ci riserviamo di presentare una nostra mozione».Tra l’altro, per Casini, la Finanziaria «si poteva approvare in una settimana, ma visto che la tattica politica è più importante della sostanza, la maggioranza ha preferito fare melina invece che approvare in tempi rapidi».

A dimostrazione che l’Udc è attenta ai problemi del Paese ieri Casini e Lorenzo Cesa hanno illustrato una proposta di legge speciale per la ricostruzione delle zone abruzzesi colpite dal terremoto: «L’emergenza non è finita e il governo ha esagerato anche lì - ha detto Casini - la situazione è tutt’altro che risolta e L’Aquila sta morendo». E mentre la crisi resta congelata sulla Camera incombe la mozione di sfiducia dell’opposizione nei confronti del ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi che sarà esaminata il prossimo 29 novembre. Secondo alcuni si tratterebbe di una sorta di prova generale per il 14 dicembre, anche se è possibile che ci siano

due situazioni diverse, con maggioranze variabili. Alcuni esponenti finiani, cioè, a dicembre potrebbero “convincersi” a sostenere Berlusconi, mentre potrebbero avere meno dubbi a votare contro l’operato del ministro.

Intanto le conferenze dei capigruppo di Montecitorio e Palazzo Madama hanno messo a punto le procedure di fiducia/sfiducia al governo per martedì 14 dicembre. La soluzione trovata prevede la convocazione dei due rami del Parlamento in contemporanea. Ad iniziare per primo sarà, però, il Senato dopo avere sentito le ragioni esposte da Berlusconi. E mentre a Palazzo Madama si avvierà la “chiama” per il voto alla Camera si apriranno le dichiarazioni di voto, in questo modo si creerà una sfasatura di circa mezz’ora. Quella del 14 dicembre dicembre è sicuramente una giornata particolare per Silvio Berlusconi e i suoi perché oltre al voto di fiducia per quella data è prevista anche la decisione della Consulta sulla costituzionalità del legittimo impedimento. Verdetto che potrebbe slittare per consentire agli avvocati del premier, Niccolò Ghedini e Piero Longo che sono parlamentari, di partecipare alle sedute.

L’esame della mozione è stato richiesto dal Pd, che ne ha preteso la calendarizzazione nel calendario di novembre, ritirando la mozione sulle madri in carcere. Per il centrodestra è il colpo di rivoltella che rompe la tregua stabilita fino all’approvazione del patto di stabilità. Durissime le reazioni del Pdl. Per Cicchitto si tratta di «una lesione dell’accordo istituzionale che era stato raggiunto sulle mozioni riuguardanti la fiducia al governo a garanzia senza dell’approvazione traumi della legge di stabilità, anche in considerazione della delicata situazione economica internazionale». La mozione di sfiducia al ministro Bondi, replica invece il Pd, non c’entra con l’intesa istituzionale raggiunta che i democratici intendono invece rispettare. Insomma un voto sfavorevole nei confronti del ministro dei Beni culturali – il primo a chiedere a Bondi di dimettersi era stato il finiano Granata – non comporterebbe la caduta del governo. È evidente la valenza politica della proposta però, tesa a indebolire la maggioranza prima del voto di fiducia. Gli step per arrivare al voto sul patto di stabilità sono stati comunque definiti e spalmati su tre settimane. La prima per consentire alle commissioni di esprimere i necessari pareri, la seconda perché venga valutata dalla commissione Bilancio, la terza per dibatterla e votarla al Senato. Il voto finale del Senato sulla legge di stabilità, avverrà insomma entro la prima decade di dicembre. Subito dopo lo step decisivo del 14 dicembre: il giorno più lungo per il governo Berlusconi. È questa la data infatti dove con voto contestuale di Camera e Senato sulle due mozioni di sfiducia e di sostegno al Governo dovrebbe arrivare anche il pronunciamento della Consulta sul Lodo Alfano. Appuntamento quello del 14 dicembre verso il quale la maggioranza procede ostentando sicurezza ma preparandosi a reagire a un’eventuale sfiducia chiedendo le elezioni. Il sindaco di Roma Gianni Alemanno, uscendo dal vertice dei capigruppo pidiellini di Camera e Senato, parlava della necessità di scaldare i motori in eventualità di ele-

zioni. E Gasparri di rinforzo: «Abbiamo riportato la crisi in Parlamento. Attendiamo il giudizio delle Camere. Ma è chiaro che se qualcuno nel centrodestra dovesse rimettere in gioco la sinistra con manovre di palazzo, andrebbe incontro al giudizio degli italiani». A ostentare sicurezza il capogruppo leghista Marco Reguzzoni, che non esclude la possibilità che la legislatura arrivi alla sua fine naturale ma che invece esclude ogni partecipazione della Lega a possibili governi tecnici. Addirittura il governatore della Lombardia Roberto Formigoni parla della necessità di studiare «una soluzione per votare già a gennaio o ai primi di febbraio». Nel mese che ci separa dal 14 dicembre alla Camera e al Senato non si dorme ferve anzi matto e disperatissimo il lavoro sotterraneo per strapparsi deputati a vicenda tra Pdl e Futuro e libertà. Carmelo Briguglio lancia l’allarme denuncia che s’è aperta «una sorta di shopping di deputati che contribuisce al degrado delle istituzioni». Per quanto riguarda Fli, comunque, Briguglio è convinto che il fronte resterà unito e coeso. Anche se qualche esponente di Futuro e libertà viene dato come pericolante. In crisi di coscienza.

Non se la sentono di votare la sfiducia al governo i ministri per esempio che ne hanno fatto parte e alcuni moderati indecisi. «Non ho ancora deciso quello che devo fare – dice il fillino Consolo – Non sono in vendita ma Fli non è una caserma; siamo allineati per stima, affetto e amicizia a Fini ma non prendiamo ordini». Consolo non esclude il voto a una mozione di sfiducia ma «ci deve essere qualunque tipo di accordo prima di votarla, al buio non si può andare». Giampiero Catone, già passato dal Pdl a Fli e attento alle dinamiche di queste ore, ragiona invece di un Berlusconi-bis. E se da una parte. Antonio Di Pietro lamenta il «mercato delle vacche» in corso secondo lui alle camere, il coordinatore del Pdl Ignazio La Russa parla di «un’assoluta contrarietà del Pdl al calciomercato» Nessun calciomercato da parte berlusconiana nemmeno per Daniela Santanchè: «Noi non telefoniamo: ci telefonano. Sono esponenti di Fli che avrebbero promosso una riunione al loro interno per dire che mai voteranno la sfiducia al governo Berlusconi. Infine il leader dell’Udc Casini lancia un avviso ai naviganti: fiducia o non fiducia Berlusconi cercherà di andare lo stesso alle urne. Per questo «sarebbe altamente consigliabile non concedere la fiducia al governo perché solo così facendo ci sarebbero più possibilità di non andare al voto».

«Non ho ancora deciso quello che devo fare – dice il finiano Consolo – Non sono in vendita ma questa non è una caserma e non prendiamo ordini»


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l’approfondimento

La crisi del Vecchio Continente non è solo economica e le sue ricadute sul nostro Paese non riguardano solo la moneta

Emergenza Italia

«L’Europa non ha una politica; la Germania sta lavorando per cambiare l’Euro; l’instabilità è la nostra condizione perenne da anni, e Berlusconi pensa solo alle urne... Ecco perché serve subito un altro governo», dice Giorgio La Malfa di Gabriella Mecucci

ROMA. Da più parti vengono lanciati allarmi sull’euro e sulla stessa sopravvivenza dell’Unione Europea. Giorgio La Malfa ha una posizione molto preoccupata: «Questa crisi è profonda – dice - e riflette una debolezza antica. Per dirla brutalmente, non si può fare l’unione monetaria senza fare l’unione politica». Così ripartiamo da molto lontano: da una vecchia polemica... È che la moneta unica presuppone una solidarietà politica. Non è un caso che gli inglesi chiamano la moneta “la sovrana”, perché è uno dei simboli della sovranità. Quando si fece l’euro qualcuno mosse questo genere di obiezioni. Allora gli europeisti - oggi si dimostra che erano cattivi europeisti - risposero che l’andamento sarebbe stato il seguente: passi avanti, crisi, e nuovi passi avanti. Ma se il passo avanti è troppo lungo, se è più lungo della gamba, allora si finisce nel baratro. Il passo troppo lungo fu quello di creare l’euro?

Occorrerebbe andare verso l’unità politica? Sì, l’euro fu un passo più lungo della gamba. Quanto all’unità politica non mi sembra in agenda. La mia tesi è un’altra e cioè che i tedeschi stanno creando le condizioni per ridisegnare i confini dell’euro. Non posso credere infatti che una donna intelligente e accorta come la presidente Merkel possa mettere in moto la crisi prima della Grecia e ora dell’Irlanda, sostenendo che i cittadini tedeschi non possono pagare gli errori altrui, senza avere in testa un disegno. Come è noto, parlare di crisi significa enfatizzarla, sottolinearla. E allora, quale sarebbe secondo lei la strategia della Merkel? Paolo Savona ha di recente sostenuto in modo provocatorio che di fronte alle nuove impostazioni di grande rigore della politica finanziaria europea, all’Italia converrebbe uscire dall’euro. Gli ho già risposto che il problema non è se l’Italia esce o no dall’euro, ma se la Germania ha una strategia che preve-

de l’uscita dall’euro di alcuni paesi, e un ridisegno dell’area. Il ragionamento di Berlino, secondo me, è questo: nel momento in cui i paesi che aderiscono all’euro diventano venti, noi finiamo in minoranza: le nostre idee e le nostre proposte di governo dell’Unione rischiano di non passare più. E la Francia diventa il punto di riferimento di una serie di paesi come l’Italia, la Spagna, la Grecia, che non condividono la linea rigorosamente monetarista, alla base della politica della Banca centrale europea.

«Se Berlino farà l’Ue a propria immagine, noi avremo gravi problemi»

E che tipo di Europa vorrebbe ridisegnare la Merkel? Un’Europa ristretta a quei paesi che hanno una omogeneità non solo politica ma anche finanziaria con la Germania. Per esempio? L’Austria, l’Olanda, la Danimarca,la Slovenia...: i paesi dell’area tedesca. E la tattica per arrivarvi sarebbe quella di gridare al lupo al lupo? Intanto la Merkel attira l’attenzione dei mercati sui punti di maggiore difficoltà favorendo

così l’azione della speculazione. Poi, sostiene di non poter accettare alcun tipo di solidarietà verso i paesi in difficoltà. E quindi rende impossibile la loro uscita dal tunnel. Queste crisi richiedono infatti solidarietà. Se negli Stati Uniti, alcuni stati dell’Unione vivono momenti difficili, lo stato federale fa investimenti, dà sussidi. Usa due pedali: quello delle politiche fiscali con cui si possono compensare le politiche monetarie. Pensare di poter governare un’area di oltre 400milioni di abitanti e per giunta profondamente diversificata come è l’Europa, avendo a disposizione un solo pedale, cioè la moneta, è un’illusione. Se la Germania vuole davvero costruire un’area europea più omogenea ai suoi interessi, allora ci saranno gravi ripercussioni anche per l’Italia. E quali? In un’area più omogenea alla Baviera ci sarà certamente il Veneto. E poi: la Lombardia,l’Emilia Romagna, il Piemonte,ma certo non ci sarà la Calabria. Insomma, si preparano le linee di


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Le difficoltà di Grecia, Irlanda e Portogallo sono diverse da quelle che stiamo vivendo

Ma Francoforte, per ora, non crede alla nostra paralisi

I mercati non penalizzano il nostro Paese: non tanto per le scelte di Tremonti, quanto per la fiducia nella nostra capacità di salvarci... di Gianfranco Polillo eri lo spread dei titoli italiani rispetto al bund tedesco è stato pari a 166 punti base. Una buona notizia in mezzo alla grande bufera che sta colpendo l’Europa. Non era scontato. Nei giorni passati questo differenziale aveva raggiunto quota 191. Poi la costituzionalizzazione della crisi politica ha rasserenato i mercati. Al momento nessuno è in grado di prevedere come finirà. C’e pero fiducia nella storia di un grande Paese e l’Italia, nonostante i limiti attuali della sua classe dirigente, resta tale. Lo diciamo senza enfasi. Ma se non ci fosse questo sentimento diffuso non comprenderemmo quella sorta di violazione della legge di gravità che sembra descrivere il funzionamento dei mercati. Mercati - non dobbiamo dimenticarlo - che votano tutti i giorni acquistando o vendendo, sul secondario, i titoli del nostro paese. Se la fiducia scende, le vendite prevalgono sugli acquisti. Di conseguenza il loro rendimento aumenta penalizzando il contribuente italiano, costretto a pagare di più per rinnovare, alla scadenza, i nuovi titoli. È una fiducia ben riposta?

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Per rispondere occorre prendere in considerazione la situazione degli altri paesi del Club Med: Grecia, Spagna, Portogallo ed Irlanda. Anche se quest’ultimo è di rito anglicano: vale a dire fa parte dell’arcipelago inglese. Il dato che balza agli occhi è la loro maggiore stabilità relativa. Il Paese con più alto debito – secondo l’ultimo comunicato Ue che risale al 15 novembre scorso – è la Grecia (126,8 per cento), subito seguita dall’Italia, sotto di solo 10 punti (i dati si riferiscono alla fine del 2009). Il Portogallo, con il 76,1 per cento e la Spagna addirittura al di sotto del 60 per cento dovevano collocarsi in una zona più sicura. Questo almeno a ragionare con un pizzico di illuminismo. Invece così non è e ad essere più esposti sono proprio i paesi, apparentemente, più virtuosi. Che, anche in questo caso, l’abito non faccia il monaco? Il debito, nella valutazione dei mercati, non è tutto. Quello che conta di più è la sua dinamica. Se le politiche economiche e finanziarie tendono a correggerlo o ad aggravarlo. La Grecia presentava, a fine del 2009, un deficit del 15,4 per cento; l’Irlanda del 14,4, la Spagna dell’11,1 ed il Portogallo del 9,2 per cento. L’Italia meno della metà. Ecco quindi una prima risposta. Se si vuol continuare ad essere cicale va anche bene, ma quei vizi si pagano ad un prezzo – il tasso di interesse – sempre più salato. Eppure – si potrebbe eccepire – ciascun Paese ha deciso una politica di “lacrime e sangue”. Abbandonata ogni remora e paura di determinare un blocco dell’eventuale crescita in tutti questi Paesi si è scelta la lesina: riduzione degli stipendi dei pubblici dipendenti, taglio drastico dei capitoli di bilancio,

inasprimenti fiscali. Misure che i mercati ritengono insufficienti. Le motivazioni non sono cervellotiche. Colà si sconta un problema di cui, per fortuna, in Italia non esiste traccia: la crisi delle banche che, nell’intento di fare profitti, hanno alimentato un credito alle famiglie che, oggi, appare difficilmente rimborsabile. Per evitare la loro crisi lo Stato sta intervenendo con prestiti ingenti. Ma è come gettare acqua nella sabbia.

Se si vuole essere cicale va anche bene, ma certi vizi si pagano a un prezzo sempre più salato Le voragini sono talmente estese da mettere in crisi la stessa solvibilità degli Stati sovrani.

C’è poi un secondo aspetto da non trascurare. Quelle stesse manovre stanno determinando reazioni sociali incontenibili. Scioperi, manifestazioni di massa, Governi che barcollano. In Italia, salvo per quest’ultimo aspetto, la situazione è più tranquilla. Le riforme che pure sono state fatte – a partire da quella per la previdenza – sono state realizzate senza un’ora di sciopero. Uno stato depressivo generalizzato, come sostengono alcuni esponenti della sinistra? Uno scoramento di massa che impedisce addirittura di reagire? Noi la pensiamo diversamente. E’ il prevalere di un grande senso di responsabilità. Lo stesso che ha impedito alla maggior parte delle famiglie italiane di fare un passo più lungo della propria gamba. Nessun debito contratto per alimentare un consumo opulento, ma soldi presi a prestito per acquistare la propria casa. Valori monetari contro beni immobiliari. Sobrietà nei costumi - a parte qualche stravaganza delle elite – e sano senso della vita. Questa è la forza dell’Italia. Essa ha reso possibile un continuo controllo dei grandi aggregati finanziari del Paese ed una ma-

novra di progressivo contenimento che ha dato sicurezza ai mercati. Se la situazione politica fosse tranquilla, non avremmo dubbi: l’Italia non è esposta al rischio di contagio.

È il “se” che condiziona il resto. Le turbolenze politiche sono sotto gli occhi di tutti. Il Governo è in crisi anche se il suo certificato di morte sarà stilato solo il 14 dicembre. Ci attende una lunga agonia durante la quale ogni cosa è possibile. Ed i mercati ci scrutano.Vogliono capire come finirà: perché solo allora decideranno se e come affondare nei confronti dei nostri titoli di Stato. Ed ecco allora alcune cose da fare ed altre da evitare. Bisogna accelerare i tempi per una definizione della crisi. Prima si riporta il Paese in una condizione di normalità costituzionale e minori sono i rischi di un possibile attacco speculativo. La seconda condizione è la trasparenza. Non è più il tempo dei tatticismi, dei conflitti personali, di pur legittime aspirazioni di potere. Annibale bussa alle porte. Occorre fermarlo. Lo si può fare se preverranno soluzioni all’altezza dei tempi. Se i complessi passaggi dei prossimi giorni avranno come traguardo la costruzione di un assetto – qualunque esso sia – più stabile ed in grado di reggere alle sfide che, purtroppo, ci attendono.

frattura del paese. La crisi dell’euro non va dunque giudicata solo in sé, ma anche da un punto di vista più ristretto, quello italiano. Dobbiamo valutare se non si introduce un nuovo elemento di rottura nel nostro paese, che ne ha già parecchi. Ma lei sta tratteggiando una situazione oltre modo drammatica? Una situazione in cui una classe dirigente che si rispetti farebbe un governo di unità nazionale. Come accade quando ci si trova in un’emergenza. E invece si vuole andare alle elezioni, paralizzando il paese per mesi e mesi. Possiamo affrontare il periodo che ci aspetta e che sarà caratterizzato dalla crisi dell’euro in questo modo? Ci saranno crisi a cascata: adesso tocca all’Irlanda, poi al Portogallo, poi alla Spagna... Vede un effetto domino? Il problema degli economisti in questi casi è che parlare di una cosa – per quel poco che ciascuno di noi conta – può significare favorirla. Se un esperto di Borsa fa previsioni sul suo andamento, lo influenza. Dunque, non vedo un effetto domino, credo che non ci sarà. Ma se poi malauguratamente capitasse bisogna essere preparati. L’Italia secondo lei rischia addirittura nuove fratture, come ci prepariamo a far fronte a questa eventualità? Noi non lo sappiamo che cosa c’è nella testa dei tedeschi. Capisco bene il loro punto di vista, resta il fatto che sono italiano. Ieri sul Sole 24 ore, l’articolo di fondo era di un economista di vaglia come Pietro Reichlin, figlio di uno dei massimi dirigenti del Pci. Sosteneva che la signora Merkel ha ragione. Vuol dire che presso gli economisti e non solo fra i monetaristi - il ragionamento della Germania di non poter tenere insieme paesi seri e paesi che seri non lo sono, sta facendo breccia. Del resto Giavazzi, un europeista convinto, ha scritto sul Corriere della sera sei mesi fa che forse la Grecia poteva essere invitata ad uscire provvisoriamente dall’euro. Insomma, si sta diffondendo la convinzione che la moneta unica europea va ridefinata: l’area che copre viene giudicata troppo larga. Torniamo al punto di partenza, occorrerebbe l’unità politica. Già, ma se non si sono create le condizioni.. Non credo alla storia che le pesanti difficoltà costringono necessariamente a fare rapidi passi in avanti. Una crisi può rinsaldare un vincolo, ma lo può anche far saltare. In tutto questo l’Italia sarà senza governo. Con la prospettiva di elezioni in cui alla Camera vincerà uno schieramento e al Senato un altro. Quindi,dopo il voto, la situazione sarà più ingovernabile di prima. E si dovrà arrivare ad un governo di unità nazionale. Avendo condannato però il paese a mesi e mesi di paralisi.


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diario

Polemiche. Presentata la relazione sulle collusioni. Ma il ministro: «Querelo Saviano e vado in tv vestito da Sandokan»

Allarme ’ndrangheta al Nord

L’Antimafia smentisce Maroni. Poi arresta Iovine, il boss dei Casalesi di Pietro Salvatori

ROMA. A volte l’autolesionismo del governo assume tratti grotteschi e francamente incomprensibili. Se è vero, come osservano in queste ore autorevoli commentatori, che appare poco comprensibile il tentativo degli autori di Vieni via con me di sottrarsi a concedere ad un esponente leghista il diritto di replica, facendosi scappare di mano un ghiotto faccia a faccia tra Saviano e il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, è anche inconfutabile che l’eco delle accuse - se poi possono essere definite tali - mosse dallo scrittore nei confronti del Carroccio si sarebbe ormai spento. Invece il pressing messo in atto in particolar modo dal Viminale perché si dia spazio alle posizioni del ministro durante la prossima puntata del programma di Fabio Fazio, ha amplificato il risalto delle parole dell’autore di Gomorra.

Con invidiabile tempismo, sulla scrivania di Maroni ieri è arrivata la relazione semestrale della Direzione nazionale antimafia. E sui paragrafi riguardanti l’infiltrazione delle cosche nel nord del Paese si sono concentrate le attenzioni di tutti gli osservatori. «Non appare eccedente parlare di fenomeno di condizionamento ambientale inteso come partecipazione ormai pacificamente accettata di società riconducibili ai cartelli calabresi a determinati segmenti - in espansione - del settore edile, sia pubblico che privato», si legge nel testo redatto dai magistrati, in prima linea nel combattere la criminalità organizzata. Che, detto in termini semplici, significa che la presenza di camorra, mafia e ‘ndrangheta in terra leghista è un fenomeno che ormai condiziona strutturalmente alcuni settori dell’industria e dell’economia,

in particolar modo quello legato all’edilizia. Come d’altronde ribadisce la relazione quando denuncia il «coinvolgimento di alcuni personaggi, rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore che, mantenendo fede ad

Per la Direzione investigativa, la criminalità organizzata sempre più spesso si vede attribuire appalti pubblici anche nel Settentrione impegni assunti con talune significative componenti, organicamente inserite nelle cosche, hanno agevolato l’assegnazione di appalti ed assestato oblique vicende amministrative». E al nord, come si sa, gli amministratori del Carroccio sono numerosissimi. Per cui, almeno a dare retta alle statistiche, un fondo di verità nelle parole di Saviano è evidente che ci sia. Per di più la Dia richiama l’attenzione sui lavori per l’Expo che si terrà a Milano nel 2015, la cui

rete amministrativo-decisionale è quasi completamente nelle mani di uomini scelti dall’attuale maggioranza di governo: «E’ auspicabile - si legge nel testo - un razionale programma di prevenzione, soprattutto in previsione delle opere in programma per Expo 2015, che coinvolga non solo le autorità istituzionalmente deputate alla vigilanza, ma anche tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nella relativa filiera». Il timore è quello che il volume d’affari indotto dagli investimenti per l’Esposizione Universale possa ingrossare i portafogli sbagliati.

Nonostante ciò, Maroni sembra voler tirare dritto. «Ho scritto al presidente della Rai, che è il mio interlocutore, e da lui mi aspetto delle risposte», ha comunicato, decidendo così di ricorrere in via gerarchica e driblare gli autori del programma che gli avevano negato la possibilità di uno spazio in trasmissione. Il ministro ha infatti chiesto a Masi un atto d’imperio: «La mia richiesta è chiara, io chiedo che sia concesso al ministro dell’Interno uno spazio all’interno della trasmissione per dire la

sua e parlare di mafia. E non mi accontento certo di video preregistrati o fogliettini con dichiarazioni lette da altri che poi possono essere conditi e commentati come loro sanno ben fare». In parziale soccorso del ministro si è schierato il Tg5, che nelle edizioni di ieri, facendo il verso al format adottato da Vieni via con me, ha mandato in onda la “lista” del Viminale, elencando i 28 boss malavitosi arrestati dalle forze dell’ordine negli ultimi due anni. Da parte sua, Saviano non ha fatto alcunché per rasserenare gli animi. In un’intervista rilasciata ieri a Repubblica, lo scittore ha paragonato l’atteggiamento di sfida di Maroni con quello dei boss mafiosi. Pronta la replica del ministro, che ha minacciato querela: «Chiedo a Saviano di smentire, altrimenti mi riservo ogni azione utile per tutelarmi di fronte a una frase così infamante». Non pago, ha ironizzato con dubbio gusto dicendosi pronto ad andare in tv «vestito da Sandokan», alludendo al boss della camorra che ha promesso la morte a Roberto Saviano, «promessa» per la quale lo scrittore - come è noto - da anni vive blindato.

Ma poi, nel pomeriggio, una nuova freccia è stata offerta all’arco di Maroni e del governo. La polizia campana ha infatti arrestato Antonio Iovine, uno dei boss dei Casalesi, nei pressi di Castel di Principe. Era latitante da 15 anni. Iovine, era nascosto in casa di un amico ben noto e non ha opposto resistenza alla polizia al momento dell’arresto. Poi, quando verso le 17 è arrivato in una Mercedes in uso alla polizia in Questura a Napoli, era sorridente. Il boss dei Casalesi è stato fatto salire al secondo piano dai garage, mentre applausi e urla di soddisfazione da parte poliziotti risuonavano nei corridoi. Secondo la Dia, si trattava di uno dei trenta più pericolosi latitanti d’Italia. Naturalmente, Maroni ha subito espresso la sua soddisfazione, diretta allo stesso organismo investigativo - la Dia - che poco prima lo aveva smentito. Grande gioia è stata espressa anche dal ministro della Giustizia Alfano che si è detto pronto a firmare la richiesta di 41bis (il regime di carcere duro) per Iovine.


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18 novembre 2010 • pagina 7

Gennaro Langella bloccato da 300 manifestanti. Ferito un poliziotto

Per il dg si tratta di «un gesto informale, un’intimidazione»

Rifiuti, tensione a Boscoreale: aggressione al sindaco

I giornalisti Rai “sfiduciano” il direttore generale Masi

NAPOLI. «I facinorosi che la

ROMA. I giornalisti Rai sfiduciano il direttore generale Mauro Masi. Con 1.314 voti contro 77 (29 schede bianche e 18 nulle) nel referendum organizzato dall’Usigrai ha prevalso lo schieramento di coloro che non hanno più fiducia nel dg. «Come tutte le cose prive di rilevanza formale e sostanziale, il voto Usigrai (associato alla consueta compagnia di giro) può essere solo o una manifestazione politica o un tentativo di intimorire», è stata la prima reazione di Masi, commentando l’esito del voto. Ma il sindacato chiede le dimissioni. Su 1.878 aventi diritto, sono stati 1.438 i voti validamente espressi. Mancano però quelli di Venezia che, per un problema buro-

scorsa notte hanno tentato di aggredirmi non sono persone di Boscoreale ma militanti dei centri sociali e dell’estrema sinistra». Lo ha detto all’agenzia di stampa AdnKronos il sindaco di Boscoreale Gennaro Langella, commentando il tentativo di aggressione subito la scorsa notte al termine di un’infuocata seduta di consiglio comunale sui rifiuti. Al termine della seduta, circa 300 manifestanti hanno bloccato il sindaco che stava cercando di lasciare la casa comunale. «La seduta era stata tumultuosa - ha spiegato ma avevamo raggiunto un accordo tra maggioranza e minoranza, con l’impegno di non sversare i nostri rifiuti nella discarica Sari di Terzigno chiusa su decisione del sindaco di quel comune. Dalla folla, oltre 300 persone, c’era il gruppo di estrema sinistra che pretendeva che l’ordinanza fosse preparata subito. Ma era solo un tentativo di strumentalizzazione».

I manifestanti pretendevano che Langella si impegnasse a non sversare i rifiuti prodotti in ambito comunale nella discarica Sari situata all’interno del parco nazionale del Vesuvio in territorio di Terzigno confinante con Boscoreale. La polizia presente alla seduta del consi-

glio ha creato un varco tra la folla di manifestanti che cercava di aggredire il sindaco. Quando Langella è riuscito a uscire scortato e a entrare in un’auto civetta del commissariato di Torre Annunziata alcuni manifestanti tra i più violenti con una palla di acciaio chiodato hanno infranto il parabrezza e il lunotto posteriore dell’auto della polizia. A seguito dell’assalto un ispettore di polizia è rimasto ferito ed è stato portato in ospedale. Il sindaco Langella illeso è stato invece portato in salvo. La tensione resta molto alta a Boscoreale con la popolazione che non vuole che si sversino i rifiuti nella discarica Sari.

Incidenti stradali, nel 2009 calo record Finalmente l’Italia si avvicina alle medie europee di Gualtiero Lami

ROMA. Calo record di incidenti (-1,6%), ma soprattutto di morti (-10,3%) e feriti (-1,1) in Italia nel 2009. Sono questi i dati del 2009 appena resi noti dall’Aci-Istat. I sinistri sulle strade costano al Paese 28 miliardi di euro e grazie ai dati di oggi l’obiettivo fissato per il 2010 (-50% morti sulle strade) ora appare più vicino, anche se l’Italia, con una riduzione del 40,3% è solo decima in UE. In totale, nel 2009 ci sono stati 215.405 incidenti (-1,6%); 4.237 morti (-10,3%) e 307.258 feriti (-1,1%). La maggior parte di questi sinistri avviene sulle strade urbane (76% con il 44,7% di morti e il 72,6% dei feriti; mentre i casi più gravi si verificano sulle strade extraurbane con il 5,1 decessi ogni 100 incidenti. Nel 2009, luglio è stato il mese nero con una media di 705 incidenti e 16 morti al giorno; sabato il giorno con più morti (16,7%) e le 18 l’ora più critica (17.367 incidenti, 297 morti e 24.664 feriti). A essere maggiormente colpiti sono stati i giovani under 25 (316 morti e 26.941 feriti tra i conducenti; 183 morti e 19.505 feriti tra i passeggeri). La maggior parte degli incidenti stradali (75,2%) avviene tra due o più veicoli. Il 24,8% riguarda veicoli isolati. Più ricorrente lo scontro frontale-laterale (76.095 casi: 35,3% del totale) con 1.071 morti (25,3%) e 112.165 feriti (36,5%), seguito dal tamponamento che registra 38.995 casi, con 382 morti e 64.706 persone ferite. Tra gli incidenti a veicoli isolati, il caso più diffuso è la fuoriuscita o sbandamento del veicolo: 20.646 incidenti (9,6%), con 845 morti (19,9%) e 25.750 feriti (8,4%). L’investimento di pedone rappresenta l’8,6% degli incidenti. Nel 2009 si sono registrati 18.472 casi con 611 morti e 20.887 feriti. Comunque, le tipologie di incidenti più pericolose, secondo l’indice di mortalità, risultano: scontro frontale (4,3); fuoriuscita di strada (4,1); urto con ostacolo (3,8) e investimento pedoni (3,3). Il mancato rispetto delle regole

di precedenza (47.095 incidenti = 17,5%), risulta essere la prima causa di incidenti, seguita dalla guida distratta (42.262; 15,7%) e la velocità elevata (30.964; 11,5%). Queste tre prime cause, da sole, costituiscono il 44,59% dei casi. Va però detto che per il 2009, i dati sugli incidenti stradali dell’incidente legati allo stato psico-fisico alterato del conducente e a difetti o avarie del veicolo non sono stati pubblicati. I motivi sono legati all’indisponibilità dell’informazione al momento del rilievo. Risulta, infatti, di estrema difficoltà per gli Organi di rilevazione compilare i quesiti sulle circostanze presunte dell’incidente, quando sono legate allo stato psico-fisico del conducente. Il numero di tali incidenti risulta, quindi, sottostimato. In particolare, nel caso di circostanze legate allo stato psico-fisico alterato del conducente si rileva una netta discrepanza con i risultati diffusi da altri Organismi nazionali e internazionali che hanno condotto studi ad hoc su queste tematiche.

Il 69,2% dei morti ed il 69,4% dei feriti è costituito dai conducenti dei veicoli coinvolti. I passeggeri trasportati rappresentano, invece, il 15% dei morti ed il 24% dei feriti. I pedoni, utenza debole della strada, risultano il 6,6% dei feriti ma ben il 15,7% dei morti.Tra i conducenti deceduti in incidente stradale (2.934), i più colpiti sono i giovani tra 20 e 24 anni, con 316 morti e 26.941 feriti. Le auto sono la categoria di veicoli maggiormente coinvolta in incidenti stradali: 269.035 in valore assoluto, pari al 66,9% dei veicoli. Seguono 55.028 motocicli (13,7%), ciclomotori (6,6%) e biciclette (3,9%). Infine, se l’indice di mortalità medio dei veicoli è pari a 0,9%, per motocicli e biciclette è più che doppio (1,9%). L’indice di lesività, che nella media è pari a 71,3%, raggiunge il 100% per i motocicli, il 99,1 per i motorini e il 93,3 per le biciclette. Da notare, infine, che, in caso di incidente mortale in autostrada, nel 30,8% dei casi è coinvolto un veicolo per il trasporto merci.

I morti sono diminuti del 10,3 per cento, ma le due ruote sono sempre pericolose e le strade delle città restano a rischio

cratico postale, non sono arrivati in tempo, dunque è come se non avessero votato. Nella scheda veniva chiesto: «Alla luce delle politiche aziendali esprimi fiducia al direttore generale Mauro Masi?». Lo spoglio delle schede si è svolto in mattinata a Roma.

Per Masi il referendum non ha rilevanza formale e, dunque, il risultato è solo una manifestazione politica o il tentativo non riuscito, di metterlo in difficoltà. «Obiettivo fallito - sottolinea il dg - in entrambi i casi. Il primo perché non c’era certo bisogno di questo costoso evento per sapere come è schierata politicamente Usigrai e soprattutto nel secondo caso perché ci vuole ben altro e ben altri personaggi per provare solo ad intimorirmi. Anzitutto ciò non può che far rafforzare il mio impegno per una Rai autenticamente pluralista e con i conti in ordine e ciò anche per tutelare il lavoro e i posti di lavoro dei giornalisti dell’azienda». Chieste le dimissioni. «Chiediamo le dimissioni di Masi. Lui fa capire che è pronto a minimizzare la nostra espressione e la riferisce all’Usigrai, ma deve riferirla ai giornalisti che gli hanno negato la fiducia». Così invece Carlo Verna, segretario Usigrai.


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pagina 8 • 18 novembre 2010

Testimonianze. L’assurda tragedia di una ragazza, violentata a tredici anni e ancora in attesa di giustizia

Storie di vita violata «Non solo i miei aguzzini mi vogliono muta»: quando una vittima si racconta di Roselina Salemi alanova. Per il mio paese sono la brutta notizia, la creatura maledetta, e come tutte le cattive notizie nessuno mi vuole vedere,accogliere, capire. E’ più facile allontanarmi. Malanova. Odio questa parola. Ma se così dev’essere, sarò la Malanova per chi ha abusato di me, per chi non crede nella forza delle donne, per quelle madri e quelle che difendono i loro mariti e i loro figli, per chi nella mia terra ha paura di denunciare».

«M

Anna Maria Scarfò ha 24 anni e non ha voce. Nel luglio scorso è entrata in un programma di protezione testimoni. Non ha potuto farne a meno. L’hanno minacciata di morte, le hanno ucciso Diana, il cane che le avevano regalato i carabinieri, hanno versato sangue di maiale sui panni stesi, l’hanno insultata per strada e per telefono. Eppure, alla fine di settembre, dopo due mesi di identità segreta, lontano da tutto e tutti, non ha retto alla solitudine, ed è tornata a San Martino di Taurianova, in Calabria «un paese brutto, ma a me piace», duemila abitanti, un centinaio di strade e le campagne verdi di agrumeti, i rami carichi di mandarini succosi, di belle olive. È tornata per vedere la sorella, la mamma, la sua zia preferita. Non si vuole nascondere più, non vuole scappare, non vuole cambiare identità. Anna Maria vive sotto scor-

tero». Il paese l’ha emarginata, cancellata, condannata. Nessuna solidarietà, nessuna speranza. E mentre a San Martino di Taurianova la gente vive la solita normalità, Anna Maria è chiusa in una stanzetta, in compagnia della musica e della sua rabbia. La Commissione centrale ex articolo 10 legge 82/91 ministero dell’interno, dipartimento di Ps, dice che non può concedere interviste o presentare il suo libro, perché questo la metterebbe «oggettivamente in pericolo», attirando l’attenzione su di lei. Mentre alcuni dei suoi violentatori, in attesa del processo, sono liberi, e ridono per strada, e incontrano gli amici, lei ascolta Gianna Nannini e Claudio Baglioni e aspetta la prossima udienza, come se la sua unica ragione di vita fosse testimoniare e ricordare, ricordare e testimoniare. Sì è abituata.

«Tutto è cominciato l’11 marzo di undici anni fa. Quel pomeriggio mia madre mi dice che posso andare a comprare gli ingredienti per la mia torta. Mi dà i soldi. Ma io prima di andare alla bottega vado in piazza. È il mio compleanno e voglio farmi vedere in giro, così tutte le persone che incontro mi fanno gli auguri. Ho tredici anni». Quel giorno, Domenico Cucinotta la ferma e le dice: «Mi voglio fare fidanzato con te. Una cosa seria. Parlerò con tuo padre. Sei una bambola. Devi essere la mia bambola». Invece la porterà in campagna, in un casolare, per consegnarla al branco. E ogni singolo momento è scolpito nella sua mente: «Mi mettono su un tavolo. Gambe aperte. Mi stringono i polsi, mi fermano le caviglie. Divento rigida. Un blocco unico. Non muovo più un muscolo. Solo gli occhi. Gli occhi li spalanco. Due mani mi sfilano la gonnellina nera. Cade a terra. Urlo. Due mani mi sfilano il maglioncino verde. Viene sbattuto in fondo alla stanza. Mi affogo con la mia saliva. Sento qualcosa che irrompe nella mia pancia. Mi invade e mi esplode. Mi strappa. Mi gonfia». Sono in quattro. Dopo le dicono: «Se racconti qualcosa a tuo padre ammazziamo te e lui e tutta la tua famiglia». Questa è stata la ”prima volta” di Anna Maria Scarfò. «Ero una bambina, giocavo ancora con i pupazzi, pensavo di fidanzarmi, mi vedevo già con l’abito da sposa e invece sono stata ingannata. Violentata, minacciata, passata da un uomo all’altro, costretta fare quello che volevano loro. Per tre anni. Poi hanno messo gli occhi sulla mia sorellina ( “Portamela”, ha detto uno di loro), così ho trovato la forza di andare dai carabinieri. I miei angeli custodi, gli unici amici, gli unici ad avermi creduto. Era il mese di settembre del 2002». Appena circolano le vo-

Non ho amici. Non mi guardo mai allo specchio. Non riesco a guardare il mio corpo. Per anni non è stato mio, ma loro ta, e la mafia non c’entra. Semplicemente, ha denunciato le violenze cominciate quando aveva tredici anni e i nomi, tutti quei nomi, Domenico, Michele, Serafino, Vincenzo, Antonio, Maurizio, Giuseppe, Fabio, sono usciti dalla sua vita ed entrati in una lunga serie di processi. Protetta, segregata, ha avuto molto tempo per pensare e, con Cristina Zagaria ha scritto la sua storia, che si intitola appunto Malanova (Sperling & Kupfer, pp. 193, 17 euro). Neanche un po’ romanzata.

«Ho scritto per chi resta in silenzio, perché sono una vittima e mi hanno trasformato in carnefice. Io ero “la bambola”, ero la poco di buono che ha detto: sono qui, fatemi quello che volete. Le donne che avrebbero dovuto capirmi si sono messe contro di me.Tutti contro di me, il paese in-


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ci della denuncia, cercano di fermarla, ma lei resiste e la famiglia la sostiene. «Sono arrivata la mio punto. Il punto in cui il dolore diventa più forte della paura. Sono ingrassata di trenta chili in pochi mesi. Per lo stress. Perché per la prima volta sono stata davvero sola».

Il 18 ottobre 2002 il pm Giuseppe Adornato mette sotto controllo i telefoni degli indagati. La notte fra il 12 e il 13 novembre i carabinieri bussano a sei porte. Arrestano Domenico Cucinotta, Domenico Cutrupi, Domenico e Michele Iannello, Serafino Trinci e Vincenzo La Torre. L’avvocato Rosalba Sciarrone la avverte: «Anna Maria, non sarà un processo facile. Devi dire tutto quello che è accaduto, senza giri di parole. Devi raccontare tutto, perché altrimenti nessuno crederà. Sarai insultata, useranno parole pesanti. Devi essere pronta». Il processo comincia il 4 dicembre 2002, a Palmi. Le credono. La condanna arriva, in primo e secondo grado, confermata dalla Cassazione nel 2007. Scrivono i giudici: «Un gruppo di giovani ha sottoposto per lungo tempo una ragazzina appena tredicenne a ogni genere di violenza e abusi sessuali e taluno di costoro si è spinto poi, senza farsi scrupolo (e così dimostrando concretamente di considerarla alla stregua di un qualsiasi banale oggetto di cui poter disporre a piacimento) a prestarla ad amici. Vi è una ragazzina che pur non cercando il clamore e pur avendo il terrore delle conseguenze, fa ciò con il coraggio della disperazione, non riuscendo a sopportare più l’idea di “fare tutte quelle porcherie che mi chiedono”». Ma Anna Maria, non aveva detto tutto. Non ancora. «Mi sono determinata a denunciare le altre persone che hanno abusato di me solo il 12 aprile 2003 perché ero molto impaurita e lo sono tuttora per eventuali vendette. Ho paura soprattutto di Maurizio Hanaman, che è figlio di Domenico, meglio conosciuto come “Mincuzzo”e fratello di un latitante». C’erano altri sei nomi da aggiungere alla lista: Antonio Cutrupi, Maurizio Hanaman. Giuseppe Chirico, Fabio Piccolo, Antonio Cianci, Vincenzo Minniti, il più giovane di ventun anni, il più vecchio di trenta. Nuovo processo, nuova condanna in primo grado per tutti, tranne Minniti: nel suo caso «l’azione penale non poteva essere iniziata per difetto di querela». I giudici stabiliscono che «in tema di violenza sessuale, l’elemento oggettivo consiste nella violenza fisica in senso stretto, sia nell’intimidazione psicologica». Le sentenze sono valide in tribunale, ma in paese la legge è un’altra. «Dalle nostre parti fa bene chi tace. Io non l’ho fatto. Le famiglie di tutti quelli che ho mandato in carcere vivono nella mia strada. Via Garibaldi. Gli altri vivono a trenta, cinquanta metri. Le minacce sono diventate sempre più insistenti. Ci vogliono cacciare dal paese. A casa mia, di notte, le porte tremano e il telefono squilla». Il questore di Reggio ha emesso sei provvedimenti di ammonimento in base alla nuova legge sullo stalking. Chi si avvicina ad Anna Maria Scarfò rischia grosso.

plastica. Il corpo potevano prenderselo. Io sono fuggita, sempre , ogni volta. Sono fuggita dietro il mio sguardo, lì dove non potevano trovarmi. Sono fuggita così lontano che mi sono persa». Di notte sogna gli uomini che hanno abusato di lei. Ma non le facce, sogna l’odore di terra e di arance, di sudore e di sigarette, le voci, i calli delle loro mani, la barba che punge, i denti larghi, le labbra secche. Pensa alla domanda che le ha rivolto un giudice: «Non si è concessa a un uomo con la gioia di potersi concedere?». Pensa: «Sono pulita, pura. In fondo sono vergine. Io non ho mai provato l’amore. È questo che sogno. Sogno di essere donna e di non avere più paura». Non aver paura sarebbe da pazzi. Chi sa qualcosa della Calabria, sa che qui nessuno dimentica, le vendette sono infinite, basta pensare a Duisburg, ai rancori covati per vent’anni, alle minacce esplicite e feroci delle scorse settimane contro magistrati e giornalisti. Contro chiunque rifiuti la legge del silenzio, la complicità. Anna Maria lo sa e spera «che le cose cambino, che questo silenzio non duri per sempre, che altri trovino il coraggio di parlare, ma per ora sono io l’infame, perché chiedere giustizia, difendere la dignità qui significa essere infami».

Certo, non potrà mai dimenticare: «Si possono chiudere le questioni legali, ma la mia ferita resterà sempre aperta. Però ho fatto una scelta. Vado avanti da un processo all’altro, mi sono abituata. Quelli per la violenza, quelli per le minacce. Non ho un futuro, ho solo un passato». Si muove nella sua casa. Il suo letto. Il letto della sorella. La cucina. Il forno. Il bagnetto. Il cortile. La cuccia del cane. Piange, e si arrabbia, perché non può parlare del libro, perché in paese dicono che ha scritto Malanova per i soldi, «per com-

Spero che le cose cambino, che questo silenzio non duri per sempre, che altri trovino il coraggio di parlare

Dal febbraio del 2010 le assegnano una scorta. «Non esco di casa. Non ho motivo di uscire. Non ho amici, non ho un lavoro. Ogni tanto penso al mare. Mi piacerebbe andare al mare. Non mi guardo mai allo specchio. Non riesco a guardare il mio corpo. Per anni non è stato mio, ma loro. L’hanno usato. All’inizio ho lottato. Tutte le altre volte ho trovato rifugio nel mio guscio di

prarsi la limousine», piange e si arrabbia perché non ha un lavoro, perché non si può pernmettere un computer e imparare ad andare su Internet. Perché la sua casa è diventata una prigione. Eppure, questa ragazza invisibile e reclusa, riesce ancora a sognare e a sperare. Immagina di trovare uno che la ami, così com’è, conoscendo il suo passato. Immagina di avere una figlia alla quale insegnare il coraggio e il rispetto di se stessa. Di essere una buona madre. Di comprare una piccola auto e andare “addirittura” a Reggio Calabria, che dista sessanta chilometri. Di andare anche più lontano e lasciarsi alle spalle il casolare, i mandarini, gli sguardi cattivi di quelli che la chiamano Malanova. «All’inizio ho addirittura pensato di essere io quella sbagliata. Ma non è così. Non riusciranno mai a farmelo credere». Forse la Commissione centrale ex articolo, 10 legge 82/91 ministero dell’Interno, dipartimento di PS, dovrebbe lasciarla parlare, perché il silenzio non sempre protegge, a volte soffoca, dovrebbe permetterle di combattere la sua battaglia nel piccolo paese sperso che ha potuto essere così crudele. Dovrebbe permetterle di dire: «Sono Anna Maria Scarfò e questa è la mia storia. Io ho avuto il coraggio di viverla, spero che voi abbiate quello di ascoltarla».


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panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Caldoro, i rifiuti e il primato dell’impotenza remesso che tra Antonio Bassolino e Stefano Caldoro non c’è una differenza che effettivamente conti per i napoletani dal momento che Napoli sporca era e sporca è, si può considerare sotto uno determinato aspetto - la politica - una differenza che esiste senz’altro. Eccola: il potere. Bassolino era potente, mentre Caldoro è impotente.Vediamo perché.

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Quando il centrodestra non era al potere e non poteva contare su un ceto amministrativo formato da sindaci, assessori, presidenti, si ascoltava spesso questo ritornello: “Manca una classe dirigente di centrodestra”. Poi le cose sono cambiate. Il vento elettorale è mutato e il centrodestra, con il lavoro soprattutto di Nicola Cosentino, non solo ha vinto ma ha anche selezionato sul piano amministrativo una classe dirigente che oggi esprime assessori, sindaci, presidenti ed è arrivata a guidare la Provincia con Luigi Cesaro e la Regione con Stefano Caldoro. Dunque, non si può più ripetere la litania di un tempo: «Manca una classe dirigente». Oggi il centrodestra è classe dirigente e, pur considerando la pesante eredità del malgoverno della sinistra, il governo è nelle sue mani perché i suoi uomini si sono affermati nelle amministrazioni degli enti locali e sul territorio in modo diffuso. Tuttavia, il centrodestra è manifestamente impotente. La crisi dei rifiuti è stata la cartina di tornasole del bassolinismo: la costruzione di un ciclo industriale di smaltimento della spazzatura è stato sottovalutato prima e ignorato poi e alla fine i rifiuti sono scappati di mano fino a travolgere lo stesso Bassolino. I rifiuti, però, sono la cartina di tornasole anche del centrodestra perché proprio sulla ciclica crisi di smaltimento il centrodestra ha completato le sue precedenti affermazioni elettorali e si è impegnato a risolvere in modo definitivo il problema. Ma, fatta eccezione per l’opera del governo che, giustamente, trasformò «una capitale in una prefettura», gli uomini di centrodestra non hanno mai avuto la situazione in pugno. Il problema non solo non è risolto, ma ha fatto un passo indietro perché la strada che era stata imboccata per condurre in circa cinque anni alla costruzione del ciclo industriale di smaltimento è stata interrorratta. La cartina di tornasole registra, dunque, un nuovo fallimento. Perché? Il bassolinismo era un sistema di potere, il caldorismo è un sistema di impotenza. Il ceto amministrativo del centrodestra, infatti, ha il suo punto di riferimento non nel presidente della Regione, ma nel coordinatore del Pdl. Di fatto c’è una separazione tra governo e politica: Caldoro ha il governo ma non la politica e Cosentino ha la politica ma non il governo. Un perfetto sistema di impotenza che ha le sue radici nel famigerato dossier che circolava su Caldoro in campagna elettorale ad opera del suo primo e grande elettore e che condanna il territorio napoletano all’anarchia.

Emma scala il mondo: è tra le 50 top manager La Marcegaglia nella classifica stilata dal “Financial Times” di Alessandro D’Amato

ROMA. È l’unica. Quest’anno è Emma Marcegaglia la sola donna italiana nella classifica delle prime cinquanta top manager del mondo stilata dal Financial Times e chiamata «Women at the top». E non è nemmeno tanto bassa in classifica, visto che ricopre la ventinovesima posizione, superando Janet Robertson del New York Times: Viceversa, non ce l’ha fatta per un soffio Diana Bracco, che l’anno scorso rientrava nella classifica e quest’anno è finita scalzata da alcune new entry. La lista vede sul primo gradino del podio la presidente di PepsiCo, ossia l’indiana Indra Nooyi, seguita dall’americana Andrea Jung di Avon Products, dalla turca Guler Sabanci del Sabanci Group e da Irene Rosenfeld della Kraft Foods: tutte aziende molto più grandi del gruppo Marcegaglia, ma nel profilo pubblicato dal Ft si legge che, oltre ad essere alla guida dell’industria fondata da suo padre nel 1959, è «la prima donna a guidare Confindustria in 100 anni di storia» e di se stessa ha detto in un’intervista al Ft che la «sua migliore qualità manageriale è saper scegliere le persone giuste». Di lei, il sito del giornale cita i soprannomi come “Lady d’Acciaio” e “Black & Decker”(dalla marca di trapani), e la sua politica al vertice dell’associazione degli imprenditori, che l’ha portata spesso a scontrarsi con il governo di centrodestra guidato da Silvio Berlusconi. Le prime quattro leader in classifica, nota il Ft – «sono sotto pressione da parte di new entry e sfidanti che si stanno affermando rapidamente».

neral Electric Company di cui, dal 2005, è presiedente e chief executive. «Un numero crescente di donne si sta affermando nei consigli di amministrazione di tutto il mondo», esordisce l’articolo di Andrew Hill, intitolato “Rivoluzione di genere nella sala consiglio”. «Considerati gli ostacoli che molte hanno dovuto superare per raggiungere posizioni chiave e la differenza che stanno già facendo nel modo in cui funziona il mondo del business, il loro successo è di per sé motivo di celebrazione. Allo stesso tempo la loro affermazione alimenta le aspirazioni di milioni di donne o ragazze che si vedono come future leader». Di qui una classifica, scrive il Financial Times, resasi necessaria dal fatto che il lavoro femminile ai vertici delle grandi aziende è, in occidente, ancora penalizzato nonostante siano tantissime le case histories in rosa di successo nel mondo dell’imprenditoria e degli affari: «Tenete a mente che in un mondo dominato dai dirigenti di sesso maschile, le chief executive presenti nella nostra lista rappresentano ancora una minoranza pionieristico. Quando l’equilibrio di genere a questo livello del mondo aziendale globale sarà più uniforme, cesserà di essere degno di nota che a brillare sotto i riflettori del successo siano dirigenti di sesso femminile. Quando questo momento arriverà, noi saremo tra i primi a festeggiare», scrive il quotidiano finanziario più autorevole del mondo.

Tra le prime (che però non guidano i propri gruppi) anche Mondardini dell’Espresso e Patrizia Grieco di Olivetti

Le cinquanta signore del potere sono scelte in base alla durata e ai risultati ottenuti nel loro incarico; il giudizio viene espresso tenendo conto di diversi fattori, tra cui dati biografici, grandezza e complessità dell’azienda e ambito competitivo. Nella giuria un altro italiano, Ferdinando Beccalli-Falco, una lunga carriera cominciata nel 1975 in America alla Ge-

Altre tre italiane figurano in una seconda lista ”alternativa”del Financial Times di 50 donne che hanno potere, ma non sono le numero uno del gruppo. Tra queste, Daniela Riccardi, neo amministratore delegato del gruppo Diesel, controllato da Renzo Rosso, fondatore della casa madre di Diesel, Only The Brave. Poi ci sono Monica Mondardini, ad del Gruppo Editoriale L’Espresso, controllato dal gruppo Cir; e Patrizia Grieco, ad di Olivetti, controllata da Telecom Italia. Nella classifica generale, invece, impossibile non notare la preponderanza di donne cinesi (ci sono Dong Mingzhu di Gree Electric e di Cheung Yan di Nine Dragons Paper, mentre viene inclusa, per la prima volta, una delle donne più ricche della Cina, Wu Yajun, di Longfor Properties).


panorama

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Assalti alla banche a Milano e contro la sede di Confindustria a Pisa ROMA. Forse sono le avvisaglie di campagna elettorale a intorbidire l’atmosfera, ma nella giornata di mobilitazione della scuola organizzata ieri in tutta Italia in parecchi sono andati fuori binario. Con le vetrine delle banche spaccate e imbrattate a Milano, con i cori contro l’incolpevole Alemanno a Piazza Navona, con i pomodori lanciati a Pisa verso la sede locale di Confindustria, con il blocco della stazione Porta nuova a Torino. Alla fine si contano molti danni, giuste rivendicazioni come la richiesta di maggiori stanziamenti per l’istruzione, qualche prevedibile polemica sulla scuola privata. Ufficialmente studenti, professori e genitori sono richiamati dalla Giornata internazionale per il diritto allo studio. Occasione colta dalle due maggiori organizzazioni degli studenti di sinistra, Unione degli universitari e Rete, per allestire cortei in 90 città. Ma prima di loro la particolare ricorrenza era stata cerchiata di rosso dalla Cgil per protestare contro il ddl Gelmini. Alla fine viene fuori un frullatore di mozioni, alcune appunto assolutamente rispettabili. Come la richiesta di Unione degli universitari e della Rete di «trasformare la valutazione in uno strumento per schiacciare il potere dei baroni e alzare la qualità della didattica e dei servizi offerti agli atenei». Sollecitazioni sacrosante, che peraltro s’infrangono sul muro di silenzio e ritardi che avvolge l’ormai mitica Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione delle università che Mariastella Gelmini non riesce a far decollare. Più in generale i giovani promotori parlano di «giornata dal valore straordinario, con cui si segna un passaggio fondamentale per la riconquista del diritto allo studio che questo governo, diversamente da quanto accade in altri Paesi,

Cortei in tutta Italia per i tagli alla scuola «Cancellano il diritto all’istruzione», gridano gli studenti. Ma a volte la protesta degenera di Errico Novi

sono trovati grazie ai soliti interessi di lobby».

Si danno un po’ di numeri: in tutto, dicono sempre dal fronte studentesco della mobilitazione, «sono scese in piazza 200mila persone». Le rappresentanze più consistenti si sono viste a Torino, con 30mila manifestanti, a Milano e a Roma con 20mila, a Palermo

lità, più legata al mondo del lavoro e più internazionale, ed è necessario lo sforzo di tutti. Ma lo protesta di oggi ripropone i vecchi slogan di chi vuole mantenere lo status quo, di chi è aprioristicamente ostile a qualsiasi forma di cambiamento». In realtà il ministro può

Gelmini: «Sono i soliti vecchi slogan». Un gruppo di ragazzi arriva a Montecitorio. E a Bari sfilano anche due assessori di Vendola sta cancellando». Ma ci sono anche le consuete invettive contro il principio della libertà educativa: «Non è vero che non ci sono soldi per la scuola pubblica a causa della crisi: sono stati appena stanziati 25 milioni per le scuole private, dunque la loro è una scelta ben precisa e non una necessità». Tesi rilanciata dalla Rete della conoscenza, che riunisce gli studenti medi: «I soldi per le private si

con 7mila. Dal ministero dell’Istruzione arriva un laconico comunicato riferito alla partecipazione dei soli dipendenti della scuola: «L’adesione allo sciopero è stata del 3,8 per cento». E la Gelmini condensa la sua replica in una nota anch’essa non esattamente inedita: «Bisogna avere il coraggio di cambiare, è indispensabile proseguire sulla strada delle riforme: dobbiamo puntare a una scuola di qua-

avere gioco facile nel ridurre a quisquilia la giornata di manifestazioni anche per le insensate intemperanze che si registrano un po’dappertutto e che diluiscono alquanto il senso ultimo delle rivendicazioni, cioè i tagli. «Il vero problema non è solo l’assenza di una prospetti-

va per il futuro, il taglio all’istruzione pubblica sta cancellando anche il presente», fa in tempo a dire il portavoce dell’Unione degli universitari,.

Ma il segno che la giornata incroci parecchio anche l’inizio di una lunga, seppur ancora virtuale, campagna per le elezioni politiche emerge da almeno due questioni. Una molto locale eppure assai significativa: a Bari, con i duemila ragazzi di scuole e facoltà, si fanno vedere anche due assessori di Vendola, la responsabile del Diritto allo studio Alba Sasso e quello delle Politiche sportive Maria Campese. Il più insidioso concorrente di Bersani in vista delle possibili primarie democratiche per la candidatura a premier cavalca dunque in modo quasi diretto questa variopinta giornata di slogan

anti-governativi. Può essere un buon indizio di quali saranno gli argomenti e le platee di riferimento di un’eventuale discesa in campo del governatore. L’altro aspetto, citato all’inizio, riguarda l’offensiva dei più facinorosi contro obiettivi che con l’istruzione e il relativo ministro non c’entrano nulla. A cominciare dal premeditato assalto alla Banca Fideuram di corso Porta romana a Milano, dove i dipendenti si sono visti costretti a barricarsi all’interno mentre la cosiddetta avanguardia del corteo colpiva le vetrate con delle mazze e cercava di rendersi irriconoscibile utilizzando anche un fumogeno nero. «Sono arrivati di corsa, incappucciati», hanno raccontato gli impiegati.

A Roma ci si è limitati a qualche deviazione del corteo rispetto al percorso concordato con le forze dell’ordine: un rivolo è riuscito a raggiungere lo spiazzo antistante Montecitorio, nonostante i blocchi degli agenti che tra l’altro hanno impedito l’accesso a via del Plebiscito, dove si trova Palazzo Grazioli. Davanti alla Camera non sono mancati cori da curva contro il Cavaliere, del tipo «Berlusconi pezzo di m...». Ad Ancona c’è voluto un accenno di carica per impedire che a centinaia sciamassero dentro al provveditorato, a Vnezia un carro con altoparlanti sparati al massimo ha diffuso Il bombarolo di De Andrè per contestare l’assenza di colpevoli nella sentenza su piazza della Loggia. Si sono mobilitati in un migliaio anche all’Aquila, dove una delegazione ha chiesto di incontrare il presidente della Regione (del Pdl). A Pisa forse l’episodio più eccentrico: un gruppo di studenti si è staccato dal corteo per tentare di raggiungere la sede di Confindustria. La polizia ha risposto con la solita carica “di alleggerimento”, ma una quindicina di ragazzi è riuscita a filtrare fino alla sede confindustriale imbrattandola con tenace lancio di pomodori. Sempre a Milano, oltre alla Fideuram, altri istituti di credito sono stati presi in prestito come bersagli d’occasione: in questi casi con bombolette spray che hanno lasciato messaggi sul genere «noi la crisi ve la creiamo», «brucia», «assassini» e «se sei povero è colpa loro». Il vice della Moratti, Riccardo De Corato, farà poco dopo una stima sui danni: «Ci costeranno 150mila euro». Il 27 potrebbe arrivare la replica: l’Udu già annuncia di volersi associare allo sciopero indetto dalla Cgil.


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cusate la perifrasi marxiana, ma lo spettro della Terza Forza o Terzo Polo torna ad aggirarsi per l’Italia. Considerato velleitario dai suoi detrattori e invece una realtà destinata presto ad affermarsi dai suoi sostenitori, viene a volte nella stampa confuso col “terzismo” che però in età berlusconiana è stata qualcosa di ben diverso. Non un progetto organico per sostituire il curioso bipolarismo simil-mediatico tra partito di Mediaset e partito ispirato da Repubblica, quanto piuttosto uno sdegnato chiamarsi fuori dalla mischia, secondo il modello peraltro nobile che già Prezzolini aveva definito degli Apoti: quelli “che non la bevono”. Dall’altro, il ricordo va all’idea del terzaforzismo già cara al Mondo di Pannunzio, sulla battaglia per chiamare a raccolta le forze laiche distinte tra Dc e Pci: un’idea in effetti più militante del “terzismo”, ma a guardar bene molto meno ambiziosa del Terzo Polo oggi in gestazione. Un po’ come il Terzo Stato dell’Abate Sieyès, la Terza Forza ambiva alla fine semplicemente al passare dall’essere niente a essere qualcosa. Sotto un punto di vista, dunque, si potrebbe subito concludere che si tratta di tre cose ben diverse. E detto lì, chiudere il discorso. Ma da un altro punto di vista, il discorso potrebbe allargarsi fino a definire il terzapolismo forse non proprio l’Autobiografia della Nazione unica; ma certo una delle Autobiografie della Nazione possibili. Cominciando da Meuccio Ruini.

S

Presidente di quel Comitato dei 75 che aveva redatto la prima bozza della Costituzione, sembra sia stato lui il personaggio cui è attribuibile la più antica attestazione scritta del termine “terza forza” in italiano. Fu il 22 giugno del 1948, e avvenne nel corso di un discorso al Senato. Attenzione, però! La frase esatta è: «È oggi di moda parlare di terza via e di terza forza». Dunque, non faceva che riferire un termine già in uso. D’altra parte, già allora il concetto aveva diverse sfumature. In Argentina, in particolare, il peronismo stava lanciando lo slogan della “Terza Posizione” distinta e anche contrapposta al blocco occidentale a guida Usa e a quello orientale a

il paginone La storia della terzietà italiana in politica, economia e diplomazia internazionale. guida sovietica: un tipo di analisi che in Italia è stata a volte fatta propria dall’estrema destra, dove negli anni ’70 sorse pure un gruppo che si chiamava Terza Posizione; ma a volte, specie tra fine anni ’40 e inizio anni ’50, anche da settori di centro-sinistra e sinistra moderata. Dall’ala dossettiana della Dc, alla componente romitiana della socialdemocrazia. Potremmo dire che col movimento dei Non Allineati il terzoposizionismo è anche diventato l’ideologia dominante nel Terzo Mondo.

Ma poiché si è trattato un “non allineamento”in genere fasullo e ipocrita, e per di più corrivo su alcune delle peggiori nefandezze che nel XX secolo siano state fatte, è forse il caso di stendere direttamente un velo pietoso. Poi, c’era la Terza Via di Wilhelm Röpke, l’economista liberale cui si deve anche lo slogan dell’Economia Sociale di Mercato. Lanciata negli anni ’50, l’etichetta sarebbe stata poi rispoverata nel 1998 da Anthony Giddens, teorico del laburismo blairiano. Lo slogan è stato da allora appannato un po’ dall’usura del blairismo, un po’ dai disastri di alcune formule governative che alla Third Way avevano detto di

Fenomenologia

Quello che sta nascendo oggi in Italia non ha nulla a che fare con il “terzismo” laico ai tempi della Dc. È invece una nuova biografia della nazione La “Città ideale” di Vasari. Sotto Meuccio Ruini, presidente e ideologo del “Comitato dei 75”. Nella pagina a fianco Bettino Craxi, Spadolini e Giorgio Napolitano

di Maurizio Stefanini ispirarsi: da quella di de la Rúa in Argentina, fino all’Ulivo italiano. Dopo che la Crisi ha però screditato prima il liberismo ideologico e poi l’interventismo, si può concludere che di fatto è in pretto stile Terza Via il pragmatismo pratico su cui i governanti hanno finito per ritrovarsi. Obama come Cameron, o Lula come Tremonti.

Insom ma, la Terza Posizione della politica internazionale è quella del pericoloso terzomondismo; la Terza Via dell’Economia finisce per essere semplicemente quella del Buonsenso. Poi, c’è la Terza Forza della storia politica italiana in senso stretto. In effetti, è nei tre mesi scarsi che passano tra la scissione di Palazzo Barberini dell’11 gennaio 1947 e il congresso di scioglimento del Partito d’Azione nell’aprile successivo che si inizia a parlare di una Piccola Intesa tra i quattro partiti che si trovano a sinistra della Dc e a destra del Psi: Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, Partito Repubblicano Italiano, Partito d’Azione e Partito demo-

cratico del Lavoro. Ed è questa la prima “Terza Forza”, per altro subito squagliatasi per il venir meno di azionisti e demolaburisti. Lo slogan della Terza Forza verrà però rilanciato, stavolta col suo nome, dal gruppo di sinistra liberale che esce dal Pli nel giugno del 1948, vi rientra nel dicembre del 1951, per poi quattro anni dopo tornare a staccarsi definitivamente con la sigla ancora in vita del Partito Radicale. I dizionari italiani registrano in effetti la parola terzaforzismo a partire dal 1958, quella terzaforzista dal 1966, e terzaforzistico dal 1968. E sulla stessa lunghezza d’onda è appunto il famoso Mondo di Mario Pannunzio, il cui primo numero esce il 16 febbraio del 1949, e che chiuderà nel 1966.Tra i padri nobili del progetto c’è Gaetano Salvemini, che ripete “terza forza, terza forza e ancora terza forza”, e propone la fusione tra Pli e Pri. Poi nel 1958 i radicali tenteranno speranzosi una lista col Pri, che però prenderà meno voti di quanti non ne ha presi il Pri da solo. Invece la successiva alleanza tra Pr e Psi avrà buoni risultati alle amministrative, che


il paginone In un Paese che ha finalmente compreso la morte del bipolarismo berlusconiano

a del terzo polo però accenderanno una crisi di crescita che affonderà il partito nelle polemiche interne. Assunta la sigla radicale da un gruppo di giovani attorno a Marco Pannella, il più degli esponenti si disperderà tra Psi e Pri, o si dedicherà al giornalismo. Un tentativo terzaforzista può essere considerata ancora l’unificazione socialista del 1966, che però in seguito al disastro elettorale del 1968 durerà solo tre anni. Eppure, il terzaforzismo non muore affatto qui, come concludono gli storici meno attenti. Da una parte Eugenio Scalfari, già responsabile della campagna elettorale del Pli nel 1953 e del Pri-Pr nel 1958 e poi segretario radicale, dopo alcuni anni a cavallo tra giornalismo e politica troverà una originale via di mezzo con la fondazione del settimanalepartito L’Espresso: un’esperienza momentaneamente interrotta da una scialba esperienza di deputato socialista, ma poi ripresa e col quotidianopartito Repubblica, che la approfondisce in una strategia spregiudicata e in apparenza azzardata, ma che si rivelerà vincente. Ovvero, contare sul previsto collasso della cultura marxistaleninista-gramsciana di riferimento del Pci da incompatibilità col mondo moderno, per poter poi prestare al

corpaccione ormai acefalo un nuovo cervello di ideologia liberal-radicale. E ne verranno fuori il Pds, poi i Ds, poi il Pd. Dall’altra il progetto terzaforzista dell’unificazione socialista dopo una decina d’anni sarà rispolverato dal nuovo segretario del Psi Bet-

La “terza via” ha avuto successo anche in economia con le formule del liberale Wilhelm Röpke, poi rispolverate da quell’Anthony Giddens che, nel 1998, si afferma come teorico del laburismo blairiano

tino Craxi, con una nuova strategia che guarderà all’esperienza di Mitterrand in Francia, e alla “rendita di posizione” del Psi per formare maggioranza. Ma contemporaneamente negli anni ’70 c’è anche una terza filiazione, che è quella sponsorizzata dal Giornale di Montanelli: un’area laica che metta assieme i partiti laici per condizionare da destra una Dc tentata dal Compromesso Storico. È il riferimento da cui verranno alcune candidature comuni al Senato nel 1976 e nel 1979, e anche le peraltro non troppo fortunate liste Pri-Pli alle Europee del 1984 e del 1989. A volte la prospettiva due e la tre tendono a sovrapporsi, specie dopo che il Psi di Craxi decide a sua volta di caratterizzarsi in senso anticomunista. A volte confliggono, in particolare per lo scontro di leadership di Craxi con Spadolini e La Malfa. A inizio anni ’90 i resti del terzaforzismo liberal-repubblicano confluiscono con il movimento referendario di Segni in un esperimento che ad esempio nel 1993 registrerà il grande successo simbolico dell’elezione di Gianfranco Ciaurro a sindaco di Terni. Ma ormai Tangentopoli, la Lega, lo sdoganamento del

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Msi, la nuova strategia del Pds, il collasso di Dc e Psi hanno cambiato del tutto le regole del gioco. Nel 1994 i resti di questo terzaforzismo si metteranno proprio con i resti della Dc per tentare di salvare qualcosa del centrismo politico italiano.

V a p e r ò r i l e v a t o come anche Forza Italia sia stata fondata su idea di alcuni intellettuali già organici al progetto terzaforzista liberale: in particolare, Giuliano Urbani. E in seguito vi confluirà gran parte del personale politico del terzaforzismo craxiano. Insomma: lungi dall’aver fallito, in realtà il terzaforzismo è riuscito veramente a ristrutturare tutto il quadro politico italiano. Anche se crediamo che né nel Pdl e né nel Pd Pannunzio o Salvemini sarebbero particolarmente felici di riconoscersi. A veder bene, però, non era stata quella la prima volta in cui un terzaforzismo aveva cambiato la storia azionale. La stessa soluzione moderata del Risorgimento, a guardar bene, che è, se non una “terza via” tra la conservazione legittimista e il radicalismo rivoluzionario mazziniano? La Sinistra al governo, a sua volta, nel 1878 è una Terza Forza tra la Destra storica e l’Estrema Sinistra repubblicana. Il Giolittismo è una Terza Via tra la reazione crispina e la “sovversione”. L’interventismo che porta l’Italia nella Grande Guerra è una coalizione di “terze forze” distinte dal blocco cattolico-giolittiano del Patto Gentiloni e dall’opposizione socialista ufficiale. Il fascismo delle origini è una Terza Forza di ex-Combattenti egualmente ostili al “pericolo sovversivo della sinistra e a quello misoneista della Destra”. Ci sono la Terza Forza aventiniana di Amandola e la Terza Forza antifascista di Giustizia e Libertà, tra Mussolini e i bolscevichi. Ma anche il Fascismo regime proclamò la Terza Via del Corporativismo, come superamento sia del Liberalismo che del Socialismo. Il Fascismo di Salò passò poi dalla Terza Via del Corporativismo alla Terza Via della Socializzazione. Ma anche dall’analisi corporativista prendono le mosse i giovani ex-gentiliani che poi danno vita al liberalsocialismo: sempre ricerca del superamento delle due ideologie, ma sul piano del contemperamento piuttosto che della negazione. E il Partito d’Azione viene dalla confluenza tra la Terza Via dell’esilio di Giustizia e Libertà e la Terza Via post-fascista interna del Liberalsocialismo. Ma anche il ruolo che il movimento cattolico finisce per giocare, tra il Partito Popolare di Don Sturzo e la Dc di De Gasperi, è a sua volta ispirato a ideali di Terza Via tra liberalismo capitalista e statalismo socialista. Un riformismo centrista, o del Centro che guarda a Sinistra caro a De Gasperi, ispirato alla Dottrina Sociale della Chiesa, ma poi non troppo lontano dalla socialdemocrazia o dal liberalismo sociale: le due correnti alleato alle quali finì infatti per governare l’Italia per quasi mezzo secolo. Ma dall’analisi di Gramsci alla strategia di Togliatti fino all’Eurocomunismo di Berlinguer, perfino il Pci in qualche modo ragionò in termini di Terza Via. Anche prima di essere riformattato dall’ex-terzaforzismo “whig”, come lui stesso lo definisce, di Eugenio Scalfari.


mondo

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Appelli. Il Papa ha espresso vicinanza spirituale alla “blasfema” e ai suoi familiari e ha pregato la difficile situazione dei fedeli in Pakistan, spesso vittime di violenza

«Liberate Asia Bibi» Benedetto XVI si unisce alla campagna internazionale per la liberazione della cristiana condannata a morte di Vincenzo Faccioli Pintozzi ia restituita «la piena libertà ad Asia Bibi». È l’appello lanciato ieri da Benedetto XVI che, al termine dell’udienza generale in Vaticano ha detto che «la comunità internazionale segue con grande preoccupazione la difficile situazione dei cristiani in Pakistan, spesso vittime di violenza o discriminazione». Il Papa ha quindi espresso “vicinanza spirituale”ad Asia Bibi e ai suoi familiari e chiesto la liberazione della donna. «Prego - ha concluso - per quanti sono in situazioni analoghe e perchè la loro dignità umana e i loro diritti fondamentali siano pienamente rispettati». Prima dell’appello, nel discorso rivolto alle 40mila persone presenti in piazza san Pietro, Benedetto XVI ha detto che la Chiesa sta vivendo una “primavera eucaristica”, con tante persone, anche giovani che «sostano silenziosi davanti al tabernacolo per intrattenersi con Gesù».

S

È il “meraviglioso sviluppo” del culto eucaristico per il quale la Chiesa è particolarmente debitrice a Santa Giuliana di Cornillon o di Liegi, la suora vissuta tra il 1191e il 1258 ala quale Benedetto XVI ha dedicato la sua riflessione per l’udienza generale. L’appello del pontefice ha consolato la comunità cristiana del Pakistan, dove il due per cento della popolazione non è di fede musulmana e si sente sempre di più nel mirino dei terroristi. Il vescovo di Islamabad-Rawalpindi, monsignor Anthony Rufin, ha dichiarato ieri nel pomeriggio che «questa condanna può essere fermata, perché il governo del Pakistan sa di avere addosso l’attenzione della comunità internazionale e ha paura di fare una cattiva impressione». Parlando all’agenzia dei vescovi cattolici italiani, il presule si dice convinto che i problemi tra le minoranze religiose e i musulmani «si creano soprattutto nei villaggi, dove le persone sono povere e meno istruite e non sanno come rispondere o tacere di fronte ai provocatori. Paradossalmente, spesso le autorità usano la legge sulla blasfemia per proteggere le persone dai fondamen-

talisti che vogliono ucciderli». Questa soluzione, ovviamente, «non soddisfa certo la società civile, che si batte per la libertà religiosa e i diritti umani». Peter Jacob, segretario della Commissione nazionale per la giustizia e la pace dei vescovi pakistani, aggiunge: «Non siamo soddisfatti di come il governo sta affrontando la legge sul-

per salvare la donna. A livello globale, sono oltre 200mila le persone che si sono mobilitate per chiedere al governo pakistano di sospendere la condanna e liberare la Bibi. L’agenzia del Pontificio Istituto Missioni Estere, AsiaNews, ha lanciato una campagna che in un giorno ha raccolto più di 1500 adesioni. Fra i commenti inviati si leg-

rica Latina, ma anche da Vietnam e Cina. In Pakistan, nonostante gli evidenti rischi, diverse organizzazioni tra cui Giustizia e Pace hanno organizzato manifestazioni e iniziative per chiedere la liberazione della donna. Ieri a Nankana (Punjab) centinaia di donne, cristiane e musulmane hanno manifestato davanti agli uffici

Continuano le adesioni e gli appelli per la scarcerazione immediata e per la sospensione della condanna all’impiccagione. Salvarla, scrivono dal Vietnam, «non deve essere un atto politico, ma un obbligo morale di tutti» la blasfemia. Anche perché dovrebbe istituire al più presto, su richiesta dell’Onu, una Commissione nazionale per i diritti umani». Nel frattempo, si moltiplicano gli appelli e le iniziative

ge che “Asia Bibi è innocente. Salvarla non deve essere un atto politico, ma un obbligo morale verso tutti i cristiani perseguitati”. Centinaia i messaggi provenienti da Spagna e Ame-

governativi chiedendo il suo rilascio immediato. Saman Wazdani, musulmana e attivista per i diritti umani, ha dichiarato: «Le donne del Pakistan si stanno muovendo. Il Caso di Asia

Benedetto XVI ha chiesto ieri, durante l’Udienza generale in Vaticano, libertà per Asia Bibi e rispetto per i diritti delle minoranze in Pakistan. Sopra, la stessa Bibi: è madre di 5 figli. Nella pagina a fianco il presidente americano Barack Obama insieme a quello indonesiano

La testimonianza di un sacerdote locale: «Il decreto contro i blasfemi terrorizza il popolo»

Una legge perversa: va abolita ono originario del Pakistan, e sono cristiano. Ho studiato in Pakistan, e ho anche visto come la legge sulla blasfemia è stata ed è utilizzata in maniera scorretta per sistemare litigi personali e per uccidere cristiani e bruciare le loro case e i loro averi. Il Pakistan è un Paese di 180 milioni di abitanti, di cui il 96 per cento è musulmano e il due per cento cristiano. È veramente triste vedere che un’altra cristiana sia diventata un bersaglio grazie alla controversa legge sulla blasfemia. Da quando questa legge è stata promulgata nel 1990 circa 30 cristiani sono stati portati in tribunale, e neanche uno è stato giudicato colpevole dai gradi superiori di giudizio. Anche se un paio di loro sono stati condannati a morte dai tribunali locali. Questa legge ha portato solo miseria e oppres-

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di Iftab Maliq sione al popolo pakistano in generale e ai cristiani del Pakistan in particolare. In generale, sono caduti sotto le conseguenze di questa legge circa mille persone: musulmani, ahmadi, indù e cristiani. Asia Bibi è la prima donna cristiana condannata a morte sulla base di un’accusa secondo cui avrebbe

deplorevole che questa legge sia stata promulgata nel nostro Paese. Ha portato paura fra la gente, e fra i cristiani in particolare. Spesso cristiani e musulmani sono stati uccisi da folle inferocite che li accusavano di aver bestemmiato il profeta, o dissacrato il sacro Corano dei musulmani. Per esempio, l’inse-

rooq, che era anche Hafiz-eQuran (uno che impara a memoria il Corano) è stato ucciso da una folla inferocita sull’accusa di aver dissacrato il Corano. Un altro musulmano che era anche membro del Majlase-Shura (consiglio dei consulenti) del dittatore militare Zia ul Haq fu ucciso in prigione da uomini della polizia. Questa legge è così vaga che ciascuno

L’islamizzazione del Paese continua; sulla pelle dei cristiani, i talebani stanno acquisendo sempre più potere. E questo è un pericolo per tutto il mondo commesso il delitto di blasfemia contro il profeta dell’islam. Un giudice locale, Naveed Iqbal, l’ha condannata all’impiccagione. Ma le circostanze dimostrano invece che Asia Bibi è stata insultata dalle sue compagne di lavoro, donne musulmane. Sostenevano che l’acqua che stava servendo era “impura” a causa della sua fede, perché era cristiana. È veramente

gnante cristiano Nimat Ahmer è stato ucciso da uno studente a Faisalabad. Un altro cristiano, Binto Masih, è stato attaccato e ferito gravemente mentre era nelle mani della polizia, ed è morto poco dopo. Masih Masih era un cristiano, ucciso mentre usciva dall’Alta Corte a Lahore, dove era stato convocato a causa della legge sulla blasfemia. Un musulmano, Sajad Fa-

può facilmente essere accusato di blasfemia e ucciso. Spesso accade che litigi per i confini dei terreni sfocino in accusa di blasfemia. È accaduto che i tribunali abbiano dato il loro giudizio assolvendo le persone, dichiarandole così innocenti. Ma sfortunatamente viviamo in una società dove un uomo, giudicato innocente da un tribunale, venga ucciso da musulmani


mondo

18 novembre 2010 • pagina 15

L’editoriale del “Washington Times” sul caso della donna pakistana

Presidente Obama, combatta questo islam

I discorsi di Jakarta e del Cairo hanno un senso importante, ma il fondamentalismo musulmano non è solo al Qaeda di John Smith l presidente Obama ha dichiarato nella sua visita ufficiale in Indonesia che «l’America non è, e non sarà mai, in guerra con l’islam». La sua dichiarazione tuttavia è inefficace, perché è l’islam ad essere in guerra con l’America. La Casa Bianca aveva indicato l’evento come il seguito del discorso tenuto al Cairo nel giugno del 2009 e dei suoi «tentativi di alleviare le tensioni storiche tra l’America e le comunità musulmane di tutto il mondo». Il presidente ha ripetuto i messaggi del suo precedente discorso, in cui si appellava ad un “nuovo inizio” nelle relazioni tra Stati Uniti e mondo musulmano. Questo nuovo inizio, comunque, si è scontrato con i soliti problemi. Dopo una breve esplosione di entusiasmo all’inizio del suo primo anno, gli indici di gradimento presso il mondo musulmano sono scesi ai livelli del suo predecessore, George W. Bush, promotore di guerre contro i Paesi islamici. Un recente sondaggio Gallup ha dimostrato che l’attuale indice di gradimento del governo statunitense nei Paesi del Medioriente e del Nord Africa è “vicino o inferiore a quanto era nel 2008”, e in alcuni casi ha “cancellato le conquiste che si erano viste dopo la transizione dall’amministrazione Bush all’amministrazione Obama”. Un’indagine del Pew Center pubblicata quest’estate ha dimostrato che la fiducia che il presidente Obama “faccia la cosa giusta negli affari internazionali” è crollata all’8 per cento in Pakistan, che è discutibilmente il Paese a maggioranza musulmana più importante per la guerra al terrorismo. Obama ha dichiarato che «tutti dobbiamo collaborare per sconfiggere al Qaeda e i suoi affiliati, che non possono rivendicare di essere a capo di alcuna religione, non di certo di una religione mondiale come l’islam”. Il che solleva la questione del perché il presidente percepisca di avere la buona fede per discutere chi è e chi non è il legittimo rappresentante della fede musulmana.

I

Bibi ha fatto pressione sulle nostre coscienze per chiedere l’abrogazione della legge sulla blasfemia». La Conferenza degli Ulema del Pakistan (Conference of the Jamiat Ulema Pakistan – Jup), che rappresenta circa il 30 per cento dei par-

titi religiosi, ha affermato la sua totale opposizione alla cancellazione della legge sulla blasfemia. Gli ulema considerano la legge “intoccabile” e minacciano proteste anche violente in caso di eventuali modifiche o correzioni.

fanatici che lo uccidono dove e quando lo trovano. Come risultato, la persona sa che potrebbe essere assassinata ovunque e comunque dai fanatici musulmani. Egli ha solo una via di scampo: scappare in un altro Paese per salvarsi la vita. Ci sono parecchi casi, e fra questi alcuni cristiani: Salamat Masih, Ayub Masih e altri ancora. Questa è la situazione della nostra società. Alcuni leader politici, cone Benazir Bhutto, quando era primo ministro, e Pervez Musharraf, quando era presidente, hanno tentato di apportare alcune modifiche alla legge, ma non ci sono riusciti. Sono stati minacciati dai fondamentalisti musulmani che protestavano nelle strade e minacciavano le peggiori conseguenze, se le modifiche fossero passate. Così questa è la situazione in cui viviamo: è come una spada di Damocle sulle nostre teste. Contro questa legge, vi sono molte organizzazioni di diritti umani musulmane e cristiane. È triste che Asia Bibi sia stata condannata. Spero che quando il suo caso arriverà all’Alta Corte sarà assolta, come è accaduto altre volte. Molto

spesso i giudici di prima istanza sono terrorizzati dai fanatici musulmani, ed emettono sentenze di morte a causa di questa pressione. Il Pakistan vive un momento di grande travaglio. È una terra in cui agiscono fanatismo, terrorismo e violenza. Sembra che non ci sia un luogo in Pakistan che non possa essere un bersaglio del terrore.

In questo momento abbiamo un ruolo importante: portare speranza. Abbiamo un ruolo profetico da giocare in Pakistan: non rispondiamo alla violenza con la violenza, e all’odio con l’odio. La nostra Chiesa è una Chiesa che soffre: scuole, chiese, ospedali sono stati attaccati, e più di 300 case di cristiani date alle fiamme. La crescente islamizzazione del Pakistan spaventa i cristiani, e li rende insicuri. I talebani stanno acquisendo sempre più potere. Il governo dovrebbe prendere seri provvedimenti contro le scuole coraniche che insegnano un islam dal volto così spaventoso, che cerca di imporsi con le armi e le bombe.

be una chiesa cristiana del posto che usa il lotto della moschea per far parcheggiare i suoi fedeli durante le celebrazioni natalizie.

Secondo Obama questo è un esempio di collaborazione religiosa. Tuttavia, come ha notato nel suo discorso «questo non significa che l’Indonesia non abbia imperfezioni, tutti i Paesi le hanno». Un’altra tradizione natalizia in Indonesia – che Obama ha trascurato di ricordare – sono le annuali minacce e violenze contro i cristiani da parte del Fronte dei Difensori islamici e di altri gruppi radicali. A gennaio, una sommossa di mille musulmani ha incendiato due chiese a Sumatra perché c’erano “troppi fedeli e troppi adepti” che le frequentavano. Fra il 2004 e il 2007 i radicali musulmani e i governi locali hanno costretto 110 chiese cristiane a chiudere. Se la condivisione dei parcheggi è il migliore esempio di tolleranza in Indonesia, c’è ancora molta strada da fare. Il discorso di Obama non cambierà l’opinione dei musulmani di tutto il mondo che conoscono già i suoi punti di vista e hanno già preso la loro decisione. Servirà però a ricordare che l’Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, non sono la fonte del problema. Obama di questo preferirebbe non parlarne. Questa settimana in Pakistan Asia Bibi, una quarantacinquenne cristiana madre di 5 figli, è stata condannata a morte per presunta blasfemia contro Maometto. Stava lavorando in una fattoria con altre donne quando le chiesero di andare a prendere dell’acqua potabile. Le sue colleghe musulmane si rifiutarono di berla perché era stata “viziata” dopo essere stata toccata da una cristiana. Da qui scoppiò una lite, e più tardi la signora Bibi fu aggredita da una calca di persone. Questo caso dimostra le reali complessità e la profonda intolleranza che si presentano all’America quando deve affrontare i musulmani di tutto il mondo. Il presidente Obama dovrebbe abbandonare la sua retorica, che entra da un orecchio ed esce dall’altro, e cercare piuttosto di affrontare argomenti difficili e reali riguardo all’islam per un vero cambiamento. Questo rappresenterebbe un vero nuovo inizio.

Il leader Usa ha ricordato che tutti i Paesi, anche quelli islamici, «hanno diverse imperfezioni». Fra tutte, in quelle zone spicca la discriminazione

Nel corso della sua visita alla moschea Istiqlal di Jakarta, la più grande del sud est asiatico, Obama ha riportato una storia che gli aveva raccontato l’imam secondo cui ci sareb-


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pagina 16 • 18 novembre 2010

Beirut. Ombre e luci per il primo governo di unità nazionale del Paese uale interpretazione darà il governo libanese alla scelta israeliana di ritirarsi da Ghajar, il villaggio al confine tra i due Paesi? A dire il vero, la decisione del governo Netanyahu non è ancora definitiva. Ieri la stampa locale parlava della quasi certezza che i soldati di Tzahal fossero in via di smobilitare il piccolo paese separato dalla Linea blu. Ghajar è un conglomerato di appena duemila abitanti, prevalentemente di confessione alawita, la stessa del clan Assad, al governo in Siria. Nel 1967 con la Guerra dei sei giorni, venne invaso dall’esercito israeliano, come tutto il resto delle Alture del Golan. La regione è stata annessa successivamente da Israele. Ora Benjamin Netanyahu vorrebbe cederlo al controllo in partnership di Unifil e delle autorità libanesi.

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La sua scelta sembra ricalcare quella di Ariel Sharon, che, nel 2005, con un colpo di mano, ordinò l’abbandono della Striscia di Gaza. La differenza sta è quest’ultima era stata sensibilmente influenzata dalla presenza delle comunità ebraiche. Il Golan, al contrario, ha conservato la sua identità. Nei suoi villaggi le comunità cristiane, druse e alawite convivono difficilmente e accettano ob torto collo la divisione della loro terra in tre giurisdizioni: israeliana, libanese e siriana. Ghajar, dal canto suo, ha sempre cercato di tornare sotto il suo governo di origine, Damasco. Quest’ultimo, tuttavia, ne rifiuta la rivendicazione. Questo perché, nelle tattiche militari, il villaggio rappresenta uno sperone privilegiato per possibili lanci di razzi dal Libano contro Israele. Il governo di Bashar el-Assad, per ragioni di alleanza con Hez-

Un anno di Hariri e il Libano riunito Nel frattempo Israele si ritira da Ghajar, il paesino diviso in due dalla Linea blu di Antonio Picasso

per una riflessione sulla stabilità del governo di Beirut. È ormai un anno che Saad Hariri è alla guida dell’attuale esecutivo. Nel giugno 2009, il Paese è stato chiamato alle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale. Elezioni che, secondo le previsioni qui in Occidente, si pensava potessero suggellare la definitiva presa di pote-

Il premier ha compiuto a dicembre una visita in Siria. Il gesto è stato interpretato come l’inizio di una nuova fase di collaborazione bollah, preferisce non essere coinvolto in questi negoziati. D’altra parte, proprio ieri, la popolazione locale esprimeva un corale disappunto per il ritiro di Israele e l’eventualità di passare sotto giurisdizione libanese. Si può pensare, allora, che se Tzahal non ha mai goduto alcuna simpatia nei piccoli villaggi del Golan, altrettanto potrebbe accadere per le Lebanese Armed Forces. Ghajar, infatti, si sente siriana e come tale vuole tornare a essere. La cronaca offre lo spunto

re del movimento sciita di Hebzollah, interlocutore privilegiato dell’Iran sulle sponde del Mediterraneo. Dalle urne, tuttavia, non è emersa alcuna maggioranza assoluta, né per il Partito di Dio né per la coalizione sunnita-maronita, di cui Hariri è leader. Nel novembre dello scorso anno, dopo cinque mesi di vuoto al vertice dell’esecutivo, tutte le parti in causa hanno raggiunto l’accordo per un governo di unità nazionale. Da allora il Libano ha vissuto una pre-

Figlio d’arte senza però le doti del padre

Un saudita a Beirut Saad Hariri è nato in Arabia Saudita nel 1960. Già questo basta per intuire la precarietà del Primo ministro libanese. È alla guida dell’attuale governo non tanto per le sue doti politiche, bensì perché figlio d’arte. Suo padre era Rafiq Hariri, sunnita e grande manovratore di interessi politici ed economici di tutto il Medioriente. Fu lui a dettare legge, per oltre 20 anni, nell’agone politico libanese sconvolto dalla guerra civile. Imprenditore dagli interessi tentacolari, fondatore del “Movipartito mento per il futuro”e ispiratore degli accordi di Taif, nel 1989, che decretarono una precaria pace nel Paese, Rafiq Hariri venne ucciso il 14 febbraio 2005 a Beirut. La comunità internazionale sta cercando ancora di fare luce sul-

l’accaduto. L’Onu ha aperto un’inchiesta. Mentre i sospetti sono caduti su Hezbollah e sulla Siria, entrambi ritenuti coinvolti nell’omicidio. Finora però il dossier resta aperto. Il figlio di Hariri ha saputo sfruttare il nome del clan al quale appartiene. Tuttavia, le differenze di carisma tra lui e il padre sono evidenti. Il fatto, inoltre, di essere nato in Arabia Saudita non ne fa di un libanese purosangue. Oggi così come è salito al potere grazie al padre, proprio per l’omicidio di quest’ultimo Saad Hariri potrebbe cadere. Se dall’Onu giungesse una condanna di Hezbollah, o di nuclei dell’intelligence siriana, il primo a pagare le spese di questa potenziale ennesima crisi libanese sarebbe proprio il numero 1 dell’esecutivo. (a.p.)

caria ma costante fase di stabilità. Tutte le realtà interessate a conservare l’attuale punto di appoggio di cui dispongono nel Paese dei cedri sembrano aver raggiunto un tacito accordo affinché non vengano accesi nuovi focolai di tensione. Infatti né dall’Occidente, né da Damasco, o ancora più a est da Teheran, sono giunte provocazioni che avrebbero potuto mettere i discussione i difficili equilibri beirutini.

Ancora a dicembre 2009, Hariri ha compiuto una visita in Siria. Il gesto è stato interpretato come l’inizio di una nuova fase di collaborazione fra due Paesi tradizionalmente in contrato. È evidente che al Libano interessi proteggersi le spalle, piuttosto che provocare l’imprevedibile vicino. Bashar, a sua volta, in linea con la sua politica di emancipazione dalla scomoda alleanza con l’Iran, deve aver intuito che quella libanese è la sola strada per far sopravvivere il regime e per riportare la Siria agli splendori del passato, in qualità di potenza regionale. Teheran, del resto, sembra essere altrettanto accondiscendente. Il viaggio del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, a Beirut, compiuto a settembre, si è concluso con la firma di importanti accordi commerciali. Segno, questo, che il regime degli Ayatollah veda nel Libano una rimunerativa sponda commerciale sul Mediterraneo e non un potenziale fronte di guerra contro Israele, come invece preferirebbero alcuni esponenti di Hezbollah e delle fazioni palestinesi presenti in loco. Detto questo, la normalizzazione politica tanto agognata dai libanesi appare un dato di fatto. Tuttavia, alcune incognite permangono. Il passato insegna che il Libano, proprio nel momento di maggiore tranquillità, può scadere in una nuova crisi. Troppe fazioni etniche, religiose e politiche sono coinvolte nel suo territorio. Il fronte cristiano maronita spaccato in due, sciiti contro sunniti e poi i drusi, gli alawiti e soprattutto i palestinesi. È quasi impensabile che, tra tante fazioni, sia improvvisamente nata la pace. Il realismo induce a tenere alta la guardia. Certo, la mossa israeliana può apparire come un gesto di disponibilità. Ma quale sarebbe la contropartita che Israele potrebbe chiedere all’Occidente, al mondo arabo e addirittura all’Iran in cambio di questa piccola concessione, non richiesta, fatta a Beirut?


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18 novembre 2010 • pagina 17

Dopo i pacchi bomba, Berlino aumenta i controlli interni

Non sarà consentito protestare per il voto farsa del 7 novembre

Massima allerta in Germania per il rischio di attentati

La giunta minaccia Aung San sui ricorsi

BERLINO. La Germania ha al-

RANGOON. Non saranno tolle-

zato il suo livello di allerta sicurezza dopo avere raccolto indicazioni concrete sul fatto che estremisti islamici starebbero pianificando attentati nelle prossime due settimane e ha ordinato misure più rigide in quelli che potrebbero essere gli obbiettivi, comprese stazioni ferroviarie e aeroporti. «La situazione sicurezza in Germania è diventata più seria», ha detto il ministro dell’Interno Thomas de Maiziere nel corso di una conferenza stampa. «Abbiamo indicazioni concrete di una serie di attentati pianificati per la fine di novembre». Il ministro ha spiegato che gli indizi su possibili attentati sono stati raccolti dopo la serie di pacchi bomba spediti dallo Yemen a obbiettivi Usa a fine ottobre e da militanti greci ad obbiettivi tra cui la cancelliera tedesca Angela Merkel.

rate proteste, ricorsi o denunce di brogli in merito alle elezioni parlamentari del 7 novembre scorso, le prime in 20 anni per il Myanmar. È quanto ha annunciato la giunta militare birmana, con un ”avvertimento” che sembra rivolto in prima persona ad Aung San Suu Kyi, liberata il 13 novembre scorso dopo sette anni trascorsi agli arresti domiciliari. La leader dell’opposizione ha infatti annunciato di voler indagare su modalità e conta dei voti, in seguito a possibili irregolarità volte a favorire i partiti vicini al regime. Per Aung San Suu Kyi, 65enne, che ha trascorso 15 degli ultimi 21 anni agli arresti, si profila un compito non facile:

De Meziere ha detto che «un’informazione da un partner internazionale dopo l’episodio dello Yemen» ha messo in guardia da un attentato pianificato per fine mese. Le indagini della polizia tedesca «in collaborazione con persone dell’area islamica hanno confermato indipendentemente i tentativi persistenti di gruppi islamici di effettuare attentati in Germania».

Talabani scioglie il cappio di Tariq Aziz Il presidente iracheno si oppone all’esecuzione di Pierre Chiartano

BAGHDAD. Un curdo che salva un cristiano in Medioriente. Il presidente iracheno Jalal Talabani ha dichiarato ieri che non firmerà l’ordine di esecuzione di Tareq Aziz, l’ex vice del dittatore Saddam Hussein condannato a morte in ottobre con l’accusa di repressione dei partiti islamici. «No, non firmerò l’ordine di esecuzione di Tareq Aziz, perché sono socialista» ha detto Talabani in un’intervista all’emittente tv francese France 24. «Simpatizzo con Tareq Aziz perché è un cristiano iracheno. Per giunta è un uomo anziano che ha più di 70 anni». La corte suprema irachena ha approvato la condanna a morte di Aziz, un tempo rappresentante internazionale del governo di Saddam, a fine ottobre. Il Vaticano e la Russia hanno lanciato un appello all’Iraq affinché non esegua la condanna alla pena capitale per motivi umanitari, per la sua età e per i problemi di salute. Per salvare la vita dell’ex «numero due» del regime si è mossa l’intera comunità internazionale. Tarek Aziz era stato a condannato morte il 26 ottobre scorso per il suo ruolo nell’eliminazione dei partiti religiosi. Malato, 74 anni, Aziz è in carcere dall’aprile 2003, data della sua consegna agli americani. Con lui sono stati condannati due altre figure chiave del regime di Saddam Hussein, l’ex ministro degli interni Saadoun Shaker e l’ex segretario del presidente Saddam Abed Hmoud. La posizione di Talabani è molto chiara: «Penso che la pagina delle esecuzioni e delle condanne a morte sia ormai da girare, salvo quei crimini commessi nella cattedrale di Nostra Signora del soccorso perpetuo e quelli commessi contro i pellegrini sciiti nei luoghi santi» ha aggiunto nell’intervista facendo riferimento ai fatti del 31 ottobre, quando 44 fedeli sono stati uccisi da un commando di Al Qaida nella cattedrale siriaca cattolica di Baghdad. Talabani ha quindi aggiunto che l’Iraq ha bisogno «di una politica di clemenza, perdono e riconciliazione nazionale». Aziz aveva curato la politica estera irachena ai tempi del dittato-

re Saddam Hussein, fino a diventare vicepremier, più di facciata che di sostanza. Apparteneva alla minoranza cristiana, ma è stato associato alle stragi del dittatore iracheno. «La sentenza è stata emessa senza la salvaguardia degli interessi della giustizia e senza gli strumenti normalmente disponibili in appello. Per questo abbiamo presentato un’istanza urgente all’Inter-American Commission on Human Rights per chiedere l’interruzione dell’esecuzione di condanna a morte di Tariq Aziz».

Era quanto annunciava l’avvocato Giovanni Di Stefano, uno dei legali dell’ex ministro. E sono molte le voci in Europa e in Italia che sono salite a difesa del politico iracheno. Compresa quella di Marco Pannella, leader dei radicali italiani, che aveva cominciato lo sciopero della fame. Oppure Mario Marazziti, portavoce della Comunità di Sant’Egidio che aveva affermato che «la pena di morte contro Tarek Aziz è una punizione postuma». Con un gesto di clemenza, sottolinea il rappresentante della comunità, verrà anche rispettata l’autonomia della magistratura e allo stesso tempo «si compirà un forte gesto di riconciliazione». «C’è da augurarsi che all’interno del governo iracheno, dove pure ci sono diverse personalità contrarie alla pena capitale, prevalga la strada dell’atto di clemenza, una ipotesi plausibile» concludeva Marazziti. E sembra proprio che l’abbiano ascoltato. Anche la Commissione europea aveva fatto sapere di essere contraria alla condanna a morte per impiccagione. E la famiglia ne aveva chiesto la liberazione per motivi di salute. Aziz si era arreso alle truppe americane alla fine di aprile del 2003. Era già stato condannato nel marzo 2009 a 15 anni di carcere per «crimini contro l’umanità». Sempre nel 2009, l’Alta corte penale dell’Iraq lo aveva condannato a sette anni di reclusione per il suo ruolo nelle violenze contro i curdi di confessione sciita negli anni Ottanta. E proprio un curdo sembra averlo salvato.

Secondo il politico (curdo), l’ex vice di Saddam «è un cristiano e un iracheno. E per giunta è un uomo di oltre 70 anni»

Di conseguenza la polizia ha innalzato i livelli di allerta per potenziali obbiettivi compresi nodi dei trasporti e stazioni ferroviarie, ha detto. «Ci sono motivi di preoccupazione ma non isteria. Non saremo intimiditi dal terrorismo internazionale, né nel nostro stile di vita, né nella nostra cultura o libertà», ha detto ancora il ministro.Tuttavia, le indicazioni raccolte da Berlino dimostrano una volta di più come l’Europa sia tornata nel mirino del terrorismo internazionale di matrice islamica. Come ha detto persino il mullah Omar, al momento la priorità dei fondamentalisti è quella di ottenere il ritiro europeo dai teatri iracheni e afghani.

deve riuscire a bilanciare le aspettative di quanti la considerano un’icona nella lotta per la democrazia in Myanmar con la realtà del Paese, le minacce della giunta militare che potrebbe con qualsiasi pretesto confinarla di nuovo ai domiciliari. Intanto la “Signora”ha depositato una dichiarazione scritta presso l’Alta corte, perché il suo partito venga riportato alla piena legalità. Nei mesi scorsi Lega nazionale per la democrazia (Nld) non ha voluto procedere alle operazioni di registrazione in vista del voto del 7 novembre; la Commissione elettorale lo ha dichiarato illegale, estromettendolo dallo scenario politico del Paese.

Intanto i vertici della Commissione hanno avvertito i partiti birmani che chiunque avanzerà ”false”accuse di brogli, subirà una dura punizione. I risultati ufficiali delle elezioni parlamentari non sono ancora stati diffusi, ma i primi dati confermano la schiacciante vittoria sulla quale gravano accuse di brogli - dello Union Solidarity and Development Party (Usdp), movimento vicino alla giunta militare birmana, in entrambi i rami del Parlamento. La punizione è la galera fino a tre anni e/o una multa di 34mila euro.


cultura

pagina 18 • 18 novembre 2010

Riletture. Tra economia e letteratura: torna di attualità il celebre scrittore con un passato da dirigente della Fiat: per lui tutto ruotava intorno al denaro

La crisi, vent’anni prima Einuadi ristampa «Le mosche del capitale», il romanzo in cui Volponi raccontò in anticipo la recessione di oggi di Matteo Marchesini egli stessi anni 60 in cui, con il romanzo Il padrone, Goffredo Parise andava definendo la sua provvisoria poetica «metafisica e pop», un autore di un lustro più anziano metteva in campo un’altra specie di “letteratura industriale”, altrettanto straniata ma assai più greve e dolente. Il marchigiano Paolo Volponi, già oneversificatore sto elegiaco-officinesco e dirigente olivettiano, divenne noto a un pubblico più ampio col romanzo Memoriale (1962), seguito a tre anni di distanza da La macchina mondiale.

N

Sia l’io che ci parla dal romanzo di Parise, sia l’io protagonista delle prime prove narrative volponiane, si trovano in uno stato di estraniazione in cui non solo è impossibile dialogare con gli altri, ma perfino con se stessi. A questi personaggi resta soltanto una capacità di calcolo ideologica e paranoica: attraverso la quale, con esiti o ridicoli o disastrosi, tentano di attingere le conferme che l’ambiente esterno – in tal senso davvero irreversibilmente ostile – non offre loro in nessun modo. Per questo l’Albino Saluggia di Memoriale e il zelante impiegato del Padrone provano a identificarsi e in definitiva ad annullarsi misticamente nell’azienda, nella fabbrica; e per questo si ritrovano a ogni passo davanti a gesti e parole di colleghi, esperti, superiori, che somigliano a geroglifici la cui interpretazione non può che sfociare in una logica kafkiana. Ma se Parise punta le sue carte sulla piena oggettivazione di un universo surrealistico, in Volponi lo straniamento coincide con l’apriori della paranoia che governa la psiche del protagonista. Nei suoi primi romanzi, anche quando vi si può leggere in controluce una rivisitazione del Don Chisciotte,

l’apriori della paranoia dà quindi un risultato non satirico - come in certo Parise - bensì puramente tragico o meglio altamente patetico. La situazione dei tristi cavalieri volponiani,

che vivono «senza avventure» il passaggio dall’integrità del passato alla folle impotenza del presente, affiora tutta attraverso l’intimità di una coscienza al tempo stesso patologica e complessa, monomaniaca e riflessiva: e il loro luddismo suicida segna alla fine la cupa convergenza di questi caratteri contraddittori. Il culmine di una si-

I tristi cavalieri volponiani vivono il salto dall’integrità del passato all’impotenza del presente. Ma il luddismo segna il loro destino mile concezione poetica si trova a metà anni 70 in Corporale (forse l’unico libro italiano, insieme a Petrolio, che nella sua vischiosità fallimentare e grandiosa ricordi un po’ l’Ulisse). Subito dopo, con Il sipario ducale e con quella specie di vacanza creativa che è Il lanciatore di giavellotto, lo scrittore si rifugia in provincia: e il provvisorio calo di tensione coincide col tentativo di arginare lo

smarrimento, raccontando una società certo già lacerata dal terrore, ma tuttavia ancora legata a progetti di vita artigianali e anarchici. È Le mosche del capitale, pubblicato nel fatidico ’89, a segnare il ritorno al tema dell’Azienda. Si tratta di un romanzo-mostro, oggi meritoriamente ristampato da Einaudi. Nella puntuale introduzione, Massimo Raffaeli sottolinea giustamente l’ultima come grande opera di Volponi prefiguri un definitivo, impietoso bilancio della sua lunga vicenda letteraria e manageriale (trasparenti sono i riferimenti autobiografici alla Olivetti e alla Fiat).

In queste pagine, che prendono avvio dalla crisi torinese dell’80, l’autore ha fatto sparire il consueto testimone paranoico. Qui il mondo intero è una specie di sfilacciata galassia aperta al contagio del capitalismo finanziario e delle sue manie: un’unica farragine in cui gli oggetti artigianali, artistici o privati, galleggiano come detriti nel brodo irreale delle società per azioni e delle banche. Certo, nella melma spiccano anche alcune figure umane: come lo sconfitto dirigente Saraccini e lo speculare, bellicoso operaio Tècraso (anagramma di Socrate). Ma in sostanza tutto ruota vorticosamente intorno a un universo entropico, greve, senza centro – un universo dominato dalla cattiva democrazia dei codici linguistici, qui ormai saldati in un canceroso amalgama di scorie gergali; e nella fitta fauna di capi sovrumani, di satrapi e di servi, il massimo della gerarchia equivale al suo annullamento. La descrizione dell’industria, infatti, oscilla tra i dettagli fisici

Nella foto grande, “Il cavallo bianco e il molo” di Mario Sironi. Qui a sinistra, lo scrittore Paolo Volponi, autore de ”Le mosche del capitale” ripubblicato di recente da Einaudi (in basso, la copertina). Qui sotto, un’antica stampa della Fiat. Nella pagina a fianco, Goffredo Parise. Più giù, “Memoriale” di Volponi

più ornamentali e la massa compattamente insignificante della chiacchiera. Le piante da ufficio finiscono per avere lo stesso peso non solo di un operaio, ma in qualche modo anche di un piano di produzione. E se si tratta di provocare un’incrinatura nel Sistema, o viceversa di accentuarne l’inerzia, il lutulento linguaggio liri-

co-burocratico, gli ultimi cascami delle filosofie della storia e i trucchi psicologici da quattro soldi mostrano di possedere la stessa insondabile influenza che hanno un faraonico progetto urbanistico e un’alleanza ai vertici. Ritorcendo il bilancio contro l’autore, come lui stesso sembra voler fare, potremmo dire che in Le mosche del capitale le parole del Volponi dirigente e quelle del Volponi militante rimangono impigliate nelle stesse categorie velleitarie, nella stessa mistificazione “amministrativa”: dove tutto è arredo, e nulla lo è più completamente; dove non c’è colpa e non c’è innocenza, dove non c’è vera Natura e non c’è vera Storia.

A Bovino (Torino) Saraccini è ormai divenuto il puro alibi di un mecenatismo rapace. Ecco che cosa chiedono a lui, dirigente-umanista, i nuovi padroni: «avrebbe potuto dare qualche buono spettacolo: soprat-


cultura

Frammenti di un manager triste che amava gli operai Paolo Volponi nasce a Urbino nel 1924. Il padre, è proprietario di una piccola fornace per laterizi, la madre proviene da una famiglia di piccoli possidenti agricoli marchigiani. Nella città laziale si laurea in legge nel 1947, dopo una breve esperienza partigiana sugli Appennini. La sua carriera letteraria prende il via quando nel ’50 incontra il critico Franco Fortini. In parallelo, nel 1956 entra alla Olivetti di Ivrea prima come collaboratore e poi come direttore dei servizi sociali, e dal 1966 al 1971 tenne la direzione dell’intero settore delle relazioni aziendali. Nel 1972 si trasferisce a Torino, dove diventa consulente della Fiat per i rapporti tra fabbrica e città. Data agli anni ’70 anche la sua adesione al Pci, per il quale diventa senatore nel 1983. Nel ’91 aderisce a Rifondazione Comunista, che a suo avviso «manteneva viva la speranza di un mondo più giusto e più razionale». Eletto nel ’82, muore ad Ancona per una malattia ai reni. Preziosa e variegata la sua produzione letteraria, che a partire dalla lirica ermetica degli anni ’50 si sposta verso la narrativa civile. La fase di denuncia si apre nel 1962 con “Memoriale”, incentrato sulla contrapposizione operai-imprenditori negli anni Sessanta. Sege nel 1965 ”La macchina mondiale”, parzialmente autobiografico, che gli vale il premio Strega. “Corporale”(1974) segna la fine del ciclo della fabbrica, cui si succede una fase di intensa sperimentazione. Il secondo premio Strega arriva nel 1991 con ”La strada per Roma”, rifacimento aggiornato de ”La macchina mondiale”. È dell’89, infine, l’ultimo romanzo, “Le mosche del capitale” ( la vita di un manager brillante schiacciato dalla cieca logica del profitto.

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fici, già pronta a gustare come a far gustare i sapori della corruzione, come pervasa di rifiuti e di negazioni, di capricci, di autonomia, di nervosa indipendenza». Davanti a questo sofferto inventario di una realtà socioeconomica senza capo né coda, steso da uno scrittore già storicizzato e con tutte le carte in regola per tentar l’impresa, una critica sempre in attesa d’esser legittimata a scoprire il Grande Affresco Epocale sopravvalutò subito il romanzo. E d’altra parte qualche recensore, amico di Volponi ma anche debitore inquieto della verità, ha lasciato intravedere in mezzo agli elogi le molte zone grigie. tutto di tono e stile diversi da quelli correnti, spruzzati dal gusto dell’intellettualità irrequieta e anche di opposizione, metà fantastica e metà vera, metà libera e metà venduta, e in ciascuna di queste due metà anche venata di soggezione, di attesa, di protezione e di bene-

Franco Fortini, ad esempio pur censurando subito la stroncatura dell’outsider Renzo Zorzi, e restando inevitabilmente sedotto dalla forma “inconciliata” del libro - osservò alcune goffaggini ingiustificate nella figura del cosiddetto protagonista e nella descrizione di certi nessi sociali (sebbene poi, con l’argomento tipico del pregiudizio favorevole, riconducesse quasi tutto a un’apparenza disinnescata e doppiata a suo avviso dal lucido distacco del narratore). In ogni caso, comunque la si pensi, come sempre in Volponi anche qui la sfida è alta, e perfino la sconfitta diventa nutriente. Soprattutto perché l’abbandono del personaggio malato, e della figuratività psichica esibita in Corporale, provocano uno straniamento allegorico finalmente tutto oggettivo. E la satira – spesso pervasiva quanto impalpabile, quasi polverizzata – ne è appunto un effetto di rimbalzo. Nel romanzo dell’89 riemerge l’atmosfera d’acquario che in altro modo e contesto permeava Il padrone. Non a caso, in questo limbo ritrovano posto gli spettri dei più terribili

bestiari novecenteschi (prefigurati un decennio prima, come nota Raffaeli, nella «predella» del Pianeta irritabile). In chiusura, citiamo dunque uno degli innumerevoli passaggi che descrivono questa “animalità di ritorno”, questa giungla asettica in cui s’è trasformato il mondo dell’industria: «Sala e riunione, mobili, luci, finestre, arredamenti, piante ornamentali, quadri, altri ornamenti, piedi, ginocchia, mani, teste, tutti stretti insieme in un unico, greve, ritagliato, compatto e vivo parallelepipedo con proprio calore e battito, la cui fusione e lega sono anch’esse tutte sulla stessa parola: soldi.Varie voci si accavallano senza mai turbare l’unità e la compattezza del parallelepipedo. Questo continua a insistere, sovrano e onnicomprensivo. Tutti ne misurano sovranità e capacità, la fatale insistenza come la impenetrabilità. Appena appena le sue luci laterali e sottostanti cominciano a muoversi, se non ancora a sciogliersi nei sorrisi e nelle titubanze orali e gestuali dei tre direttori generali. Deve essere appunto sciolto anche attraverso l’assorbimento della sua realtà e del suo clima, più che forato e indagato».

A ben vedere, le venature satiriche dell’ultimo Volponi hanno un legame profondo col fatto che Le mosche del capitale – titolo perfetto, in questo senso – appare come l’incontenibile e affastellato materiale preparatorio per una gigantesca operetta morale non scritta né scrivibile. E forse il gesto insieme umile e superbo con cui lo scrittore ci consegna il referto della propria sconfitta politico-professionale, nonché di un’irrisolvibile crisi letteraria, era davvero l’unico modo per non mettere “una pietra sopra” alle speranze del suo ’900.


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spettacoli

Musica etnica. All’Auditorium di Bologna, fino al prossimo 27 novembre, la XXI edizione del «Festival Suoni dal Mondo»

Storia e ritmi senza confini

di Diana Del Monte tasera, faremo un giro di sentimenti». L’annuncio viene da un uomo corpulento dal volto aperto e gioviale che si trova al centro del piccolo palco dell’Auditorium della Manifattura delle Arti di Bologna: è Peter Soave, il nostro mentore. Protagonista della prima serata della XXI edizione del Festival Suoni dal Mondo, il fisarmonicista di Detroit dal sangue italiano ci accoglie con affabilità nella sua “casa” e rivolgendosi a noi, il suo pubblico, ci esorta: «Venite, vi porto un po’ nel mio mondo».

«S

Il mondo di Soave, figlio di emigranti post-bellici della provincia di Cassino, è quello dei mantici; nello specifico, l’itinerario di venerdì e sabato prevedeva una lunga serie di brani suonati con una fisarmonica a bottoni a bassi sciolti, eseguiti da Soave in coppia con la moglie, alternati ad alcuni immancabili tanghi suonati con il Bandoneón – tra i quali De carissimo, tango di Piazzolla del 1968 dedicato a Julio de Caro. E Bandoneón, per inciso, era il titolo della serata, solo limitatamente dedicata a questo strumento di origine tedesca; pensato, probabilmente, per accompagnare le processioni religiose e per sostituire l’organo nelle chiese troppo piccole per poterne ospitare uno, il piccolo mantice raggiunge la sua vera popolarità nei sobborghi – e nei bordelli – argentini, conquistando, infine, un posto come strumento d’orchestra con Piazzolla, presenza immancabile di ogni concerto che lo veda protagonista. Il programma del viaggio musicale pianificato da Soave è, tuttavia, originale e delicato, un curioso assaggio di note che va dalle composizioni di musica sacra alla tradizione popolare; un giro di sentimenti, appunto, che inizia con l’Ave Maria di Astor Piazzolla e prosegue, tra gli altri, con la Suite Gothique pour grand orgue di Leon Boellmann e con il secondo movimento della Suite for flute e jazz piano trio di Claude Bolling, Sentimentale. A colorare la serata, inoltre, il suono amabile e un po’ “sporco” dell’organo portativo verticale di Leonardo da Vinci, ricostruito da Mario Buonoconto, liutaio di Majano, partendo da uno schizzo dell’artista nel Codice Madrid II. «Oggi siamo abituati a suoni perfetti» ci avvisa Soave mentre accorda lo strumento «ma qui siamo in un’altra epoca»; un avvertimento che il musicista mantiene come una promessa, trascinando la platea indietro di cinque secoli attraverso le note dei tasti lignei. Con il concerto di Peter Soave si è aperto il congedo musicale del Festival Suoni

Si avvia alla conclusione, all’Auditorium di Bologna, la XXI edizione della rassegna internazionale dedicata alla musica etnica «Festival Suoni dal Mondo», che terminerà il prossimo 27 novembre

dal Mondo; dopo 21 anni, infatti, la rassegna diretta da Nico Staiti chiude: «Per quest’ultima edizione ho voluto riunire ciò a cui sono più legato». Dopo il concerto di Soave, dunque, Suoni dal Mondo prosegue con altri due appuntamenti: Sicilia cunta, il 19 novembre, e Kosovo, due cuori di una tradizione, il 26 e 27 novembre.

«Quello che ho cercato di fare, da quando sono diventato direttore artistico di questo festival, è di avvicinare l’at-

che l’etnomusicologo porta avanti da diversi anni. Divisa in due parti, Kosovo, due cuori di una tradizione porta sul palco dell’Auditorium bolognese la tradizione orale kosovara attraverso le musiche ed i canti epici degli uomini albanesi, dedicati esclusivamente alla parte maschile della società, e le musiche ed i canti delle donne rom, dedicate esclusivamente ad uditrici rom. E se il cuore maschile del popolo albanese si propone al pubblico italiano attraverso quei canti epici, tradizionalmente eseguiti nella stanza delle riunioni maschili, utilizzati da Milman Parry e Albert Lord per dimostrare l’origine orale dei poemi omerici, quello femminile e rom passa

La rassegna internazionale ha portato tradizioni musicali importanti e spesso sconosciute d’Italia e di molti altri Paesi, privilegiando artisti con repertori ancora vitali nelle loro comunità

tività di ricerca allo spettacolo» ha spiegato Staiti, professore di etnomusicologia presso l’Università di Bologna e direttore artistico della rassegna dal 2004. La serata dedicata al Kosovo è l’esempio principe di queste intenzioni, frutto di una ricerca sulle tradizioni musicali delle donne e degli omosessuali rom del Kosovo occidentale

attraverso un repertorio composto da musiche suonate durante i riti femminili, che trovano le loro radici nel culto di Cibele nell’VIII sec a.C, inclusi nelle celebrazioni dei matrimoni. Appannaggio esclusivo di una piccola casta di donne e di omosessuali, il repertorio di questa tradizione rappresenta uno dei fenomeni musicali ritmicamente più complessi finora rintracciati e ancora mai registrato.

«Ciò che ha caratterizzato Suoni dal Mondo – racconta Staiti – è stato proprio il fatto di portate sul palco espressioni musicali quasi sconosciute, spesso mai arrivate ad un palcoscenico prima».Tra le pre-

ziose manifestazioni popolari in via d’estinzione o quasi sconosciute proposte in quest’ultima edizione svetta una tradizione nostrana: le zampogne ed i cantastorie siciliani.

Il prossimo appuntamento del festival, infatti, sarà animato dalle imponenti zampogne “a chiave” siciliane (ciaramedda) provenienti da Monreale. Inizialmente diffusa anche a Palermo, la tradizione della zampogna a chiave siciliana è oggi mantenuta viva quasi esclusivamente a Monreale da pochi virtuosi conoscitori del repertorio sacro, dopo che negli anni Settanta sparirono anche gli ultimi zampognari palermitani. Le dimensioni di questo strumento aerofano generalmente solista sono considerevoli e possono arrivare a sfiorare i due metri; le ciaramedda, che fanno parte della tradizione agropastorale siciliana, avevano la funzione di organo popolare e accompagnavano i canti sacri ispirati alle vite dei santi e le novene natalizie. Di natura squisitamente profana, invece, la seconda parte della serata che ruota intorno a Giovanni Virgadavola, ultimo e conteso erede di una storica famiglia di cantastorie, i cosiddetti “attura i bà fgghiu”(attori di baglio) dell’area ragusana. Contadino di mestiere, nato e residente a Vittoria, Giovanni ha da tempo intrapreso l’attività di contastorie seguendo i canoni tradizionali che ha appreso dal padre, ovvero narrando le fiabe acquisite durante l’infanzia, le gesta dei Paladini di Carlo Magno o le vicende locali a tema storico-mitico indicando i vari momenti dell’azione su grandi cartelloni a quadri.


spettacoli A fianco, un’immagine del grande soul man Solomon Burke, scomparso recentemente. Dal 16 novembre è in tutti i negozi di musica il suo disco, uscito postumo, “Hold On Tight”, frutto di un insolito quanto efficace connubio tra l’artista e la musica olandese. In basso, uno scatto dei Blues Brothers

lle 7 di mattina del 10 ottobre, su un aereo appena sbarcato all’aeroporto di Schiphol, si è spento il vulcano della soul music. Solomon Burke aveva 70 anni (come sosteneva lui) o forse 74 (come diceva l’ufficio anagrafe), una storia straordinaria alle spalle, un disco appena uscito - si intitola Hold On Tight - e un concerto in programma al Paradiso di Amsterdam (una ex chiesa sconsacrata e riconvertita in club) insieme alla band con cui ha effettuato le sue ultime incisioni, i re del “Nederpop” De Dijk. È spirato on the road, destino prevedibile anche se prematuro per un “guerriero della strada” che continuava a esibirsi in giro per il mondo. Da sempre, Dio e Musica erano le sue due grandi passioni: ancora bambino, cantava il gospel e teneva i primi sermoni a Filadelfia, la città natale, incoraggiato dalla devotissima nonna.

A

Per questo lo chiamavano il Bishop, il vescovo del soul. Ma della musica nera era anche il King, il re, e su quell’appellativo ci giocava con gusto e smargiassate: sempre al limite del kitsch, nei concerti (frequenti anche in Italia) in cui si presentava sul palco con tanto di corona e mantello incorniciato da un colletto d’ermellino, adagiando le immense membra su un trono e dispensando rose & sorrisi alle ragazze in platea (le più carine, a fine show, finivano invariabilmente sul palco). «Un po’ showman e un po’ sciamano», come lo ricorda oggi il musicista Joe Henry, che nel 2002 produsse uno dei picchi artistici della sua carriera, una raccolta di grandi canzoni d’autore intitolata Don’t Give Up On Me. Era un personaggio larger than life, come dicono gli americani, e non solo per l’imponenza strabordante del fisico che negli ultimi anni gli rendeva difficile la deambulazione. Cantante e ministro del culto, artista e impresario di pompe funebri, uomo di chiesa amico del Vaticano ma anche patriarca e tombeur de femmes: dietro di sé lascia cinque mogli, 21 figli, 90 nipoti e 20 pronipoti. Una Burkeland in piena regola, una dinastia degna di un grande sovrano. La sua biografia è ricca di colpi di scena spettacolari, di grandi svolte teatrali. Una su tutte: quando, nel 1961, il 45 giri Just Out Of Reach (Of My Two Open Arms) diventò un successo nazionale suggellando il matrimonio tra soul e country music, alcuni esponenti del Ku Klux Klan, sentendolo cantare alla radio, lo scambiarono per un interprete di pura razza bianca e vollero invitarlo a uno dei loro raduni (l’equivoco venne presto risolto, con una delle sue proverbiali e tonati risate il grande Solomon seppellì

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Musica. Pubblicato «Hold On Tight», l’ultimo disco dell’artista appena scomparso

Solomon Burke, il “vescovo del soul” di Alfredo Marziano

L’album è il frutto di un improvviso colpo di fulmine, composto da canzoni olandesi tradotte in inglese appositamente per il grande soul man di ridicolo la gaffe in cui erano incorsi gli ignari razzisti). Come tutti gli afroamericani Burke amava il gospel (uno dei suoi primi singoli lo incise con il pugile Joe Louis), ma fu la musica profana a regalargli fama imperitura. La formidabile Cry To Me, che la sua voce scuoteva come una zattera

in un mare in tempesta, venne ripresa dai Rolling Stones (e anche da Iva Zanicchi, in Italia, con il titolo di Come ti vorrei).

L’esuberante Everybody Needs Somebody To Love divenne, 20 anni dopo, l’inno e la sigla dei Blues Brothers di John Belushi e Danny Aykroyd, un tormentone di lì in poi immancabile nei programmi tv e nelle feste in discoteca. La If You Need Me scritta per lui da Wilson Pickett, compagno di scuderia alla Atlantic, e quella The Price in cui cantava con commossa sincerità il disfa-

cimento del suo primo matrimonio, sono rimasti nel pantheon della miglior black music d’ogni tempo. Non aveva preclusioni di genere, il vorace Solomon, e la sua ugola d’acciaio macinava di tutto. Nel ’69

osò incidere e pubblicare Proud Mary mentre la versione originale dei Creedence Clearwater Revival era ancora in testa alle classifiche: fu un azzardo che gli costò il nuovo contratto discografico con la Bell ma che aggiunse un altro colpo da maestro alla sua collezione (a raccogliere i frutti della sua intuizione furono poi Ike & Tina Turner). Come molti paladini del soul e della musica Sixties trascorse gli Ottanta tra sbandamenti, flop commerciali e brutti dischi sporcati da tentazioni elettroniche e goffi scimmiottamenti della disco music (a tenere alto il blasone ci pensavano, per fortuna, i sempre frequenti spettacoli dal vivo). La resurrezione arrivò, imprevista, negli anni Zero del nuovo millennio: merito di un discografico illuminato e senza paraocchi, il punkettaro Andy Kaulkin, che dopo averlo visto dal vivo pensò che era arrivato il momento di restituirgli quel che gli spettava. La sua ricetta, e quella di Henry che fu chiamato a pilotare le sedute di registrazione, era semplice, invitante e funzionale: spogliare Solomon di ogni inutile orpello, asciugando al minimo indispensabile gli arrangiamenti e riportando il suo vocione al centro della scena; convincere Bob Dylan, Van Morrison, Tom Waits, Brian Wilson, Elvis Costello e altri fan sfegatati a donargli canzoni poco note del repertorio o scritte apposta per lui.

Un connubio perfetto di marketing e sensibilità artistica: la stampa e il pubblico rock prestarono orecchio, la giuria dei Grammy lo premiò per il “miglior album blues”dell’anno e il King of Rock’n’Soul ricominciò a scorrazzare per il mondo con l’acceleratore a tavoletta. Era di nuovo il momento dei riconoscimenti, delle collaborazioni e dei dischi di successo. Burke cantò insieme a Zucchero (per il disco di duetti Zu. & Co) e coronò il sogno di una vita, esibendosi al cospetto di Benedetto XVI in occasione del concerto di Natale 2005 in Vaticano. Si fece scrivere nuove canzoni da Eric Clapton e Ben Harper e omaggiò le vecchie passsioni (il Memphis soul con il produttore Willie Mitchell, scomparso poco prima di lui; il country con un disco intitolato alla sua capitale, Nashville). Fino all’imprevisto colpo di coda finale, all’ultima scommessa, un album inciso con una band olandese famosissima in patria ma sconosciuta altrove. L’incontenibile gigante del soul ci saluta così, nel modo più inatteso: con un epitaffio a piccoli caratteri, un’orazione a bassa voce.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Ordine dei giornalisti. La maggioranza di Governo vuole abolirlo C’è voluta l’assurda condanna a tre mesi di sospensione del giornalista Vittorio Feltri perché qualcuno di “peso politico”(in senso di numeri in Parlamento) si accorgesse che la struttura con cui sono organizzate le cosiddette professioni libere è corporativa, inutile e svolge una funzione proprio contro coloro che dovrebbe tutelare. Stiamo parlando degli ordini professionali, nella fattispecie quello dei giornalisti, che il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, ha detto non solo che dovrebbe essere abolito ma che lui da anni è abolizionista in merito. Sarà, ma noi non ce ne eravamo accorti... e poi se il leader dei deputati della maggioranza di Governo dice di essere da anni favorevole all’abrogazione della corporazione dei giornalisti, cosa ha aspettato fino ad ora a darsi una mossa? Ci voleva il caso Feltri per ricordarglielo? E tutti i progetti di legge in merito che al Parlamento giacciono nei cassetti... cosa ha fatto per tirarli fuori? Domande che facciamo senza secondi fini, ma solo perché da anni sosteniamo l’abrogazione di tutti gli ordini professionali a partire da quello dei giornalisti, e ci è sembrato di essere stati sempre in scarsa compagnia. A questo punto bene, per tutti. La maggioranza per procedere all’abrogazione ci sarebbe. Proceda on. Cicchitto.

Vincenzo Donvito, Aduc

L’ITALIA DEL DECLINO Ecco i costi del declino dell’Italia: 120 miliardi di evasione fiscale, 60 miliardi per la corruzione, 331 per le infrastrutture in ritardo (al 2024), disoccupazione all’11%, 600mila in cassa integrazione, debito pubblico ad oltre i 1800 miliardi di euro, incremento del Pil solo all’1%, quota di utilizzo dei fondi strutturali europei negli ultimi 4 anni al 13%. Con questo quadro della situazione si dovrebbe spiccare un salto in alto ma da mesi ci si occupa dei “lodi”protettivi , dei festini e delle case vendute e comprate all’estero. Dal 2001 al 2006, con 150 parlamentari di maggioranza, s’è fatto poco o nulla; dal 2008 al 2010 con 100 parlamentari in più il governo Berlusconi non riesce a governare. Siamo il Paese della commedia dell’arte, le aziende sono sotto dimensionate, i prezzi gonfiati da varie forme di protezionismo, si

investe per sfruttare l’arbitraggio dei prezzi protetti, il rischio politico è elevato, ci sono gruppi di potere che poco hanno a che fare con le regole della finanza internazionale, l’ambiente è mercantilista, protezionista e provinciale, si rischia di diventare solo mercato di consumo, è basso il senso civico, alta la protezione, elevati i costi.

Primo Mastrantoni

IRRESPONSABILE IL VOTO ANTICIPATO Berlusconi deve ricordarsi che non siamo al tavolo del poker e che i suoi interessi personali vengono dopo quelli del Paese. La stragrande maggioranza degli italiani riconosce che andare a elezioni anticipate in questo momento e con questa legge elettorale sarebbe una scelta irresponsabile. Il premier deve riconoscere che il suo ciclo politico è finito accettando, dopo il

Atterraggio felice Che ne dite del ghigno da cartone animato di questa spensierata coccinella, immortalata mentre si posa su un fungo. A ritrarla con una tale precisione è stato l’olandese Leon Baas, specializzato in macrofotografia. Grazie a lenti e obiettivi particolari Baas cattura i movimenti di formiche, scarabei, grilli e lumache

varo della finanziaria, di lasciare il passo a un governo di responsabilità nazionale che faccia fronte alla crisi economica e porti il Paese a votare soltanto dopo aver modificato la legge elettorale.

Riccardo

LED. EFFETTI DANNOSI PER LA SALUTE I sistemi di illuminazione a diodi luminosi (Led) possono avere effetti negativi sulla salute. È stato effettuato uno studio sui possibili rischi derivanti dall’uso di particolari lampade Led a forte intensità e con

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

una notevole componente blu della luce. Secondo tale studio l’effetto negativo sulla retina della componente blu della luce può provocare danni soprattutto ai bambini. Lo studio rileva anche il rischio di abbagliamento a causa della forte intensità e direzionalità della luce stessa. È sconsigliato l’utilizzo di fonti di luce “blu” in luoghi frequentati dai bambini; queste particolari lampade vanno usate solo professionalmente e in condizioni che permettano la sicurezza dei lavoratori.

Donatella

da ”Der Spiegel online” del 16/11/10

Voto bulgaro in Germania, la Cdu incorona la Merkel utti per Angela nella Cdu. La cancelliere Angela Merkel a lungo è stata criticata per il suo cosiddetto «indecisionismo». I tedeschi, popolo dai modi spicci e determinati, non poteva amare un premier che facesse passare troppo tempo tra lampo e tuono. Ma sembra che la Merkel e il suo staff abbiano lavorato a lungo su questa fragilità dell’immagine politica e qualcosa sia successo. Lo scenario è stato il congresso autunnale della Cdu, partito della cancelliera, lunedì scorso. Il suo intervento «deciso e coraggioso» avrebbe, secondo molti commentatori, messo finalmente il partito nelle sue mani. Quando nel 1998 Angela divenne segretario generale dei cristiano-democratici, tutti pensavano che non sarebbe durata a lungo. Si diceva allora che nel partito c’erano troppi pesi massimi, perché la giovane tedesca orientale riuscisse a prendere piede. Poi nel 2005, sempre gli stessi ”tirapiedi”, assicuravano che non sarebbe riuscita a tenere insieme il governo. E sono ancora tutti lì, in attesa che il premier tedesco cada, prima o poi. Lunedì, il 90,4 per cento dei delegati l’ha riconfermata leader della Cdu. Un tempo, prima che Sofia entrasse nella Ue, si sarebbe detto un «voto bulgaro». Oggi, in ossequio di un vocabolario del politicamente corretto, useremmo il termine «plebiscitario». A conferma della incapacità di molti di valutare il futuro della Merkel, c’è la scomparsa di quasi tutti i suoi rivali interni al partito dalla scena politica del Paese. Persino Roland Koch, il governa-

mezzi termini un movimento d’opposizione capace solo di «dire no». E definendo alcune congetture su di una possibile alleanza di governo con i verdi, come una «pia illusione». Insomma, lì non c’è responsabilità per governare, guardiamo altrove. E la Merkel che per anni ha spinto il partito oltre i propri confini culturali, sembra oggi voler fare qualche passo indietro, almeno dialettico. Ha ribadito l’importanza delle radici cristiane del partito, ha esaltato i valori tradizionali della famiglia e parlato di alcuni aspetti della bioetica. La Germania non starebbe patendo per una crescente islamizzazione, ma piuttosto per una debole presenza dei valori cristiani.

T

tore dell’Assia, ha gettato la spugna all’inizio dell’anno. Edmund Stoiber, ex governatore della Baviera è ora nella inoffensiva postazione europea. L’altra stella nascente della Cdu, Christian Wulff, è stato parcheggiato sulla più che simbolica poltrona di presidente della Repubblica, dopo lo scivolone del suo predecessore. E per finire, anche Jurgen Ruttgers, ex amministratore della Renania del Nord-Westphalia si è ritirato dalla vita pubblica a giugno. Era chiaro che la fiducia del partito si dovesse riversare quasi totalmente sulla cancelliera. La disinvoltura e l’aggressività con cui ha parlato ha fatto il resto. Poche parole sono state destinate ai problemi con il partito liberale di coalizione, Free Democrats. Tante invece per i Verdi, definiti senza

E i quotidiani tedeschi di martedì hanno tutti registrato la svolta della cancelliera e non tutti con valutazioni positive. Per Suddeuschte Zeitung la svolta decisionista non potrebbe che essere un ulteriore passo verso l’abisso. Difficoltà confermate dal nervosismo che si vivrebbe nella Cdu, preoccupata per le elezioni del 2011. Si fa il paragone con il governo di Helmut Khol nel 1996, che portò a un tracollo di voti due anni dopo. Ora che i sondaggi mandano a picco il governo la merkelizzazione del partito sarebbe solo un tentativo di ricostruire l’immagine di una Cdu, si legge sul Frankfurter Allgemaine. E il popolare Bild commenta come il voto plebiscitario registri la crisi di un partito allo sbando, ma definisce questo passaggio come l’inizio «dell’era Merkel».


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog LE VERITÀ NASCOSTE

Dà una pistola al figlio «per proteggersi dai bulli» H ARTFORD . La 38enne Sylvia Mojica è stata arrestata per avere dato una pistola e un coltello a serramanico al figlio dodicenne, «in modo che si potesse difendere dai bulli a scuola». Immaginate la grossa meraviglia e soprattutto lo spavento degli insegnanti della Burns Elementary School, quando hanno scoperto che il ragazzino era armato e lo hanno fermato, prima che qualcuno potesse farsi male. La pistola, si è visto poi, era una pistola ad aria compressa, ma comunque in grado di ferire anche gravemente, soprattutto se usata da distanza ravvicinata. Ancora più grande è stata la sorpresa degli stessi insegnanti, quando han-

no scoperto che le armi non erano frutto di una bravata, bensì erano state consegnate al ragazzo dalla propria madre, che non aveva avuto idee migliori per aiutare il figlio che continuamente si lamentava che qualche compagno di scuola lo infastidiva. La polizia, una volta avvisata dell’accaduto, non ha potuto fare altro che arrestare la donna. Ma anche il ragazzino rischia sanzioni disciplinari: per ora il consiglio di istituto lo ha

ACCADDE OGGI

CON BONDI È STATO TOCCATO IL FONDO Con Bondi ai Beni culturali abbiamo toccato il fondo. Il crollo dell’Armeria dei gladiatori è una sconfitta etica e morale della politica e un monito ai governi, nazionale e regionale, a prestare più attenzione al patrimonio artistico e architettonico del Paese, a cui occorre destinare maggiori risorse. Sono convinto che la responsabilità di quanto accaduto a Pompei è esclusivamente governativa e quindi del ministero ai Beni culturali che avrebbe dovuto vigilare attraverso la Sovrintendenza. Solo pochi mesi fa, il ministro Bondi aveva minacciato le dimissioni di fronte ai tagli al settore annunciati dal suo collega Tremonti. Dimissioni rimaste nel cassetto, ben chiuso a chiave. A quanto pare siamo lontani dai tempi del compianto ex ministro Lattanzio, scomparso qualche giorno fa, che nel 1977 sentì il dovere morale e politico di dimettersi dopo la fuga del criminale nazista Kappler dal carcere del Celio. Come siamo lontani dai tempi del ministro Rocco Buttiglione, che aveva saputo dare nuovi input alla rivalutazione e rivitalizzazione dei Beni culturali anche con la istituzione di nuove Sovrintendenze. Se Pompei e l’Italia piangono la perdita dell’Armeria dei Gladiatori, la Puglia certamente non sorride per lo stato in cui versa il patrimonio storico artistico ed in particolare quello archeologico del territorio, spesso abbandonato a se stesso.

Salvatore Negro

PER UNA CAMPANIA LIBERA E PULITA Inutile negarlo. In Campania l’emergenza rifiuti ancora c’è. E continuerà ad es-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

18 novembre 1971 Il gruppo hard rock dei Led Zeppelin pubblica un album senza titolo, spesso chiamato Led Zeppelin IV, nel quale compaiono “Rock & Roll”, “Stairway to Heaven” e altri classici 1978 Suicidio di massa di Jonestown (Guyana): Jim Jones guida il Tempio del popolo ad un suicidio di massa; muoiono 913 persone, tra cui 276 bambini 1987 Incendio di Kings Cross: a Londra, 31 persone muoiono in un incendio nella più trafficata stazione della metropolitana, a King’s Cross 1988 Il presidente Ronald Reagan firma una legge che prevede la pena di morte per i trafficanti di droga responsabili di omicidio 1991 Rapitori musulmani sciiti in Libano liberano gli inviati della Chiesa Anglicana: Terry Waite e Thomas Sutherland 2003 Lutto nazionale in Italia, nel giorno dei funerali di Stato dei 19 connazionali morti in un attentato a Nassiriya in Iraq

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

sospeso per dieci giorni, ma con proposta di espulsione. L’accaduto, infatti, ha ragionevolmente preoccupato non poco i genitori degli altri bambini, alcuni dei quali chiedono punizioni esemplari per evitare che la semplice idea di ferire altri bambini possa apparire in qualche modo tollerabile.

serci fino a che non si inizierà un percorso concreto di avvio alla raccolta differenziata e alla costruzione degli impianti, primi tra tutti i termovalorizzatori e quelli di compostaggio, attualmente inesistenti. Legalità, impianti e differenziata: questi i tre pilastri su cui dovrebbe poggiare un’azione efficace di riduzione della spazzatura e di un corretto ciclo di smaltimento. Si dovrebbe smettere di parlare e puntare a un target minimo di raccolta differenziata del 50% sotto il quale dovrebbe, al contrario, scattare il commissariamento dei comuni inadempienti. In un territorio segnato ci sono isole felici che raggiungono quote di differenziata del 60%. Attraverso una riduzione dei rifiuti del 10%, con consumi responsabili, e un aumento della differenziata del 10%, si può ottenere un taglio pari a 300.000 euro all’anno sulle tariffe dovute al consorzio, risparmiando una media di 55 euro a famiglia sulla Tarsu.

www.icircolidellambiente.it

LA MINACCIA Non vedo come si possa impostare un disarmo nucleare quando l’Iran e la Cina, ormai fanno a gare per i missili più sofisticati a lunga gittata. Obama ha esordito nel suo mandato alterando il senso democratico del ricambio dopo i crediti surprime; ora mette in dubbio la ratifica del trattato New-Start sulla riduzione degli armamenti: possibile che lungo il percorso, non si sia reso conto che molti Paesi emergenti, stanno utilizzando buona parte degli introiti per costruire armi, e minacciare gli altri Paesi?

Bruno Russo

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Robert Kagan, Filippo La Porta,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

IL CETO MEDIO (II PARTE) Chi, in questi ultimi tempi, sta studiando la condizione del ceto medio nel nostro Paese e non solo, sono Paul Ginsborg e Zygmunt Bauman, insigni economisti. Entrambi con una forte dose di pessimismo, proclamano il de profundis del ceto medio. Lo fanno con argomentazioni decise che incrementano il livello d’incomunicabilità delle sue componenti principali, acellerato anche da chi, politicamente, non ha interesse ad unire “un gruppo sociale” che da solo, se lo capisse e volesse, sarebbe in grado di cambiare la storia nel nostro Paese. Paul Ginsborg asserisce che, in questi ultimi 15 anni, il ceto medio si è diviso in due mondi, piuttosto diversi l’uno dall’ altro: «un ceto medio, capace di bridging (la capacità di costruire ponti con altre categorie sociali basate sul lavoro dipendente); un ceto medio, tendente al bonding (la tendenza a rafforzare i legami interni a uno specifico gruppo dedito al lavoro autonomo). Ne rinviene un quadro sociale sfaldato in cui è facile fare invasioni di campo promettendo - cosa che sta facendo il governo Berlusconi - ad uno (bridging): agevolazioni fiscali, condoni edilizi, la depenalizzazione sostanziale del falso in bilancio; all’altro (bonding): lo smantellamento della scuola pubblica, gli stipendi in calo verticale in termine di potere d’acquisto, il degrado senza fine delle grandi istituzioni culturali. Zygmunt Bauman teorizza la liquescenza del ceto medio, un processo di marginalizzazione di una classe sociale opportunista ed eternamente in conflitto con se stessa. Bauman parte dalla constatazione, in base a valutazioni di mercato, che il sistema economico attualmente è bipolare ed è rappresentato da due estremi sociali: i poveri e i ricchi, nei quali confluiscono, in una parte, coloro che sono afflitti da emergenze di tutti i giorni, nell’altra, coloro che godono di una situazione di assoluto benessere. Questa divergenza economica produce sul piano politico uno schema ideologico classico in virtù del quale le categorie deboli affidano alla sensibilità delle forze di sinistra le loro rivendicazioni sociali, mentre quelle che si ritengono agiate trovano la loro naturale rispondenza negli ambienti politici di destra (in questi tempi, in verità, le cose si sono invertite). Ne rinviene, con questa impostazione basata sulla disponibilità o meno del dio denaro, che si trovano spiazzate le categorie sociali, storicamente centrali a questi due estremi, che perdono il loro profilo identitario, si sentono confusi e vengono trascinati in una delle due parti per effetto delle situazioni economiche esistenti. Gaetano Fierro C O O R D I N A T O R E RE G I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

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ULTIMAPAGINA Reticoli. Viaggio nei social network alternativi della rete, dalla community dell’uncinetto alle collette per gli interventi estetici

500 milioni di amici e qualche di Francesco Lo Dico on arrivi a cinquecento milioni di amici senza farti qualche nemico», recita il martellante tormentone che ha accompagnato l’allarmante pandemia di The social network. Ma se l’adagio è vero per quel tristanzuolo foruncoloso di mister Zuckerberg, altrettanto si può dire della sua vorace creatura, insidiata da rivali così poco credibili da sfiorare l’umorismo involontario. Un rapido viaggio nel network alternativo, basterà a farvi tornare all’ovile di Facebook più consapevoli. Se avete salutato con improperi irripetibili l’ingresso di certi tizi nella schiera dei vostri amici (di quelli che se l’avete perso di vista, forse un motivo c’era), aspettate di conoscere le associazioni virtuali alternative, roba da far sembrare l’Accademia del Gorgonzola una congrega utile e meravigliosa, basilare per la prosecuzione della stirpe umana.

«N

Sembrano appartenervi, anche se forse non al cento per cento, le ambiziose madame di MyFreeImplants. Desiderano aggiungere gommosa consistenza al proprio seno striminzito, ma essendo sprovviste della giusta taglia di portafoglio, si rivolgono a generosi mecenati in vena di disinteressata compassione. Ciascuna sventurata ha il proprio profilo, lo sguardo ammiccante, e una tabella in stile Telethon che segna i giorni mancanti all’ambito intervento, e i soldi ancora mancanti. Se siete in vena di cause nobili, è il momento di testare con mano le miracolose virtù della solidarietà. Per chi trascorre notti insonni nell’ansia di fare il punto e croce, ecco Ravelry, community di pasionarie dell’uncinetto che si scambiano l’alfa e l’omega del merletto in affollatissimi meeting virtuali. Tutte le trame segrete del mondo, a portata di clic. Quasi ispirato alla poesia cimiteriale di Lee Masters, sembra invece Eons,, una specie di club bocciofilo per ex baby boomer. Lo scopo, dice il sito, è «mettere in contatto 50enni e 60enni ancora indomiti e pieni di gioia di vivere». Così indomiti e pieni di gioia di vivere, da chiedere l’amicizia di sconosciuti. Eravamo come voi, sarete come noi, sem-

CONCORRENTE voriscono le levitazione. Per gli indagatori dell’incubo, l’opzione è REMcloud, dove i sognatori cercano altri utenti con attività oniriche compatibili. Lo scopo è forse dimostrare che nei sogni di tutti esistono somiglianze. Non sia detto per guastare l’atmosfera di ricerca, ma se continuano di questo passo, finisce che scoprono l’esistenza di Freud. Un solo film, e migliaia di registi per Lost Zombies, agguerrita community che da mane a sera progetta un film collettivo che parla di morti ambulanti, dalla sceneggiuatura quanto mai incerta. Vista la divergenza di opinioni creative, finirà che sarà composto soltanto da finali alternativi. Tutti orrendi.

Per gli indagatori dell’incubo, c’è REMcloud, sito per utenti con attività oniriche compatibili. Lo scopo è mostrare che i sogni sono simili. La stessa intuizione che ebbe Freud. Un secolo fa brano dire. Magari con la maggior calma possibile, e il gesto scaramantico più educato che ci viene al pensiero. Imperdibile Line for heaven,, dove «puoi diventare un angelo individuando i tuoi punti Karma». Una graduale ascesa verso l’iperuranio, che riesce più agevole se hai qualche monetina da buttare. Secondo molti studi teleologici, le tasche leggere faIl logo di “Myfreeimplants”, sito dove alcune donne cercano finanziamenti per migliorare le proprie doti

Se siete già stati fiaccati da tanto sperpero d’ingegno, ecco un’alternativa seria, robusta, di impegno civile: Fit Finder. Permette agli studenti dell’University College londinese di pubblicare brevi messaggi anonimi quando vedono una ragazza carina aggirarsi per l’università. Vuoi mettere il piacere di sentirsi l’Emilio Fede dei poveri?


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